Filosofia in Jung

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Filosofia in Jung

C. G. JUNG COME PRECURSORE DI UNA FILOSOFIA PER L’ANIMA

L’ambivalenza della filosofia in Jung

La filosofia appare nell’opera di Jung  in forme variegate, spesso, a una prima considerazione, distanti e persino in contrasto l’una con l’altra. Questo modo di sondare una disciplina, un atteggiamento dello spirito, o persino una tecnica, non è affatto un’eccezione in Jung. Di qui il commento frequente – fra la condiscendenza per un difetto e il malcelato disprezzo – che si tratti di una certa confusione, tipica dell’autore. E’ tuttavia possibile una lettura che privilegi un diverso metodo ermeneutico, quello ispirato anzitutto al principio che a ciò che si interpreta deve essere attribuita la più ragionevole, la migliore delle interpretazioni possibili ( la formulazione di questo principio è , per quello che ne so, da attribuire ad Antonio Gramsci, anche se oggi è presentato da molti altri autori in versioni più elaborate ), e, in secondo luogo, ispirato a una lettura attenta all’uso contestuale dello stesso termine, secondo diverse accezioni, in diverse situazioni e con diversi interlocutori. Questa seconda avvertenza è piuttosto banale, si tratta infatti di una regola fondamentale di qualsiasi lavoro ermeneutico, e tuttavia è necessario ricordarla perché con certi autori ci si prendono libertà eccessive che possono  portare a letture superficiali. Così accade per il termine “filosofia” in Jung che si trova usato sia per prendere le distanze e negare ogni impegno filosofico da parte dell’autore ( e questo è l’uso citato più di frequente, soprattutto da coloro che vogliono salvare Jung da lui stesso, trasformandolo in un inappuntabile scienziato-clinico ), sia per affermare, all’opposto, una affinità profonda fra l’analista moderno e il filosofo antico .
In un altro articolo, apparso su questa stessa rivista e nel libro dedicato a Jung , ho già sinteticamente accennato alla problematica autodefinizione di Jung come scienziato empirico in opposizione alle “opinioni metafisiche preconcette” : posizione nella quale l’empiria diventa empirismo idealistico che sembra dare per scontato l’incolmabile iato fra le nostre rappresentazioni psichiche, delle quali saremmo “prigionieri”, e la realtà esterna. Questa tesi di Jung è, appunto, tutt’altro che empirica, anzi, potrebbe sembrare una metafisica gnoseologica alla Berkeley, corretta però con un kantismo che pone la psiche come “conditio sine qua non della nostra consapevolezza” . Ora, per Kant, si trattava di mostrare i limiti della esperienza, condizionati dalle forme trascendentali dello spazio e del tempo, limiti che impedivano di superare le condizioni stesse entro le quali soltanto l’esperienza si poteva dare e che, dunque, proibivano ogni fondata affermazione, che volesse basarsi su argomentazioni di tipo fisico, circa la natura, per speculare sulla realtà intelligibile, noumenica, libera cioè dalle forme della sensibilità. Ma, per Jung, si tratta delle creazioni dello psichismo in toto, che vuol dire affermare i limiti di qualsiasi attività conoscitiva e pratica umana. In questo senso più esteso, però, ogni richiamo a Kant diventa improprio : se lo psichismo è una realtà fisica, allora varrebbero le limitazioni derivanti dall’essere compreso solo secondo le forme trascendentali della sensibilità cioè lo spazio e il tempo; se, invece, lo psichismo eccede la dimensione puramente fisica, allora non valgono quei limiti, come accade per la ragion pratica, cioè per il giudizio morale e, in particolare, per l’imperativo categorico che, appunto, supera e contrasta le inclinazioni puramente naturali. Proprio nella stessa pagina, tra l’altro, Jung parla del nuovo indirizzo in psicoterapia che “rende inevitabile l’atteggiamento etico del terapeuta”:  dunque qui non intende più far propria l’impostazione kantiana, secondo la quale proprio nell’etica, cioè nella ragione pratica, si oltrepassano i limiti della percezione e dei desideri naturalmente condizionati, in quanto, come abbiamo detto, la forma categorica dell’imperativo richiede il superamento degli interessi naturali del soggetto.
Si potrebbe obbiettare che l’etica kantiana non è quella junghiana, quest’ultima infatti risente forse ben di più del “diventa ciò che sei” di Nietzsche: penso che si coglierebbe nel segno, ma con ciò si dovrebbe anche ammettere che non è certo con una sorta di trascendentalismo psichico, di stampo molto genericamente neokantiano, che si può assicurare l’esperienza dalle sue possibili implicazioni metafisiche. Molto schematicamente si potrebbe dire che Jung prende da Kant l’impostazione critica, quanto alla gnoselogia in rapporto con il sapere scientifico, e prende da Nietzsche, depurato dagli aspetti inflazionati del suo pensiero, la tendenza a una morale individualizzata : mettendo insieme entrambi – e non si tratterebbe affatto di un’operazione facilmente giustificabile, anzi – cercherebbe di attestarsi su una posizione critica di ogni metafisica, sia nella considerazione dei fenomeni naturali oggetto delle scienze, sia nella considerazione dei fenomeni etici, morali, politici e religiosi. In ogni caso, come si sa dalla storia della filosofia da Hegel in poi, l’argomento del superamento della metafisica è forse il tema centrale della ricerca filosofica degli ultimi due secoli. Dunque, nel caso, ogni critica di Jung alla metafisica è inscrivibile entro le coordinate del pensiero filosofico, ma proprio dicendo questo diventa impossibile far valere l’equivalenza: metafisica uguale filosofia.  
Peraltro nessun metafisico mai ha preteso di trascurare l’empiria, anzi è proprio dall’esame dell’esperienza, per via della sua apparenza contraddittoria, che si tenta di superarla, individuando una dimensione di realtà che la giustifichi. Potremmo anche dire che la metafisica sta alla fisica come la metapsicologia sta alla psicologia.  Tuttavia non esiste psicologia che non implichi una metapsicologia, infatti ogni discorrere intorno alla psiche, persino la sua mera descrizione, implica assunti metapsicologici. In ogni caso le psicologie dell’inconscio sono per definizioni metapsicologiche, dato che l’esistenza stessa dell’inconscio è, forzatamente, un costrutto teorico che si riferisce solo indirettamente alla fenomenica esperienziale. Certo Jung avrebbe controbattuto che per lui si tratta di concetti descrittivi, di modelli e di tipologie, come si addice a una scienza della dinamica psichica che, per la gran parte dei processi che osserva e sui quali interviene, non può utilizzare il metodo sperimentale.
Ma già Martin Buber aveva osservato che una posizione come quella che Jung sosteneva nella discussione con lui, negando per principio di poter affermare qualcosa di vero e reale basato sull’esperienza e insieme capace di trascendere l’umano, è una posizione altrettanto metafisica di quella alla quale si oppone . Jung si difendeva opponendo la sua concezione come consapevole astensione da affermazioni di tipo assoluto o comunque prive della possibilità di trovare un riscontro nell’esperienza. Secondo l’atteggiamento scientifico seguito da Jung: “Ogni interpretazione rimane necessariamente al ‘come se’. L’ultimo nucleo di significato può essere circoscritto, non descritto” . Ora, si potrebbe ancora obbiettare, dalla metafisica non si esce facilmente, o forse, appunto, semplicemente non si esce, poiché con quale metodo scientifico si potrebbero mai descrivere condizioni che ci portino ad affermare che “necessariamente” non si possa uscire dal “come se”? Di nuovo, forse qui ci si può riappellare al trascendentalismo kantiano per differenziarsi dalla metafisica precedente , ma sappiamo che quella stessa posizione è stata attaccata, con ragioni comunque serie, proprio come ingiustificata presupposizione di originaria separazione fra pensiero e realtà. Sia chiaro, non sto proponendo qui una soluzione, voglio solo ricordare che, comunque la si metta, è proprio l’attenersi alla ineluttabilità dell’atteggiamento filosofico ciò che vaccina da ogni indiscutibilità di qualsiasi posizione, comprese quelle scientifiche. Un saporoso paradosso potrebbe insinuare il dubbio che la posizione più criticamente scientifica è proprio quella filosofica, se per filosofia, come peraltro storicamente si è data, si intende il continuo chiedere ragioni di ciò che si dice e si fa, al di là delle pretese di ogni singola posizione filosofica.
