Sigmund Freud vita e opere

Sigmund Freud vita e opere

 

 

 

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Sigmund Freud vita e opere

Sigmund Freud

Freud nasce a Freiberg in Moravia nel 1856 da famiglia di origine ebraiche.
Fu il padre della cosiddetta ‘rivoluzione psicoanalitica’, la quale, nata come cura di alcune malattie mentali, è diventata un nodo chiave di tutta la cultura del ‘900.
Freud si spostò a Vienna nel 1860 con la famiglia, e lì studiò medicina, in particolare il sistema nervoso nello studio neurofisiologico del dott. Bruke. Dal 1882 lavora come psichiatra e nel 1885 va a trovare a Parigi il dott. Charcot, studioso dei fenomeni isterici, e infine a Nancy dove approfondisce il metodo dell’ipnosi.
Tornato a Vienna, in collaborazione con Josef Breuer, scopre la dimensione psichica dell’inconscio e inizia così a formulare la teoria psicoanalitica.
Nel 1910 nasce a Norimberga la Società internazionale di psiconalisi, con presidente Jung.
Nel 1933 i nazisti bruciano tutte le opere dell’ebreo Freud, che lascia Vienna per andare in esilio a Londra dove morì di cancro alla mascella nel 1939.

Se la medicina ufficiale dell’800, di stampo positivista e materialista, non prendeva mai sul serio gli stati psiconevrotici – le isterie – poiché non presentavano lesioni organiche corrispondenti al sintomo, Charcot (1825-1893) a Parigi sperimentava per primo l’ipnosi come terapia per controllare i sintomi isterici attraverso la suggestione.
Breuer dal canto suo usava l’pnosi come strumento per richiamare alla memoria avvenimenti passati e dimenticati che, una volta ricordati e liquidati dai pazienti, portavano alla scomparsa delle cariche emotive connesse all’isteria (Es.: Anna O., isterica idrofobia, tramite l’ipnosi ricorda di aver visto il cane della governante – che Anna odiava- bere in un bicchiere; ricordato e liquidato lo spiacevole avvenimento i sintomi idrofobici sparirono).
Così Freud e Breuer mettono a punto il “metodo catarchico”, per cui con una “scarica emotiva” liberano il paziente dai suoi disturbi.
In seguito Freud, autonomamente, scopre che la causa delle psiconevrosi sta nel conflitto tra forze psichiche inconsce, i cui sintomi sono psicogeni, cioè derivanti da controversie interne alla psiche stessa.
La scoperta di tale dimensione controversa della pische, l’inconscio appunto, porta alla nascita della psicoanalisi, come psicologia abissale o del profondo.
Prima di Freud la psiche era identificata con la ‘coscienza’; invece per Freud la coscienza è solo la manifestazione visibile della realtà abissale primaria che è l’inconscio, il nuovo punto di vista privilegiato da cui osservare l’uomo.
Nel settimo capitolo de L’interpretazione dei sogni scritto nel 1899 e pubblicato nel 1900, Freud distingue fra tre dimensioni della psiche, Conscio-Preconscio-Inconscio, che saranno la base teorica dei suoi scritti successivi, Psicopatologia della vita quotidiana del 1901, Il motto di spirito e i suoi rapporti con l’inconscio del 1905 e Totem e Tabù del 1913.

  1. Il Conscio, ovvero la parte consapevole e vigile della psiche
  2. Il Preconscio, ovvero l’insieme dei ricordi che, pur immediatamente inconsci, possono, con uno sforzo dell’attenzione, divenire consapevoli.
  3.  L’Inconscio o Rimosso, ovvero tutti gli elementi psichici stabilmente inconsci e mantenuti tali da una forza psichica detta ‘rimozione’ superabile solo attraverso apposite tecniche.

Per superare l’ostacolo della rimozione e far affiorare alla coscienza il rimosso, Freud passa dall’ipnosi al metodo delle ‘associazioni libere’, che prevede il rilassamento del paziente, il quale senza forzatura alcuna, potrà far emergere il rimosso fra le parole da lui pronunciate durante la seduta.
Questo metodo si fonda su un’alleanza terapeutica e solidale fra paziente e psicoterapeuta, per cui al fine della cura è utile favorire quel fenomeno, genialmente teorizzato da Freud, chiamato transfert o traslazione: il paziente trasferisce sul medico gli stati d’animo ambivalenti –amore e odio- provati dal paziente durante l’infanzia verso i propri genitori.
Il conseguimento positivo del tranfert, questa specie di attaccamento amoroso del paziente verso il medico, può favorire il successo della pratica psicoanalitica: infatti nel paziente “subentra l’intenzione di piacere all’analista, di guadagnare la sua approvazione, il suo affetto. Esso diventa la vera molla della collaborazione del paziente; l’Io indebolito diventa forte, sotto l’influenza della traslazione riesce a far cose che altrimenti gli sarebbero impossibili, fa cessare i suoi sintomi, apparentemente diventa sano, ma solo per amore dell’analista…”.
Scoperto l’inconscio come dimensione psichica profonda Freud cerca di conoscerlo attraverso le sue manifestazioni privilegiate: i sogni e le libere fantasie, gli atti mancati ovvero i lapsus e le amnesie,  i sintomi nevrotici.
Freud elabora così una teoria generale della psiche: l’io non è un’unità semplice riconducibile all’io cosciente, ma è un’unità complessa di più sistemi, dotati di diverse funzioni e in un certo ordine, come se fossero “luoghi psichici”.

A partire dal 1920 Freud pubblicò alcune opere  (Al di là del principio del piacere (1920)- Psicologia di massa e analisi dell’io (1921)- L’Io e l’Es (1923)- Casi clinici (1924)- L’avvenire di un’illusione (1927)- Il disagio della civiltà (1929)), in cui elaborò una nuova visione della psiche consistente in tre diverse istanze: L’Es, l’Io e il Super-Io.

L’Es (pronome neutro alla terza persona singolare, traducibile con “esso”) è un “calderone di impulsi ribollenti” o polo pulsionale della personalità che costituisce la matrice originaria della psiche. L’Es non conosce “né il bene, né il male, né la moralità”, ma obbedisce unicamente “all’inesorabile principio del piacere”. L’Es è al di là dello spazio-tempo e sfugge alle leggi della logica poiché non è altro che un insieme di “impulsi contraddittori [che] sussistono l’uno accanto all’altro, senza annullarsi a vicenda”.

Il Super-Io è la “coscienza morale” all’interno della personalità, ovvero quella parte della psiche in cui si stabilizzano le proibizioni imposte all’uomo nei suoi primi anni di vita da parte dei genitori-educatori e che poi rimangono per sempre nell’individuo anche se inconsapevolmente: il Super-io “è il successore e rappresentante dei genitori (ed educatori) che avevano vegliato sulle azioni dell’individuo durante il primo periodo di vita; quasi senza modificarle, esso perpetua le loro funzioni”.

L’Io è la parte organizzata della personalità che fa i conti con i tre “padroni severi” che sono l’Es, il Super-io e la realtà esterna. L’Io ha il difficilissimo conto di mantenere l’equilibrio fra il principio di piacere, le obbligazioni perentorie del Super-io e i limiti imposti dal principio di realtà.
L’Io quindi deve “equilibrare” tramite “compromessi” le pressioni più disparate e contraddittorie: “Spinto dall’Es, stretto dal Super-io, respinto dalla realtà l’Io lotta per venire a capo del suo compito economico di stabilire l’armonia tra le forze e gli impulsi che agiscono in lui e su di lui; e noi comprendiamo perché tanto spesso non ci è possibile reprimere l’esclamazione: la vita non è facile!”
Dunque per Freud il rapporto tra l’”io” e “i suoi padroni” rappresenta il criterio di discriminazione tra “normalità” e “nevrosi”, nella lotta tra Es e Super-io.
Se l’Es corrisponde all’Inconscio della prima triade, l’Io e il Super-io non corrispondono pianamente a Consio e Pre-conscio, ma partecipano anch’essi per certi aspetti alla dimensione inconscia.

Nell’Interpretazione dei sogni - che fu un’opera rivoluzionaria in psicologia tanto quanto lo fu L’origine della specie di Darwin per la biologia – Freud considera i fenomeni onirici come “la via regia che porta alla conoscenza dell’inconscio nella vita psichica”.
I sogni sono l’”appagamento (camuffato) di un desiderio (rimosso)”. È rintracciabile un contenuto manifesto, ovvero la scena vissuta e ricordata dal soggetto nel sogno stesso, e un contenuto latente, ovvero l’insieme delle tendenze che danno luogo alla scena onirica.
I sogni manifestano desideri camuffati, poiché tali desideri sono inaccettabili per il soggetto, e cadono sotto l’azione della censura. L’interpretazione psicoanalitica dei sogni consiste nel ripercorrere a ritroso il processo di traslazione del contenuto latente in quello manifesto, al fine di cogliere i messaggi segreti dell’Es.
Nella Psicopatologia della vita quotidiana Freud indaga i lapsus, ovvero gli errori, le dimenticanze, gli incidenti banali, cercando in essi l’ennesima manifestazione camuffata dell’inconscio, manifestazione del compromesso realizzato tra l’intenzione cosciente del soggetto e determinati pensieri inconsci che si agitano nella psiche (ad esempio quando diciamo “spogliatezza” anziché “spigliatezza”, “cioccolattoli” anziché “Cioccolato o giocattoli”, o quando dimentichiamo oggetti associati a sentimenti spiacevoli, come le chiavi della macchina con cui dovremmo recarci al lavoro…).
Anche i sintomi nevrotici rappresentano il punto d’incontro fra una o più tendenze rimosse e quelle forze della personalità che si oppongono all’ingresso di tali credenze nel sistema conscio.
Freud ritiene che gli impulsi rimossi che stanno alla base dei sintomi psiconevrotici, sono sempre di natura sessuale, considerata quindi come la dimensione originaria e fondamentale della psiche.
L’attenzione dedicata da Freud alla sessualità è stato uno degli elementi più rivoluzionari e dirompenti nei confronti della tradizione borghese e moraleggiante dell’Europa di inizio ‘900.
Secondo la mentalità comune, scrive Freud, la sessualitàdovrebbe mancare nell’infanzia, subentrare intorno all’epoca della pubertà e in connessione con il suo processo di maturazione, esprimersi in fenomeni di attrazione irresistibile esercitata da un sesso sull’altro; la sua meta dovrebbe essere l’unione sessuale”.
Questa sessualità originaria secondo Freud spiega la sessualità infantile, la sublimazione (caricare il lavoro, l’arte, la scienza del desiderio di appagamento) e la perversione (“le attività sessuali che ha rinunciato al fine riproduttivo e che persegue il conseguimento del piacere come fine indipendente”): il concetto di sessualità sfocia così in quello di una energia primordiale detta “libido”, pensata come un flusso di impulsi localizzato in base allo sviluppo fisico in zone del corpo sempre diverse, dette “zone erogene” in quanto generatrici di piacere erotico.

