Comunicazione e il linguaggio del corpo

Comunicazione e il linguaggio del corpo

 

 

 

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Comunicazione e il linguaggio del corpo

COMUNICARE
CON INTELLIGENZA EMOTIVA
SVILUPPARE E CONSOLIDARE LE QUALITA’ DEL LEADER
NELLE COMPETENZE PERSONALI E SOCIALI

Considerazioni Preliminari sulla neurofisiologia delle emozioni

La relazione tra ragione ed emozioni è estremamente complessa, ma entrambe sono componenti essenziali dei meccanismi mentali.Nell’ultimo decennio si è verificata una profonda evoluzione nella comprensione di questi meccanismi: si è riconosciuto che le emozioni svolgono un ruolo importante nelle operazioni cognitive, in altre parole, la parte del nostro cervello che è responsabile delle emozioni, è in grado di inibire, ostacolare o anche favorire il corretto funzionamento della parte deputata al pensiero razionale. Diviene allora fondamentale imparare a gestire efficacemente le proprie emozioni, in modo da potenziare le proprie capacità cognitive e relazionali, dal momento che quando il rapporto tra ragione ed emozioni diventa squilibrato, si determina un peggioramento delle facoltà complessive di percezione e di decisione.
Le emozioni sono pertanto sempre più considerate attitudini fondamentali della vitache governano i nostri pensieri, soprattutto attraverso la memoria e i ricordi. A proposito del problema da risolvere e/o la decisione finale da prendere, spesso ci basiamo sulle emozioni piuttosto che  processare tutte le informazioni raccolte. Nella parte più profonda e antica del nostro cervello si trova, infatti,  la      “centralina” che regola tutte le emozioni e normalmente le risposte emotive sono controllate dalla corteccia frontale, che ci permette di non venire sopraffatti da rabbia, paura, invidia etc. A questo punto è importante approfondire la conoscenza del cervello attraverso lo studio della neurofisiologia delle emozioni:

  • L’evoluzione del cervello

 


Per meglio comprendere la grande influenza delle emozioni sulla mente razionale e per capire anche come mai il sentimento e la ragione entrino in conflitto tanto facilmente bisogna considerare il modo in cui si è evoluto il cervello umano.
La parte più primitiva del cervello, che l’uomo ha in comune con tutte le specie dotate di un sistema nervoso relativamente sviluppato è il tronco cerebrale che circonda l’estremità encefalica del midollo spinale.
Non si può affermare che questo cervello primitivo sia in grado di pensare o di apprendere,  piuttosto, si tratta di una serie di centri regolatori programmati per mantenere il corretto funzionamento e l’appropriata reattività dell’organismo, in modo da assicurare la sopravvivenza.
Da questa struttura molto primitiva: il tronco cerebrale derivano i centri emozionali. Milioni di anni dopo, nel corso dell’evoluzione, da questi centri emozionali si evolsero le aree del cervello pensante, ossia la “neocorteccia”  la grande massa di tessuto nervoso “convoluto” che costituisce i livelli cerebrali superiori. Il fatto che il cervello pensante si sia evoluto da quello emozionale ci dice molto sui rapporti fra pensiero e sentimento: molto prima che esistesse un cervello razionale, esisteva già quello emozionale.
La neocorteccia dell’ Homo Sapiens, la più sviluppata rispetto alle altre specie, è responsabile di tutte le nostre capacità segnatamente umane. Essa è sede del pensiero, contiene i centri che integrano e comprendono quanto avviene percepito dai sensi, e inoltre, aggiunge ai sentimenti ciò che noi pensiamo di essi e ci consente di provare sentimenti a proposito delle idee, dell’arte, dei simboli e dell’immaginazione.Questa nuova componente del cervello ha consentito l’aggiunta di altrettante nuove sfumature alla vita emotiva. La neocorteccia rende possibili, infatti, le finezze e la complessità della vita emozionale, ad esempio la capacità di provare sentimenti sui propri sentimenti. Quanto più complesso è il sistema sociale, tanto più essenziale diventa questa flessibilità  e di certo non esiste universo sociale più complesso del nostro.Poiché molti centri cerebrali superiori si sono sviluppati dal sistema limbico, o ne hanno estesoil raggio d’azione, il cervello emozionale ha un ruolo fondamentale nell’architettura neuronale. Come fonte dalla quale si sono sviluppate le parti più recenti del cervello, le aree emozionali sono strettamente collegate a tutte le zone della neocorteccia attraverso una miriade di circuiti di connessione. Ciò conferisce ai centri emozionali l’immenso potere di influenzare il funzionamento di tutte le altre aree del cervello, compresi i centri del pensiero.
b) La sede di tutte le passioni
A dimostrazione e riprova della stretta interconnessione esistente tra le menti emozionale e razionale, gli studiosi esperti di intelligenza emotiva sottolineano come la scienza abbia omai individuato nell’amigdala e nell’ippocampo, le strutture limbiche del cervello, la centrale operativa della mente emozionale.
Joseph LeDoux, un neuroscienziato che  lavora al Center for Neural Science della New York University, fu il primo a scoprire il ruolo fondamentale dell’amigdala nel cervello emozionale.
LeDoux fa parte di una nuova scuola di neuroscienziati i quali, ricorrendo a metodi e tecnologie innovative che consentono di mappare il cervello del vivente con un livello di precisione precedentemente impensabile, hanno potuto mettere a nudo misteri della mente che in passato erano rimasti inaccessibili a intere generazioni di scienziati. Le scoperte di LeDoux sui circuiti del cervello emozionale hanno rovesciato idee sul sistema limbico che avevano resistito a lungo, ponendo l’amigdala al centro dell’azione e attribuendo alle altre strutture limbiche ruoli molto diversi.
La ricerca di LeDoux spiega in che modo l’amigdala riesca a mantenere il controllo sulle nostre azioni anche quando il cervello pensante – la neocorteccia – deve ancora arrivare a prendere una decisione.
L’attività dell’amigdala e la sua interazione con la corteccia sono al centro dell’intelligenza emotiva.
c) La sentinella delle emozioni
Dal punto di vista anatomico, il sistema emozionale può agire indipendentemente dalla neocorteccia: alcuni ricordi e reazioni emotive possono formarsi senza alcuna partecipazione cognitiva cosciente. Nell’amigdala possono esserci ricordi e repertori di risposte che vengono messi in atto senza che ci si renda assolutamente conto del perché si agisca in quel modo, e questo perché la scorciatoia dal talamo all’amigdala esclude completamente la neocorteccia.Questo aggiramento sembra consentire all’amigdala di assumere il ruolo di archivio di impressioni e ricordi emozionali dei quali non abbiamo mai una coscienza pienamente consapevole.
Alcune ricerche hanno dimostrato che nei primi millesimi di secondi della percezione non solo comprendiamo in modo inconscio quale sia l’oggetto percepito, ma decidiamo anche se esso ci piace o no, “l’inconscio cognitivo” presenta poi alla nostra consapevolezza non solo l’identità di ciò che vediamo, ma anche un vero e proprio giudizio su di esso.
Le nostre emozioni hanno una mente che si occupa di loro e che può avere opinioni del tutto indipendenti da quelle della mente razionale.
d) Uno sguardo all’Intelligenza Emotiva
Le persone consapevoli del proprio sentire riescono a gestire meglio la propria vita perché hanno una percezione più sicura di ciò che veramente provano riguardo a decisioni personali. Goleman ha definito l’Intelligenza Emotiva come la capacità di motivare sé stessi, di persistere nel perseguire un obiettivo, nonostante le frustrazioni, di controllare gli impulsi e rimandare la gratificazione, di modulare i propri stati d’animo, evitando che la sofferenza ci impedisca di pensare, di essere empatici e di sperare. La conoscenza delle proprie emozioni consente di governarle e di guidarle nella direzione più vantaggiosa : in tal modo si potrà migliorare la capacità di percepire e comprendere le proprie ed altrui emozioni, imparare sia a verbalizzare che esprimerle attraverso il canale non verbale ed infine modularle, per evitare che l’ira e altre emozioni negative possono prendere il sopravvento.
Abbiamo ritenuto utile partire dal tracciare la mappa del cervello con la sua architettura neuronale, per passare poi a definire il modello dell’ Intelligenza Emotiva, attraverso le sua componenti personale e sociale della competenza emotiva, classificate in cinque dimensioni: tre relative alla competenza personale (conoscenza di sé stessi, padronanza di sé stessi, automotivazioni) e due alla competenza sociale (capacità relazionali, comprensione dei sentimenti altrui), riportate nell figura che segue.
Possedere Intelligenza Emotiva significa :

  • Essere consapevole di come certe reazioni si formino;
  • Di riuscire ad avere un autocontrollo, per ridurre gli impulsi distruttivi, verso se stessi e verso gli altri;
  • Permettereal pensiero razionale di agire in modo costruttivo, creando un senso di prospettiva sull’azione in cui si è coinvolti;
  • Sviluppare una condotta assertiva attraverso un’efficace espressione delle proprie idee, dei propri affetti, delle proprie emozioni;
  • Saper salvaguardare i propri diritti senza sentirsi perdente o aggressivo;
  • Saper rimuovere gli ostacoli che impediscono il contatto con gli altri e minimizzare il rischio di incomprensione.