Un’altra presa di posizione di Jung che tocca un aspetto della filosofia ma che, come vedremo, non esaurisce affatto il senso della filosofia per lui, riguarda l’atteggiamento nei confronti delle teorie. Dopo aver detto che “in psicoterapia, il grande fattore di guarigione è la personalità del terapeuta”, prosegue : “Le teorie sono inevitabili, ma come meri sussidi. Se sono elevate a dogmi, dimostrano che è stato represso un dubbio interiore. Occorrono moltissimi punti di vista teorici per dare un quadro approssimativo della multiformità della psiche; sbaglia perciò chi rimprovera alla psicoterapia di non saper unificare le proprie teorie. Un tale consenso darebbe prova soltanto di una sterile unilateralità. Né la psiche né il mondo possono essere ingabbiati in una teoria. Le teorie non sono articoli di fede, ma tutt’al più strumenti di conoscenza e di terapia; altrimenti non servono a nulla.” . E’ interessante rileggere questa frase tenendo a mente il famoso detto di Epicuro : “Vana è la parola di quel filosofo dalla quale nessuna passione umana viene curata. Come non v’è nessuna utilità s’un arte medica che non liberi il corpo dai suoi mali, così neppure dalla filosofia se non libera l’anima dalle sua passioni.” Con ciò voglio anticipare che anche questa concezione della teoria può appartenere a una filosofia e, nel caso specifico, a una filosofia essenzialmente terapeutica, come quella di Epicuro. Peraltro, la stessa molteplicità delle teorie, necessaria a non ingabbiare “la psiche e il mondo”, è essa stessa una teoria: si potrebbe ricondurla infatti a una posizione eclettica, posizione che Jung  pensa, una volta liberata da un mescolamento confuso, sia efficace proprio nel garantire un prospettivismo multiforme, necessario ad avvicinare fenomeni complessi . In altri luoghi poi, specie quando risponde per lettera, Jung mette insieme filosofia, dogmatismo e religione in senso confessionale . Ora, poiché balza agli occhi l’eterogeneità degli accostamenti, mi sembra che si possa dire che, in questi casi, Jung voglia ribadire la sua totale libertà di ricercatore, svincolato da qualsiasi credo confessionale o da qualsiasi appartenenza a una o all’altra corrente di pensiero esistente, e, al tempo stesso, voglia riservare alla sua posizione la funzione di mostrare il terreno comune che sta alla base delle credenze religiose, al di qua di ogni religiosità particolare. Questa preoccupazione, più che legittima perché volta a enucleare un terreno di ricerca e di confronto sul religioso e sullo spirituale al di sotto e al di sopra delle parti ( comprese quelle dei negatori del valore intrinseco del religioso ), è, a mio avviso, oscurata da risvolti teorici che finiscono per “ridurre” – nonostante l’ispirazione antiriduzionistica di Jung – il religioso e lo spirituale allo psicologico . E’ interessante notare come, in una “lettera a un giovane studioso” , inserita da Aniela Jaffé nell’autobiografia di Jung, questi si schermisca e offra motivi personali e professionali a proposito della preferenza per certe sue autodefinizioni : “ …Mi definisco un empirico, poiché debbo pur essere qualcosa di decente. Spesso mi si rinfaccia d’essere un cattivo filosofo, e comprensibilmente non può farmi piacere essere un che di inferiore. Come empirico per lo meno ho dato qualcosa. Dopotutto sulla lapide di un bravo calzolaio che si consideri tale non si scriverà che è stato un cattivo cappellaio  solo perché una volta ha sbagliato nel fare un cappello.” Forse dunque Jung ammetteva che, a volte, la sua espressione nel linguaggio della tradizione filosofica, era stata difettosa, d’altra parte, e a ragione, non voleva essere considerato un “filosofo di professione” ( e, come vedremo, non solo per ragioni tecnico-professionali ). Più avanti aggiunge di essere e di voler essere “soltanto uno psichiatra, perché la mia problematica essenziale, quella alla quale si rivolge ogni mia aspirazione, è il disturbo psichico, la sua fenomenologia, etiologia e teleologia. Tutto il resto svolge in me un ruolo ausiliario. Non mi sento chiamato né a fondare una religione né a professarne una. Non faccio filosofia ma mi limito a pensare nell’ambito del compito specifico che mi sono posto: essere un vero psichiatra. E’ così che mi sono trovato, e così funziono come membro della società umana”. Una dichiarazione davvero molto onesta, come forse soltanto l’età avanzata, e una lunga esperienza umana e professionale, consentono. D’altra parte Jung ha, inevitabilmente, in mente la filosofia come insegnamento universitario e scolastico, perché quella era, e, nella stragrande maggioranza dei casi, è e resta, l’unica filosofia realmente praticata. Va comunque fatto notare che queste due citazioni della lettera sono la premessa a due parti nelle quali Jung affronta il tema del linguaggio e della verità e, verso la fine, il tema di Dio e dell’esperienza, insieme a quello del rapporto fra la dimensione psichica e la materia, da un lato, e lo spirito dall’altro. Come vedremo anche da altre citazioni nelle quali invece presenta la sua attività e il suo compito come “filosofici”, sebbene di una diversa filosofia, si può notare anche nei passi già citati, che il “pensare” per “essere un vero psichiatra”, fa incontrare, evidentemente, dati i temi che affronta nella lettera, i problemi di fondo della filosofia. Jung cioè, implicitamente, rinnova già qui, quando nega di essere filosofo, l’idea stessa di filosofia, riportandola peraltro alle sue origini : filosofare non indica una professione particolare, ma un atteggiamento, un’attitudine, che può essere propria di ogni limitato ambito professionale, quell’attitudine a “pensare” la propria attività e a metterla in rapporto con la propria esperienza generalmente umana, così da poterne vedere modi di manifestazione, cause e scopi, così da interpretarla in modo “vero”. Per “essere vero psichiatra”, potremmo dire, Jung incontra il problema del linguaggio e della verità, quello dell’esperienza, di Dio e dei confini dell’anima. Rileggiamo per sentire con quali compromettenti espressioni Jung giustifica la sua scelta di linguaggio, come in essa giochino il ruolo portante la corrispondenza alla “natura dell’essere” e la dedizione alla “verità” : “La lingua che parlo deve essere ambigua, ossia a doppio senso, per adeguarsi alla natura psichica col suo duplice aspetto. Io aspiro coscientemente e intenzionalmente alla espressione anfibologica, perché questa è superiore all’univocità e corrisponde alla natura dell’essere. Se seguissi la mia inclinazione mi sarebbe assai facile essere univoco. Non è una difficoltà, questa, ma la si realizza a spese della verità. Io faccio echeggiare intenzionalmente tutti i toni concomitanti perché da un lato essi sono comunque presenti, e dall’altro danno un quadro più completo della realtà. L’univocità ha un senso solo quando si tratta di stabilire dei fatti, non quando è in gioco l’interpretazione, perché ‘senso’ non è una tautologia ma racchiude sempre in sé qualcosa di più dell’oggetto concreto dell’enunciazione.” . E’ uno dei tanti passi nei quali Jung giustifica il privilegio che deve avere il linguaggio e il pensiero simbolico, quando si tratti di psicologia del profondo. Ed è un passaggio di importanza capitale, ancora rimasto inaugurale e relegato spesso negli accostamenti alla letteratura o alle arti – forse Hillman ha tentato, a modo suo, questa via, ma ha perso per strada proprio l’elemento clinico individuale, rischiando quindi una nuova edizione di una letteratura psicologica ma eludendo il problema di una clinica simbolica – si tratta di una scelta strategica nel modo di accostarsi alla psiche quando si ricerchi “un senso” come fondamentale fattore terapeutico. Proprio per questo andrebbe preso in considerazione l’involontario cadere nell’opposto:  proprio per attenersi al simbolico si deve implicitamente identificarlo, distinguerlo, renderlo univoco. Si tratta quindi, oltre Jung, di prendere sul serio anche il compito argomentativo, senza liberarsene affrettatamente con la motivazione che psicologia del profondo, clinica e formulazioni logiche sono troppo distanti ed eterogenee fra loro. Sto dicendo che, proprio per enucleare e circoscrivere il compito della cura – anzi, i compiti terapeutici, quelli rivolti alla cura delle vere e proprie psicopatologie, e quelli rivolti alle persone sufficientemente sane ma disorientate e in ricerca – si debba mostrare più attenzione alla ‘logica’ che la può sostenere.