Il bambino non è più considerabile come un “angioletto asessuato” ma si rivela come un “essere perverso polimorfo”: un giovane individuo capace di perseguire il piacere senza scopi riproduttivi –perverso-, mediante i più svariati organi corporei – polimorfo-.
Lo sviluppo psicosessuale del bambino si svolge in tre fasi corrispondenti a tre diverse zone erogene: la fase orale (da 0 a 1 anno e mezzo, in cui il piacere è legato alla bocca e al poppare); la fase anale (da 1,5 a 3 anni, in cui il piacere è legato alle funzioni escrementizie dell’ano, per cui se tenuto in braccio e accarezzato sfoga il desiderio di piacere con il defecare); la fase genitale (dai tre anni in su per cui il piacere è legato alla zona genitale).
La fase genitale comprende la fase fallica, dai 3 ai 5 anni, ovvero quando avviene la scoperta del pene come oggetto di attrazione per il bambino e la bambina, e che può generare il complesso di castrazione – la paura dell’evirazione – nel bimbo e l’invidia del pene nella bimba.
La fase genitale in senso stretto, che va dai 4/6 anni fino ai 11/14, è quella in cui le pulsioni sessuali si organizzano nelle zone genitali vere e proprie.
Freud sostiene che nella fase genitale si realizza e si determina la futura strutturazione della personalità psichica dell’individuo: è la celebre, e fin troppo ascoltata, teoria del Complesso di Edipo, che prevede nel bambino/a “l’attaccamento libidico verso il genitore di sesso opposto e in atteggiamento ambivalente (affettuosità o ostilità-gelosia) verso il genitore di egual sesso”.
Si vede facilmente che il maschietto vuole avere la madre soltanto per sé, avverte come incomoda la presenza del padre, si adira se questi si permette segni di tenerezza verso la madre e manifesta la sua contentezza quando il padre parte per un viaggio o è assente […]. [per quanto riguarda la bambina, il complesso consiste nell’] attaccamento affettuoso al padre, la necessità di eliminare la madre come superflua e occuparne il posto, e una civetteria che mette già in opera i mezzi della futura femminilità […]Gli stessi genitori esercitano un’influenza decisiva sul risveglio dell’atteggiamento edipico del bambino, abbandonandosi anch’essi all’attrazione sessuale, anteponendo nel modo più evidente nel proprio affetto il padre la figlioletta, e la madre il figlio”. (Lez.XXI)

La pubblicazione de Il disagio della civiltà del 1929 dimostra la maturità della riflessione freudiana, che a partire dalla scoperta dell’Es, del Super-io e dell’Io si trasforma in un deciso pessimismo nei confronti del destino dell’umanità.
Non sarà certo la religione a risollevare le sorti dell’umanità, poiché anch’essa non è altro che una naturale illusione della mente umana dovuta al desiderio di appagamento e sicurezza: “le rappresentazioni religiose non sono precipitati dell’esperienza o risultati finali del pensiero”, ma “illusioni, appagamenti dei desideri più antichi, più forti, più pressanti dell’umanità; il segreto della loro forza è la forza di questo desideri”. (L’avvenire di un’illusione, 1927)

L’idea di Dio come padre e difensore amorevole degli uomini, ereditata dalla tradizione giudaico cristiana, non è altro che la proiezione radicalizzata dell’esperienza fatta con il nostro padre terreno.
Inoltre la moderna civiltà industriale e di massa, con tutte le sue complesse strutture sociali a cui bisogna doverosamente attenersi, implica per l’uomo contemporaneo un “costo” in termini libidici e di felicità, poiché è costretto a porre argini severi alla libido e a deviare la ricerca del piacere in prestazioni sociali e lavorative.
La società prosegue l’opera paterna e dà origine a un Super-io sociale, incarnato in norme e divieti: “Il Super-io della civiltà, come quello individuale, affaccia severe esigenze ideali, il mancato conformarsi alle quali viene punito con l’angoscia morale” (Il disagio della civiltà).
Freud non si pone aprioristicamente contro la civiltà ma la guarda con occhio cinicamente realista e infine pessimista: l’uomo, in qualsiasi epoca ma soprattutto in quella contemporanea, non può essere davvero “felice” in nessuna circostanza poiché la sofferenza è una componente strutturale dell’esistenza e ogni uomo è destinato a patire nel corpo e nella mente, a decadere e infine a morire.
L’uomo non è “una creatura gentile che vuol essere amata e che al massimo può difendere se stessa se viene attaccata”, ma è “al contrario una creatura tra le cui doti istintive è da annoverare un forte quoziente di aggressività”.
La civiltà è un male minore di quello che si realizzerebbe per una umanità non organizzata in società civile, poiché in quest’ultima si darebbe sfogo anarchicamente a tutti i desideri: è necessario dunque per Freud dar vita a una società regolata da leggi, ma che sia il meno repressiva possibile.
Le pulsioni vengono così suddivise in due specie: le pulsioni che tendono a unire e a conservare, ovvero quelle erotiche e sessuali, cioè Eros; le pulsioni che tendono a distruggere e a uccidere, ovvero aggressive e/o distruttive, cioè Thanatos. Nella lotta tra Eros e Thanatos si articola l’intera storia del genere umano.
Lo stesso Einstein chiese a Freud se riteneva possibile che l’aggressività psichica potesse essere diretta e controllata allo scopo di limitare la psicosi collettiva di odio e distruzione che era emersa nella Grande guerra; Freud rispose che non c’è speranza di sopprimere del tutto la tendenza aggressiva ma si può solo tentare di dominarla per evitare che sfoci in una guerra autodistruttiva per l’umanità.

 


