Ansia disfunzioni relazionali

Ansia disfunzioni relazionali

 

 

 

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Ansia disfunzioni relazionali

  • Definizioni dell’ansia

Il termine ansia viene comunemente utilizzato in maniera empirica, e connota una serie di stati transitori o una condizione dell'organismo che con varie intensità e fluttuante da un punto di vista temporale.
Freud fu il primo che cercò di spiegare il significato dell'ansia.
La definisce come "uno stato o condizione spiacevole", questo stato osservato in pazienti con nevrosi d'ansia era caratterizzato da tutti quei sintomi compresi nel termine nervosismo apprensione o aspettativa. I sintomi includono disturbi nella respirazione, sudorazione, tremore, palpitazioni cardiache, vertigini, e altre manifestazioni psicologiche e comportamentali.
Nelle sue prime formulazioni Freud credeva che l'ansia risultasse da una scarica di repressione di una irreale tensione somatica sessuale (libido). Egli considerava che quando l'eccitazione libidica produceva immagini mentali (idee libidinose) che venivano percepite come pericolose, esse erano represse. L'energia libidica accumulata veniva trasformata in ansia o nei sintomi equivalenti all'ansia.
Successivamente Freud modifica questa visione per una generale concettualizzazione dell'ansia vista attraverso una sua utilità funzionale dove l'ego viene enfatizzato. Concepisce l'ansia come un segnale che indica la presenza di una situazione pericolosa e distingue tra ansia oggettiva e ansia nevrotica a seconda che la sorgente del pericolo sia esterna o interna.
L'ansia oggettiva, sotto il sinonimo di paura secondo Freud, include un complesso di reazioni interne e prevede un torto o un danno che può essere causato da pericoli esterni, quindi: pericolo esterno - percezione del pericolo - ansia oggettiva.
Con questo tipo di ansia, l'intensità delle emozioni ansiose è proporzionale all'importanza del pericolo esterno evocato.
L'ansia nevrotica, come l'ansia oggettiva, è caratterizzata da una sensazione d'oppressione e stimolo psicologico, ma si differenzia dalla sorgente del pericolo che è interna e che non è coscientemente percepita perché è stata repressa.
L'ansia nevrotica può essere provata da tutti, ma quando si manifesta in quantità patologica viene definita come una sindrome clinica.
Molti autori, di scuole diverse, hanno cercato di definire e chiarire il fenomeno dell'ansia.
Le scuole psicodinamiche considerano l'ansia costitutiva dell'essere umano, mettendo in rilievo come siano determinanti dell'ansia le vicende interpersonali dei primi anni di vita ma anche dei primi mesi di vita.
Cattel e Schere hanno identificato due distinti fattori d'ansia che hanno chiamato "ansia di tratto" e "ansia di stato". L'ansia di tratto è stata interpretata come una misura stabile delle differenze individuali.
Nei fattori del tratto d'ansia sono state trovate alcune variabili caratterologiche e sono: tensione energica, tendenza al senso di colpa, diffidenza, tendenza all'imbarazzo.
L'ansia di stato è basata su una serie di variabili. Essa viene definita come uno stato transitorio o una condizione dell'organismo che fluttua nel tempo. 
Secondo Watson le situazioni che producono paure innate sono molto poche, e costituiscono delle sfide alla capacità di adattamento dell'uomo.
Ogni stimolo che si presenta in maniera improvvisa e con un elevata intensità produce una reazione di paura.
Secondo i comportamentisti di seconda generazione (Skinner, Mowrer), lo sviluppo dell'ansia si compie in tre momenti. Nella prima fase si presenta un avvenimento traumatico che provoca una forte reazione autonoma e incondizionata; nella seconda fase, momento in cui avviene il condizionamento, stimoli neutrali diventano stimoli condizionanti; associandosi alla situazione traumatica d'origine, essi determinano poi la reazione emotiva. Nella terza fase si giunge ad apprendere il comportamento evitante, per mezzo di un condizionamento strumentale, per cui con l'azione di evitamento viene impedita l'estinzione della reazione emotiva inadeguata.
L'ansia, quindi, si intende come la coesistenza di una risposta motoria volontaria con una risposta neurovegetativa.
Miller dedusse che la paura agisce nello stesso modo in cui agiscono le pulsioni primarie quali la fame e la sete. Essa cioè spingerebbe l'individuo ad apprendere risposte nuove, si tratterebbe in definitiva di una variabile di natura dinamica che interagisce col processo di apprendimento, facilitandone o inibendone il decorso.
Secondo Seligman esisterebbero nell'organismo delle predisposizioni biologiche ad elaborare delle associazioni privilegiate tra certe classi di stimoli, piuttosto che tra altre, per cui, nella paura, vi sono certi stimoli che, meglio di altri, possono essere associati ad eventi dolorosi inducendo delle risposte di paura.
Secondo Eysenck persone diverse sottoposte ad analoghe situazioni di panico tendono ad elaborare risposte di paura che si diversificano per intensità e qualità. Tale diversità di comportamento sembra rinviare a delle differenze strutturali, o più largamente personologiche, che tentano di integrare mediante l'individuazione di costanti che caratterizzerebbero alcune importanti dimensioni di personalità.
Secondo la prospettiva cognitiva una disfunzione come quella dell'ansia, deriva dall'interpretazione personale dei singoli eventi. I comportamenti connessi a tale interpretazione contribuiscono al mantenimento del problema emozionale stesso.
Ellis rileva che i pensieri definiti come irrazionali siano la fonte del disturbo emozionale e delle sue conseguenze comportamentali. I pensieri irrazionali consistono in imperativi, comandi e presupposti che conducono alle elaborazioni illogiche e ai disturbi emozionali.
Secondo Beck, invece, all'ansia si accompagnano vere e proprie distorsioni del pensiero. Al livello superficiale si ha un flusso di pensieri automatici negativi, che riflettono convinzioni e assunzioni già precedentemente immagazzinate nella memoria dell'individuo; la caratteristica cognitiva è un sentimento persistente e ricorrente di preoccupazione, eccessivo e incontrollabile.
Nei disturbi d'ansia, il difetto di elaborazione dell'informazione può essere visto, da un lato come una preoccupazione o fissazione relativa al concetto di pericolo, dall'altro come una sottovalutazione delle capacità individuali di farvi fronte.
La sovrastima del pericolo e la sottostima della capacità di fronteggiarlo riflettono, nei disturbi d'ansia, l'attivazione dei cosiddetti schemi di pericolo.
L'ansia è associata alla percezione di pericolo. Alcuni individui sono maggiormente inclini a valutare gli eventi come minaccia, in quanto si avvalgono di schemi cognitivi che ingigantiscono la pericolosità delle diverse situazioni ed evidenziano la loro presunta capacità ridotta di affrontare tali rischi. Quando gli schemi di minaccia vengono attivati, l'interpretazione della situazione è caratterizzata da pensieri automatici negativi centrati sul tema di pericolo. Una volta attivata la valutazione di pericolo, si crea una sorta di circolo vizioso che rinforza le manifestazioni di ansia. I sintomi ansiosi sono essi stessi una fonte di minaccia, accrescono il senso di vulnerabilità dell'individuo e di conseguenza rinforzano l'iniziale reazione ansiosa.
Secondo il DSM IV, i soggetti ansiosi riferiscono un disagio soggettivo, dovuto ad una preoccupazione costante, che difficilmente riescono a controllare, presentando una conseguente compromissione del funzionamento sociale, lavorativo o di altre importanti aree. L'intensità, la durata, la frequenza dell'ansia o della preoccupazione sono eccessive rispetto alla reale possibilità o impatto dell'evento temuto; la persona trova difficile impedire che i pensieri preoccupanti interferiscano con l'attenzione ai compiti che sta svolgendo, e ha difficoltà ad interrompere tale preoccupazione.
Le preoccupazioni associate con il disturbo d'ansia, a differenza delle preoccupazioni quotidiane, sono difficilmente controllabili. Sono più pervasive, pronunciate, fastidiose e di maggiore durata; spesso sono accompagnate da sintomi fisici tra cui irrequietezza, facile affaticabilità, difficoltà a concentrarsi, irritabilità, tensione.
Un soggetto ansioso reagisce in eccesso o in maniera inappropriata alle nuove situazioni.
Funzione dell'ansia è di attirare l'attenzione, distogliendola da altri interessi e preoccupazioni, guidandola verso la spiacevole esperienza soggettiva. Generalmente l'esperienza è talmente sgradevole che l'individuo tende a ridurla per mezzo di un cambiamento di strategia.

 

  • Le forme dell’ansia

 

2.1 L’ansia funzionale

L’ansia funzionale può essere descritta come una reazione fisiologica dell’organismo utile a segnalare la necessità di mobilitare risorse interne e motivare all’azione, in modo da vitalizzare l’organismo stesso.
Significa, in altre parole, che l’organismo si predispone, in maniera utile, ad adattarsi a nuove situazioni, a cambiamenti e a mutamenti delle condizioni vitali e relazionali.
L’ansia, quindi, è una reazione universale, legata alla sopravvivenza, e non rappresenta in sé un disturbo perché costituisce l’attivazione del soggetto verso un’azione.
Konrad Lorenz, considerato il padre della moderna etologia scientifica e premio Nobel per la medicina nel 1973 per i suoi studi sulle componenti innate del comportamento, nel libro “il declino dell’uomo” sostiene che l’ansia,  in ambito etologico/evoluzionistico, ha un significato adattivo per la nostra specie, utile a prevenire i pericoli legati alla sopravvivenza. L’adattabilità in termini evoluzionistici, si riferisce ai comportamenti che hanno avuto nella storia della specie un valore legato alla sopravvivenza
Le esperienze di stati ansiosi sono condizioni frequenti nell’esperienza soggettiva e possono assumere differenti livelli di intensità.
Come affermato da Borgna esistono molteplici forme ed altrettanti elementi che possono essere connessi all'origine dell'ansia. Non è opportuno, dunque, attribuirle a priori una connotazione negativa, ma occorre considerare le sue manifestazioni nell'ambito di una relazione dialogica, che consenta un'analisi a più livelli delle caratteristiche dell'ansia e dei suoi significati. Esiste un'ansia evitabile e una inevitabile; c'è un'ansia distruttiva e una dotata di un senso che è necessario decifrare e c'è un'ansia che fa parte della condizione umana e non è patologica .
Se l’individuo è in grado di conservare un buon esame della realtà e una posizione attiva, se riesce a cercare soluzioni e ad impostare azioni funzionali capaci di fronteggiare lo stato ansioso, può generare adattività all’ambiente ed avere benefici dalle esperienze conseguenti. In tal caso l’ansia può essere vista come carburante o, per meglio dire, come un’attivazione preziosa e perdurante.
Per dirla con Braconnier l'ansia normale, infatti, è essenziale in quanto informa l'individuo sui pericoli a cui potrebbe andare incontro e lo indirizza nella ricerca di soluzioni adeguate al contesto; in questo senso rappresenta per il soggetto un importante stimolo all'azione .
Non si deve, perciò dimenticare che livelli di ansia tali da mobilitare le risorse relazionali (inclusa la relazione con sé stessi) potenziano le capacità operative e instradano l’individuo alla soluzione dei problemi.
Incanalare l’ansia può, inoltre, attivare risorse creative che, partendo dall’immaginazione originano un processo co-creativo rispetto alla realtà vissuta dall’individuo. È chiaro che per originare tale processo la relazione con lo stato ansioso va riconsiderata e, soprattutto, incanalata.
In conclusione, la mobilitazione di risorse creative, risolutive di problematiche cogenti o semplicemente non inabilitanti deve necessariamente risultare da un processo di rielaborazione mirata dello stato ansioso. Tale processo può avvenire in maniera naturale ma in taluni casi l’attivazione delle risorse richiede l’aiuto di un soggetto esterno. 

2.2 L’ansia disfunzionale

L’ansia disfunzionale si manifesta quando l’individuo non riesce a trovare soluzioni adattive per fronteggiare situazioni che percepisce come pericolose.
Alcuni autori hanno cercato di definire un criterio per differenziare l’ansia funzionale da quella disfunzionale. Per Smeraldi et al. la differenza tra la normale reazione d'allarme e l'ansia patologica è rappresentato dal fatto che la prima amplifica le capacità operative del soggetto mentre la seconda le disturba e influisce negativamente sulle prestazioni .
Invece per Beck l’ansia è considerata disfunzionale quando compare in assenza di uno stimolo reale e risulta ingestibile per la persona che la vive. Quando il livello di ansia è sproporzionato rispetto al rischio e alla gravità del possibile pericolo e se permane anche quando non esiste più un pericolo oggettivo, la reazione è considerata non funzionale .
L’ansia disfunzionale compromette il benessere dell’individuo e genera senso di smarrimento e incertezza rispetto al futuro. Il soggetto con disfunzioni relazionali legate all’ansia le proietta sia sull’ambiente esterno che verso se stesso e tenta di controllare sempre più le disfunzioni fino a far diventare l’ansia paralizzante.
L’ansia può diventare un problema quando alla parte emozionale si associa uno stile relazionale fortemente improntato sulla prudenza. L’individuo la cui ansia diviene disfunzionale si prospetta scenari relazionali col proprio sé e con gli altri e il mondo improntati sulla catastroficità generando reazioni ad eventi che sono sì possibili, ma non certi. Si generano inoltre strategie prudenziali basate sull’ansia e sull’emozione di base che in tal caso è la paura. Gli effetti disfunzionali nella relazione possono essere: l’evitamento rispetto alla causa percepita, l’adozione di atteggiamenti volti al monitoraggio e all’allerta (che non fanno altro che aumentare il controllo e quindi l’ansia), l’adozione di schemi comportamenti schematici e ripetitivi (che ancora una volta rafforzano il controllo e quindi l’ansia). Altro effetto che si può enumerare è l’inferenza arbitraria che consiste nel processo con il quale da una proposizione accolta come vera si passa a una seconda proposizione la cui verità è derivata dal contenuto della prima, arbitraria perché basata su presupposti logici non sufficienti ad attivare l’inferenza. Un esempio può essere la considerazione che l’amico non ci telefona, senza sapere (e pensare) che è troppo impegnato al lavoro. Disfunzionale è anche il pensiero dicotomico, che consiste nel relazionarsi con modalità opposte tra loro e solo con quelle: bianco o nero, mi piace o mi fa schifo, utilizzando comunque schemi di giudizio improntati sulla rigidità.
L’astrazione selettiva che consiste nel concentrarsi solo sugli aspetti negativi di un fatto, vicenda, azione o situazione in modo da corroborare la visione che conferma le paure dell’ansioso.
La generalizzazione che si manifesta nel estendere le proprie valutazioni negative su tutte le situazioni percepite come affini, un esempio può essere il tradimento, il tradito tende ad affermare che tutte le donne o tutti gli uomini sono uguali.
La minimizzazione della positività, si può notare nella concentrazione del soggetto su aspetti negativi, soprattutto di sé stesso, a discapito di quelli positivi.
L’aspettativa del disastro, in casi di ansia profonda e generalizzata, implica la visione alterata del futuro, essenzialmente rivolta a situazioni negative. Un esempio è l’approccio ad un nuovo lavoro: la disfunzione ansiosa associata è il pensiero che sicuramente andrà male perché “non valgo niente, non so fare niente”.
Tali aspetti agenti in casi di relazioni disfunzionali legate all’ansia hanno l’effetto di paralizzare l’individuo in maniera tale da rendere la vita quotidiana e le normali attività un percorso ad ostacoli veramente difficili da superare.