Verso una filosofia per l’anima

In ogni caso, come ho anticipato, nelle opere di Jung si trova un uso del termine “filosofia” per indicare qualcosa di molto positivo, verso il quale indirizzarsi per comprendere i compiti della nuova psicologia del profondo. Qual è dunque questa filosofia “altra” ? In Psicoterapia e concezione del mondo Jung afferma che “Confrontarsi con la visione del mondo è un compito che la psicoterapia assegna immancabilmente a se stessa, anche se non tutti i pazienti si spingono poi fino alle questioni fondamentali che esso comporta”. E prosegue  dicendo che “metro con cui valutare” e “criteri etici” devono “trovare risposta”, specie di fronte a richieste che non siamo autorizzati a rifiutare di chiarire, trattando i pazienti come bambini e commettendo un “errore terapeutico” che “segherebbe il ramo sul quale siamo seduti”. “In altri termini, l’arte della psicoterapia richiede che il terapeuta abbia convinzioni ultime degne di essere affermate, credute e difese, che si siano dimostrate valide o per aver risolto anche in lui le dissociazioni nevrotiche o per non aver permesso che si producessero”. Attenzione! Jung sta dicendo che è indispensabile “avere convinzioni ultime” che abbiano mostrato la loro validità terapeutica o preventiva – io quindi direi che sta sostenendo che è proprio una visione del mondo costruita e verificata biograficamente a costituire il fattore terapeutico principale per il terapeuta e, nella fase della trasformazione ( quella propriamente junghiana, nella quale si tratta di integrare e assimilare i contenuti emersi dal confronto con la psiche inconscia, dopo le fasi della confessione, della chiarificazione e dell’educazione ), è appunto la visione del mondo del terapeuta, messa in dialogo dialettico con la visione emergente da parte dell’analizzante, il principale sostegno dell’opus analitico. “La visione del mondo, in quanto formazione tra le più complesse, costituisce il polo opposto della psiche fisiologicamente condizionata, e, come dominante psichica superiore, decide in ultima analisi del destino di questa. Guida la vita del terapeuta e informa lo spirito della sua terapia.” Questa frase è molto densa, qui si dice che quello che in ultima analisi è decisivo è una visione che “guida la vita”, non solo la professione, e, proprio per questo, costituisce anche lo spirito della terapia. Mi sembra evidente perché allora io voglia chiamare Jung un precursore del rinnovamento della filosofia come stile di vita, della filosofia biografica e della cura dei sufficientemente sani attraverso l’analisi biografica a orientamento filosofico. Che cos’è ,infatti, l’orientamento filosofico se non, in definitiva, la funzione che la visione del mondo, quale risulta dal dialogo con l’esistenza propria e altrui, può giocare nella cura ? Dopo altre frasi sulla profondità dei convincimenti, tanto più forti quanto più malleabili e disposti ad ammettere la crisi nel confronto con l’altro, quanto più disposti ad ammettere l’errore ( principio questo di tutte le scienze, ma la cui origine è l’essenza del metodo filosofico da sempre ), Jung scrive: “A questo punto va ammesso che noi psicoterapeuti dovremmo essere veri filosofi o medici filosofi; anzi, che già lo siamo anche se non vogliamo ammetterlo, poiché una differenza troppo grande divide ciò che facciamo da quello che all’università viene insegnato come filosofia. La si potrebbe anche chiamare religione in statu nascendi...
E perché c’è bisogno di un ritorno alle origini della filosofia che, data la condizione ancora poco differenziata delle esperienze che si possono fare nella clinica – si può chiamare anche stato nascente di un’intuizione religiosa ? In pagine che andrebbero commentate parola per parola, Jung affronta il problema dei tipi di psicosi e di nevrosi, distinguendo quelle che hanno origine da una carenza nelle capacità di adattamento, da una psicopatologia di carattere personale – nella quale bisogna guardarsi dal voler cambiare le “rappresentazioni collettive” condivise – rispetto alle psicopatologie di chi è adattato o è capace di adattarsi, ma sente un forte conflitto. Qui il terapeuta è posto di fronte alla critica conscia, o inconscia, da parte dell’analizzante, delle “premesse che costituiscono la sua visione del mondo.” Per di più esistono “non pochi cosiddetti pazienti che, pur non essendo affetti da una nevrosi clinicamente classificabile, consultano il terapeuta a causa di conflitti psichici e altre difficoltà della vita, sottoponendogli problemi la cui soluzione implica la discussione dei principi ultimi. Spesso queste persone sanno benissimo, mentre il nevrotico lo sa raramente, o non sa mai, che i loro conflitti riguardano il problema fondamentale del loro atteggiamento e che questo atteggiamento dipende da determinati principi o idee generali, insomma da certe convinzioni religiose, etiche o filosofiche. Grazie a questi casi, la psicoterapia si estende molto al di là dei limiti della medicina somatica e della psichiatria, sconfinando in ambiti un tempo riservati a sacerdoti e filosofi. Nella misura in cui questi ultimi non operano più o in cui viene loro negata dal pubblico la facoltà di operare, si vede quale lacuna lo psicoterapeuta sia talvolta chiamato a colmare, e fino a che punto la cura d’anime e la filosofia si siano allontanate dalla realtà della vita. Al pastore d’anime si rinfaccia che si sa già quello che stava per dire; al filosofo, che le sue parole non hanno mai utilità pratica. La cosa curiosa è che entrambi ( a parte eccezioni rarissime ) professano una decisa avversione per la psicologia.” Difficile negare che qui Jung anticipi una delle motivazioni fondamentali di una cura orientata filosoficamente, addirittura individuando una categoria di “cosiddetti pazienti” che in realtà sarebbe improprio classificare come affetti da una qualche forma di psicopatologia, i cosiddetti “sufficientemente sani” che si rivolgono alla psicoterapia proprio perché la filosofia, ridotta a solo discorso, e la cura d’anime, imprigionata in una ripetizione isterilita di dogmi e precetti, non riescono a dialogare con questo bisogno di orientamento ormai generalizzato. Senza fornire, a mio parere, una adeguata disamina delle cause di questa condizione spirituale e culturale della nostra civiltà , Jung tuttavia constata, nelle pagine che seguono, che sono le concezioni e le interpretazioni dei mitologemi alla base delle credenze religiose e delle concezioni del mondo, ad essere diventate “obsolete”. Non parlano più, e con ciò i ponti che collegano coscienza e inconscio “hanno ceduto”. Il terapeuta deve sapere che si “tratta di mutamenti secolari della situazione psichica globale…rispetto ai quali il singolo è impotente.” E’ questa la ragione per la quale ci si deve mettere in ascolto delle possibili compensazioni inconsce, “destinate a sostituire i ponti crollati, ciò che è possibile soltanto con la collaborazione della coscienza. I simboli prodotti dall’inconscio devono, per diventare efficaci, essere ‘compresi’ dalla coscienza, essere cioè assimilati e integrati. Un sogno non compreso rimane un puro evento; la comprensione lo trasforma in esperienza vissuta.” . E’ questo in definitiva il tema del senso come fondamentale fattore terapeutico : “circa un terzo dei miei casi non soffre di una nevrosi clinicamente determinabile, bensì del fatto di non trovare senso e scopo alla vita. Non ho nulla in contrario a che questo stato sia definito nevrosi comune del nostro tempo” . Sono frasi scritte nel 1929 : è difficile pensare che oggi la situazione sia mutata in direzione inversa. Anzi, analisi di psicologia sociale, letteratura psicologica, frequentazione di gruppi di supervisione analitica, tutto questo mi  porta a supporre che la percentuale di coloro che soffrono “di non trovare senso e scopo nella vita” sia aumentata considerevolmente e che, quindi, gli studi degli psicoterapeuti siano diventati il punto di riferimento per questa sofferta incapacità di orientamento che colpisce particolarmente in occasione dei passaggi di vita ( nascite, adolescenza, relazioni affettive, inizio o fine della carriera lavorativa,  invecchiamento ), o in occasione di fasi difficili ( separazioni, lutti, insuccessi professionali ). Come dire che il senso offerto da una concezione del mondo tradizionale, o quello implicito nelle routines della vita quotidiana, è particolarmente fragile nella nostra epoca e nel nostro mondo, e cede di fronte alle inevitabili difficoltà dell’esistenza. Poiché le Chiese cristiane, egemoni nella dimensione religiosa in Europa, in America e in Australia, al di là della visibilità mediatica del penultimo papa, non hanno affatto riguadagnato una capacità solida di orientamento, pur rimanendo formalmente punto di riferimento religioso per molti, e poiché il sostituto delle grandi ideologie legate agli Stati ( socialismo, liberalismo, progressismo ) affonda in una sempre più cupa disillusione , cresce il bisogno di ricerca di senso, spinta da malesseri sintomatici che, spesso, vengono diagnosticati secondo il lessico psicopatologico, in assenza di una diagnosi epidemiologica del dissesto psico-culturale della nostra civiltà e in assenza di un atteggiamento capace di assumere la domanda individuale come inizio di un percorso impregiudicabile, anche nei suoi effetti sull’analista. Era proprio questa la specifica caratterizzazione che Jung attribuiva alla sua impostazione, ma è proprio questo che, secondo me, nella sua eredità, se non è andato smarrito, è stato certo annacquato e reso assimilabile a impostazioni che derubricano il problema del senso e della concezione del mondo a tema extranalitico, quando non pensano che appartenga semplicemente alla moltitudine delle costruzioni difensive di tipo idealizzante, razionalistico e superegoico. Nei casi prima citati, afferma Jung, “il medico, più che curare, contribuirà allo sviluppo delle potenzialità creative del paziente.
