Riassunto Istituzioni di Diritto Pubblico Libro di Caretti De Siervo

Riassunto Istituzioni di Diritto Pubblico Libro di Caretti De Siervo

 

 

 

I riassunti , gli appunti i testi contenuti nel nostro sito sono messi a disposizione gratuitamente con finalità illustrative didattiche, scientifiche, a carattere sociale, civile e culturale a tutti i possibili interessati secondo il concetto del fair use e con l' obiettivo del rispetto della direttiva europea 2001/29/CE e dell' art. 70 della legge 633/1941 sul diritto d'autore

 

 

Le informazioni di medicina e salute contenute nel sito sono di natura generale ed a scopo puramente divulgativo e per questo motivo non possono sostituire in alcun caso il consiglio di un medico (ovvero un soggetto abilitato legalmente alla professione).

 

 

 

 

Riassunto Istituzioni di Diritto Pubblico Libro di Caretti De Siervo

CAPITOLO I: Caratteri fondamentali dell’ordinamento giuridico. (pag. 3 – 22)

Il diritto e la società

Il diritto fa riferimento a quel complesso di regole di condotta che disciplinano i rapporti tra i membri di una certa collettività, in un dato momento storico. Vi è un nesso strettissimo fra fenomeno giuridico e fenomeno sociale.
Il fenomeno giuridico consiste nella nascita di un complesso di regole che si applicano all'interno di un aggregato sociale, entro una determinata sfera territoriale, attraverso un'organizzazione dotata di un minimo di stabilità, mentre possono essere assai vari i fini e i contenuti delle norme che quelle regole contengono.
Lo Stato è un'entità che si colloca in una posizione di supremazia rispetto a tutti i soggetti individuali e collettivi (popolo) che vivono in un determinato ambito spaziale (territorio), rivendicando l'origine del proprio potere e che dispone della forza legittima necessaria per assicurare la sopravvivenza e lo sviluppo del gruppo sociale che ne ha determinato la nascita. Partecipa alla formazione di altre regole di comportamento dirette a disciplinare i rapporti con gli altri stati con i quali intrattiene relazioni sia pacifiche sia ostili.
Esiste una netta distinzione tra regole del diritto statale e altre regole pure attinenti al comportamento dei membri di una data comunità, come le regole religiose, morali o filosofiche: le prime dirette essenzialmente a disciplinare in modo stabile i rapporti tra gli individui in quanto soggetti di quella comunità, funzionali al raggiungimento di tutti i fini ritenuti di interesse generale, le seconde orientate a disciplinare i comportamenti dei singoli e del gruppo in vista del conseguimento di fini particolari; le prime, legate indissolubilmente agli eventi storici concreti, le seconde legate invece, sia pure in misura diversa, a valori trascendenti; le prime caratterizzate dalla coattività, ossia dall’esistenza di meccanismi sanzionatori volti a reprimere le violazioni, le seconde affidate all’adesione spontanea dei membri del gruppo.le regole giuridiche non sempre sono contenute in particolari atti (diritto scritto), ma a volte nascono spontaneamente dal comportamento consuetudinario di coloro che appartengono ad una certa società (diritto non scritto o consuetudinario).

Le caratteristiche del fenomeno giuridico

Una delle caratteristiche specifiche del diritto statale è l'effettività, con il quale si intende che una regola di diritto può considerarsi esistente quando i membri della società le riconoscono un valore obbligatorio e colleghino alla sua violazione la nascita di determinate sanzioni.
La seconda caratteristica è quella della certezza del diritto, secondo la quale l'obiettivo dell'effettività si raggiunge con l'istituzione di particolari strutture (l'ordinamento giudiziario) e particolari istituti (le sanzioni). Si tratta di strutture e istituti attraverso i quali si cerca appunto di dare “certezza” al diritto, certezza della effettiva applicazione delle regole di comportamento che la società si è data.
La terza caratteristica è quella della relatività del diritto, che sta a indicare come le regole di diritto possano avere un contenuto mutevole a seconda della comunità sociale a cui si riferiscono, a seconda dei fini che si propongono di raggiungere, e a seconda delle esigenze e dei diversi problemi che lo sviluppo di una società propone.

Il contenuto delle norme giuridiche

La regola o norma giuridica è la regola di comportamento obbligatoria per tutti i componenti di una determinata società. Per imporre un determinato comportamento è necessario avere prima determinato quali fatti si intende regolare e quali sono gli effetti che si intendono riconnettere a tali fatti.
La prima operazione consiste in una selezione, fra i vari aspetti della vita umana, di quelli che vengono assunti nella sfera del diritto.
La seconda operazione comporta la determinazione degli effetti obbligatori che a tale assunzione nella sfera del diritto si collegano, di effetti cioè che si impongono al di là e anche contro la volontà dei destinatari della norma giuridica che si è posta.
Il meccanismo che presiede alla formazione di una norma giuridica implica una scelta degli eventi cui riconoscere determinati effetti giuridici. Tali fatti costituiscono la fattispecie astratta, che può consistere in un'attività, espressione della volontà dell'uomo (i cosiddetti atti giuridici, come un contratto) o in un fatto preso in considerazione di per se, e non in quanto legato a una manifestazione di volontà (i cosiddetti fatti giuridici, come la nascita o la morte). In secondo luogo comporta la scelta degli effetti giuridici che conseguono obbligatoriamente al verificarsi in concreto della fattispecie astrattamente prevista: si parla di doveri, obblighi e oneri. Per i diritti assoluti l'interesse individuale è tutelato attraverso l'imposizione di obblighi nei confronti di una pluralità indistinta di soggetti e non solo nei confronti di soggetti determinati (come per i diritti relativi). Quando la tutela assicurata dalla norma giuridica è una tutela solo indiretta dell'interesse del singolo (dal momento che la norma è finalizzata alla tutela di esigenze collettive), questi sarà titolare di una posizione qualificata come interesse legittimo. Dall'interesse legittimo si distingue il cosiddetto interesse semplice o interesse di fatto, che rappresenta una situazione che potenzialmente è in grado di tradursi in un diritto soggettivo o interesse legittimo (nel campo dei concorsi pubblici interesse che tutti i cittadini hanno a che si svolgano nel pieno rispetto delle regole procedurali).

I soggetti giuridici

I soggetti giuridici sono coloro cui le norme intendono rivolgersi nell'attribuire diritti o nell'imporre obblighi. Essi sono innanzitutto le persone fisiche.
L'articolo 1 del codice civile stabilisce che ciascuna persona fisica è dotata della capacità giuridica (idoneità ad essere titolari di diritti e destinataria di obblighi) fin dal momento della nascita. Il soggetto deve possedere anche la capacità di agire, variamente limitata dal diritto, come nel caso del minore o dell'infermo di mente.
Accanto alle persone fisiche esistono le cosiddette persone giuridiche, come ad esempio una pluralità di persone che danno vita a un'organizzazione al fine di perseguire una finalità comune. Rapporto organico è un rapporto che va tenuto distinto da quello di rappresentanza, che si ha nell’ipotesi in cui una persona fisica sia obbligata a (rappresentanza legale) o decida di (rappresentanza volontaria) far gestire i propri affari da un altro soggetto. Tra le persone giuridiche si distinguono quelle private da quelle pubbliche (ad esempio lo Stato) tra i soggetti giuridici vanno annoverati tutti quei fenomeni associativi (le cosiddette associazioni di fatto) che, pur privi di un riconoscimento pubblico (non essendo quindi dotati di personalità giuridica) sono tuttavia destinatari di alcune norme giuridiche.

Il concetto di ordinamento giuridico e la pluralità degli ordinamenti giuridici

La natura di ordinamento giuridico non dipende dalla natura dei fini cui esso si ispira, bensì soltanto dal rapporto tra l'ordinamento ed il gruppo sociale che ad esso si richiama e che in esso si riconosce. Gli ordinamenti particolari sono quelli che si propongono il raggiungimento delle finalità più varie delimitate a un certo settore, mentre gli ordinamenti generali si propongono il soddisfacimento di una finalità che tendenzialmente comprende tutti i possibili interessi sociali. Tra questi ordinamenti generali si distinguono poi quelli originari, che ripetono da sé medesimi il loro carattere di sovranità, da quelli derivati, che viceversa ripetono i loro poteri da un altro ordinamento ad essi sovraordinato. L’adozione dell’uno o dell’altro atteggiamento dipende dalla volontà manifestata dall’ordinamento generale in ordine all’estensione dei fini che esso intende perseguire direttamente attraverso il proprio apparato autoritativo.
Lo Stato è l'ordinamento giuridico che, attraverso una propria organizzazione (ossia l’insieme degli organi politici, amministrativi e giurisdizionali che compongono il cosiddetto stato apparato), assicura la pacifica convivenza e il perseguimento di finalità generali, condivise da una determinata collettività sociale (il cosiddetto stato comunità) sia sul piano interno (dettando e facendo rispettare regole di comportamento destinate ai singoli come ai gruppi), sia sul piano esterno (favorendo la formazione di regole coerenti con quelle finalità e impegnandosi ad assicurarne il rispetto, in accordo con gli altri ordinamenti generali che compongono la comunità internazionale).

Ordinamenti giuridici di “common law” e di “civil law”

Fino a qualche tempo fa si potevano individuare tre modelli diversi di ordinamento giuridico: ordinamenti di common law, ordinamenti di civil law e ordinamenti di diritto socialista. Quest'ultimo risulta ormai superato o comunque in via di radicale trasformazione.
I due modelli precedenti hanno avuto in Europa fortune diverse: mentre l'ordinamento inglese viene individuato come appartenente al common law, tutti altri ordinamenti appartengono a quello della civil law. L'elemento differenziale di fondo tra i due modelli attiene ai modi di produzione delle norme giuridiche e ai soggetti che ne sono coinvolti.
La caratteristica principale degli ordinamenti di common law è quella di basarsi su un tessuto di regole molte delle quali non scritte, con contenute cioè in specifici atti normativi, bensì in decisioni giurisprudenziali, basate sull’affermazione di principi tratti per lo più dall’esperienza, dalle consuetudini, dalle prassi. In un sistema in cui essa non si limita all’applicazione della regola scritta, la sentenza del giudice acquista un valore normativo, è dunque fonte di diritto.
Un valore che si esprime attraverso il principio dello stare decisis in base al quale nessun giudice può discostarsi dai principi di diritto affermati in altra precedente pronuncia giudiziaria riguardante un caso analogo a quello che egli si trova a giudicare.
Negli ordinamenti di civil law la norma giuridica viene considerata tale solo se contenuta in atti a cui lo stesso ordinamento riconosce la capacità di produrre regole di questo tipo. Il ruolo del giudice è solo quello di interpretare la regola giuridica scritta e di applicarla al caso concreto. Col passare del tempo, le differenze tra i due sistemi sono venute lentamente attenuandosi in seguito ad un processo, per così dire, di osmosi che ha portato alcuni elementi dell’uno a trasferirsi nell’altro e viceversa. Così, mentre da un lato è andato progressivamente aumentando il ricorso al diritto scritto (Statute law) negli ordinamenti di common law, dall’altro,per ciò che attiene agli ordinamenti di civil law, la funzione del giudice è andata arricchendosi di contenuti in parte analoghi a quelli del giudice dei paesi anglosassoni.

Le fonti del diritto e i principi che ne regolano i rapporti (accenni e rinvio)

Le norme nascono attraverso due distinti meccanismi: o mediante l'attribuzione a certi organi del potere di creare il diritto o mediante riconoscimento di valore giuridico a regole che nascono da certi fatti o comportamenti umani. Se viene utilizzato il primo meccanismo, avremo la produzione di norme contenute in atti, che prende il nome di fonti-atti (la legge del Parlamento o il regolamento del Governo). Se viene utilizzato il secondo meccanismo vengono nominate fonti-fatto, cioè fatti o comportamenti umani da cui ugualmente si determinano regole dotate di forza obbligatoria (la consuetudine). Ciascuna fonte risulta dotata di un grado di intensità che risulta diverso a seconda della disciplina dei rapporti che legano tra loro le diverse fonti normative. Il principio fondamentale è quello gerarchico, che ordina le varie fonti normative lungo una immaginaria scala gerarchica posizionando sul gradino più alto le fonti dotate di maggiore forza e poi, via via quelle con forza minore.
La costituzione traccia il quadro di riferimento generale, cui tutte le altre regole di diritto che operano in un determinato ordinamento devono uniformarsi. Si dice che la costituzione è rigida perché non può essere modificata da nessun'altra fonte normativa di livello inferiore.

Costituzione formale è quel complesso di disposizioni formalmente previste come costituzionali; costituzione effettiva è quella parte della costituzione formale che davvero è operante in un dato momento storico, in un dato ordinamento giuridico; costituzione materiale è risultante delle concezioni culturali e istituzionali delle forze politiche dominanti, in un determinato contesto storico; un concetto che va al di là della stessa costituzione vigente o effettiva. Quando tali diversità toccano gli elementi essenziali della costituzione formale, si creano le condizioni per un mutamento di quest’ultima. Gerarchia e competenza sono due principi generali che servono innanzitutto ad attribuire ad ogni fonte normativa una sua specifica forma giuridica nei confronti delle altre e, in secondo luogo, a stabilire, nell’ambito della scala gerarchica così individuata, gli ambiti di competenza riservata a quella o quell’altra fonte.
Un altro principio è quello della competenza: si fa più riferimento all'organo che è titolare del potere di emanare le regole stesse e all'oggetto che esse possono investire (rapporto tra legge statale e regionale).
Altre due questioni importanti sono quelle relative al valore delle norme nel tempo e nello spazio. La norma successiva prevale sempre sulla norma precedente, di pari grado gerarchico. Se le norme sono invece di grado gerarchico diverso è il principio gerarchico che va applicato.
Per quanto riguarda la validità nello spazio va applicato il principio della territorialità del diritto: la legge statale ha efficacia nei confronti dei cittadini e di coloro che operano all'interno del territorio nazionale. Esistono tuttavia delle eccezioni: si pensi soprattutto ai rapporti disciplinati dalle regole del diritto internazionale privato, ma si pensi anche all'istituto della extraterritorialità o a quello dell'immunità territoriale (le sedi diplomatiche sono sottratte al diritto di uno Stato). Queste appena citate sono le cosiddette fonti interne; le fonti esterne vengono considerate come i trattati internazionali o gli atti normativi delle comunità europee). Le fonti interne operano nell’ambito di un determinato sistema giuridico e ne assicurano la continuità attraverso particolari meccanismi di produzione di norme giuridiche.
Le fonti esterne appartenenti a sistemi giuridici diversi da quello considerato e tuttavia dotate anch’esse della capacità di spiegare effetti normativi nell’ambito di quest’ultimo. Questa capacità è puntualmente disciplinata da ciascun sistema giuridico attraverso la predisposizione di apposite regole al riguardo, in vista di assicurare un funzionamento coerente del sistema delle fonti, complessivamente considerato.

L’interpretazione del diritto come metodo e come fonte

Oltre alle fonti-atto e alle fonti-fatto, esiste un altro meccanismo importante per la produzione di norme giuridiche: è collegata all'attività interpretativa del giudice e prende il nome di diritto giudiziario. Non sempre è agevole identificare quale sia la norma da applicare a un caso concreto: tale ricerca è condotta dal giudice utilizzando una serie di criteri interpretativi, quali l'interpretazione letterale (condotta sul dettato testuale), l'interpretazione logica (diretta a individuare la coerenza interna della legge), l'interpretazione analogica (diretta a ricercare la norma da applicare in disposizioni che disciplinano materie simili o analoghe), l'interpretazione sistematica (diretta a ricercare la norma da applicare al caso concreto desumendola dai principi vigenti nel sistema giuridico complessivo). Negli ordinamenti giuridici di civil law la sentenza del giudice è priva di efficacia nei confronti di tutti, ma si applica solo al caso in esame.

Lo studio del diritto ed in particolare del diritto pubblico

L'area del diritto pubblico è costituita dal insieme di regole che disciplinano il fondamento dell'esercizio del potere all'interno dello Stato, in vista del conseguimento delle finalità di interesse generale; l'organizzazione dell'apparato statuale preposta a tale esercizio; il tipo di relazioni che si viene a stabilire tra questo apparato e i membri della società civile; il tipo di relazioni che lo Stato intende intrattenere con gli altri soggetti facenti parte della comunità internazionale.

CAPITOLO II: Le forme di Stato e le forme di Governo nella loro evoluzione storica. (pag. 23 – 50)

Il concetto di forma di Stato e di forma di Governo

Il diritto pubblico riguarda principalmente lo studio dei principi e degli istituti attinenti all'organizzazione dell'apparato statuale e ai rapporti tra quest'apparato, i cittadini e la società civile. Per forma di Stato si intende il modo in cui è risolto il rapporto tra autorità e libertà, ovvero quel rapporto tra potere statuale e società civile, da cui nasce si sviluppa ogni esperienza statuale. Per forma di Stato intendiamo dunque l'insieme delle finalità che lo Stato si propone di raggiungere ed i valori a cui ispira la propria azione, che determinano le caratteristiche di fondo del rapporto tra la struttura del potere statuale e la collettività che in essa si riconosce. Per forma di Governo, invece, si intende insieme degli strumenti e dei mezzi mediante i quali una determinata organizzazione statuale persegue le sue finalità. Forma di Stato e forma di Governo rappresentano due concetti distinti, ma in realtà strettamente connessi, tant'è che ogni forma di Governo va valutata alla luce della forma di Stato in cui essa opera. Il susseguirsi nel tempo delle diverse forme di Stato e di Governo sono state accompagnate da lunghe fasi di transizione in cui caratteri del vecchio assetto si uniscono e convivono con elementi del nuovo che comincia ad affermarsi.

Le forme di Stato: lo Stato patrimoniale

Lo stato patrimoniale ha caratterizzato tutto il periodo dell'alto medioevo e si affermò successivamente al disfacimento dell'impero romano; non vi è ancora un'organizzazione amministrativa stabile e non vi è ancora l'istituzione di articolati e complessi apparati organizzativi. A fondamento dello stato patrimoniale c'è un accordo, di natura quasi privatistica, che interessa solo alcuni soggetti (i feudatari) e che ha per oggetto la tutela del diritto di proprietà, di cui tali soggetti sono titolari; al di là di questo esiste una comunità indistinta di individui, che appare più come oggetto di diritti altrui che come soggetto di diritti propri.

Lo Stato assoluto e lo Stato di polizia

Successivamente si affermò lo Stato assoluto, che vide l'accrescersi dei compiti assunti dallo Stato rispetto a una società che pone esigenze sempre più complesse. Il passaggio da un'economia chiusa ad un'economia di scambio è la ragione per cui prende vita uno Stato che assume come proprio non più un fine specifico, strettamente legato a singole posizioni soggettive, bensì fini di carattere generale, caratterizzati dalla ricerca del benessere per l'intera collettività. È il periodo in cui prendono vita istituzioni quali il fisco, la tassazione uniforme, la burocrazia statuale e la costituzione di un esercito stabile che rimarranno nei secoli. Una variante, o per meglio dire uno sviluppo, dello Stato assoluto è il cosiddetto Stato di polizia, che si afferma verso la fine del XVIII secolo in Austria ed in Prussia; esso è caratterizzato dal riconoscimento di alcune posizioni soggettive ai singoli, tutelabili davanti ai giudici, anche contro i pubblici poteri. Lo Stato sviluppo la sua azione nei vari settori in cui si svolge la vita sociale ed economica, secondo una concezione interventista del suo ruolo, che è tipica dello Stato assoluto.
Stato polizia dal termine greco polis = città, comunità, cittadina.

Lo Stato liberale

Lo Stato liberale, che sarebbe durato fino agli anni immediatamente successivi al primo conflitto mondiale, venne fuori dalla crisi dello Stato assoluto, causata dall'aumento della conflittualità internazionale, dall'accentuata pressione fiscale, e dai conflitti interni provocati dal passaggio da un'economia agricola ad un'economia di tipo industriale. La caratteristica precipua dello Stato liberale è il compito dei pubblici poteri di perseguire come finalità generale il soddisfacimento degli interessi dell'intera collettività, assicurando condizioni di sicurezza sul piano esterno (la politica estera) e il rispetto dei diritti di libertà, sia dal punto di vista economico che sul piano interno (la sicurezza pubblica).
Un altro punto importante è il principio della legittimazione dell'esercizio del potere, che non è più di origine trascendente (di natura divina), ma proviene dai membri stessi della collettività statuale. Si afferma il principio cardine dello Stato di diritto, secondo cui il funzionamento e l'organizzazione dello Stato devono essere disciplinati dalle leggi e gli atti della pubblica amministrazione devono essere conformi alla legge, pena la loro annullabilità da parte del giudice. Si afferma un modello in cui tutte le classi presenti nel contesto sociale trovano proprio spazio, ovvero una propria sede di rappresentanza nell'organo che si pone al centro del sistema costituzionale: il Parlamento.
Trova la sua prima realizzazione in Inghilterra grazie ad un rapporto vitale con la nuova classe borghese emergente. In secondo luogo, la spinta verso il riconoscimento delle libertà politiche, che trova in Inghilterra, grazie soprattutto alla lotta per l’affermazione della libertà religiosa contro ogni imposizione di una religione di stato, un terreno particolarmente favorevole.
Là dove invece, come in Francia, l’assolutismo aveva trovato un terreno assai più favorevole e si era affermato grazie ad una pressoché totale esautorazione della classe aristocratica, il passaggio allo Stato liberale ha assunto toni assai più bruschi e traumatici. Quando gli elementi di crisi del vecchio Stato assoluto giungono a maturazione, la perdita di un ruolo sociale effettivo da parte della nobiltà le impedisce di svolgere una qualunque funzione di mediazione, si che lo scontro tra il mondo vecchio e il nuovo avviene in modo violente e porta ad un completo rivolgimento negli assetti politici e istituzionali, senza alcun elemento di continuità con il passato.
Chi esce vincitore dallo scontro, la classe borghese, si pone quale unica interprete e tutrice degli interessi nazionali e fa della nuova istituzione, il Parlamento.

Lo Stato totalitario

La crisi dello Stato liberale va ricercata nel primo conflitto mondiale e nella crisi economica che ne seguì: in paesi come l'Italia, in cui il sistema economico si presentava particolarmente fragile, il diffuso malcontento delle classi disagiate produsse un aumento tale della pressione sociale da determinare il crollo delle istituzioni dello Stato liberale. Lo sbocco di questa situazione di crisi fu rappresentato dall'avvio dello Stato totalitario, uno Stato che nasce con l'obiettivo primario di sostituire l'apparato istituzionale dello Stato liberale, mediante l'introduzione di una nuova organizzazione ispirata a un forte accentramento del potere intorno alla figura di un "capo", in grado di contenere regolare in maniera autoritari conflitti sociali. Il partito unico veniva utilizzato come canale di formazione dell'indirizzo politico generale e i mezzi di comunicazione di massa come strumenti per l'allargamento della base del consenso.
Uno Stato che persegue una politica repressiva dei diritti di libertà, ed in particolare delle libertà politiche arrivando a calpestare clamorosamente lo stesso principio di uguaglianza.

Lo Stato socialista

La nascita dello Stato socialista avviene in Russia dopo la rivoluzione che portò alla caduta del regime zarista. Le disuguaglianze derivanti dalla proprietà privata dei mezzi di produzione si risolvono con la nozione di proprietà socialista; il privilegio dei gruppi sociali dominanti si risolve con il riconoscimento delle sole libertà collettive; la mancanza di strumenti di aggregazione sociale si risolve con l'affermarsi del partito comunista come perno centrale. Questo regime si diffuse in molti paesi dell'Europa centrale e orientale nel secondo dopoguerra.

Lo Stato sociale

Anche lo Stato sociale, come quello socialista, ha inizio dalla crisi dello Stato liberale ottocentesco. Il fine principale dello Stato sociale è di rimuovere le disuguaglianza presenti nella società: si pone così l'obiettivo di raggiungere l'uguaglianza sostanziale e non solo quella formale tra i cittadini.
Rispetto al vecchio Stato liberale viene rafforzata la divisione dei poteri, e si assiste al pieno riconoscimento di istituti fondamentali per garantire l'effettiva partecipazione dei cittadini in una grande società di massa (i partiti e i sindacati).
Elementi tipici dello Stato sociale sono il notevole accrescimento degli apparati amministrativi e la loro differenziazione in relazione alla diversificazione dell’azione statale; il massiccio intervento diretto o indiretto nell’economia; l’aumento significativo delle risorse necessarie alla finanza pubblica.

Lo Stato unitario, lo Stato federale, lo Stato regionale

Per quanto concerne il principio dell'autonomia territoriale, si parla di Stato unitario (attualmente Francia e Olanda), di Stato federale (Germania e Austria) e confederale, di Stato regionale (Italia e Spagna).
Lo Stato federale è basato sulla regola per cui i membri della federazione hanno una competenza generale, dalla quale sono escluse le materie che vengono espressamente riservate dalle norme costituzionali agli organi federali, mentre nello Stato regionale sono gli organi centrali dello Stato ad avere una competenza generale, fatte salve le specifiche competenze affidate alle regioni.

Le forme di Governo: la monarchia assoluta

La nozione di forma di Stato punta ad individuare i fini generali che lo Stato si propone di raggiungere, mentre la nozione di forma di Governo precisa i mezzi o il modello dei rapporti fra gli organi supremi dello Stato che viene predisposto per il raggiungimento di quelle finalità.
La prima forma di Governo in senso proprio nasce con lo Stato assoluto.
La natura quasi privatistica della base su cui poggiava lo Stato feudale non aveva creato problemi particolari, diversi da quelli che trovavano soluzione nel rapporto tra grande feudatario e feudatari minori. Con l’affermarsi dello Stato assoluto, l’estendersi dei fini statuali e il moltiplicarsi dei settori in cui si esercita l’intervento dei poteri pubblici, creano le premesse per la Costituzione dei primi nuclei di una struttura amministrativa statuale unitaria e stabile.
Al vertice di questa struttura si pone il sovrano, unico organo titolare del potere di decisione politica, cui fanno capo tutte le funzioni statuali: la funzione legislativa, la funzione esecutivo- amministrativa (con la nomina dei funzionari), la funzione giurisdizionale (nominando i giudici che amministrano in suo nome alla giustizia).
Una struttura di tipo piramidale caratterizzata da una straordinaria concentrazione del potere in capo all’organo sovrano.
Una struttura funzionale ad uno Stato che si fa carico di curare direttamente gli interessi generali della collettività e che necessita di una ricomposizione e riunificazione del potere, in precedenza variamente distribuito tra i soggetti politici protagonisti dell’età feudale. Tale fenomeno determina ad un certo punto l’esigenza che il sovrano si doti di un organo ausiliario, che oggi chiameremmo governo, e che, almeno in alcune esperienze, sopravvivano, come organi consultivi del re, alcuni collegi rappresentativi di maggiori ceti sociali.

La monarchia costituzionale

La fine della monarchia assoluta viene sancita a livello europeo dalla rivoluzione francese. In Inghilterra viene teorizzato da Locke il principio della divisione dei poteri, secondo il quale si doveva immaginare una forma di Governo centrata su due organi costituzionali: il sovrano, titolare della funzione esecutiva e di quella federativa (politica estera), e il Parlamento, titolare della funzione legislativa. In Francia il principio della divisione dei poteri viene teorizzato alla fine del XVIII secolo da Montesquieu e Rousseau, secondo i quali non ci dovrà essere in futuro alcun potere esercitato in condizioni di monopolio d'alcun organo dello Stato e nemmeno alcun potere esercitato al di fuori da uno stretto collegamento della volontà popolare.
La prima applicazione di questi principi si ebbe con la monarchia costituzionale, in cui accanto all'organo sovrano si afferma un organo costituzionale titolare di un proprio autonomo potere di decisione politica: il Parlamento.
Il sovrano rimane titolare del potere esecutivo e del potere di nomina e di revoca dei membri del Governo, ma deve dividere l'esercizio del potere legislativo con il Parlamento.

La forma di Governo parlamentare

A partire dalla seconda metà del secolo scorso si assiste a una sempre più marcata rottura di quell'equilibrio a tutto vantaggio del ruolo del Parlamento.
L'istituto della fiducia comporta che il Governo, una volta formato, si presenti di fronte al Parlamento per ottenere un avallo preliminare (il voto di fiducia) al programma di attività che intende svolgere nel corso della propria vigenza in carica. Grazie a questa fiducia iniziale, il Governo si salda alle forze politiche maggioritarie in Parlamento e ne diviene espressione.
Il Parlamento acquista il potere di revocare la fiducia al Governo, mediante l'approvazione di un'apposita mozione di sfiducia, la quale obbliga il Governo a dimettersi. Si passa così da una cosiddetta fase dualista (con a capo re e Parlamento) ad una fase monista, in cui al centro del sistema si colloca saldamente il Parlamento.
All'istituto della fiducia, che rappresenta l'elemento distintivo della forma di Governo parlamentare, si associa una nuova concezione del capo dello Stato (il monarca ho sempre più spesso il Presidente della Repubblica), che vede quest'ultimo con un potere neutro, lontano dalle dispute politiche contingenti, e destinatario del compito di supremo garante delle regole costituzionali.