Testi - La scoperta rivoluzionaria dell’inconscio
Con questo risalto dato all’inconscio nella vita psichica abbiamo però risvegliato gli spiriti più maligni della critica contro la psicoanalisi. Non meravigliatevene, né crediate che la resistenza contro di noi derivi solo dalla comprensibile difficoltà dell’inconscio o dalla relativa inaccessibilità delle esperienze che ne provano l’esistenza. A mio parere la sua origine è più profonda. Nel corso dei tempi l’umanità ha dovuto sopportare due grandi mortificazioni che la scienza ha recato al suo ingenuo amore di sé. La prima, quando apprese che la nostra terra non è il centro dell’universo, bensì una minuscola particella di un sistema cosmico che, quanto a grandezza, è difficilmente immaginabile. Questa scoperta è associata per noi al nome di Copernico, benché già la scienza alessandrina avesse proclamato qualcosa dei simile. La seconda mortificazione si è verificata poi, quando la ricerca biologica annientò la pretesa posizione di privilegio dell’uomo nella creazione, gli dimostrò la sua provenienza dal regno animale e l’inestirpabilità della sua natura animale. Questo sovvertimento di valori è stato compiuto ai nostri giorni sotto l’influsso di Charles Darwin, di Wallace e dei loro precursori, non senza la più violenta opposizione dei loro contemporanei. Ma la terza e più scottante mortificazione, la megalomania dell’uomo è destinata a subirla da parte dell’odierna indagine psicologica, la quale ha l’intenzione di dimostrare all’Io che non solo egli non è padrone in casa propria, ma deve fare assegnamento su scarse notizie riguardo a quello che avviene inconsciamente nella sua psiche. Anche questo richiamo a guardarsi dentro non siamo stati noi psicoanalisti né i primi né i soli a proporlo, ma sembra che tocchi a noi sostenerlo nel modo più energico e corroborarlo con un materiale empirico che tocca da vicino tutti quanti gli uomini. Di qui la generale ribellione contro la nostra scienza.
 S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, Boringhieri, Torino 1978, Lez. XVIII, pp. 258-259
Lapsus e indizi
“Dunque questa è la sua tecnica”, vi sento dire. “Quando chi ha commesso un lapsus lo commenta in modo che a Lei va bene, costui diventa, a Suo dire, l’autorità suprema che decide in merito. Quando invece ciò che dice non Le garba, allora Lei afferma tutt’a un tratto che costui non vale nulla, che non è necessario restargli fede”.
Devo dire che avete ragione. Tuttavia, vi posso presentare un caso simile nel quale le cose si svolgono in modo altrettanto assurdo. Quando un accusato ammette un’azione davanti al giudice, il giudice crede alla confessione; ma quando non lo ammette, il giudice non gli crede. Se le cose andassero diversamente, non ci sarebbe alcuna amministrazione della giustizia e, malgrado errori occasionali, dovete pur ritenere valido questo sistema.
“Allora, Lei è il giudice e colui che ha commesso un lapsus verbale un accusato che Le sta dinanzi? Un lapsus è dunque un reato?”
Forse non è necessario rifiutare questa analogia. Ma notare soltanto a quali profonde divergenze siamo giunti esaminando un po’ in profondità i problemi, apparentemente così innocui, degli atti mancati. Sono divergenze che per il momento siamo ben lungi dal poter appianare. Vi propongo un temporaneo compromesso, sulla base del paragone del giudice e dell’accusato. Voi dovete accordarmi che il senso di un atto mancato non lascia adito ad alcun dubbio quando è l’analista stesso a fornircelo. Io, per contro, converrò con voi che una dimostrazione diretta del significato da noi supposto non è raggiungibile quando l’analizzato rifiuta di darci l’informazione e quando, beninteso, non è in grado di farlo. Allora, come nel caso dell’amministrazione della giustizia, siamo costretti a rifarci agli indizi, i quali talvolta rendono più verosimili le nostre risoluzioni, talaltra meno. In tribunale, per ragioni pratiche, si deve condannare anche su prove indiziarie. Per noi una simile necessità non esiste; ma nemmeno siamo costretti a rinunciare all’utilizzazione di tali indizi. Sarebbe un errore credere che una scienza sia costituita esclusivamente da un certo numero di tesi rigorosamente dimostrate, e ingiusto pretenderlo. Solo uno spirito smanioso di autorità, che ha il bisogno di sostituire il suo catechismo religioso con un altro catechismo, sia pure scientifico, solleva questa esigenza. La scienza ha nel suo catechismo solo poche proposizioni apodittiche; per il resto, essa è costituita di affermazioni che ha spinto fino a certi gradi di probabilità. Indizio di mentalità scientifica è proprio il sapersi accontentare di queste affermazioni alla certezza, e l’essere capaci di proseguire il lavoro costruttivo nonostante la mancanza di conferme assolute.
S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, trad. it. M. Tonin-Dogana e E. Sagittario, Boringhieri, Torino 1978, lez. 3, p. 48
La struttura dell’apparato psichico
Nostro desiderio è fare oggetto di questa indagine l’Io, il nostro Io più intimo; ma è possibile? L’io è il soggetto per eccellenza, come può diventare oggetto? Ora, non vi è alcun dubbio che questo è possibile: l’Io può prendere come oggetto sé medesimo, trattarsi come altri oggetti, osservarsi, criticarsi e fare di sé stesso Dio sa quante altre cose ancora. Così facendo, una parte dell’Io si contrappone alla parte restante. L’Io dunque è scindibile: e in effetti si scinde nel corso di parecchie sue funzioni, almeno transitoriamente. Le parti possono successivamente riunirsi.
[...] Un po’ del reverenziale timore che gli antichi popoli dimostravano per i pazzi dobbiamo concederglielo anche noi. Si sono staccati dalla realtà esterna ma, appunto per questo, sanno moltissimo della realtà interna, psichica, e possono rivelarci parecchie cose che altrimenti ci sarebbero inaccessibili.
Di un gruppo di questi malati noi diciamo che soffrono del delirio di essere osservati. Essi si lamentano di essere molestati incessantemente, e fin nelle loro più intime azioni, da forze ignote, probabilmente persone, che li osservano, e odono in forma allucinatoria queste persone proclamare i risultati della loro osservazione, “adesso sta per dire questo, adesso si veste per uscire” eccetera. Questa attenzione non è ancora una persecuzione, ma poco ci manca; essa presuppone che la gente diffidi di loro, che aspetti di sorprenderli mentre compiono azioni proibite, per le quali dovrebbero essere puniti. E se questi pazzi avessero ragione, se nell’Io di tutti noi vi fosse un’istanza simile che osserva e minaccia castighi, istanza che in loro si è soltanto separata nettamente dall’Io ed è stata erroneamente spostata nella realtà esterna?
Non so se anche a voi accadrà lo stesso che a me. Da quando, sotto il forte influsso di questo quadro morboso, ho concepito l’idea che la separazione di un’istanza osservatrice dal resto dell’Io potrebbe essere un tratto regolatore nella struttura dell’Io, quest’idea non mi ha più abbandonato e mi ha spinto a indagare gli ulteriori caratteri e relazioni di questa istanza in tal modo separatasi. Il passo successivo è stato immediato. Già il contenuto del delirio di essere osservati suggerisce che l’osservare è solo una preparazione al giudicare e al punire, e noi indoviniamo così che un’altra funzione di questa istanza dev’essere ciò che chiamiamo la nostra coscienza morale. Non vi è forse null’altro in noi che separiamo tanto regolarmente dal nostro Io e gli contrapponiamo con tanta facilità come, appunto, la coscienza morale. Io avverto l’inclinazione a fare una cosa da cui mi riprometto piacere, ma non lo faccio perché la mia coscienza non me lo permette. Oppure, mi sono lasciato indurre da un’eccessiva aspettativa di piacere a fare una cosa contro cui la voce della coscienza sollevava obiezioni, e, dopo averla fatta, la mia coscienza mi punisce con tormentosi rimproveri, facendomi provare rimorso per l’azione compiuta. Potremmo dire semplicemente che la particolare istanza che comincia a distinguersi nell’Io è la coscienza morale, ma è più prudente mantenere a questa istanza la sua autonomia e supporre che la coscienza morale sia una delle sue funzioni e che l’auto-osservazione preliminare, indispensabile all’attività giudicatrice della coscienza, ne sia un’altra. E poiché il riconoscimento di un’esistenza separata implica che si dia alla cosa un nome, d’ora in poi designerò questa istanza presente nell’Io come il “Super-io”. [...] Il Super-io impone all’Io inerme, che è in sua balia, criteri morali rigorosissimi; è in generale il rappresentante delle esigenze della moralità, e d’un tratto ci rendiamo conto che il nostro senso morale di colpa esprime la tensione fra l’Io e il Super-io. È un’esperienza assai curiosa vedere la moralità, che si presume ci sia stata conferita da Dio e sia radicata in noi tanto profondamente, manifestarsi come un fenomeno stagionale. Infatti, dopo un certo numero di mesi, tutto il trambusto morale passa, la critica del Super-io tace, l’Io viene riabilitato e gode nuovamente di tutti i diritti dell’uomo fino al prossimo accesso. Anzi, in talune forme della malattia, ha luogo nell’intervallo tutto l’opposto: l’Io si trova in uno stato di beata ebbrezza, di trionfo, quasi che il Super-io avesse perso ogni forza o si fosse fuso con l’Io; e questo Io maniaco, divenuto libero, si permette realmente senza inibizioni il soddisfacimento di tutti i suoi appetiti. Sono processi densi di insoluti enigmi!
[...] Noi non disconosciamo affatto la parte di verità psicologica che è contenuta nell’affermazione che la coscienza morale è di origine divina, ma la tesi ha bisogno di un’interpretazione. Se pure tale coscienza è qualcosa “ in noi”, non lo è fin dall’inizio. Essa si pone in diretto contrasto con la vita sessuale, la quale esiste realmente fin dall’inizio della vita e non sopravviene solo più tardi. Per contro il bambino piccolo è notoriamente amorale, non ha alcuna inibizione interiore contro i propri impulsi che anelano al piacere. La funzione che più tardi assume il Super-io viene dapprima svolta da un potere esterno, dall’autorità dei genitori. I genitori esercitano il loro influsso e governano il bambino mediante la concessione di prove d’amore e la minaccia di castighi; questi ultimi dimostrano al bambino la perdita dell’amore e sono quindi temuti per sé stessi. Questa angoscia reale precorre la futura angoscia morale; finché essa domina, non c’è bisogno di parlare di Super-io e di coscienza morale. Solo in seguito si sviluppa la situazione secondaria - che noi siamo troppo disposti a ritenere quella normale - in cui l’impedimento esterno viene interiorizzato e al posto dell’istanza parentale subentra il Super-io, il quale ora osserva, guida e minaccia l’Io, esattamente come facevano prima i genitori col bambino.
Il Super-io, che in tal modo assume il potere, la funzione e persino i metodi dell’istanza parentale, non ne è però soltanto il successore legale, ma realmente il legittimo erede naturale.
[...] Fondamento di tale processo è la cosiddetta “identificazione”, cioè l’assimilazione di un Io a un Io estraneo, in conseguenza della quale il primo Io si comporta sotto determinati riguardi come l’altro, lo imita, lo accoglie in certo qual modo in sé. Non inopportunamente l’identificazione è stata paragonata all’incorporazione orale, cannibalesca, della persona estranea. L’identificazione è una forma molto importante di legame con un’altra persona, verosimilmente la più primitiva, e non è la stessa cosa di una scelta oggettuale. La differenza può essere espressa all’incirca così: se il fanciullo si identifica col padre, egli vuole essere come il padre; se lo fa oggetto della sua scelta, lo vuole avere, possedere; nel primo caso il suo Io viene modificato secondo il modello del padre, nel secondo caso ciò non è necessario. Identificazione e scelta oggettuale sono in larga misura indipendenti; ci si può tuttavia identificare anche con una persona che, ad esempio, è stata assunta come oggetto sessuale, e modificare secondo essa il proprio Io. [...] Ci resta da menzionare ancora un’importante funzione che attribuiamo a questo Super-io. Esso rappresenta anche l’ideale dell’Io, al quale l’Io si commisura, che emula, e la cui esigenza di una sempre più ampia perfezione si sforza di adempiere. Non vi è dubbio che questo ideale dell’Io è il sedimento dell’antica immagine dei genitori, l’espressione dell’ammirazione del bambino che li considerava allora creature perfette.
S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, seconda serie di lezioni, trad. it. M. Tonin-Dogana e E. Sagittario, Boringhieri, Torino 1979, lez. 31, pp. 171-179
La terapia psicoanalitica
Signore e Signori, sapete già l’argomento di cui parleremo oggi. Mi avete chiesto perché nella terapia psicoanalitica non ci serviamo della suggestione diretta, dal momento che ammettiamo che la nostra influenza è basata essenzialmente sulla traslazione, ossia sulla suggestione; e a questo avete riallacciato il dubbio se, considerato un simile predominio della suggestione, possiamo ancora renderci garanti dell’obiettività delle nostre scoperte psicologiche. Ho promesso di darvi in merito una risposta esauriente.
Suggestione diretta significa suggestione rivolta contro la manifestazione dei sintomi, significa lotta tra la vostra autorità e i motivi della malattia. Nella lotta non vi curate di questi motivi, ma dall’ammalato pretendete soltanto che ne reprima la manifestazione in sintomi. In linea di principio non fa differenza alcuna se l’ammalato è da voi trasposto in stato ipnotico o no. Ancora una volta Bernheim, con l’acutezza che lo distingue, sostiene che nei fenomeni di ipnotismo la suggestione è l’essenziale, che l’ipnosi stessa è già un risultato della suggestione, uno stato suggerito, e ha esercitato di preferenza la suggestione nello stato vigile, suggestione che può ottenere gli stessi effetti di quella in ipnosi.
Che cosa volete anzitutto ascoltare a questo proposito: ciò che dice l’esperienza o le considerazioni teoriche?