Quel che ho da dire comincia là dove ha inizio questo sviluppo e fine la cura” , ed è proprio con questa considerazione che inizia la frase sulla sofferenza da mancanza di senso. In  un altro saggio, Problemi della psicoterapia moderna, del 1929, dopo aver sottolineato la necessità dell’analisi didattica e dell’autoeducazione dell’educatore, che investe la sua condotta di vita, Jung si spinge ad a sostenere che : “Ora, quel che era prima un metodo di cura diventa un metodo di autoeducazione; con ciò l’orizzonte della nostra psicologia assume improvvisamente dimensioni insospettate. L’elemento cruciale non è più la laurea in medicina, ma la qualità umana del terapeuta. La svolta è importante perché mette tutto il bagaglio dell’arte psicoterapeutica ( che, esercitandosi costantemente sul malato, si è sviluppata, raffinata, sistematizzata) al servizio dell’autoeducazione, dell’autoperfezionamento, permettendo alla psicologia analitica di spezzare le catene che fino ad oggi la vincolavano alla medicina. Essa supera se stessa e colma la vasta lacuna che poneva finora la civiltà occidentale in posizione di svantaggio spirituale rispetto alle civiltà orientali. Noi sapevamo soltanto sottomettere e dominare la psiche; non conoscevamo lo sviluppo metodico dell’anima e delle sue funzioni. La nostra civiltà è ancora giovane, e le civiltà giovani hanno bisogno di tutte le arti del domatore per poter mettere in certo qual modo in ordine ciò che esse contengono di riottoso, barbarico, selvaggio. Ma a un grado più elevato di civiltà lo sviluppo deve sostituire la costrizione e lo farà.  Perché ciò accada occorre una via, un metodo che finora, come ho detto, ci sono mancati. Le nozioni e le esperienze della psicologia analitica potrebbero, mi sembra, fornircene almeno le basi, poiché nel momento in cui una psicologia in origine medica prende come oggetto lo stesso curante, cessa di essere semplicemente un metodo di cura per ammalati. Essa tratta ora le persone sane o almeno quelle che avanzano la pretesa morale alla salute psichica, e la cui malattia è tutt’al più la sofferenza che tormenta tutti. Per questo la psicologia analitica può aspirare a divenire un bene comune…Ma fra quest’aspirazione e la realtà odierna, esiste ancora un divario che nessun ponte ha ancora colmato: esso dev’essere costruito pietra su pietra” . Quel che è straordinario in questo passo non è solo il chiaro superamento dei confini dell’ambito strettamente psicoterapeutico per mezzo della stessa pratica psicoterapeutica, a confronto con le richieste che la cura impone all’analizzante come all’analista, ma l’accenno al fatto che in Occidente si sia finora badato a domare l’anima più che ad ascoltarla e a trarne un metodo di autoeducazione e di trasformazione: sta proprio in questo, a mio parere, la radice di una ripresa innovativa, radicalmente innovativa, dell’antica filosofia come modo di vita. Infatti, tanto in Platone quanto in Epicuro – due estremi significativi perché contengono tutto l’arco delle possibilità intermedie – si tratta di “domare” il cavallo delle passioni, o, proprio nel detto epicureo sulla filosofia come cura, già citato, l’espressione precisa dice:
Έκβάλλει πάθος
che significa, alla lettera, buttar fuori, espellere il pathos. Ora, e questa è la grande innovazione, quella che deve far epoca nella storia della filosofia e delle concezioni del mondo, la psicologia del profondo avanza la proposta di passare allo studio della lingua delle passioni, della lingua equina per stare nella metafora, e di praticare l’ascolto e il discernimento, nell’attesa di poter assumere in proprio anche i suggerimenti che emozioni e affetti possono portare inscritti nel loro peculiare linguaggio.
Proprio questa scoperta della psicoanalisi, tuttavia, riduce di molto la sua portata finché si crede, con Freud, che la sessualità, specie infantile, sia la chiave ultima per entrare nel mondo del linguaggio dell’inconscio. Con questa riduzione il pathos dell’anima torna a parlare con un linguaggio povero, che ripete un magro vocabolario di base, infarcito di decine di sinonimie. Procedimento che influisce anche sulla traslazione, perché la blocca sulla persona dell’analista, producendo un effetto di infantilizzazione e di rimuginio sul “proprio passato, assorto nel rimpianto di cose a cui non si può più porre rimedio. E’ infatti diffusa nei nevrotici la tendenza morbosa a ricercare il motivo della loro inferiorità nelle nebbie del passato: nell’educazione sbagliata, nel carattere dei genitori, e così via. La minuziosa esplorazione di tutte queste determinanti secondarie avrà sul presente stato di inferiorità del paziente un’influenza pari a quella che un’indagine approfondita delle cause della grande guerra avrebbe, per migliorarli, sugli attuali rapporti sociali. Quello che veramente importa è invece la realizzazione morale della personalità nel suo insieme” . Dunque questo è lo scopo ultimo, più alto dell’analisi – al quale naturalmente bisogna sempre saper rinunciare quando non si presentino le condizioni, quando cioè si tratti soprattutto di rendere possibile il recupero di un deficit di adattamento – uno scopo pienamente spirituale, religioso si potrebbe dire, ma, se si vogliono mantenere aperte tutte le vie lessicali e interpretative senza pregiudicarne la scelta nel senso di una qualche credenza particolare, allora è meglio chiamarlo uno scopo pienamente filosofico.
Ne seguono altre importanti conseguenze “tecniche” a proposito del transfert, generalmente ormai rimosse dall’orizzonte della maggior parte degli analisti neo-junghiani perché vanno molto al di là della stretta osservanza dei paradigmi della psicoanalisi e della psicoterapia. Jung infatti pensa che la traslazione sia una proiezione da superare per accedere alla “relazione individuale”! “Nonostante l’analisi riduttiva, egli si rivolgerà al terapeuta non soltanto come a un oggetto sessuale, ma come al partner di un rapporto puramente umano, in cui a ciascuno sia garantita la sua posizione individuale...Quando le proiezioni sono riconosciute per tali, il particolare tipo di rapporto noto come traslazione cessa, e comincia allora il problema della relazione individuale…il diritto di proseguire spetta soltanto al terapeuta che si sia sottoposto ad analisi didattica o che porti nel suo lavoro un tale amore per la verità da riuscire ad analizzare attraverso i suoi pazienti se stesso. Un terapeuta che non si senta attratto dalla prima cosa e non sia capace della seconda non dovrebbe mai cimentarsi con l’analisi.” Poiché ormai tutti gli analisti si sono sottoposti a una o a due analisi didattiche, tutti si sentono a posto. Ma quello che Jung qui richiedeva è che l’analisi didattica insegnasse la relazione individuale, una volta usciti dalle proiezioni transferali: oggi, invece, le analisi didattiche, anche quelle junghiane, nella maggior parte dei casi insegnano che transfert e controtransfert sono tutto, alcuni poi sostengono persino che su questo punto Jung si sia gravemente sbagliato . La prospettiva di Jung è peraltro chiarissima, infatti nelle pagine che seguono l’ultima citazione afferma che si deve passare dal vincolo della traslazione a un “legame liberamente negoziato”, che “il paziente…deve sentirsi umanamente uguale a chi lo cura, avere realmente gli stessi diritti”, che per far questo “è necessario il sapere, non un sapere puramente medico che abbracci un limitato settore, bensì una vasta conoscenza di tutti gli aspetti dell’anima umana”. E conclude: “Per questo è necessario un mutamento radicale nel modo di concepire la vita”. Se si traducesse questa espressione in una antica terminologia filosofica, ripristinata dal magistero di Pierre Hadot, si dovrebbe parlare di “conversione”, esattamente quel mutamento radicale di vita che distingue, per gli antichi, la scelta di cercare di vivere filosoficamente, cioè cercando un senso che rispetti e dia ragione delle istanze della personalità nel suo insieme, che confronti le opinioni  con le esigenze della verità, che sappia e senta di appartenere al mondo e agli altri. Queste sono appunto le trascendenze che distinguono la vita filosofica dalla vita che si consegna al mondo dato per scontato, alle quali, conseguentemente a quanto si è detto sulla traslazione, va aggiunta la trascendenza della figura del magistero interiore rispetto alle propensioni egoiche ( quel che Jung indicava come rapporto dell’io con il Sé ) . Infine la filosofia appare quando Jung cerca di delineare lo scopo della psicoterapia : “lo scopo principale della psicoterapia non è quello di portare il paziente a un impossibile stato di felicità, bensì di insegnargli a raggiungere stabilità e pazienza filosofica nel sopportare il dolore. Il compimento e la pienezza della vita richiedono equilibrio tra dolore e gioia; essendo il dolore sgradevole, è naturale tuttavia che si preferisca non misurare mai a quanti timori e affanni sia destinato l’uomo” .Che questa affermazione non sia in contrasto con la ricerca della felicità, perseguita da molte filosofie antiche, porterebbe a svolgimenti che qui non posso affrontare, basterà solo accennare che quasi sempre si tratta di una felicità che, appunto per essere stabile, sa confrontarsi, reggere e superare il dolore .