Come si potrà evincere dalle pagine che seguono l’ Intelligenza Emotiva è la qualità principale del leader, che la manifesta con abilità:

  • emozionali,
  • cognitivi,
  • comportamentali,

legate all’ascolto, alla comprensione, all’assumere atteggiamenti assertivi. Le donne, nella loro costruzione pubblica e lavorativa,hanno sempre più avvertito un bisogno di formazione per apprendere tecniche al fine di:

  • Rafforzare l’autostima, acquisendo una maggiore consapevolezza delle proprie caratteristiche  personali e professionali attraverso i loro punti di forza;
  • Comprendere le dinamiche su cui si basano le relazioni interpersonali, attraverso l’acquisizione di chiavi di lettura;
  • Gestire la propria comunicazione, sia chiarendosi meglio gli obiettivi cui tendere, sia apprendendo le classiche tecniche di comunicazione verbale e non.

 

 

 


 

CAPITOLO 1

La comunicazione e il linguaggio del corpo

1.1Come comunichiamo
Potremmo definire la Comunicazione una rete molto complessa. Tale rete costituisce l’aspetto dinamico dei rapporti nella società. Detto in altro modo, la comunicazione potrebbe essere definita l’insieme di quei processi attraverso i quali le informazioni, le idee, le opinioni, i sentimenti, gli atteggiamenti sono trasmessi e ricevuti.
Obiettivo della comunicazione è rendere comune, ma, come vedremo più avanti, questo obiettivo non sempre è perseguito volontariamente.
Comunicare, quindi, è partecipare, è rendere comune attraverso una qualche relazione che si rende necessaria proprio per trasmettere e ricevere. Comunicare, perciò, è stabilire dei rapporti, delle relazioni.
I modi e gli strumenti, usati per stabilire una relazione, e una comunicazione attraverso di essa, possono essere diversi : la scrittura, il telefono, la radio, la televisione, internet, ma quello che a noi interessa e che analizzeremo in questa sede è il rapporto interpersonale, la relazione con l’altro.

1.2La comunicazione non verbale
Ogni atto comunicativo presenta sempre due aspetti : uno di contenuto e un altro di relazione. Mentre il contenuto viene comunicato attraverso un linguaggio, quasi sempre verbale e comunque codificato, un altro linguaggio detto “non verbale” e soprattutto “non codificato” definisce la relazione fra i soggetti.Un certo atteggiamento, i gesti, l’espressione del volto, il tono o la modulazione della voce, definiscono il tipo di rapporto che intercorre fra coloro che comunicano; tant’è che nelle relazioni che stabiliamo quotidianamente una parte della nostra attenzione è costantemente rivolta al tipo di relazione in quel momento.
Ma andiamo per ordine.
Osserviamo un atto comunicativo nella sua essenzialità, e cerchiamo di analizzare gli elementi in gioco.  Due persone, emittente e ricevente,nello stesso spazio comunicano,inevitabilmente, non potrebbero fare altrimenti: non si può non comunicare . Magari sarà una comunicazione involontaria, magari sarà,come vedremo, frenata, ma è pur sempre comunicazione; tutto al più comunicheranno una non voglia di comunicare.
Ancor prima che attraverso i nostri pensieri o la nostra voce, noi comunichiamo attraverso il nostro corpo. Potremmo dire che esso è in una certamisura la nostra carta d’identità e il nostro biglietto da visita.  Il nostro modo di portare i capelli, il nostro abbigliamento, il nostro modo di aspettare o ascoltare, stare seduti o in piedi, oltre che la nostra corporatura e tutti quei piccoli movimenti o atti che traducono (o tradiscono) il nostro stato d’animo del momento e anche un pò del nostro carattere, tutto questo racconta molto di noi. Ancor prima di aprir bocca e dare spazio ai nostri pensieri, abbiamo già cominciato a raccontarci.
Viene spontaneo domandarci se siamo coscienti di ciò e se, in qualche misura ne siamo condizionati. La risposta che ci viene immediata è sì, ma vediamo di scoprire, nella semplicità della nostra analisi, il perché e il come.
Conosciamo tutti quella strana sensazione che proviamo quando siamo di fronte a qualcuno che non conosciamo o conosciamo poco. E’ come un’impressione o un presentimento che gli altri possono vedere qualcosa che noi non vediamo. Per conoscerci noi dobbiamo passare per un atto riflessivo, dobbiamo pensare a noi stessi, riflettere su di noi, guardarci ad uno specchio¸l’altro ha invece la possibilità di percepire immediatamente (senza mediazioni) la nostra realtà. La consapevolezza di ciò, che deriva poi dall’esperienza di ognuno di noi d’essere a nostra volta l’altro per chi ci sta di fronte, dà al nostro interlocutore un rilievo tale da poter condizionare l’incontro e la relazione.
Per comprendere meglio questo tipo di condizionamento dobbiamo spendere qualche parola sul concetto d’identità.

 

Senza voler essere esaustivi su un argomento così complesso diciamo soltanto che nel percorso di costruzione della propria identità (percorso in continua e perenne definizione), l’altro ha un ruolo di grande importanza, importanza che cresce man mano che l’altro acquista per noi significato.
Succede così che il bisogno dell’altro, necessario alla costruzione della nostra identità, può essere accompagnato dal timore dell’altro per il giudizio che egli può esprimere su, di noi da ciò che percepisce di noi. James Hillman,filosofo, psicoanalista, figura tra le più originali della cultura contemporanea, titola un capitolo di uno dei suoi ultimi libri Esse est percepi.

Sono parole del filosofo irlandese George Berkeley (1685-1753 ), divenute famose espesso usate come epigrafe, la cui traduzione sarebbe : “Essere è essere percepiti , in pratica esistiamo, e diamo esistenza, in virtù della percezione. Noi - dice Hillman -  siamo fenomeni offerti alla vista”, poi continua: “Gli specchi dicono solo mezze verità. La faccia che ti vedi allo specchio misura la metà delle dimensioni della tua faccia vera, è solamente la metà di quella che presenti e che gli altri vedono [….] Essere è in primo luogo essere visibili” ( Hillman, 1996).
Coscienti di ciò sentiamo la necessità di dare di noi un’immagine il più possibile corrispondente a quella che abbiamo di noi stessi e farlo nel minor tempo possibile, ottimizzando tutte le occasioni a nostra disposizione. Ma se pensiamo di non riuscire nel nostro intento, o non ne abbiamo la possibilità cerchiamo di limitare il più possibile il rischio e l’eventuale danno.
Se non ci sentiamo sicuri ci proteggiamo.
Il corpo è il primo ad essere protetto, perché è il primo ad esporsi e ad esporci. Il risultato di questa protezione è sempre una qualche forma di chiusura, o di estremo controllo che imponiamo al nostro corpo, con effetti di rigidezza e tensioni varie.Il corpo non mente, non può farlo, ed ecco che allora sul suo terreno si disputa una piccola battaglia, i segni di questo conflitto, ad un occhio attento, saranno facilmente visibili.Immaginiamo un soggetto nell’atto di attraversare uno spazio in cui siano presenti altre persone, a lui sconosciute o con cui abbia poca familiarità. Il nostro attore è in scena, la sua azione sarà percepita dagli astanti, ma egli non potrà conoscere o controllare i pensieri che tale azione potrebbe suscitare.Forse nessuno penserà a lui, ma egli immagina diversamente: che gli altri lo osservano e penseranno qualcosa di lui. Egli si troverà così nella condizione di eseguire la sua azione, ma se potesse scegliere non rischierebbe, non agirebbe. Il risultato è una contrazione: una forza, quella motoria, che spinge in avanti, ed un’altra forza, psicologica, che trattiene. Il risultato,lo abbiamo detto, sono quelle tensioni muscolari che si localizzano nei fianchi, nelle spalle, nei movimenti della testa o di braccia e mani.Anche se il nostro soggetto non dovesse attraversare lo spazio e restasse seduto, dal momento che si sente osservato,  il suo corpo assumerà posizioni di chiusura, di protezione: gambe accavallate, braccia conserte, mani che toccano il viso, che  un po’ lo nascondono.
Tutti abbiamo fatto un’esperienza del genere: ad un minimo cenno di disagio ecco corrispondere una reazione fisica, a volte anche il solo toccarsi, apparentemente involontaria e meccanica.Questo disagio diminuisce man mano che aumenta la conoscenza dell’altro e noi ci sentiamo automaticamente “ più a nostro agio”. Ciò che si conosce (e ci conosce) ci protegge.Ognuno di noi costruisce per sé un’immagine che diventa un po’ il proprio personaggio. E così interpretiamo il ruolo che un po’ ci siamo scelti e ci siamo costruiti addosso: i ruoli poi possono essere diversi, pensiamo ad esempio ai ruoli socialiche possono avere varie sfumature, noi siamo contemporaneamente genitore, figli, amanti, lavoratori, condomini, ecc.
Immaginiamo di trovarci contemporaneamente di fronte al nostro compagno di vita, ad un nostro amico d’infanzia, al presidente della nostra azienda e al nostro vicino di casa. Quale sarà il nostro atteggiamento? Come risponderà il nostro corpo?
Per concludere potremmo dire che essendo gli uomini costantemente preoccupati di fornire un’immagine convincente di se stessi agli altri, ed essendo il corpo la prima immagine che l’altro percepisce, è su questo terreno che tutti gli elementi in gioco s’incontrano e spesso si scontrano, anche se apparentemente nessuno se n’accorge.