  • Le disfunzioni relazionali relative all’ansia nelle tipologie PREPOS

 

Introduzione

Questo capitolo si propone di chiarire le disfunzioni relazionali relative all’ansia rispetto alle sette tipologie del modello Pre.Pos. considerando le forme diverse in base ai controllo valutativi degli stimoli messo in atto. Inoltre per ogni tipologia è citato il caso di un individuo con problematiche legata all’ansia e le soluzioni elaborate rispetto alle problematiche manifestate.
Le sette tipologie identificate nel modello Pre.Pos. sono:

  • L’avaro
  • Il ruminante
  • Il delirante
  • Lo sballone
  • L’apatico
  • L’invisibile
  • L’adesivo

Le emozioni di base correlate alle sette tipologie sono:

  • La paura – Avaro
  • Il ruminante – Rabbia
  • Il delirante – Distacco
  • Lo sballone – Piacere
  • L’apatico – Quiete
  • L’invisibile – Vergogna
  • L’adesivo – Attaccamento

I controlli valutativi degli stimoli consistono in sistemi attraverso cui l'organismo prende atto dei segnali esterni ed interni che, nella psiche, prendono la forma di emozioni: controlli circa la novità dello stimolo (che corrispondono alle emozioni della sorpresa, del  trasalimento e della noia), controlli sulla piacevolezza dello stimolo (piacere, dolore, paura, vergogna), controlli circa l'attivazione di risposta allo stimolo (rabbia e attaccamento). Pribram e McGuinnes avevano distinto due tipi di risposte nei circuiti neurali: le fasiche (eventi nuovi e inaspettati) alle quali attribuiscono il termine “arousal” che viene definito come lo stato fisiologico di potenziale modificazione dell’organismo, cioè quanto un organismo è in grado di
recepire gli stimoli che giungono dall’esterno, e le toniche che dispongono alla risposta a segnali positivi o negativi, a cui venne dato il nome di "attivazione" .
A queste due categorie Gray aggiunge la categoria dell'"inibizione" (o controllo)
esercitata sulle tendenze di risposta allo stimolo o sull'azione volontaria di autocontrollo che conduce, ad esempio, alla concentrazione .

3.1 L’avaro e la paura

Il controllo valutativo dello stimolo dell’avaro è l’inibizione.
Con il termine avaro si identifica un’idealtipo di individuo che dispone di un sistema di organizzazione del controllo, esercitato sull’ambiente, sugli altri, su di sé, a scopo di difesa dai pericoli e dalle perturbazioni esterne. L’avaro si autodescrive come persona positiva, concreta, capace di programmazione e di chiarezza. Dà una grande importanza a se stesso ed è sempre impegnato a mantenersi e conservarsi sano ed efficiente e a progettare il proprio personale miglioramento delle condizioni di vita. Tende a non mostrare i suoi punti deboli, a non esprimere i propri sentimenti considerati alla stregua di debolezze. Mostrarsi, offrire, aprirsi e dare sono le sue difficoltà principali, causate dalla paura interiorizzata che lo porta a trattenere ogni cosa dentro di sé, a volte così profondamente, da renderla inaccessibile. L’avaro non tollera l’indecisione, il dubbio e il disordine. L’avaro, nella sostanza, è molto disordinato pur badando sempre all’organizzazione della forma. Il suo apparente equilibrio e la sua sicurezza sono manifestazioni della mancanza di comprensione profonda del proprio e dell’altrui vissuto. Per riassumere, i tratti essenziali del processo di costruzione di una personalità organizzata intorno alla paura, tipico dell’avaro sono: il controllo, il calcolo, l’ordine, la conservazione, l’attribuzione di responsabilità ad altri. L’emozione di base dell’avaro è, come detto, la paura, intesa come modalità emotiva innescata dalla percezione di un pericolo.
L’emozione della paura se non evoluta, diviene inquietudine, ansia, insicurezza tensione, timore, agitazione, irrigidimento, pregiudizio, diffidenza, preoccupazione stress, apprensione, tormento, ossessione e mania .
L’avaro è vittima dell’ansia che viene dall’interno, generata dall’esigenza, molto forte, di essere sempre all’altezza delle situazioni.
L’estenuante ricerca della sicurezza, il costante tentativo di controllare se stessi, le proprie emozioni e l’ambiente circostante generano disfunzioni relazionali connesse all’ansia. Nella tipologia dell’avaro tali disfunzioni sono un rischio concreto legato alla paura. La generazione dell’ansia deriva dall’elevato stato di vigilanza che implica forte lucidità e determinazione. L’attivazione di schemi d’azione predeterminati e circoscritti fa sì che si possano innescare incertezze che conducono ad un autocontrollo sempre maggiore. Se tale stato non evolve in azione, genera appunto ansia. Da un punto di vista strettamente relazionale, l’ansia logora, in primis, la relazione con il sé per poi generare disfunzioni nelle relazioni più prossime fino a problematizzare quelle più lontane.

3.1.1 L’avaro e la comunicazione non verbale

Le caratteristiche principali in termini di comunicazione non verbale sono le seguenti. I movimenti dell’avaro sono rigidi e controllati. La gestualità è limitata. Gli occhi sono vivi e sempre attenti in un volto controllato e privo di espressione. Solitamente la parte superiore del corpo è ben sviluppata: spalle e  petto sollevati, dorso solido ed impettito  e la pancia indentro. Se viene  invitato a sedersi tiene una postura composta ed educata ma rigida; si tiene ben ritto sulla schiena ed in posizione di attento ascolto.
È una persona che tendenzialmente ha molta cura di sè e dà una sensazione di ordine e precisione, infatti,  nulla sarà mai fuori posto (abbigliamento compreso che potrebbe apparire molto curato e con stile). La postura è differente fra uomo e donna: l’uomo tende a tenere la testa alta, spalle indietro, petto in fuori: si nota quindi un inarcamento, anche lieve, della schiena all’indietro, i glutei sono contratti e le gambe e  le ginocchia tese. Questa postura lascerebbe però la donna scoperta ed indifesa che quindi tende a spostare in avanti le spalle per proteggersi e di conseguenza anche la testa risulta meno alta di quella dell’uomo. La voce ha il volume alto ed il tono acuto. L’eloquio é lento ma continuo .    

      • Studio di caso

 

Enrica è una giornalista televisiva molto brava e impegnata nel suo lavoro che le piace e le da soddisfazioni. Proviene da una famiglia borghese, ha studiato fuori sede fin da quando aveva diciotto anni. Dopo aver trovato un compagno con cui si trova molto bene si trova ad affrontare degli stati ansiosi a volte molto fastidiosi, che, ad un certo punto non le consentono più di svolgere una vita normale. Non riesce più a guidare la macchina, vive con un senso di oppressione perenne, non prende più i soldi al bancomat, non va a fare la spesa, non esce da sola, deve farsi accompagnare anche per andare al lavoro. La prima volta che la incontro non riesce a stare ferma e mi dice che per tutto l’incontro non si siederà. Il mio obbiettivo quindi diventa quello di farla accomodare sul divano. Ricorro alla tecnica descritta dal prof. Masini detta “tranquillizzazione” . E funziona. Si siede sul divano ed inizia a parlarmi della sua ansia, mi illustra per filo e per segno cosa lei percepisce e mi dice che non la supererà mai. Le rispondo di provarci, probabilmente non riuscirà a trasformarla, ma almeno ci avrà provato. Continuo suggerendole di sostituire alcune parole davvero troppo forti che utilizza in maniera sistematica in modo da minimizzare la generazione emozionale correlata. Prova a farlo e le suggerisco di sentire il sapore dell’emozione, molto aspro quando le parole sono cariche e più dolce utilizzando sinonimi più pacati. Non è molto convinta ma accetta di rivedermi. Nei seguenti incontri utilizzo tutto ciò che ho imparato lungo il percorso di formazione, tenendo ben presente l’insegnamento del prof. Masini “si può trasmettere solo ciò che si ha, vuoi trasmettere pace, fai pace dentro di te, vuoi trasmettere forza diventa forte…..”. Inoltre uso sempre un tono pacato, morbido e l’ansia piano piano si placa. Cerco di capire qual è il fulcro problematico intorno a cui gira l’ansia e capisco che è il suo lavoro e la sua relazione con i colleghi. Non appena inizia a parlare della sua redazione ecco ricominciare i tremori. Decido allora di rischiare e passo da un tono pacato ad un quasi urlo.
Rinsavisce e torna al presente smettendo di proiettarsi spazio-temporalmente fuori dalla stanza. Mi descrive il suo posto di lavoro come popolato da soggetti poco preparati, arroganti o asserviti al capo di turno. Indagando un pò scopro che ci sono colleghe con cui ha un relazione migliore e con cui inizia a parlare della sua ansia e delle problematiche connesse. Scopre che una di loro ha gli stessi problemi e con una serie di domande incalzanti la metto in una contraddizione così forte, da portarla nei giorni seguenti, a riconsiderare le sue percezioni, in primis, rispetto al suo lavoro e poi verso i colleghi. Comincia a riconsiderare il suo ruolo, le sue aspettative, a rivalutare il suo stipendio, abbastanza alto. Si rende conto, insomma, che il lavoro non è la vita ma un pezzo di essa. La reazione che ne consegue è eccezionale. Ri-valutando le sue aspettative capisce che la sua non è più vita, ma un susseguirsi di “paure delle paure delle paure”. Utilizzando anche tecniche di rilassamento prova ad uscire da sola, dapprima per piccoli tratti e poi per percorsi più lunghi. Finchè prova ad affrontare un intero viaggio da sola. La sua immaginazione genera già disastri. Con un paziente lavoro di smontaggio della sua immaginazione arriva finalmente alla consapevolezza che è la sua mente a generare dei creativi disastri. Le chiedo quindi di cambiare la relazione con i suoi pensieri. Di ri-acquisire la padronanza, non nel senso di controllarli ma di possederli e farne ciò che vuole. Di entrare in relazione con loro perché sta nella potenza positiva della relazione la possibilità del cambiamento.
Affronta il viaggio e dei disastri paventati non succede proprio niente. Arriva a destinazione da sola, senza problemi, ascoltando la musica che le piace. Da quel momento  genera cambiamenti continui positivi. Ha mutato l’ansia in una relazione diversa con se stessa e con gli altri, è diventata più forte di quando, in passato, pensava di esserlo ma non lo era.
Ha sviluppato la forza della consapevolezza e dell’umanità e ha anche cambiato casa affrontando senza problemi un trasloco. “Grazie a te sono rinata” mi scrive in un sms il primo giorno dell’anno. Non è grazie a me, è stata lei bravissima. È rinata.

3.2 Il ruminante e la rabbia

Il controllo valutativo dello stimolo del ruminante è l’attivazione e l’ansia derivante è apparentemente generata dall’esterno.
Il ruminante è l’idealtipo che identifica il processo interiore di caricarsi ripetutamente di rabbia, emozione che sta ad indicare l’atto ripetuto di caricarsi interiormente.
Il processo di accrescimento energetico interiore assegna il nome al ruminante.
La carica che si accresce nell’individuo è prodotta dal bisogno di avere maggiori energie a disposizione per raggiungere l’obiettivo. La carica si trasforma in rabbia quando il bisogno viene frustrato dando origine al risentimento.
Il ruminante si sente frustrato tanto più è forte l’impedimento che impedisce il dislocamento dell’azione. Inoltre, tanto maggiore sono il desiderio e le fantasie anticipatorie rispetto all’azione,  tanto più forte sarà l’energia interna generata. La percezione di tale energia interna e l’andamento del suo mantenerla viva ed accrescerla è l’emozione di base in sé: la rabbia.
Tale processo diviene un filtro nel personale rapporto con la realtà e la carica interna viene percepita come un’emozione particolarmente intensa. Finchè è possibile raggiungere l’obiettivo il ruminante non eccede nello sfogo che è la dislocazione della rabbia per un obiettivo non raggiunto.
Lo sfogo della rabbia, però, non è un processo pienamente appagante e soddisfacente perché deve servire come pretesto per la generazione di altra rabbia.
L’idea stessa dello sfogo è inutile perché induce all’aumento delle energie e accende sempre più la rabbia. Più si comprime la rabbia più diviene esplosiva.
Il processo di ruminanza non è visibile dall’esterno se non quando dà vita a manifestazioni di rabbia esplodente.
Il ruminante raramente non è protagonista ed è capace di elevata concentrazione atta a convogliare la sua energia. È un trascinatore e riesce a trasmettere motivazione ma non ha organizzazione per cui è sopravanzato da persone che sanno meglio di lui  progettare e programmare .
L’ansia del ruminante si coglie nel momento in cui non riesce a raggiungere l’obiettivo perché si sovraccarica delle sue esigenze e di quelle degli altri, cercando di fare tutto nel migliore dei modi ma non riuscendoci. L’incompiuto per il ruminante è fonte di ansia in cui riversa anche la delusione del mancato riconoscimento dei suoi sforzi.
È necessario che il ruminante sperimenti e impari che la soddisfazione non sta solo nel dimostrare ma nell’essere. L’aumento dell’autostima in questo caso è necessario per evitare l’innesco del processo di ruminamento e il direzionamento dell’energia verso obiettivi concreti.

3.2.1 il ruminante e la comunicazione non verbale
 
In termini di comunicazione non verbale il ruminante è una persona sempre in movimento, energica, pratica e muscolosa. I suoi movimenti sono veloci e potenti. La gestualità è necessaria per scaricare energia in eccesso. Le spalle e il petto sono sviluppati e protesi in avanti verso le cose. Se viene invitata a sedersi difficilmente riesce a stare ferma e troverà il modo di muoversi, anche solo impercettibilmente. E’ impulsiva e la sua postura non è composta ma molto pratica e pronta all’azione. Anche il modo di vestire è pratico e naturale, a volte sportivo. La mimica facciale riflette il suo modo di essere: è una persona impulsiva, energica e diretta. Non ha il tempo di controllarsi ed anche il volto evidenzia questo aspetto e quello che lei prova apparirà anche dalle sue espressioni in quanto non controllate.
Il ruminante si pone in atteggiamento d’azione: le spalle sono aperte con dorsali e trapezio ben sviluppati (busto solido e compatto), il corpo proteso in avanti. Se uomo i piedi e le gambe non sono vicini ma uno davanti rispetto all’altro; le spalle sono in avanti e cariche, la testa in avanti in una posizione poco difensiva. Se donna assume la postura della donna avara: spalle in avanti (per proteggersi), testa e corpo ben dritti e fermi. La sua voce é tuonante ed energica come quella dell’avaro solo più grave. L’eloquio è veloce e continuo (è una persona d’azione la lentezza e la riflessione non gli si addicono) .      