Si deve anche considerare il ruolo che svolge, proprio come metodo clinico, il procedimento dialettico, il che comporta, innanzitutto, pensare la relazione e il paziente stesso come un sistema: “Partendo dall’esigenza che l’analista sia egli stesso analizzato, si arriva all’idea del procedimento dialettico: con questo procedimento il terapeuta entra in relazione con un altro sistema psichico come interrogante e come interrogato” . A sua volta il sistema psichico con il quale si entra in rapporto e che rispecchia diversamente il proprio, fa parte di un sistema che lo contiene: “Il solo punto di vista clinico non penetra né può penetrare la natura delle nevrosi, perché questa è più un fenomeno psicosociale che una malattia in senso stretto. La nevrosi ci costringe a estendere il concetto di ‘malattia’ al di là di un corpo singolo disturbato nelle sue funzioni e a considerare il nevrotico come un sistema di relazioni sociali ammalato” . Siamo qui molto vicini a un’ottica sistemica, anche se, forse, come ho già fatto notare in un altro articolo, non è sufficientemente chiaro in Jung che i “due sistemi psichici” devono essere considerati, in questa ottica dialettico-sistemica, un solo sistema articolato in diverse polarità che, nella loro dinamica, possono essere pensate e sentite come formanti un campo terzo o, meglio, in relazione alle componenti inconsce dei due partecipanti, un campo a cinque dimensioni . Come ho già detto, in Jung è teorizzato il passaggio dall’analisi delle reciproche traslazioni all’analisi dialogica, da lui chiamata espressamente “relazione individuale”. Il carattere dialogico di questa dimensione e fase analitica giunge fino ad aprire enormi questioni circa la consapevolezza della propria parzialità e, proprio per questo, circa la coscienza di ciò che non si riesce a determinare e si sente come appartenenza a una totalità sovrapersonale. Jung arriva a queste posizioni mentre sta discutendo della validità relativa di ogni stadio della psicoterapia e delle corrispondenti teorizzazioni ( confessione o catarsi, chiarificazione, educazione e trasformazione ). L’incapacità di dialogare  con l’altro come altra pratica e altra teoria terapeutica, segna il limite del dialogare che in realtà è, sotterraneamente, un assimilare l’altro alla propria posizione teorica che rimane “fuori discussione”, perché ogni obiezione potenziale del cosiddetto paziente viene letta come una forma di difesa razionalizzante; al contrario, per Jung, proprio la validità di tutte le pratiche e le teorie deve invitare a una meta-dimensione teorica e pratica, capace di tener conto delle infinite facce del prisma della verità ( che questa sia la situazione attuale, anzi che oggi quel che Jung lamentava sia moltiplicato a potenza, va da sé: “freudiani che non capiscono una parola di Adler, adleriani che non vogliono sentir parlare di inconscio. Ognuno è prigioniero della definitività caratteristica del suo stadio, donde quella confusione di idee e concezioni che rende oltremodo difficile orientarsi in questo campo” ).
Ne nasce una nuova e diversa concezione del “discorso vero” – e va ricordato che anche questa ricerca del “discorso vero” è una delle trascendenze che distinguono la filosofia come pratica di vita, secondo Hadot – che comporta, quasi radicalizzando la regola del dialogo socratico e platonico, l’arrestarsi della propria “ragione” quando questa non sia il risultato di una condivisione della sua verità: “Naturalmente il comprendere è un processo del tutto soggettivo e può essere unilaterale, nel senso che comprende il terapeuta ma non l’ammalato: il terapeuta si sente allora in dovere di persuadere il paziente e se questi non si lascia persuadere, il terapeuta rimprovererà al paziente le sue resistenze. Ma io preferisco in tal caso, quando cioè la comprensione è unilaterale, dire tranquillamente che non capisco: infatti la comprensione del terapeuta, in fondo, non conta e tutto dipende invece dal fatto che comprenda il paziente. L’intendere dovrebbe quindi essere piuttosto un ‘intendersi’, frutto di riflessione comune.” Dunque dialogo e dialettica diventano dinamismo e metodo di un campo unico che, sintomo dell’interrelazione sociale e familiare trasferita nell’incontro delle persone e dei loro affetti, ospita una comune ricerca di consapevolezza. Ed è questa ricerca il senso stesso dell’esistenza umana: “La coscienza umana ha creato l’esistenza obiettiva e il significato, e così l’uomo ha trovato il suo posto indispensabile nel grande processo dell’essere”, e ancora “ Poiché una creazione senza la coscienza riflessiva dell’uomo non ha alcun senso riconoscibile, avanzando l’ipotesi di un senso latente si attribuisce all’uomo un significato cosmogonico, un’autentica raison d’etre” . Come chiamare questo atteggiamento ? Mi sembra legittimo chiamarlo “orientamento filosofico” poiché richiama quella ricerca che, prima e oltre ogni differenziazione di contenuto, accomuna ogni interrogazione che tenta un passo di consapevolezza nell’oceano del misterioso esperire infinite dimensioni ancora inspiegate e incomprese, esterne e interne. La appassionata ricerca della sapienza è una buona espressione per esprimere quella tensione che attraversa l’esperienza individuale, le tecniche, le pratiche delle scienze e l’anelito religioso ( senza diventare esclusiva di nessuna attività particolare, e senza peraltro confonderle, ma, insieme, unendole nella affinità dello slancio ).
Questo scritto comincia a tratteggiare una genesi parziale di quanto ho proposto come “analisi biografica a orientamento filosofico” che, unita alla riscoperta hadotiana della filosofia come modo di vivere e ad altri contributi , porta a formulare una proposta che intende sviluppare il metodo e la pratica analitica, soprattutto nei confronti dell’accompagnamento della “ricerca di senso” per coloro che, sufficientemente sani o sufficientemente sanati, trovano sconfortanti le formulazioni delle proposte collettivamente disponibili e non sono, peraltro, disposti a rinunciare a qualsiasi tentativo personale. Anche a proposito di uno degli sviluppi più importanti dell’analisi filosofica rispetto alla sua sorella maggiore, l’analisi psicologica junghiana – cioè la posizione analitica come articolazione professionale di una vocazione esistenziale per la ricerca amorosa della sapienza – possiamo trovarne un’anticipazione in Jung. Va premesso che la ragione per la quale si tratta di basare la formazione professionale sulla vocazione esistenziale riguarda, per un verso, la necessità di rinnovare, tornando alle radici, la filosofia stessa, come dimensione generalmente umana, e quindi irriducibile a qualsiasi professione o condizione sociale ( dal mendicante all’amministratore delegato di una multinazionale, dallo schiavo all’imperatore, come nell’esempio di Epitteto e Marco Aurelio ), per un altro riguarda invece la valutazione critica dei risultati della clinica: troppe volte constatiamo, nelle riprese delle analisi, o nelle seconde analisi, quanto poco l’esperienza di cura sia diventata disciplina autonoma, stile di vita, costante capacità di esercizio attento dell’unione della dimensione fantastico-simbolica con quella riflessiva. Proprio a questa esigenza, all’esigenza di rendere autonomo il cosiddetto paziente si rivolgevano gli sviluppi junghiani della tecnica analitica, principalmente attraverso l’iniziazione alla immaginazione attiva. Jung riprende qui, senza saperlo, l’antica pratica degli esercizi filosofici come allenamento costante, teso a favorire una certa disposizione dell’insieme della persona, dalla dimensione corporea a quella affettiva e intellettuale ( proprio perché riguardano la totalità della persona Hadot li ha chiamati “esercizi spirituali” ). Il rapporto che così si crea fra esercizio, autoeducazione, indipendenza dal terapeuta, autocreazione nell’ascolto dell’inconscio, apertura alla totalità e quindi trascendenza dell’io, è della massima importanza e costituisce il passaggio più sicuro fra analisi e pratica filosofica.
Infine Jung pensò anche, a completamento della sua impostazione, che si dovesse , sulla base delle concezioni acquisite nella pratica analitica, inaugurare una nuova forma educativa, che immaginò come una “scuola per adulti”, avendo in mente non tanto l’età anagrafica, ma piuttosto lo scopo di una scuola rivolta ai problemi esistenziali, a differenza delle istituzioni scolastiche finora esistenti, rivolte principalmente a preparare le persone per farle entrare nel sistema professionale della divisione del lavoro.   
Come può capire il lettore che, abituato alla corrente letteratura di psicologia del profondo, si sia anche soltanto incuriosito per le pubblicazioni che riguardano la consulenza filosofica, si tratta, in questo articolo, del tentativo di aprire una strada diversa. Richiamare, con la rilettura di testi capitali dell’opera di Jung, la sua duplice disposizione nei confronti della filosofia, facendone emergere la grande intuizione di un possibile rinnovamento della concezione filosofica proprio dall’interno dell’impresa di fondazione della psicologia analitica, disegna un percorso di continuazione e di sviluppo ulteriore del suo insegnamento, che ha conseguenze sia sulla formazione degli analisti che sulla clinica e, soprattutto, inserisce l’analisi tra le pratiche filosofiche che caratterizzano la vocazione  ( personale e  propria di una scuola ) a una disciplina di vita dedita all’amore della sapienza, come tratto distintivo della particolare dignità dell’esistenza umana. La consulenza filosofica, almeno nella maggior parte dei suoi rappresentanti fino ad oggi, trascura ed evita il passaggio attraverso le dinamiche della traslazione, e con ciò rimane estranea al compito filosofico di imparare la decisiva novità che le psicologie del profondo hanno portato nella cura delle psicopatologie e, per estensione, in ogni cura di un rapporto umano. Rimane quindi prigioniera di un intellettualismo filosofico che la stessa rivisitazione delle origini della filosofia dovrebbe rimettere, almeno in parte, in discussione. Ma, ancor di più, la stessa denominazione originaria della consulenza come philosophische praxis, scelta dal fondatore, Gerd Achenbach , allude proprio all’aspetto professionale, alla praxis intesa in modo simile all’ufficio dell’avvocato o allo studio del medico: proprio su questo punto, invece, l’analisi biografica a orientamento filosofico, tenta di riportare l’esercizio professionale a contatto con una radice vocazionale che comprende e supera ogni professione , rivolgendosi alla filosofia come via comune a ogni specializzazione che voglia comprendere se stessa e viversi nella sua dimensione generalmente umana.