1.3La comunicazione paraverbale: la voce
La voce è la nostra seconda carta  d’identità. Subito dopo il corpo ciò che ci contraddistingue è la voce, poi verranno i nostri pensieri, le nostre azioni, la nostra storia, i progetti futuri e così via. Il percorso di individuazione è lungo e complesso, ma senza dubbio la voce è una parte della nostra identità percepita immediatamente, così come abbiamo visto essere per il nostro corpo.
La voce è anche uno strumento, attraverso cui noi ci relazioniamo al mondo esterno.
Attraverso la voce formuliamo pensieri, veicoliamo informazioni, esprimiamo sentimenti, con la voce parliamo, usiamo un linguaggio, quello verbale appunto. Il parlare, come ogni altro linguaggio risponde a un codice e se si conosce questo codice il codificare o decifrare, e comprendere qualsiasi messaggio sembra cosa ovvia e scontata. In realtà le cose stanno un po’ diversamente. Non sempre quello che ascoltiamo significa soltanto quello che abbiamo ascoltato, essendo “un mezzo di trasporto” anche la voce, come il corpo , può trasportare dell’altro, oltre il significato letterale.
Per fare un esempio ricorriamo ad un esercizio preso in prestito dal teatro.
In quanti modi si può dire buongiorno, e quanti altri significati può portarsi dietro la parola “buongiorno” oltre all’augurio di una buona giornata?
Se ad un ipotetico gruppo d’allievi attori chiediamo di ripetere la parola “buongiorno”, ciascuno lo dirà in modo diverso; ognuno di loro probabilmente seguirà questo percorso e si chiederà:

- “chi sono io”
- “in che situazione mi trovo”
- “chi è la persona cui dico buongiorno”

Una volta risposto a queste domande gli allievi diranno tanti “buongiorno” e tutti diversi, tali da farci sentire in tanti luoghi diversi, di fronte a persone diverse, con diversi stati d’animo.
Vediamo già come le cose cominciano a presentare una maggiore  complessità. Tale complessità aumenta poi se il contenuto del messaggio cambia. Se facciamo dire ai nostri allievi attori la frase: “E’ tornato Mario!” ascolteremo una tale varietà di toni e interpretazioni tante quante saranno le situazioni e il tipo di relazioni che i nostri ragazzi avranno immaginato. E’ come se le parole fossero dei contenitori capaci di contenere dell’altro, oltre al significato letterale. Da cosa dipende questo altro? Ancora una volta dal rapporto fra Emittente, Messaggio e Ricevente.
Accenniamo ora a quel fenomeno paralinguistico indicato con l’espressione tratto sopra-segmentale che sta ad indicare l’accento (non scritto bensì fonetico) che noi mettiamo su quella parola, all’interno di una frase, che  per noi ha più importanza.

Prendiamo ad esempio la frase: “il nostro presidente firma contratti” prescindendo dall’articolo “il” che fa tutto uno con “nostro”, nella frase vi sono cinque termini (segmenti) su ciascuno dei quali può cadere l’accento (il tratto). Vediamo come varia il significato della frase col variare del tratto sopra-segmentale :

  • Il nostro presidente firma tre contratti(il nostro e non il vostro o il loro);
  • Il nostro presidente firma tre contratti (il nostro presidente non il nostro vicepresidente o il nostro capoufficio);
  • Il nostro presidente firma tre contratti(il nostro presidente firma e non per esempio rifiuta o rinvia o pone in discussione);
  • Il nostro presidente firma tre contratti (tre e non quattro o due );
  • Il nostro presidente firma tre contratti (contratti e non impegnative o bozze);
  • Il nostro presidente firma tre contratti (nessuno dei termini è sottolineato, quindi non c’è alcun tratto sopra-segmentale): ciò significa che non vogliamo mettere in rilievo nessuno dei termini, vogliamo semplicemente veicolare l’informazione che il nostro presidente firma tre contratti; almeno questa è la nostra intenzione da Emittente, bisognerà poi vedere come il Ricevente accoglierà questa notizia.

Le domande, che potremmo porci, nell’eventuale analisi di un Messaggio, sono: qual è l’atteggiamento di chi invia il messaggio di fronte al messaggio stesso? E di fronte al ricevente? E quale sarà l’atteggiamento del ricevente rispetto all’emittente? E l’impatto al messaggio ? Come i rispettivi atteggiamenti s’influenzano a vicenda e influiranno alla fine sul messaggio?
Lasciamo aperte tutte le possibilità di sviluppo della situazione, ricordando solo che, anche per la voce o la parola come per il corpo, vale tutto quello che abbiamo detto a proposito del rapporto Io-Altro, nel quale la nostra voce, come strumento di mediazione, s’inserisce a pieno titolo.
Potremmo immaginare per esempio di ascoltare delle voci strozzate nel tentativo di non esporsi quando non ci si sente sicuri, oppure potremmo vedere una mano aggirarsi nei dintorni della bocca quasi a voler impedire alle parole di uscire; o ancora ascoltare una comunicazione frammentata da continui intercalari quasi a voler prendere tempo e cercare di star dietro a pensieri opposti e discordanti.

1.4Gestione dell‘Immagine nella costruzione del sé pubblico e privato
Come possiamo fare a capire ciò che il nostro corpo racconta di noi? Come decifrare gli effetti che le nostre parole sortiscono sui nostri interlocutori? Come capire il giudizio che esprimiamo di noi? In sintesi: cosa fare per gestire consapevolmente la nostra comunicazione verbale e non verbale?
Per esempio possiamo comunicare di essere persone poco credibili, poco affidabili, oppure tristi, negative, non in forma,… e le relazioni interpersonali ne risentono, con effetti di ricaduta anche sul piano professionale. Potrebbe bastare correggere la postura, o la scelta dell’abito o dei colori, per modificare positivamente questo messaggio; nel momento in cuitrasmettiamo delle disarmonie tra il nostro Essere e il nostro Apparire, noi comunichiamo, nostro malgrado, e senza accorgercene, messaggi negativi, dovuti all’incongruenza tra il linguaggio verbale e quello del corpo.
“Diventa necessario considerare le nostre “maniere”, cioè il modo nel quale gestiamo l’immagine interna della nostra identità e reciprocamente, come trattiamo quella del nostro interlocutore.
Morfologia, gesti , portamento, mimica, rapporto con lo spazio, appoggio al suolo, posizioni, espressioni del volto, ma anche scelta e combinazione dei capi d’abbigliamento, delle stoffe, degli accessori, dei colori, dei profumi, delle pettinature, del trucco, ecc., tutti questi metalinguaggi costituiscono il 93% della comunicazione; essi accompagnano le nostre parole, ma in caso di discordanza è il non verbale (il linguaggio silenzioso) a lasciare la traccia principale nella memoria dell’interlocutore - sottolinea M.L.Pierson - alla coerenza interna corrisponde una coerenza esterna. Diffidiamo dell’uomo che ride senza che il suo ventre si muova, dicono i cinesi. Quando la coerenza interna viene sconvolta (menzogna, bluff, emozioni forti, paura, timidezza, incapacità, confusione mentale), la coerenza esterna ne risente e la nostra credibilità viene messa in dubbio.Tutto sarebbe semplice nel migliore dei modi se si comunicasse da soli. Ma la presenza dell’altro che guarda e ascolta con un suo proprio universo, introduce nella comunicazione una buona dose di incertezza. Non si è mai sicuri che i segnali abbiano lo stesso significato per tutti”.
In effetti esistono regole e tecniche precise per gestire la comunicazione verbale e il linguaggio del corpo. Apprendere come gestire l’ immagine e la comunicazione significa imparare a valorizzarci con consapevolezza e  non da ultimo facilitare la performance professionale.
Alla luce di un ricco corpus di conoscenze e di esperienze relativa al forte impatto cheuna efficace gestione dell’immagine ha  sulla consapevolezza di sé e in particolare sul ruolo al femminile, possiamo evidenziare i seguenti passaggi di sintesi:

  • l ’IMMAGINE è la prima impressione visiva che noi diamo di noi ai nostri interlocutori;
  • l’IMMAGINE viene percepita dall’interlocutore come un tutto unico;la vista trasmette al cervello ciò che ha registratonel suo insieme ed il cervello automaticamente classifica, archivia secondo i propri codici e trasforma i dati estetici così immagazzinati in categorie morali.

L’output che si produce è un giudizio di valore complessivo: “mi piace, non mi piace”.
Il giudizio espresso èpositivo se :
a) il cervello ha registrato l’immagine come un insieme coerente;
b) il cervello ha riconosciuto congruità tra l’immagine ricevuta e le proprie categorie cognitive.