Le forme di Governo presidenziale, semi-presidenziale e direttoriale

La forma di Governo presidenziale precede l' affermarsi del regime parlamentare ed è caratterizzata dalla scelta di porre al centro del sistema costituzionale l'organo presidenziale, che riunisce in se i poteri e le funzioni proprie del capo dello Stato e del capo del Governo. Spetta al presidente il potere di nomina e di revoca dei più funzionari statali e fra questi anche dei ministri e degli vertici politici del governo. Il parlamento non può essere sciolto dal presidente.
Non esiste quindi il rapporto fiduciario tra Parlamento e Governo, bensì tra Presidente della Repubblica e Governo. Questo regime nasce con la costituzione degli Stati Uniti d'America del 1787. Il regime semi-presidenziale, che ha avuto un precedente importante nella costituzione di Weimar del 1919, ritrova alcune caratteristiche di fondo del regime presidenziale (elezione diretta del Presidente della Repubblica e rapporto fiduciario tra Presidente e Governo), che convivono tuttavia con alcuni istituti tipici della forma di Governo parlamentare, come l'istituto della fiducia parlamentare all'esecutivo. La forma di Governo direttoriale ha come obiettivo primario la garanzia della stabilità dell'esecutivo, prefissandone a priori la durata, facendola coincidere spesso con la durata della legislatura (Governo a termine). In cui, una volta formato e una volta investito con voto parlamentare, l’organo esecutivo opera al riparto dal rischio che altri organi costituzionali ne provochino la caduta. Un governo che svolge anche le funzioni tipiche del capo dello Stato. Si tratta di una forma di governo che postula la formazione di ampie coalizioni governative e la possibilità di attivare agevolmente da parte del corpo elettorale strumenti di controllo sulla permanenza di una corrispondenza tra la volontà dei cittadini e quella dei loro rappresentanti.

La forma di Governo dittatoriale

Nello stato dittatoriale nasce la figura del capo del Governo, inteso come vero centro motore dell'intero sistema costituzionale. Grazie ad un'investitura che gli viene dall'essere al vertice dell'unica formazione politica ammessa (il partito unico), esso è svincolato da ogni forma istituzionalizzata di etero-controllo. In esso si concentrano non solo le funzioni proprie dell'organo di vertice dell'esecutivo, ma anche il potere di nomina e revoca dei membri del Governo, il comando delle forze armate, e una serie di poteri diretti a condizionare e limitare la stessa funzione legislativa di un Parlamento.
Tutti i poteri sono tenuti dal Capo dello Stato assistendo ad una limitazione della funzione legislativa del Parlamento che cessa di essere un organo elettivo.

La forma di Governo negli Stati socialisti

La costituzione sovietica del 1936 prevedeva una struttura statuale fondata da un lato sul riconoscimento di ampie autonomie locali e dall'altro su una fitta rete di assemblee elettive (i soviet) gerarchicamente ordinate, ciascuna espressione delle assemblee di livello inferiore, fino ad arrivare gli organi supremi dello Stato: il Soviet supremo (il Parlamento) e il Presidium (capo dello Stato e Governo), legati da un rapporto che ricorda l'istituto della fiducia. Il principio informatore dei rapporti tra le varie assemblee è quello gerarchico, mentre al partito spetta una funzione di guida della collettività nella costruzione della società socialista, che si traduce in tutta una serie di poteri specifici, primo fra tutti quello relativo alla scelta dei candidati per i vari organi elettivi.

Forma di Stato, forma di Governo e sistema delle fonti normative

La storia delle diverse forme di Stato e forme di Governo non è altro che la storia del modo in cui certi rivolgimenti sociali hanno determinato un certo assetto del potere statuale e del modo in cui un certo assetto di potere si è posto rispetto ai problemi presenti nella società, in un processo di continuo e reciproco condizionamento.

 

CAPITOLO III: Le trasformazioni delle istituzioni pubbliche dallo Statuto Albertino alla Costituzione Repubblicana. (pag. 51 – 78)

Le caratteristiche fondamentali dello Statuto Albertino:la forma di Governo e la tutela dei diritti di libertà

La prima fase della storia costituzionale d'Italia è segnata dallo statuto Albertino, concesso il 4 marzo 1848 da Carlo Alberto, re di Sardegna, divenuto poi costituzione del regno d'Italia nel 1861 e rimasta in vigore fino all'avvento della Repubblica e della costituzione Repubblicana del 1948. Si trattava di una costituzione "ottriata", concessa cioè dal sovrano ai sudditi, che accoglieva parzialmente le istanze di democratizzazione dello Stato.
Disegnava una forma di Governo costituzionale pura, di tipo dualista, basata sul sovrano e sul Parlamento. Al re spettava il potere di nominare e revocare i ministri, condividere il potere legislativo col Parlamento, nominare i membri del Senato, sciogliere la Camera elettiva.
Il Parlamento era formato da una Camera elettiva e dal Senato di nominare regia, cui spetta la funzione legislativa condivisa col sovrano e la funzione di approvazione dei bilanci e dei conti dello Stato. Era tuttavia caratterizzata da un esiguo numero di libertà garantite, tra cui spiccava il diritto di proprietà.
Un’altra delle debolezze di fondo dello Statuto, ossia quella di essere una costituzione flessibile: una costituzione cioè che non prevede alcun meccanismo giuridico di relazione nei confronti di possibili “abusi” del legislatore ordinario e che dunque affida ad esso la più completa libertà di decisione.

Gli sviluppi della forma di Governo: dalla monarchia costituzionale alla monarchia parlamentare

A causa delle trasformazioni politiche e sociali in atto, si avviò una progressiva erosione dei poteri del re a favore del binomio Governo-Parlamento. Da qui prese avvio la sempre maggiore estensione dei poteri del Governo, con il ruolo del re che tende a passare sempre più in secondo piano. A questo cambiamento si accompagna la progressiva accentuazione della rilevanza politica del Presidente del consiglio e dello stesso Governo.
Durante il Governo Zanardelli, nel 1901, si affermano chiaramente due principi: il primo, rappresentato dalla prevalenza riconosciuta al Presidente del consiglio rispetto agli altri ministri; il secondo rappresentato dalla valorizzazione della collegialità nell'esercizio delle funzioni del Governo. La crescita del ruolo del Governo è testimonianza anche dall’espansione dei suoi poteri normativi i quali tendono ad investire la sfera della normazione primaria, mediante il ricorso sempre più frequente ai decreti legge e ai decreti legislativi.

La legislazione elettorale: dal criterio censitario al suffragio universale maschile

La funzione elettorale del periodo aveva carattere censitario, il che consentiva l'esercizio di voto ad una percentuale non superiore al 2% della popolazione.
Nel 1877 il diritto di voto viene esteso ai cittadini di sesso maschile che avessero raggiunto la maggiore età e che avessero adempiuto all'obbligo scolastico: l'elettorato passò al 7% della popolazione; con le leggi elettorali del 1912 e del 1919 si arrivò all'introduzione del suffragio universale maschile e al sistema elettorale di tipo proporzionale, che rompeva con la tradizione dei sistemi elettorali di tipo maggioritario.
Bisognerà tuttavia attendere fino al 1945 affinché si arrivi alla piena affermazione del principio del suffragio universale, con il riconoscimento del diritto di voto anche alle donne.

Gli sviluppi nell’assetto dell’organizzazione dello Stato: la costruzione di un modello accentrato e l’accantonamento dell’ipotesi regionalista

Già durante il periodo cavouriano, che precede l’unità d’Italia, l’amministrazione statale era andata confermandosi secondo un modello accentrato di derivazione francese: esso faceva perno al centro sui ministri e sul piano locale sui governatori delle province, i quali rappresentano il Governo e al tempo stesso sono al capo delle amministrazioni provinciali, e sui sindaci, scelti anch’essi dal Governo tra i membri dei consigli comunali. Negli anni successivi all’unità le leggi di unificazione amministrativa del regno crearono accanto a comuni e province, le regioni, quali nuovi grandi enti locali, dotati di una limitata autonomia amministrativa.
La scelta a favore dell'accentramento politico-amministrativo fu confermata negli anni immediatamente successivi all'unità del paese. In questo contesto, subiscono un significativo riordinamento gli organi ausiliari del Governo e quelli giurisdizionali.
Si assiste alla nascita del sistema di giustizia nell'amministrazione, ossia di un sistema che consente al singolo di chiamare l'amministrazione a rispondere delle eventuali illegittimità commesse nell'esercizio delle sue funzioni, non più davanti ad organi interni alla stessa amministrazione, ma davanti a un giudice ordinario, quando oggetto di una controversia fosse un diritto civile o politico.
Si assiste a un primo allargamento dell'autonomia degli enti locali territoriali, come testimonia la trasformazione, avvenuta nel 1888, dei presidenti delle amministrazioni provinciali e dei sindaci in organi elettivi, e non più di nomina governativa. Cominciano a nascere, accanto alle tradizionali strutture ministeriali, le prime aziende pubbliche, dotate di autonomia gestionale e finanziaria, e i primi enti pubblici nazionali (come l'INA nel campo delle assicurazioni), in grado di operare secondo modalità analoghe a quelle dell'impresa privata, sia pure secondo gli indirizzi e sotto la vigilanza ministeriale.
L’accrescimento e la differenziazione degli apparati amministrativi aumentano contestualmente le difficoltà di guida dell’amministrazione da parte dei vertici politici e insieme contribuiscono all’accentuarsi del ruolo e dei poteri dell’alta burocrazia.

La legislazione ordinaria in tema di diritti di libertà e i rapporti tra Stato e Chiesa

La legislazione di pubblica sicurezza e la legislazione penale si caratterizzano come estremamente severe nella prevenzione e repressione non solo dei reati, ma anche dei comportamenti ritenuti antisociali o comunque pericolosi per il sistema politico dominante, con una vastissima attribuzione di potere discrezionale agli organi di polizia. Per quanto riguarda la tutela della libertà religiosa, lo Stato si riferiva alla religione cattolica come alla sola religione dello Stato e agli altri culti come semplici culti "tollerati".
In realtà, immediatamente dopo l’entrata in vigore dello Statuto, si sviluppo una legislazione che, ispirata all’opposto principio della laicità dello Stato puntava a ridurre le differenze giuridiche nella tutela delle diverse confessioni religiose. Giocava in questo senso la situazione di conflitto tra la classe politica liberale e la Chiesa cattolica. La legge delle guarentigie (349/1871) intendeva garantire il libero esercizio delle funzioni del pontefice e della Santa sede; tuttavia il rifiuto del Papa di accettarne i contenuti, ritenuti del tutto insufficienti a regolare in modo soddisfacente i rapporti tra Chiesa cattolica e Stato, fece prolungare un conflitto che il nuovo Stato unitario cercava di sanare.

L’avvento del fascismo e le caratteristiche del nuovo regime: la forma di Stato e di Governo; l’assetto dell’amministrazione; i diritti di libertà

Nel 1919, immediatamente dopo la fine del conflitto mondiale, nasce il partito fascista e due anni più tardi nascerà, da una scissione all'interno del partito socialista, il partito comunista. In questi anni si assiste al progressivo affermarsi del regime fascista, che caratterizza la seconda fase della nostra storia costituzionale. L'inizio del regime fascista si fa corrispondere alla cosiddetta "marcia su Roma" delle squadre fasciste e al successivo incarico di formare un nuovo Governo, in sostituzione di quello diretto da Facta, affidato da Vittorio Emanuele III, il 22-10-1922, a Mussolini. Con l'adozione della nuova legge elettorale (2444/1923, la cosiddetta legge Acerbo, caratterizzata da un sistema maggioritario) il fascismo mostra la chiara volontà di prescindere dalla collaborazione con altri e diversi movimenti politici. L'esito elettorale determina la completa salita al Parlamento dei fascisti.
Il deputato socialista Matteotti pagò con la vita la sua protesta. Questo episodio provocò l'abbandono del Parlamento di gran parte dei deputati antifascisti (il cosiddetto Aventino), dopo il quale Mussolini pronunciò un famoso discorso alla Camera, nel gennaio 1925, con il quale si assume provocatoriamente la responsabilità di tutto quanto avvenuto ed espone definitivamente un programma di edificazione di Stato totalitario.
Tale programma troverà l'attuazione con le cosiddette leggi fascistissime.
L'unico partito politico è il partito nazionale fascista (PNF) con a capo il duce.
La fedeltà al regime e l'adesione al partito divengono obbligatori per tutti i dipendenti pubblici. Le innovazioni sono egualmente radicali sul piano della forma del Governo: resta il potere di nomina e revoca dei ministri da parte del Re, ma il suo esercizio è subordinato ad una proposta del Presidente del Consiglio, ora “Capo del Governo”, Primo Ministro Segretario di Stato. La coincidenza del Capo del Governo col segretario del Partito Nazionale Fascista, fa sì che sia quest’organo il vero centro motore della nuova forma di Governo, mentre ritorna sullo sfondo il ruolo del Sovrano e dello stesso Parlamento.
Con l’istituzione della Camera dei Fasci e delle corporazioni, viene a cessare ogni parvenza di rappresentatività del corpo elettorale del Parlamento: ad un Senato si affianca una Camera non più elettiva, ma composta, oltre che dal Duce del Fascismo,Capo del Governo, dai componenti dei Consigli Nazionali del PNF e delle corporazioni. Un altro importante organo è il Gran Consiglio del Fascismo, rappresentativo ad un tempo del PNF e dei supremi organi dello Stato, presieduto e diretto dal Capo del Governo.
Le sue competenze ne fanno formalmente il principale organo di indirizzo politico, ma le sue funzioni possono essere esercitate solo su richiesta e comunque sotto il controllo del Duce.
In sintesi, si può definire la nuova forma di Governo Dualista, fondata cioè su due centri di potere distinti, il Re e il Duce del Fascismo-Capo del Governo, purché si tenga presente che tra i due centri non esisteva affatto un equilibrio, ma il secondo occupava una posizione di assoluta preminenza, riunendo in se la carica di Capo dell’Esecutivo e di Duce del Partito Unico. L’accentuazione della presenza dello Stato nell’economia è dovuta dalla particolare contingenza economica che si determina alla fine degli anni venti. La crisi economica provoca grandi difficoltà nel settore creditizio, il che spinge lo Stato ad intervenire con operazioni di salvataggio di quegli istituti che si erano fortemente impegnati nel credito a medio e lungo termine ed avevano consistenti interessi in imprese industriali.
In seguito alla necessità da parte dello Stato di intervenire con operazioni di salvataggio di istituti economici nasce un nuovo ente pubblico, l'IRI (Istituto per la ricostruzione industriale), destinato a svilupparsi nei decenni successivi. Si assiste anche all’estendersi del controllo pubblico sul sistema bancario: si affida alla Banca d’Italia, trasformata in ente di diritto pubblico, poteri di controllo e vigilanza dei flussi creditizi, mentre lo Stato è presente in modo rilevante nel settore attraverso gli istituti di credito di diritto pubblico e le sue larghissime partecipazioni nelle grandi banche di interesse nazionale.
L'intervento più significativo del periodo è rappresentato dalle leggi razziali del 1938, con le quali i cittadini di razza ebraica venivano privati non solo dei diritti politici, ma anche di molti diritti civili. Per conquistarsi l'appoggio della confessione religiosa cattolica, si arriva a chiudere la cosiddetta "questione romana" attraverso la stipulazione dei Patti Lateranensi (che affidavano alla chiesa città del Vaticano e alcuni riconoscimenti in denaro) e del concordato (che risolveva i fenomeni rilevanti sia per la Chiesa che per lo Stato).

La caduta del fascismo, la nascita della Repubblica e la nuova costituzione Repubblicana

Il crescente distacco di sostanziali parte dell'opinione pubblica dal regime fascista contribuì a far adottare da gran parte del gran consiglio del fascismo, riunito a Roma il 24 luglio 1943, un ordine del giorno nel quale si invitava il sovrano ad assumere con effettivo comando le forze armate di terra, di mare e dell'aria. In seguito a questo il sovrano, il 25 luglio 1943, non solo revoca Mussolini e nomina il maresciallo Badoglio nuovo capo del Governo, ma nomina un Governo formato da militari e da funzionari di esclusiva sua fiducia. In seguito all'arresto di Mussolini e di una serie di esponenti fascisti, si procede alla soppressione del PNF e della Camera dei fasci. La decisione ufficiale di continuare la guerra accanto alla Germania nazista e l'incapacità di cercare forze alleate conducono alla stipulazione dell'armistizio di Cassibile il 3 settembre 1943. Il suo annuncio, l'8 settembre, coincide con la fuga da Roma del sovrano.
Il rifiuto da parte delle forze politiche antifasciste di sostenere il Governo regio provocarono le dimissioni di Vittorio Emanuele III e del principe ereditario e lo costringono a stipulare, nell'aprile 1944, un accordo di compromesso (il cosiddetto "patto di Salerno"), un secondo il quale il sovrano si impegna ritirarsi definitivamente dalla vita pubblica, nominando il proprio figlio Umberto "Luogotenente del regno".
Tuttavia, mentre si lavorava incessantemente alla formazione della nuova costituzione, Vittorio Emanuele III rompe improvvisamente la tregua istituzionale, abdicando il 9 maggio 1946 e ponendo la premessa per la proclamazione a re del figlio Umberto: questo evento non fu ostacolato per non porre in pericolo l'ormai imminente scadenza elettorale.
L'esito del referendum del 2 giugno 1946 a favore della Repubblica determinò la prima grande caratteristica del nuovo assetto costituzionale e l'assemblea costituente procedette pertanto all'elezione del Presidente provvisorio della Repubblica nella persona di Enrico de Nicola. Viene nominato un'apposita commissione per la costituzione che poi fu costretta a suddividersi in tre sottocommissioni e in altri organi interni per riuscire ad elaborare in tempi brevi un articolato progetto. La commissione riuscì a definire un progetto e si giunse all'approvazione finale il 22 dicembre 1947.

Le caratteristiche fondamentali della Costituzione Repubblicana

Secondo l'articolo 1.2 della costituzione "la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della costituzione"; nessun organo di Governo potrà vantare una legittimazione autonoma all'esercizio delle massime funzioni statuali, ma dovrà contare su una legittimazione proveniente dal popolo. La categoria degli organi costituzionali è costituita dal corpo elettorale, il Parlamento, il Presidente della Repubblica, il Governo e la corte costituzionale.
Tutti organi che hanno un rapporto più o meno diretto con il popolo hanno il compito di determinare gli obiettivi della politica nazionale nel quadro dei principi costituzionali (sono organi titolari della funzione di indirizzo politico); sono indispensabili al corretto funzionamento del sistema costituzionale (sono organi necessari); infine, non possono essere sostituiti nell’esercizio delle loro funzioni (sono organi indefettibili).
Il ruolo principale dello stato si riassume in una funzione strumentale di garanzia, di pieno sviluppo dei valori personalistici e comunitari dei cittadini: l'articolo 2 della costituzione afferma che "la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità". Il primo comma dell'articolo 3 della costituzione ribadisce con la massima precisione il principio liberale dell'uguaglianza di tutti i cittadini, dotati di pari dignità sociale e "eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali". La libertà associativa si traduce nell'attribuzione di veri e propri poteri ad alcuni essenziali formazioni sociali, di cui si riconosce un ruolo in certa misura incomprimibile (la famiglia o le confessioni religiose). Il principio secondo il quale le imposte si pagano secondo aliquote progressive tende a favorire i ceti sociali più deboli e cerca di contrastare la più sempre presente disuguaglianza di fatto.
Il lavoro viene inteso come contributo che ciascuno dà al progresso materiale e culturale della società. I principi della cosiddetta costituzione economica comprendono i rapporti di lavoro e in particolare riconoscono non solo la libertà sindacale, ma anche il diritto di sciopero; è volta in oltre all'istituzione di un sistema misto, dei quali iniziative pubbliche e iniziative private contribuiscano al perseguimento delle finalità di riequilibrio economico e sociale.
L'articolo 42. 2 riconosce e garantisce la proprietà privata, ma ne consente una disciplina legislativa che ne assicuri la funzione sociale e ne favorisca l'accesso al maggior numero possibile di soggetti. Ad un autorevole sistema statale centrale si affianca un articolato e forte sistema di autonomie regionali e locali, introdotti sia al fine di adeguare meglio l'amministrazione pubblica alle tante e diverse esigenze locali, sia al fine di arricchire il quadro istituzionale attraverso la formazione di sedi di mediazione di interessi più ravvicinate ai cittadini che di quegli interessi sono portatori. La costituzione prevede e disciplina, accanto ai comuni e alle province, le regioni: distinguiamo le 15 regioni ad autonomia ordinaria dalle 5 regioni ad autonomia speciale (Sicilia, Sardegna, Valle d'Aosta, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia), i cui poteri sono tutelati dagli strumenti di garanzia della rigidità costituzionale. Il compito principale della corte costituzionale è quello di giudicare sulla legittimità costituzionale delle leggi dello Stato e di giudicare sulle eventuali responsabilità penali del Presidente della Repubblica.
I poteri principali del Presidente della Repubblica sono lo scioglimento anticipato delle camere e la nomina del nuovo Governo. L'articolo 10 della costituzione afferma la subordinazione dell'ordinamento giuridico nazionale alle norme internazionali generalmente riconosciute.
L'articolo 11 sancisce che "l'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali": sulla base di questo principio l'Italia ha chiesto e ha ottenuto di far parte dell'ONU (organizzazione delle Nazioni Unite), ha potuto essere tra gli stati fondatori della comunità europea e partecipa all'Unione Europea.

CAPITOLO IV: L’Italia e l’Unione Europea. (pag. 79 – 93)

La nascita dell’Unione Europea

Il processo di integrazione europea prende avvio agli inizi degli anni cinquanta con la nascita delle tre comunità europee originarie (prima la Ceca e poi successivamente la Cee e la Ceea o Euratom), le quali avevano finalità economiche, ma anche l'obiettivo preciso di scongiurare il rischio del riprodursi in Europa delle condizioni di conflittualità che avevano portato ben due conflitti mondiali. Si partì dalla creazione di un mercato comune, eliminando le barriere tra i vari stati europei per arrivare alla libera circolazione delle merci, al diritto di stabilimento dei lavoratori autonomi e alla libera circolazione dei capitali. Le principali tappe dell'itinerario di integrazione sono:

  • trattato di Bruxelles (1965), che realizza una prima forma di coordinamento tra le tre comunità unificandone gli esecutivi e varando un unico bilancio europeo;una sola commissione europea, un unico consiglio;
  • atto unico europeo (1986), che prevede l'eliminazione di un gran numero di barriere alla libera circolazione, vede l'istituzionalizzazione del consiglio europeo, in quanto organo nel quale maturano le grandi scelte di indirizzo politico, e il potenziamento del ruolo del Parlamento europeo nei processi decisionali;l’avvio della cooperazione europea in materia di politica estera;
  • trattato di Maastricht o trattato dell'Unione Europea (1992), che dà il via alla cooperazione in materia di politica estera, di sicurezza, di giustizia e di affari interni. Si pongono le basi per una moneta unica europea (euro) e per l'istituzione della Banca centrale europea, insieme alla nozione di cittadinanza europea;si cerca di garantire la stabilità dei prezzi all’interno del mercato unico. Si introduce il “Principio di sussidiarietà” dove la Comunità Europea è legittimata ad agire nei settori che non sono di sua competenza, soltanto nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli stati membri e possono dunque essere realizzati meglio a livello comunitario. Si tratta di un principio importante, che dovrebbe svolgere una funzione di freno all’ampliamento dell’area degli interventi comunitari, a tutele delle competenze degli Stati membri. Attraverso la Cittadinanza Europea si punta a rafforzare i diritti che ciascuno Stato membro è tenuto a riconoscere ai cittadini degli altri Stati della Comunità, ivi compreso quello di voto.
  • trattato di Amsterdam (1997), che vede un'ulteriore valorizzazione della cittadinanza europea, insieme a un rafforzamento della politica sociale europea; uguaglianza tra uomini e donne, protezione delle persone fisiche in ordine alla raccolta e trattamento dei dati personali; e alcune modifiche alla forma di Governo Comunitario (il Parlamento Europeo partecipa al procedimento legislativo).
  • trattato di Nizza (2001), con il rafforzamento degli interventi dell'Unione Europea in settori quali quello della politica estera, di sicurezza e di difesa, insieme alla nuova composizione del Parlamento europeo e della commissione; allargamento dell’Unione da 15 a 25 Stati.

Ad oggi i paesi dell’Unione Europea risultano essere: Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo, Olanda, regno unito, Irlanda, Danimarca, Grecia, Spagna, Portogallo, Austria, Finlandia, Svezia, Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Repubblica ceca, Repubblica slovacca, Slovenia, Ungheria (25 paesi, maggio 2004).
- trattato di Atene del 2003 (trattato di adesione).

La forma di Governo

Per forma di Governo comunitaria si intende l'aspetto dell'ordinamento relativo alla composizione e alle funzioni degli organi tra i quali i trattati ripartiscono i poteri ceduti dagli stati membri, nonché ai loro reciproci rapporti. Gli organi principali sono i seguenti:

  • il consiglio europeo, creato nel 1974 ed entrato a far parte della struttura organizzativa comunitaria nel 1987 a seguito dell’entrata in vigore dell’Atto unico europeo, è formato dai capi di stato o di Governo dei paesi membri – assistiti dai ministri degli Esteri – e dal Presidente della Commissione europea. Si riunisce due volte all’anno nei cosiddetti “vertici europei” e ha il compito principale di stabilire l’orientamento politico dell’Unione; esso riferisce al Parlamento Europeo e rappresenta il centro della Comunità;
  • il Parlamento europeo, inizialmente organo puramente consultivo al quale l’Atto unico europeo e il trattato di Maastricht hanno attribuito poteri più ampi – è l’unico organo comunitario composto da membri (in carica 5 anni) eletti direttamente dai cittadini dei paesi membri. Oggi, oltre ad avere poteri in materia di bilancio e di controllo dell’esecutivo, il Parlamento ha anche competenze legislative e condivide con il Consiglio dei ministri il potere di decisione su diverse materie. Il Parlamento è in grado di incidere sul contenuto degli atti normativi comunitari attraverso l’esercizio di un potere di emandamento che può arrivare fino all’arresto (potere di veto) del procedimento stesso. I poteri che spettano al Parlamento sono in materia di Bilancio della comunità (per l’adesione finale); e poteri di controllo sulla Commissione Europea. In seguito al trattato di Amsterdam, il Parlamento ha la possibilità di raccordare i propri lavori sia con l’attività svolta dal Comitato delle regioni e delle autonomie locali, sia con quella dei Parlamenti nazionali, attraverso la conferenza degli organi parlamentari specializzati in affari comunitari (COSAC), nonché il potere di approvare le nomine del Presidente della Commissione.
  • la commissione europea, composta da trenta membri (erano venti prima dell’allargamento del 2004), è l’organo esecutivo dell’Unione, ma suo è anche il compito di avanzare le proposte legislative. Essa vigila sulla corretta applicazione dei trattati europei e delle decisioni adottate in base a essi. In ambito amministrativo la Commissione gestisce i fondi comunitari e gli aiuti agli altri paesi. La Commissione europea ha un organico di 15.000 persone, di cui un terzo è addetto ai servizi di traduzione e di interpretariato. È composto da 20 membri nominati dai Governi degli Stati membri, i quali durano 5 anni ed operano in regime di assoluta indipendenza dagli Stati, dai quali non possono ricevere né istituzioni, né direttive. Con il trattato di adesione si è stabilito che la commissione sia composta da un membro per ciascun Stato membro. Il Parlamento è chiamato non solo ad esprimere la sua approvazione sul Presidente della Commissione designato di comune accordo dai Governi degli Stati membri, ma anche sull’intera composizione dell’organo.

I poteri della commissione:

      • poteri di iniziativa e di stimolo nei confronti delle altre istituzioni comunitarie (es. potere di iniziativa in ordine agli atti normativi comunitari);
      • potere di esecuzione: assicurare la corretta esecuzione di tutte le decisioni assunte a livello comunitario, nonché quello di curare la gestione del bilancio comunitario;
      • potere di controllo: garantire che sia gli Stati membri, sia i privati adeguino i propri comportamenti agli obblighi derivanti all’adesione alla comunità, chiamare i soggetti inadempienti a rispondere davanti alla Corte di Giustizia;
      • poteri sanzionatori: in certi casi la commissione dispone di poteri sanzionatori diretti nei confronti delle imprese o dei privati che abbiano violato gli obblighi derivanti dal diritto comunitario.
  • il consiglio dei ministri, il principale organo legislativo. Composto dai rappresentanti degli stati membri, di solito ministri, è affiancato dal Comitato dei rappresentanti permanenti, che ha il compito di preparare i lavori del Consiglio e di eseguire i mandati che quest’ultimo gli affida. La presidenza del Consiglio è affidata a turno a uno degli stati membri e ha la durata di sei mesi. L’attività del Consiglio si divide in tre “pilastri”.

Il primo comprende le politiche comunitarie in materia di agricoltura, trasporti, energia, ambiente, ricerca e sviluppo, per le quali il Consiglio si attiva su proposta della Commissione. Il secondo “pilastro” comprende la politica estera e la sicurezza; il terzo la giustizia e gli affari interni. Su queste materie il Consiglio ha potere di decisione e di iniziativa. Il consiglio si avvale per l’esercizio delle sue funzioni del comitato dei rappresentanti permanenti (coreper) composto da rappresentanti degli Stati membri. Il trattato di adesione ha stabilito una nuova ponderazione dei voti per le deliberazioni del consiglio che devono essere assunte a maggioranza qualificata e fissato la soglia di validità di tali deliberazioni (232 voti, purché rappresentino il voto favorevole della maggioranza degli Stati membri, se oggetto della decisione è una proposta della Commissione Europea; 232 voti purchè rappresentino il voto favorevole dei 2/3 degli Stati negli altri casi).