3.2.2 Studio di caso

Serena è una giovane donna che, a dispetto del nome è l’incarnazione della ruminante. Sui 35 anni, fisico tonico, lavora come segretaria o meglio lo ha fatto fino ad un certo punto della sua vita. Soffre dell’ansia connessa alla relazione con il suo datore di lavoro, sballone all’ennesima potenza, inaffidabile sul lavoro e rispetto ai soldi che per paradosso gestisce, essendo un curatore di patrimoni. Inoltre sviluppa ansia anche per la sua incapacità, così dice, di trovare una persona che l’apprezzi per com’è.
L’atteggiamento ruminante si riscontra soprattutto nella conduzione delle sue giornate. Alle volte fa mille cose. Lavorare, andare in palestra, uscire con gli amici, andare alle feste, a cene, a ricevimenti, al cinema, al teatro. Per giorni poi si tappa in casa a rimuginare sulle cose che non vanno e si lascia completamente andare, per poi ricominciare il ciclo daccapo, in un turbinio di stop & go senza fine. Il lavoro però, data la sballonaggine del suo capo ed anche cognato, comincia ad andare maluccio. Lo sballone divorzia dalla sorella, che scoprirà un ammanco di parecchie migliaia di euro sul suo conto e mutui a lei intestati senza che ne sapesse niente, e la sua ansia diviene sempre più forte e distruttiva senza che Serena riesca a porvi un freno. I rapporti con gli amici si raffreddano, le cene, le uscite, le chiacchierate notturne si rarefano e lei si chiude sempre di più, provando una sofferenza sorda e un’ansia che le impedisce di dormire.
L’intervento è partito dal sonno.
Gli incontri si svolgevano molto tardi, poco prima di andare a dormire, in modo da favorire l’addormentamento in conseguenza alla tranquillizzazione messa in atto.
Il ritmo sonno-veglia si è quindi pian piano ristabilito e l’intensità dell’ansia è diminuita.
Restava da risolvere il problema lavorativo e la relazione con il mondo esterno. Insomma non era così facile farla uscire dal bozzolo livoroso che si era costruita con certosina pazienza.
L’azione si sviluppò su due fronti:

  • l’accrescimento dell’autostima;
  • il porsi degli obiettivi piccoli e raggiungibili che via via divenivano più grandi.

Il riconoscimento del suo valore intrinseco è stato, con mia sorpresa, un passo facile,
il difficile era canalizzare questa consapevolezza in azioni virtuose che, essenzialmente, non la facessero ricadere nel ruminamento e nell’ansia del dover lottare per ottenere qualcosa che non arrivava mai.
Serena non riuscì ad operativizzare la sua energia in maniera consapevole e continuò a sbandare e cozzare contro muri di gomma: datore di lavoro, amici, guadagni sempre più scarsi.
Decisi che era il momento di concludere il ciclo di incontri con la certezza che almeno l’ansia era sparita.
Passati due anni, mi arriva un sms perentorio. Mi chiedeva un incontro urgente.
Ci vediamo e mi comunica che va via dall’Italia, si era licenziata perché era arrivata al massimo dell’insoddisfazione e voleva qualcosa di più dalla sua vita. Aveva capito che era altro. Io, dubbioso, decisi di aspettare. Poco tempo fa mi comunica che è in Finlandia, ha aperto un asilo infantile insieme all’amica che era andata a trovare, esce con un ragazzo che le piace molto. Il lavoro è molto soddisfacente, l’ansia disfunzionale non si è più manifestata e la speranza in un futuro migliore le è tornata. E finalmente si è data l’opportunità di amare una persona senza aspettarsi niente. È riuscita a canalizzare la sua prorompente energia e ha sviluppato la sua sensibilità. Si sente più completa. La sua relazione con sé stessa è mutata. Si vuole più bene, si cura più costantemente e non è perennemente chiusa in una gara che non finisce mai.
Si è buttata nella vita senza aspettarsi niente e sta raggiungendo i suoi obiettivi senza generare ansietà e rabbia.

 

3.3 Il delirante e il distacco

Il controllo valutativo dello stimolo del delirante è il controllo sommato all’attivazione e l’ansia derivante è generata sia dall’esterno che dall’interno.
Il delirante vive dei suoi pensieri e delle loro connessioni, traendo massima soddisfazione dalle nuove intuizioni che riesce ad avere. La sua intelligenza non si fonda sul calcolo e sulla razionalità, al contrario quando è di fronte ai problemi cerca soluzioni complesse anche se inutili o improduttive. Per questo non riesce ad essere facilmente comprensibile e, soprattutto, difetta di concretezza e praticità. Inoltre si propone con una grande presunzione fondata sulla sua personale capacità di comprendere; in effetti egli è in grado di distanziarsi a sufficienza dalle cose, dalle persone e dagli eventi per averne una visione d'insieme ma, spesso, difetta nell'analisi dei particolari, si riferisce costantemente a schemi di interpretazione personale non verificati nel dialogo con altri e preferisce le intuizioni rapide e sommarie piuttosto che un lavoro meticoloso in profondità. Il suo modo di analizzare i problemi è sempre originale e la sua immediatezza nel trarre conclusioni lo fanno apparire affrettato e presuntuoso, cosa che lui non fatica ad ammettere e costruirne sempre di nuovi.
Per il delirante non vale la pena ricercare un confronto con chi non sa reggere la sua complessità e la sua intensità. La sua superbia si presenta inizialmente come capriccio anche autodistruttivo specie se il soggetto non accetta di farsi contenere nella relazione dagli altri e di ascoltarne i consigli pratici ed equilibrati.
L’attività mentale a cui si sottopone nel costruire processi di ragionamento aperti e dissocianti è logorante ed egli non ha altra pace che la temporanea sazietà prodotta da qualche nuova intuizione.  Se egli non viene aiutato a condensare la sua unità interna può prodursi una vera e propria scissione in diverse parti della sua personalità; tale tendenza verso la schizofrenia potrà poi evolversi mediante stati melanconici, stati stuporali, allucinazioni, stati crepuscolari, obnubilamenti e stati sognanti. Lo sviluppo nella direzione della patologia può condurlo verso il disturbo schizotipico di personalità, il disturbo narcisistico di personalità, l'iperproduttività ideativa, l'incapacità di pianificazione del futuro, le difficoltà di adattamento, la dispersione di interessi non coerenti, l'umore disforico, i disturbi psicotici schizofrenici, i disturbi dell'alimentazione tra i quali la anoressia nervosa, il disturbo di dismorfismo corporeo.
Se non viene aiutato a riassociare i suoi processi mentali attraverso la riscoperta della dimensione affettiva, può aprirsi verso forme capricciose ed astiose rivolte verso altri e connesse ad un ripiegamento ed ad un ritiro verso il sé, con esiti di anoressia mentale. Il rifiuto dell’altro che non lo comprende e lo squalifica è il messaggio nascosto nel disgusto verso il cibo “guasto” con cui l’altro lo nutre. Egli si sente oggetto di un amore sbagliato che non lo considera nelle sue qualità e non si modula a seconda delle sue esigenze. Di conseguenza, rifiuta capricciosamente tale amore rifiutando di nutrire se stesso, oggetto di un amore non appropriato. Il delirante è esposto a situazioni di grande disagio per il suo desiderio di libertà dalla dipendenza di qualcuno (dalla madre o dalla famiglia) e può accadere in lui un processo di pseudoindividuazione: cerca di dissociarsi per liberarsi ma in questa azione agisce sulla base di un copione di allontanamento solo apparente. Per liberarsi dalla dipendenza dalla madre o dalla famiglia cerca di costruirsi una relazione di coppia che, però, puntualmente fa entrare nella famiglia d'origine. Per potersi “liberare” si fidanza e porta il fidanzato ufficialmente in casa come parte accettata ed integrante della famiglia da cui si vuole liberare. Oppure, per potersi sentire libero, mette in atto comportamenti stravaganti o antagonisti che lo conducono al conflitto con la cultura originaria famigliare, alla quale si oppone solo per essere diverso e non per scegliere autonomamente i valori in cui credere.
Questa differenziazione lo allontana dalla vera autonomia, lo rende selettivo nelle scelte e instabile nei comportamenti, perdendosi nella confusione e nella assoluta incertezza sulla sua identità.
Non gli è facile, senza un aiuto esterno, orientarsi tra gli esiti, spesso negativi, delle sue azioni poiché disprezza come sistemi di verifica anche quelli più oggettivi, legati al successo o insuccesso nelle iniziative. C’é sempre quel qualcosa in più che gli altri non considerano che gli consente di non mettere in discussione il suo modo di essere e di pensare. Il regno del fraintendimento e delle ambiguità gli spalanca le porte e con la sua superbia appaga la sua vanità.
Il delirante una volta evoluto diviene  un intelligente e creativo portatore di libertà e di ingegno. La sua evoluzione è essenzialmente legata alla capacità di vedere il mondo con gli occhi e non con la mente. Lo sforzo del delirante deve procedere nella direzione del senso di realtà appoggiando le sue congetture e le sue riflessioni su ciò esiste davvero nella sua vita e nelle persone intorno a lui, osservando i fatti e gli eventi. Per far ciò deve imparare l’umiltà; ovvero a guardare la terra su cui mette i piedi. Può essere fuorviante per lui la cosiddetta “concretezza” intesa come il calcolo razionale per perseguire scopi utilitaristici. Il delirante abbisogna di realtà e concretezza, non di razionalità, in specie se formale.
Se riesce ad applicare il suo pensiero alla realtà, accettandola per quello che è, non ha pari nel processo di interpretazione e di elaborazione di strategie di cambiamento. Egli individua con facilità tutte le relazioni compromesse nella dipendenza e nell’oppressione e sa riconoscere i piccoli e grandi giochi attuati per costringere lui ed altri nella dipendenza.
Deve però trovare la capacità di smascherarli apertamente senza ricorrere a qualche ulteriore intuizione che lo allontana ancor più dalla realtà. Se si lascia imbrigliare dalle logiche che egli stesso può produrre con il suo pensiero, finisce con il facilitare la squalifica da parte degli altri e la sua autosqualifica.    
Ma se non si gingilla più con le idee e i ragionamenti e la sua libera intelligenza è messa a disposizione della affettività, il delirante è l’innovatore originale ed acuto, lo scopritore di nuove vie che conducono le persone a vivere livelli di sempre maggiore libertà e consapevolezza. Libertà e consapevolezza si rinforzano vicendevolmente nel sé ed il delirante amplifica la sua autostima; anche la sua autostima può perdersi nell’inutile vanità .
In termini di comunicazione non verbale i tratti caratterizzanti questa tipologia sono, come detto, l’attivazione e il controllo (è un andare verso, per poi distaccarsi e viceversa). Appare come un individuo distante o distaccato. I suoi movimenti appaiono ciondolanti dando la sensazione che il corpo e la mente siano separati e i movimenti corporei non siano in qualche modo controllati (il corpo da una parte e la mente da un’altra).

3.3.1 Il delirante e la comunicazione non verbale

Il delirante può apparire disordinato nei gesti e nel modo di vestire (o quanto meno non concreto dando la sensazione di dover essere riportato sulla terra ferma). Se invitato a sedersi potrebbe assumere una postura ciondolante o comunque disordinata in quanto ritiene irrilevante il modo di stare seduto. Molto importante allora è osservare i suoi gesti e la mimica facciale che potrebbero rivelare molto perché dando più importanza alla mente potrebbe lasciar passare, attraverso il corpo, informazioni utili. Il suo modo di vestire spesso non segue la moda e gli abiti sono indossati con imprecisione (camicie non abbottonate, colori non coordinati). La voce è bassa ed acuta. L’eloquio è lento e discontinuo.
L’individuo di questo tipo appare dinoccolato e, solitamente, ha le spalle e le braccia magre e il torace incassato. Le gambe fanno da perno per la parte superiore del corpo che appare rigida ma dondolante. La donna presenta la stessa struttura ma appare più delicata ed eterea ed  il suo modo di camminare assomiglia molto a quello di una ballerina “in punta di piedi” .  
 
3.3.2 Studio di caso

Cesare è un omone di 120 chili per un metro e novanta di altezza che nella vita svolge il lavoro di pubblicitario. A seguito della crisi economica e della conseguente diminuzione degli introiti ha dovuto licenziare tutti i dipendenti della sua agenzia, rimanendo solo a dover sbrigare tutto il lavoro. Eppure ci sono stati tempi d’oro in cui i guadagni erano elevati ma Cesare ha messo da parte molto poco preferendo dissipare quello che guadagnava in viaggi, belle macchine, cene e vestiti costosi. Ha sempre lavorato sodo con un’organizzazione inefficace e demandando tanti lavori che adesso si ritrova a gestire da solo. In più la situazione si è aggravata perché i suoi tre figli, ormai adulti sono all’università, due a Roma e uno a Torino. Cesare presenta molte caratteristiche dell’idealtipo identificato come delirante. Infatti la sua  organizzazione del lavoro è poco efficace, vita privata ridotta all’osso, visto che passa la maggior parte del suo tempo in ufficio, e nonostante tutto la sua famiglia è unita e coesa, soprattutto grazie alla moglie che si fa carico della maggior parte delle incombenze familiari e che in passato ha curato, in maniera attenta, l’educazione dei tre figli. Inoltre ha una caratteristica che alla lunga lo rende particolarmente inviso ai suoi clienti: la logorroicità dei ragionamenti che riflette la volontà di arricchire le informazioni trasmesse e la difficoltà di star dietro alla produzione complessa delle sue idee. Anche i costrutti della comunicazione sono pesanti, con mille parentesi aperte nei discorsi e circumnavigazioni intorno ai concetti e spiegazioni logoranti, che inducono l’ascoltatore alla stanchezza e a volte alla noia. Cesare ha perso alcuni  suoi clienti perché hanno cessato l’attività ma altri non l’hanno più scelto perché non è mai puntuale agli appuntamenti e nella consegna dei lavori ed è poco umile quando il cliente ha da fare un’obiezione.
Purtroppo questa situazione ha attivato uno stato d’ansietà che in alcuni periodi non lo fa dormire e lo porta a non essere vigile di giorno. La ripercussione sul lavoro è, purtroppo, immediata, facendogli perdere ulteriormente credibilità. La confusione generata da un’eccessiva produzione di idee che cozza poi con la realtà, lo fa sentire incompreso e frustrato. Cesare inizia a non aver più fiducia nel futuro e a cadere in uno stato di elaborazione perenne di idee (anche molto interessanti) che non trovano sfogo in progetti e restano lì a fluire nella sua testa. Si sente smarrito, perso, incapace ormai di dare sfogo alla sua creatività. Sta perdendo il contatto con la realtà, contatto che già non era così forte ma che in condizioni normali era funzionale al suo modo di vivere e al suo lavoro. L’intervento è partito dalla necessità di dare un’organizzazione efficiente al suo lavoro. Diminuire le perdite di tempo e la permanenza in ufficio, aumentando la produttività sul lavoro. In questo modo, e non senza resistenze, Cesare, con molta gradualità, è riuscito a liberare tempo per sua moglie e per andare a trovare i suoi figli. Anche la relazione con gli amici ne ha  tratto benefici. Ora lo vedono più spesso. Il sonno notturno è tornato ad essere normale. Le maggiori resistenze le ha avute rispetto ai ritardi biblici agli appuntamenti di lavoro. Per risolvere il problema ha utilizzato un semplice artificio: mettere gli appuntamenti un’ora prima di quella reale. Ora, però, non ne ha più bisogno. È diventato puntuale. Rispetto, infine, alla logorroicità e complessità dei suoi ragionamenti, ha giovato lo sviluppo della capacità di osservazione dell’altro (che, tante volte manifesta evidenti segni di stanchezza e impazienza) e la focalizzazione degli obiettivi della sua comunicazione oltre a tante prove di comunicazione orientate alla brevità e all’efficacia, utilizzando a mò di intercalare  domande di controllo come “mi hai capito?” e attendendo un feedback positivo dall’interlocutore. 
Mettere i piedi per terra ha permesso a Cesare di rendersi conto che il grosso dei problemi dipendeva da lui stesso. I clienti si sono piacevolmente stupiti, all’inizio erano quasi increduli della puntualità agli appuntamenti, nelle consegne, della disponibilità e di una ritrovata dialogicità. Certo non piace loro che dopo una certa ora Cesare spegne il cellulare del lavoro, ma a lui fa benissimo curare la relazione con se stesso, leggere un libro, uscire con la moglie e andare a dormire presto. L’ultimo beneficio se lo è regalato poco tempo fa, ha iniziato una dieta e ora va in palestra dopo secoli che non faceva più sport. La ritrovata relazione con se stesso e il riscoperto equilibrio tra vita privata e vita pubblica e tra creatività e realtà l’ha riportato sulla terra a come dice lui a “tornare a respirare l’aria frizzante del primo mattino”.