In realtà l’immagine non è affatto un tutto unico (anche se così viene percepita dall’interlocutore), bensì è la somma di molti elementi, quali, ad esempio:

  • LA CORPORATURA
  • IL TIPO DI VISO
  • L’ABBIGLIAMENTO
  • GLI ACCESSORI
  • IL TRUCCO
  • I COLORI
  • IL PORTAMENTO
  • LA GESTUALITA
  • L’ATTEGGIAMENTO
  • L’ESPRESSIONE DEL VISO

 

L’immagine,quindi, viene percepita come un “unicum” piacevole, bello, positivo, accettabile quando vi è coerenza ed armonia nella combinazione di tutti gli elementi sopra menzionati.
Quando, al contrario, uno o più di quegli elementi predomina in modo troppo forte, il cervello percepisce l’immagine come un “unicum” poco credibile, disarmonico, non degno di fiducia, negativo. Non individua il particolare estetico, oggettivo, fuori posto, ma esprime giudizi morali.
D’altra parte, l’interlocutore “accetta” la nostra immagine quando, automaticamente ed inconsapevolmente, vi identifica un mix equilibrato di somiglianze e di differenze con il proprio contesto di riferimento.
E tutto questo avviene in soli 40 secondi!Ecco perché si dice che la prima impressione è quella che conta.
L’immagine, dunque, è la nostra interfaccia con il mondo esterno, tanto più che l’altra persona registra e costruisce la nostra immagine in una propria mappa, recuperando e collegando i vari aspetti del nostro sé, ogni volta che ci evocherà.
Indipendentemente dalla nostra volontà, l’immagine parla di noi e racconta molte cose: non possiamo neppure immaginare quante! Anche perché, molto spesso, noi non siamo consapevoli della comunicazione non verbale attivata dalla nostra immagine; infatti un ricordo non è una semplice foto, ma è una ricostruzione approssimativa di quelle informazioni, e non solo verbali, che il nostro cervello ha inizialmente percepito e rappresentato in mappe, influenzate da tutta una serie di reazioni emotive (effetto della prima impressione).Per far sì che l’attenzione dell’interlocutore non si fermi su ciò che di noi non ci piace, sposteremo la sua attenzione sugli aspetti del nostro fisico che vogliamo valorizzare Gli stessi criteri valgono nella scelta degli accessori, della pettinatura, dei gioielli.In particolare, la loro funzione tecnica- estetica deve essere quella di:

  • Riequilibrare eventuali disarmonie di volumi;
  • Valorizzare i tratti somatici su cui decidiamo di puntare.

L’abbigliamento e la toilette dunque appagano il più fondamentale bisogno che la sola pelle non soddisfa: delimitano un dentro e un fuori, un “io” e un “altro”, creando una separazione necessaria alla vita sociale. La nostra immagine informa e influenza gli altri e insieme ci protegge.
Il linguaggio silenzioso dell’immagine di sé affonda le radici nel più profondo di ciò che lega un individuo alla sua biologia, alla sua storia, al suo gruppo sociale o professionale.
Concludendo, con Pierson: “Il linguaggio dell’abbigliamento risale alla notte dei tempi; esso ci racconta la storia della nostra società, dei costumi, dell’economia, dell’arte dell’educazione.(L’abbigliamento) è oggetto insieme storico e sociologico quant’altri mai  (…) sempre implicitamente concepito come significante particolare di un significato generale che si colloca al di fuori di esso (epoca, paese, classe sociale)”, afferma Ronald Barthes. A quelle radici hanno attinto i codici estetici.Essi hanno origine nel passato e sono in continua evoluzione, con i nostri costumi.
Nessuno può prescindere da questa filiazione.
L’abbigliamento è diverso dagli altri vettori d’immagine perché è una sede privilegiata di disciplina delle tensioni esistenti tra noi e il mondo; è  necessario inoltre saper controllare i codici e i simboli che trasmette. L’abbigliamento è un’interfaccia tra noi e il mondo. Esso partecipa alla nostra comunicazione globale a tre diversi livelli:
1.  per l’interlocutore, è il vettore potente di simboli relativi all’apparenza: classe sociale, stile di vita, impiego, posizione gerarchica, appartenenza a un gruppo;
2. per noi stessi, è un induttore psicologico. Colori, comfort, robustezza, taglio, accessori possono modificare profondamente il nostro comportamento e farci passare dal disagio al benessere;
3. si fa carico della nostra identità, in quanto è responsabile di un meccanismo di regolazione socio-culturale, quella che ci permette di rivendicare una collocazione individuale e gratificante in seno alla collettività. Questa lunga dissertazione sull’immagine di sé serve a ricordarci che in questa società dell’apparire, a nostra insaputa, anche tutto ciò che ci sembra più evoluto nel pensiero umano o nel pensiero sociale, in realtà è influenzato da elementi e sentimenti primitivi, originari, che bypassano l’essere processati dalla neocorteccia (vie subliminali).
Comunicare è qualcosa di complesso perché non è soltanto comunicare un messaggio,è anche, come abbiamo visto, stabilire una relazione, ridefinire la propria identità, e mettere in gioco tutte queste cose, mettendo in gioco se stessi, e non è certo semplice; può però diventare stimolante, se non addirittura affascinante, pensiamo per esempio agli scrittori, ai musicisti, agli attori in palcoscenico. Certo qualcuno potrà obiettare che questi signori hanno fatto della comunicazione la loro arte, ma anche nel quotidiano è possibile provare il piacere di relazionarsi agli altri.
In ogni caso è un fatto appurato, saper comunicare ( la maggior quantità e qualità della conoscenza) offre al soggetto sicurezza, forza, maggiore probabilità di difendersi, di imporsi  quando necessario, di partecipare.
Un altro degli assiomi della pragmatica della comunicazione umana recita : la comunicazione è potere; e potere si sa può essere usato in senso positivo o in senso negativo,così come: lasciare il campo all’altro non significa sottrarsi alla logica del potere o pregiudicarlo, ma casomai rafforzarlo, a proprio danno.

 