  • gli organi di controllo e di giustizia, di cui fanno parte la Corte dei conti, la Corte di giustizia ed il Tribunale di primo grado. La corte dei conti, composta da 25 membri, esercita il controllo sulla gestione finanziaria della comunità. I membri sono nominati, per 6 anni, dal Consiglio. La Corte di giustizia, organo giudicante di ultima istanza, è composta da venticinque giudici (uno per ogni stato membro) e otto avvocati generali; è competente sia per le controversie tra istituzioni comunitarie – e tra queste ultime e i paesi membri – sia per i ricorsi in appello contro le direttive e i regolamenti emanati dall’Unione. Su richiesta di un Tribunale nazionale, la Corte si pronuncia anche sulla validità e sull’interpretazione delle disposizioni del diritto comunitario (vedi Diritto europeo). Le sue sentenze costituiscono un precedente e divengono parte del quadro giuridico di ciascuno stato membro. I membri sono nominatidai governi degli Stati membri. La Corte di Giustizia è dunque il custode della corretta e uniforme applicazione del diritto comunitario, conforme alle disposizioni dei trattati. L’ordinamento comunitario non ha tra le sue finalità istituzionali quella di assicurare la tutela dei diritti fondamentali dei cittadini degli Stati membri. La carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, pur non inserita nei trattati, e dunque priva di valore giuridico, costituisce una tappa importante in vista della definizione di una vera e propria Costituzione Europea. Il Tribunale di primo grado, formato da venticinque giudici nominati per un periodo di sei anni, si occupa dei ricorsi contro la normativa comunitaria presentati da individui, organizzazioni o società.

I poteri delle istituzioni comunitarie

La comunità è in grado di esercitare poteri normativi, amministrativi, giudiziari, concludere accordi internazionali con stati terzi.

  • Poteri normativi. Vengono esercitati attualmente attraverso direttive e regolamenti: le direttive sono atti normativi che fissano, in una determinata materia, degli obiettivi, dei risultati che devono essere raggiunti dagli stati membri lasciando a questi ultimi la libera scelta dei mezzi più idonei al loro conseguimento; ad una direttiva comunitaria fa seguito un intervento del legislatore nazionale che deve dare attuazione al contenuto della direttiva; questo strumento normativo è previsto dai trattati quando non si è ritenuto opportuno esautorare del tutto i legislatori nazionali, ma si è voluto lasciare loro un margine di intervento discrezionale, sia pure nel rispetto delle finalità e dei principi generali contenuti nell’atto comunitario. I regolamenti sono invece gli atti normativi comunitari che non richiedono alcun ulteriore intervento da parte del legislatore nazionale,poiché contengono una normativa autosufficiente, che non richiede altro che di essere applicata. Attraverso l’uso dei regolamenti si esprime il più pieno potere normativo della comunità. La caratteristica fondamentale delle norme poste mediante il ricorso a questi atti normativi comunitari e che è rappresentata dal fatto che esse producono direttamente i loro effetti all’interno dell’ordinamento giuridico degli Stati membri: ciò significa che esse debbono obbligatoriamente essere osservate sia dai soggetti pubblici sia dai soggetti privati.

È quella dell’art. 189 del trattato CEE chiamata diretta applicabilità degli atti normativi comunitari. Affinché questo effetto si verifichi è necessario che l’atto comunitario sia legittimo. La prassi comunitaria ha ricollegato anche alle direttive la diretta applicabilità negli ordinamenti degli Stati membri, là dove la direttiva non si limiti a fissare dei principi o degli obblighi generali, ma contenga invece anche disposizioni puntuali di dettaglio.

  • Poteri amministrativi. Riguardano le attività di decisione, di controllo, di ispezione, di sanzione. È di particolare rilievo l'attività che la commissione svolge nella gestione dei fondi strutturali della comunità, ossia delle risorse che vengono destinate allo sviluppo di particolari settori dell'economia degli stati membri. Si tratta di fondi per le spese in materia di politica agricola (feoga), di sviluppo regionale (fers), di formazione professionale (fse). È alla commissione che spetta sia l’approvazione delle richieste di contributo avanzate dalle amministrazione nazionali,sia il controllo sulla correttezza del loro impiego, nonché sui risultati conseguiti.
  • Poteri in campo monetario. L'introduzione di una moneta unica europea e l'istituzione di una banca centrale europea rappresentano, senza alcun dubbio, il passo più rilevante sulla strada dell'integrazione. Diventata operativa il 1° luglio 1988, la Banca centrale europea, che ha sede a Francoforte, è l’organismo attorno al quale ruota il Sistema europeo delle banche centrali (SEBC), che comprende tutti gli istituti di emissione dei paesi membri dell’UE. Compiti della BCE sono quelli di sostenere le politiche economiche e definire e attuare la politica monetaria dell’UE, assicurare la stabilità dei prezzi interni e il valore del cambio esterno dell’euro, detenere e gestire le riserve ufficiali in valuta estera degli stati membri, promuovere il regolare funzionamento dei sistemi di pagamento. Gli organi della BCE sono: il Comitato esecutivo, composto da sei membri; il Consiglio direttivo, composto dai sei membri del Comitato esecutivo più i dodici governatori delle banche centrali dei paesi aderenti all’Unione monetaria europea; il Consiglio generale, composto dai governatori delle banche centrali di tutti i paesi membri dell’UE. La BCE opera in regime di assoluta indipendenza non solo rispetto ai Governi nazionali, ma rispetto alle stesse istituzioni comunitarie.
  • Poteri giudiziari. Vengono esercitati dal tribunale di primo grado e dalla corte di giustizia e assicurano che gli atti e comportamenti adottati dalle istituzioni comunitarie siano legittimi; valgono inoltre ad assicurare un risarcimento del danno a chi, persona fisica o giuridica, abbia subito un pregiudizio dell'attività svolta da un organo comunitario.
  • Potere estero. In alcune materie espressamente previste dai trattati, come la politica commerciale comune e la cooperazione nei settori della ricerca e dello sviluppo tecnologico, la comunità ha il potere di stipulare accordi internazionali che vincolano al loro rispetto tutti i stati membri. Con il trattato di Amsterdam, all’affidamento al segretario generale del Consiglio, del compito di volgere le funzioni di alto rappresentante.
  • Poteri in ambito di PESC e GAI. Nel quadro della cooperazione in materia di politica estera e di sicurezza comune (PESC), nonché in materia di giustizia e affari interni (GAI), le decisioni assunte assumono la veste di azioni comuni e di posizioni comuni: le prime impegnano l'unione a un intervento diretto, mentre le seconde impegnano gli stati ad adottare politiche nazionali conformi alla posizione comune assunta. Si tratta di decisioni assunte per lo più all’unanimità, a sottolineare la prudenza con la quale si è dato avvio a queste forme di cooperazione.

Il nuovo trattato costituzionale europeo prevede:

    • Attribuzione all’UE della personalità giuridica;
    • Inserimento di norme di principio sui diritti e della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, con maggiore riconoscibilità dei diritti tutelati e rafforzamento del vincolo di rispetto dei medesimi da parte dell’UE;
    • Definizione di criteri di riparto delle competenze tra unione e Stati membri, attraverso la previsione di una competenza esclusiva dell’Unione per un numero limitato di materie e di una competenza concorrente per un numero assai ampio;
    • Disciplina di un sistema delle fonti normative europee basato su due atti normativi, le leggi europee e le leggi quadro europee distinti dagli atti non normativi;
    • Riconduzione ad un unico sistema decisionale anche dei due pilastri della politica estera e di difesa comune, nonché della politica in tema di giustizia e affari interni;
    • Rafforzamento del ruolo politico del Presidente del consiglio europeo, eletto per un periodo di 2 anni e mezzo;
    • Istituzione di un ministro degli affari esteri dell’Unione, in sostituzione dell’ “alto rappresentazione per la politica estera e di sicurezza comune”, con il compito di coordinare l’azione estera dell’Unione, nonché quest’ultima con l’azione esterna dei singoli Stati membri;
    • Rafforzamento del ruolo del parlamento europeo nell’esercizio dei poteri normativi dell’Unione attraverso l’affidamento all’assemblea dell’ultima parola su tutte le decisioni di spesa;
    • Accentuazione del rapporto fiduciario tra commissione e parlamento: il Presidente della commissione, proposto dal Consiglio Europeo, tenuto conto delle elezioni per il parlamento, viene eletto da quest’ultimo; gli altri membri della commissione, anch’essi designati dal consiglio d’intesa con il presidente, sono soggetti all’approvazione parlamentare insieme al presidente e al ministro degli affari esteri, che fa parte di diritto della commissione;
    • Riduzione del numero delle decisioni per le quali è richiesta l’unanimità e la definizione di un nuovo sistema di voto a doppia maggioranza, il quale prevede che le decisioni siano assunte almeno il 55% degli Stati membri, che rappresentino almeno il 65% della popolazione complessiva, con la possibilità di elevare tali percentuali in ordine a decisioni di particolare rilievo politico.

I riflessi sul sistema costituzionale della partecipazione dell’Italia all’Unione Europea

Il trattato di Maastrich ha spinto molti Stati membri a modificare le loro costituzioni, in modo da renderle compatibili con il livello dell’integrazione raggiunto e per ricostruire su nuove basi gli equilibri tra gli organi che, sul piano interno, esercitano le diverse funzioni pubbliche.
Le principali conseguenze che il processo di integrazione europea ha prodotto in Italia sono:

  • sul piano della forma di Governo, si deve registrare un progressivo rafforzamento del ruolo di quest'organo, mentre il Parlamento non dispone di strumenti efficaci per poter far sentire la propria voce sulla scena europea;
  • sul piano delle grandi scelte di indirizzo politico, ogni scelta risulta vincolata a decisioni assunte in sede comunitaria;
  • sul piano della legislazione, ormai intere materie non sono più nella disponibilità del legislatore nazionale e ciò vale sia per il Parlamento sia per le singole regioni;
  • sul piano dell'amministrazione gli organi amministrativi (statali, regionali, provinciali o comunali) non operano più in ossequio a una legge dello Stato o della regione, ma in ossequio a un regolamento o ad una direttiva comunitaria;
  • sul piano della giurisdizione, la legge della comunità prevale, secondo il principio gerarchico, automaticamente su una legge nazionale, qualora la la materia in causa sia disciplinata da entrambe le fonti normative.

 

CAPITOLO V: Il corpo elettorale. (95 – 140)

Popolo e corpo elettorale

L'articolo 1.2 della costituzione Repubblicana afferma che "la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della costituzione". Gli organi dello Stato, chiamati costituzionali, si dicono “sovrani” in quanto rappresentano gli strumenti attraverso i quali il popolo esercita la sovranità che a lui appartiene. La costituzione prevede dunque che l'esercizio delle funzioni dello Stato non possa avvenire se non in seguito alla consultazione del corpo elettorale, costituito appunto dal popolo. Quest’ultimo rappresenta la “parte attiva del popolo”, ossia quell’insieme di soggetti in possesso dei requisiti richiesti direttamente dalla Costituzione per l’esercizio delle funzioni che valgono a mettere in moto l’azione degli organi statali, attraverso i quali si esprime la sovranità popolare. Titolare della sovranità  resta il popolo nel suo complesso, l’insieme cioè di tutti i cittadini. Anche coloro che non sono elettori sono tuttavia portatori di interessi che influiscono sull’esercizio della sovranità.
Il concetto di nazione individua quegli elementi etnici, linguistici, culturali e sociali che costituiscono il patrimonio di una determinata collettività. La nozione di popolazione designa l'insieme dei soggetti, cittadini e non, che risiedono in un determinato momento sul territorio dello Stato e sono tenuti a rispettarne le leggi. Elemento fondamentale per l'esercizio dei diritti connessi alla titolarità della sovranità è invece il possesso della cittadinanza, che può essere acquistata in diversi modi: secondo il principio dello "iure sanguinis", acquista la cittadinanza italiana il figlio, anche adottivo, di genitori in possesso della cittadinanza italiana; secondo il principio dello "iure soli", colui che è nato nel territorio nazionale da genitori ignoti o apolidi (privi di cittadinanza); sei mesi di residenza nel territorio della Repubblica, se richiesto dal soggetto interessato; tre anni dalla data di matrimonio; straniero che ha prestato servizio alle dipendenze dello Stato per almeno cinque anni; cittadino di uno degli stati membri della CEE è residente da almeno quattro anni nel territorio della Repubblica. La perdita della cittadinanza può venire o per rinunzia o automaticamente. La cittadinanza perduta può essere riacquistata a richiesta dell'interessato qualora vi siano particolari presupposti.
La cittadinanza europea si acquista in virtù del possesso della cittadinanza di uno degli stati membri e comporta il riconoscimento di una serie di diritti che riguardano il diritto alla tutela da parte dell'autorità diplomatiche di uno qualunque degli stati membri. I cittadini dell'unione devono chiedere l'iscrizione in un'apposita lista elettorale, che consente di acquisire l'elettorato attivo e passivo (eccetto l'eleggibilità a sindaco o a vicesindaco) dello Stato in cui risiede.

Le funzioni del corpo elettorale

Le funzioni che spettano al corpo elettorale consistono nell'elezione dei propri rappresentanti del Parlamento nazionale e in quello europeo, nei consigli regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali. La costituzione prevede inoltre alcune forme di esercizio diretto della sovranità da parte del corpo elettorale, come l'istituto della petizione, dell'iniziativa popolare e del referendum.

La funzione elettorale

L'articolo 48 della costituzione fissa i principi fondamentali in materia di esercizio della funzione elettorale. Le caratteristiche del voto sono la personalità, l'uguaglianza, la libertà e la segretezza. Vengono individuati inoltre i requisiti positivi (cittadinanza e maggiore età) e negativi (incapacità o indegnità morale) della cosiddetta capacità elettorale.

Le caratteristiche del voto

La personalità del voto sta a indicare il divieto di introdurre regole che consentano all'elettore di esercitare la funzione elettorale attraverso un altro soggetto (il cosiddetto voto per delega) salvi i casi in cui l’intervento di un terzo sia indispensabile all’esercizio del voto (es. nel caco dei ciechi).
L'uguaglianza indica il divieto di introdurre regole elettorali che abbiano come conseguenza l'attribuzione ad alcuni soggetti di un peso elettorale maggiore rispetto quello di altri.
Libertà e segretezza stanno indicare l'obbligo di predisporre modalità di esercizio del diritto di voto che garantiscano la possibilità di esprimere, senza alcun condizionamento, la propria volontà elettorale. L'articolo 48 definisce, inoltre, l'esercizio del diritto di voto come dovere civico.

La capacità elettorale

La capacità elettorale riassume i requisiti necessari per l'acquisto del diritto di elettorato attivo e passivo. I requisiti positivi sono alla cittadinanza e la maggiore età. La legge costituzionale 1/2001 ha previsto l'istituzione di una "circoscrizione estero" per l'elezione del Parlamento nazionale, assegnando 12 seggi per la Camera dei deputati e 6 seggi per il Senato. I membri del Senato vengono eletti da coloro i quali abbiano compiuto il venticinquesimo anno di età. L'età richiesta per l'elettorato passivo è 25 anni per la Camera dei deputati, 40 anni per essere eletti Senatori e 50 anni per essere eletti Presidente della Repubblica. La disciplina del voto gli italiani all’estero ha trovato la sua prima applicazione in occasione delle elezioni politiche del 2006. I requisiti negativi della capacità elettorale sono l'esistenza di cause di incapacità civile (infermi di mente o interdetti), provvedimenti definitivi del giudice (dichiarazione di fallimento) o cause di indegnità morale (i membri di casa Savoia). Per quanto riguarda l'elettorato passivo, i requisiti negativi sono rappresentati dalle cause di ineleggibilità (esercizio di carica che pongono il soggetto in una situazione di vantaggio rispetto agli altri candidati) o di incompatibilità (che può essere rimosso rinunciando ad una delle due cariche, come deputato e Senatore, parlamentare e Presidente della Repubblica, parlamentare e membro del consiglio superiore della magistratura, parlamentare e membro della corte costituzionale, parlamentare e membro del consiglio nazionale dell'economia e del lavoro). A differenza delle cause di ineleggibilità, che rendono nulla l’eventuale elezione del candidato, le cause di incompatibilità possono essere rimosse mediante l’esercizio dell’opinione da parte dell’interessato tra le sue cariche, appunto ritenute incompatibili, che egli si accinge a ricoprire.
Per ciò che attiene a livello regionale, l’art. 122.1 Cost., affida alla legge regionale il compito di definire non solo il sistema elettorale, ma anche i casi di ineleggibilità e incompatibilità del Presidente e dei componenti della Giunta, nonché dei consiglieri regionali, “nei limiti dei principi fondamentali legge della Repubblica”, e prevede, al 2° comma, alcune cause di incompatibilità, vietando di ricoprire contemporaneamente la carica di membro del consiglio e della giunta regionale e quella di membro del parlamento nazionale e del parlamento europeo, nonché di ricoprire dette cariche in più di una regione.
Quanto all’ineleggibilità si prevede che essa venga disposta qualora le attività o le funzioni svolte dal candidato possono turbare o condizionare in modo diretto la libertà di voto dell’elettore ovvero violare la parità di accesso alle cariche elettive rispetto agli altri candidati. Ineleggibilità che viene meno quando le attività o le funzioni in questione cessino entro un termine comunque precedente il giorno fissato per la presentazione delle candidature.
Quanto all’incompatibilità si stabilisce che essa venga disposta in caso di conflitto tra le funzioni svolte dai soggetti sunnominati e altre situazioni o cariche, che possa mettere a rischio il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione ovvero l’esplemento della carica elettiva. Una volta accertata una delle cause di incompatibilità, la legge fissa in 30giorni il termine massimo entro il quale va esercitata l’opzione o comunque deve cessare la causa di incompatibilità; piena la decadenza della carica.
Per il livello comunale e provinciale,le cause di ineleggibilità e incompatibilità sono invece stabilite dalla legge dello Stato.
La legge 16/1992 ha introdotto l’istituto della non candidabilità in relazione alle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali. Tale istituto si applica a coloro che sano stati condannati con sentenza passata in giudicato per alcuni gravi delitti.

I sistemi elettorali, in generale

Il modo in cui i voti espressi dal corpo elettorale vengono utilizzati per l'assegnazione dei seggi posti in palio nella consultazione elettorale attiene al sistema elettorale. Si distinguono due grandi famiglie di sistemi elettorali: quelli maggioritari e quelli proporzionali.
Nei sistemi maggioritari il principio base è quello per cui tutti seggi in palio in una determinata circoscrizione vengono assegnati al partito, o alla coalizione, che ottiene la maggioranza semplice dei voti espressi (un numero superiore rispetto a quelli degli altri) o la maggioranza assoluta (la metà più uno dei voti validamente espressi). Un sistema di tale tipo penalizza molto i partiti più deboli i quali, pur ottenendo voti nei singoli collegi, possono non riuscire a conquistare nemmeno un seggio.
Il sistema maggioritario ha una buona resa in presenza di pochi partiti.
Nei sistemi proporzionali il principio base è quello per cui i seggi vengono assegnati tra tutti i partiti che hanno partecipato alla competizione elettorale, in proporzione al numero dei voti che ciascuno di essi ha ottenuto. Operano là dove esiste un alto numero di partiti, cui corrisponde una forte frammentazione del corpo elettorale. Nei sistemi maggioritari è individuato l'istituto del ballottaggio; nell'ipotesi in cui nessun candidato consegue il numero di voti necessari per essere eletto, si svolge un secondo turno elettorale, cui sono ammessi come candidati coloro che, al primo turno, hanno ottenuto più voti. Nei sistemi proporzionali esistono tre metodi matematici utilizzati: il metodo d'Hondt consiste nell'assegnare i seggi sulla base di potenti interi più alti, che si ottengono dividendo alla cifra elettorale in ogni partito per 1, 2, 3, 4,...; il metodo Sainte Lague attribuisce i seggi sempre sulla base dei quozienti più alti, ma dividendo la cifra elettorale di ogni partito per 1, 3, 5, 7, 9, ...; il metodo del quoziente corretto consiste nell'attribuzione dei seggi a quei candidati che abbiano ottenuto un numero di voti pari al quoziente che si ottiene dividendo il numero di voti validi per il numero complessivo dei seggi da assegnare nella circoscrizione, maggiorato di 1 o più unità. Un elemento da tenere presente nella valutazione di diversi sistemi elettorali è le dimensioni delle circoscrizioni elettorali (collegi elettorali) in cui in genere è suddiviso il territorio nazionale. Nei sistemi maggioritari è naturale la suddivisione del corpo elettorale in tanti collegi quanti sono i seggi da assegnare; nei sistemi proporzionali: mentre circoscrizioni ampie accentuano l’effetto proporzionale, ma non garantiscono una rappresentanza di tutte le aree territoriali, circoscrizioni piccole portano ad un’attenuazione dell’effetto proporzionale, essendo in questo caso favoriti i partiti maggiori.
Premi di maggioranza: tendenti ad una parziale sovrarappresentazione del partito o partiti più votati; soglie di sbarrimento: tendenti ad escludere dalla ripartizione dei seggi i partiti di modesta consistenza elettorale. Sistema di voto limitato consente di esprimere un numero di suffragi inferiore a quello dei seggi posti in palio: per quanti voti il partito di maggioranza possa ottenere, un certo numero di seggi, determinato a priori dalla legge elettorale, rimarrà riservato al partito minore. Sistema del voto cumulativo attribuisce agli elettori un numero di suffragi pari a quello dei seggi posti in palio, ma consente al singolo elettore di concentrarli su un numero più ridotto dei candidati.

Il sistema elettorale per l’elezione della Camera e del Senato: caratteristiche generali

Fino al referendum del 1993, il sistema elettorale per l'elezione di Camera e Senato è stato sostanzialmente proporzionale: da quel momento in poi il popolo si è espresso a favore di un sistema di tipo maggioritario. Tuttavia, in seguito alla consultazione referendaria, il Parlamento ha varato la nuova legislazione elettorale, valida per il Senato e per la Camera, definibile come sistema misto. Infatti, per una parte sistema può definirsi maggioritario, poiché tre quarti dei deputati e dei Senatori sono eletti in collegi uninominali secondo la regola che assegna il seggio al candidato che ottiene più voti rispetto agli altri, ma per una parte è ancora proporzionale, tant'è che un quarto dei deputati e dei Senatori è eletto mediante il metodo d'Hondt.
Con l’approvazione della legge 270/2005 si è ritornati ad un sistema elettorale di tipo proporzionale: si tratta di un sistema proporzionale (i seggi vengono assegnati in proporzione ai voti validi ottenuti dalle liste singole o collegate tra loro, che abbia no superato le diverse soglie minime per accedere alla ripartizione), a scrutinio di lista (senza possibilità per l’elettore di esprimere preferenze) in collegi plurinominali, con eventuale assegnazione di un premio di maggioranza alla coalizione o alla lista che ha raccolto il maggior numero di voti validi a livello nazionale (per la camere) e a livello regionale (per il senato).

Il sistema elettorale per il Senato

Il Senato, secondo l'articolo 57 della costituzione, deve essere eletto a base regionale: è il Governo che, con un apposito decreto, provvede a ripartire fra le regioni i seggi, in relazione alla popolazione residente. La candidatura è personale e subordinata alla sola firma di sottoscrizione da parte di un numero sufficiente di lettori del collegio. La legge fa divieto di presentarsi in più di un collegio Senatoriale o di candidarsi contestualmente per le elezioni della Camera. L'elettore esprime un unico voto nella scheda e dall'esito che scaturisce dallo spoglio dei voti si deriva l'elezione, in ciascun collegio, del candidato che ha ottenuto il maggior numero di voti validi. Non è prevista alcuna soglia minima per conseguire un seggio.
L’assegnazione dei seggi è affidata all’ufficio elettorale regionale:

  • determinare la cifra elettorale circoscrizionale di ogni coalizione e di ogni lista: sommare i voti conseguiti dalle coalizioni e dalle liste singole nelle varie sezioni elettorali in cui la circoscrizione è suddivisa;
  • individuare le coalizioni e le liste singole che hanno diritto a partecipare all’assegnazione dei seggi, avendo superato le soglie di smarrimento;
  • calcolare il quoziente elettorale circoscrizionale (dividendo la somma di tutte le cifre elettorali delle coalizioni e delle liste singole per il numero dei seggi da assegnare nella circoscrizione regionale);
  • assegnare i seggi alle coalizioni e liste singole (dividendo la cifra elettorale per il quoziente) ed eventuale recupero dei resti;
  • verificare se la coalizione o la lista più votata ha conseguito il 55% de9 seggi messi in palio nella circoscrizione.

Risultano eletti i candidati compresi in ciascuna lista secondo l’ordine in cui vi compongono.

Il sistema elettorale per la Camera dei deputati

Anche nel sistema elettorale per la Camera dei deputati i tre quarti dei seggi (esclusi quelli assegnati alla circoscrizione estero) sono attribuiti con metodo maggioritario in collegi uninominali, mentre il restante un quarto è assegnato con metodo proporzionale. La legge individua ventisei circoscrizioni elettorali (la Sicilia ne ha due). La lista a livello circoscrizionale deve essere presentata da un numero di elettori che va da 500 a 4500; è una lista breve e rigida, dal momento che non esiste per l'elettore la possibilità di esprimere un voto di preferenza, sì che risulteranno eletti i candidati secondo l'ordine prestabilito dal partito.
L’assegnazione dei seggi
L’ufficio centrale nazionale deve identificare le coalizioni e le liste tra le quali vanno ripartiti i seggi, svolgendo operazioni:

  • calcolare la cifra elettorale nazionale;
  • individuare le coalizioni o le liste singole.

L’ufficio adesso può procedere all’assegnazione dei seggi:

    • calcolo del quoziente elettorale nazionale: si ottiene dividendo il totale delle cifre elettorali di coalizione e di lista per il numero sei seggi da assegnare;
    • assegnazione dei seggi alle coalizioni e alle liste singole in proporzione alla loro cifra elettorale nazionale: si divide la loro cifra elettorale nazionale per il quoziente elettorale nazionale e il numero intero che si ottiene individua il numero dei seggi che spettano alla coalizione o alla lista. I seggi non assegnati vanno attribuiti alla lista che ha i resti, ossia i voti non utilizzati, più alti (recupero dei resti) oppure per sorteggio;
    • verifica se alla coalizione o lista più votata su base nazionale sono stati assegnati almeno 340 seggi (maggioranza del 55%).

Gli esiti dello spoglio portano all'immediata proclamazione dei candidati che vi hanno conseguito la maggioranza dei voti validamente espressi. Data la possibilità che i candidati a livello circoscrizionale siano eletti in più circoscrizioni, si prevede a carico dell'eletto l'obbligo di optare entro otto giorni dalla data dell'ultima proclamazione; diversamente si procede a sorteggio.

Le regole per l’assegnazione dei seggi della circoscrizione estero
Legge 459/2001. A ciascuna delle 6 ripartizioni viene assegnato un seggio per la camera dei deputati e un seggio per il senato, mentre gli altri 6 seggi per la camera vengono ripartiti in proporzione al numero dei cittadini italiani residenti nelle medesime. La copertura dei seggi avviene secondo il sistema proporzionale: si calcola la cifra elettorale di ciascuna lista e la cifra elettorale di ciascun candidato; si divide la somma dei voti validi espressi nella ripartizione per le cifre elettorali delle diverse liste presenti nella competizione elettorale e alle liste che hanno i quozienti più alti si assegnano i seggi; nell’ambito di ciascuna lista vengono assegnati al candidato che ha ottenuto il più alto numero di preferenze. 

Il sistema elettorale per l’elezione dei consigli regionali

Con la legge costituzionale 1/1999 sono state introdotte rilevanti modifiche al titolo V della costituzione, dedicato alla disciplina delle autonomie regionali. Il nuovo testo dell'articolo 122 prevede, infatti, che "il sistema di elezione e i casi di ineleggibilità e di incompatibilità del Presidente e degli altri componenti della giunta regionale, nonché dei consiglieri regionali, sono disciplinati con la legge della regione, nei limiti dei principi fondamentali stabiliti con legge della Repubblica, che stabilisce anche la durata degli organi elettivi" e, all'ultimo comma, che "il Presidente della giunta regionale, salvo che lo statuto disponga diversamente, è eletto suffragio universale diretto". Il numero dei seggi in palio è ripartito fra i vari collegi in proporzione alla popolazione residente. Si tratta di collegi plurinominali, nei quali ogni partito o movimento politico presenta una lista di candidati. Ogni elettore ha la possibilità di esprimere una preferenza a favore di un candidato compreso nella lista stessa.