Cominciamo con la prima. Io fui Allievo di Bernheim, che andai a trovare a Nancy nel 1889 e di cui tradussi in tedesco il libro sulla suggestione. Esercitai per anni il trattamento ipnotico, dapprima con suggestione inibitoria, più tardi combinata col metodo breueriano di esplorazione del paziente. Posso quindi parlare dei risultati della terapia ipnotica o suggestiva sulla scorta di una buona esperienza. Se, stando a un antico detto medico, una terapia ideale ha da esser rapida, sicura e non spiacevole per l’ammalato, il metodo di Bernheim rispondeva certamente a due di questi requisiti. Si poteva eseguire in modo molto più rapido, anzi infinitamente più rapido, di quello analitico e non comportava per l’ammalato né fatica né inconvenienti. Per il medico alla lunga diventava… monotono: proibire in ogni caso e allo stesso modo, con il medesimo cerimoniale, ai più svariati sintomi di esistere, senza poter afferrare qualcosa del loro senso e della loro importanza, era un lavoro artigianale, non un’attività scientifica, e ricordava la magia, l’esorcismo e l’abracadabra; ma questo naturalmente non contava di fronte all’interesse dell’ammalato. Il terzo requisito gli mancava; il procedimento non era sicuro sotto nessun profilo. In una persona poteva essere applicato, nell’altra no; in un caso si otteneva molto, nell’altro pochissimo, e non si sapeva mai il perché. Peggiore di questa precarietà del procedimento era il fatto che i risultati non duravano. Se dopo qualche tempo si tornava ad avere notizia degli ammalati, si apprendeva che la vecchia sofferenza era ricomparsa, oppure era stata sostituita da una nuova. Si poteva riprendere l’ipnosi. Nello sfondo, c’era l’ammonimento pronunciato da fonti esperte a non privare gli ammalati della loro indipendenza con la frequente ripetizione dell’ipnosi e a non abituarli a questa terapia come a un narcotico. È pur vero che talvolta la cosa riusciva secondo i desideri, e dopo pochi sforzi si aveva un successo pieno e duraturo. Ma le condizioni che avevano determinato un esito così favorevole rimanevano sconosciute. Una volta mi accadde che uno stato grave, che avevo eliminato del tutto grazie a un breve trattamento ipnotico, ritornò immutato dopo che la malata se l’era presa con me senza che ne avessi colpa; dopo la riconciliazione feci sparire di nuovo il disturbo e molto più radicalmente; esso riapparve tuttavia allorché la paziente ruppe i rapporti con me per la seconda volta. Un’altra volta mi successe che una malata, da me ripetutamente aiutata con l’ipnosi a uscire da stati nervosi, durante il trattamento di un accesso particolarmente ostinato mi gettò improvvisamente le braccia al collo. Dopodiché chiunque si sarebbe sentito costretto a occuparsi, che lo volesse o no, del problema riguardante la natura e la provenienza della propria autorità suggestiva.
Fin qui le esperienze. Esse ci mostrano che rinunciando alla suggestione diretta non abbiamo perso nulla che sia insostituibile. Consentitemi ora di riallacciare a tutto questo alcune considerazioni. L’esercizio della terapia ipnotica implica una prestazione irrilevante sia da parte del paziente che del medico. Questa terapia s’accorda perfettamente con la valutazione delle nevrosi che ancor oggi dà la maggior parte dei medici. Il medico dice al nervoso: “Lei non ha nulla, è solo un fatto nervoso, e perciò sono in grado di liberarla dai suoi guai con due o tre parole in pochi minuti. Ripugna però alla nostra mentalità energetica l’idea che sia possibile muovere con uno sforzo esiguo un grosso peso, affrontandolo direttamente e senza l’aiuto esterno di strumenti adatti. Nella misura in cui due situazioni sono confrontabili, l’esperienza insegna che tale prodezza non può riuscire nemmeno nelle nevrosi. Ma so che questo argomento non è inattaccabile; esistono anche le “reazioni a catena”.
Alla luce della conoscenza ricavata dalla psicoanalisi possiamo descrivere la differenza fra la suggestione ipnotica e quella psicoanalitica nel seguente modo: la terapia ipnotica cerca di ricoprire e mascherare qualcosa nella vita psichica, quella analitica di mettere allo scoperto e di allontanare qualcosa. La prima opera come una cosmesi, la seconda come una chirurgia. La prima utilizza la suggestione per proibire i sintomi, rafforza le rimozioni, ma per il resto lascia immutati tutti i processi che hanno condotto alla formazione dei sintomi. La terapia analitica penetra molto più alle radici, là dove sono i conflitti dai quali sono scaturiti i sintomi, e si serve della suggestioni per modificare l’esito di questi conflitti. La terapia ipnotica lascia il paziente inattivo e immutato e perciò anche, ugualmente, privo di resistenza di fronte ad ogni nuova occasione di ammalarsi. La cura analitica impone tanto al medico quanto al malato un lavoro pesante, che viene utilizzato per abolire le resistenze interne. Con il superamento di queste resistenze la vita psichica del malato viene mutata permanentemente, elevata a un grado superiore di sviluppo, e preservata da nuove possibilità di malattia. Questo lavoro di superamento è la funzione essenziale della cura analitica; il malato deve compierlo e il medico glielo rende possibile con l’ausilio della suggestione, operante nel senso di una educazione. Perciò si è anche detto a ragione che il trattamento psicoanalitico è una sorta di posteducazione.
Spero di avervi reso chiaro in che cosa il nostro modo di impiegare terapeuticamente la suggestione differisce dall’unico suo impiego possibile nella terapia ipnotica. Riconducendo la suggestione alla traslazione, comprendete anche l’imprevedibilità che abbiamo notato nella terapia ipnotica, mentre quella analitica resta, nei suoi limiti, qualcosa su cui si può fare affidamento. Nell’applicare l’ipnosi dipendiamo dalla capacità di traslazione del malato, senza poter esercitare alcuna influenza su di essa. La traslazione dell’ipnotizzando può essere negativa o, come avviene nella maggior parte dei casi, ambivalente, oppure egli può essersi protetto dalla sua traslazione mediante particolari atteggiamenti; di ciò noi non veniamo a sapere nulla. Nella psicoanalisi lavoriamo sulla traslazione stessa, sciogliamo ciò che le si oppone, mettiamo a punto lo strumento con il quale intendiamo operare. Così ci diviene possibile trarre un profitto interamente diverso dal potere della suggestione; questo potere lo teniamo in pugno. Non è l’ammalato a suggerirsi da solo quello che gli piace, ma siamo noi a guidarne la suggestione, ammesso che egli si riveli accessibile all’influsso di quest’ultima.
Ora direte che, indipendentemente dal nome che vogliamo dare alla forza motrice della nostra analisi, sia esso traslazione o suggestione, esiste il pericolo che influenzare il paziente renda dubbia la sicurezza obiettiva delle nostre scoperte. Ciò che va a vantaggio della terapia, andrebbe a scapito dell’indagine. È l’obiezione che e stata più frequentemente sollevata contro la psicoanalisi, e si deve ammettere che, pur non essendo centrata, non si può rifiutarla come insensata. Tuttavia, se tale obiezione fosse giustificata, la psicoanalisi non sarebbe altro che un tipo particolarmente ben camuffato, particolarmente efficace di trattamento suggestivo, e noi potremmo prendere alla leggera tutte le sue asserzioni sugli influssi cui siamo soggetti nella vita, sulla dinamica psichica e sull’inconscio. Così la pensano in effetti i nostri oppositori; in particolare, tutto quanto si riferisce all’importanza delle esperienze sessuali, se non addirittura queste esperienze stesse, sarebbe stato da noi “dato a intendere” agli ammalati, dopo che tali elucubrazioni si sono sviluppate nella nostra fantasia depravata. La confutazione di queste accuse riesce più facile facendo appello all’esperienza che non con l’aiuto della teoria. Chi ha eseguito personalmente delle psicoanalisi, ha potuto convincersi innumerevoli volte che è impossibile suggestionare il malato in questo modo. Non che sia difficile farlo diventare seguace di una certa teoria e renderlo così partecipe di un eventuale errore del medico. In ciò il paziente si comporta come chiunque altro, come qualsiasi allievo; ma in tal modo si è influenzata solo la sua intelligenza, non la sua malattia. La soluzione dei suoi conflitti e il superamento delle sue resistenze riesce solo se gli sono state date quelle rappresentazioni anticipatorie che concordano con la realtà che è in lui. Ciò che era inesatto nelle supposizioni del medico viene a cadere nel corso dell’analisi e va quindi ritirato e sostituito con qualcosa di più giusto. Per mezzo di una tecnica accurata si cerca di impedire che la suggestione ottenga provvisoriamente ciò che vuole; ma se ciò si verifica non c’è da preoccuparsene, poiché nessuno si accontenta del primo successo. Non riteniamo terminata l’analisi se non sono state chiarite tutte le oscurità del caso, colmate le lacune della memoria, scoperte le occasioni in cui sono avvenute le rimozioni. Nei successi che subentrano troppo presto scorgiamo piuttosto ostacoli che incoraggiamenti al lavoro analitico, e distruggiamo nuovamente questi successi, dissolvendo di continuo la traslazione sulla quale sono basati. In fondo, è quest’ultimo tratto che distingue il trattamento analitico da quello puramente suggestivo e libera i risultati analitici dal sospetto di essere successi dovuti a suggestione. In ogni altro trattamento suggestivo la traslazione viene accuratamente risparmiata, lasciata intatta; in quello analitico è essa stessa oggetto del trattamento e viene scomposta in ognuna delle sue forme. A conclusione di una cura analitica, la traslazione stessa deve essere demolita, e se a questo punto il successo subentra o si rivela duraturo, esso non è basato sulla suggestione. bensì sul fatto (realizzatosi con il suo aiuto) dì aver superato le resistenze interne, sul cambiamento interno provocato nel paziente.
Contro l’instaurarsi di suggestioni singole agisce certamente il fatto che durante la cura dobbiamo lottare ininterrottamente contro resistenze che sono capaci di trasformarsi in traslazioni negative (ostili). C’è un altro fatto che non dobbiamo trascurare, e cioè che un gran numero di singoli risultati dell’analisi che potrebbero sembrare prodotti della suggestione, trovano altrove una conferma ineccepibile. Ci sono garanti, in questo caso, i dementi e i paranoici, i quali, ovviamente, non possono neanche lontanamente essere sospettati di subire l’influsso della suggestione. Le traduzioni di simboli e le fantasie che questi malati ci vengono a raccontare, essendosi aperte la strada fino alla loro coscienza, coincidono fedelmente con i risultati delle nostre indagini sull’inconscio dei nevrotici di traslazione e convalidano così l’obiettiva correttezza delle nostre interpretazioni, spesso messe in dubbio. Credo che non andate errati se concedete la vostra fiducia all’analisi su questi punti.
Completerò ora il mio quadro del meccanismo della guarigione rivestendolo delle formule della teoria della libido. Il nevrotico è incapace di godere e di agire; è incapace di godere perché la sua libido non è rivolta verso alcun oggetto reale, è incapace di agire perché deve spendere gran parte della propria energia per mantenere rimossa la libido e premunirsi contro il suo assalto. Egli guarirebbe se il conflitto fra il suo Io e la sua libido avesse termine e il suo lo ritornasse a disporre della sua libido. Il compito terapeutico consiste quindi nello sciogliere la libido dai suoi legami attuali sottratti all’Io e nell’asservirla di nuovo all’Io. Ma dove si è cacciata la libido del nevrotico? Si fa presto a trovarla: è legata ai sintomi, che le garantiscono l’unico soddisfacimento sostitutivo possibile al momento. Si deve quindi diventare padroni dei sintomi, risolverli, ed è proprio quello che il malato esige da noi. Per sciogliere i sintomi, diventa indispensabile risalire fino alla loro origine, rinnovare il conflitto dal quale sono scaturiti e, con l’aiuto di quelle forze motrici che a suo tempo non erano disponibili, indirizzano verso uno sbocco diverso. Questa revisione del processo che ha portato alla rimozione, può essere compiuta solo in parte in base alle tracce mnestiche di quanto è avvenuto nel passato. La parte decisiva del lavoro consiste nel ricreare, all’interno del rapporto con il medico, cioè della “traslazione”, nuove edizioni di quei vecchi conflitti in relazione ai quali l’ammalato vorrebbe comportarsi come si è comportato a suo tempo, mentre invece lo si costringe a decidersi altrimenti, chiamando a raccolta tutte le forze psichiche in lui disponibili. La traslazione diventa dunque il campo di battaglia nel quale sono destinate a incontrarsi tutte le forze in lotta tra loro.
Tutta la libido, come pure ogni cosa che ad essa si oppone, viene concentrata su quest’unico rapporto con il medico, sicché è inevitabile che i sintomi vengano spogliati della libido. Al posto della malattia propria del paziente subentra quella, artificialmente prodotta, della traslazione, la malattia di traslazione; al posto dei più svariati oggetti libidici irreali, subentra l’unico oggetto, pure fantastico, della persona del medico. Con l’aiuto della suggestione del medico, la nuova lotta intorno a questo oggetto viene però innalzata al più alto livello psichico, si svolge come un conflitto psichico normale. Con l’evitare una nuova rimozione si pone fine all’estraniamento tra l’Io e la libido e si ripristina l’unità psichica della persona. Quando la libido torna a staccarsi dall’oggetto temporaneo, ossia dalla persona del medico, non può ritornare ai suoi oggetti precedenti, ma rimane a disposizione dell’Io. Le forze contro cui si è combattuto durante questo lavoro terapeutico sono, da una parte, l’avversione dell’Io — manifestatasi come tendenza alla rimozione — per determinati orientamenti libidici, e dall’altra, la caparbietà o viscosità della libido, che non abbandona volentieri gli oggetti una volta che li ha investiti.