Questo articolo è una sorta di ampliamento e approfondimento di temi già preannunciati in “L’inventario e la traduzione. Psicologia analitica e pratica filosofica” In Rivista di Psicologia analitica 68/2003, n.s. n.16.

Vedi la nota precedente.

C.G.Jung. Biografia e teoria, Bruno Mondadori, Milano.

Questioni fondamentali di psicoterapia (1951) in Opere. Pratica della psicoterapia, vol. 16, Bollati Boringhieri, Torino, 1981, p. 135.

Problemi della psicoterapia moderna  (1929) in Opere, vol. 16, cit. p. 83

Sul rapporto con la figura e il pensiero di Nietzsche rimando al mio saggio Nietzsche e Jung in A. Carotenuto ( a cura di ), Trattato di psicologia analitica, Utet, Torino, 1992.

Vedi a questo proposito gli articoli miei e di A. Petterlini sull’argomento in Rivista di psicologia analitica 54/96 n. s. n. 2.

Psicologia dell’archetipo del fanciullo (1940), in Opere, vol. 9, tomo primo, p. 150, Bollati Boringhieri, Torino, 1980.

“Il mio accontentarmi dell’esperibilità psichica e il mio rifiuto della metafisica (…) sono molto vicini alla definizione kantiana della cosa in sé come “concetto limite puramente negativo”. E’meglio evitare ogni asserzione riguardo al trascendente, in quanto si tratterebbe solo di una ridicola presunzione della  mente umana, inconsapevole della sua limitatezza. Nel definire Dio o il Tao come un impulso dell’anima o uno stato psichico, ci si limita a compiere un’asserzione su ciò che è conoscibile, e non invece su quanto è inconoscibile , intorno al quale non possiamo affermare assolutamente nulla” in Commento al ‘Segreto dl fiore d’oro’ (1929-1957) in Opere, vol. 13, Bollati Boringhieri, Torino, 1997, p.63.

Medicina e psicoterapia (1945), in Opere, vol. 16, Bollati Boringhieri, Torino, 1981, pp. 98-99

“Sentenze e frammenti” n. 2 nell’edizione C. Diano ( ed. Usener 221), in Scritti morali, Rizzoli, Milano, 2001, p. 77.

La valutazione positiva dell’eclettismo – con la quale concorda la mia proposta filosofica che, sulla base del metodo biografico, si definisce eclettica, sincretica ed ecumenica, vedi La filosofia come stile di vita. Introduzione alle pratiche filosofiche, Bruno Mondadori, Milano, 2003, scritto con L. V. Tarca – si trova, significativamente, in Risposta a Martin Buber,  in Opere, vol. 11, Bollati Boringhieri, Torino, 1979, pp. 467 sgg.,  e costituisce la parte dello scritto per me più interessante, proprio perché, in nuce, indica una alternativa possibile, sul piano filosofico, alla posizione solo difensiva e contradditoria dello Jung che si trincera dietro una problematica empiria.

  Cfr. la Lettera a The Listener del gennaio del 1960, che sarebbe da commentare parola per parola, in Opere, Psicologia e religione, vol. 11, Bollati Boringhieri, Torino,  1979, pp.487-90.