Il sistema elettorale per l’elezione dei Consigli comunali e provinciali

Il Parlamento ha varato una nuova legge che interessa tanto i comuni, quanto le province (disciplina compresa nel testo unico 267/2000), che rappresenta una combinazione di elementi che si ispirano al principio maggioritario con elementi che, invece, si ispirano al principio proporzionale. Per i comuni fino a 15.000 abitanti, ogni candidato sindaco deve essere collegato a una lista di candidati a consigliere comunale; risulterà eletto sindaco il candidato che avrà ottenuto il maggior numero di voti e in caso di parità si procede al ballottaggio. La lista collegata al candidato Sindaco risultato vincitore ottiene i 2/3 dei seggi posti in palio, mentre i rimanenti vengono distribuiti tra le altre liste, in proporzione al numero di voti ottenuto, applicando il metodo d’Hondt.
Per i comuni oltre 15.000 abitanti l'elettore vota contemporaneamente per un candidato a sindaco e per una delle liste, che non devono essere per forza uguali; risulterà eletto sindaco il candidato che otterrà la metà più uno dei voti validamente espressi e anche in questo caso si può procedere al ballottaggio. Tra i 2 candidati che hanno ottenuto il maggior numero dei voti. Al secondo turno i 2 candidati ammessi al ballottaggio possono collegarsi ad altre liste.attribuzione dei seggi del consiglio comunale alle varie liste avviene in proporzione al numero di voti ottenuti, con l’applicazione del metodo di Hondt. Alle liste collegate al sindaco vincitore vengono assegnati il  60% dei seggi.
La durata in carica dei sindaci e dei consigli comunali è fissata in cinque anni e si è limitato a due il numero massimo dei mandati a sindaco.
Il procedimento per l'elezione del Presidente della provincia e dei consigli provinciali non differisce da quello disposto per i comuni di maggiore dimensione e anche in questo caso la durata in carica risulta di cinque anni.

Il sistema elettorale per l’elezione del Parlamento europeo

Per quanto riguarda l'elezione del Parlamento europeo, in Italia è in vigore la legge 18/1979 che prevede un sistema proporzionale, a scrutinio di lista, il quale opera nelle cinque grandi circoscrizioni elettorali (Italia nord-occidentale, nord-orientale, centrale, meridionale, insulare) in cui la stessa legge ha suddiviso il territorio nazionale. Per l'assegnazione degli 87 seggi si calcola il quoziente elettorale nazionale (numero di voti validamente espressi diviso il numero di seggi da assegnare) e si divide la cifra elettorale nazionale di ciascuna lista per tale quoziente.

Il contenzioso elettorale

Con il termine di contenzioso elettorale si fa riferimento a quel complesso di regole che consentono al singolo candidato, alla lista o ai cittadini, di impugnare i risultati delle consultazioni elettorali, qualora ritengano che, nell'assegnazione dei seggi, siano state commesse delle irregolarità. Per ciò che attiene alle elezioni per le due camere, il controllo è affidato a uno speciale organo interno, la giunta delle elezioni. Questa operazione ha mantenuto il nome di “verifica dei poteri” quando serviva a verificare la consistenza dei poteri che i membri del Parlamento avevano ricevuto in mandato dai gruppi sociali di cui erano rappresentanti.
Per i consigli regionali la convalida degli eletti è riservata al consiglio, ma si riferisce solo ai profili di ineleggibilità e incompatibilità e le relative decisioni sono impugnabili davanti al giudice ordinario, oltre che dagli interessati, da qualunque elettore e dal commissario del Governo.
Per i consigli regionali le decisioni sulle impugnabili davanti al giudice ordinario, oltre che dagli interessati, da qualunque elettore e dal commissario del Governo. Per il Parlamento europeo si prevede un sistema di regole analogo a quello previsto per comuni e province.

La disciplina delle campagne elettorali

Il principio che disciplina le campagne elettorali si ispira alla parità di trattamento e all'imparzialità (par condicio) e ruota intorno alla distinzione fra comunicazione politica e messaggio autogestito. Per comunicazione politica s'intendono quei programmi radiotelevisivi nei quali si mettono a confronto in forma dialettica discorsiva le diverse opinioni che esistono sui temi oggetto di dibattito politico; per messaggi autogestiti s'intendono quelle forme di comunicazione volta illustrare, in modo motivato ma unilaterale, un singolo programma o una singola opinione politica. I programmi di comunicazione politica sono diffusi obbligatoriamente dalle emittenti che operano a livello nazionale (sia pubbliche che private); i messaggi autogestiti sono diffusi dalla concessionaria pubblica (RAI) e devono avere una durata minima (da 1 a 3 minuti quelli televisivi e da 30 a 90 secondi quelli radiofonici). Gli spazi riservati per i messaggi devono essere attribuiti in condizioni di parità e gratuitamente dalle emittenti di livello nazionale; le emittenti locali possono concederli anche a titolo oneroso. Esiste l'obbligo per ciascun partito di non superare un tetto massimo di spese elettorali e l'obbligo di presentare ai presidenti delle camere il consuntivo relativo alle proprie spese elettorali e alle relative fonti di finanziamento. Esiste un contributo alle spese elettorali sia per le elezioni del Parlamento nazionale ed europeo sia dei consigli regionali. Il compito di assicurare il rispetto di tali obblighi è affidato ai collegi regionali di garanzia elettorale, istituti presso le corti d’appello o presso il tribunale del capoluogo di ciascuna regione. A questi organi spetta l’esercizio di poteri sanzionatori che, a seconda dei casi, possono andare dalla irrogazione di sanzioni pecuniarie, alla stessa decadenza dalla carica. Il rispetto degli obblighi gravanti su partiti e movimenti politici, è garantito dai controlli effettuati dalle 2 camere e da un apposito collegio, istituito presso la corte dei conti.
Ove tali controlli rivelino delle violazioni degli obblighi di leggi, essi possono portare all’irrogazione di sanzioni pecuniarie che vanno ad incidere sul contributo alle spese elettorali.
Per le consultazioni referendarie è riconosciuto ai comitati promotori un rimborso calcolato in base al numero delle firme valide raccolte, sempre che sia raggiunto il quorum di partecipazione. Quanto alle modalità di corresponsione, si prevede un meccanismo annuale di versamento di quanto spettante a ciascun partito, in proporzione ai voti ricevuti.

Gli strumenti di esercizio “diretto” della sovranità

In base agli istituti di democrazia diretta, il corpo elettorale, anziché delegare ad altri organi l'esercizio della sovranità, provvede a esercitarla in proprio, saltando le mediazioni degli organi rappresentativi. Gli istituti previsti dalla nostra costituzione che vengono ricondotti sotto quest'etichetta sono tre: la petizione, l'iniziativa popolare e il referendum.

La petizione

La petizione è definita dall'articolo 50 della costituzione come il diritto di ciascun cittadino di rivolgersi alle camere "per chiedere provvedimenti legislativi o esporre comuni necessità".
Del diritto di petizione è titolare la generalità dei cittadini. Le petizioni vengono trasmesse alla commissione parlamentare competente (a seconda della materia cui la petizione si riferisce);   la commissione la prende in considerazione e delibera su di essa; la petizione viene trasmessa al Governo (nel caso in cui i provvedimenti presi chiamino in causa quest'ultimo); infine viene comunicato l'esito della petizione al presentatore della stessa. L'istituto della petizione è previsto anche a livello regionale.

L’iniziativa legislativa popolare

L'istituto dell'iniziativa legislativa popolare, a livello nazionale, prevede che i titolari siano almeno 50.000 cittadini, in possesso della capacità elettorale e la sollecitazione è volta l'approvazione di uno specifico provvedimento legislativo. La funzione rimane comunque quella di stimolo, che lascia quindi libero l'organo cui l'iniziativa popolare è rivolta di assumere le decisioni in merito che ritiene più opportune. Anche l'iniziativa popolare ha trovato spazio negli istituti regionali. I regolamenti parlamentari stabiliscono che le proposte di legge di iniziativa popolare non decadono con lo scadere della legislatura, ma sopravvivono anche per la legislatura successiva. Gli unici controlli cui le iniziative popolari sono soggetti sono dunque quelli relativi alla regolarità degli adempimenti formali cui esse sono subordinate i quali sono svolti direttamente dalla camera che riceve la proposta di legge.

Il referendum, in generale

L'istituto referendario è previsto come istituto destinato operare sia a livello nazionale che a livello regionale e locale. La tipologia del referendum a livello nazionale prevede innanzitutto il referendum abrogativo di leggi e il referendum che si inserisce nel procedimento di revisione costituzionale. Il referendum abrogativo di leggi è in grado di produrre gli effetti più traumatici sul normale funzionamento degli organi rappresentativi, potendo portare ad una aperta sconfessione dell’operato del parlamento da parte degli elettori.

Il referendum abrogativo di legge statale

Il referendum abrogativo di legge statale consiste nella sottoposizione al voto popolare di uno più quesiti relativi all'abrogazione, totale o parziale, di una legge già in vigore. L'articolo 75 della costituzione fissa a 500.000 il numero minimo di elettori necessari per la presentazione della richiesta referendaria. Sono sottratte referendum le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali. È stato previsto un doppio "quorum": uno di partecipazione (la consultazione può produrre i suoi effetti abrogativi solo se ha partecipato al voto la metà più uno degli aventi diritto) e uno relativo all'esito della consultazione (la maggioranza dei voti validamente espressi).
L'organo indicato di assicurare i rispetti tali limiti è la corte costituzionale.

Le richieste di referendum abrogativo non possono essere presentate nell'anno anteriore a quello di scadenza di una delle camere o nei sei mesi successivi alla data di convocazione dei comizi elettorali e sono soggette a un primo controllo di conformità alle regole da parte dell'ufficio per il referendum, istituito presso la corte di cassazione. La corte ha escluso l'ammissibilità della richieste referendarie quando vi è una pluralità di domande eterogenee che non permettono di esprimere la propria volontà con un sì o con un no; quando attengono a norme costituzionali; quando attengono a leggi ordinarie a contenuto costituzionalmente vincolato. Se la richiesta supera i controlli, spetta Presidente della Repubblica fissare il referendum in una domenica compresa fra il 15 aprile ed il 15 giugno. Nel caso in cui venga approvata l'abrogazione parziale o totale della legge, è il Presidente della Repubblica che provvede a dichiarare con proprio un decreto l'avvenuta abrogazione. Nel caso in cui l'elettorato si esprima in senso contrario all'abrogazione, la stessa legge non potrà essere sottoposta di nuovo a referendum abrogativo per un periodo di cinque anni.

Il referendum nel procedimento di revisione costituzionale

Nell'ipotesi in cui la maggioranza raggiunta in ciascuna Camera, nella seconda votazione sulla legge costituzionale, non raggiunga i due terzi, ma la sola maggioranza assoluta (che è indispensabile), si prevede che alcuni soggetti (anche un quinto dei membri di una Camera) possono chiedere di sottoporre a consultazione popolare il testo votato dal Parlamento( una sorta di “appello al popolo”). Un’iniziativa che può esercitarsi entro 3 mesi dalla apposita pubblicazione sulla gazzetta ufficiale del testo della deliberazione legislativa.
Ha ad oggetto una delibera legislativa del parlamento ancora non produttiva di alcun effetto. È questa la ragione per cui si qualifica questo tipo di referendum come referendum sospensivo, volendo con ciò significare che, una volta avviata la procedura referendaria, quest’ultima sospende il perfezionamento del procedimento di revisione costituzionale fino al momento in cui si sia svolta la consultazione popolare. A questo risultato si perviene nel caso in cui si esprima in senso favorevole alla legge la metà più uno dei voti validamente espressi, mentre la Costituzione non richiede alcun quorum di partecipazione. Le modalità di svolgimento ricalcano quelle previste dalla stessa legge per il referendum abrogativo.
Il referendum per la fusione di Regioni esistenti, per la creazione di nuove regioni o per l’aggregazione di Province e Comuni al territorio di una Regione diversa rispetto a quella di appartenenza
I due referendum previsti per la fusione tra più regioni, la creazione di nuove regioni (con un minimo di un milione di abitanti) o lo spostamento di comuni e province dal territorio di una regione a quello di un'altra, non hanno sin oggi trovato pratica applicazione.
Il procedimento prevede che in entrambi i casi l'iniziativa parta dagli organi elettivi degli enti locali minori (i consigli comunali e provinciali interessati), che su tali proposte esprimano i loro pareri i rispettivi consigli regionali, nonché appunto le popolazioni interessate, tramite referendum.
Il referendum è indetto nel territorio delle regioni interessate e la richiesta è approvata se in senso ad essa favorevole si esprime la maggioranza degli aventi diritto di voto; in quest’ultima ipotesi, la procedura di fusione si conclude con l’approvazione di una legge costituzionale. Nel caso di distacco la richiesta deve essere deliberata anche da tanti consigli provinciali o regionali che rappresentino almeno un terzo della restante popolazione della regione dalla quale è proposto il distacco.
Il relativo referendum è indetto nel territorio della regione dalla quale le province o i comuni intendono staccarsi; in caso di esito positivo, la procedura si conclude con l’approvazione di una legge costituzionale. Se il distacco mira all’aggregazione da un’altra regione esistente, la richiesta dovrà essere deliberata, oltre che dai consigli provinciali o comunali interessati, anche da tanti consigli provinciali o comunali che rappresentino almeno 1/3 della popolazione della regione nei confronti della quale si propone l’aggregazione.
Il relativo referendum è indetto sia nel territorio della regione dalla quale le province o i comuni intendono staccarsi, sia nel territorio della regione alla quale esse intendono aggregarsi; in caso di esito positivo, la procedura si conclude con l’approvazione di una legge ordinaria.

Il referendum a livello regionale

La giurisprudenza ha riconosciuto ai promotori del referendum regionale il diritto di ricorrere al giudice ordinario non solo nell'ipotesi di dichiarata inammissibilità delle iniziative referendarie, ma anche nell'ipotesi di sospensione delle medesime, qualora intervengano parziali abrogazioni o modifiche legislative che interessino la legge regionale, oggetto di referendum. L'istituto referendario ha mantenuto quei caratteri di eccezionalità che già l'assemblea costituente aveva inteso conferirgli. Gli istituti regionali hanno preferito puntare piuttosto che sull'istituto referendario su altri istituti diretti ad accrescere le possibilità di partecipazione della comunità regionale come gli istituti di partecipazione quali le consultazioni.
L’art 123 Cost. prevede che gli statuti regionali disciplinino l’esercizio del referendum su leggi e provvedimenti amministrativi della regione. L’esame di nuovi statuti regionali, legge Cost. 1/1999, consente di registrare alcune novità: tipologie referendarie e disciplina del giudizio di ammissibilità.
Quanto al primo profilo, al referendum abrogativo si accompagna ora la previsione generalizzata di referendum consuntivi. Questi ultimi possono avere ad oggetto proposte di atti normative o altre questioni di interesse regionale e, in genere, sono uno strumento attivabile solo dal consiglio regionale. In un caso (statuto del Lazio) è prevista anche una forma di referendum propositivo che funziona come istituto volto a rafforzare l’iniziativa legislativa popolare.
Quanto al secondo profilo, gli istituti affidano il giudizio di ammissibilità agli organi di garanzia statuaria che hanno come denominatore comune quello di essere organi indipendenti dal consiglio regionale  e dunque organi-terzi ed imparziali.
Il nuovo testo dell’art.123 Cost. prevede per l’approvazione dello statuto una procedura aggravata: si tratta di un referendum che ripete le caratteristiche di un referendum facoltativo, sospensivo (nel senso che una volta iniziata la procedura referendaria essa sospende il perfezionamento del procedimento di approvazione dello statuto), deliberativo (non si avrà approvazione dello statuto se non si sarà espressa a favore la maggioranza dei voti validamente espressi nella consultazione referendaria). L’intervento integrativo del legislatore regionale chiamato a sciogliere alcuni nodi, tra  questi quello del rapporto tra l’eventuale richiesta di referendum da parte del corpo elettorale regionale e l’eventuale impugnazione della legge statuaria da parte del Governo davanti la Corte Costituzionale.
Il referendum per l’istituzione di nuovi Comuni o la modifica delle circoscrizioni o delle denominazioni comunali
L'articolo 133.2 della costituzione prevede un'ulteriore forma di referendum a livello regionale, ovvero quello relativo all'istituzione di nuovi comuni o alla modifica delle loro circoscrizioni o denominazioni. Tali provvedimenti possono essere adottati con legge regionale, ma, appunto, previa consultazione delle popolazioni interessate.
La Corte Costituzionale ha affermato che, nell’ipotesi di distacco di alcune frazioni del comune di appartenenza, il voto spetta non solo alle popolazioni delle frazioni richiedenti l’erezione in comune autonomo, ma anche a quelle delle frazioni che rimarrebbero nel comune d’origine. Si tratta di referendum consultivi obbligatori, il cui esito difficilmente potrebbe essere disatteso dagli organi regionali. È contenuta negli statuti regionali e nelle relative leggi di attuazione.

 

Il referendum a livello comunale e provinciale
I consigli comunali hanno provveduto ad adottare, accanto a consultazioni referendarie in senso proprio, in genere di tipo consultivo, promosse tanto ad iniziativa degli organi comunali, quanto degli elettori, anche consultazioni informali, quali i semplici sondaggi di opinione. L’art.8 n°3 del T.U, prevede che “nello statuto devono essere previste forme di consultazione della popolazione” e che “possono esservi previsti referendum anche su richiesta di un adeguato numero di cittadini”.
Tale disposizione consente non solo l’istituzionalizzazione della prassi relativa alla promozione da parte dell’ente locale di consultazioni c.d. informali, ma anche l’introduzione di referendum, sia ad iniziativa dell’ente locale, sia ad iniziativa popolare. Quanto alla tipologia di referendum comunali provinciali è da ritenere che essa possa essere estesa anche ad altri tipi (propositivo, confermativo), purché venga rispettato il limite esplicitato dalla stessa disposizione, rappresentato dalle materie di "esclusiva competenza locale".
Il referendum “di indirizzo” in materia di unione politica europea
Attraverso il cosiddetto referendum "di indirizzo" si chiama il corpo elettorale ad esprimersi non su un atto legislativo amministrativo, bensì su un progetto politico da realizzare (come nel caso della trasformazione della comunità europea da comunità essenzialmente economica in comunità politica). Questo tipo di referendum non è stato tuttavia introdotto in linea generale, ma solo limitatamente al problema specifico indicato.

CAPITOLO VI: Il Parlamento. (pag. 141 – 192)

LA STRUTTURA. Il biCameralismo: problemi attuali e proposte di riforma
Il Parlamento Repubblicano si compone della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. Le ragioni che hanno spinto i costituenti ad adottare un modello di biCameralismo sono riconoscibili non solo al peso della tradizione prefascista e la diffidenza verso formule che richiamassero troppo da vicino le istituzioni corporative del regime, ma anche l'incertezza sui successivi sviluppi delle vicende politiche italiane e sugli equilibri che si sarebbero stabiliti tra le diverse forze destinate a confrontarsi nel nuovo Parlamento Repubblicano.
Le scelte della Costituzione hanno portato all’adozione di un bicameralismo uguale, paritario e indifferenziato, in virtù del quale i rami del parlamento esercitano gli stessi potei e gli atti parlamentari sono il frutto del necessario accordo delle due camere; in questo sistema, alla istituzione di una seconda camera è al più da riconoscersi una funzione di decantazione delle decisioni assunte dall’altro organo parlamentare. Le uniche differenze fra le due camere attengono al numero dei membri: 630 sono i deputati e 315 i Senatori, oltre ai Senatori a vita.
Nell’art.57 cost. si prevede un’elezione del Senato “a base regionale”. Durata 5 anni per la Camera dei Deputati, 6 anni per il Senato. Ma questa differenza è venuta meno con l’approvazione della legge Cost. 3/1963, la quale ha portato a 5 anni la durata in carica del Senato. Le più recenti proposte di riforma si sono mosse nella direzione della differenziazione del tipo di rappresentanza espressa dalle due Camere, nel senso di fare della Camera dei Deputati la sede di rappresentanza generale e del Senato la sede di rappresentanza delle autonomie regionali e locali, con conseguenti diversi poteri dell’una e dell’altra Camera.
I regolamenti parlamentari come fonti integrative – attuative del dettato costituzionale
Secondo quanto disposto dall'articolo 64 della costituzione, "ciascuna Camera adotta il proprio regolamento a maggioranza assoluta". I regolamenti parlamentari non hanno un contenuto meramente organizzatorio, ma toccano nel vivo il rapporto tra le forze politiche rappresentate in Parlamento. Le novità: L’accentuazione dei poteri di indirizzo e controllo delle due assemblee elettive, ma anche dei loro principali organi interni, le commissioni, cui viene riconosciuto il potere di votare risoluzioni che impegnano il Governo ad assumere determinati comportamenti; l’arricchimento dei poteri di informazione del parlamento; il riconoscimento di uno “Statutodelle opposizioni particolarmente attento ad assicurarne il coinvolgimento in tutta una serie di decisioni fondamentali nella vita delle Camere. Tra le modifiche regolamentari più recenti, troviamo l'abolizione, salvo che in pochi casi, del voto segreto (allo scopo di evitare il fenomeno dei cosiddetti "franchi tiratori", di coloro cioè che, approfittando della segretezza, votano in senso difforme dalla linea decisa del gruppo parlamentare di appartenenza); l'arricchimento dei poteri del Governo in Parlamento.
La riconduzione del ruolo della opposizione a quello, più tradizionale, di soggetto politico chiamato a contrastare e a condizionare l’operato della maggioranza, ma non a contrattare con essa il contenuto delle decisioni da assumere. L'approvazione del programma (relativo ad un periodo da due a tre mesi) e del calendario (di durata trisettimanale) spetta sempre alla conferenza dei capigruppo, non più all'unanimità, bensì col consenso dei presidenti dei gruppi, la cui consistenza sia complessivamente pari ad almeno tre quarti dei componenti della Camera. In caso di mancato raggiungimento della maggioranza richiesta, il programma il calendario sono predisposti dal Presidente dell'assemblea, sempre nel rispetto delle riserve di tempo disposte a favore dei gruppi di opposizione. La riforma regolamentare si occupa di rilevanti profili della decisione legislativa attinenti al miglioramento della qualità della legge (di cui è chiamato ad occuparsi un apposito comitato per la legislazione, a composizione paritaria tra rappresentanti della maggioranza e dell'opposizione). Nel febbraio 1999 anche il Senato ha proceduto a una riforma regolamentare che punta a risolvere in modo equilibrato il rapporto tra esigenze della maggioranza e esigenze delle opposizioni, cominciando a prefigurare uno statuto delle opposizioni.
I regolamenti parlamentari sono stati tradizionalmente ritenuti sottratti ogni forma di controllo esterno. La natura della "riserva di regolamento" disposta dall'articolo 64 della costituzione è da intendersi come esclusiva, non solo nel senso di escludere ogni altra fonte normativa dalla disciplina della materia, ma anche nel senso di escludere ogni altra forma di controllo diverso da quello che le stesse camere possono esercitare sui propri regolamenti.
L’organizzazione interna delle Camere: Presidente e Ufficio di presidenza
I primi compiti a cui sono chiamate le due camere sono l'elezione tra i propri membri del Presidente e dei componenti dell'ufficio di presidenza. L'elezione del Presidente avviene a voto segreto ed è richiesta, nei primi due scrutini, una maggioranza qualificata (due terzi dei componenti per la Camera e la maggioranza assoluta al Senato, passando poi per la maggioranza assoluta la Camera e la maggioranza semplice al Senato). Le principali funzioni del Presidente sono la programmazione dei lavori parlamentari e la definizione del relativo calendario, dirigere la discussione e garantire il rispetto del regolamento, assicurare il mantenimento dell'ordine all'interno della Camera, applicare le sanzioni previste dalle norme regolamentari nei confronti dei parlamentari che abbiano commesso infrazioni disciplinari. Il Presidente è coadiuvato dall'ufficio di presidenza, anch'esso eletto dall'assemblea tra i suoi membri, secondo regole che garantiscono la rappresentanza delle minoranze, e composto dai vicepresidenti, dai questori e dai segretari.
I gruppi parlamentari
I gruppi parlamentari rappresentano la proiezione dei partiti o movimenti politici all'interno delle camere. La soglia minima di rappresentanza affinché si possa dar vita un gruppo è 20 deputati e 10 Senatori. Tuttavia l'ufficio di presidenza può autorizzare la costituzione di gruppi più ristretti. L'adesione a un gruppo è obbligatoria e non facoltativa, tant'è che coloro che non manifestano nessuna scelta entrano a far parte di un unico gruppo misto. All'interno del gruppo vengono definite le linee di condotta da tenere nel corso delle discussioni che si tengono in Parlamento. Ha assunto negli ultimi tempi una consistenza particolarmente rilevante il fenomeno del passaggio di parlamentari da un gruppo a un altro. In certi casi si è trattato della conseguenza della nascita di nuovi gruppi, in altri si è trattato di scelte individuali di singoli parlamentari.
Le giunte
Le camere si articolano, al loro interno, in alcune strutture permanenti più ristrette, composte in proporzione alla consistenza dei diversi gruppi parlamentari: le giunte e le commissioni. Le giunte prendono nome in base alle funzioni che sono state loro deferite: la giunta per il regolamento (per proporre modifiche regolamentari), la giunta delle elezioni (controlla la regolarità delle operazioni elettorali) e l’inesistenza di cause di incompatibilità o di ineleggibilità a carico dei membri del Parlamento neo-eletti, la giunta per le autorizzazioni a procedere (esamina le richieste di sottoposizione a misura limitativa delle libertà personali dei membri del Parlamento) alla Camera; per il Senato troviamo la giunta per il regolamento, la giunta delle elezioni, delle immunità parlamentari.
Le commissioni parlamentari
Le commissioni parlamentari sono articolazioni interne stabili delle due camere. Oltre le commissioni permanenti, esistono commissioni temporanee, che vengono costituite per lo svolgimento di compiti specifici e durano in carica solo per il tempo necessario tra l'adempimento. Le commissioni permanenti hanno invece la stessa durata della Camera. Esistono le commissioni monoCamerali e le commissioni biCamerali, composta da un ugual numero di deputati e Senatori, che svolgono funzioni di vigilanza di indirizzo, di vigilanza e controllo e consultive. Il frequente ricorso alla istituzione di commissioni miste ha rappresentato uno dei tentativi volti ad ovviare alle disfunzioni insite nel nostro modello biCamerale. Anche per questo tipo di commissione vale la regola della proporzionalità: essa si applica calcolando globalmente il numero dei membri spettanti a ciascun gruppo parlamentare e poi suddividendo tale numero, in parti uguali, tra deputati e senatori dello stesso gruppo. Nella composizione delle commissioni biCamerali si prevede, a volte, la presenza di membri esterni al Parlamento; in questo caso esse non operano presso le Camere, ma presso il Governo.
I lavori delle commissioni biCamerali sono disciplinate dalle norme del regolamento della Camera presso la quale la commissione ha sede.
Gli apparati burocratici delle Camere
Alla burocrazia parlamentare sono stati attribuiti compiti sempre più rilevanti; la natura di questi compiti richiede non solo una notevole preparazione culturale, ma anche doti indispensabili di equilibrio e imparzialità. Organo di raccordo tra la componente politica e la componente burocratica della Camera è il segretario generale, il quale viene nominato dall'ufficio di presidenza, su proposta del Presidente, e dura in carica, di norma, fino al raggiungimento dell'età pensionabile. Camera e Senato si avvalgono di due apparati burocratici, completamente distinti l'uno dall'altro.
L’autonomia finanziaria e contabile delle Camere; l’immunità della sede; la giustizia domestica
Le due camere del Parlamento godono di un'autonomia finanziaria e contabile, nel senso che decidono autonomamente l'ammontare delle risorse necessarie allo svolgimento delle loro funzioni. Alla tradizione statutaria si ricollega anche la cosiddetta immunità della sede, che consiste nella riserva alle camere del potere di decidere chi ammettere e chi non ammettere all'interno degli edifici in cui si svolgono le attività parlamentari, il mantenimento dell’ordine all’interno di ciascuna camera è compito affidato ai rispettivi presidenti, i quali si avvalgono del personale delle Camere e anche di un reparto militare posto alle loro direttive dipendenze. Le controversie relative allo stato giuridico ed economico dei dipendenti delle camere sono sottratte al giudice comune e sono invece riservate a organi interni alle stesse. Si tratta della cosiddetta giustizia domestica (o autodichia).
Lo “status” di membro del Parlamento
Le garanzie che secondo l'articolo 68 della costituzione devono essere attribuite ai parlamentari sono il principio dell'insindacabilità dei voti dati e delle opinioni espresse dai parlamentari nell'esercizio delle loro funzioni, che tuttavia non copre la responsabilità politica del parlamentare nei confronti del proprio gruppo; nel nuovo testo dell'articolo 68 scompare il principio dell'improcedibilità contro il parlamentare, senza la previa autorizzazione a procedere.
L’art.68, nel testo originario, prevedeva, in secondo luogo, le guarentigie dell’improcedibilità e dell’inviolabilità dei membri del Parlamento,ossia la loro non sottoponibilità a procedimento penale, né all’arresto, né ad alcuna misura restrittiva della libertà personale, da parte della autorità giudiziaria, senza una previa autorizzazione a procedere della Camera di appartenenza. L’unica eccezione era rappresentata dall’ipotesi in cui il Parlamento fosse colto in fragranza  di reato, nell’atto stesso cioè di compromettere un fatto criminoso di particolare gravità per il quale la legge preveda come obbligatorio il mandato o l’ordine di cattura.
Nel nuovo testo dell’art. 68 rimane l’istituto dell’insindacabilità dei voti e delle opzioni espresse, ma scompare quello dell’improcedibilità contro il parlamentare, senza la previa autorizzazione a procedere. Quest’ultima resta obbligatoria solo per sottoporre il parlamentare ad una misura limitativa della libertà personale o domiciliare, nonché per la sottoposizione del parlamentare a limitazioni della libertà a segretezza di corrispondenza e comunicazione.
La stessa legge 140 conteneva alcune disposizioni volti ad introdurre per le cinque più alte cariche dello Stato una particolare guarentigia. Tali disposizioni sono state sottoposte al giudizio della Corte  Costituzionale, perché ritenute lesive del principio di uguaglianza, introducendo una guarentigia che non trova alcun espresso fondamento nelle norme costituzionali che disciplinano lo Status delle suddette alte cariche dello stato. La Corte ha dichiarato incostituzionali le disposizioni.
Il procedimento di concessione o diniego dell’autorizzazione a sottoporre un parlamentare a procedimento penale, ovvero a provvedimenti coercitivi della libertà personale o domiciliare, prevede l’esame della questione da parte dell’apposita giunta e quindi una decisione dell’assemblea. L'articolo 69 garantisce ai parlamentari un'indennità, il cui importo è stabilito da apposita legge; è assicurato un trattamento previdenziale, secondo le norme dettate da uno specifico regolamento interno.
I parlamentari sono tenuti a fornire all'ufficio di presidenza della Camera di appartenenza ogni informazione relativa alla loro situazione patrimoniale, compresa la denuncia dei redditi, nonché una dichiarazione circa le spese sostenute per la propria campagna elettorale. La perdita dello "status" di membro del Parlamento può avvenire o per decisione dell'assemblea o per dimissioni, che vengono inizialmente respinte dall'assemblea e successivamente accolte se riproposte.
I principi che guidano il funzionamento delle Camere
La durata in carica delle camere è oggi per entrambi i rami del Parlamento di cinque anni. Nel periodo di tempo necessario all'insediamento delle nuove camere, a quelle scadute vengono prorogati i propri poteri, ma non possono tuttavia eleggere il Presidente della Repubblica a partire dai tre mesi che precedono il loro scioglimento. L’unico limite esplicito o contenuto in Cost. ai poteri delle camere “prorogatio” è quello previsto dall’art. 85.3 Cost.,relativo al divieto di procedere all’elezione del Presidente della Repubblica, a partire dai 3 mesi che precedono il loro scioglimento. I poteri delle Camere “in prorogatio” non possono eccedere la ordinaria amministrazione. La difficoltà di definire con precisione l’area degli atti parlamentari rientranti nella nozione di “ ordinaria amministrazione” e l’esistenza di atti che difficilmente potrebbero ritenersi preclusi alla Camere in “prorogatio”. Anche le commissioni parlamentari permanenti rimangono attive per l'esercizio delle funzioni referenti consultive, ma non decisionali. La fine della legislatura provoca la decadenza di tutti i disegni di legge all'esame del Parlamento.
La “prorogatio” dei poteri delle vecchie camere non significa proroga della loro durata in carica, la quale è invece espressamente esclusa, salvo il caso di stato di guerra, ma sta a significare che al fine di assicurare la continuità dell’organo parlamentare, si potrà avere solo una proroga dei suoi poteri e solo per il periodo di tempo intercorrente tra l’ultima riunione delle vecchie Camere e la prima riunione della Camere neo-elette. Un periodo che non può essere superiore ai 60 giorni cui si aggiungono i 20 giorni (al massimo) che possono intercorrere tra le elezioni e la prima riunione delle nuove Camere.
L'avvio della legislatura si ha con lo svolgimento della prima riunione del Parlamento fissata dal Presidente della Repubblica entro venti giorni dall'elezione. Per la validità delle sedute, l'articolo 64.3 della costituzione fissa il numero legale nella metà più uno degli appartenenti all'organo, che si presume esistente salvo verifica. Per ciò che attiene al quorum per le deliberazioni Camera e Senato procedono al computo degli astenuti secondo criteri diversi; posto che se gli astenuti non vengono considerati votanti, si determina un abbassamento del quorum di maggioranza richiesto, il quale viceversa risulta più elevato nel caso opposto. La prima soluzione è quella accolta dal regolamento della Camera, mentre l’altra dal regolamento del Senato. La prima soluzione, che favorisce ovviamente la maggioranza, finisce per considerare no “presenti” gli astenuti, come se non partecipassero al voto. Le modalità attraverso le quali il voto si esprime possono essere diretti a tutelare l'anonimato del votante (voto segreto) ovvero a evidenziare di fronte agli elettori il collegamento tra votante e voto espresso (voto palese). L'unica ipotesi di obbligo di voto segreto è per la votazione su persone. Le sedute dell'assemblea devono essere di regola pubbliche.
LE FUNZIONI. La funzione legislativa: in generale
Con la Costituzione repubblicana, il Parlamento ha perso il monopolio del potere legislativo. Un sistema policentrico nel quale il potere legislativo viene ripartito tra diversi livelli di Governo secondo principi dettati dalla Costituzione.
In regime di Costituzione flessibile, la legge si poneva al vertice della scala gerarchica, senza incontrare limiti di sorta-ora, la legge è un elemento fondamentale del sistema normativo, ma incontra limiti sia di ordine procedimentale, che di ordine contenutistico. I primi impongono alla legge di rispettare le disposizioni costituzionali, mentre i secondi presentano un profilo negativo che esclude che la legge ordinaria possa derogare alle norme costituzionali, e uno positivo che obbliga la legge ordinaria a disciplinare certe materie secondo precise indicazioni contenute nella costituzione. La costituzione impone che le leggi che disciplinano particolari settori possono essere adottate solo mediante procedimenti aggravati, come le leggi rinforzate.
Qualora il Parlamento intenda procedere ad una amnistia (provvedimento legislativo di carattere generale con cui lo stato rinuncia all'applicazione della pena) o ad un indulto (provvedimento generale di clemenza con il quale lo stato condona la pena principale a persone già condannate) si richiede un l'altissimo consenso parlamentare (pari ai due terzi dei voti dei deputati e dei Senatori). Per le norme internazionali, la costituzione opera una distinzione tra quelle di tipo consuetudinario (per cui la costituzione stabilisce un meccanismo di adattamento automatico del diritto interno), cui alcuni assimilano i principi uniformemente seguiti dagli stati, e quelle, assai più numerose, pattizie (che per entrare in vigore necessitano di un apposito intervento del legislatore nazionale), nascenti cioè da un apposito accordo internazionale tra due o più stati.
Il procedimento legislativo
Le fasi attraverso le quali si svolge il procedimento che porta all'entrata in vigore di una legge sono:

  • la fase dell'iniziativa, che consiste nell'esercizio di poter sottoporre progetti di legge al Parlamento, e possono essere i disegni di legge del Governo, una proposta di legge del Parlamento, un'iniziativa legislativa da parte di 50.000 lettori, l'iniziativa legislativa dei consigli regionali, ciascun consiglio regionale “può fare proposte di legge alle Camere”. Tale potere si esercita mediante la deliberazione della proposta da parte dell’assemblea regionale e il suo inoltro ad una delle Camere da parte del Presidente della Giunta regionale. Le proposte regionali debbano essere messe all’ordine del giorno della commissione alla quale sono state trasmesse, entro un mese dalla trasmissione, e si è consentita l’audizione di un rappresentante del consiglio regionale interessato; non vale per le iniziative regionali la regola della non decadenza per termine della legislatura. Si iniziativa legislativa del consiglio nazionale dell'economia del lavoro, l’iniziativa legislativa spetta al consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, un organo dotato di poteri esecutivi, ma cui l’art. 99.3 attribuisce anche il compito di “contribuire alla elaborazione della legislazione economica e sociale secondo i principi e entro i limiti stabiliti dalla legge.

L'iniziativa legislativa dei comuni; art. 21.3 T.U. “l’iniziativa dei Comuni deve conseguire l’adesione della maggioranza dei Comuni dell’area interessata, che rappresentano, comunque, la maggioranza della popolazione complessiva dell’area stessa, con delibera assunta a maggioranza assoluta dei consiglieri assegnati.

  • la seconda fase si svolge all'interno del Parlamento e attiene all'esame, alla discussione e alla votazione della proposta di legge, in cui si può adottare una procedura normale (con l'esame della proposta di legge da parte della commissione permanente competente per materia, l'approvazione di un testo, la discussione dell'assemblea per un periodo complessivo di 4 mesi alla Camera e 2 mesi al Senato, che possono essere dimezzati nel caso di procedura normale abbreviata); la discussione in assemblea si svolge prima sui caratteri generali della proposta e quindi sui singoli articoli, nel testo votato dalla commissione, i quali possono essere emandati, soppressi o sostituiti. Votati i singoli articoli, si procede alla votazione finale sull’intero testo della proposta, così come definito attraverso la discussione e votazione dei singoli articoli.

I tempi che scandiscono la procedura normale possono essere abbreviati (si parla di procedura normale abbreviata), quando, su richiesta del proponente, del Governo o del Presidente di commissione, venga dichiarata l’urgenza della proposta de legge in esame. In questo caso i tempi si riducono a metà. Oppure una procedura speciale (che affida alla commissione competente il vero e proprio potere di approvazione, passando dall'assemblea solo per il voto sui singoli articoli). Quando la proposta di legge ha superato tutte le fasi presso una Camera, viene trasmessa all'altra, la quale procede al suo esame, discussione e approvazione secondo le procedure che essa stessa intenderà adottare. Se la seconda Camera approva la legge nello stesso testo approvato dalla prima, la legge è trasmessa al Presidente della Repubblica per la promulgazione. Se viceversa la seconda Camera apporta delle modifiche al testo, la proposta torna la prima Camera e questo passaggio (la cosiddetta navette) continua fino a quando entrambe le camere non approvano lo stesso testo;

  • la terza e ultima fase riguarda la promulgazione e la pubblicazione. La promulgazione deve avvenire entro trenta giorni dall'approvazione parlamentare e spetta al Presidente della Repubblica. Essa è atto di esercizio di un potere di controllo affidato al Capo dello Stato, tale controllo può avere esito positivo e la legge verrà sottoscritta dal Presidente della Repubblica, oppure esito negativo e tornerà per un riesame alle Camere, accompagnata da un messaggio presidenziale, de quale saranno esposte le ragioni che hanno spinto il Capo dello Stato a negare la promulgazione. Ove le Camere, operano il riesame, riapprovano la legge nel medesimo testo, il Presidente della Repubblica è obbligato a procedere alla promulgazione. Subito dopo la promulgazione la legge deve essere pubblicata. Il guardasigilli (facente parte del ministero della giustizia) pone il sigillo alla legge e provvede alla sua pubblicazione nella gazzetta ufficiale. La "vacatio legis", ovvero il periodo tra la pubblicazione e l'entrata in vigore della legge, è in genere di quindici giorni. Una vera e propria procedura speciale è stata introdotta per ciò che attiene ai disegni di legge di conversione dei decreti legge adottati dal Governo. Tale procedura è in parte divisa nei 2 rami del Parlamento. Mentre al Senato il controllo preliminare circa la sussistenza dei presupposti costituzionali della necessità e dell’urgenza è affidato alla commissione affari costituzionali, alla Camera esso è affidato alle commissioni in merito. Nel caso in cui il parere sulla sussistenza dei presupposti sia negativo, è l’assemblea a doversi esprimere in via definitiva su questo problema pregiudiziale; nel caso, invece, in cui il decreto superi questo ostacolo preliminare, esso procede il suo iter presso la commissione competente per materia, la quale procede con tempi ridotti (15giorni) rispetto a quelli ordinari, previsti dai regolamenti parlamentari per l’esame delle altre proposta di legge.

La legge come atto di indirizzo – controllo
La legge può rappresentare uno strumento di indirizzo-controllo del Parlamento nei confronti del Governo. Una prima ipotesi di questo tipo si verifica con la legge di approvazione del bilancio preventivo, un documento contabile nel quale vengono rappresentate le entrate e le uscite che, nell'anno finanziario successivo, lo Stato prevede rispettivamente di incassare e di spendere, sulla base della legislazione vigente. Viene predisposto dal ministro del Tesoro e approvato dal Consiglio dei Ministri e presentato alle camere per l'approvazione, che deve avvenire, con legge, entro il 31 dicembre di ogni anno. Questa materia è stato oggetto di importanti riforme, il cui scopo è stato quello di dare al bilancio dello Stato una maggiore flessibilità: gli atti essenziali attraverso i quali il Governo formula la manovra di bilancio e che sono sottoposte all'approvazione parlamentare sono il bilancio annuale (presentato entro il 30 giugno con la programmazione economico-finanziaria annuale), la redazione del bilancio preventivo annuale sia in termini di competenza che di cassa, con l’indicazione cioè dei flussi in entrata e in uscita che si ritiene si verifichino effettivamente e non solo di quelli rispetto ai quali sorgerà un titolo giuridico: per le entrate una parte le somme derivati da crediti che muteranno a favore dello Stato nel periodo considerato. Dall’altra le somme che verranno effettivamente incassate, nello stesso periodo, anche se il relativo titolo di credito è maturo in un periodo precedente. Per le uscite, verranno indicati non solo gli impieghi di spesa che si ritiene di assumere (competenza), ma anche le spese che si prevede di sostenere effettivamente, sulla base di impegni assunti anche in periodi precedenti a quello in cui il bilancio si riferisce (cassa). Il bilancio pluriennale (di durata non inferiore ai tre anni, nel quale si operano le previsioni, sia di entrate che di uscite, su un periodo più lungo) e la legge finanziaria (che consente di apportare alla legislazione di entrate e di spesa vigente quelle correzioni ritenute necessarie al perseguimento degli obiettivi di politica economica del Governo, che fissa inoltre il limite massimo dell'indebitamento pubblico), dato dall’ammontare dei debiti che lo Stato può assumere, indebitamento che è possibile data l’inesistenza per il bilancio dello Stato di un obbligo di pareggio. Infine, spetta alla legge finanziaria indicare i fondi speciali destinati alla copertura dei progetti di legge correlati al proseguimento degli obblighi contenuti nel documento di programmazione finanziaria.
Il ruolo del Parlamento investe anche il bilancio consuntivo che ogni anno il Governo è tenuto a presentare alle camere, anch'esso approvato con legge. È stata istituita un’apposita sessione di bilancio durante la quale le Camere non possono delibera e su altri disegni di legge, salvo quelli di conversione dei decreti legge, quelli legati alla manovra finanziaria del Governo e quelli urgenti legati all’indebitamento di obblighi internazionali o comunitari. Il Parlamento può esercitare il suo potere di emendamento. I presidenti delle commissioni competenti per materia e il presidente della commissione bilancio hanno il potere di dichiarare inammissibili gli emendamenti che attengono materie estranee all’oggetto proprio della legge finanziaria o bilancio,ovvero siano in contrasto con i criteri previsti dalla legislazione vigente per l’introduzione di nuove entrate o nuove spese. Tali emendamenti possono essere ripresentati in assemblea. La stessa natura di atto di indirizzo-controllo nei confronti del Governo si riscontra nella legge di autorizzazione alla ratifica (atto ufficiale che convalida a tutti gli effetti un trattato internazionale) dei trattati internazionali. L'ordine di esecuzione è un atto che ha un preciso contenuto normativo: esso consente che si verifichino sul piano dell'ordinamento giuridico interno tutte le modificazioni conseguenti al dispiegarsi degli effetti delle disposizioni contenute nel trattato. L’esigenza dell’approvazione di un apposito ordine di esecuzione si spiega con l’introduzione di tipo dualista diritto interno, diritto internazionale patrizio. Le due sfere giuridiche, concepite tra loro separate, possono entrare in contrasto e determinare l’una conseguenze giuridiche nei confronti dell’altra solo per il tramite di una apposita norma interna che consenta ciò.
Tale effetto può prodursi solo quando la norma internazionale sia redatta in modo sufficientemente puntuale e preciso da poter essere direttamente applicata dal giudice nazionale (quando cioè essa sia “self-executing”).
Procedimento di adattamento ordinario risulta obbligatorio quando il contenuto del trattato deve essere necessariamente articolato in più specifiche e puntuali prescrizioni normative. Come per l’ordine di esecuzione, anche le norme di adattamento ordinario assumeranno la forma richiesta dal tipo di modificazione o integrazione dell’ordinamento giuridico interno che con esse si intendono produrre.
La funzione di revisione costituzionale
La costituzione attribuisce Parlamento la funzione di revisione costituzionale, un procedimento la cui specialità attiene non solo il tipo di legge che ne rappresenta il risultato finale, ma anche le regole che ne scandiscono le varie fasi, le quali risultano molto diverse da quelle su cui si basa il procedimento che porta all'approvazione di una legge ordinaria. Il procedimento si compone di due fasi: una necessaria, che si svolge in sede parlamentare, e una eventuale, che vede il coinvolgimento del corpo elettorale.
Nel corso della prima fase, l'articolo 138 impone una doppia deliberazione da parte di ciascuna Camera a distanza non minore di tre mesi l'una dall'altra. Nella seconda deliberazione è richiesta la maggioranza assoluta. Qualora la maggioranza sia più elevata, il procedimento si arresta a questa prima fase e la legge costituzionale o di revisione costituzionale viene trasmessa al Presidente della Repubblica perché provveda alla sua promulgazione. Nell'ipotesi in cui, anche in un solo ramo del Parlamento, non venga raggiunta la maggioranza dei due terzi (ma solo quel assoluta), il testo legislativo può essere sottoposto a referendum. Alle specifiche regole direttamente previste dalla Cost., vanno aggiunte quelle contenute nei regolamenti parlamentari, le quali prevedono un esame incrociato della legge da parte delle due Camere e stabiliscono che le Camere procedano alla sola votazione finale, dopo la discussione delle linee generali della legge, senza quindi la possibilità di introdurre emendamenti. L'articolo 139 stabilisce che non può essere modificata, in alcuna maniera, la forma Repubblicana dello Stato, insieme ai cosiddetti "principi inviolabili".
La funzione di indirizzo e controllo sul Governo e sulla Pubblica Amministrazione
La funzione di indirizzo-controllo nei confronti dell'attività del Governo e, più in generale, della pubblica amministrazione che le camere hanno a disposizione ha il suo fondamento nell'elemento cardine della forma di Governo parlamentare e cioè nel rapporto di fiducia che lega Governo e Parlamento.

  • Mozione di fiducia. L'articolo 94 stabilisce che il Governo, una volta nominato dal Presidente della Repubblica, deve presentarsi in Parlamento per ottenere da ciascuna Camera la fiducia, la quale viene concessa mediante votazione per appello nominale. La motivazione della mozione di fiducia impegna il Governo a perseguire l'indirizzo politico che in essa trova espressione, ma impegna anche il Parlamento a contribuire alla sua realizzazione, attraverso l’esercizio dei suoi poteri decisionali, nonché dei poteri mediante i quali esso può richiamare il Governo al rispetto degli impegni programmati assunti in sede di voto di fiducia.
  • Interrogazioni, interpellanze. Le interrogazioni chiamano in causa il Governo per avere notizie circa un fatto determinato e circa la posizione che esso intende assumere al riguardo. L'interpellanza è diretta ad acquisire informazioni, più che su singoli fatti, sulle ragioni che hanno indotto il Governo ad assumere determinate posizioni in ordine a problemi di carattere generale o sull'atteggiamento che esso ha in animo di assumere. Le interrogazioni devono essere poste per iscritto e possono avere risposta scritta o orale; le interpellanze vengono presentate in forma scritta ma devono essere discusse in assemblea, proprio per la maggiore rilevanza che rivestono sotto il profilo politico.
  • Interrogazioni a risposta  immediata devono essere presente entro le 12 ore del giorno espressamente dedicato a questo tipo di interrogazione; non possono superare un certo numero; vengono ammesse quelle aventi oggetto diverso, applicando il principio di rotazione tra i gruppi; l’intera procedura non può superare i ristretti limiti temporali fissati nei regolamenti.la risposta del Governo è preceduta da una illustrazione dell’interpellanza da parte del presentatore, il quale, se si ritiene insoddisfatto della risposta, può presentare una mozione avente lo stesso oggetto e provocare così una discussione e un voto da parte dell’assemblea, il cui significato politico starà poi al Governo valutare.
  • Inchieste. Si tratta di indagini condotte da commissioni parlamentari appositamente costituite per raccogliere elementi conoscitivi su aspetti particolarmente allarmanti della vita sociale. Le commissioni sono di norma composte da rappresentanti di tutti i gruppi parlamentari in proporzione alla loro consistenza e sono presiedute da un esponente della minoranza che goda della stima e del rispetto dell'intero arco parlamentare.
  • Mozioni, risoluzioni e ordini del giorno. Si tratta di strumenti più direttamente espressivi della funzione di indirizzo del Parlamento nei confronti del Governo. La mozione rappresenta il mezzo mediante il quale provocare una discussione o un voto dell'assemblea sullo specifico problema; una volta approvata, la mozione vincola politicamente l'operato del Governo, il quale può porre sulla medesima la questione di fiducia. La risoluzione può essere presentata sia in assemblea che in commissione e contiene l'esposizione del problema oggetto di discussione e una direttiva di comportamento rivolta al Governo. L'ordine del giorno si lega strettamente al procedimento di approvazione di una legge o di una mozione; anche il singolo parlamentare può richiedere che venga messo in votazione l'ordine del giorno. Anche l’ordine del giorno vincola politicamente il Governo, il quale può essere chiamato a dar conto in commissione del rispetto o meno della dirtettiva nerll’ordine del giorno stesso.
  • Mozione di sfiducia. Con questa si pone fine al rapporto fiduciario tra il Governo e la sua maggioranza parlamentare e obbliga il Governo alle dimissioni; deve essere presentata da almeno un decimo dei membri della Camera e deve essere motivata e votata per appello nominale. Il Governo ha a sua volta disposizione uno strumento per costringere la maggioranza parlamentare sostenere le sue iniziative, ovvero la cosiddetta "questione di fiducia". Assai criticabile appare la tendenza, emersa di recente, di porre la questione di fiducia su leggi di delegazione io su leggi di conversione di decreti legge: almeno su questi atti, che determinano lo spostamento a favore del Governo di un potere normativo che, di regola, dovrebbe spettare al Parlamento, quest’ultimo dovrebbe essere libero di definire i limiti di questo spostamento, senza forzature si sorta.

Il Parlamento in seduta comune
Per l'esercizio di determinate funzioni, la costituzione prevede che le camere si riuniscano in seduta congiunta, dando così vita al cosiddetto "Parlamento in seduta comune" esse presieduto dal Presidente della Camera dei deputati e si riunisce perso la sede della Camera. Le funzioni che esercita sono: 1. l'elezione del Presidente della Repubblica, 2. l'elezione di cinque giudici della corte costituzionale, 3. l'elezione di 8 membri del consiglio superiore della magistratura, 4. la nomina dei giudici aggregati alla corte costituzionale in sede penale, 5. la messa in stato di accusa del Presidente della Repubblica.

  • La composizione dell’organo è integrata da 3 delegati per ogni regione, eletti dai rispettivi consigli regionali, in modo che sia assicurata la rappresentanza delle minoranze che siedono nell’assemblea regionale.

La votazione avviene a scrutinio segreto; la maggioranza richiesta è quella dei 2/3 dei componenti dell’organo, nei primi 3 scrutini, quella assoluta negli scrutini successivi. Appena eletto, il presidente giura fedeltà alla Repubblica dinanzi al Parlamento in seduta comune.

  • essi si vanno aggiungere ai 5 nominati dal Presidente della Repubblica ed ai 5 nominati dalle supreme magistrature. Maggioranze: 2/3 dei componenti l’organo nei primi 3 scrutini, la maggioranza dei 3/5 negli scrutini successivi.
  • essi si vanno ad aggiungere ai 16 membri, togati, espressi dal corpo dei giudici e ai 3 componenti del diritto. La maggioranza richiesta è 3/5 dei componenti l’organo, nei primi 3 scrutini, e 3/5 dei votanti negli scrutini successivi.
  • il Parlamento in seduta comune provvede alla formazione e aggiornamento di una lista di 45 nomi, tra cui vengono sorteggiati i 16 giudici non togati che si affiancano ai membri della Corte Costituzionale, in sede di giudizio sui reati di alto tradimento e attentato alla Costituzione da parte del Presidente della Repubblica. La lista viene approvata con un’unica votazione, per la quale sono richieste le stesse maggioranze previste per l’elezione dei giudici costituzionali ordinari.
  • deve essere preceduta da una istruttoria svolta da un apposito comitato, composto dai membri delle giunte per le autorizzazioni a procedere di Camera e Senato. Questa prima fase si può concludere con una dichiarazione di incompetenza, con l’archiviazione del caso, ovvero con la proposta di messa in stato di accusa. Quest’ultima deve essere accompagnata in assemblea (a Camere riunite) da una relazione che dia conto dei fatti addebitati al Presidente, delle indagini istruttorie svolte, delle ragioni che hanno portato a certe conclusioni. È richiesto il voto favorevole della maggioranza assoluta dei componenti dell’organo. Ove tale maggioranza sia raggiunta, il Presidente della Camera ha il compito di trasmettere gli atti alla Corte Costituzionale, insieme ai nomi dei commissari parlamentari incaricati di sostenere l’accusa presso la medesima.

I RAPPORTI CON LE ALTRE ISTITUZIONI. I rapporti tra Parlamento e istituzioni comunitarie
Le norme comunitarie devono intendersi come "direttamente applicabili" e gli ordinamenti degli stati membri, nel senso che esse non necessitano di alcun intervento "attuativo" dei legislatori nazionali. L'intervento "attuativo" del Parlamento rimane necessario con riferimento a norme comunitarie che non siano direttamente applicabili (come in genere avviene nel caso delle direttive, ma, a volte, anche dei regolamenti): in questo caso si tratta di un intervento obbligato e non discrezionale. La legge comunitaria è una legge a cadenza annuale, con la quale il Parlamento provvede non solo alle modifiche dell'ordinamento interno imposta dalla normativa comunitaria e che richiedono il ricorso allo strumento legislativo, ma anche a fissare il quadro normativo di riferimento per tutti i soggetti coinvolti nel processo di attuazione delle norme comunitarie, come il Governo e le regioni.
La legge 11/2005 valorizza il ruolo del Parlamento sul piano della partecipazione alla formazione del diritto comunitario e quello della sua attuazione interna. La legge si preoccupa di rafforzare ed estendere gli obblighi di informazione gravanti sul Governo. La legge rende assai più consistenti i poteri di indirizzo del Parlamento, prevedendo la possibilità di formulare osservazioni e indirizzi, nonché di chiedere al Governo di predisporre una nota tecnica che dia conto dei negozianti in corso in sede europea sulle varie questioni. Si prevede che, durante l’esame parlamentare degli atti comunitari, il Governo non possa procedere nella sua azione in sede di formazione di tali atti fino alla conclusione di tale esame. In casi di particolare rilievo politico, il Governo può porre, in sede di consiglio dei ministri dell’Unione, una riserva di esame parlamentare: se dopo 20 giorni il Parlamento non ha assunto alcuna deliberazione al riguardo, il Governo è libero di procedere. Analoga valorizzazione la legge prevede anche per il ruolo delle regioni.
L'esigenza di una più avvertita partecipazione dei parlamenti nazionali alla definizione delle politiche comunitarie ha prodotto lo sviluppo di una serie di contatti tra le assemblee elettive dei vari stati membri. Tra questi, di particolare rilievo quelli che si sono formalizzati nelle Assise dei Parlamenti europei (cui partecipano delegazioni dei vari organi parlamentari). Sempre a questo riguardo e poi da segnalare la nascita della COSAC (conferenza degli organi parlamentari specializzati in affari comunitari), quale organo di raccordo tra i parlamenti degli stati membri dell'Unione Europea e il Parlamento europeo.
Trattato costituzionale europeo assicura ai parlamentari un ruolo più significativo: il protocollo sull’applicazione di sussidiarità e proporzionalità e il protocollo sul ruolo dei parlamentari nazionali. Tali modifiche prevedono l’ingresso dei parlamentari nel circuito decisionale dell’Unione Europea, senza più la necessaria intermediazione dei Governi nazionali. Essi diventano destinatari diretti di una serie di atti e informazioni riguardanti decisioni da assumere a livello europeo, ma soprattutto si vedono riconosciuta la possibilità di far sentire la loro voce in merito alle proposte di intervento dell’Unione.
Si prevede l’introduzione di una procedura di allarme preventivo, che consente ai parlamentari di esprimere un parere motivato su tali proposte, con l’obbligo per la commissione europea di riesaminare le medesime.
I rapporti tra Parlamento e Corte costituzionale
La corte costituzionale ha il potere di dichiarare l'incostituzionalità di una legge, con la conseguenza di produrre così una lacuna nell'ordinamento. Colmare queste lacune è compito del Parlamento. L'articolo 136 della costituzione prevede che le pronuncia di incostituzionalità della corte vengano comunicate alle camere perché provvedano alle eventuali iniziative legislative. Le sentenze della corte vengono trasmesse all'esame della commissione competente per materia; una volta effettuato tale esame, la commissione esprime un parere in merito all'esigenza di procedere a determinate iniziative legislative e indica le linee che devono essere tenute presenti nell'impostazione di tali iniziative.
I rapporti tra Parlamento e Regioni
In relazione ai rapporti tra le regioni ed il Parlamento, l'unico istituto specifico previsto dalla costituzione per costruire tale rapporto è costituito dalla commissione biCamerale per le questioni regionali, che ha il compito di esprimere un parere in ordine allo scioglimento dei consigli regionali da parte degli organi statali. I cosiddetti voti delle regioni, diretti a richiedere determinati provvedimenti o sollevare specifiche esigenze, sono previsti da molti statuti regionali e trovano il loro fondamento dell'articolo 50 della costituzione.