CAPITOLO 2

Il modello dell’ Intelligenza Emotiva

2.1Definizione di un efficace stile relazionale nel contesto professionale

Riteniamo utile a questo punto entrarenel contributo fornitoci dal modello dell’Intelligenza Emotiva, nell’individuazione di uno stile relazionale, capace di valorizzare i propri punti di forza e di facilitare e di influenzare positivamente il contesto di riferimento.
L’apporto più significativo del modello dell’Intelligenza Emotiva, ai fini del rafforzamento dell’autostima consiste, a nostro avviso, nella rivalutazione scientifica del peso della sfera emotiva nell’ambito del processo decisorio.
Scrive Daniel Goleman, autore di “Intelligenza Emotiva che cosa è, come può renderci felici”: “Una concezione della natura umana che ignorasse il potere delle emozioni si dimostrerebbe deplorevolmente limitata. La stessa denominazione della nostra specie in grado di pensare, è fuorviante quando la si consideri alla luce delle nuove prospettive che la scienza ci offre per valutare il ruolo delle emozioni nella nostra vita. Come tutti sappiamo per esperienza personale , quando è il momento che decisioni e azioni prendano forma, i sentimenti contano almeno quanto il pensiero razionale, e spesso anche di più.
Finora si è data troppa importanza al valore, nella vita umana, della sfera puramente razionale, in altre parole quella misurata dal Quoziente Intellettivo ( Q.I ), nel bene e nel male, quando le emozioni prendono il sopravventol’intelligenza cognitiva può non essere di alcun aiuto. Tutte le emozioni sono, essenzialmente, impulsi ad agire; in altre parole, pianid’azione dei quali ci ha dotato l’evoluzione per reagire, in tempo reale,alle emergenze della vita.La radice stessa della parola emozione è il verbo latino moveo muovere, con l’aggiunta del prefisso e (movimento da), per indicare che in ogni emozione è implicata una tendenza ad agire.Il fatto che le emozioni spingono all’azione, è ovvio soprattutto se si osservano gli animali o i bambini; è solo negli adulti “civili” che troviamo tanto spesso quella che nel regno animale si può considerare una grande anomalia, ossia la separazione delle emozioni, che in origine sono impulsi ad agire, con l’ovvia reazione corrispondente”.
E ancora: “La mente razionale è la modalità di conoscenza della quale siamo solitamente coscienti: dominante nella consapevolezza e nella riflessione, capace di ponderare e di riflettere.
Ma accanto ad essa c’è la mente emozionale.La dicotomia emozionale/ razionale è simile alla popolare distinzione fra “cuore” e “mente”; quando sappiamo che qualcosa è giusto “con il cuore”, la nostra convinzione è di un ordine diverso,  in qualche modo è una certezza più profonda  di quando pensiamo la stessa cosa con la mente razionale.
Il rapporto fra razionale ed emozionale nel controllo della mente varia lungo un gradiente continuo; quanto più intenso è il sentimento , tanto più dominante è la mente emozionale e più inefficace quella razionale…Nella maggior parte dei casi, queste due menti , l’emozionale e la razionale, operano in grande armonia e le loro modalità di coscienza, così diverse, si integrano reciprocamente per guidarci nella realtà. Di solito c’è un equilibrio fra mente razionale ed emozionale mentre questa finisce e a volte oppone il veto agli input delle emozioni. Tuttavia, la mente emozionale e quella razionale sono facoltà semi-indipendenti: ciascuna di esse riflette il funzionamento di circuiti cerebrali distinti sebbene interconnessi”.
Il tema dell’Intelligenza Emotiva è oggi diventato di grande attualità in quanto oggi i neuroscienziati dediti allo studio di questo argomento sono riusciti a dimostrare in modo, appunto, scientifico ciò che il senso comune conosce da sempre, ma che non poteva dimostrare in modo oggettivo, ovvero che il mondo dei sentimenti, delle emozioni e delle passioni ha sede nel cervello e dipende dal complesso funzionamento dei circuiti neuronali, e non già  – come si è pensato fino ad oggi – da una generica ed imprecisa sensibilità d’animo. Le conseguenze di questa scoperta sono di vasta portata, a nostro avviso, anche ai fini delle valorizzazione delle specificità femminili nel contesto professionale.
Nella nostra cultura razionalistica, infatti, fino ad oggi, è in qualche modo attribuito una sorta di primato all’Intelligenza Cognitiva, soprattutto in quanto la “scienza” se ne è occupata dettagliatamente e ha fornito strumenti oggettivi  per misurarli (si pensi ai test di misurazione del Q.I., utilizzati anche nella selezionedel personale).
Per contro si sono considerate, per così dire, di serie B le abilità del “cuore”, quali ad esempio, l’intuito, l’istinto, l’empatia, la disponibilità , la gentilezza, etc. ,  ciò è accaduto, forse, anche perché non esistevano strumenti di misurazione scientifici delle abilità del cuore. Il senso comune riconosce inoltre da sempre al “gentil sesso” il tradizionale possesso di questa abilità.
Oggi è proprio la scienza a dimostrare come le cosiddette ragioni del cuore siano anch’esse, invece, una specifica forma di intelligenza: l’Intelligenza Emotiva, come questa intelligenza abbia sede in specifiche zone del cervello, ed in particolare nell’amigdala e nell’ippocampo, e come dunque anche l’Intelligenza Emotiva sia misurabile e sviluppabile, esattamente come l’altra.
Come funzionano dunque queste strutture cerebrali, sedi dell’intelligenza Emotiva?“Mentre l’ippocampo – spiega Goleman – ricorda i fatti nudi e crudi, l’amigdala ne trattiene, per così dire, il sapore emozionale.Se cercate di sorpassare una macchina su una strada a doppio senso di marcia ed evitate per poco una collisione frontale, l’ippocampo ricorderà le specifiche dell’incidente, ad esempio su quale tratto di strada vi trovavate, chi era con voi e l’aspetto dell’altra auto. Ma sarà l’amigdala che da quel momento in poi vi farà sentire ansiosi ogni volta che cercherete di sorpassare in circostanze simili.L’ippocampo è fondamentale per riconoscere in un volto quello di tua cugina. Ma è l’amigdala ad aggiungere che ti è proprio antipatica.L’attivazione dell’amigdala sembra imprimere più fortemente nella memoria la maggior parte dei momenti caratterizzati dal risveglio emozionale: ecco perché è più probabile ricordare, ad esempio, il luogo del nostro primo appuntamento o ciò che stavamo facendo quando sentimmo al telegiornale che il Challenger era esploso. Quanto più intenso è il risveglio dell’amigdala,  tanto più forte è l’impressione del ricordo; le esperienze della vita che più ci feriscono o ci spaventano sono destinate a diventare i nostri ricordi più indelebili”.
Ciò significa che il cervello ha effettivamente due sistemi mnemonici, uno per i fatti ordinari e l’altro per quelli che hanno una valenza emozionale. Naturalmente, l’esistenza di un sistema speciale per i ricordi emozionali è un fatto assolutamente logico nell’evoluzione: essa infatti  garantisce agli animali la conservazione di un ricordo particolarmente vivido di ciò che li ha minacciati o che ha dato loro piacere.
Goleman dunque sostiene che l’Intelligenza Emotiva sia importante almeno tanto quanto quella Cognitiva, e suggerisce di concentrare gli studi sulla messa a punto di strumenti di misurazione del Quoziente Emozionale (Q.E), simili a quelli in uso per misurare il Quoziente Intellettivo  (Q.I)
In America, in effetti, già si tengono corsi di alfabetizzazione in Intelligenza Emotiva, l’apprendimento dei modi per incrementarla è già stato inserito nei programmi di molte scuole primarie e secondarie, sono stati messi a punto alcuni test di misurazione del Q.E. e molte aziende li hanno già inseriti nelle loro metodologie di selezione del personale.
In qualche caso, alcune aziende hanno addirittura sperimentato che, specie nei ruoli di vendita, le persone con elevato Q.E. e basso Q.I. raggiungono le perfomances più elevate.
Goleman riconosce che l’Intelligenza Emotiva si sviluppa per lo più nell’infanzia e spiega: “Consideriamo ora il ruolo delle emozioni quando dobbiamo prendere una decisione, anche la più razionale”. Anche Antonio Damasio, neurologo al college of Medicine della Iowa University, ha compiuto ricerche ricche di importanti implicazioni per la nostra comprensione della vita mentale.
I risultati ottenuti lo hanno indotto cioè a ritenere che i sentimenti siano solitamente indispensabili nei processi decisori della mente razionale; essi ci orientano nella giusta direzione,dove poi la paura “logica” si dimostrerà utilissima.Spesso la realtà ci mette di fronte a una gamma di scelte molto difficili (come investire la liquidazione?, chi sposare?); in questi casi, gli insegnamenti emozionali impartitici dalla vita (ad esempio il ricordo di un investimento rivelatosi disastroso o di una dolorosa rottura sentimentale) inviano segnali che restringono il campo della decisione, eliminando alcune opzioni e mettendone in evidenza altre fin dall’inizio. In questo modo, secondo Damasio, il cervello emozionale è coinvolto nel ragionamento proprio come il cervello pensante.
Le emozioni, allora hanno un ruolo importante ai fini della razionalità. Nel complesso rapporto fra sentimenti e pensiero, la facoltà emozionale guida le nostre decisioni momento per momento, in stretta collaborazionecon la mente razionale, permettendo l’accesso al pensiero logico. Allo stesso modo, il cervello razionale ha un ruolo dominante nelle nostre emozioni – con la sola eccezione di quei momenti in cui le emozioni eludono il controllo e prendono, per così dire, il sopravvento di prepotenza.
Quanto abbiamo detto capovolge le antiche opinioni sulla tensione fra ragione e sentimento: noi non vogliamo fare a meno dell’emozione e mettere al suo posto la ragione. Vorremmo invece trovare il giusto equilibrio fra le due componenti. Il vecchio paradigma sosteneva un ideale in cui la ragione poteva liberarsi dalla spinta delle emozioni,il nuovo modello ci spinge piuttosto a trovare un’armonia fra mente e cuore.
Dissente dalla visione “dualistica” dell’intelligenza evidenziata  da Goleman, un altro grande studioso di Intelligenza Emotiva, Greenspan , autore di “Intelligenza del cuore”. Egli infatti sostiene che le due forme di intelligenza sono in realtà un tutt’uno, e che nella prima fase dell’esistenza delbambino si sviluppa quella emotiva e  poi quella cognitiva;  recenti studi hanno dimostrato come eventuali disturbi nello sviluppo della prima possono poi condizionare lo sviluppo della seconda.Dare spazio al cuore o misurare tutto? O trovare un’armonia tra questi due sistemi di pensiero?Questi dilemmi sono oggi fortemente presenti anche nella cultura organizzativa, dove da un lato il project management insegna come misurare tutto per prevenire i problemi ed ottimizzare i risultati e dall’altro grandi esperti di cultura manageriali, come i coniugi Varvelli, invitano a “dirigere col cuore”. 

 

2.2. Intelligenza Emotiva e valorizzazione di genere
Il modello dell’Intelligenza Emotiva sta oggi,  diventando fondamentale punto di riferimento anche nell’ambito della cultura organizzativa e ciò, a nostro avviso, può giocare fortemente a favore delle risorse umane e in particolare delle donne professioniste, almeno per due aspetti:

  • La dimensione emozionale, considerata tradizionalmente un punto di forza femminile(anche se non esclusivo delle donne) viene rivalutata nell’ambito dei processi decisori,e quindi sul piano organizzativo, acquisire una maggiore consapevolezza della propria intelligenza emotiva può facilitare la donna impegnata professionalmente nello sviluppare una stile relazionale non solo più coerente ed armonico con la propria personalità ed individualità, non solo meno omologato, ma anche più in sintonia con i più innovativi orientamenti strategici aziendali;
  • Il modello dell’Intelligenza Emotiva può favorire il consolidarsi dell’approccio assertivo, che è universalmente considerato il più efficace sul piano professionale.Questo gioca a favore delle donne, in quanto: le donne riescono ad esprimere al meglio le proprie capacità e ad ottenere le migliori performance, quando il contesto organizzativo di riferimento è fortemente orientato all’assertività, ovvero basato su un clima caratterizzato dalla collaborazione, dalla valorizzazione del team work, dalla coerenza tra valori aziendali e valori personali, da un sistema di regole chiaro ed esplicito.