3.4 Lo sballone e il piacere

Il controllo valutativo dello stimolo dello sballone è l’arousal e l’ansia derivante è generata da una carenza di senso di responsabilità.
La persona vive una forma di insoddisfazione esistenziale profonda, una sensazione di  vuoto, di mancanza di senso, di eccitazione senza oggetto che può essere il risultato di di una sorta di sfiducia nell’esistenza.
È l’ansietà tipica che si incontra nell’adolescenza o da cui sono colpite persone che abbiano vissuto disillusioni o tradimenti e non le abbiano elaborate.
Le persone vicine allo sballone possono essere destabilizzate dalla messa in atto di tale tipo di copione.
Lo sballone vive una forte attrazione verso il piacere che sa gustare con sensibilità emozionale intensa. Cerca di sperimentare le sensazioni più forti rispetto a tutto ciò che vive per saziarsi di un sapore finalmente appagante. Ma non è mai pago. Ama la sorpresa e insegue la fantasia di realizzare finalmente ciò che sente dentro di sé e che sempre gli sfugge. La sua ricerca di intensità è applicata ad ogni ambito della vita: se stesso, i suoi ricordi, la sua immaginazione, la sua autopercezione corporea e psichica, le altre persone con cui condivide momenti effusivi e fusionali fino alle sensazioni che gli vengono date dal mondo. E quando le serate finiscono, quando la sensazione di piacere si attenua o scompare, quando non è possibile inventare una situazione nuova che faccia risalire l’euforia, lo sballone cade nella malinconia manifestando oscillazioni esagerate nell’umore e nel comportamento.
Lo sballone non sa costruire strategie per dare corpo alle sue sensazioni, anzi è infastidito dall’idea che qualche calcolo possa far diminuire quella estemporaneità delle sensazioni che, secondo lui, è la spontaneità. Non sa riconoscere che una persona generosa è spontaneamente generosa ed una persona invidiosa è spontaneamente tagliente; per lui la spontaneità è quel valore estetico assoluto in sé, attraverso cui attua un rapporto personale con il mondo e con gli altri. Insegue con affanno una naturalità in cui romanticamente perdersi ed, alla fine, ne percepisce più l’aspetto triste e malinconico di quello magico ed euforizzante. “E naufragar m’è dolce in questo mare” è per lo sballone un manifesto di vita che lo conduce alla ricerca di esperienze assolutamente personali e irripetibili, nelle quali, però, non trova stabilità proprio in ragione del fatto che esse sono personali e irripetibili. Lo sballone ha bisogno di costruirsi un concreto percorso di responsabilità per pervenire a quella pienezza emozionale che cerca. Solo il massimo di attenzione e cura nel costruire i vissuti emozionali potrà dare a lui la certezza di quella condivisione che desidera e contemporaneamente, fugge.
Lo sballone è spesso un giocherellone che non prende sul serio alcuna responsabilità. Eppure nella parola responsabilità c’è l’antidoto allo sballo, all'inconsistenza, alla volubilità, all'incoerenza, ai sogni e al disordine. Lo sballone ha bisogno di purificarsi, diventare semplice e scoprire di essere amato non solo per quello che finge di essere, incantando le persone ma per quello che è e che fa. Il valore della responsabilità conduce a questo. Assumersi la responsabilità di un lavoro per qualcuno o assumersi la responsabilità di qualcuno che ha bisogno conduce alla interiore sensazione di essere importanti per qualcuno.
Il problema centrale dello sballone è il superamento della fusionalità attuabile solo se anche la fusionalità diventa un'emozione e non una semplice sensazione. Lo sballone non sa gestire le emozioni poiché è prigioniero delle sensazioni: non gli è stata consentita l’evoluzione verso l’accertamento di sé mediante piena esperienza dell’emozione. Non sa difendersi dalle sensazioni negative rielaborandole e infine vive male anche le sensazioni positive perché la loro fine fa venire a galla il suo profondo vuoto esistenziale. 
Lo sballone è capace di forti slanci nelle sensazioni della vita. Il suo è il copione che muove forti energie emotive e che conduce a vivere la più ampia possibilità di piacere.
Lo sballone che evolve il suo copione ha imparato a contrastare efficacemente la tendenza all’incoerenza ed all’improvvisazione e ha saputo acquistare un comportamento responsabile, è una persona che sa generosamente regalare emozioni e sentimenti.
Sa toccare le corde dei sentimenti e trasportare nel suo slancio d’amore le persone più chiuse e fragili. Così come è estremamente pericoloso per le sue doti seduttive se è ancora involuto nel copione negativo, è estremamente prezioso per la costruzione di climi relazionali improntati alla tenerezza ed alla amicalità. Riesce immediatamente simpatico e produce la disposizione alle relazioni anche nei soggetti più difficili da avvicinare: la sua capacità di cogliere il fascino in ciascuna persona gli consente di aprire alla scoperta della parte migliore di sé tutti coloro che si coinvolgono emotivamente con lui .

 

3.4.1 Lo sballone e la comunicazione non verbale

In termini di comunicazione non verbale i tratti caratterizzanti lo sballone sono i seguenti: i suoi movimenti sono leggeri, armoniosi ed eleganti. La sua postura è abbastanza corretta, longilinea ed armoniosa con una muscolatura equilibrata e più sviluppata negli arti a discapito del busto, del torace e del bacino; le spalle sono aperte ed il corpo eretto e fiero. Se invitato a sedersi utilizza una postura sciolta ed elegante e molto spesso assumerà l’orientamento a ¾ delle persone da palcoscenico. Il suo abbigliamento è ricercato, colorato, raffinato ed elegante. La mimica facciale e gestualità sono molto espressive: essa infatti tende a nascondere le proprie emozioni con un affascinante sorriso così mentre parla sarebbe saggio controllare se, per esempio, avvicina le mani al volto, in quanto, secondo la comunicazione non verbale, è indice di menzogna. Il volume della voce è alto e il tono grave. L’eloquio continuo e veloce con utilizzo di pause ad effetto (cerca sempre di far ricadere l’attenzione su di sé e cerca sempre un pubblico per raccontare e raccontarsi) . 

3.4.2 Studio di caso

Giuseppe è un uomo di 40 anni che tenta ancora di vivere come se fosse un ragazzino. Pur essendo un ricercatore in un’istituto di ricerca importante vive una vita da eterno adolescente e sta minando profondamente il suo futuro. Giuseppe vive ancora a casa con i genitori, sarebbe meglio dire con la mamma e il fratello, perché con il padre i rapporti sono limitati al saluto serale. Si alza sistematicamente tardi al mattino perché la sera si da alle uscite, alle ore piccole e all’uso smodato di alcool. Il suo capo sta valutando di licenziarlo in quanto è sistematicamente in ritardo la mattina (un’ora, un’ora e mezza minimo) e non riesce mai a consegnare i lavori in tempo se non lavorando come un matto per tutta la notte (nel qual caso accumula qualche giorno di non uscita che deve recuperare adeguatamente). Ora ha una ragazza, che è l’ultima di una lunga serie di donne che ha lasciato perché non gli davano più un certo “quid” (così lo chiama lui) e da cui è stato lasciato per la sua sistematica inaffidabilità e per i continui tradimenti che lo fanno sentire tanto uomo. Le sue ragazze sono via via sempre più giovani ma tali relazioni non resistono mai che per pochi giorni. Sistematicamente i suoi rapporti amorosi finiscono con profonde malinconie, serate di depressione condite di alcool e profluvi di parole, lacrime e falsi momenti di consapevolezza. Il giorno dopo ricomincia esattamente tutto da capo. Nei periodi in cui le emozioni si susseguono a ritmi impressionanti (“col vento in poppa” dice lui) la colpa di ciò che non va bene è sempre degli altri, del mondo, del sistema, delle donne, in un alternanza incredibile di esaltazione e malinconia. Nei “periodi di bonaccia”, dice sempre lui, invece, la depressione è sempre a portata di mano come la coperta di Linus, e la colpa è sempre la sua, fino al punto in cui si riprende e spazza via la malinconia, semmai aiutato da una buona pinta di birra forte e rossa. Giuseppe è capace di descrivere mondi fantastici, a volte sembra di vederlo mentre cavalca i suoi pensieri e gode delle sensazioni che prova. Il suo capo è estasiato da questo suo talento ma ha compreso che è il suo peggior nemico, ed è solo per questo che all’ennesimo ritardo non lo licenzia (come tante volte gli capita di immaginare). Finchè una bella mattina d’estate, il nostro si presenta al lavoro a mezzogiorno e il direttore lo licenzia in tronco con un buon condimento di urla e vituperi. Giuseppe è visibilmente distrutto e si rifugia nelle braccia di mamma, che lo consola attribuendo la colpa al sistema che non capisce il suo ragazzo, così bello, creativo e intelligente. La sera di quel giorno da cani, Giuseppe si da alle droghe, tanto per apportare una piccola variazione al tema e fuma una quantità spropositata di canne senza tralasciare un mezzo litro di birra ogni tanto. Risultato finisce in ospedale per una settimana e comincia a rendersi conto che forse deve cominciare a porsi qualche domanda seria. Uscito dall’ospedale continua a sfasciare il suo fisico e le sue relazioni accompagnato dall’ansia della ricerca di emozioni sempre più forti. E resta solo. La ragazza lo abbandona, gli amici si allontanano e la mamma inizia a dubitare della bellezza e intelligenza del suo ragazzo. In tutto ciò il padre continua a non considerarlo. La figura paterna descritta sino ad ora potrà dare al lettore il sapore di uno strafottente e odioso genitore. È proprio lui, invece, ad innescare il cambiamento di Giuseppe. Uscendo dal suo proverbiale mutismo, inizia a ragionare con lui. Gli parla della sua vita, piena zeppa di sacrifici. Dopo aver visto la sua azienda andare letteralmente in fumo due volte (si scoprirà poi che aveva pestato i piedi a qualcuno poco raccomandabile), lavora tantissimo per dare ai figli un futuro degno di essere vissuto. Insieme affrontano un percorso a ritroso, assaporando il sapore della famiglia. Giuseppe si rende conto che quel padre che vedeva come un assenza e un muro invalicabile, soffriva in silenzio e intanto lavorava 12 ore al giorno. Giuseppe decide di farsi aiutare anche perché si rende conto che l’ansia di ricerca di emozioni sempre diverse lo sta minando fisicamente. È dimagrito tanto, pur bevendo quantità industriali di birra. Contatta un esperto e inizia con un lui un viaggio verso la responsabilità che lo porta dapprima ad abbandonare gli alcolici e le sigarette che fumava in quantità spropositata. Ricomincia a praticare sport dopo tanti anni, si mette a fare lavori umili conoscendo la realtà dei problemi quotidiani e delle responsabilità che in tutta quella marea di emozioni e alcool non aveva mai considerato. Ogni tanto ricade in qualche relazione d’amore fuggevole ma ci sta lavorando. È in cammino verso la responsabilità verso se stesso aiutato da un padre ritrovato che da fantasma è divenuto un punto di riferimento insostituibile della sua vita.