CAPITOLO VII: Il Presidente della Repubblica. (pag. 193 – 212)

Il Presidente della Repubblica nella forma di Governo italiana
Per ridurre i rischi tipici del parlamentarismo è stato istituito l'organo del Presidente della Repubblica, come organo non meccanicamente rappresentativo della maggioranza parlamentare e, al tempo stesso, titolare di alcuni poteri particolarmente incisivi nei confronti sia del Parlamento che del Governo. Per quanto riguarda i rapporti con Parlamento e Governo, alcuni fra i poteri del Presidente della Repubblica accentuano la possibilità che esso svolga un ruolo rilevante: si pensi, ad esempio, alla nomina del Governo prima della fiducia parlamentare, al potere di scioglimento anticipato delle camere, alla possibilità di rinviare una legge al Parlamento manifestando i dubbi sorti in sede di promulgazione, al potere di messaggio alle camere, alla presidenza di due organi collegiali importanti come il consiglio superiore della magistratura e il consiglio supremo di difesa. La sua posizione complessiva resta quella del Presidente della Repubblica parlamentare, in quanto massimo garante del corretto e efficace svolgimento dei processi istituzionali posti in essere dai diversi organi e soggetti cui la costituzione affida funzioni di indirizzo politico o di garanzia.
Elezione e permanenza in carica del Presidente della Repubblica
Il Presidente della Repubblica è eletto dal Parlamento in seduta comune, solo a tal fine integrato da tre rappresentanti di ciascuna regione (salvo la Val d'Aosta che nomina uno solo), designati dai rispettivi consigli regionali in modo da garantire la rappresentanza delle minoranze. La durata in carica è pari a 7 anni, è eletto solo a scrutinio segreto e da maggioranze qualificate (nelle prime tre votazioni è richiesto il voto favorevole dei due terzi dei componenti dell'organo e successivamente la maggioranza assoluta). Il Presidente entra in carica dopo il "giuramento di fedeltà alla Repubblica e di osservanza della costituzione", che deve pronunciare dinanzi al Parlamento in seduta comune. Un Presidente può vedere prorogati i propri poteri oltre i 7 anni a causa delle ritardo che si verifichi nell'elezione del suo successore, malgrado il Parlamento integrato debba essere convocato da parte del Presidente della Camera trenta giorni prima della scadenza del mandato presidenziale. Il Presidente della Repubblica ha il divieto di procedere allo scioglimento anticipato delle camere nell'ultimo semestre del suo mandato, chiamato per questo motivo "semestre bianco". Tuttavia la legge costituzionale 1/1991 ha modificato il secondo comma dell'articolo 88 della costituzione, consentendo al Presidente della Repubblica di sciogliere le camere anche nell'ultimo semestre del suo mandato nella particolare ipotesi del cosiddetto "ingorgo costituzionale" e cioè quando le camere, in quello stesso periodo, esauriscano il loro mandato, con il rischio che situazioni di crisi, più probabili in questo contesto, non possano essere adeguatamente affrontate. Il mandato presidenziale può essere interrotto con le dimissioni volontarie dalla carica oppure da destituzione (possibile sanzione penale accessoria irrogabile dalla corte costituzionale). In questi casi le funzioni presidenziali vengono esercitate dal Presidente del Senato e spetta al Presidente della Camera convocare l'organo per l'elezione del nuovo Presidente della Repubblica. Spetta al Presidente della Camera, nella sua qualità di Presidente del Parlamento in seduta comune, convocare l’organo per l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica. Con l'espressione "impedimento permanente" ci si riferisce a un prolungato stato di grave malattia del Presidente, tale da rendergli impossibile l'esercizio delle sue funzioni.
Le garanzie di autonomia e le responsabilità del Presidente della Repubblica
La necessità che il Presidente della Repubblica eserciti le sue funzioni in piena autonomia è alla base di alcune caratteristiche del suo status personale, che mirano a garantirlo da alcuni possibili rischi di impropri condizionamenti da parte di altri poteri dello Stato.
L’art. 90 riguarda le ipotetiche responsabilità del Presidente concesse all’esercizio delle sue funzioni; al di fuori di quest’area, egli risponderà come un comune cittadino.
Cossiga: “l’immunità del Presidente della Repubblica riguarda solo gli atti che costituiscono l’esercizio della funzione presidenziale e le dichiarazioni strumentali o accessorie rispetto a tale esercizio. Dal pari egli risponderà di ogni comportamento o azione compiuti nel periodo precedente il mandato presidenziale. Si è incerti sul fatto che il Presidente possa essere sottoposto, durante il suo mandato, a giudizio penale, con la conseguente possibilità che possa essere limitato nelle sue libertà personali o addirittura sospeso dall'esercizio delle sue funzioni da parte dell'autorità giudiziaria ordinaria. È stato invece risolto il problema di stabilire se il Presidente debba adempie ai doveri di testimonianza presso le autorità giurisdizionali: l'articolo 205.1 del nuovo codice di procedura penale prevede esplicitamente questa ipotesi, con il solo privilegio che la testimonianza viene "assunta nella sede in cui egli esercita la funzione di capo dello Stato". Per i reati di "alto tradimento" o "attentato contro la costituzione dello Stato", la costituzione li ha individuati come reati propri solo del Presidente della Repubblica. I comportamenti sanzionabili sono gli atti dolosi mediante i quali un Presidente della Repubblica, con l'eventuale complicità di altri soggetti, abbia abusato dei suoi poteri o violati i suoi doveri. La costituzione prevede che la legge assicuri al Presidente un assegno personale (cioè un compenso di tipo periodico per l'attività svolta), nonché una dotazione (in denaro, in beni mobili e immobili), destinata agli apparati organizzativi della presidenza per il miglior espletamento delle funzioni presidenziali. Il Presidente della Repubblica eserciti le sue funzioni in piena autonomia rispetto agli altri poteri dello Stato comporta che esso possa disporre liberamente di un apparato organizzativo autonomo. Il segretario generale della presidenza della Repubblica è alle dipendenze esclusive del Presidente. Il segretario generale, che sovrintende a tutti gli uffici e servizi della presidenza, è nominato e revocato dal Presidente della Repubblica.
Le funzioni del Presidente della Repubblica e quelle proprie del Governo
Per quanto riguarda i rapporti tra il Presidente della Repubblica di Governo, egli non è più configurabile come capo del potere esecutivo: tuttavia rimane l'organo monocratico rappresentativo dell'unità dello Stato, cioè il soggetto cui si imputano formalmente ancora una numerosa serie di atti statali di particolare rilevanza, pur nella sostanza sicuramente di competenza del Governo. Per garantire sugli atti governativi dio maggior rilievo una sorta di particolare controllo preventivo a rutela delle prescrizioni e dei valori costituzionali. La legge 13\1991 ha previsto un’elencazione di atti, governativi, che mantengono la forma di D.P.R. tale elencazione comprende non solo le nomine delle massime cariche dello Stato e delle forze armate, ma anche lo scioglimento anticipato dei consigli di comuni e province, la decisione dei ricorsi straordinari al Presidente della Repubblica, l’annullamento degli atti amministrativi illegittimi, gli atti di indirizzo e coronamento delle attività regionali e soprattutto “gli atti per i quali è intervenuta la deliberazione del consiglio dei ministri”.
L'articolo 89 della costituzione stabilisce che "nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti, che ne assumono la responsabilità". Si distinguono, in genere, atti presidenziali corrispondenti alla lettera dell'articolo 89, caratterizzati da un sicuro potere governativo in materia e da un gol essenzialmente di controllo del Presidente (oltre a tutti i casi di atti governativi adottati nella forma del D.P.R., si possono fare rientrare in questa categoria i decreti di indizione delle elezioni e dei referendum, nonché tutti gli atti presidenziali in tema di relazioni internazionali); atti di esclusiva competenza presidenziale, in ordine ai quali l'intervento governativo non può che assumere un ruolo di mero controllo; infine atti in cui la funzione presidenziale appare preminente, ma in relazione ai quali il Governo o il Presidente del consiglio dispongono di un vero e proprio autonomo potere di valutazione, come il decreto di scioglimento anticipato delle camere e il decreto di nomina di un nuovo Presidente del Consiglio dei Ministri. L'ordinamento costituzionale offre alcuni strumenti di risoluzione, in sede giuridica, di possibili conflitti tra Presidente della Repubblica e Governo: innanzitutto, quello rappresentato dall'intervento del legislatore; in secondo luogo, il ricorso alla corte costituzionale per conflitto di attribuzione fra i poteri dello Stato.
I poteri del Presidente della Repubblica rispetto al corpo elettorale
Il riferimento al corpo elettorale, il Presidente dispone di poteri molto ridotti, da esercitare su proposta di organi governativi. In primo luogo, l'indizione della data delle elezioni e dei referendum, su tratta di un’attività in sostanza vincolata dalle disposizioni costituzionali e legislative. Contemporaneamente l'indizione delle elezioni delle camere, il Presidente della Repubblica fissa la data della loro prima riunione, che non deve svolgersi oltre il ventesimo giorno dalle elezioni.
I poteri del Presidente della Repubblica rispetto al Parlamento
Ben più rilevanti sono i poteri di cui il Presidente dispone nei confronti del Parlamento. La nomina a Senatori a vita di "cinque cittadini che hanno illustrato la patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario". Il messaggio formale al Parlamento rappresenta il più solenne e libero potere di stimolo del Presidente della Repubblica nei confronti dell'organo rappresentativo del corpo elettorale e titolare dei supremi poteri normativi e di indirizzo politico. Del tutto diverso è il messaggio motivato con il quale il Presidente rinvia al Parlamento una legge che ha esaminato in sede di promulgazione, richiedendo un suo riesame per presunti motivi di illegittimità costituzionale o di gravi inopportunità in relazione a principi o a valori costituzionali. Il messaggio rappresenta l’espressione di un eccezionale potere di temporaneo arresto della volontà legislativa del Parlamento, relativamente ad un oggetto su cui esso si è appena pronunciato.
La promulgazione rappresenta un importante forma di controllo preventivo che deve essere svolta dal Presidente della Repubblica entro un mese dall'approvazione parlamentare o nel termine minore fissato per motivi di urgenza dalle camere, a maggioranza assoluta. La prescrizione dell'articolo 74.2 secondo cui "se le camere riapprovano nuovamente la legge, questa dev'essere promulgata" tende a ristabilire il principio fondamentale dell'esclusiva titolarità del potere legislativo da parte delle camere. Un vero e proprio rifiuto di promulgazione costituirebbe un illecito costituzionale assai grave, tant'è che lo stesso Parlamento potrebbe mettere in stato di accusa il Presidente. Il potere del Presidente della Repubblica di convocare in via straordinaria ciascuna Camera può essere disposta anche su iniziativa del Presidente di ciascun ramo del Parlamento o di un terzo dei suoi membri. Fondamentale tra i poteri presidenziali è quello di sciogliere anticipatamente le camere per consentire il superamento di un dannoso ed altrimenti insuperabile stato di disfunzionalità politica o istituzionale. Il potere può essere esercitato solo dopo aver sentito il parere dei Presidenti delle Camere, i quali possono autorevolmente rappresentare al Presidente della Repubblica le opinioni prevalenti nelle rispettive assemblee e all’interno dei gruppi parlamentari che vi operano. Un ruolo sostanziale e non meramente di controllo è svolto dal Governo, organo espressivo della maggioranza politica presente in Parlamento e dunque sicuramente idoneo ad attestare l’effettiva insuperabile difficoltà di funzionamento degli organi rappresentativi, indipendentemente dalla stessa permanenza in carica del Governo.
I poteri del Presidente della Repubblica rispetto al Governo
Per quanto riguarda i poteri che il capo dello Stato esercita nei confronti del governo, è da considerare innanzitutto il potere del presidente di risolvere le crisi di governo nominando "il presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di questo, i ministri", formando anche il nuovo governo, in sostituzione di quello dimissionario o decaduto. Il potere presidenziale di formare il nuovo Governo, in sostituzione di quello decaduto, appare tanto più delicato in quanto, nel nostro sistema costituzionale, non solo non esistono particolari vincoli per la composizione del Governo, ma si prevede che esso assuma le sue funzioni con il giuramento, prima quindi dello stesso conferimento della fiducia parlamentare (il nuovo Governo deve presentarsi entro 10 giorni dalla sua formazione alle Camere per chiedere la fiducia).
L’esercizio dei poteri presidenziali ha introdotto lo sviluppo degli istituti delle consultazioni, degli incarichi a formare il Governo, dei mandati esplorativi. Le consultazioni che il presidente della Repubblica svolge, al fine di acquisire le opinioni dei presidenti dei gruppi parlamentari, dei segretari dei corrispondenti partiti, nonché quella dei presidenti di camera e senato e degli ex presidenti della Repubblica, mirano a orientare la scelta del presidente della Repubblica nell'ambito delle ipotesi che possono realisticamente consentire al nuovo governo di conseguire la fiducia parlamentare. Gli istituti dell'incarico o del pre-incarico a formare il governo, affidato dal presidente a un esponente politico che egli reputa idoneo ad assumere l'incarico del presidente del consiglio, operazione che ha termine o con l'accettazione a formare il governo e quindi con la nomina, o con la rinuncia, o con la stessa revoca dell'incarico da parte del presidente della Repubblica. Il mandato esplorativo rappresenta un istituto cui il presidente della Repubblica ricorre ove reputi opportuno far svolgere da parte di un'alta carica dello Stato (in genere il presidente di una camera) un'ulteriore indagine sui gruppi parlamentari (oltre le consultazioni), al fine di acquisire informazioni sulle possibili vie di superamento della crisi.
Art. 1.2 legge 400/1988 controfirma da parte del nuovo Presidente del consiglio sia dell’accettazione delle dismissioni del precedente Governo, che del decreto di nomina del nuovo: appare evidente che la ragione di tutto ciò è da individuare nella necessità di mantenere una continuità fra i diversi Governi e nell’inopportunità di affidare la controfirma di atti di tale rilievo al Presidente del consiglio dimissionario.
Fra i poteri presidenziali è da annoverare anche il potere di autorizzare la presentazione dei disegni di legge governativi alle camere. Art. 76-77 Cost. il Presidente può opporre agli atti normativi del Governo rilievi di legittimità costituzionale ed anche di grave inopportunità, in relazione al rispetto dei principi o valori costituzionali e le uniche incertezze sono relative alle modalità mediante le quali il Presidente può far valere il suo dissenso. Il Presidente della Repubblica, in alcuni casi, rinvia al Governo i testi; in almeno qualche occasione, risulta che i testi vengano parzialmente modificate ad opera della presidenza del consiglio e successivamente emanati dal Presidente della Repubblica. Analoga soluzione è da adottarsi ai poteri presidenziali relativi a tutti quegli atti amministrativi del Governo che vanno adottati nella forma do D.P.R.
Ai poteri presidenziali si aggiungono quelli del cosiddetto potere estero e quello della politica militare (con il ruolo formale di comandante delle forze armate). Infine il presidente ha il potere della concessione della grazia o del provvedimento di commutazione della pena, che sembrano essere sostanzialmente governativi. È riconosciuto al Presidente un pieno potere di conoscenza della politica estera del Governo ed anche di impulso rispetto all’attuazione dei valori costituzionali relativi all’instaurazione di relazioni pacifiche con gli altri Stati. in materia di politica militare, il comando da parte del Presidente della Repubblica delle forze armate, viene integrato dall’affidamento al capo dello Stato della presidenza del consiglio supremo di difesa, come un singolare organo collegiale, presieduto dal Presidente della Repubblica e formato dal Presidente del consiglio, che svolge le funzioni di vice-presidente, da 5 ministri (esteri, interno, tesoro, difesa, industria), nonché dal Capo dello Stato maggiore di difesa, con il compito di esaminare “ i problemi generali politici e tecnici attinenti alla difesa nazionale e determinare i criteri e fissare le direttive per l’organizzazione e il coordinamento delle attività che comunque la riguardano”.
Era il Presidente della Repubblica e non il Governo l’organo destinatario della speciale delega legislativa in tema di amnistia e di indulto. Il Parlamento determinava il contenuto di quello che sarebbe poi stato il decreto presidenziale, per di più da intendersi come atto dovuto e da adottarsi immediatamente. La stessa concessione della grazia o del provvedimento di commutazione della pena è sembrato un potere nella sostanza governativo.
Solo dopo l’introduzione di una legislazione 200/2006 la Corte Costituzionale ha deciso che il potere di grazia rientra nella titolarità dei poteri propri del Presidente della Repubblica e che quindi la necessaria proposta ministeriale deve essere predisposta dal ministro di giustizia, salva la possibilità di quest’ultimo di rendere noto il proprio dissenso.
I poteri del Presidente della Repubblica rispetto alla magistratura
Il presidente della Repubblica è anche, per l'articolo 104.2 della costruzione, presidente del consiglio superiore della magistratura, e dispone di ulteriori poteri relativi a questa sede. Tutti i provvedimenti riguardanti i magistrati sono adottati, in conformità delle deliberazioni del consiglio superiore, con decreto del presidente della Repubblica controfirmato dal ministro.
Gli atti che il Presidente della Repubblica compie, in quanto Presidente del C.S.M, per permettere il regolare funzionamento: sembra prevalere la tesi che non possa ipotizzarsi una controfirma di questi atti presidenziali, dal momento che egli agirebbe in veste di Presidente del C.S.M e non come Presidente della Repubblica; tesi sicuramente rafforzata dal fatto che, in caso di assenza del Presidente, essi possono essere posti in essere dal vice-presidente del C.S.M. Il comportamento del Presidente della Repubblica è suscettibile di essere sottoposto a critica.
I poteri del Presidente della Repubblica rispetto alla Corte Costituzionale
In riferimento al potere di nomina da parte del presidente della Repubblica di cinque giudici costituzionali, si è fin dall'inizio affermata la tesi che si tratti di una libera designazione da parte del presidente, pur soggetta alla controfirma del presidente del consiglio.

CAPITOLO VIII: Il Governo della Repubblica. (pag. 213 – 250)

Importanza del ruolo e delle funzioni del Governo nel sistema costituzionale italiano
Il governo ha un ruolo assolutamente insostituibile e del tutto centrale del sistema politico.
Il Governo, “comitato esecutivo” del Parlamento, tende a porsi come suo “comitato direttivo”: sia per la presenza dei più autorevoli esponenti della maggioranza parlamentare, sia perché la fiducia parlamentare al Governo avviene attraverso l’approvazione della sua piattaforma politico-programmatica. La definizione del Governo quale organo di “vertice del potere esecutivo, da una parte è eccessivo, poiché il nostro sistema istituzionale prevede anche la presenza di enti dotati di autonomia amministrativa, ma, dall’altra, è riduttivo, poiché il nostri Governo appare non solo organo di vertice degli apparati amministrativi dello Stato centrale, ma anche l’organo preposto alle funzioni di Governo di una serie di interessi dell’intera collettività nazionale.
Nell'articolo 92 della costituzione, l'espressione "governo della Repubblica" è atta ad evidenziare il fatto che esso è chiamato a svolgere le sue funzioni, riferite, oltre che all'amministrazione, alla legislazione dello Stato centrale e allo sviluppo delle relazioni con gli altri stati e con le organizzazioni sovranazionali, anche alla tutela del buon funzionamento di tutte le istituzioni pubbliche (pur dotate di un grado di autonomia più o meno accentuato) e alla garanzia del corretto sviluppo delle relazioni fra i diversi gruppi sociali. Il ruolo del Governo tende a rafforzarsi con le trasformazioni dello Stato in Stato interventista e sociale. Le funzioni dello Stato sono cresciute; ciò ha portato all’adozione di complesse politiche d’intervento e di fornitura dei servizi pubblici, con il parallelo accrescimento e differenziazione dei relativi apparati. A ciò ha corrisposto un impegno finanziario che è andato anch’esso dilatandosi per far fronte al finanziamento dell’esercizio di funzioni in settori del tutto diversi rispetto a quelli che avevano visto l’impegno dello Stato liberale. Il mutamento delle funzioni pubbliche ha portato ad un aumento di tutti qui settori dove è preminente la responsabilità del Governo. La crescente interdipendenza fra gli Stati sul piano internazionale e la crescita degli organismi sopranazionali accentua il peso del “potere estero”, in larga misura riservato al Governo. Si assiste alla produzione di norme internazionali che sono destinate ad entrare nell’ordinamento interno mediante il recepimento ad opera del Parlamento o del Governo, se non in modo automatico, come alcune fonti comunitarie.
La formazione e l’entrata in funzione del Governo
La formazione del governo si realizza con l'adozione dei decreti presidenziali di nomina del presidente del Consiglio dei Ministri e dei ministri, controfirmati dal nuovo presidente del consiglio, al termine della fase delle consultazioni, ma l'articolo 93 della costituzione subordina esplicitamente l'assunzione delle funzioni governative al giuramento dei componenti del governo "nelle mani del presidente della Repubblica".
La diretta partecipazione dei ministri al giuramento costituisce la verifica dell'accettazione della loro carica. Il governo, prima della fiducia, è tenuto ad adottare atti di grande rilevanza politica e istituzionale (approvazione del programma del governo, attribuzione degli incarichi ai ministri senza portafoglio, nomina dei sottosegretari ed eventualmente del vice-presidente del consiglio). Poiché i governi dimissionari o sfiduciati continuano a esercitare le funzioni governative con il solo limite del disbrigo di affari correnti, nel momento in cui il nuovo governo sta apprestandosi a chiedere la fiducia alle camere dovrebbe disporre quantomeno degli stessi poteri. Nella prima fase di vita del governo si collocano la nomina da parte del consiglio dei ministri dei sottosegretari, che non fanno parte del governo ma sono i più stretti collaboratori del presidente del consiglio e dei ministri, e l'eventuale nomina, su proposta del presidente del consiglio, di uno o più vice-presidenti del consiglio.
(il Governo della Repubblica è composto del Presidente del consiglio e dei ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei ministri). Entro 10 giorni dalla sua formazione il Governo deve presentarsi alle Camere per il dibattito sulla fiducia.
La permanenza in carica del Governo e dei singoli Ministri
Il conferimento della fiducia parlamentare, mediante la solenne approvazione da parte di ciascuna camera, a voti palesi, delle apposite mozioni motivate di fiducia alla piattaforma politica e programmatica del governo, permette la permanenza in carica del governo per tutta la durata della legislatura. Salva la sola ipotesi di revoca della fiducia, mediante l’adozione di una mozione di sfiducia da parte di una Camera (le prescrizioni debbono essere sottoscritte da almeno 1/10 dei componenti della Camera e non possono essere messi in discussione prima di 3 giorni dalla loro presentazione in modo da garantire che tale istituto venga utilizzato solo nei casi in cui il comportamento del Governo risulta in grave contrasto con gli indizi contenuti nel suo programma. 
Secondo l'articolo 94.4 della costituzione "il voto contrario di una o di entrambe le camere su una proposta del governo non importa l'obbligo di dimissioni". Le norme regolamentari delle camere hanno disciplinato la "questione di fiducia" e cioè l'istituto mediante il quale governo dichiara di far dipendere la propria permanenza in carica dall'approvazione parlamentare in un determinato oggetto all'esame delle camere. Allorché il Governo “pone la fiducia”, si procede al voto per appello nominale direttamente sul testo ritenuto essenziale dal Governo e in tal modo la maggioranza parlamentare viene richiamata a confermare la fiducia e viene ridotta la possibilità di attivare tecniche ostruzionistiche.
Crisi extraparlamentare estranierebbero il Parlamento dal decisivo potere di giudizio sulla permanenza del rapporto fiduciario nei riguardi del Governo e anche alcune opinioni dottrinali relative ad una pretesa illegittimità costituzionale di una simile prassi.
Il presidente della Repubblica invita i governi dimissionari a presentarsi alle camere per verificare la sussistenza del rapporto fiduciario o almeno per fornire un'informazione esaustiva delle ragioni politiche della crisi. Alle crisi determinate dalle deliberazioni del Consiglio dei Ministri, si aggiungono quelle determinate dalle dimissioni (o per la morte) del presidente del consiglio. I poteri dei governi dimissionari vengono prolungati in attesa della nomina del nuovo governo e vengono limitati al solo "disbrigo degli affari correnti".
Unico sicuro limite giuridico dell’attività del Governo dimissionario sembra essere l’impossibilità di richiedere la registrazione con riserva di un decreto governativo alla Corte dei Conti, mentre occorre far riferimento ai criteri di opportunità o di improrogabile necessità per valutare l’ammissibilità delle attività di un Governo dimissionario.
In questa valutazione dovrà tenersi conto anche della diversità di posizione giuridica intercorrente fra un Governo privo della fiducia e uno spontaneamente dimissionario e che quindi gode pur sempre della fiducia parlamentare. Le dimissioni di un ministro non provocano crisi del governo e obbligano semplicemente a colmare il vuoto attraverso la nomina di un nuovo ministro o l'attribuzione dell'interim (incarico provvisorio in attesa del nuovo titolare) a uno dei ministri già in carica. A ciò si procede con decreto presidenziale, su proposta del presidente del consiglio. Nel medesimo modo si opera anche per i cosiddetti rimpasti, consistenti nel mutamento di più incarichi ministeriali all'interno del governo in carica. Per quanto riguarda gli effetti di un voto di sfiducia individuale, la corte costituzionale ha previsto le dimissioni del ministro che ne sia fatto oggetto.
La corte ha ritenuto la sfiducia individuale istituto connaturato alla forma di Governo parlamentare voluta dai costituenti: esso rappresenta lo strumento attraverso il quale si fa salvo il rapporto fiduciario tra Parlamento e Governo. Nell’ipotesi in cui sia messo a repentaglio dal comportamento di un solo ministro.
Le prassi e le norme dei regolamenti parlamentari al riguardo vanno considerate, secondo la corte, alla stregua di “fonti integrative alla Costituzione”.
La costituzione non prevede particolari requisiti soggettivi per poter essere nominati membri del governo, né prescrive che essi debbano essere parlamentari; in via di interpretazione sistematica, può ritenersi che sia indispensabile la cittadinanza, la capacità di agire e la condizione di alfabetismo.
Non sembrano esistere specifici casi di decadenza dalla carica di Presidente del consiglio o di ministro collegati ai loro status personali: la Cost. non prevede particolari requisiti soggettivi per poter essere nominati membri del Governo, né prescrive che essi debbano essere parlamentari. Trattandosi però di una carica ad un tempo politica e amministrativa, è indispensabile la cittadinanza, la capacità di agire e la condizione di alfabetismo. La soluzione del conflitto d’interesse, emersa con l’assunzione nel 1994 da parte dell’imprenditore Berlusconi della carica di Presidente del consiglio, ha prodotto la legge 215/2004. tale legge è intitolata “norme in materia di risoluzione dei conflitti d’interesse” sul dovere dei titolari di “cariche di Governo” di dedicarsi “esclusivamente alla cura degli interessi pubblici” e di astenersi “dal porre in essere atti e dal partecipare a deliberazioni collegiali in situazioni di conflitto d’interesse”. A vigilare su ciò è l’autorità garante della concorrenza e del mercato, che può imporre il venir meno delle posizioni professionali o di lavoro incompatibili con le “cariche di Governo”. Anche situazioni di conflitto d’interesse nell’atto o nell’omissione di un titolare di cariche di Governo abbia “un’incidenza specifica e preferenziale sul patrimonio del titolare, del coniuge o dei parenti entro il secondo grado, ovvero delle imprese o delle società da essi controllate”. Sono chiamate a vigilare l’autorità garante della concorrenza e del mercato o, nello specifico, l’autorità per le garanzie nelle comunicazioni. Queste autorità indipendenti diffidano “l’impresa ad astenersi da qualsiasi comportamento diretto ad avvalersi dall’atto medesimo” e, in caso di inottemperanza alla diffida, infliggono all’impresa una sanzione pecuniaria.
Il Presidente del Consiglio
Il presidente del consiglio è indicato dall'articolo 95.1 della costituzione come l'organo che "dirige la politica generale del governo e ne è responsabile e mantiene l'unità dell'indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l'attività dei ministri". Non sussiste un rapporto gerarchico fra presidente del consiglio e singoli ministri, ma il presidente del consiglio può concretamente esercitare il suo primato politico sugli altri membri del governo. Spetta al presidente il potere di manifestare autonomamente verso l'esterno gli indirizzi politici generali del governo, approvare e autorizzare la diffusione del comunicato sui lavori del consiglio dei ministri, esporre alle camere il programma del governo, porre la questione di fiducia, assumere le decisioni proprie del governo nei procedimenti legislativi, controfirmare le leggi e gli atti con forza di legge, mantenere i contatti con il presidente della Repubblica. Dispone dell'importantissimo potere di fissazione della data delle riunioni del consiglio e di determinazione del relativo ordine del giorno, seppure sulla base delle proposte dei ministri. Presiede e dirige il consiglio di gabinetto, può istituire speciali comitati di ministri con funzioni istruttorie, presiede le conferenze permanenti per i rapporti fra lo Stato e il sistema delle autonomie territoriali (legge 400/1988: il potere di rivolgere ai ministri non solo le direttive politiche ed amministrative ma anche “quelle connesse alla propria responsabilità di direzione della politica generale del Governo”, “quello di sospendere l’adozione di atti da parte dei ministri, sottoponendoli al consiglio dei ministri nella successiva riunione”, quello di riferire al consiglio dei ministri “la decisione di questioni sulle quali siano emerse valutazioni contrastanti tra amministrazioni a diverso titolo competenti”, nonché quello di concordare con i ministri la dichiarazioni di rilevanza politica generale), può promuovere verifiche sul funzionamento di uffici pubblici e devono essergli comunicati, prima della loro adozione, tutti i regolamenti ministeriali ed interministeriali.
La legge 801/1977 ha affidato al presidente del consiglio "l'altra direzione, la responsabilità politica generale e il coordinamento della politica informativa e di sicurezza" svolta dai cosiddetti servizi segreti.
Non soltanto attribuendogli il compito di presiedere il comitato interministeriale per le informazioni e la sicurezza, ma istituendo alle sue dirette dipendenze il comitato esecutivo per i servizi di informazione e sicurezza; è il Presidente del consiglio che “impartisce le direttive ed emana ogni disposizione necessaria per l’organizzazione ed il funzionamento delle attività.
La legge 400/1998 e il D.leg. 303/1999 hanno configurato le strutture organizzative della presidenza del consiglio ed hanno loro attribuito rilevanti poteri di conoscenza e di stimolo sull’intera amministrazione statale, per sostenere concretamente l’esercizio delle funzioni del Presidente del consiglio. Il regolamento interno del consiglio dei ministri stabilisce che “nessuna questione e nessuna proposta concernente disegni di legge, atti normativi o provvedimenti amministrativi generali può essere inserita nell’ordine del giorno de consiglio dei ministri”, se non è previamente valutata da un apposito organo formato dagli esperti legislativi dei diversi ministri e diretto ai vertici organizzativi della presidenza del consiglio.
Con il D.leg. 303/1999 si è attribuito al Presidente del consiglio un potere regolamentare vasto, anche in deroga alla legislazione vigente, su 2 versanti come l’ordinamento interno della presidenza e la disciplina dell’autonomia finanziaria e contabile della presidenza stessa.
Il Consiglio dei Ministri
Il Consiglio dei Ministri, organo collegiale composto da tutti i ministri e presieduto dal presidente del consiglio, è titolare delle fondamentali funzioni governative, come l'iniziativa legislativa, la predisposizione dei bilanci, l'adozione dei decreti legislativi, dei decreti legge, dei regolamenti governativi e l'esercizio del controllo sulle leggi regionali. In relazione ai settori in cui opera, i suoi compiti possono essere suddivisi nel modo seguente:

  • in tema di indirizzo politico, può dare direttive ai comitati interministeriali su richiesta del presidente del consiglio;
  • in tema di attività normativa, delibera i disegni di legge e adotta i decreti legislativi e i decreti legge;
  • in tema di politica internazionale e comunitaria, determina le linee di indirizzo e delibera "i progetti dei trattati degli accordi internazionali di natura politica o militare";
  • in tema di agenzie, enti, istituti e aziende di carattere nazionale, salvi gli enti pubblici creditizi, delibera la nomina dei rispettivi presidenti;
  • in relazione alle regioni, esercita le funzioni di controllo sulla legislazione regionale;
  • in relazione alle confessioni religiose, delibera gli atti concernenti i rapporti con la Chiesa cattolica;
  • in relazione alla tutela dei principi di costituzionalità, procede all'annullamento straordinario, a tutela dell'unità dell'ordinamento, degli atti amministrativi illegittimi.
  • In relazione ai rapporti con gli organi ausiliari del Governo, può deliberare che il ministro possa disattendere il parere del consiglio di Stato e può chiedere la registrazione di un decreto a cui la corte dei conti l’abbia negata. È il consiglio dei ministri che delibera, su proposta del Presidente del consiglio, la nomina di uno o più vice-presidenti del consiglio e dei commissari straordinari del Governo, mentre deve essere sentito per la delega di funzioni ai ministri senza portafoglio, la nomina dei sottosegretari e l’attribuzione di specifici incarichi ad un ministro.

I Ministri
I Ministri sono contemporaneamente componenti del Consiglio dei Ministri e organi di vertice degli apparati amministrativi in cui la legge ripartisce organicamente la pubblica amministrazione statale, denominandoli Ministeri (o Dicasteri).
Il numero dei ministri potrebbe essere anche inferiore a quello dei ministeri, dal momento che un ministro può essere preposto a più ministeri. Accanto a questi ministri, vi sono anche i cosiddetti ministri senza portafoglio, e cioè i ministri non preposti a ministeri. La nomina dei ministri senza portafoglio è facoltativa e svolgono le funzioni loro delegate dal presidente del Consiglio dei Ministri.
I ministri senza portafoglio sono preposti a strutture amministrative della presidenza del consiglio e dispongono di uffici di diretta collaborazione: spetta a loro, insieme al Presidente del consiglio, il potere di incidere sull’organizzazione di queste strutture.
I cosiddetti vice-ministri sono degli speciali sottosegretari. Per quanto riguarda il vice-presidente del consiglio, il presidente del consiglio può proporre al Consiglio dei Ministri la nomina di uno o più vicepresidenti, che hanno lo scopo di essere chiamati a supplire il presidente del consiglio in caso di assenza od impedimento temporaneo.
Qualche differenziazione di funzioni può derivare dall’esercizio da parte del Presidente del consiglio del potere di conferire ad un ministro incarichi speciali di Governo, per un tempo determinato: peraltro, dovrebbe trattarsi di incarichi soltanto di tipo politico o riconducibili alle funzioni presidenziali, dal momento che non sembra possibile sottrarre, attraverso questo istituto, ad un altro ministro funzioni che gli sono propri.
Il Consiglio di Gabinetto ed i Comitati fra i Ministri
Dal 1983 si è sperimentata la creazione informale del consiglio del gabinetto ad opera di alcuni dei presidenti del consiglio. Elemento caratterizzante è stata la flessibilità con cui si è proceduto a formare quest’organo, la sua funzione era solo quella di coadiuvare il presidente nella fase istruttoria delle questioni da sottoporre poi alle decisioni del consiglio dei ministri.
Con l'articolo 6 della legge 400/1988 si è previsto che il presidente del consiglio possa istituire, con ministri da lui designati, il consiglio di gabinetto per farsi coadiuvare nello svolgimento delle sue funzioni di direzione della politica generale del governo e di mantenimento dell'unità dell'indirizzo politico ed amministrativo. Per l'esercizio di vere e proprie puntuali funzioni istruttorie o di stimolo nei riguardi del governo, il presidente del consiglio può disporre, con proprio decreto, l'istituzione di particolari comitati di ministri, con il compito di esaminare in via preliminare questioni di comune competenza, di esprimere parere su direttive dell'attività del governo e sui problemi di rilevante importanza da sottoporre al Consiglio dei Ministri, eventualmente avvalendosi anche di esperti non appartenenti alla pubblica amministrazione. I comitati interministeriali sono organi creati perlopiù tramite apposite leggi, che attribuiscono loro rilevanti funzioni di governo in specifici ma importanti settori. In genere sono presieduti dal presidente del consiglio e sono composti dai ministri competenti nel settore, cui si aggiungono, in alcuni casi, funzionari ed esperti, e svolgono non solo attività di indirizzo, ma anche di tipo normativo o di tipo provvedimentale. Già nel periodo della ricostruzione postbellica, il sorgere di un significativo numero di comitati tra loro non coordinati aveva suscitato molte critiche per il conseguente frantumarsi dell’indirizzo politico. La legge 400/1988 ha stabilito che “i comitati dei ministri e quelli interministeriali istituiti per legge debbono tempestivamente comunicare al Presidente del consiglio dei ministri l’ordine del giorno delle riunioni. Il presidente del consiglio dei ministri può deferire singole questioni al consiglio dei ministri, perché stabilisca le direttive alle quali i comitati debbono attenersi, nell’ambito delle norme vigenti”.
Le norme speciali in tema di reati ministeriali
L'articolo 96 della costituzione prevedeva che il presidente del Consiglio dei Ministri e i ministri potessero essere messi in stato di accusa da parte del parlamento riunito in seduta comune per i reati commessi nell'esercizio delle loro funzioni. Questa disposizione costituzionale è stata sostituita dalla legge Cost. 1/1989, adottata dopo che un referendum popolare aveva abrogato le disposizioni legislative relative alla cosiddetta commissione inquirente e cioè alla commissione parlamentare bicamerale che istruiva le denunce pervenute a carico dei ministri.
Tuttavia la legge costituzionale che ha approvato un nuovo testo dell'articolo 96, afferma che sui reati commessi dal presidente del consiglio e dai ministri (anche non più in carica), nell'esercizio delle loro funzioni, giudica la magistratura ordinaria, previa semplice autorizzazione da parte della camera a cui l'inquisito appartiene, o del senato se sono coinvolti appartenenti a entrambe le camere o non parlamentari.
Le camere stesse devono autorizzare le necessarie misure limitative della libertà personale, come intercettazioni telefoniche o perquisizioni personali e domiciliari, salvo che siano colti nell'atto di commettere un delitto per il quale è obbligatorio il mandato o l'ordine di cattura.
I cosiddetti reati ministeriali, cioè i reati commessi nell'esercizio delle funzioni ministeriali, consistono in reati comuni (prevalentemente contro la pubblica amministrazione) commessi dal presidente del consiglio o da un ministro, utilizzando i loro poteri o comunque nell'ambito delle funzioni ministeriali. La particolare gravità di un reato ministeriale sembra essere all’origine della previsione che le pene previste dalla legge in relazione alle diverse fattispecie penali possono essere aumentate “fino a 1/3 in presenza di circostanze che rilevino l’eccezionale gravità del reato”. La competenza a richiedere l’autorizzazione a procedere è stata attribuita ad uno speciale collegio giudiziario istituito presso il tribunale del capoluogo del distretto della corte d’appello competente per territorio, cui spetta anche il compito di svolgere l’ordinaria attività istruttoria. Il collegio è formato da 3 magistrati, estratti a sorte fra i magistrati dei tribunali del distretto, che abbiano da almeno 5 anni la qualifica di magistrato di tribunale o superiore, e viene rinnovato ogni biennio.
L'organo parlamentare può negare l'autorizzazione alla continuazione del procedimento penale nel caso in cui l'inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell'esercizio della funzione di governo.
Il legislatore ha attribuito all’organo parlamentare un vero e proprio potere di esimerli dalle responsabilità penali in nome di presunti interessi pubblici superiori a quelli tutelati dalla legislazione penale (un potere insindacabile). La prassi ha evidenziato un non facile rapporto tra autorità giudiziarie e camere: la stessa corte costituzionale ha dovuto richiamare l’autorità giudiziaria a specificare in modo adeguato le fattispecie penali per le quali chiede l’autorizzazione; a loro volta, le Camere, nel negare non di rado l’autorizzazione, sembrano aver valutato anche la fondatezza delle accuse e non già solo la sussistenza di uno dei requisiti per il diniego dell’autorizzazione. Successivamente all’autorizzazione parlamentare, è il tribunale del capoluogo del distretto della corte d’appello che è chiamato a giudicare, secondo le norme ordinarie.
Gli Alti Commissari ed i Commissari straordinari
In alcune occasioni, apposite leggi hanno previsto la figura degli Alti Commissari, attribuendo loro la responsabilità di particolari settori amministrativi, estranei alle attribuzioni ministeriali e, a volte, un ruolo di importanza quasi paragonabile a quella di un ministro. L'articolo 11 della legge 400/1988 ammette, in generale, l'istituto del Commissario straordinario del Governo, ma la stessa disposizione chiarisce che "sull'attività del commissario straordinario riferisce al parlamento il presidente del Consiglio dei Ministri o un ministro da lui delegato". Può essere nominato solo al fine di realizzare specifici obiettivi determinati in relazione a programmi o indirizzi deliberati dal parlamento o dal Consiglio dei Ministri o per particolari e temporanee esigenze di coordinamento operativo tra amministrazioni statali.
I Sottosegretari
Questi organi, pur non facendo parte del governo, svolgono rilevanti funzioni di governo e di amministrazione, essendo i più stretti collaboratori politici rispettivamente del presidente del Consiglio dei Ministri e dei ministri (con e senza portafoglio) nell'ambito delle loro responsabilità governative. L'articolo 10 della legge 400/1988 configura i sottosegretari come collaboratori di un ministro o del presidente del consiglio, competente a esercitare i compiti a essi delegati con decreto ministeriale pubblicato sulla gazzetta ufficiale. Si giunge alla loro nomina mediante un decreto del presidente della Repubblica, su proposta del presidente del Consiglio dei Ministri, in accordo con il ministro che il sottosegretario è chiamato a coadiuvare, sentito il Consiglio dei Ministri. Il sottosegretario assume le sue funzioni solo dopo il giuramento, che deve prestare dinanzi al presidente del Consiglio dei Ministri, con la stessa formula utilizzata dei ministri.
La legge 81/2001 ha previsto che non più di 10 sottosegretari possa essere “attribuito il titolo di vice-ministro”, ove siano loro state conferite deleghe particolarmente ampie: la delega è anche approvata dal consiglio dei ministri su proposta del presidente del consiglio.
Questi speciali sottosegretari possono essere inviati “a partecipare alle sedute del consiglio dei ministri senza diritto di voto, per riferire su argomenti e questioni attinenti alla materia loro delegata”.
Una posizione del tutto particolare è quella del sottosegretario alla presidenza del consiglio, nominato segretario del Consiglio dei Ministri, da cui dipendono l'ufficio di segreteria del Consiglio dei Ministri e anche quei dipartimenti e uffici della presidenza del consiglio per i quali il sottosegretario abbia ricevuto delega del presidente del Consiglio dei Ministri.
Le funzioni di indirizzo politico del Governo
La politica generale del governo si concretizza in una serie innumerevole di atti normativi e amministrativi, ma anche più tipicamente di indirizzo politico. Per quanto riguarda quest’ultimo, si fa riferimento agli atti relativi alla determinazione della piattaforma politica e programmatica sulla quale il governo chiede la fiducia, (atti che non hanno solo un rilievo politico, ma sono alla base del rapporto fiduciario col Parlamento e danno una chiave di lettura per la sua attività sul piano legislativo ed amministrativo; i trattati e gli accordi internazionali, gli atti attraverso i quali si assicura lo sviluppo dei rapporti all’interno dell’Unione europea, gli atteggiamenti assunti in relazione ai rapporti con gli altri Stati ed agli organismi sopranazionali) gli atti mediante i quali il governo esercita la sua azione nell'ambito delle relazioni internazionali, i poteri del consiglio supremo di difesa per l'organizzazione e il coordinamento delle attività che riguardano la difesa nazionale, i poteri del presidente del consiglio in ambito della pubblica sicurezza e delle questioni di ordine pubblico, le relazioni intrattenute dal governo con le confessioni religiose, il potere di iniziativa legislativa del governo, il disegno di legge relativo al bilancio preventivo e tutti gli atti governativi che lo precedono o lo accompagnano, il potere legislativo delegato o esercitato in via di urgenza.

  • politica militare vanno considerati i poteri del consiglio supremo di difesa in ordine alla determinazione dei criteri e delle direttive per l’organizzazione e il coordinamento delle attività che riguardano la difesa nazionale, nonché gli eventuali atti governativi di recepimento degli stessi.
  • Politica della sicurezza pubblica vanno annoverati i poteri del Presidente del consiglio, coadiuvato dal comitato interministeriale per le informazioni e la sicurezza, nella determinazione degli indizi e degli obiettivi da perseguire in questo settore.
  • Le relazioni intrattenute dal Governo con le confessioni religiose e con le organizzazioni sindacali del pubblico impiego.
  • Il potere di iniziativa legislativa del Governo.
  • Il disegno di legge relativo al bilancio preventivo e tutti gli atti governativi che lo precedono o lo accompagnano dal momento che in tali atti vengono operate scelte economiche e finanziarie, per lo più relative alla complessiva finanza pubblica e non solo a quella statale.
  • Con le autonomie regionali, il Presidente del consiglio adotta direttive per indirizzare l’attività dei prefetti del capoluogo regionale sulla base degli indirizzi determinati dal consiglio dei ministri.
  • La legislazione prevede che il Governo adotti atti di direttiva indirizzati ad altri organi o soggetti della pubblica amministrazione.
  • Il potere di direttiva agli enti di gestione delle partecipazioni statali, mediante il quale il ministro per le partecipazioni statali ha governato tale settore.
  • Il potere legislativo delegato o esercitato in via d’urgenza nell’ambito dello studio delle funzioni normative del Governo.
  • Spesso anche l’esercizio del potere di ricorso da parte del Governo agli organi della giustizia ordinaria, amministrativa o costituzionale, costituisce il frutto di scelte altamente discrezionali, espressive dei fini che il Governo si ripromette di conseguire.

Le funzioni amministrative
Il presidente del consiglio e il Consiglio dei Ministri sono titolari di importanti funzioni amministrative. Alcune sono espressamente previste dalla legge 400/1988: quelle che mirano a dirigere e coordinare in modo unitario le funzioni ministeriali, a dirimere i conflitti di attribuzione fra i ministri, a dare direttive ai comitati dei ministri e a quelli interministeriali, a indirizzare e coordinare le funzioni amministrative regionali o a dirigere quelle delegate o a sostituirsi alle amministrazioni regionali, annullare in via straordinaria gli atti amministrativi illegittimi. Anche se non previsti dalla suddetta legge, il presidente del consiglio e il Consiglio dei Ministri sono titolari di altri numerosi poteri amministrativi: spetta al governo deliberare sulla nomina, su proposta del Ministro competente, dei segretari generali dei ministeri; è sempre il Consiglio dei Ministri che nomina la quota dei componenti della corte dei conti e del Consiglio di Stato di spettanza del governo; la gestione del bilancio statale e il corretto funzionamento del settore creditizio.
È il Governo il soggetto titolare di poteri significativi, sia che si riferisca alla fase dell’esercizio provvisorio, sia che si riferisca alla fase della gestione della legge di bilancio, che vede un ruolo rilevante affidato anche al ministro dell’economia, specialmente nell’utilizzo dei “fondi speciali”.
Nel Governo del settore valutario e di funzionamento del settore creditizio, il peso del Governo è decisivo, e passa prevalentemente attraverso un complesso rapporto tra ministro dell’economia, Banca D’Italia e CICR.
Ai poteri amministrativi dei singoli ministri, il ministro dispone degli strumenti giuridici per dirigere l’attività degli uffici da lui dipendenti e per garantire la piena conformità dei comportamenti di tali uffici alle prescrizioni legislative e regolamenti, nonché alle sue direttive. Il ministro presiede tutti gli organi collegiali di vertice o consultivi del ministro, nonché le aziende che siano costituite presso il ministro stesso.
Le funzioni normative
La nostra costituzione ha operato uno sforzo rilevante per circoscrivere entro limiti precisi la possibilità che il governo possa adottare atti normativi con forza pari a quella delle leggi: l'intervento del governo può avvenire o per motivi di improrogabile urgenza a provvedere, o per un atto espresso di volontà in tal senso dello stesso parlamento. Le leggi costituzionali che hanno adottato gli statuti speciali delle regioni ad autonomia particolare prevedono una forma del tutto eccezionale di delega legislativa al Governo per l’adozione delle rispettive norme di attuazione. Tutta la materia degli atti normativi del governo è stata disciplinata dalla legge 400/1988: è stato introdotto un obbligo di autoqualificazione per tutti questi atti normativi, e cioè un obbligo per essi di autodenominarsi di volta in volta "decreto legislativo", "decreto legge" o "regolamento".
I decreti legislativi
Si tratta di un atto normativo adottato mediante una decisione ("decretare" significa decidere) del governo. Con una legge chiamata "legge delega" il Parlamento, con una propria decisione, può affidare al governo il compito di emanare una norma giuridica, a patto che questa rispetti i principi generali stabiliti dal Parlamento nella legge-delega e il termine entro il quale il decreto deve essere emanato. I decreti legislativi devono essere successivamente controfirmati dal presidente della Repubblica. In alcune importanti materie (imposizione di tributi e ratifica di trattati di diritto internazionale) il governo non può emanare decreti e la competenza a decidere nuove norme è del Parlamento, il solo organo rappresentativo della volontà dei cittadini.
Assumono forma di decreti legislativi anche le norme di attuazione degli statuti speciali delle cinque regioni ad autonomia particolare; si tratta tuttavia di un caso del tutto anomalo di delegazione legislativa, tant'è che ci si trova dinanzi a una delega a tempo indeterminato, esercitabile più volte, l'unico caso nel quale il governo dispone di un vero e proprio potere legislativo. Un altro caso di delega legislativa del tutto anomalo è previsto dall'articolo 78 della costituzione che stabilisce che siano le camere a deliberare lo stato di guerra conferendo al governo i poteri necessari per agire.
I decreti legge
Si tratta in questo caso di un provvedimento governativo provvisorio che ha forza di legge. In casi straordinari di necessità e di urgenza il governo può infatti sostituirsi al Parlamento (che secondo la Costituzione italiana è l'organo legislativo dello stato) ed emanare con un decreto una norma giuridica che diventerà legge dello stato soltanto se entro 60 giorni il Parlamento ne voterà l'approvazione del contenuto. In caso di approvazione si dice che il decreto è "convertito", cioè trasformato, in legge. L'abuso dello strumento del decreto legge per disciplinare la vita dei cittadini è stato recentemente denunciato perché toglie all'organo che rappresenta la volontà popolare dei cittadini, ossia il Parlamento, una funzione essenziale (quella legislativa) alla vita democratica del paese.
I decreti legge
Decretazione d’urgenza solo in casi eccezionali, per periodi rigidamente delimitati, l’attribuzione da parte del Governo del potere di adottare, senza previa delega del parlamento, atti con forza di legge.
Il Governo, nello stesso giorno in cui il decreto legge è emanato e ne dispone al pubblicazione sulla gazzetta ufficiale, conseguendone l’immediata efficacia, ha l’obbligo di trasmetterlo alle Camere, chiedendone la conversione in legge; queste si devono appositamente riunire non più tardi di 5 giorni (anche se sciolte) per l’esame del disegno di legge di conversione. La conversione in legge deve intervenire entro 60 giorni dalla pubblicazione del decreto legge, pena la perdita di efficacia del decreto fino al momento in cui è stato adottato. Ove il decreto legge non sia convertito scattano le responsabilità dei singoli componenti del Governo che lo hanno adottato: né si tratta solo dell’ovvia responsabilità politica dinanzi alle Camere, ma di tutte le altre responsabilità in relazione alle lesioni prodotte dal decreto legge non convertito. L’opinione che il Parlamento può introdurre emendamenti al contenuto del decreto legge in sede di conversione.
Efficacia temporale degli emendamenti: hanno efficacia dal giorno successivo a quello della pubblicazione della legge di conversione, salvo che quest’ultima non disponga diversamente. Sono “inammissibili gli emendamenti e gli articoli aggiuntivi che non siano strettamente attinenti alla materia del decreto legge”. L’uso dei decreti leggi in alcuni periodi si è venuto sviluppando in modo del tutto abnorme derivante dalla lentezza del procedimento legislativo che si svolge in Parlamento, rispetto alle esigenze di cui è portatore il Governo. È stata registrata una palese elusione del presupposto legittimante la decretazione d’urgenza e l’emergere della tendenza a disciplinare con decreto legge le più diverse ed importanti materie. Da questa situazione è derivata l’ulteriore discutibile prassi di reinterare i decreti legge decaduti alla scadenza dei 60 giorni. Riadattandoli nello stesso od analogo contenuto. Ciò ha suscitato seri problemi di incertezza del diritto vigente nei settori nei quali i decreti legge decadevano ma venivano reinterati.
Modifiche dei regolamenti della Camera e del Senato hanno previsto la necessità che le rispettive commissioni competenti in materia costituzionale esprimano in termini abbreviatissimi il loro parere sulla sussistenza del presupposto della straordinaria necessità ed urgenza di ogni decreto legge, potendo le rispettive assemblee deliberare la reiezione dello stesso in via pregiudiziale. La corte costituzionale ha escluso la possibilità di reinterare decreti legge respinti e di far salvi gli effetti giuridici di un decreto decaduto, tramite un successivo decreto.
Peraltro ha prodotto un accrescimento dei settori disciplinari mediante catene di decreti legge, tanto da originare una nuova e più incisiva reazione da parte della corte costituzionale. La corte ha affermato di poter giudicare della “evidente mancanza” dei presupposti di straordinaria necessità ed urgenza sia in riferimento al decreto legge che alla stessa legge di conversione.
La corte ha affermato di poter trasferire il rilievo di costituzionalità sollevato contro un decreto legge nel frattempo decaduto al nuovo decreto legge che riproduca la medesima disposizione o ne contenga una analoga.
La sent. 360/1996 ha affermato l’illegittimità costituzionale della riproduzione in un nuovo decreto legge del contenuto normativo di un precedente decreto legge, a meno che nel frattempo si siano manifestate nuove straordinarie situazioni di necessità ed urgenza ed il Governo adegui la precedente disposizione al nuovo contenuto. Sul piano politico tale sentenza ha prodotto una drastica contrazione del numero dei decreti legge.
Da una nuova interpretazione sistematica della Costituzione, l’art.15.2 della legge 400/1988 ha enucleato altre materie da considerare sottratte alla decretazione d’urgenza: il ripristino dell’efficacia di disposizioni legislative dichiarate illegittime costituzionalmente per vizi sostanziali, l’attribuzione di deleghe legislative al Governo, la disciplina delle materie indicate nell’art. 72.4 Cost. (materia costituzionale, elettorale, delegazione legislativa, autorizzazione a ratificare trattati internazionali, approvazione di bilanci e consuntivi).
Legge 400/1988: i decreti legge “devono contenere misure di immediata applicazione” e si esclude implicitamente che possano esistere regolamenti di esecuzione o di attuazione di decreti legge: si conferma in tal modo l’opinione che l’urgenza deve riguardare il provvedimento concreto e non già il provvedere mediante un atto dotato di forza di legge, che solo in un secondo momento sarebbe attuato.
I regolamenti
Il potere regolamentare del governo è stato di disciplinato dalla legge 400/1988. I regolamenti del governo sono deliberati del Consiglio dei Ministri, sono emanati con decreto del presidente della Repubblica, registrati presso la corte dei conti e pubblicati sulla gazzetta ufficiale. Sul piano delle tipologie, i regolamenti possono distinguersi tra loro o per l'ambito di discrezionalità di cui governo dispone in riferimento al sistema normativo primario, o per il loro particolare oggetto. Dal primo punto di vista, la legge si riferisce i regolamenti di esecuzione di leggi, decreti legislativi e regolamenti comunitari, ai regolamenti di attuazione e integrazioni di leggi e decreti legislativi, ai regolamenti indipendenti, ai regolamenti delegati. Attualmente sembra difficile ipotizzare l'esistenza di spazi liberi significativi per l'esercizio di un simile potere regolamentare, ove si considerino le numerosissime riserve di legge previste dalla costituzione, nonché il vero e proprio stato d'inflazione legislativa che caratterizza il nostro sistema normativo.
I regolamenti indipendenti intervengono in materie “in cui manchi la disciplina da parte di leggi o di atti aventi forza di legge, sempre che non si tratti di materie comunque riservate ala legge”. Da una parte si afferma l’illiceità di una normazione secondaria, ma, dall’altra, si obietta che questo potere, esercitatile solo in casi di modesta rilevanza, risponderebbe all’esigenza di regolare in via generale facoltà spettanti al Governo. È proprio in riferimento al fenomeno dell’inflazione legislativa che trovano giustificazione i regolamenti finalizzati a permettere l’avvio di un processo di delegificazione. Si possa procedere alla delegificazione di certe materie, purché esse non siano coperte da riserve assolute di legge, mediante apposite leggi che, “autorizzando l’esercizio della potestà regolamentare del Governo, determinano le norme generali regolatrici della materia e dispongono l’abrogazione delle norme vigenti, con effetto dall’entrata in vigore delle norme regolamentari”. Si tratta  di una tecnica di delegificazione (abrogazione differita) cha appare rispettosa del primato della legge e che ipotizza che il ritiro del legislatore dalla materia in precedenza legiferata non sia assoluto, ma che questi mantenga il compito di determinare i principi fondamentali della nuova disciplina. Leggi più recenti sono giunte però a prevedere che sia il regolamento ad identificare le disposizioni di legge abrogate. “l’organizzazione e la disciplina degli uffici dei ministri sono determinate con regolamenti” delegati da esercitare entro un termine  perentorio di 30 giorni.
Questa disposizione conferisce stabilmente al Governo il potere di disciplinare tutta questa materia mediante regolamenti delegati, che possono sostituirsi alle disposizioni legislative vigenti in materia.
L’art. 20 della legge 59/1997 prevede che all’inizio di ciascun anno il Governo presenti un apposito disegno di legge “per la delegificazione di norme concernenti procedimenti amministrativi, anche coinvolgimenti amministrativi centrali, locali e autonome”. I regolamenti d’organizzazione rappresentano un importante e tipico esempio di regolamento operante ad integrazione delle prescrizioni di legge relative all’organizzazione dei pubblici uffici. I regolamenti di funzionamento costituivano lo strumento, ormai superato, per recepire nell’ordinamento statale il risultato della concentrazione collettiva nel pubblico impiego.
Dalla stessa legge vengono disciplinati i regolamenti ministeriali e interministeriali, che possono essere adottati dal presidente del consiglio dei ministri con l'obbligo ulteriore di autoqualificarsi come regolamenti. Fase tipica, nel procedimento di formazione dei regolamenti ministeriali è la necessaria trasmissione, prima dell’adozione, dello schema di regolamento al presidente del consiglio dei ministri perché questi possa esercitare i suoi poteri finalizzati al mantenimento dell’unità dell’indirizzo politico ed amministrativo in relazione agli atti normativi dei singoli membri del Governo. Il limite del potere regolamentare dei ministri: può essere esercitato “solo nelle materie di competenza del ministro o di autorità sott’ordinate al ministro”. Il potere regolamentare dei ministri può essere esercitato solo nelle materie di competenza del ministro o di autorità sottordinate al ministro, quando la legge espressamente conferisca tale potere; non possono dettare norme contrarie a quelle dei regolamenti emanati dal governo.