Il lavoro terapeutico si scompone quindi in due fasi: nella prima tutta quanta la libido, tolta ai sintomi, viene spinta nella traslazione e ivi concentrata, nella seconda viene condotta la lotta intorno a questo nuovo oggetto, finché la libido non viene liberata da esso. Il mutamento che determina l’esito favorevole e, in questo rinnovato conflitto, l’esclusione della rimozione, per cui la libido non può più sottrarsi all’Io con la fuga nell’inconscio Ciò è reso possibile dall’alterazione che nell’Io si effettua sotto l’influsso della suggestione del medico. Attraverso il lavoro interpretativo, che trasforma in conscio ciò che è inconscio, l’Io viene ingrandito a spese di questo inconscio; attraverso l’insegnamento, viene reso conciliante verso la libido e incline a concederle un qualche soddisfacimento, e il suo orrore di fronte alle richieste della libido viene ridotto dalla possibilità di liquidarne una parte mediante la sublimazione. Quanto più ciò che avviene nel trattamento coinciderà con questa descrizione ideale, tanto più grande sarà il successo della terapia analitica. Esso trova un ostacolo nella mancanza di mobilità della libido, che può rifiutarsi di abbandonare i suoi oggetti, e nella rigidità del narcisismo, che non permette alla traslazione oggettuale di svilupparsi al di là di un certo limite. Forse può servire a chiarire ulteriormente la dinamica del processo di guarigione il far notare che noi catturiamo tutta quanta la libido che è stata sottratta al dominio dell’Io attirandone una parte su noi stessi mediante la traslazione.
Non è fuor di luogo avvertire che non è lecito trarre alcuna conclusione diretta sulla collocazione della libido durante la malattia, da come essa si è ripartita durante e in seguito al trattamento. Supposto che siamo riusciti a portare felicemente a termine il caso, creando prima e dissolvendo poi una forte traslazione paterna sul medico, sarebbe errato dedurne che l’ammalato abbia sofferto in precedenza di un simile attaccamento inconscio al padre. La traslazione paterna è solo il campo di battaglia sul quale ci impadroniamo della libido; la libido dell’ammalato è stata ivi convogliata da altre posizioni. Questo campo di battaglia non necessariamente coincide con una delle principali roccaforti del nemico, così come non occorre che la difesa della più importante città nemica avvenga proprio davanti alle sue porte. Soltanto dopo che si è dissolta la traslazione, si può ricostruire mentalmente il modo in cui la libido era ripartita durante la malattia.
S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, Lezione 28, OSF, vol. 8, pp. 597-604; in A. Civita [a cura di], Freud e la psicoanalisi, pp. 65-71
Da Cinque conferenze sulla psicoanalisi
Il sogno
Signore e signori, non è sempre facile dire la verità, soprattutto quando si deve essere brevi, e così sono costretto oggi a rettificare un’affermazione inesatta della mia ultima conferenza. Vi dissi che dopo aver rinunciato all’ipnosi, insistevo tuttavia con i miei pazienti perché mi comunicassero ciò che passava loro per il capo in relazione al problema esaminato in quel momento, e assicuravo loro che sapevano bene tutto quello che apparentemente avevano dimenticato e che l’idea affiorante avrebbe contenuto certamente ciò che si cercava; vi dissi inoltre che la prima idea che veniva in mente al mio paziente dava luogo effettivamente alla connessione giusta e si rivelava essere la continuazione dimenticata del ricordo. Ora questo non è sempre vero; solo per ragioni di brevità ho semplificato in questo modo quel che volevo dire. In realtà succedeva soltanto le prime volte che quanto era stato veramente dimenticato si presentasse per semplice insistenza da parte mia. Ripetendo il procedimento, sorgevano ogni volta idee che non potevano essere quelle giuste, perché non erano pertinenti e venivano respinte dai malati stessi come inesatte. In questi casi insistere non era di alcun giovamento e si poteva ancora una volta rammaricarsi di aver abbandonato l’ipnosi.
In questa fase di perplessità mi aggrappai a un pregiudizio, la cui esattezza scientifica fu dimostrata anni dopo da C. G. Jung a Zurigo e dai suoi allievi. Sono costretto ad affermare che a volte è molto utile avere dei pregiudizi. Avevo un’alta opinione del rigore con cui i processi psichici sono determinati e non riuscivo a credere che un’idea, prodotta dal malato in un momento di attenzione estrema, potesse essere del tutto arbitraria e senza rapporto con la rappresentazione dimenticata che noi cercavamo; il fatto che non fosse identica a questa si poteva spiegare in modo soddisfacente in base alla situazione psicologica di cui si è detto. Nel malato in trattamento agivano due forze contrarie: da una parte la sua aspirazione cosciente ad attirare nella coscienza il materiale dimenticato esistente nel suo inconscio, dall’altra parte la resistenza a noi nota, che si ribellava a siffatto divenir conscio del materiale rimosso o dei suoi derivati. Se questa resistenza era pari a zero o minima, l’elemento dimenticato diveniva cosciente senza deformazione; era quindi naturale ammettere che la deformazione dell’elemento ricercato sarebbe stata tanto maggiore quanto maggiore fosse stata la resistenza opposta al suo divenir cosciente. L’idea del malato che compariva al posto dell’elemento ricercato era dunque sorta essa stessa come un sintomo; era una deformazione nuova, artificiosa, effimera, che sostituiva l’elemento rimosso, ed era tanto più dissimile da questo quanto maggiore era stata la deformazione subita sotto l’influsso della resistenza. Tuttavia, data la sua natura di sintomo essa doveva rivelare una certa somiglianza con il materiale ricercato e se la resistenza non era troppo intensa doveva essere possibile decifrare l’elemento celato in base all’idea emersa. L’idea doveva comportarsi rispetto all’elemento rimosso come un’allusione, come una sua raffigurazione in un discorso indiretto.
Nell’ambito della vita psichica normale conosciamo dei casi in cui situazioni analoghe a quelle da noi supposte danno effettivamente luogo a esiti affini. Un caso di questo genere è quello del motto di spirito. Attraverso i problemi della tecnica psicoanalitica, sono stato infatti costretto a occuparmi anche della tecnica di formazione del motto di spirito. Voglio illustrarvi uno solo di questi esempi, peraltro un motto di spirito in lingua inglese.
L’aneddoto racconta: Due uomini d’affari poco scrupolosi erano riusciti ad ammassare una grossa fortuna per mezzo di iniziative spericolate: ora si trattava di farsi accogliere nella buona società. Tra i vari mezzi, sembrò loro opportuno farsi ritrarre dal pittore più celebre e costoso della città, i cui dipinti erano considerati ogni volta un avvenimento. Le preziose tele furono mostrate per la prima volta in pubblico durante una grande soirée, e i due padroni di casa accompagnarono personalmente il conoscitore d’arte e critico più influente verso la parte del salone dove i due quadri stavano appesi uno accanto all’altro, ansiosi di strappargli un giudizio ammirativo. Il critico osservò a lungo i ritratti, poi scosse la testa come se il conto non tornasse; e si limitò a domandare, indicando lo spazio vuoto fra le due tele: “And where is the Saviour?” (E il Redentore dov’è? Ossia: qui manca il ritratto del Redentore.) Vedo che tutti voi ridete di questa buona battuta, che cercheremo ora di comprendere più a fondo. E chiaro che l’intenditore vuol dire: siete una coppia di birboni, come quelli tra i quali fu crocifisso il Salvatore. Ma non lo dice; esprime invece qualcosa che in un primo tempo sembra singolarmente improprio e non pertinente, ma in cui riconosciamo nel momento successivo una allusione all’ingiuria che egli aveva in mente e un surrogato pienamente valido di essa. Non possiamo attenderci che nel motto di spirito si ritrovano tutte le condizioni che supponiamo essere presenti quando ai nostri pazienti viene in mente qualcosa, ma intendiamo dare peso all’identità di motivazione tra motto di spirito e idea improvvisa. Perché il nostro critico non dice direttamente ai due birboni ciò che vorrebbe dire loro? Perché accanto alla sua voglia di dirglielo apertamente in faccia, agiscono in lui ottimi contromotivi. Non è privo di pericoli offendere gente presso cui si è ospiti e che potrebbe farci mettere brutalmente alla porta da una numerosa servitù. È facile andare incontro a quella stessa sorte di cui abbiamo parlato nella conferenza precedente a proposito dell’analogia con la “rimozione”. Per questo motivo il critico esprime l’ingiuria che ha in mente non in forma diretta, bensì deformata, come una “allusione con omissione”; e la stessa costellazione è responsabile secondo noi, del fatto che il nostro paziente produce, al posto del materiale dimenticato che ricerchiamo, un’idea sostitutiva più o meno deformata di esso.
È molto opportuno, signore e signori, seguire la scuola zurighese (Bleuler, Jung, e altri) nel definire complesso un gruppo di elementi rappresentativi omogenei, affettivamente investiti. Vediamo dunque che per cercare in un malato un complesso rimosso, partendo dalle ultime cose che ancora ricorda, abbiamo tutte le probabilità di rintracciarlo se egli ci mette a disposizione un numero sufficiente di sue libere associazioni. Gli lasciamo dunque dire ciò che vuole e ci atteniamo al presupposto che non possa passargli per il capo se non ciò che dipende in maniera indiretta dal complesso ricercato. Se questa via per scoprire il materiale rimosso vi sembra troppo complicata, posso almeno assicurarvi che è l’unica praticabile.
Nel portare avanti questa tecnica, siamo però ancora disturbati dal fatto che il malato spesso s’interrompe, s’inceppa e sostiene che non ha niente da dire, che assolutamente non gli viene in mente nulla. Se così fosse e il malato avesse ragione, il nostro metodo si dimostrerebbe ancora una volta inadeguato. Ma un’osservazione più sottile dimostra che il venir meno delle idee in effetti non si verifica mai. Quest’apparenza si realizza soltanto perché il malato, sotto l’influsso delle resistenze che si rivestono di molteplici giudizi critici sul valore dell’idea percepita, si trattiene dal dirla oppure la riallontana da sé. Ci difendiamo predicendogli questo comportamento ed esigendo da lui che non si dia pensiero della sua critica. Rinunciando totalmente a una scelta critica, dica pure tutto quello che gli passa per il capo, anche se lo ritiene inesatto, non pertinente, insensato e, soprattutto, anche se gli è spiacevole occupare il suo pensiero) con quell’idea. Se segue questa norma, ci assicuriamo il materiale che ci conduce sulla traccia dei complessi rimossi.
Questo materiale ideativo che il malato allontana con spregio da sé, qualora si trovi sotto l’influsso della resistenza anziché sotto quello nel medico, rappresenta per lo psicoanalista, in certo qual modo, il minerale al quale egli sottrae con l’ausilio di semplici arti interpretative, il suo contenuto di metallo prezioso. Se volete farvi una cognizione rapida e provvisoria nei complessi rimossi di un paziente senza ancora preoccuparvi del loro ordinamento e della loro connessione, servitevi come metodo d’esame dell’esperimento associativo, come è stato elaborato da Jung e dai suoi allievi. Questo procedimento offre allo psicoanalista ciò che l’analisi qualitativa offre al chimico; esso non è indispensabile nella terapia dei malati nevrotici, lo è invece per la dimostrazione obiettiva dei complessi e nell’esame delle psicosi ch’è stato intrapreso con tanto successo dalla scuola zurighese.
L’elaborazione delle idee che si presentano al paziente quand’egli si sottopone alla regola psicoanalitica fondamentale, non è l’unico dei mezzi tecnici di cui disponiamo per dischiudere l’inconscio. Al medesimo scopo servono altri due procedimenti: l’interpretazione dei sogni del paziente e l’utilizzazione delle sue azioni mancate e casuali.
Devo confessarvi, miei egregi ascoltatori, che ho pensato a lungo se non fosse meglio offrirvi, al posto di questa concisa rassegna di tutto il campo psicoanalitico, una minuziosa esposizione dell’interpretazione dei sogni. Mi ha trattenuto un motivo puramente soggettivo e in apparenza secondario. Mi pareva quasi scandaloso in questo paese rivolto a mete pratiche, presentarmi come “interprete di sogni” prima ancora che voi foste in grado di rendervi conto quale importanza può essere attribuita a quest’arte antiquata e dileggiata. L’interpretazione dei sogni è in realtà la via regia per la conoscenza dell’inconscio, il fondamento più sicuro della psicoanalisi e il campo in cui ogni praticante deve maturare il proprio convincimento e perseguire il proprio perfezionamento. Se mi si chiede in che modo si possa diventare psicoanalista, rispondo: attraverso lo studio dei propri sogni. Con vera discrezione tutti gli avversari della psicoanalisi hanno evitato sinora qualunque apprezzamento del mio libro L’interpretazione dei sogni, oppure hanno tentato di averne ragione con le obiezioni più futili. Se voi al contrario sarete in grado di ammettere le soluzioni dei problemi posti dalla vita onirica, le novità che la psicoanalisi propone al vostro pensiero non presenteranno più alcuna difficoltà.
Non dimenticate che le nostre produzioni oniriche notturne presentano da un lato la più grande somiglianza esteriore e parentela inferiore con le creazioni della malattia mentale, e d’altro lato sono però compatibili con la piena salute della vita vigile. Non è un paradosso affermare che chi dimostra meraviglia, anziché comprensione, per codeste illusioni sensoriali, idee deliranti e modificazioni caratteriali ”normali”, non ha la benché minima probabilità di comprendere le formazioni abnormi degli stati psichici morbosi in un senso diverso da quello del profano. Fra questi profani potete annoverare oggi tranquillamente quasi tutti gli psichiatri. Seguitemi ora in una rapida escursione nel campo dei problemi onirici.