3.5 L’apatico e la quiete

I controlli valutativi dello stimolo dell’apatico sono l’arousal sommato al controllo e all’ attivazione. L’apatico vive un’ansia che è assenza di contenuti, genera senso di vuoto collegato anche a sensi di colpa per ciò che non viene fatto.
L’ansia che si configura in tale senso da origine ad uno schema ripetitivo che parte dallo spegnimento (tendenza alla quiete) continuo con sensi di colpa per ciò che non è stato fatto e finisce con ulteriore spegnimento. L’ansia è in questo caso una sorta di attivazione, che all’apatico farebbe un gran bene, a patto, però, che non venga piegata dalla tendenza alla quiete.
Nel mondo della vita biologica e psicologica la quiete non esiste. La quiete è perseguita come situazione ideale di stabile rilassamento conseguente allo spegnimento delle tensioni. Intorno alla sensazione della quiete corrono grandi equivoci:
- Solitamente si intende per quiete la cessazione delle attività e la scomparsa dei disturbi
- L'associazione del riposo o del sonno con la quiete porta a fraintenderne il senso: il riposo consiste nel ritemprare l'organismo dalla stanchezza eliminando le tossine, il sonno è una situazione di diminuzione della coscienza vigilante e non è necessariamente quieto. Può essere agitato, profondo, leggero, etc.
- Intenderla alla stregua di rimozione dei problemi e l'oblio. Non può manifestarsi nessuna forma di calma dimenticando le tensioni: la temporanea distrazione da esse non è quiete ma sovrapposizione di un vissuto piacevole ad un altro spiacevole che resta presente nel sé, pur se in secondo piano. Dallo spegnimento delle attività mentali e corporee e dall'attenzione focalizzata su ciò che vi è di quieto si può provocare in se stessi un certo grado di rilassamento. Il training di rilassamento procede attraverso la percezione attenta del corpo, del sé e del mondo che conduce ad ascoltare, riconoscere e mettersi in sintonia con l'armonia biologica. Questo primo benessere che si avvicina alla quiete può però essere quasi immediatamente contaminato dall'emersione della propensione al piacere. Ma il piacere non è quieto; la percezione del piacere allontana immediatamente dalla quiete perché mette in moto la tensione desiderante di gustarlo, replicarlo e mantenerlo.
- A volte si pensa alla quiete come esito di una totale protezione: posso stare in pace perché nulla può turbarmi, giacché chi mi sta intorno ha sistemato ogni cosa e mi protegge. Nemmeno in questo caso si può parlare di quiete, semmai di sazietà affettiva per pienezza di attenzione ricevuta, di efficace controllo sugli eventi dislocato nelle funzioni di altri, di fiducia verso chi circonda, di sospensione temporanea della vigilanza ansiosa, di indifferenza nei confronti degli eventi possibili. La quiete è un'altra cosa.
La quiete non è, quindi, l’assenza di attività o di stimolazioni ma presenza di una sensazione specifica di tutt'altro tipo.
Ove si continui a pensare alla quiete come sinonimo di assenza di stimoli, rilassamento e oblio, la contraddizione è evidente. La quiete è una sensazione specifica che si trasforma in emozione attraverso la contemplazione attiva e l'empatizzazione del fatto di essere contemplati.
 L'apatico è inattivo, manca di motivazione, volontà e desideri, e non esprime giudizi sugli eventi del mondo come buoni o cattivi, desiderabili o indesiderabili.
L’apatico a prima vista sembra una persona umile perché non attrae nessuna attenzione su di sé. Dà l’impressione di essere assente, annebbiato e stordito. L’apatico è rigido, e non rispondendo ostinatamente ai richiami fingendo ottusità, riesce ad imbestialire le persone che contano su di lui.
L'apatico regredisce ad un comportamento originario in cui semplicemente si scioglie nel suo vissuto, senza farlo diventare oggetto.
L'apatico tende a non rendere oggetto il suo proprio personale vissuto e, così facendo, si chiude al coglimento empatico del vissuto altrui. Riesce così a diventare insensibile agli stimoli e alle sensazioni in modo da non doversi coinvolgere.
Si può diventare apatici a seguito di lutti, abbandoni o dolori che ci sconvolgono la vita lasciandoci inebetiti. Oppure si può scivolare nell'apatia quando non si sono ricevuti sufficienti stimoli e spinte alla motivazione o quando le azioni o i propositi o gli impegni assunti sono stati ripetutamente squalificati. Il copione dell’apatico può essere la conseguenza dell’indifferenza con cui un essere umano è stato accolto e trattato.
Altra caratteristica dell’apatico è quella di avvolgersi nei suoi pensieri e fantasticare di compiere le azioni che dovrebbe fare nella realtà. Il suo modo di pensare è in linea con il suo sistema di organizzazione delle azioni, massimamente ripetitive e flemmatiche. Egli pensa di alzarsi dalla poltrona, vestirsi, uscire, fare le tutte le commissioni che urgono e poi tornare a casa, ma non si alza dalla poltrona. Ciò che colpisce nel suo modo di concepire le attività e di realizzarle non è tanto la lentezza quando la ripetizione delle attività, tendenti tutte allo sforzo minimale, spezzettate in singoli gesti, a volte numerati e cadenzati. Non accetta di tener dietro a più cose contemporaneamente poiché dovrebbe cambiare ritmo al suo lavoro e, soprattutto, al suo pensiero.


http://www.lealidiicaro.it/articoli/disturbo_ansia.php, 2014

K. Lorenz, il declino dell’uomo,Mondadori, Milano, 1980

E. Borgna, le figure dell’ansia, Feltrinelli Editore, Milano, 2005

A. Bracconier, piccoli o grandi ansiosi? Come trasformare l'ansia in una forza,Raffaello Cortina editore, Milano, 2003

E. Smeraldi, L. Bellodi, M.Provenza, A proposito dell'ansia, in E. Smeraldi, L. Bellodi (a cura di), I disturbi d'ansia. Clinica e terapia, edi-ermes, Milano, 1991

A.T. Beck, L’ansia e le fobie, Astrolabio, Roma, 1985

V.  Masini,  Dalle  emozioni  ai  sentimenti,  Manuale  di  Artigianato  Educativo  e  di  Counseling
Relazionale.  Nuova  Edizione.  Edizioni Pre.Pos.,  Terni, 2009, p.40

J.A Gray., The neuropsychology of anxiety: An enquiry into the functions of the septo-hippocampal system,, Oxford University Press, Oxford, 1982 

V.  Masini,  Dalle  emozioni  ai  sentimenti,  Manuale  di  Artigianato  Educativo  e  di  Counseling
Relazionale.  Nuova  Edizione.  Edizioni Pre.Pos.,  Terni, 2009  

R. Vanali, aspetti non verbali nel counseling, un aiuto nel primo colloquio, pag. 80, www.prepos.it, 2014

L’azione educativa di tranquillizzare svolge la funzione di spegnere le tensioni che impediscono decisioni lucide ed obiettive. Ha bisogno di tranquillizzazione sia il soggetto in preda all’ansia che quello agitato per paura, rabbia o generico nervosismo legato alla difficoltà di produrre prestazioni efficaci.
Chi intende tranquillizzare deve riuscire ad essere una spugna senza restituire alcun segnale all’altro se non di comprensione e di apertura al fine di far proseguire più a lungo possibile il dialogo, senza modificarne il tono ed il ritmo.A tal fine deve fare assoluta calma dentro di sé e non deviare dal percorso comunicativo scelto dall’altro, non deve contraddire l’interlocutore, pur smorzandone i toni, e non deve cadere nelle inevitabili provocazioni che l’altro può rivolgergli.Chi riesce efficacemente in una comunicazione tranquillizzante è un soggetto forte e calmo che non si accende e non si eccita ma si esprime trasmettendo pace.
Destinatari di tal comunicazione sono gli ansiosi (per spegnere la loro ansia) e gli aggressivi (per calmare la loro tensione aggressiva).La confusione ricorrente tra tranquillizzazione e sostegno impedisce la comprensione dei due processi comunicativi; la tranquillizzazione spegne, il sostegno orienta e guida verso le azioni corrette. La confusione non è solo nominale ma di sostanza, giacché l’orientamento per un soggetto aggressivo o per un soggetto ansioso può produrre nuova tensione e disporlo all’azione anzitempo.
È possibile smuovere dall’ansia (anche quando si è già trasformata in panico) verso l’attaccamento attraverso qualche evento capace di tranquillizzarlo.
L’ansioso può essere liberato (temporaneamente) dal suo estenuante bisogno di sicurezza, agito attraverso l’esercizio di organizzazione della realtà entro i rituali della sua consuetudine, spingendolo verso l’esperienza dell’attaccamento.Nei confronti di un bambino ansioso e spaventato può essere utile far esprimere dall’ambiente un segnale di sottomissione e di bisogno di cura. Un bimbo, che si difende dalla paura di un buio improvviso, può essere spinto all’attaccamento invitandolo a cercare di prendere in mano un suo orsacchiotto, illuminato da una pila o un accendino. Tale immagine è una presenza di tranquillizzazione e può stabilizzarlo attraverso il sentimento di tenerezza che sperimenta per l’orsacchiotto tutto solo. Ugualmente è possibile distogliere dalla paura e dall’ansia un adulto invitandolo ad interessarsi amorevolmente di qualcosa che ha bisogno delle sue attenzioni. La tranquillità dell’educatore orienta verso l’interesse di attaccamento ad oggetti, cose o ambienti che, se non presi in dovuta considerazione, potrebbero soffrirne o deteriorarsi. La tensione rabbiosa ed aggressiva può essere tranquillizzata invitando ad osservare qualche sorpresa interveniente nell’ambiente. L’energia e la carica dell’aggressività coinvolgono le persone in una pienezza da cui non è facile uscire: la tensione si autoalimenta attraverso il ruminamento ed essi trovano sempre un motivo valido per continuare ad essere carichi e non spegnersi. Nell’intervento di modificazione emozionale non si tratta di insegnare a spegnersi (questo è un obiettivo educativo di lunga durata) ma di agire situazionalmente sulla situazione di emergenza. Attraverso la presa in considerazione di stimoli ambientali, mediante la percezione della sorpresa, è possibile distogliere dal ruminamento interno e, con una comunicazione lenta e sicura, riuscire a tranquillizzare.
La modalità comunicativa di chi tranquillizza deve assolutamente rispondere a due caratteristiche: estremamente lenta con grande attenzione a “staccare” le parole pronunciate l’una dall’altra con una pausa forzata nella frase ed estremamente concentrata verso l’altro affinché “senta” di essere l’oggetto della comunicazione.
Il bimbo che sta distruggendo un giocattolo che non riesce ad aprire o che sta frantumando a morsi le tettarelle di un biberon, può essere distolto attraverso l’emozione della sorpresa facendo comparire dinanzi ai suoi occhi un oggetto inusuale e sconosciuto. Lo spostamento verso la sorpresa è possibile mostrando con tranquillità la sorpresa medesima, affinché sia lui in prima persona ad attribuirle significato ed importanza.
Allo stesso modo, ma con un’attenzione ed una prudenza infinitamente superiore, può essere distratto dalla rabbia un adulto, spostando la sua attenzione su una notizia del telegiornale o facendogli pacatamente notare una situazione di interesse per catturare la sua attenzione. La tranquillizzazione può miscelarsi con il sostegno solo laddove la persona che la riceva sia un soggetto che ha bisogno di conferme, e non solo a parole. Se, a livello empatico, sa di essere profondamente compreso, può trovare una spazio per fermare i suoi conflitti interni tra l’attività ed il controllo della sua vita mentale. Una comunicazione tranquillizzante diventa allora anche coinvolgente. Ciò può indurre l’altro a “non agire”, specie se la comunicazione contiene un richiamo ed una responsabilizzazione. “Fare calma” dentro di sé è comunque il motto obbligatorio per chiunque voglia tranquillizzare, altrimenti il suo dire ed il suo agire sarà inefficace.
V. Masini, http://counselingrelazionale.wordpress.com/2012/01/20/la-tranquillizzazione, 2014

V.  Masini,  Dalle  emozioni  ai  sentimenti,  Manuale  di  Artigianato  Educativo  e  di  Counseling
Relazionale.  Nuova  Edizione.  Edizioni Pre.Pos.,  Terni, 2009  

R. Vanali, aspetti non verbali nel counseling, un aiuto nel primo colloquio, pag. 80, www.prepos.it, 2014

V.  Masini,  Dalle  emozioni  ai  sentimenti,  Manuale  di  Artigianato  Educativo  e  di  Counseling
Relazionale.  Nuova  Edizione.  Edizioni Pre.Pos.,  Terni, 2009  

R. Vanali, aspetti non verbali nel counseling, un aiuto nel primo colloquio, pag. 81, www.prepos.it, 2014

V.  Masini,  Dalle  emozioni  ai  sentimenti,  Manuale  di  Artigianato  Educativo  e  di  Counseling
Relazionale.  Nuova  Edizione.  Edizioni Pre.Pos.,  Terni, 2009  

R. Vanali, aspetti non verbali nel counseling, un aiuto nel primo colloquio, pag. 81, www.prepos.it, 2014

Sebbene la sua pigrizia sia generatrice di problematiche, a volte anche fastidiose, tende a cullarsi in essa. Se le cose che gli sono affidate, il suo lavoro, gli oggetti che gli appartengono vanno a male rimuove prontamente il dispiacere dicendo a se stesso che poco gli importa. Di fronte a questioni davvero rilevanti, si dichiara incapace e si appoggia come un parassita alle persone del suo intorno. Il sistema che adopera è solitamente quello di piangersi addosso e manovrare gli altri con il suo senso di impotenza e incapacità. E poi gratificare gli altri con complimenti e moine. Ma non si coinvolge e non c’è da attendersi reciprocità da lui. Sa bene quando lo spazio di azione con l’altro è esaurito e modifica il bersaglio delle sue richieste: propone costantemente agli altri una condizione di accordo e di amicalità comoda e poco impegnativa, mostrandosi condiscendente e comprensivo. Di fatto è indifferente ai vissuti altrui ma riesce ad accattivarsi le loro simpatie perché, interpellato per un parere o per una richiesta di solidarietà, riesce sempre a dire ciò che le altre persone desiderano sentirsi dire. Ha infatti la fine capacità di prendere le posizioni che richiedono il minor sforzo e il minor coinvolgimento. Evita il confronto o la chiarificazione, si limita a comprendere ed a dare sempre ragione a chi ha di fronte, in modo da accattivarsene la simpatia per poi utilizzarla nel momento di un particolare bisogno.
Certamente la sua vita non acquista mai un particolare colore o intensità di vissuto ma non sente l’esigenza di modificarla o migliorarla; per farlo occorre la fatica di accendersi di motivazione o di sperimentare l’ansia del cambiamento vivendo turbamento e fragilità.
Il pigro che abbia tentato l’attivazione di sé senza riuscirci (o per scarsa motivazione o per indolenza nel compiere le azioni) rischia di entrare in una condizione sfibrante di astenia: una stanchezza estenuante e sfibrante prodotta dal non avere agito pur essendo attraversati da forti stimolazioni. La sofferenza dell’astenia è prodotta dal non trovare gusto nelle attività intraprese o, almeno, non trovarne a sufficienza e, dunque, piombare nella noia, sgradevole sensazione di insufficienza di impulsi. I disturbi patologici della personalità dell'apatico si esprimono, oltreché nell'abulia, in molti disturbi cosiddetti fittizi, nella amnesia dissociativa, nel disturbo di depersonalizzazione, nel disturbo passivo di personalità, nella ipersonnia primaria.
La pigrizia determina disordine emotivo perché il pigro evita anche la fatica di riorganizzare e chiarire i propri sentimenti, li subisce solamente.
La pigrizia infatti non consente di giungere alla pace agognata ma solo ad un penoso senso di vuoto ed ad una profonda tristezza prodotta dai ripetuti fallimenti.
Apatia e pace appartengono allo stesso ceppo emozionale, ma hanno una natura interna bel diversa pur se appaiono equivalenti nell'espressione esterna. Su questa equivalenza è possibile investire per spostare l’apatico verso la sua evoluzione. Certo dovrà prima acquistare il senso della motivazione e dell’organizzazione, lo slancio d’amore e di attaccamento, la concretezza dell’umiltà e il desiderio della libertà. Il suo itinerario educativo è lungo e complesso poiché tende a ritrarsi da tutte le sensazioni e a non elaborare nessun tratto emozionale come parte costitutiva del sé. Il suo sé è infatti molto povero e vuoto. Quando se ne rende conto sperimenta una profonda disistima, che purtroppo lo conferma nell’inutilità di qualsiasi iniziativa. Questo circolo vizioso rinforza l'apatico nella sua pigrizia astenica. 
L’evoluzione dell’apatico fa sì che egli diventi un soggetto che possiede una delle più grandi doti: è un portatore di pace. La sua capacità di fare calma, di non lasciarsi coinvolgere dalle emozioni e dai conflitti, lo rende in grado di insegnare a spegnere le tensioni e di indicare la via per raggiungere la quiete. Il saggio capace di quiete e contemplazione è un soggetto estremamente vivo ed attivo dentro di sé; il suo rapporto con il mondo è di partecipazione ottimistica e amorosa.
Per realizzare questo percorso ha trasformato al positivo ciascuna delle emozioni di base con cui è entrato in contatto: ha conosciuto la tensione della carica e la ha saputa trasformare in impegno, ha lavorato sui suoi processi di dissociazione e con umiltà si è trattenuto dall’andare oltre scegliendo di essere libero anche dal suo eccessivo desiderio di libertà, ha gustato il piacere ma senza precipitare nell’angoscia, consapevole che senza la fusionalità temporanea con altri che vivono il piacere esso è sempre evanescente, ha sperimentato il suo senso di insufficienza e, senza avvitarsi dentro di sé, ha imparato ad essere umile, ha conosciuto la grazia della vicinanza e dell’attaccamento e li ha fatti uscire dal suo io non attaccandosi più ad altri ma lasciandoli attaccare a sé, si è fatta amica la paura sopportando il dolore, libero dall’ansia ma vigile nei confronti dei pericoli. Al termine di questo cammino ha imparato la distinzione tra apatia e quiete contemplativa e attraverso quest’ultima ha stabilito un contatto profondo con la sua personale umanità realizzando quanto meglio poteva del suo sé .