Cfr nel mio C. G. Jung.Biografia e teoria. Bruno Mondadori, Milano, 1998, il capitolo dedicato al rapporto con la dimensione spirituale.

In C. G. Jung ( a cura di A. Jaffé), Ricordi, sogni e riflessioni ( 1962 ), Rizzoli, Milano, 1978, p. 435-6.

Ibidem.

Spingono a queste considerazioni anche le sottili osservazioni di Italo Valent in “…sempre inconsapevoli…” saggio che fa parte di I. Valent, S. Vitale, L’inconscio, Moretti &Vitali, Bergamo, 1988.: “In particolare si dovrà riflettere almeno su questo: se, in una prospettiva culturale come l’attuale, in cui per varie e notevoli motivazioni si guarda volentieri al primato del simbolico-metaforico sull’epistemico –argomentativo, involontariamente non si predispongano allo scopo strategie che fanno prioritariamente capo, invece, all’esigenza di identificare, distinguere, argomentare; e se, per altro, gli spesso mal tollerati procedimenti formali di analisi e di giudizio, nonché l’esercizio del sospetto principio di identità-non contraddizione e delle noiose regole della determinatezza sintattica e semantica, non dovrebbero essere sinceramente riabilitati almeno in quanto anch’essi espressioni, a loro modo, di incisiva portata simbolico-metaforica. Valent aggiunge in nota – a   proposito di enunciazioni di Jung, pur apprezzato come il più sensibile, tra i teorici della psicoanalisi, a una dialetticità come quella dell’uno-tutto eracliteo – alcuni esempi: “ ‘La scienza si serve di concetti troppo generali per poter soddisfare la ricchezza soggettiva della vita singola’ – si tratta ovviamente di un punto di vista ‘troppo generale’, e quindi anch’esso insoddisfacente per le esigenze della vita singola. ‘La lingua che parlo deve essere ambigua…per adeguarsi alla natura psichica nel suo duplice aspetto’ – non sarà un’affermazione del parlante da intendersi come a sua volta ambigua? ‘…ciò che è univoco, che non ha contraddizioni, è unilaterale’ – se non vorrà riuscire una tesi unilaterale, non dovrà convivere con qualcuna delle sue antitesi: per esempio, che univoco non significa affatto unilateralità?”.

Ho già toccato questo tema nell’articolo “L’inventario e la traduzione”, già citato, pp. 138-40.

  Saggio del 1942, in Opere, vol. 16, cit., pp. 89-90.

Jung non poteva sapere quale profonda intuizione anche in merito alla storia della filosofia stesse enunciando. Per averne un’idea basterà leggere con attenzione l’articolo di Moreno Montanari su questo stesso numero della rivista e lasciarsi indirizzare dai testi citati di Pierre Hadot, il quale, appunto, ha studiato la trasformazione da filosofia come modo di vita, unità indissolubile di stile d’esistenza e di discorso, a filosofia come discorso teorico, insegnabile come tale nelle scuole. Questi processi sono stati resi possibili dall’incontro fra filosofia e cristianesimo, dato che il cristianesimo aveva già un suo modo di vita, nel quale integrò anche molti esercizi filosofici ( per esempio l’esame di coscienza ), e quindi poteva servirsi, come di uno strumento di affinamento della sua teologia, delle teorie filosofiche. Questo passaggio scorporò il discorso filosofico dalla sua base vivente e ne permise le successive vicissitudini come disciplina puramente teorica.

Questioni fondamentali di psicoterapia (1951), in Opere, vol. 16, cit., p.133.

Ibidem.

Per qualche spunto, che si muove in una direzione diversa dal solo esame delle condizioni psichico-spirituali come si può trovare in Jung, devo qui forzatamente rimandare ad alcuni miei scritti, innanzitutto a La filosofia come stile di vita, cit., poi almeno a “La psicoanalisi come sintomo  della crisi del patriarcato” in Rivista di psicologia analitica, n. s. n. 1, 53/97 e a “La civiltà dell’accumulazione e le trasformazioni della psicopatologia” in AA. VV., La psiche nell’epoca della tecnica, La biblioteca di Vivarium, Milano, 2007.

Questioni fondamentali in psicoterapia, cit., p. 134.

Ibidem.

Scopi della psicoterapia (1929), in Opere, vol 16, cit., p.50.

Questo è  solo un cenno, molto superficiale, circa i motivi che spingono a cercare nella psicoterapia un orientamento di senso  (e rimando per questo alla nota xxiii ), ma sono anche quelli addotti da Jung in La psicoterapia oggi (1941) pp.113 e sgg.

Scopi della psicoterapia, cit., p. 50.

Problemi della psicoterapia,cit., pp. 83-84.

Epicuro, cit., p. 76.

Valore terapeutico dell’abreazione ( 1921-1928), in Opere, vol.16, cit., p. 145.

Ivi,p.146.

Per averne un’idea basterebbe scorrere gli indici dei numeri di questa stessa rivista, rileggendo gli articoli dedicati alla traslazione, si troverebbero così alcuni esempi di esplicita dissociazione dall’impostazione del tema transferale e controtransferale propria di Jung.

Su queste questioni – le più importanti nell’indicare che cosa si debba intendere per filosofia come stile di vita e per analisi biografica a orientamento filosofico, rimando al mio articolo, già apparso su questa rivista, dal titolo “Che cosa è l’analisi biografica a orientamento filosofico ?” ( cfr il numero 73/2006 n.s. n. 21 della Rivista di psicologia analitca) Interessantissimo è lo sviluppo di pensiero che in Scopi della psicoterapia (1929), in Opere, vol. 16, cit., pp. 56-60 partendo dalla necessità di raffigurare oggettivamente le fantasie, porta Jung a impostare così il processo di trascendenza dell’io “Con questo metodo, se così mi è lecito chiamarlo, il paziente può rendersi  indipendente per autocreazione: non dipende più dai suoi sogni o dal sapere del suo terapeuta, ma nel dipingere per così dire sé stesso può plasmare sé stesso, perché quel che dipinge è fantasia operante, è ciò che opera, che agisce in lui. E ciò che agisce in lui è egli stesso, ma non più nell’equivoco senso precedente che gli faceva scambiare il suo Io personale per il Sé, bensì in un senso nuovo, a lui finora estraneo, nel quale il suo Io appare come oggetto di ciò che opera in lui”. 

Psicoterapia e concezione del mondo, cit., p. 92.

Su questo punto, specificamente per quanto riguarda Epicuro, rimando al mio libro Il nudo piacere di vivere, A. Mondadori, Milano, 2006.

Principi di psicoterapia pratica (1935), in Opere, vol.16, cit., p. 12.

Che cos’è la psicoterapia ( 1935 ), in Opere, vol.16, cit., p. 30.

“L’inventario e la traduzione. Psicologia analitica e pratica filosofica” in Rivista di psicologia analitica n. s. n. 16, 68/2003 : si tratta di un articolo nel quale, a differenza di questo, traggo una sorta di bilancio dei punti di adesione e di differenziazione dalle premesse implicite nel modo di considerare la filosofia da parte di Jung. In un certo senso l’articolo presente dovrebbe idealmente precedere l’altro, perché, pur nella sua incompletezza, comincia a ricostruire l’uso del termine “filosofia” in Jung.
A proposito della concezione sistemica cfr. l’articolo di Patrizia Peresso,  “Il Sé come luogo d’incontro fra creatura e pleroma. Un confronto fra Carl Gustav Jung e Gregory Bateson” in Studi Junghiani, n.12, 2000.

Principi di psicoterapia pratica, cit., p. 12.

Comunque Jung sostiene in Ricordi, sogni e riflessioni , cit., di propendere per l’idea che ci sia una sorta di trasmissione impersonale di ciò che di incompiuto e irrisolto è rimasto nella linea delle generazioni precedenti, e precisa  che questi problemi possano essere di natura collettiva e si ripercuotano sul singolo come “conseguenza di un mutamento intollerabile nell’atmosfera sociale” ( p. 282 ). Jung chiude questo pensiero con la frase, secondo me decisiva e programmatica per una nuova concezione dell’analisi : “La psicoterapia non ha finora tenuto conto di questa circostanza” !.