Il punto è che, spesso, capita che non si  riesce a mantenere l’approccio assertivo di fronte ad interlocutori aggressivi o in situazioni professionali critiche: in questi casi, infatti, può avvenire che istintivamente tende ad assumere comportamenti di difesa che, sul piano comportamentale, si possono tradurre in uno stile relazionale passivo o di chiusura, rendendo così possibile l’instaurarsi di un circolo vizioso che può condurre al vacillare dell’autostima e della fiducia in sé.
Il modello dell’Intelligenza Emotiva può aiutare ad acquisire consapevolezza del circolo vizioso e, soprattutto, mostra come romperlo.Esso, infatti, dimostra, in modo scientifico, come ogni individuo sia (potenzialmente) libero di scegliere il comportamento più vantaggioso in ciascuna circostanza: è l’abitudine, infatti, che ci porta a credere che, quando riceviamo uno stimolo esterno, noi non possiamo che rispondere a quello stimolo, in un dato modo.In realtà ogni nostro comportamento è la migliore risposta possibile, secondo la nostra personale esperienza, a quello stimolo, ma questo non significa che non possano essercene altre, più efficaci, da sperimentare e poi far propri  (come, per es. la risposta assertiva allo stimolo aggressivo, in luogo di quellareattiva: aggressiva o passiva).
In sostanza, il modello dell’Intelligenza Emotiva dimostra che non esiste alcun automatismo stimolo-risposta, bensì che le reazioni che ciascun individuo ha, quando riceve uno stimolo esterno, dipendono in larga misura da come quello stimolo è stato precedentemente archiviato dalla sua amigdala, e non già dallo stimolo stesso: prova ne è che, se l’individuo non ha fatto alcuna esperienza precedente che gli possa permettere di riconoscere e decodificare lo stimolo, egli probabilmente non avrà reazioni, se non di tipo interlocutorio.
Il processo relazionale, quindi, si può dire che si articola sinteticamente nei seguenti passaggi:

  1. L’individuo riceve dell’esterno degli stimoli verbali o non verbali;
  2. Lo stimolo sensoriale viene innanzitutto sottoposto a filtri, per poi essere elaborato sotto forma di pensiero (elaborazione di informazioni);
  3. Il pensiero va ad attivare le due menti: l’archivio delle conoscenze razionali e quello delle esperienze o delle conoscenze emozionali;
  4. L’output di questa elaborazione è sempre un sentimento, e questo sentimento dipende da ciò che l’individuo ha archiviato nella sua memoria emozionale, e questo può non essere particolarmente coerente con lo stimolo che ha ricevuto dall’esterno;
  5. Il sentimento, output dell’elaborazione, è un’azione che, a sua volta, diviene stimolo per l’interlocutore.

Ovviamente, la maggior parte di questo processo avviene in modo inconsapevole, per cui tutte le volte che vi è coerenza tra stimolo, elaborazione e output, non ci rendiamo conto che è un sentimento che ci muove all’azione.
Quando invece il processo non fluisce con linearità, allora ci rendiamo conto del fatto che proviamo un sentimento (negativo), in risposta allo stimolo e quindi abbiamo la sensazione che la causa del nostro risentimento sia lo stimolo inviato dall’altro.
Il modello dell’Intelligenza Emotiva quindi aiuta ad acquisire consapevolezza di quelle che sono le ragioni dei più frequenti intoppi nella comunicazione, in quanto soprattutto argomenta e dimostra come funziona “scientificamente”il meccanismo sopra esposto, ovvero che le reazioni delle persone non sono necessariamente ed automaticamente determinate dalla qualità dello stimolo esterno ricevuto, bensì dalle modalità con le quali quel tipo di stimolo è stato registrato nell’archivio emozionale della persona stessa. La conoscenza di questo meccanismo incrementa considerevolmente la capacità delle persone di leggere le dinamiche comunicazionali e, quindi  volendo, di gestirle, senza lasciarsi coinvolgere nel loop dell’automatismo stimolo-risposta.
Il principale vantaggio che le donne traggono dalla scoperta di questo modello e dalla sua applicazione pratica è quello di diventare più assertive, anche nelle situazioni professionali critiche o con interlocutori aggressivi, in quanto incrementa la capacità di non perdere la calma, di conservare il controllo emozionale della situazione e quindi potenziano le loro possibilità di influire positivamente sull’interlocutore, riuscendo  ad essere più persuasive ed autorevoli, anche in presenza di interlocutori aggressivi.D’altra parte l’interlocutore che percepisce sicurezza e professionalità ha meno opportunità di lanciare stimoli negativi. Si attiva così un circolo virtuoso che si autoalimenta.
Un training sull’Intelligenza Emotiva ha una influenza positiva sull’autostima e facilita l’acquisizione di un atteggiamento mentale più assertivo, e dal momento che siamo più disponibili a metterci in gioco personalmente, riusciamo a cogliere i vantaggi sia sul  piano personale che su  quello professionale.
Non vedere valorizzata la propria professionalità o, peggio ancora, veder criticato il proprio operato, in modo poco costruttivo, sono i principali elementi che alimentano il circolo vizioso della mancanza di autostima, da cui spesso scaturisce non solo disaffezione per il lavoro e caduta di motivazione, ma anche incertezze e asperità relazionali sul piano personale.
Acquisire consapevolezza del modello dell’Intelligenza Emotiva aiuta molto le donne non solo a non restare vittime del circolo vizioso, ma anche a diventare più abili nel leggere le dinamiche relazionali in atto e quindi a gestirle ed orientarle verso fini positivi e nondimeno  a rafforzare la propria autorevolezza professionale.

2.3Comunicazione intesa come evocazione

La nostra millenaria formazione culturale razionalistica ci ha indotto ad attribuire il primato della mente sul cuore e quindi della comunicazione verbale su quella emozionale (che è stato quasi del tutto dimenticata), tuttavia l’esperienza sembra talvolta provare il contrario. Come ci dà conferma, ancora una volta, Daniel Goleman, anche la conoscenza di sé e le capacità interpersonali essenziali, hanno la loro matrice, in quei centri emozionali del cervello già analizzati.
In proposito scrive : “ Siccome l’educazione delle emozioni ci porta a quella empatia che è la capacità di leggere le emozioni degli altri e siccome senza percezioni delle esigenze e della disperazione altrui, non può esserci preoccupazione degli altri, la radice dell’altruismo sta nell’ empatia, che si raggiunge con quella educazione emotiva che consente a ciascuno di conseguire quegli atteggiamenti morali dei quali i nostri tempi hanno grande bisogno: l’autocontrollo e la compassione”. Al fine di aiutare le donne a rafforzare le proprie abilità relazionali come competenza dell’ Intelligenza Emotiva, sia sul piano personale che sul piano professionale, abbiamo scelto di approfondire in particolare il tema della comunicazione intesa come evocazione.
Facendo esperienza del modello dell’ Intelligenza Emotiva si può verificare in prima persona come la comunicazione sia, in fondo, evocazione in quanto il significato del messaggio risiede solo in piccola parte nelle parole in sé, e per la maggior parte risiede direttamente nella mente del destinatario (prova ne è che se si chiedesse a 10 persone di riassumere i contenuti di una conferenza, si ottengono dieci racconti sensibilmente diversi).
A riprova dell’importanza della comunicazione emozionale sull’effetto complessivo della comunicazione, partiamo dal  porci la domanda: “ quanto il nostro interlocutore ci persuade? Quanto accettiamo quello che ci sta dicendo e quanto  lo condividiamo al punto da sviluppare azioni coerenti con quello che ci sta chiedendo? Quali sono i sentimenti che stiamo provando verso il nostro interlocutore,  ogni volta che accettiamo davvero il messaggio che ci sta proponendo” ?
In virtù delle nostre esperienze possiamo affermare che i sentimenti che si provano di fronte ad un interlocutore sono nell’ordine:

  • Entusiasmo;
  • Fiducia;
  • Stima.

A riprova di ciòsi può trovare conferma nel modello piuttosto collaudato, risalente a Cicerone. Il grande oratore romano infatti sosteneva che la RETORICA (quella che oggi chiamiamo : comunicazione efficace ) fonda la sua capacità persuasiva sulla CONGRUENZA tra ETHOS (l’Etica), che origina dalla forza morale dell’oratore, LOGOS (il Pensiero), che origina dalla forza dell’argomentazione, e PATHOS(l’emozionalità) , che origina dalla capacità dell’oratore di suscitare attenzione ed entusiasmo nell’interlocutore.
Ci sembra altresì interessante evidenziare che esiste una sorprendente sovrapposizione tra il modello di Cicerone e quello inerente i 3 stati dell’io di Eric Berne ( per approfondimento si veda l’analisi transazionale di Berne).
Berne sostiene che in ciascun essere umano sono sempre compresenti 3 stati dell’Io ovvero:

  1. Lo stato dell’IO Genitore, che rappresenta e simboleggia la sfera morale, a servizio di un meccanismo biologico di sopravvivenza. Lo stato dell’Io Genitore è quello che si preoccupa di verificare se ciò che viene proposto sia giusto o non giusto, sia bene o sia male.
  2. Lo stato dell’IO Adulto, che rappresenta la sfera logico-razionale, al livello di osservatore consapevole. Lo stato dell’Io Adulto si preoccupa di verificare la coerenza dei dati, l’esistenza delle informazioni.
  3. Lo stato dell’IO Bambino, che rappresenta la sfera delle emozioni, che hanno un posto rilevante nel nostro comportamento. Lo stato dell’Io Bambino stabilisce se una cosa gli piace, gli interessa, lo entusiasma, o meno.

Ritornando ora al modello delle nostre 2 menti, quella razionale e quella emozionale, possiamo anche affermare che lo Stato dell’Io Bambino e quello dell’IO Genitore sono governati dalla mente emozionale e quindi il loro linguaggio è di tipo analogico, non verbale, mentre lo statodell’Io Adulto è governato dalla mente razionale ed il suo codice di comunicazione è di tipo verbale, razionale.
Infine la comunicazione emozionale giunge all’interlocutore prima di quella razionale e non cessa, neppure quando cessa il dialogo: è sempre attiva  e incontrollata, non perché sia incontrollabile, ma semplicemente perché non ci soffermiamo, quasi mai, a “razionalizzarla” , ovvero a portarla dalla sfera dell’inconsapevole a quella del consapevole. E’ importante fare attenzione ad essere abili comunicatori e ciò avviene quando: -riusciamo a suscitare interesse ed entusiasmo nell’interlocutore; -ne conquistiamo la fiducia perché siamo autentici; -riusciamo a  convincerlo con la nostra competenza.
Allora come suscitare entusiasmo, ottenere la fiducia e apparire credibili?