3.5.1 L’apatico e la comunicazione non verbale

In termini di comunicazione non verbale i tratti caratterizzanti questa tipologia sono: i movimenti mai eccessivi o veloci ma, al contrario, lenti, calmi e poco rumorosi. Se è invitato a sedersi prende forma: la sua postura é rilassata e la gestualità ridotta al minimo. La mimica facciale è inespressiva (in questo caso anche un minimo movimento potrebbe nascondere tantissimo). In generale il suo modo di porsi non desta particolare attenzione come se fosse, appunto, impersonale. Per la sua proprietà di adattamento, il suo modo di vestire è appropriato a tutte le situazioni e  di solito non è quasi mai trascurato .

3.5.2 Studio di caso

Simone è un consulente del lavoro cinquantenne con uno studio ben avviato. È sposato da circa vent’anni e ha un figlio universitario. Gli amici lo definiscono flemmatico, il suo eloquio è monotòno, inframezza le parole con lunghe pause di riflessione e circumnaviga i concetti dimenticando spesso l’obiettivo del ragionamento. Guida lentamente, a velocità moderata, sovente sbaglia ad imboccare gli incroci. Sta bene con il suo enorme sigaro, un bicchierino di rum, seduto sul divano. I suoi problemi di ansia nascono dall’incrocio di due situazioni per lui problematiche.
Le incombenze lavorative a cui non ha più voglia di stare appresso e il rapporto con la moglie (ruminante eccessiva e logorroica), che sta iniziando ad evitare e con cui ha ridotto i rapporti al minimo. La tipologia di ansia che lo attanaglia è inquadrabile con una sinusoide. Va e viene a seconda dei carichi di lavoro e della maggiore o minore insistenza della moglie nello scuoterlo dai periodi di apatia in cui sovente è immerso.
Egli soffre anche di forti mal di schiena dovuti alla posizione che assume sulle sedie e sul sedile della sua auto, riconducibili più a marine sedie a sdraio che utili a lavorare o a guidare.
Egli afferma sempre di trovarsi “in un equilibrio instabile” che però sta minando gli affetti e il suo lavoro, che va avanti, in massima parte, grazie al suo fidato collaboratore, avaro organizzato ed efficiente.
Egli cerca in tutti i modi (i suoi ovviamente) di uscire da questa situazione che a sprazzi mina la tranquilla conduzione della sua vita.
Tali modalità si concretizzano in periodi (limitati) di lavoro intenso, volti a recuperare gli arretrati e a spegnere l’aggressività dei clienti, seguiti da giorni e giorni di (meritato) riposo in cui si gode i suoi enormi sigari e divora programmi televisivi vuoti e disinteressanti.
Simone potrebbe continuare a vivere così all’infinito, dato che la strategia che ha affinato nel corso degli anni gli consente di ovviare ai periodi di carica e stress con lo spegnimento quasi assoluto della sua vitalità. La sollecitazione al cambiamento viene dalla moglie, che una sera, gli annuncia di volersi separare. Simone si risveglia dal suo torpore, col mondo che gli è caduto addosso perché, pur non volendo soddisfare le richieste della moglie (perché gli costa molta fatica), la ama ancora. Cade allora in una spirale di ansia che non gli permette di fare più niente. Non riesce a lavorare, con lei non parla più, sfugge qualsiasi incontro con i suoi amici. È completamente bloccato se osservato dall’esterno. All’interno, però, è in movimento ansioso e inizia a pensare di doversi far aiutare, anche se la cosa lo irrita non poco in quanto dovrebbe scollarsi dallo stallo in cui versa.
Il lavoro condotto su Simone è iniziato dalle piccole e, apparentemente, insignificanti abitudini disfunzionali della sua vita. Raddrizzare il sedile della macchina, stare seduto in un modo decente su sedie e poltrone. Anche l’organizzazione del lavoro viene rivista, sempre per gradi, facendo assaporare a Simone le conseguenze positive di ogni minimo mutamento. Egli inizia a rispettare le scadenze, a non dimenticare gli appuntamenti (utilizzando finalmente un tablet che gli ricordi gli appuntamenti) e a organizzare gli orari di lavoro, depurandoli da inutili e lunghe pause. In tal modo diviene consapevole della tenaglia che lui stesso si è stretta addosso. Nota come ha più tempo per sé e soprattutto per sua moglie e suo figlio.
Sua moglie, però, non ne vuole più sapere e sta già cercando una nuova casa dove andare ad abitare. Il periodo della separazione è molto doloroso per tutta la famiglia, purtroppo la consapevolezza di Simone rispetto alle sue mancanze nel rapporto di coppia è arrivata quando la moglie ha già deciso di andar via di casa. Questo sconvolgimento rischia di rendere inutile il lavoro fatto fino ad allora. Simone ritorna, infatti, nella spirale ansiosa dell’apatico. Il risultato finale è ancora lo spegnimento.
Simone sta ancora tentando di ricostruire il rapporto con la moglie. Il risultato non è garantito e nemmeno scontato ma lui vuole tornare insieme a lei, ed è disposto ad affrontare le problematiche relazionali che si trascinano da anni. Sta cercando di trascorrere più tempo con lei, ha organizzato qualche viaggio e dialogano di più.
Invece di mettere l’interruttore di se stesso su “off” ogni volta che si discute di qualcosa, sta cercando di capire cosa realmente vuole sua moglie e soprattutto, anche sbagliando, tenta di dare delle risposte. Il ritrovato dialogo è la base da cui partire per ritrovarsi. Riguardo l’ansia, il movimento consapevole delle sue emozioni fa si che Simone non si senta più schiacciato da ciò che, in precedenza, affrontava con lo spegnimento e la rinuncia a qualsiasi azione.
Il lavoro da fare è ancora lungo. Deve sperimentare tante e tante situazioni in cui sceglierà l’alternativa allo stallo in modo da sedimentare nuove modalità di azione consapevole. Consapevole perché la scelta, ogni volta dovrà essere ragionata e assaporata, con la coscienza che tempo prima sarebbe stata diversa, forse opposta. Simone è in cammino, l’ansia inabilitante è passata, ora affronterà il futuro in maniera diversa, consapevole di ciò che stava perdendo e delle sue relazioni disfunzionali.

 

 

3.6 L’invisibile e la vergogna

I controlli valutativi dello stimolo dell’ invisibile sono l’arousal connesso al controllo. L’invisibile vive un’ansia causata dalla timidezza, dall’eccessiva sensibilità e dai timori relazionali tipici di tale idealtipo. Il timore di non essere all’altezza delle situazioni, di non essere capace di fare le cose, che gli altri siano sempre migliori e più bravi può generare disfunzioni relazionali ansiose.
Si intende comunemente per vergogna una emozione che va dall’imbarazzo, al pudore, all’inibizione. Il primo passo per comprendere il movimento dell’io denominato vergogna è immedesimarsi nel momento in cui si comprende di “stare facendo una brutta figura”. In tali occasioni siamo presi dal desiderio di scomparire, di sprofondare, di nascondersi e di diventare invisibili. Ma non tutti coloro che “fanno una brutta figura” precipitano in una inibizione acuta e dolorosa; alcuni reagiscono con sfrontatezza, con arroganza, con ilarità, con indifferenza, con autocontrollo o con autocommiserazione. L’invisibile invece si curva su di sé, non avanza alcun movimento di difesa e subisce il peso della vergogna. Peso che lo schiaccia e lo inibisce ancor di più.
L’invisibile prova un profondo senso di disistima e sfiducia in se stesso. Non si sente mai abbastanza bravo, abbastanza forte o abbastanza all’altezza delle situazioni. Tutti sono sempre migliori di lui e tutto ciò che fa è sempre meno bello e importante di quanto fanno gli altri. Quando riesce in qualcosa è solito attribuire il suo successo alla fortuna e non alla sua preparazione. Di solito si mostra agli altri inferiore, inadeguato, incapace o imbarazzato.
L’invisibile vive le diverse atmosfere ed i climi sociali con una sensibilità sfiancante, aggravata dalle sue difficoltà comunicative. Non riferisce ad altri quanto vive, nella convinzione che gli altri non darebbero credito alle sue sensazioni e ai suoi pensieri, da lui percepiti inconsistenti e banali.
Vive una forte chiusura introversiva ed è attento a non mostrare nulla di sé nel timore di essere svelato e giudicato. Non è a mai a suo agio ed addirittura soffre quando è obbligato ad improvvisare le sue reazioni. Ha bisogno di tempo per prepararsi ad ogni incontro per la vergogna di essere scoperto per quello che è. Per questo motivo tende a ritrarsi dalle conoscenze e dalle relazioni, anche se non ama la solitudine. La sua solitudine è una conseguenza della sua fuga. Piuttosto che agire si nasconde ed osserva, ammira ed invidia coloro che sono in grado di comportarsi in modo socialmente adeguato.
L’invisibile non cura molto il suo aspetto fisico perchè sottovaluta se stesso e spera di passare inosservato. Non indossa nulla capace di attirare l’attenzione e, anche se desidera più di ogni altra cosa l'essere riconosciuto ed accettato per quello che è, cerca di non far trasparire nulla di autentico.
La sua vergogna lo porta all’inibizione, al pavore, al pudore ed alla sua continua autoesclusione dalle situazioni che possono provocargli imbarazzo.
Non ama mostrare i suoi sentimenti perché pensa che siano fuori luogo, fuori tempo, scontati. A lui piacerebbe moltissimo poterli esprimere e donare finalmente a qualcuno, ma si autoconvince che non sarebbero capiti ed accettati.
Non è in grado di accumulare energia e motivazioni perché è abituato a sminuirsi per timore di occupare troppo spazio; anche i suoi sentimenti sono sempre deboli e non visibili. Non riesce ad arrabbiarsi perché l’ira è una emozione troppo consistente perché possa albergare nel suo sé.
Una caratteristica del movimento dell’io della vergogna è quella di crescere di intensità: una persona che si vergogna, si vergogna anche di vergognarsi. La crescita dell’emozione è un progressivo avvitamento nel movimento dell’io. L’avvitamento è la via dell’invisibile per diventare ancora più invisibile fino a cercare di scomparire del tutto, soprattutto di scomparire dalla percezione di sé.
Quella dell’invisibile è la storia di chi è stato bersaglio di sfiducia.
Egli sente di essere sconfitto in partenza ed abbandona ogni confronto a meno che non venga incoraggiato con rinforzi multipli. L’incoraggiamento e l’impalcatura di sostegno (scaffolding) serve a rendere possibile l’impegno e la disposizione fiduciosa.
Senza sostegno, anche con forte direttività l'invisibile evita il confronto e non si mette alla prova: senza prove e senza successi effettivi ed oggettivi non cresce la stima di sé. La via di uscita dalla bassa autostima è quella di ottenere risultati attraverso la metodicità e la disciplina, che costituiscono il vero antidoto per l’invisibile.
Un aspetto non secondario del complesso di inferiorità è il suo ciclico accompagnarsi ad senso di superiorità tutto interno e non oggettivato nelle cose. Se dal confronto con la realtà l'invisibile esce perdente e sconfitto accade che dentro di sé inneschi una valutazione compensativa di superiorità incompresa da altri, inspiegabile ed ancorata su uno schema di valutazione del merito completamente intimista e, di conseguenza, assolutamente ineffabile. Gli altri vincono il confronto e sono oggettivamente migliori di lui ma non possiedono qualcosa che egli ha dentro, nemmeno arrivano a sfiorare la comprensione del suo mondo interiore, della sua sensibilità e impressionabilità. Naturalmente queste doti non gli servono mai per realizzare qualcosa di concreto e sono da considerarsi difetti anche se egli sente di essere inspiegabilmente superiore proprio per quelle caratteristiche che lo rendono inferiore. Questo ragionamento è la trama di un copione bipolare tra invisibile e delirante mediante oscillazioni tutte interne al sé tra inferiorità e superiorità che rimangono sempre inverificabili. A fronte di queste possibili oscillazioni interne può essere utile accompagnare al sostegno comparazioni con altri, dalle quali l’invisibile possa emergere positivamente.
Qualora l'invisibile non si metta in gioco e perpetui l'avvitamento su di sé egli si dispone alla oppressione psicologica da parte di altri. Se vale poco (o se il suo pur alto valore è inutile, inespresso e dunque inesistente) l'unica via per essere accettato è quella della umile e servizievole disponibilità, la quale ovviamente lo dispone ad essere schiacciato e oppresso da soggetti poco attenti e rispettosi, se non addirittura inquisitori e prepotenti. Ora, se l'invisibile si è aperto e si è affettivamente attaccato a qualcuno che, non comprendendo la profondità del suo sentire, lo calpesta e lo violenta, può diventare pericoloso e tagliente per non essere messo del tutto fuori gioco.
La sua incapacità di scendere in lizza per la aperta difesa di sé lo tormenta con invidia e gelosia. Invidia e gelosia sono copioni complessi il cui motore è l'oscillazione tra inferiorità e superiorità e la moltiplica è il risentimento ruminante verso qualcuno che non è possibile vivere come oggetto di amore e attaccamento. Le sue energie attivate dall’invidia (non avere qualcosa che altri hanno) e dalla gelosia (temere di perdere qualcosa che si ha) aprono verso gli aspetti più negativi dell'invisibile: la falsità, le maschere, le insidie mediante istigazione e le strategie di aggressività dissimulate.
L’incapacità dell’invisibile di costruirsi difese ha accresciuto la sua capacità nel percepire il vissuto altrui, specialmente i vissuti di sofferenza. L’invisibile ha una grande capacità di sopportazione del dolore e della sofferenza: paradossalmente in ragione della sua sensibilità. Egli non frappone alcuna barriera tra sé e il dolore, lo incamera e si lascia annientare senza sfogarsi nemmeno con un gemito.
Il dolore inizialmente lo schiaccia, poi lo depotenzia, gli toglie energie e lo rende quasi evanescente. Ma lentamente scompare e lo lascia con una esperienza che lo spinge a fare qualcosa per gli altri; la sua sensibilità si può così riaprire all’esterno con lo scopo di sollevare, al momento giusto e all’altezza giusta, chi sta vivendo una sofferenza.
Un aspetto estremamente interessante dell’invisibile è lo sviluppo della capacità di coglimento empatico acuta al punto da riconosce la sofferenza altrui anche quando è nascosta o mascherata. La sua efficacia nel sollevare gli altri è amplificata dal fatto di riconoscere le pene altrui, anche non espresse; l'altro si sente così riconosciuto e compreso.
Il rapporto di aiuto di cui l’invisibile è capace si fonda sulla realizzazione di due importanti valori: l’umiltà e la condivisione.
Umiltà in ragione della concretezza a cui l’invisibile fa sempre riferimento: parte dalla terra, dal dolore, dalle difficoltà, dalla fatica per giungere ad una sensibilità quasi sensitiva; condivisione perché riesce ad immagazzinare informazioni sugli altri con grande capacità di ascolto e grande memoria. Non può esistere condivisione di qualcosa se i soggetti che condividono non sono certi che l’altro sappia bene cosa si sta condividendo. È indispensabile far comprendere a chi è in difficoltà la propria profonda consapevolezza della difficoltà medesima. E ciò con informazioni e riferimenti concreti, tratti dalla osservazione e dalla memoria. L’invisibile è appunto un  grande osservatore capace di accumulare informazioni senza essere visto.  Se l’uso di ciò che sa diventa servizio agli altri l’invisibile riuscirà, mediante la condivisione umile, a provare soddisfazione per se stesso nell’aiutare l’altrui sofferenza. Ma l'oggettiva stima di sé deriva solo dal rapporto con qualcuno che sappia comprendere il suo sentire, sappia incoraggiarlo nell’azione, verificare con l'oggettività delle sue capacità e mostragli i suoi meriti, le sue virtù. Spesso gli invisibili sono i martiri che consentono con la loro sofferenza agli altri di vivere ma la svalutazione si ribalta solo con l'aiuto di qualcuno che li premia come eroi della sofferenza, li conduce a scoprire il loro personale valore ed ad iniziare a valutarsi positivamente .