Dopo qualche riga, Jung continua così : “Eppure ciascuno porta avanti solo per un tratto la fiaccola della conoscenza, finché arriva un altro che gliela toglie di mano. Se fosse possibile assistere a questo processo in modo impersonale, se si potesse per esempio ammettere che non siamo noi i personali creatori delle nostre verità, ma solo i loro esponenti, semplici portavoce delle necessità psichiche del nostro tempo, eviteremmo molto veleno e amarezza, e il nostro occhio coglierebbe i nessi profondi e sovrapersonali dell’anima dell’umanità” in Problemi della psicoterapia moderna, cit., p. 78.

L’applicabilità pratica dell’analisi dei sogni ( 1931-34 ), p. 157.

Ricordi, sogni, riflessioni, cit., pp. 307, 437.

Cfr. l’articolo prima citato “Che cosa è l’analisi biografica a orientamento filosofico?”, rispetto al quale l’articolo presente costituisce una premessa che ne intende articolare la specifica radice junghiana.

Alludo qui a quanto può essere utilizzato in questa prospettiva e che  è stato elaborato nelle psicologie del profondo, nell’antropologia filosofica e nelle scienze, umane e naturali, ma, in particolare, alludo al mio lavoro e al lavoro di L. V. Tarca, anche se qui non c’è spazio sufficiente per indicare il contributo che può dare l’impostazione di Tarca nell’offrire una comprensione unitaria delle due forme del pensare ( questione centrale per Jung , per Fromm, per Bion, per Matte Blanco e per molti altri analisti di tutte le scuole ).

Cfr. sull’immaginazione attiva i lavori di F.  De Luca Comandini, in A. Carotenuto ( a cura di ), Trattato di Psicologia Analitica, Utet, Torino, 1992, e F. De Luca Comandino e R. Mercurio, L’immaginazione attiva,  La biblioteca di Vivarium, Milano, 2002.

Su questo tema cfr. l’articolo di M.Montanari, con la relativa bibliografia, su questo stesso numero della rivista.

Una citazione fondamentale che lega l’attività oggettivante, che dà corpo al simbolico ( e con questo anticipa anche motivazioni fondamentali dell’introduzione del gioco della sabbia in analisi, tema sul quale rimando ai lavori di Paolo Aite e dei colleghi del Laboratorio Analitico delle Immagini ), preannuncia l’immaginazione attiva e apre alla dimensione di una disciplina trasformativi costante, si trova in Scopi della psicoterapia, cit., pp. 96-97: “Ma perché mai incoraggio i pazienti giunti a un determinato stadio del loro sviluppo a esprimersi mediante il pennello, la matita o la penna? Ancora una volta, per scatenare in loro un effetto. Nello stato psicologico infantile precedentemente descritto, il paziente rimane passivo; ora invece diventa attivo e per prima cosa rappresenta quel che ha visto passivamente, trasformandolo in un’azione personale, sua propria. Non si limita a parlarne, fa. Dal punto di vista psicologico c’è un’immensa differenza tra l’avere con il proprio terapeuta, alcune ore la settimana, un interessante colloquio, il cui risultato rimane in qualche modo campato in aria, e il darsi da fare per ore e ore con pennelli e colori refrattari per produrre una cosa che, superficialmente considerata, è assolutamente senza valore. Ma se questa cosa fosse davvero senza valore per il paziente, lo sforzo di disegnare gli ripugnerebbe talmente che difficilmente si accingerebbe una seconda volta a un tale esercizio. Poiché invece la sua fantasia non gli sembra del tutto insensata, egli, realizzandola, ne potenzia ulteriormente l’azione. Inoltre, per dare forma materiale all’immagine da esprimere, sarà costretto a osservarla di continuo in ogni sua parte, ed essa potrà così dispiegare completamente il suo effetto. Un elemento di realtà si sarà in questo modo introdotto dov’era soltanto la fantasia, conferendo a quest’ultima un peso, un’efficacia maggiore. E dalle immagini che il paziente produce autonomamente emanano effetti che è veramente difficile descrivere. Basta ad esempio che un paziente si renda conto, qualche volta soltanto, che realizzando un’immagine simbolica si libera da uno stato psichico penoso, perché non appena le cose vanno male si aggrappi nuovamente a questo mezzo. Eccolo diventato padrone di qualcosa di inestimabile: del primo passo verso l’indipendenza, del passaggio alla maturità psicologica. Con questo metodo, se così mi è lecito chiamarlo, il paziente può rendersi indipendente per autocreazione: non dipende più dai suoi sogni o dal sapere del suo terapeuta, ma dal dipingere per così dire sé stesso può plasmare sé stesso, perché quel che dipinge è fantasia operante, è ciò che opera, che agisce in lui. E ciò che agisce in lui è egli stesso, ma non più nell’equivoco senso precedente che gli faceva scambiare il suo Io personale per il Sé, bensì in un senso nuovo, a lui finora estraneo, nel quale il suo Io appare come oggetto di ciò che opera in lui.” La necessità dell’aspetto educativo Jung l’ha già concepita come fase dell’analisi stessa, assimilando le concezioni adleriane, è in questo contesto che indica l’importanza decisiva dell’esercizio: “Né dobbiamo trascurare il fatto che le false strade della nevrosi diventano altrettante pervicaci abitudini, che nessuna comprensione riesce a far scomparire finché non siano sostituite da altre abitudini, acquisibili unicamente con l’esercizio. Ma questo lavoro può essere compiuto solo mediante un’educazione appropriata. Il paziente deve essere letteralmente ‘trascinato’ su altri binari, ciò che può essere realizzato soltanto da una volontà educativa” in Problemi della psicoterapia moderna, cit., p. 77.

Cfr W. Mc Guire e R. F. C. Hull ( a cura di ), Jung parla  (1977), Adelphi, Milano, 1995..

Non è questo il luogo per diffondersi sulle differenze con le concezioni, peraltro assai diversificate, della consulenza filosofica, né per affrontare a fondo il pensiero e la proposta di Achenbach, rispetto al quale vorrei però aggiungere almeno due spunti: il primo che il tipo di consulenza da lui proposto rimane rigorosamente legato alla reiterazione e alla approfondimento delle domande, il che appare molto vicino non solo alla temperie filosofica dominante, ma anche a quella psicoanalitica e persino al senso comune colto.  Posta così la questione, si finirebbe alla riproposizione di uno scetticismo, peraltro solo teorico, e non modo di vivere, mitigato dalla dialogicità,  cancellando gran parte degli sforzi di altre posizioni filosofiche, a partire da molte di quelle delle scuole antiche; in secondo luogo vorrei ricordare che nel suo saggio, dedicato al rapporto fra “filosofia, consulenza filosofica e psicoterapia” ( in  La consulenza filosofica, 1987, Apogeo, Milano, 2004, p. 131 ) finisce per dichiarare che “ con le tesi qui esposte, non sono andato lontano dai pensieri di C. G. Jung, che nel suo saggio Psicoterapia e visione del mondo ha scritto…” e segue una citazione usata anche in questo scritto sul fatto che gli psicoterapeuti dovrebbero essere dei veri filosofi. Ma, a questa citazione, non segue nessuna elaborazione concreta né del contributo di Jung al rinnovamento filosofico né, tantomeno, la capacità di far interagire concretamente il patrimonio delle psicologie del profondo con la nuova forma filosofica di consultazione.

Questo non significa, ovviamente, che l’analisi biografica a orientamento filosofico non sia una professione ma che al professionista è richiesta innanzitutto una vocazione e un impegno filosofico – cioè un impegno a una disciplina di vita – che riguardano per principio qualsiasi professione e che devono trovare una loro estrinsecazione nella formazione di una comunità filosofica. Su tutto questo vedi  i saggi di L.V. Tarca e di M.Lo Russo in AA.VV., Pratiche filosofiche e cura di sé, Bruno Mondadori, Milano, 2006, oltre al già citato La filosofia come stile di vita scritto da me e da L. V. Tarca.

 

Fonte: https://boa.unimib.it/retrieve/handle/10281/4657/4891/jung-fil.rtf.doc

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