 

2.4  Come suscitare entusiasmo, ottenere la fiducia, apparire credibili
Per suscitare entusiasmo occorre essere entusiasti e per comunicare che lo siamo cureremo:

    • la gestualità aperta e sciolta;
    • la postura protesa verso l’interlocutore;
    • un abbigliamento non troppo rigido e formale: magari è sufficiente una giacca sbottonata;
    • Il sorriso, aperto e franco, con la bocca e con gli occhi;
    • Il tono della voce, facendo in modo che tenda sempre a salire.

    Suggeriamo di verificare  che frequenza di risposte positive abbiamo se diciamo:

“andiaMO a prendere un caFFE’?”
oppure
“Andiamo a prendere un caffè?”
Per ottenere la fiducia dell’interlocutore, occorre essere autentici e per comunicare che lo si è, è opportuno non trascurare soprattutto la coerenza tra la propria figura fisica e l’immagine percepita di noi, esercitandoci inoltre nell’uso della voce secondo la tecnica del sopra-segmentale (vedi pag. 12).
Per dimostrare competenza occorre essere competenti e, per comunicare che lo si è, è opportuno curare molto bene il proprio speech (come si insegna in tutti i corsi di comunicazione), ed anche comunicare CREDIBILITA’, curando in particolare la coerenza tra il messaggio che si porge e la propria immagine professionale o di ruolo ed infine comunicare AUTOREVOLEZZA, attraverso : 

  • La gestualità che, in questo caso, sarà contenuta e bilanciata;
  • Il ritmo della voce, che sarà, nei momenti in cui si vuole rafforzare l’autorevolezza, alquanto rallentato, con pause ben scandite, calibrato al ritmo del battito del cuore;
  • La postura, ben eretta e bilanciata.

Per quanto riguarda il contatto oculare, è bene non perderlo mai, pur non diventando inquisitori.
Conoscere l’ABC della comunicazione emozionale, attraverso il linguaggio analogico, innalza in modo esponenziale le proprie possibilità di stabilire una buona relazione con l’altro in quanto consente di imparare ad “ascoltare” e capire non solo le parole, ma anche gli stati d’animo, al fine di raggiungere una comunicazione veramente empatica, che è la più alta e profonda forma di comunicazione.L’eterno dilemma su quale importanza dare alla prima impressione ne è prova e conferma.Noi suggeriamo di spostare semplicemente l’attenzione dal piano morale (è giusto o non è giusto dare ascolto alla prima impressione) a quello dell’osservazione più oggettiva, non trascurando l’immagine che è comunque uno strumento di comunicazione potente in quanto veicola molti messaggi, trasmette migliaia di informazioni utili per meglio comprendere l’interlocutore e per incrementare la possibilità di stabilire una buona comunicazione ed una buona relazione.Quindi, a nostro avviso, è importante studiare ed apprendere il linguaggio della comunicazione emozionale, come se si trattasse di una lingua straniera, esattamente come dall’asilo in poi ci siamo concentrati e specializzati nell’uso del linguaggio della comunicazione verbale o razionale.
Il vantaggio di questa “ricetta”  profondamente “originale e femminile” è che pone l’accento sul fatto che la conoscenza del linguaggio emozionale può e deve servire soprattutto per comunicare
meglio la propria autenticità e per capire meglio se l’interlocutore è o non è sincero, mentre non può e non deve servire per mascherare o dissimulare i propri pensieri. In pratica, questa “ricetta” di genere aiuta a saper gestire anche la comunicazione emozionale accanto a quella verbale, fornendo uno strumento vantaggioso per entrambi i generi. Infine la comunicazione emozionale giunge all’interlocutore prima di quella razionale e non cessa neppure quando finisce il dialogo, è sempre attiva e incontrollata; semplicemente perché non ci soffermiamo a razionalizzarla, ovvero a portala dalla sfera dell’inconsapevole a quella del consapevole, acquisirne consapevolezza vuol dire razionalizzare e costruire le basi del proprio successo come comunicatori. Infatti sappiamo che,quando riusciamo a suscitare interesse ed entusiasmo nell’interlocutore, e a conquistarne la fiducia, ciò avviene perché siamo autentici, nel momento in cui riusciamo anche a convincerlo con la nostra competenza allora avremo un successo più completo.

2.5Comunicazione efficace: mosse vincenti per diventare comunicatori professionali
Per questo abbiamo ritenuto opportuno dedicare congruo spazio, all’interno dei corsi di formazione della comunicazione,  al public speaking, che è un processo che si articola su quattro fasi, ben distinte tra loro: Ascoltare, Capire, Proporre, Concordare. Infatti, se non ascoltiamo, difficilmente possiamo capire – richiamandoci al modello di Bensen – quali sono le aspettative del nostro interlocutore e quindi proporre, facendo sì che egli voglia le informazioni che gli stiamo porgendo, al fine di concordare obiettivi comuni.
Pur intuendo che nella “chiacchierata” la comunicazione fluisce meglio, siamo tuttavia persuasi che sul piano professionale si debba agire in modo diverso, perché sul lavoro ci sono appunto obiettivi da raggiungere e quindi non ci si può dilungare in “chiacchiere”.
L’esperienza comune e quotidiana, tuttavia ci insegna che quanto migliore è il rapporto tra le persone, tanto più facile è comunicare, raggiungere un accordo, concordare azioni.
Quindi, quando ci troviamo bene con una persona inconsapevolmente facciamo le mosse giuste per incrementare l’efficacia della comunicazione. Per diventare abili comunicatori professionali è sufficiente acquisire consapevolezza delle dinamiche che già si attivano ogni volta che le cose funzionano bene.
Nel volere delineare un mix di mosse vincenti della COMUNICAZIONE EFFICACE, abbiamo individuato 3 mosse prevalenti da farne esperienza per esserne consapevoli.

1° MOSSA – Definire l’obiettivo della propria comunicazione, ovvero: Prevedere e Pianificare.
Prima di intraprendere qualunque atto di comunicazione chiediamoci: che cosa voglio ottenere? Può sembrare scontato e banale ribadire quanto sia importante avere in testa idee chiare, ma non lo è.
Quante volte ci siamo trovati nella condizione di dare o chiedere informazioni, senza avere ben chiaro il contesto di riferimento e lo scopo della comunicazione?
Normalmente in queste condizioni la comunicazione si inceppa, così ci può capitare di attribuire l’insuccesso alla nostra carenza di abilità comunicazionale, con grave danno sull’autostima, oppure alla carenza di disponibilità da parte dell’interlocutore, con grave danno per la relazione.
Nel 70% dei casi, l’insuccesso nella comunicazione professionale dipende proprio dalla mancanza di un obiettivo chiaro e di una precisa strategia per raggiungerlo, questa è, d’altra parte, una mossa che compiamo sempre, sia pure in modo intuitivo ed inconsapevole, nella “chiacchierata”: ogni volta che contattiamo un amico non sappiamo, forse, con esattezza cosa chiedere o cosa proporre?Definito l’obiettivo, dunque, si può iniziare a ragionare sulla strategia ovvero sulla scaletta : “cosa devo dire? Quali informazioni devo dare? Quali argomentazioni addurre per raggiungere l’ obiettivo?”.
E’ opportuno che la scelta sia semplice, gli argomenti concatenati logicamente e temporalmente, e trattati fino in fondo uno per volta.
Nella costruzione della scaletta è opportuno che sia sempre ben chiaro e comprensibile il FILO CONDUTTORE; dopo aver organizzato la scaletta preoccupiamoci  di predisporre la situazione, l’ambiente della comunicazione: non basta dire la cosa giusta, bisogna anche dirla nel modo giusto al momento giusto, perché sia accettata.

2° MOSSA: Adattare i messaggi in funzione dei differenti interlocutori.
Se ci soffermiamo un momento a pensare sul come comunichiamo con i nostri amici, ci rendiamo subito conto che istintivamente cambiamo il nostro stile per sviluppare maggior sintonia con il nostro interlocutore.
Anche questa dunque è una risorsa da imparare ad utilizzare con maggior consapevolezza.
Una volta stabilito COSA dire, come già descritto, è fondamentale trovare il modo giusto per dirlo, ovvero pianificare bene il COME dire.
Trovare il modo giusto significa rendere il messaggio interessante per l’altro.
Come conferma l’esperienza comune, quando una cosa ci interessa, quando la troviamo bella, giusta, utile, allora siamo stimolati a farla; quando invece la giudichiamo noiosa, inutile, stupida, svantaggiosa, allora siamo ben poco motivati all’azione.
Quindi, per convincere il nostro interlocutore a fare ciò che gli chiediamo, è opportuno che gli evidenziamo soprattutto vantaggi e benefici e aspetti positivi del COSA, dal SUO PUNTO DI VISTA.
Come riuscirci?
Stimoliamolo ad esprimere il proprio punto di vista, ponendo domande e ascoltando bene le risposte.
Lo strumento più importante della comunicazione efficace è l’ASCOLTO ATTIVO: ovvero prima di proporre qualunque cosa è fondamentale capire che cosa l’altro ha in mente, quali sono le sue aspettative, i suoi bisogni, i suoi desideri.Per scoprirli basta chiedere, utilizzando in modo consapevole e sapiente lo strumento della domanda in modo da poter PROPORRE, facendo sì che ciò che si propone sia coerente con i suoi interessi.  Dobbiamo fare in modo che l’interlocutore sia interessato alle nostre: informazioni, solo così può aver luogo la comunicazione.
E se l’interlocutore non vuole parlare?
ASCOLTARE ATTIVAMENTE significa anche osservare, leggere e interpretare il linguaggio del corpo. A volte, tuttavia, pur conoscendo bene il meccanismo, non lo attiviamo, non facciamo domande, non suscitiamo l’interesse nel giusto modo, perché ABBIAMO PAURA di non interessare, che è giustificata, infatti affinché la comunicazione verbale raggiunga la massima efficacia, è opportuno, prima di tutto OTTENERE LA FIDUCIA E L’ATTENZIONE dell’interlocutore.
Come?
Rispondendo alle sue DOMANDE NASCOSTE.
Per scoprire quali sono, basta riflettere sulla propria personale esperienza : quando qualcuno vuole creare un contatto con noi, la prima cosa che ci chiediamo è: “chi è costui? Che cosa vuole da me?” Se capita a noi è probabile che capiti anche ai nostri interlocutori: quindi, per prima cosa, ricordiamoci sempre di rispondere alle domande nascoste: PRESENTIAMOCI.
Una volta assolto questo passaggio,rotto il ghiaccio e creato il giusto clima, si può prendere l’iniziativa e passare alla fase di comunicazione attiva sopra descritta.