3.6.1 L’invisibile e la comunicazione non verbale

I tratti della comunicazione non verbale caratterizzanti questo idealtipo sono:
La postura, visibilmente compressa. La persona è come schiacciata da un peso e leggermente incurvata in avanti (capo compreso). Il volto è spesso corrucciato e triste  I movimenti sono leggeri e veloci, cammina molto spesso tenendo il capo chino. Se invitata a sedersi non è a suo agio perché visibilmente osservata e allora potrebbe mettere in atto diversi cambiamenti di posizione che diventeranno sempre più controllati; di conseguenza anche il colorito del volto potrebbe variare arrossendo, lo sguardo potrebbe diventare sfuggente o essere rivolto verso il basso. Il suo modo di porsi, abbigliamento compreso, non desta particolare attenzione con lo scopo di mimetizzarsi. In realtà il suo modo di vestire è trascurato e lo si può notare osservando i particolari.
Solitamente ha spalle magre e quadrate, braccia ossute e torace incassato ma con gambe solide che appaiono cariche e rigide. Il volume della voce è basso e di il tono acuto. Il ritmo è lento e discontinuo dando l’impressione, a volte, di parlare con un filo di voce, esile ed esitante .

 

3.6.2 Studio di caso

Viviana ha 36 anni, un viso da adolescente e gli occhi caldi e tristi di chi ha sofferto molto. È sposata da 6 anni con Marco e ha un bambino di 2. Viviana è figlia unica ed è cresciuta con la nonna perché i genitori sono deceduti in un incidente stradale quando era ancora adolescente. Lavora come ricercatrice universitaria nel settore chimico e, dice di essere il classico topo da laboratorio. Certo il fatto che esca poco dal suo bunker non dipende solo dalla mole di lavoro che le viene affidata. In massima parte dipende dalla sua disistima che la porta a sfuggire le relazioni sociali all’interno dell’università. Se si trova da sola non ha problemi. Ha preso la laurea in tempi record recludendosi per anni non riuscendo però a dimostrare il meglio di sé dinanzi ai docenti. È riuscita poi a passare un concorso per ricercatore e il suo terrore sono le lezioni che il professore con cui collabora le ha chiesto di tenere. Viviana rimanda continuamente l’entrata in aula, con scuse sempre più fantasiose. La tensione interna che soffre per questa ed altre problematiche che vive a seguito della sua estrema sensibilità la stanno destabilizzando. Marco, suo marito, soffre da sempre la sua chiusura, vorrebbe uscire di più, andare a ballare qualche volta e  incontrare più gente. Viviana non vuole, ha paura, vergogna, accusa stati di tensione sempre più forti e il vizio che l’accompagna dall’infanzia, l’onicofagia, si acuisce fino a rendere le sue mani inguardabili e costringendola a nasconderle alla vista degli altri. Prima di chiedere aiuto, passano due anni, e la tensione che provava in determinate circostanze si estende toccando tante sfaccettature della sua vita. Il rapporto con l’amato marito si incrina, ma lei resiste strenuamente stritolata dal suo copione. L’ansia si sta generalizzando e la sta minando sempre più profondamente. Viviana decide di chiedere aiuto, non vive bene, è divenuta eccessivamente sensibile e indecisa e le sue relazioni stanno risentendo di tale stato.
Il percorso intrapreso è una lenta risalita, costellata di mille prove. Ognuna aggiunge un tassello alla sua autostima. Sa anche che cadrà tante volte, come in effetti avviene, ma può rialzarsi e continuare. La molla è non perdere il suo compagno di vita e non rendere disfunzionale il rapporto con suo figlio. Il giorno cruciale è la sua entrata in aula. Con l’aiuto di tecniche di rilassamento riesce a tenere la sua prima lezione senza combinare i disastri che aveva immaginato centinaia di volte.   
Ora fa lezione due volte a settimana. Ogni volta prova un disagio sempre minore,
l’essenziale è che ora non lo combatte, rafforzandolo, ma ha imparato a farlo fluire.
L’onicofagia, invece, non va via. Continua a mangiare le unghie dolorosamente…
Un’amica le segnala una brava estetista specializzata in ricostruzione unghie. Affronta il problema, si fa ricostruire le unghie, e oggi si guarda le mani per lunghi minuti chiedendosi se sono davvero le sue!

3.7 L’adesivo e l’attaccamento

I controlli valutativi dello stimolo dell’adesivo sono l’attivazione connessa all’arousal. L’adesivo vive un’ansia causata dalla ricerca continua di consenso ed accettazione.
L’attaccamento e il distacco sono tappe dello sviluppo del sé nelle quali le ripetute sensazioni di coesione e distanza danno forma ad un'onda emozionale avvolgente e sciogliente: il dialogo del duo madre - bambino. Tale dialogo introiettato è costitutivo del sé perché la sensazione di essere avvolto non è statica, se così fosse non sarebbe avvertita nel suo svolgersi, ma dinamica.
Caratteristica emblematica dell’adesivo è la ricerca di attaccamento la cui forma di spostamento più nota è l’appagamento vicario nel cibo. La bocca è l’organo con cui il bimbo ha il primo contatto positivo: l’incontro con il seno materno e l’assunzione del caldo colostro. Il primo latte non solo gli scalda lo stomaco ma lo sazia e lo appaga dopo che ha lasciato l’utero materno.
Ma non è solo il latte che lo riempie quanto la sperimentazione del contatto materno, la prima carezza, un bacio sulla pelle, il primo abbraccio.
La mancanza della madre, l’assenza di un adulto che la sostituisca, la perdita del padre o la deprivazione affettiva conducono verso il copione dell’adesivo.
L’adesivo ha una forte propensione a ricercare nel cibo un appagamento vicario rispetto all’attaccamento ed è soggetto a manifestare molti dei diversi disturbi dell’alimentazione: dalla preferenza per i cibi dolci e nutrienti ai disturbi della nutrizione o dell'alimentazione incontrollata, fino alla bulimia.
Il copione di base dell’adesivo è incentrato sul desiderio di sperimentare la sensazione di attaccamento, di cui è continuamente in attesa come di una promessa ancora non mantenuta. Le successive evoluzioni, anche patologiche, sono schemi di categorizzazione psicologica e di azione giocati in contatto con altri copioni che, invece di equilibrare, rendono ancor più gravi le condizioni del soggetto.
Per comprendere il copione di base dell'adesivo occorre mettere bene a fuoco la natura del  suo bisogno di attenzione: egli tende a richiamare l'interesse degli altri su di sé, a mettersi in mostra fin da piccolo per giungere addirittura ad interpretare il ruolo del pagliaccio nel gruppo. Pur di essere considerato sceglie di far ridere di sé. Ama il contatto fisico, si pone sempre a bassa distanza dalle persone, chiunque siano, le tocca, le richiama a sé. 
Una particolare dislocazione dell'affettività verso gli oggetti è naturale conseguenza del bisogno di attenzione: pupazzi, giochi, libri, oggetti diventano bersagli di una transizione vicariante. L'adesivo li anima, dialoga con loro, li considera una estensione del sé e non dismette mai il loro possesso. Egli si circonda di oggetti, li chiede in regalo, fa di tutto pur di averli con sé. Può diventare così possessivo da non aver pace fino a che quel pupazzo non è vicino al suo letto o quel giocattolo non è nelle sue mani o quella tal collezione non è completa. Nell'adesivo che non è riuscito a saziare la sua fame affettiva e che non ne ha nemmeno compreso la natura desiderante può prodursi il fenomeno della cleptomania.. 
L’adesivo si presenta come un buon amico perché ha bisogno di amici al punto da svendersi, diventare servizievole oltre misura, sottomettersi e lasciarsi ingannare.
Pur di essere apprezzato diventa condiscendente ed è facilmente condizionabile e manipolabile. Più vive carenze affettive, più concede potere all’altrui presenza: accetta qualunque ordine o proposta, anche insana, pur di essere parte di un gruppo. Nel rapporto con gli altri non cerca di far prevalere la sua opinione ma giunge a sacrificare se stesso purché vi sia accordo tra le persone e non avvenga nessuna separazione o allontanamento.
La sua proiezione verso gli altri lo rendono riconoscibile per altre due sue caratteristiche: l'imitazione e la sottomissione.
Egli imita le persone o i personaggi da cui si sente attratto. Le persone concrete che lo circondano sono modelli da cui attinge esempi di atteggiamenti e categorie di pensiero e di azione. Egli aderisce alle modalità di azione che si appiccicano a lui nella loro espressione superficiale, senza comprensione profonda. Imita dapprima le persone che gli piacciono per addivenire all'imitazione dei personaggi, anche astratti e inventati 8quelli dei fumetti, ad esempio), che gli risultano simpatici o attraenti. Manifesta così un comportamento organizzato su gestualità, espressioni e battute di spirito spesso inadeguate alle situazioni reali. Il disordine di questo insieme di atteggiamenti può subire una ulteriore trasformazione: ove maturi un distacco dal sé ed un desiderio di autorappresentazione grandiosa l'adesivo può percorrere la pericolosa via del delirio di immedesimazione. Egli si comporta come quel personaggio che a lui piace fino a credere di essere davvero quel personaggio.
La ricerca affettiva lo propone come un soggetto disponibile ad ogni contatto a cui l'adesivo si adegua per favorire le richieste dell'altro ed essere da lui accettato. Basta ascoltarlo, gratificarlo e promettere un’attenzione crescente per il futuro e contemporaneamente minacciare che, se egli non si comporterà secondo le aspettative, interverrà una separazione, determinata dalle situazioni, non dalla volontà dell'altro. L'ansia di separazione è il motore della personalità dipendente e, attraverso l'attrazione di appagamento e la paura di perdere tale possibilità, la sottomissione si attua.
C’è un momento in cui l’adesivo comprende il suo eccessivo bisogno di attaccamento e trova qualcuno a cui esprimere tale bisogno e condividerne le manifestazioni. A quel punto il suo difficile viaggio nelle relazioni diventa un facile volo. Quando il suo bisogno di essere oggetto di attenzione è saziato, non sarà più petulante ma affettuoso, sensibile, affezionato e premuroso. L’adesivo ha una grande capacità di coltivare le relazioni, ricordarsi gli anniversari, far sentire la sua presenza con continuità alle persone. È sempre presente nelle situazioni difficili ricordando agli altri che possono contare su di lui. Sa essere un consolatore. Ha un grande senso dell'amicizia ed è fedele anche quando la fedeltà gli costa e gli fa vivere contraddizioni. Ha grande memoria per le attenzioni che ha ricevuto e discrimina in modo netto le persone che lo hanno ferito da quelle che lo hanno aiutato e compreso. È un generoso portatore di aiuto specialmente nei confronti di persone che come lui hanno vissuto poca gratificazione di attaccamento. Egli tende sempre a prendere in considerazione l'aspetto positivo rispetto a quello negativo e trova comunque qualcosa di bello e piacevole in tutte le situazioni.
È in grado di tenere insieme persone molto differenti tra di loro accontentando i loro gusti e preferenze, in ragione della sua capacità di individuare le diverse modulazioni della propensione all’attaccamento presenti in ciascuno. Sa stare nei gruppi ed è in grado di mantenerli compatti ed in accordo mediando tra le diverse posizioni. E’ un ottimo gregario perché ciò che maggiormente gli interessa è il successo di tutti, dell’insieme, del gruppo e non il suo personale .

3.7.1 L’adesivo e la comunicazione

Dal punto di vista comunicativo l’adesivo ha bisogno di parlare molto e di esprimersi per la sua continua ricerca di condivisione. I suoi discorsi possono essere prolissi e pieni di piccoli particolari insignificanti. Se invitato a sedersi la sua postura appare rigida e protesa in avanti per ascoltare meglio e avvolgere l’interlocutore. Il suo modo di porsi é aperto e diretto e guarda le cose e le persone dal basso verso l’alto. Il modo di vestire è molto visibile, vivace e colorato, a volte anche eccessivo. Solitamente ha una corporatura atletica ed armoniosa anche se l’addome ed il bacino sono maggiormente sviluppati e, in genere, tende ad un leggero sovrappeso. Il volume della voce è alto ed il tono è grave. L’eloquio è veloce e continuo essendo una persona carica che ha bisogno di raggiungere e farsi notare dal prossimo .