Al nostro risveglio siamo soliti trattare i sogni nello stesso modo spregiativo con cui il paziente tratta le associazioni che lo psicoanalista esige da lui. Ma per di più li allontaniamo da noi, dimenticandoli di regola rapidamente e completamente. Il nostro spregio si basa sul carattere peregrino anche di quei sogni che non sono né confusi né privi di senso, e sulla evidente assurdità e insensatezza degli altri, il nostro rifiuto si richiama alle sfrenate e immorali tendenze che in certi sogni affiorano apertamente. È noto che l’antichità non condivise questo spregio per i sogni. Anche oggi gli strati inferiori del nostro popolo non si lasciano ingannare sul valore da attribuire loro; al pari degli antichi essi si aspettano dai sogni la rivelazione del futuro.
Confesso che non sento alcun bisogno di congetture mistiche per colmare le lacune delle nostre attuali conoscenze, ed è per questo che non ho mai potuto trovare nulla che confermasse la natura profetica dei sogni. Vi sono ben altre cose da dire sui sogni – anch’esse straordinarie quanto basta.
In primo luogo: non tutti i sogni sono del tutto estranei al sognatore, incomprensibili e confusi. Se accetterete di sottoporre alla vostra attenzione i sogni di bambini molto piccoli, a partire da un anno e mezzo, li troverete assolutamente semplici e facili da spiegare. Il bambino piccolo sogna sempre l’appagamento di desideri che il giorno precedente ha destato in lui senza soddisfarli. Non vi occorre alcuna arte interpretativa per trovare questa semplice soluzione, basterà che vi informiate sulle sue esperienze del giorno prima (giorno del sogno). Ora, è certo che avremmo la soluzione più soddisfacente dell’enigma onirico se anche i sogni degli adulti, non diversamente da quelli dei bambini, si rivelassero appagamenti di impulsi di desiderio sorti il giorno del sogno. Ed è così in realtà; le difficoltà che ostacolano questa soluzione si possono eliminare gradualmente, attraverso un’analisi più approfondita.
A questo punto la prima e più importante obiezione è che i sogni degli adulti hanno di solito un contenuto incomprensibile, che non consente affatto di riconoscervi un appagamento di desiderio. La risposta è questa: questi sogni hanno subito una deformazione; il processo psichico che sta alla loro base avrebbe dovuto trovare in origine tutt’altra espressione verbale. Dovete distinguere il contenuto onirico manifesto, che ricordate vagamente al mattino e rivestite con fatica di parole, apparentemente in modo arbitrario, dai pensieri onirici latenti, che dovete supporre presenti nell’inconscio. Questa deformazione onirica è lo stesso processo che avete imparato a conoscere nell’indagine sulla formazione dei sintomi isterici; essa indica che anche nella formazione del sogno interviene lo stesso antagonismo di forze psichiche che interviene nella formazione del sintomo. Il contenuto onirico manifesto è il sostituto deformato dei pensieri onirici inconsci, e questa deformazione è opera di forze di difesa dell’Io, di resistenze che nella vita vigile impediscono del tutto ai desideri rimossi dell’inconscio l’accesso alla coscienza: queste resistenze si riducono nello stato di sonno, mantenendo tuttavia una forza tale da imporre ai pensieri inconsci un travestimento che li maschera. Per questo il sognatore riconosce il significato dei suoi sogni altrettanto poco quanto l’isterico la connessione e il significato dei suoi sintomi.
Del fatto che esistano pensieri onirici latenti, e che tra essi e il contenuto onirico manifesto esista effettivamente la relazione or ora descritta, vi convincerete con l’analisi dei sogni, la cui tecnica coincide con quella psicoanalitica. Prescindete del tutto dalla connessione apparente fra gli elementi del sogno manifesto, e, raccogliendo le idee che emergono in relazione ad ogni singolo elemento onirico per mezzo di libere associazioni, attenetevi alla regola del lavoro psicoanalitico. Da questo materiale potrete ricavare i pensieri onirici latenti esattamente nello stesso modo in cui dalle associazioni del malato a proposito dei suoi sintomi e ricordi avete ricavato i suoi complessi nascosti. I pensieri onirici latenti in tal guisa individuati vi permettono senz’altro di comprendere quanto sia giustificato ricondurre i sogni degli adulti ai sogni infantili. Ciò che ora si sostituisce come senso vero e proprio del sogno al contenuto onirico manifesto, è sempre chiaramente comprensibile, si riallaccia alle esperienze di vita del giorno prima, si rivela un appagamento di desideri insoddisfatti. Il sogno manifesto, quale voi lo conoscete ricordandolo al risveglio, non si può allora descrivere che come un appagamento mascherato di desideri rimossi.
Mediante una sorta di lavoro sintetico, potete ora farvi anche un’idea del processo che ha portato alla deformazione dei pensieri onirici inconsci trasformandoli in contenuto onirico manifesto. Chiamiamo questo processo “lavoro onirico”. Esso merita il nostro interesse teorico più pieno, perché quivi più che altrove possiamo osservare quali insospettati processi psichici siano possibili nell’inconscio, o più esattamente tra due sistemi psichici distinti come il conscio e l’inconscio. Fra questi processi psichici appena portati alla luce spiccano vistosamente quelli della condensazione e dello spostamento. Il lavoro onirico è un aspetto particolare delle influenze reciproche di diversi raggruppamenti psichici, quindi dei risultati della scissione psichica, e appare nella sostanza identico a quel lavoro di deformazione che in caso di rimozione fallita trasforma i complessi rimossi in sintomi.
Con l’analisi dei sogni, nel modo più convincente con l’analisi dei sogni personali, scoprirete più oltre con stupore quale ruolo di insospettato rilievo abbiano le impressioni e le esperienze della prima infanzia sullo sviluppo dell’uomo. Nella vita onirica il bambino che è nell’uomo continua per così dire la sua esistenza, conservando tutte le sue caratteristiche e i suoi impulsi di desiderio, anche quelli divenuti inutilizzabili col procedere del tempo. Con forza imperiosa vi si rivela attraverso quali sviluppi, rimozioni, sublimazioni e formazioni reattive, emerga, dal bambino ben altrimenti orientato, l’uomo cosiddetto normale, portatore e in parte vittima della civiltà che ha faticosamente raggiunto.
Voglio inoltre richiamare la vostra attenzione sul fatto che analizzando i sogni abbiamo compreso come l’inconscio si serva, soprattutto per la rappresentazione di complessi sessuali, di un determinato simbolismo che è in parte individualmente variabile, in parte tipicamente fisso; esso sembra coincidere con il simbolismo che sospettiamo dietro i nostri miti e le nostre favole. Non sarebbe impossibile che queste creazioni dei popoli potessero essere chiarite attraverso il sogno.
Devo infine esortarvi a non lasciarvi confondere dall’obiezione che l’esistenza di sogni d’angoscia contraddirebbe la nostra concezione del sogno come appagamento di desiderio. A prescindere dal fatto che anche per questi sogni d’angoscia è necessaria l’interpretazione prima di poter esprimere un giudizio su di essi, si deve dire in modo assolutamente generale che l’angoscia non dipende dal contenuto onirico in modo così semplice come immagina chi non è in possesso oli ulteriori cognizioni e non tiene conto delle condizioni che determinano l’angoscia nevrotica. L’angoscia è una delle reazioni di rifiuto dell’io di fronte a desideri rimossi fattisi intensi, e quindi anche nel sogno essa trova facilmente spiegazione nel fatto che la formazione onirica si è posta in misura eccessiva al servizio dell’appagamento di questi desideri rimossi.
Come si vede, l’indagine sul sogno sarebbe già di per sé giustificata dalle nozioni che essa fornisce su cose difficilmente conoscibili in altro modo. Ma noi siamo giunti ad essa in relazione al trattamento psicoanalitico dei nevrotici. Dopo quanto si è detto sinora, potete facilmente comprendere come l’interpretazione dei sogno, qualora non sia resa troppo difficile dalle resistenze del malato, porti alla conoscenza dei suoi desideri celati e rimossi e dei complessi che essi alimentano; posso così passare al terzo gruppo di fenomeni psichici, il cui studio è diventato una delle tecniche della psicoanalisi.
Sono questi i piccoli atti mancati degli uomini sia normali che nervosi, ai quali non si è soliti annettere alcuna importanza: il dimenticare certe cose che si potrebbero sapere, e che altre volte effettivamente si sanno (per esempio la occasionale difficoltà nel ricordare i nomi propri), il lapsus verbale nel quale incorriamo così spesso, l’analogo lapsus di scrittura e di lettura, le sbadataggini nel corso delle faccende di tutti i giorni, il perdere o il rompere oggetti e via dicendo: tutti fatti per i quali in altre circostanze non si cerca una determinazione psichica e che si fanno passare, senza discutere, per effetti casuali dovuti a distrazione, a disattenzione e a cause consimili. A ciò si aggiungano le azioni e i gesti che gli uomini compiono senza affatto rendersene conto e men che meno attribuendo loro un peso psichico, come il giocare, il gingillarsi con oggetti, il canticchiare melodie, il maneggiare parti del proprio corpo o dei propri indumenti, e simili. Queste piccole cose, gli atti mancati come le azioni sintomatiche e casuali, non sono così insignificanti come si è pronti ad ammettere per una specie di tacito accordo; si tratta al contrario di atti perfettamente sensati, perlopiù interpretabili con facilità e sicurezza in base alla situazione in cui accadono, e risulta che anch’essi portano ad espressione impulsi e intenzioni che sono stati respinti e devono restar celati alla nostra stessa coscienza; oppure che addirittura derivano dai medesimi impulsi di desiderio e complessi rimossi nei quali abbiamo ormai riconosciuto i creatori dei sintomi e gli artefici delle immagini oniriche. Essi meritano dunque la giusta valutazione di sintomi e il loro esame, come quello dei sogni, può portare alla scoperta del materiale celato nella vita psichica. Attraverso di essi l’uomo tradisce di regola i suoi segreti più intimi. Se gli atti mancati si realizzano con particolare facilità e frequenza persino nell’uomo sano, al quale nel complesso è ben riuscita la rimozione dei propri impulsi inconsci, ciò si deve alla loro futilità e scarsa appariscenza. Tuttavia essi possono pretendere a un alto valore teorico, poiché ci dimostrano l’esistenza della rimozione e della formazione sostitutiva anche in condizioni di buona salute.
Vi rendete conto ormai come lo psicoanalista si distingua per una fiducia singolarmente ferma nel determinismo della vita psichica. Per lui non vi è nulla di insignificante, di arbitrario e casuale nelle manifestazioni psichiche; egli si aspetta sempre una motivazione esauriente laddove di solito non si avanza siffatta pretesa; anzi egli è preparato a una motivazione multipla del medesimo effetto psichico, mentre la nostra esigenza causale, presuntamente congenita, si dichiara soddisfatta di un unico motivo psichico.
Riunite ora insieme i mezzi di cui disponiamo per la scoperta del materiale celato, dimenticato, rimosso nella vita psichica (Io studio delle idee dei pazienti evocate nell’associazione libera, lo studio dei loro sogni e delle loro azioni mancate e sintomatiche); aggiungete inoltre l’utilizzazione di altri fenomeni che si verificano durante il trattamento psicoanalitico, sui quali farò in seguito alcune osservazioni servendomi del termine l’traslazione”, e giungerete con me alla conclusione che la nostra tecnica è ormai abbastanza efficace per poter assolvere il suo compito, per procurare alla coscienza il materiale psichico patogeno ed eliminare in tal modo le sofferenze provocate dalla formazione di sintomi sostitutivi. Il fatto che nel corso dei tentativi terapeutici noi arricchiamo e approfondiamo la nostra conoscenza della vita psichica degli uomini normali e malati, deve indubbiamente essere considerato un elemento che conferisce a questo lavoro un privilegio e un fascino particolari.
Non so se avete avuto l’impressione che la tecnica psicoanalitica, nel cui arsenale vi ho or ora guidati, sia particolarmente difficile. Io penso che sia assolutamente adeguata alla materia di cui deve venire a capo. Ma certo è che non è ovvia, che dev’essere imparata al pari delle tecniche dell’istologia o della chirurgia. Vi stupirete forse di apprendere che in Europa abbiamo ascoltato una quantità di giudizi negativi sulla psicoanalisi da parte di persone che non sanno nulla di questa tecnica, che non la applicano, e che poi – come per beffa – pretendono da noi che proviamo loro l’esattezza dei nostri risultati. Tra questi oppositori vi sono per certo anche persone alle quali di solito non è estranea una mentalità scientifica, persone che per esempio non rifiuterebbero il risultato di un esame microscopico per il fatto che non è conformabile sul preparato anatomico a occhio nudo, e prima di aver giudicato il dato in questione avvalendosi del microscopio. Ma quando si tratta di ottenere un riconoscimento per la psicoanalisi la situazione presenta difficoltà maggiori. La psicoanalisi intende portare il materiale rimosso della vita psichica a un riconoscimento cosciente, e chiunque la giudichi è egli stesso un uomo che possiede siffatte rimozioni, e che forse le tiene a bada soltanto a fatica. Essa è quindi destinata a provocare in lui la stessa resistenza che risveglia nei malati, ed è facile per questa resistenza mascherarsi da rifiuto intellettuale, accampando argomenti simili a quelli che nei nostri malati ribattiamo con la regola psicoanalitica fondamentale. Come nei malati, anche nei nostri avversari possiamo spesso costatare un influsso affettivo molto considerevole sulla facoltà di giudizio, nel senso di una riduzione di quest’ultima. L’alterigia della coscienza, che per esempio rifiuta il sogno con tanto disprezzo, è uno dei più potenti meccanismi protettivi di cui siamo universalmente provvisti contro l’infiltrazione dei complessi inconsci; ed è per questo che è così difficile convincere gli uomini della realtà dell’inconscio e insegnare loro a conoscere cose nuove che contraddicono il loro sapere cosciente.
S. Freud, Cinque conferenze sulla psicoanalisi, OSF, vol. 6, terza conferenza; in A. Civita [a cura di], Freud e la psicoanalisi, pp. 42-52