3° MOSSA  - Gestire l’ansia : la teoria della U
E’ possibile che pur padroneggiando il metodo fin qui illustrato, avendo quindi definito l’obiettivo, organizzato la scaletta, raccolto informazioni sul contesto dell’ interlocutore ,al momento di “andare in onda”, si provi comunque una certa ansia. Bisognerebbe preoccuparsi se l’ansia non ci fosse, se c’è è opportuno capire di che tipo essa sia.
Come è sintetizzato nella teoria della U :

Prestazione
Ottimale

  

 


Ansia -Ansia +

 

La prestazione è scadente sia quando l’ansia è eccessiva (perché l’interlocutore percepisce soprattutto la nostra ansia, e non coglie il messaggio), sia quando è assente (perché l’interlocutore “legge” l’assenza di ansia come noia, disinteresse e quindi perde, di riflesso, interesse per il messaggio).
La prestazione può quindi raggiungere lo standard ottimale quando chi attiva la comunicazione prova un’ansia moderata, perché – in questo caso – l’interlocutore coglie soprattutto l’interesse nei suoi confronti ed il desiderio di coinvolgerlo su un tema interessante.
L’ansia, comunque, va sempre “ascoltata”: può essere un importante campanello d’allarme, il segnale che si è trascurato qualche passaggio nella fase di preparazione.
In questo caso vale sempre la pena di fare un piccolo test di verifica chiedendosi:

  • Ho le idee abbastanza chiare in merito all’obiettivo?
  • Conosco abbastanza l’argomento?
  • Ho sufficienti informazioni sul destinatario del messaggio?
  • Ho costruito l’argomentazione in modo da risultare “attraente” per l’interlocutore?
  • Mi sono preparato a gestire le obiezioni più probabili?

Quando possiamo rispondere SI a tutti i punti sopraesposti, allora possiamo anche essere ragionevolmente certi che potremmo brillantemente superare gli ostacoli razionali.
… restano ancora quelli emozionali.
Il principale di questi è la paura di non avere la stoffa del buon comunicatore. In realtà, la stoffa del comunicatore non è un dono innato, per nessuno. E’ tutta questione di allenamento ed oltre a provare il discorso è importante sapere usare una respirazione addominale o diaframmatica. Ebbene, una della prime cose che di solito insegnano ad un attore è di proibirgli la respirazione alta (scapolare: tipica degli atleti) e di allenarlo alla respirazione addominale controllata. Essa consiste nel gonfiare la pancia e, se non basta, allargare la cassa toracica per inspirare aria, e di modulare la fuoriuscita rilasciando lentamente la cintura muscolare addominale e costale. Tenere le spalle rilassate e concentrarsi solo sul diaframma. Più facile a dirsi che a farsi e di fatti come tutti i muscoli anche il diaframma ha bisogno di essere allenato. A nostro avviso l’ideale sarebbe provarlo davanti uno specchio, in modo da scoprire (e, finalmente, imparare ad apprezzare e valorizzare) i nostri punti di forza: il sorriso, lo sguardo, la mimica facciale, il tono di voce, la gestualità, il portamento.
Decidete voi su quale puntare e credete in voi stessi: quando comincerà a piacervi lo speaker che vedete nello specchio, allora gli ostacoli emozionali saranno davvero superati.

 

C’è una breve poesia che suggeriamo di imparare a memoria come aiuto alla pratica di respirare o di fare la respirazione addominale in maniera consapevole:

Inspiro, espiro;
profondo,lento;
calma,agio;
sorrido,lascio andare.
Momento presente,momento meraviglioso.

 

Quando si pratica la consapevolezza dell’inspirazione e dell’espirazione anche per soli tre respiri consapevoli, e/o solo per un minuto, in quel minuto si smette di essere travolti dalla spirale del sentirsi ridicoli e giudicati, tipica della paura del public speaking.
In poco tempo, cinque al massimo dieci secondi si può passare da uno stato di dispersione ad uno stato di consapevolezza e concentrazione. Il respiro fa da ponte tra la mente e il corpo e a quel punto si è davvero presenti, al 100% e ciò permette di gestire emozioni forti e spesso invalidanti, com’è con  la paura  l’ansia e lo stress, e di diventare abili a creare un’armonia con il contesto e  una maggiore empatia con le persone con cui ci si relaziona.

 

“Quando liberiamo il nostro respiro, liberiamo le nostre tensioni.” (Gay Hendricks)

 

La respirazione diaframmatica*

                                                     

  1. Appoggia la mano destra sul tuo addome e la sinistra sul petto.
  2. Inizia a respirare lentamente e con respiri profondi.
  3. Controlla che la mano destra segua il movimento del tuo addome durante l’inspirazione e l’espirazione, mentre la mano sinistra rimane immobile così come il tuo petto.

* http://www.efficacemente.com/2009/07/tecniche-di-respirazione-ritrovare-il-benessere-con-un-respiro/

 

CONCLUSIONI

 

Numerose ricerche compiute negli Usa hanno sottolineato che il leader-capo che sa coniugare competenze tecniche e cognitive con capacità umane, di natura prevalentemente emotiva, e relazionale ha una marcia in più nel sapere comunicare in maniera efficace e nell’ottenere prestazioni eccellenti, da parte dei suoi collaboratori. Le stesse ricerche hanno messo in evidenza che l’impatto della competenza emotiva rispetto a quello dell’intelligenza cognitiva è superiore del 70% nel mobilitare i necessari livelli di energia, indispensabili per affrontare i processi di cambiamento a cui le aziende non possono sottrarsi.
Le metodologie didattiche messe a punto durante le molteplici esperienze di corsi di formazione sulla comunicazione efficace ci ha consentito di attivare l’intelligenza emotiva dei partecipanti e di far emergere la consapevolezza che questa caratteristica personale innata sia indispensabile per sviluppare la propria competenza emotiva. In particolare, i training per affinare le abilità emotive nelle componenti personali e sociali sono stati tanto più d’aiuto nella vita quanto più gli allievi sono riusciti ad interiorizzarle e a tradurle in azioni concrete per la propria crescita e realizzazione sia a livello personale che professionale. Infatti in un sistema complesso, com’è quello attuale, i benefici che derivano dallo sviluppo di queste competenze, e non solo nella sfera lavorativa, sono notevoli: essere in sintonia con i sentimenti delle persone con cui si interagisce, riuscire a gestire i conflitti e i contrasti evitando la loro degenerazione, essere capaci di presentare le critiche in modo costruttivo, nonché avere le capacità di sperimentare uno stato di “flusso” nell’attraversare l’empasse emotzionale , sono il corredo indispensabile per garantire prestazioni eccellenti e creare condizioni per sentirsi protagonisti della propria vita.
Non ultimo la competenza emotiva in tutte le sue sfaccettature, può essere omologata ad una sorta di sistema immunitario che protegge l’organizzazione e i soggetti in essa operanti, da sgradevoli “agenti patogeni”, soprattutto in presenza di un contesto turbolento ed ipercompetitivo, ove prevale la legge della selezione naturale e i protagonisti sono coloro i quali riescono a rimuovere e trasformare gli ostacoli in opportunità, e di aprirsi a nuove prospettive, lasciandosi alle spalle modelli e schemi di pensiero tradizionali.

In conclusione questa dimensione emotiva nell’esercizio della leadership diventa anche  innovativa  dal momento che contribuisce alla costruzione di un profondo processo di cambiamento culturale

E’ questo uno degli assiomi della comunicazione, vedi : Watzlawick e altri, “Pragmatica della comunicazione umana”,Astrolabio

M.L.Pierson “Come costruire la propria immagine. Come conoscerla. Come valorizzarla. Come comunicarla”,Franco Angeli Editore

Daniel Goleman: “Intelligenza Emotiva :che cosa è, come può rendere felici”, Rizzoli 1995

Greenspan, “Intelligenza del cuore”, Mondadori,1995

 

 

 

 

Fonte: http://scienzepolitiche.unical.it/bacheca/archivio/materiale/38/COMUNICARE%20I.E.%202012.doc

Sito web da visitare: http://scienzepolitiche.unical.it

Autore del testo: W. Siciliano

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