 

 

3.7.2 Studio di caso

Giulia ha 40 anni ed è da tutta la vita che rincorre qualcuno o qualcosa. Lavora in un’azienda di servizi alla formazione ed è la factotum del gruppo. La sua vita privata è inesistente, non ha un fidanzato da tanti anni e gli amici sono andati via da parecchio tempo. Nel lavoro cerca tutto, la soddisfazione professionale, le relazioni personali, un fidanzato e gli amici.
Giulia vive da sola in una casa al centro della città e ogni giorno va a casa dei suoi per stare vicino alla mamma e al padre malato.
Quando incontra i colleghi al lavoro è di solito molto accomodante e gentile: li invita a prendere un caffè, si offre di accompagnarli a fare servizi e cerca di intrattenere rapporti anche fuori dal lavoro. Diventa un’altra persona, però, se qualcuno tenta di sostituirsi a lei nelle grazie del direttore. Anche se il collega sta semplicemente facendo il suo lavoro, lei filtra certi comportamenti interpretandoli come una perdita di considerazione da parte dell’altro (nel qual caso il direttore) verso di lei  e mette in atto azioni boicottanti e sabotanti che producono effetti esattamente contrari a quelli che desidera: allontanamento e l’incrinarsi delle relazioni all’interno del gruppo di lavoro. Questi suoi interventi a gamba tesa sono stigmatizzati, attraverso l’esclusione e con un aumento dell’aggressività nei suoi confronti. Lei, ovviamente, cerca di mutare i suoi comportamenti ma non fa altro che ricadere nel solito copione e origina un processo di azione – reazione continuo che si spezzerà solo a causa della crisi in cui l’azienda si verrà a trovare. Il problema di Giulia, però, è uguale, anzi è aggravato dalla possibilità che intervenga il licenziamento suo o di qualcuno del gruppo. Nel giro di un anno la crisi aziendale si aggrava e il gruppo di cinque persone viene azzerato. Restano solo lei, una segretaria e uno stagista.
In lei cresce l’ansia perché, nonostante i suoi sforzi di sottomissione, gli stipendi non le vengono pagati. Viene sempre più marginalizzata e non ha più l’alibi e lo sfogo di dover lottare contro qualcuno del suo vecchio gruppo. Ora è sola.
La sua ansia in breve periodo diverrà distruttiva. Si chiude a casa, quando non lavora, se incontra qualcuno lo affligge con i suoi problemi, insomma ha bisogno di qualcuno e non c’è nessuno che le dia una mano.
Con i suoi ultimi risparmi inizia un percorso di cambiamento che la porterà ad affrontare i suoi problemi di attaccamento disfunzionale ansioso attraverso azioni concrete. Inizia una causa con la sua datrice di lavoro per ottenere tre anni di stipendi non pagati. Si licenzia immediatamente e manifesta a tutti la nuova consapevolezza  di essersi immolata ad una causa scelta in totale libertà.
Giulia non ha ancora evoluto il suo copione da invisibile ma ci sta lavorando consapevole del suo recente vissuto in cui ha scelto di abbandonare qualcosa e qualcuno, cosa che non aveva mai fatto.    

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

4. Irradiazione affettiva, disfunzioni causate dall’ansia e counseling

Questa cavalcata sulle onde delle tipologie del modello Pre.Pos. e delle storie di persone che hanno affrontato l’ansia può risultare troppo descrittiva. Certo mi si potrebbe obbiettare che nell’introduzione parlavo dell’umanità del counselor e me la sono dimenticata da qualche parte.
Allora vale la pena precisare alcune cosette che diano più sapore alla lettura, un pò come un pizzico di sale insaporisce un piatto un tantino insipido.
Il counselor relazionale opera sulla base della sua umanità relazionandosi, in primis, con l’umanità del cliente.
Dice bene il Prof. Masini a proposito del concetto di umano….  “precede il concetto di persona, così come il concetto  di  umanità  precede  il  concetto  di  personalità.  L’essere umano diventa  persona nel  suo sviluppo e non a tutti gli esseri  umani  è  dato, per motivi genetici, economici, relazionali, sociali e politici di poter sviluppare  a pieno la loro struttura personologica. L’identità biologica precede infatti la  coscienza  e  la  coscienza  precede  la  personalità.  La scienza  personologica  tende  a rintracciare ogni germe di “persona” nella creaturalità che incontro al fine di identificarla e dare ad essa  dignità. La dimensione persona logica della creaturalità  è  quella che descrive un essere intenzionale e cosciente che può decidere tutto tranne il suo inizio e la sua fine. Questo è l’uomo in un’ottica ben diversa da quella della psicologia. 
La psicologia  infatti  studia  il  comportamento  degli  individui  e  i  loro  processi  mentali. Tale studio riguarda le dinamiche interne dell'individuo, i rapporti che intercorrono tra quest'ultimo e l'ambiente, il comportamento umano ed i processi mentali che intercorrono tra gli stimoli sensoriali e le relative risposte.
Pur derivando dal greco psyché la psicologia non è studio dello spirito o dell'anima  ma, adeguandosi a nuove prospettive, è divenuto lo studio della mente. Infatti esiste la psicologia umana e la psicologia animale, ovvero la psicologia delle diverse forme di mente.
Le applicazioni della personologia toccano i campi:    
1)  etico:  dove  persona,  razionalità  e  libertà  si  convertono  l'uno  nell'altro  con  il  duplice imperativo agire secondo coscienza e formarsi una coscienza.
2)  estetico:  dove  l'universale  poetico  è  visto, non come conformazione dell'opera  alla cosiddetta bellezza  ideale, o a un  tipo  intellettivo  di  bellezza,  ma  come  conformazione dell'opera  alla  singolarità  espressiva,  col  conseguente  carattere  dell'unicità, dell'originalità, della novità del prodotto  artistico  come  manifestazione  di un'intimità nel suo profondo sentire. Così l'opera bella, per la sua singolarità espressiva,partecipa della stessa singolarità della persona e diventa un imperturbabile termine di valore senza prezzo.   
3)  sociale: il rapporto sociale, che è endogeno nella persona, dal  punto  di  vista della personologia non si configura mai nel senso che sia la persona funzione  dell'ordine consociato, ma nel senso che è l'ordine consociato funzione della  persona. La società si finalizza nella persona e non viceversa.  
4) educativo: il valore educativo è nella persona per lo sviluppo di quell'essere proprio del singolo, fonte della dignità e della responsabilità morale.
5)  relazionale: giacché la personologia non mira a costruire in astratto la personalità normale ma tende  a prevenire le coincidenze negative che la possono distorcere e sviare dal suo sviluppo, a sostenere le sue difficoltà ed a mettersi al servizio  dello  sviluppo della sua consapevolezza.”
Ho citato questo estratto della Lectio Magistralis del Prof.Masini al Convegno dei Cavalieri di San Valentino a Terni del 2013 per descrivere la strada che Pre.Pos. ha imboccato e che è quella della razionalità relazionale riflessiva.
Dal punto di vista relazionale, il professionista riflessivo (relazionale) è un counselor relazionale che aiuta le persone, le famiglie, i gruppi sociali a superare il disagio attraverso la metodologia  dei sistemi di osservazione diagnosi guida relazionale. Il counseling è una relazione di aiuto che muove dall'analisi dei problemi del cliente, si propone di costruire una nuova visione di tali problemi e di attuare un piano di azione per realizzare le finalità positive desiderate dal cliente: prendere decisioni, migliorare le relazioni,  sviluppare la consapevolezza, gestire emozioni e sentimenti, superare conflitti.
La capacità del counselor di instaurare relazioni socio-solidali, presuppone lo sviluppo della capacità di irradiazione affettiva.
Presupposto per irradiare qualcosa è avercela.
Un counselor, quindi, deve curare la relazione con se stesso sviluppando l’affettività.
Ricapitoliamo: un counselor instaura una relazione socio-solidale con il cliente per evolvere un disagio. Il che significa generare una relazione biunivoca. Attraverso tale relazione si possono veicolare sensazioni, emozioni, valori. Una relazione così descritta difficilmente produrrebbe benefici perché risulterebbe da un asettico processo causa-effetto, che va quindi condito una buona dose di affettività, che amalgama la relazione, conferisce sapore e permette l’evoluzione positiva del disagio.
Cito a tal proposito uno spicchio di luce di Daniela Troiani:
”nell’affettività i principi non diventano dogmi e burocrazia bensì valori, che consentono l’evoluzione individuale e collettiva. Ciò richiede sapienza, ma anche determinazione, quel saper render sacra e solenne un’azione, un’offerta all’altro, che diviene donazione di sé per l’altro. L’individuo può darsi così solo nel caso in cui abbia consapevolezza piena di sé e dell’altro, di quali sono i propri confini. Ci vuole grande maturità e una personalità solida per non farsi tentare dal ricorso all’autoinganno, per ascoltare l’altro nelle sue affermazioni e nel suo silenzio, per stare con lui proprio, per dare a lui, per fare pienamente con lui nella coscienza di ciò che si fa, si dà e si può dare. Perché la consapevolezza di sé presuppone l’umiltà del riconoscere i propri limiti, i propri bisogni e le proprie vulnerabilità.
Ci vuole un coraggio bruciante per darsi e dare all’altro senza aspettative, nella coscienza dei suoi bisogni.
Ci vuole coraggio perché laddove ci sia autoinganno, c’è una sorta di paracadute relazionale che protegge dalle delusioni, ma che rende il dono ambiguo e fraudolento.
Ci vuole il coraggio di liberarsi dalle difese, con un atto di fede verso l’altro e verso l’essere umano, verso la sua bontà innata e/o verso il suo potenziale miglioramento. Solo chi è sufficientemente centrato in se stesso, può sbilanciarsi così tanto verso l’altro da donare a lui senza proteggersi, ma solo proteggendo l’altro dal proprio bisogno di approvazione, riconoscimento e dal proprio delirio di onnipotenza.
Così, per esempio, dovrebbe operare un counselor, libero dai suoi dogmi e dai suoi bisogni nella relazione di aiuto.”
L’affettività e la capacità di irradiazione costituiscono una potente base nella risoluzione dei disagi relazionali legati all’ansia. Alla base è necessario vi sia l’autentica volontà del counselor e la sua autentica libertà interiore. Ciò presuppone la maturità del professionista della relazione d’aiuto che lo renda capace di percepire le catene dell’altro e la determinazione nell’aiutarlo a spezzare il circolo vizioso in cui si trova. Per far questo non serve un’asettica distanza e la pedissequa conoscenza di procedure. Va messa in campo la potenza dell’empatia e dei valori e la forza dell’affetto.  

 

 

 

 

 

 

 

 

Conclusioni

Questo viaggio attraverso le disfunzioni relazionali legate all’ansia tenta di dimostrare come il counselor relazionale, in quanto professionista che pone alla base del suo lavoro una conoscenza teorico – pratica strutturata, può essere efficace nei processi di cambiamento legati agli stati ansiosi.
La strutturazione degli idealtipi, attraverso la ricchezza delle descrizioni e delle indicazioni sul lavoro da intraprendere con i clienti, aiuta molto l’approccio e la soluzione di problematiche complesse e particolareggiate legate indubbiamente ai copioni ben descritti per le 7 tipologie Pre.Pos..
La creatività del counselor relazionale nell’elaborare strategie utili ad aiutare il cliente a risolvere problematiche legate all’ansia, promana, secondo me, da due fondamentali qualità sviluppate durante il corso di studi: l’umanità e la capacità di instaurare un’efficace relazione d’aiuto.
Ho notato, nelle mie esperienze con clienti e in particolare con quelli con disfunzioni legate all’ansia che queste due capacità fanno da amalgama all’utilizzo di tecniche e strategie.
Certo è vero che per sviluppare percorsi di counseling efficaci bisogna assolutamente accrescere tali qualità. Vederle funzionare, fluire come energia che circola tra due persone e assistere al cambiamento, miglioramento, rinascita di individui che temevano di stare sprofondando nel baratro (e a volte era proprio vero), è, oltre che un’enorme soddisfazione, la dimostrazione plastica dell’efficacia del counseling relazionale.

 

 

Bibliografia

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www.nienteansia.it    
www.ansia.info

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ringraziamenti

Ringrazio innanzitutto mia moglie Dina che mi ha incoraggiato e supportato.
Ringrazio la mia famiglia, avete creato un mostro.
Ringrazio Antonio e Rosaria. Siete due riferimenti davvero importanti.
Ringrazio il mio gruppo di formazione, insieme abbiamo pianto, riso e siamo cresciuti.
Ringrazio il Prof. Masini. Di cuore.
Ringrazio lo staff Pre.pos. e i docenti. Ci avete messo l’anima e si è sentita.
Ringrazio Daniela. Si è sorbita la mia tesi e le mie citazioni.

Ringrazio gli Spandau Ballet. Through The Barricades è stata la colonna sonora delle notti passate a scrivere.

Ringrazio Dio. Mi è stato vicino…. in silenzio.

Ringrazio Nonna Maria, da lassù so che sorridi.

Ringrazio i miei amici, siete come sempre preziosi.

Ringrazio i miei occhi, anche questa volta ce l’abbiamo fatta….

V.  Masini,  Dalle  emozioni  ai  sentimenti,  Manuale  di  Artigianato  Educativo  e  di  Counseling
Relazionale.  Nuova  Edizione.  Edizioni Pre.Pos.,  Terni, 2009  

R. Vanali, aspetti non verbali nel counseling, un aiuto nel primo colloquio, pag. 82, www.prepos.it, 2014

V.  Masini,  Dalle  emozioni  ai  sentimenti,  Manuale  di  Artigianato  Educativo  e  di  Counseling
Relazionale.  Nuova  Edizione.  Edizioni Pre.Pos.,  Terni, 2009  

R. Vanali, aspetti non verbali nel counseling, un aiuto nel primo colloquio, pag. 82, www.prepos.it, 2014

V.  Masini,  Dalle  emozioni  ai  sentimenti,  Manuale  di  Artigianato  Educativo  e  di  Counseling
Relazionale.  Nuova  Edizione.  Edizioni Pre.Pos.,  Terni, 2009  

R. Vanali, aspetti non verbali nel counseling, un aiuto nel primo colloquio, pag. 82, www.prepos.it, 2014

V.Masini, Lectio Magistralis, Riflessività relazionale e consapevolezza , pubblicato su www.prepos.it

Ibidem

D.Troiani, Bisogni del counselor, distorsioni della relazione d’aiuto e affettività, articolo in corso di pubblicazione

 

Fonte: http://www.prepos.it/tesi%202014/Le%20disfunzioni%20relazionali%20relative%20all'ansia%20di%20%20Alberto%20Aliastro.doc

Sito web da visitare: http://www.prepos.it

Autore del testo: A.Aliastro

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