L’interpretazione di un sogno
Un esempio di sentimenti egoistici veramente bassi che si celano dietro una tenera sollecitudine è offerto dal sogno seguente:
Il mio amico Otto ha un brutto aspetto, è brutto in viso e ha occhi sporgenti.
Otto è il mio medico di casa e sarò sempre in debito con lui perché da anni bada alla salute dei miei figli, li cura con successo quando si ammalano e per di più coglie ogni pretesto possibile per far loro dei regali. Il giorno prima del sogno ci aveva fatto visita e mia moglie aveva osservato il suo aspetto stanco e abbattuto. Ed ecco di notte il mio sogno che gli presta alcuni dei sintomi del morbo di Basedow. Chi, nell’interpretazione, si libera dalle mie regole, intende questo sogno nel senso che sono preoccupato per la salute del mio amico e che questa preoccupazione si realizza nel sogno. Ciò contraddirebbe non solo l’affermazione che il sogno è un appagamento di desiderio, ma anche l’altra affermazione, secondo cui il sogno è accessibile solo a impulsi egoistici. Ma chi interpretasse in questo senso potrebbe forse spiegarmi perché nel caso di Otto temo il morbo di Basedow, alla cui diagnosi il suo aspetto non offre il minimo pretesto? La mia analisi fornisce invece il seguente materiale, che proviene da un episodio accaduto sei anni fa. Con una piccola compagnia, di cui faceva parte anche il professor R., attraversavo nella più profonda oscurità il bosco di N., distante alcune ore dal nostro luogo di soggiorno estivo. Il cocchiere, che non era perfettamente lucido, mandò la carrozza giù per un pendio e fu proprio una fortuna se riuscimmo a scamparla. Dovemmo però pernottare nella più vicina locanda, dove la notizia del nostro incidente ci procurò grande simpatia. Un signore che presentava i segni non misconoscibili del morbo di Basedow - non il gozzo del resto, solo il colorito bruno del volto e occhi sporgenti, esattamente come nel sogno - si mise a nostra completa disposizione e chiese che cosa potesse fare per noi. Il professor R. rispose col suo fare brusco. “Nient’altro che prestarmi una camicia da notte”. Al che il nobiluomo: “Mi dispiace, ma questo no” e se ne andò.
Continuando l’analisi, mi viene in mente che Basedow non è soltanto il nome di un medico, ma anche quello di un celebre pedagogo. (Ora, da sveglio, non mi sento molto sicuro di questa nozione). Ma l’amico Otto è proprio la persona a cui ho chiesto di vigilare, nel caso mi succedesse qualcosa, sull’educazione fisica dei miei figli, soprattutto nel periodo della pubertà (di qui la camicia da notte). Vedendo ora in sogno l’amico Otto con i sintomi della malattia di quel nobile soccorritore, voglio dire evidentemente: “Se mi succede qualche cosa, ci sarà da aspettarsi da lui in favore dei figli altrettanto poco, quanto a suo tempo dal barone L., nonostante le sue gentili offerte”. A questo punto l’impronta egoistica del sogno dovrebbe essere palese.
Ma dove sta in questo caso l’appagamento di desiderio? Non nella vendetta perpetrata contro l’amico Otto, il cui destino è ormai quello di essere bistrattato nei miei sogni, ma nella relazione seguente: rappresentando nel sogno Otto come barone L., io identifico contemporaneamente la mia persona con quella di un altro, vale a dire quella del professor R., perché chiedo qualche cosa a Otto come in quella circostanza R. al barone L. Ed è questo il punto. Il professor R., al quale di solito per la verità non oso paragonarmi, si è fatto come me la sua strada da solo, fuori della scuola ed è giunto soltanto in età avanzata al titolo che meritava da gran tempo. Ancora una volta dunque voglio diventare professore! Anzi, persino “in età avanzata” è un appagamento di desiderio, poiché significa che vivrò abbastanza a lungo per guidare io stesso i miei ragazzi nel periodo della pubertà.
S. Freud, L’interpretazione dei sogni, Boringhieri, Torino 1973, pp. 254-256

Eros e Thanatos
Mi atterrò al convincimento che la tendenza aggressiva sia nell’uomo una disposizione pulsionale originaria e indipendente; torno ora all’asserzione che la civiltà trova in essa il suo più grave ostacolo. A un certo punto, nel corso di questa disamina, credemmo di capire che l’incivilimento fosse un processo peculiare al quale l’umanità è sottoposta e a quest’idea restiamo fedeli. Aggiungiamo che si tratta di un processo al servizio dell’Eros, che mira a raccogliere prima individui sporadici, poi famiglie, poi stirpi, popoli, nazioni, in una grande unità: il genere umano. Perché ciò debba accadere non lo sappiamo; è appunto opera dell’Eros. Queste moltitudini devono essere legate l’una all’altra libidicamente; la sola necessità, i vantaggi del lavoro in comune non basterebbero a tenerle insieme. Ma a questo programma della civiltà si oppone la naturale pulsione aggressiva dell’uomo, l’ostilità di ciascuno contro tutti e di tutti contro ciascuno. Questa pulsione aggressiva è figlia e massima rappresentante della pulsione di morte, che abbiamo trovato accanto all’Eros con il quale si spartisce il dominio del mondo. Ed ora, mi sembra, il significato dell’evoluzione civile non è più oscuro. Indica la lotta tra Eros e Morte, tra pulsione di vita e pulsione di distruzione, come si attua nella specie umana. Questa lotta è il contenuto essenziale della vita e perciò l’evoluzione civile può definirsi in breve come la lotta per la vita della specie umana. [...]
Il senso di colpa è l’espressione del conflitto d’ambivalenza dell’eterna lotta tra l’Eros e la pulsione distruttiva o di morte. Questo conflitto si accende appena gli uomini sono posti nella necessità di vivere insieme. Finché l’unica forma di comunità è quella della famiglia, il conflitto si esprime per forza nel complesso edipico, insedia la coscienza morale e crea il primo senso di colpa. Quando si cerca di allargare la comunità, lo stesso conflitto si perpetua in forme che dipendono dal passato, si rafforza e provoca un’ulteriore esaltazione del senso di colpa. Dato che la civiltà obbedisce a una spinta erotica interna che le ordina di unire gli uomini in una massa intimamente coesa, essa può raggiungere tale meta solo per la via di un sempre crescente rafforzamento del senso di colpa. Ciò che cominciò col padre, si compie nella massa. Se la civiltà è il cammino evolutivo necessario dalla famiglia all’umanità, ad essa inseparabilmente si ricollega l’esaltazione del senso di colpa, come conseguenza del conflitto d’ambivalenza innato, dell’eterna disputa tra amore e desiderio di morte: un’esaltazione che forse giunge ad altezze difficilmente sopportabili per il singolo. [...]
Il Super-io della civiltà è andato svolgendo i suoi ideali ed elevando le sue esigenze. Fra queste ultime, quelle che riguardano le relazioni degli uomini tra loro vengono comprese sotto il nome di etica. In ogni tempo si è assegnato all’etica il massimo valore, come se tutti se ne aspettassero importanti conseguenze. Ed è vero che l’etica, com’è facile riconoscere, tocca il punto più vulnerabile di ogni civiltà. Perciò essa va intesa come un esperimento terapeutico, come lo sforzo di raggiungere attraverso un imperativo del Super-io ciò che finora non fu raggiunto attraverso nessun’altra opera di civiltà. Sappiamo già che il problema è come rimuovere il maggior ostacolo alla civiltà, la tendenza costituzionale degli uomini all’aggressione reciproca; e proprio per questo giudichiamo particolarmente interessante il comandamento probabilmente più recente del Super-io civile: “ama il prossimo tuo come te stesso”. Lo studio e la terapia delle nevrosi ci inducono a muovere due rimproveri al Super-io individuale: esso si preoccupa troppo poco, nella severità dei suoi imperativi e divieti, della felicità dell’Io, in quanto non tiene abbastanza conto delle resistenze contro l’ubbidienza: della forza pulsionale dell’Es in primo luogo, e, inoltre, delle difficoltà del mondo circostante reale. Quindi siamo molto spesso obbligati, per i nostri intenti terapeutici, a combattere il Super-io, e ci sforziamo di ridurre le sue pretese. Obiezioni del tutto analoghe possiamo sollevare contro le esigenze etiche del Super-io della civiltà. Anch’esso non si preoccupa abbastanza degli elementi di fatto nella costituzione psichica degli esseri umani; emana un ordine e non si domanda se sia possibile eseguirlo. Presume, anzi, che l’Io dell’uomo sia psicologicamente in grado di sottostare a qualsiasi richiesta, che l’Io abbia un potere illimitato sul suo Es. Questo è un errore, e anche negli uomini cosiddetti normali la padronanza dell’Es non può superare certi limiti. Esigendo di più, si produce nell’individuo la rivolta o la nevrosi, o lo si rende infelice. Il comandamento “ama il prossimo tuo come te stesso” è la più forte difesa contro l’aggressività umana e un esempio eccellente del modo di procedere non psicologico del Super-io civile. Il comandamento è irrealizzabile; un’inflazione così grandiosa dell’amore può solo sminuirne il valore, non cancella la difficoltà. La civiltà trascura tutto ciò; ci ammonisce soltanto che quanto più difficile è il conformarsi al precetto, tanto più meritoria è l’obbedienza. Eppure, chi nella presente civiltà s’attiene a tale precetto si mette solo in svantaggio rispetto a chi non se ne cura. Che immane ostacolo alla civiltà dev’essere la tendenza aggressiva, se la difesa contro di essa può rendere tanto infelici quanto la sua stessa esistenza! La cosiddetta etica naturale non ha qui da offrire nulla all’infuori della soddisfazione narcisistica di potersi ritenere migliori degli altri. L’etica che si appoggia alla religione fa intervenire a questo punto le sue promesse di un aldilà migliore. A mio avviso fino a quando la virtù non sarà premiata sulla terra l’etica predicherà invano. Sembra anche a me indubitabile che un reale mutamento nei rapporti dell’uomo con la proprietà gioverà in questo senso più di qualsiasi comandamento etico; ma fra i socialisti questa intuizione viene oscurata e resa inservibile agli effetti pratici da nuovi misconoscimenti idealistici circa la natura umana. [...]
Il problema fondamentale del destino della specie umana a me sembra sia questo: se, e fino a che punto, l’evoluzione civile riuscirà a padroneggiare i turbamenti della vita collettiva provocati dalla pulsione aggressiva e autodistruttrice degli uomini. In questo aspetto proprio il tempo presente merita forse particolare interesse. Gli uomini adesso hanno esteso talmente il proprio potere sulle forze naturali, che giovandosi di esse sarebbe facile sterminarsi a vicenda, fino all’ultimo uomo. Lo sanno, donde buona parte della loro presente inquietudine, infelicità, apprensione. E ora c’è da aspettarsi che l’altra delle due “potenze celesti”, l’Eros eterno, farà uno sforzo per affermarsi nella lotta con il suo avversario parimenti immortale. Ma chi può prevedere se avrà successo e quale sarà l’esito?
S. Freud, Il disagio della civiltà, Boringhieri, Torino 1978, pp. 608-611, 618-630

 

 

 

Fonte: http://www.liceomalpighi.it/didattica/mferrari/downloads/9%20Freud.doc

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