CAPITOLO IX: L’organizzazione degli apparati amministrativi statali. (pag. 251 – 284)

PRINCIPI COSTITUZIONALI IN TEMA DI PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
Costituzione e amministrazione
Uno degli elementi principali delle moderne forme di Stato è il principio di subordinazione alla legge non solo dei cittadini, ma anche della pubblica amministrazione. Ad un'amministrazione autoritativa (intesa cioè come potere), chiamata essenzialmente ad adottare atti di esecuzioni di leggi che impongono ordini e divieti o comunque a porre regole destinate in diverso modo a restringere o ad ampliare la sfera di autonomia dei privati, si va progressivamente affiancando un'amministrazione di prestazione (intesa cioè come funzione) chiamata a svolgere un'attività diretta alla realizzazione di finalità di interesse generale. Ad un'amministrazione che è chiamata a rispondere del formale rispetto della legge, si affianca un'amministrazione che deve sempre più rendere conto dell'effettiva soddisfazione per gli interessi coinvolti della sua attività e cioè dei risultati attraverso la medesima raggiunti. I principi costituzionali in tema di amministrazione riguardano quella statale, regionale e locale. Tra le disposizioni costituzionali relative alla pubblica amministrazione vanno menzionati gli articoli 97 e 98 della sezione II del titolo III intitolata "la pubblica amministrazione", quelle contenute nell'articolo 5, 114 e successivi, in tema di amministrazione regionale e locale, quelle contenute negli articoli 103 e 113, in tema di tutela del privato.
Principi in tema di organizzazione della pubblica amministrazione
Tra i principi organizzativi della pubblica amministrazione va menzionato quello ricavabile dall'articolo 95.1 e 2, secondo cui l'esercizio dell'attività amministrativa deve comunque far capo a organi politici che ne rispondano in primo luogo dinanzi agli organi rappresentativi della volontà popolare. Il secondo principio stabilisce che "i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge". Nell'uno e nell'altro caso si tratta di una riserva di legge relativa, la quale dunque non esclude l'intervento di un'altra forma normativa. Il terzo principio attiene al reclutamento del pubblico funzionario, che deve avvenire di regola tramite concorso. A garanzia non solo dell’imparzialità del meccanismo di accesso al pubblico impiego, ma anche dell’imparzialità e della professionalità del futuro pubblico dipendente.
Il quarto principio riguarda la posizione dei pubblici funzionari, che sotto il profilo del loro status giuridico non possono trarre vantaggio nella loro carriera dal ricoprire certi incarichi politici. Possono, in certi casi, subire limitazioni, disciplinate dalla legge, al diritto di iscriversi a partiti politici.
A questi principi vanno poi aggiunti quelli previsti dall'articolo 5 della costituzione in tema di decentramento amministrativo e dell'autonomia locale. L’attribuzione della personalità giuridica allo Stato, alle regioni, a province e comuni sembra ormai trovare il suo fondamento nello stesso testo costituzionale: questa scelta implica il riconoscimento a questi enti della capacità giuridica, ma evidentemente esige che la capacità di agire sia fornita ai soggetti che operano in nome e per conto loro.
Vige il principio di immedesimazione organica, e non di rappresentanza: il soggetto che agisce per l'ente pubblico, esercitando uno dei suoi poteri, è un suo organo, e quindi tutti i suoi atti sono imputabili alla persona giuridica, che ne è vincolata e ne risponde. Si parla quindi di organi con una legittimazione politica e di organi con una legittimazione professionale. Possono essere monocratici o collegiali, consultivi o di controllo, centrali o periferici. Un'altra importante distinzione è quella fra organo (essere parte di un ente) e ufficio (apparato amministrativo). Il rapporto di servizio consiste nella prestazione di una vera e propria attività professionale retribuita, caratterizzata da un complesso intreccio di diritti e di doveri, ed individua coloro che prestano la loro attività nell'ambito dell'organizzazione dell'ente pubblico.
Organo parte di un ente; l’ufficio si riferisce ad un’unità organizzativa di un apparato amministrativo che può svolgere sia un’attività rilevante anche all’esterno (uffici-organo), sia un’attività tutta interna all’amministrazione, in funzione strumentale all’attività degli altri uffici con competenze esterne (meri uffici). Normalmente sono organi aventi una legittimazione politica quelli preposti ai vertici degli apparati amministrativi, dal momento che devono garantire non solo che l’attività amministrativa sia rispettosa delle prescrizioni legislative, ma che l’esercizio della discrezionalità amministrativa sia conforme all’indirizzo politico di maggioranza e tale da conseguire con efficacia i risultati per i quali l’amministrazione opera. Ma, al tempo stesso, l’amministrazione pubblica, nel perseguimento dei fini pubblici, deve operare in modo imparziale e cioè pienamente rispettoso del principio di uguaglianza. Il modello fondamentale di rapporto fra i vari organi amministrativi è quello gerarchico caratterizzato dal potere del superiore di dare ordini e direttive all’inferiore gerarchico e di annullarne o riformarne i provvedimenti, su iniziativa autonoma o su ricorso.
La necessaria convenienza di più organi politici e di molteplici organi amministrativi, per garantire una buona amministrazione, comporta il sorgere di modelli organizzativi diversi, come quelli che si esprimono nei poteri di coordinamento, di indirizzo, di programmazione,…
Un’altra caratteristica organizzativa è la preferenza per un’amministrazione affidata ad un corpo professionale, legato da un specifico rapporto di lavoro e caratterizzato da uno status professionale particolare. La disciplina delle diverse relazioni intercorrenti fra un ente pubblico e coloro che prestano la loro attività nell’ambito della sua organizzazione viene detto rapporto di servizio. Servizio onorario si riferisce a servizi prestati per designazione a funzioni non professionali; servizio coattivo tutti i casi di svolgimento di funzioni pubbliche a cui si può essere obbligati (servizio militare).
Il rapporto di servizio consiste nella prestazione di una vera e propria attività professionale retribuita, caratterizzata da un complesso intreccio di diritti e doveri, originati dal fatto che la sua disciplina attiene alla posizione giuridica di un dipendente della pubblica amministrazione, che eserciterà o contribuirà all’esercizio di poteri pubblici. Il pubblico dipendente “deve eseguire gli ordini che gli siano impartiti dal superiore gerarchico”, con la possibilità di opporsi ad un ordine che reputi illegittimo, salvo dovergli dare esecuzione se rinnovato per iscritto e purché non vietato dalla legge penale.
GLI APPARATI STATALI
Disegno generale dell’assetto ministeriale
La presidenza del Consiglio dei Ministri e i ministeri sono le strutture amministrative tra cui vengono organicamente ripartite dalla legge la grande maggioranza delle funzioni amministrative statali, salvo quelle spettanti al Consiglio dei Ministri o personalmente al presidente del consiglio. Si tratta dei poteri amministrativi previsti dalla legge, ma anche dei compiti di provvedere, negli stessi settori, mediante atti di impulso politico e amministrativo o mediante il ricorso a strumenti privatistici.
Il Governo non si limita a tutelare gli interesse collettivi nei diversi settori materiali di competenza dello Stato centrale, ma è chiamato a svolgere compiti di vigilanza e stimolo anche nei settori di competenza degli enti pubblici dotati di autonomia e perfino là dove operano gli altri organi costituzionali. L’esercizio di alcune funzioni viene affidato o a strutture decentrate dei vari ministeri o ad agenzie, aziende o enti pubblici strumentali facenti capo ai ministeri. Alcune limitate sono rappresentate dall’attribuzione da parte del legislatore di poteri amministrativi ad alcuni organi o enti pubblici posti in posizione di sostanziale indipendenza dal Governo.
I ministeri dopo la riforma del 1999 e il decreto-legge del 2001 sono i seguenti: degli affari esteri, dell'interno, della giustizia, della difesa, dell'economia e delle finanze, delle attività produttive, delle comunicazioni, delle politiche agricole e forestali, dell'ambiente e della tutela del territorio, delle infrastrutture e dei trasporti, del lavoro e delle politiche sociali, della sanità, dell'istruzione, dell'Università e della ricerca, per i beni e le attività culturali.
Nove dei ministeri sono strutturati in dipartimenti, mentre 5 (esteri, difesa, comunicazioni, sanità, beni culturali) mantengono la più antica articolazione in direzioni generali, cui si somma la presenza di un segretario generale (figura estranea agli altri ministeri). I dipartimenti operano in grandi aree di materie omogenee, disponendo anche di tutte le funzioni strumentali al conseguimento dei loro fini, a differenza delle più numerose direzioni generali, che operano in specifici settori materiali di competenza del ministero, o nelle diverse attività strumentali accessorie (personale, contabilità,…). L’organizzazione ministeriale appare largamente affidata al potere regolamentare del Governo. Oltre a diversi organi interni di controllo, esiste presso ogni ministero l'ufficio di bilancio, organo incaricato di verificare la regolarità degli impegni di spesa e della tenuta delle scritture contabili; si tratta di strutture decentrate della ragioneria generale dello Stato, importante apparato del ministero del Tesoro. Gli atti ministeriali sono sottoposti a diverse forme di controllo esterno, poste in essere dalla corte dei conti.
All’interno dei vari ministri, le leggi prevedono numerosi e diversificati organo consultivi formati in tutto o in parte da soggetti estranei all’amministrazione, sia per dare risposta alla esigenza di utilizzare esperienze professionali e scientifiche estranee all’amministrazione, che per coinvolgere e far partecipare a tale funzione rappresentanti di gruppi o forze sociali: i consigli superiori, organi consultivi di tipo tecnico, formati da esperti interni ed esterni all’amministrazione, e consiglio nazionali, organi prevalentemente rappresentativi di settori sociali e professionali, con funzioni consultive, a volte anche di indirizzo e coordinamento. All’esigenza di poter disporre di qualificate consulenze tecnico-giuridiche si provvede, oltre che tramite il consiglio di Stato mediante l’avvocatura generale dello Stato, le cui funzioni non si esauriscono nella rappresentanza e difesa in giudizio della pubbliche amministrazioni, ma comprendono anche l’espressione di pareri su una molteplicità di oggetti.
Alcune caratteristiche della Presidenza del Consiglio
La presidenza del Consiglio dei Ministri deve garantire un esercizio effettivo delle funzioni del presidente del consiglio, di direzione della politica generale del governo e di mantenimento dell'unità dell'indirizzo politico e amministrativo, nonché un adeguato supporto all'attività del Consiglio dei Ministri.
La presidenza viene configurata come una struttura organizzativa strettamente strumentale all’esercizio delle funzioni del presidente del consiglio e in particolare di quelle di direzione del governo e di mantenimento dei rapporti con il parlamento e gli altri organi costituzionali, con le istituzioni europee, con il sistema delle autonomie. Al fine di garantire il massimo di flessibilità alle strutture e un ricchissimo potere decisionale al presidente del consiglio, il decreto legislativo 303/1999 prevede come necessarie pochissime strutture della presidenza (il segretario generale, i dipartimenti per la partecipazione all'Unione Europea, per il coordinamento delle attività normativa del governo, per gli affari regionali). Per motivi di trasparenza, i decreti e i bilanci della presidenza vengono comunicati alle camere. Il presidente del consiglio nomina e revoca a sua discrezione il segretario generale della presidenza, i capi dei dipartimenti degli uffici, i consulenti e componenti di comitati di consulenza o di studio che reputi necessari, assegna le funzioni di direzione, di collaborazione e di studio presso la presidenza al personale dirigenziale o a esperti.
Il presidente del consiglio può configurare diversamente le numerose strutture dipendenti dal segretario generale o da affidare a ministri senza portafoglio o a sottosegretari alla presidenza. Analogamente sono disciplinati gli uffici di diretta collaborazione con il presidente, con i ministri senza portafoglio e i sottosegretari.
Il presidente del consiglio nomina e revoca a sua discrezione il segretario generale della presidenza ( eventualmente i vice-segretari), i capi dei dipartimenti e degli uffici, i consulenti e i componenti di comitati di consulenza o di studio che reputa necessario; assegna “le funzioni di direzione, di collaborazione e di studio presso la presidenza” al personale dirigente o a esperti.
Con il giuramento del nuovo governo decadono le nomine del segretario e dei vicesegretari.
Analogamente per il personale “di prestito” da altre amministrazioni se non viene confermato entro 6 mesi, nonché per i capi dei dipartimenti e degli uffici, mentre si interrompe il rapporto di lavoro del personale non di ruolo addetto ai gabinetti e alle segreterie delle autorità politiche; se entro tre mesi dal giuramento non vengono confermati gli incarichi agli esperti e ai dirigenti provenienti da altre amministrazioni pubbliche, i relativi decreti “ cessano di avere effetto”. In quest’ambito, il segretario generale esercita i poteri di organizzazione e di gestione amministrativa, impartisce le direttive generali per l’azione amministrativa, dispone di vasti poteri di coordinamento rispetto alle altre strutture della presidenza, predispone i progetti di bilancio e di conto consuntivo da   sottoporre all’approvazione del presidente del consiglio.
Il decentramento dell’amministrazione statale
Evidenti motivi di opportunità amministrativa spingono a far esercitare funzioni e a erogare determinati servizi statali tramite uffici operanti in determinate aree territoriali, a contatto con la comunità sociale più direttamente interessata e con i suoi problemi; la circoscrizione del decentramento muta profondamente da settore a settore, anche se il livello normale resta quello provinciale. Al decentramento si può procedere, in modo diverso, a seconda che gli uffici periferici dell’amministrazione non dispongono in realtà di alcun potere decisorio ed operino quindi solo come terminali dell’azione amministrativa ministeriale (si parlerà di mera deconcentrazione degli apparati burocratici), o , invece, venga loro attribuito anche il potere di esercitare a livello locale almeno parte della discrezionalità amministrativa di cui è titolare il ministero, seppur evidentemente secondo le direttive e sotto il controllo degli organi ministeriali (si parlerà allora di decentramento).
Il rilevante numero di uffici ministeriali periferici ha accentuato la necessità di un coordinamento a livello locale fra tutti gli uffici statali decentrati. Questa funzione, storicamente affidata al prefetto, organo rappresentativo del governo nella sua interezza, spesso si è scontrato con la tendenza ministeriale a una gestione autonoma. Il decreto legislativo 300/1999 ha previsto la trasformazione delle prefetture in uffici territoriali del governo (con a capo sempre il prefetto). Concentrandovi anche i compiti di tutti gli uffici periferici delle amministrazioni statali, salvo quelli dipendenti dai ministeri degli esteri, della difesa, dell’economia e delle finanze, della pubblica istruzione, dei beni culturali. A tempo stesso, il prefetto “è coadiuvato da una conferenza permanente, da lui presieduta e composta dai responsabili delle strutture periferiche dello Stato”. Con la revisione del titolo V della Cost. le funzioni di rappresentanza dello Stato nei rapporti con le autonomie locali sono state attribuite al prefetto del capoluogo regionale. Una forma diversa di decentramento è quella che si realizza attraverso l'affidamento ai comuni della gestione di una serie di servizi statali con la specifica responsabilizzazione del sindaco, che, in questo ambito, opera come ufficiale del governo. Per l’art.54, il sindaco deve svolgere funzioni ed emanare atti “attribuiti dalle leggi e dai regolamenti in materia di ordine e sicurezza pubblica”, nonché adottare, ove occorra, “provvedimenti con tingibili ed urgenti al fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità dei cittadini.
Le aziende, le agenzie, gli enti pubblici
La necessità della pubblica amministrazione di svolgere attività prevalentemente di produzione di beni o di erogazione di servizi, mediante organizzazioni di tipo aziendale, ha, nel passato, più volte indotto il legislatore a istituire all'interno dei ministeri apposite aziende o amministrazioni autonome, dotate di un'apposita disciplina speciale, tale da permettere la produzione di quei beni e servizi, sfuggendo alle rigide normative dell'organizzazione ministeriale. L'azienda resta dunque un organo ministeriale, ma dotato di una speciale organizzazione: ha organi sul modello societario e dispone di un proprio bilancio e di un proprio patrimonio, ma non è dotato in genere di personalità giuridica.
I suoi organi sono tutti di nomina ministeriale, con l’attribuzione della presidenza al ministro presso il cui ministro è istituita e i suoi bilanci sono allegati a quelli ministeriali.
Le agenzie appaiono come speciali strutture amministrative dotate di personalità giuridica e di propri statuti, istituita per svolgere in regime di autonomia attività prevalentemente tecniche già di competenza ministeriale, spesso per soddisfare una pluralità di interessi pubblici.
L’agenzia dispone di un particolare regime autonomo, sul piano dell’organizzazione, della contabilità e della spesa; i suoi rapporti con lo Stato sono disciplinati mediante una conversione con il ministro vigente, che fissa gli obiettivi da conseguire e i corrispondenti mezzi finanziari e materiali. Altre convenzioni possono essere stipulate con l’agenzia da altre amministrazioni pubbliche.
Gli organi dell'agenzia sono rappresentati da un direttore generale e da un comitato direttivo, formato da non più di tre dirigenti dell'agenzia. Distinti dalle aziende dalle agenzie sono gli enti pubblici. In questo caso l’ordinamento giuridico crea un’apposita organizzazione dotandola di una personalità giuridica separata da quella dello Stato (o della regione o dell’ente locale), o attribuisce la personalità giuridica pubblica a enti preesistenti di natura privata. L’art.4 della legge 70/1975 ha stabilito che “nessun nuovo ente pubblico può essere istituito o riconosciuto se non per legge”. Fra gli enti pubblici, tendono ad assumere una posizione del tutto particolare quelli finalizzati a rappresentare una particolare comunità locale o una entità sociale e a cui quindi vengono riconosciute forme di autonomia più o meno ampia rispetto agli stessi organi e poteri statali: categoria principale costituita dagli enti locali. La legislazione più recente sta riconoscendo forme significative di autonomia anche ad altri enti pubblici, come le università, gli ordini e collegi professionali e gli enti pubblici associativi (quelli cioè che hanno alla loro base un fenomeno di tipo associativo fra persone). L'amplissima categoria degli enti pubblici è inevitabilmente molto eterogenea, perché molto diversi sono i fini che lo Stato intende conseguire tramite la loro azione. Da una parte, vi sono enti che sostanzialmente esercitano veri e propri poteri pubblici, dall’altra, vi sono enti che devono produrre beni o erogare servizi, in qualche caso operando in posizione di privilegio rispetto ai soggetti privati o con speciali vincoli pubblicistici, ma alte volte in situazione di sostanziale parità con gli altri soggetti. Se la grande maggioranza di enti pubblici opera in ambiti locali e mediante organizzazioni anche assai modeste, vi sono enti pubblici che operano a livello nazionale mediante organizzazioni, mezzi finanziari e patrimoni rilevantissimi. Gli enti pubblici economici sono stati appositamente creati per svolgere attività di produzione di beni e servizi e pertanto devono poter disporre di una duttilità organizzativa analoga a quella dei soggetti privati. Da ciò 2 fondamentali caratteristiche distintive, consistenti, da un lato, nel fatto che questi enti operano mediante atti di diritto privato e, dall’altro, che essi instaurano con i loro dipendenti rapporti di lavoro di diritto privato. Ciò malgrado, anche gli enti pubblici economici sono parte della pubblica amministrazione, con alcune conseguenze: se da una parte tali enti, anche esercitando imprese commerciali, non possono fallire, ma sono solo soggetti alla liquidazione coatta amministrativa, i loro amministratori, oltre essere tenuti a operare nel rispetto dell’imparzialità e della buona amministrazione, risultano pubblici amministratori anche in sede penale.
Il personale e la dirigenza statale
La disciplina giuridica d’attività prestata da soggetti legati da un rapporto di pubblico impiego consiste in un complesso intreccio di diritti e doveri, finalizzarti a conseguire entrambi i valori di fondo cui deve mirare l’organizzazione della pubblica amministrazione:è evidente che il tipo di prestazione lavorativa incide notevolmente sul buon adattamento dell’amministrazione. Per un lungo periodo si è avuta una netta distinzione fra la prestazione lavorativa svolta a favore della pubblica amministrazione e tutte le altre. Dal momento che, in questo settore, si ritenevano assolutamente prevalenti gli interessi pubblici sugli interessi individuali del lavoratore. Col il passare del tempo, da una parte si è assistito ad una progressiva estensione al pubblico impiego degli istituti a tutela delle libertà individuali e collettive del lavoratore, anche con l’attribuzione di un importante ruolo alla contrattazione collettiva.
Il decreto legislativo 165/2001 determina le "norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche". L’attuale disciplina prevede che il rapporto di lavoro della grande maggioranza dei dipendenti pubblici sia disciplinato ai sensi del codice civile e delle “leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa”, mediante contratti collettivi e individuali di lavoro. I contratti collettivi vengono stipulati a livello nazionale (il contratto nazionale può anche prevedere casi di contrattazione collettiva decentrata) tra l'apposita agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) e le organizzazioni sindacali più rappresentative sul piano nazionale e nei singoli comparti contrattuali. Il comitato direttivo dell'ARAN è nominato dal presidente del consiglio.
Tre componenti sono di designazione governativa, mentre uno è designato dalla conferenza dei presidenti delle regioni e l’altro dall’ANCI e dall’UPI 8le associazioni rappresentative dei comuni e delle province). Il presidente è scelto al governo fra i tre componenti di sua designazione, dopo aver sentito il parere della conferenza unificata stato-regioni e stato-città.
Per il suo funzionamento, l’ARAN si avvale di comitati di settore rappresentativi delle diverse amministrazioni pubbliche coinvolte nei vari comparti contrattuali. Quando si raggiunge un’ipotesi di accordo, l’ARAN deve prima acquisire il parere favorevole del comitato di settore interessato; successivamente deve conseguire da parte della corte dei conti una certificazione di compatibilità dei costi contrattuali con gli atti di programmazione della spesa e di bilancio. Dopo la sottoscrizione dei contratti collettivi, questi divengono immediatamente efficaci, senza la necessità di un loro recepimento da parte degli enti pubblici interessati e le diverse amministrazioni pubbliche sono tenute a dare applicazioni ad essi e a “garantire parità di trattamento contrattuale e comunque trattamenti non inferiori a quelli previsti dai rispettivi contratti collettivi”. La legislazione degli anni  90 ha sancito la necessaria “separazione fra i compiti di direzione politica e quelli di direzione amministrativa” e ha disciplinato le figure e i poteri di due tipi di dirigenti: dirigenti generali e dirigenti. Mentre sugli incarichi dei dirigenti generali (che durano fino a 3 anni) decide il governo sugli altri incarichi dirigenziali (che durano fino a 5 anni) decide il dirigente generale competente.
L'articolo 4 del suddetto decreto legislativo, mentre riserva agli organi di governo la definizione degli obiettivi e dei programmi da attuare, stabilisce che ai dirigenti spetta l'adozione degli atti e dei provvedimenti amministrativi, compresi tutti gli atti che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, nonché la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa, mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo. Essi sono dunque responsabili in via esclusiva dell'attività amministrativa, della gestione e dei relativi risultati. A conferma della tendenziale separatezza delle attribuzioni fra ministro e dirigenza, gli atti dei dirigenti generali non sono suscettibili di ricorso gerarchico al ministro e quest’ultimo non dispone più di un generico potere di sostituzione nei confronti del dirigente generale: l’art. 14.3 del D.lgs 165/2001 afferma che “ il ministro non può revocare, riformare, riservare o avocare a se o altrimenti adottare provvedimenti o atti di competenza dei dirigenti”. In caso di inerzia o ritardo o grave inosservanza delle direttive generali, un complesso procedimento può portare solo alla nomina di un apposito commissario ad acta, dandosene notizia al presidente del consiglio. Per altro le innovazioni introdotte dalla legge 145/2002 al testo unico accentuano un legame di tipo fiduciario fra governo e altra dirigenza: si è ridotta la durata degli incarichi dirigenziali, si permette di conferire fino a metà degli incarichi dirigenziali generali anche a soggetti non inseriti nel ruolo relativo, si prevede la cessazione automatica dei maggiori incarichi dirigenziali dopo 90 giorni dal voto di fiducia ad un nuovo governo.
I beni della pubblica amministrazione
L'amministrazione statale necessita di beni allo scopo di conseguire le finalità individuate dal sistema normativo. Anzitutto è necessario del denaro per far fronte alle spese pubbliche.
La costituzione ha stabilito che tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva e il sistema tributario nel suo complesso è informato a criteri di progressività. Nell'ambito del complesso sistema tributario possono distinguersi anzitutto le imposte (in quanto dotati di capacità contributiva, e si distinguono in dirette o indirette), le tasse e contributi speciali.
Le imposte sono tributi che si è tenuti a versare per il solo fatto di trovarsi in una situazione che la legge reputa rilevatrice di capacità contributiva; le tasse sono tributi che vengono pagati da soggetti che usufruiscono di alcuni beni o servizi pubblici; i contributi speciali sono tributi pagate in alcune occasioni da soggetti che ricevono un vantaggio diretto da un’attività amministrativa avente fini generali. A loro volta, le imposte si distinguono in imposte dirette, e cioè quelle che si riferiscono ai redditi o al patrimonio dei vari soggetti, e indirette, e cioè quelle che si riferiscono solo ad un fenomeno economico o a un trasferimento di ricchezza. Mentre le seconde, in genere, garantiscono una più agevole e sicura riscossione, le prime sono le uniche che possono garantire davvero una corretta progressività del prelievo fiscale.
Altre somme di denaro possono giungere all’erario dalla concessione dei crediti allo Stato sia da parte di organismi bancari nazionali ed internazionali, che da parte di privati che acquistano titoli di crediti emessi dal tesoro (BOT, CCT,…).
Perciò che riguarda in generale i beni, lo Stato, le regioni, le province e i comuni possono disporre di beni demaniali, di beni patrimoniali indisponibili e di beni patrimoniali disponibili. I beni demaniali sono inalienabili, non possono sorgere diritti reali su di essi, non possono essere espropriati.
L’art.822 c.c. individua un demanio necessario, formato da beni immobili che non possono che essere demaniali: si tratta del demanio marittimo (spiaggia, lido,…), del demanio idrico, del demanio militare. Demanio eventuale formato da beni immobili, over peraltro appartengono allo Stato o agli enti pubblici territoriali: strade, biblioteche, cimiteri,… i beni demaniali sono inalienabili, non possono sorgere diritti reali su di essi, né possono essere espropriati. Peraltro, quelli che sono tali per loro destinazione possono, nel caso che questa sia venuta meno, essere trasferita fra quelli patrimoniali mediante un apposito e complesso procedimento. Caratteristica dei beni del patrimonio indisponibile è la non modificabilità della loro destinazione, se non nei modi determinati dalle leggi che disciplinano le varie categorie dei beni. Beni patrimoniali disponibili sono, invece, tutti gli altri beni di proprietà dell’amministrazione pubblica e di questi essa dispone mediante gli ordinari strumenti giuridici del diritto privato. Recenti disposizioni prevedono appositi procedimenti, e numerose agevolazioni, per meglio utilizzare o per alienare beni patrimoniali dello Stato.
Le partecipazioni statali e l’utilizzazione di altri strumenti privatistici
Numerose vicende hanno condotto lo Stato ad acquisire, in parte o per intero, imprese private, perlopiù aventi forma giuridica di società per azioni, soprattutto al fine di evitare imponenti crisi settoriali. La consapevolezza di potere, in tal modo, intervenire nei diversi settori produttivi ha contribuito a trasformare la proprietà totale o parziale da parte dello Stato di numerose società in un vero e proprio nuovo tipo di presenza organizzata dello Stato nell’ambito delle attività produttive, con lo sviluppo di un intervento imponente, soprattutto nei settori industriali e terziari.  Fino ad epoca recente il sistema delle partecipazioni statali presentava le seguenti fondamentali caratteristiche: le società operative erano veri e propri soggetti di diritto privato, ma la proprietà delle loro azioni o del cosiddetto "pacchetto di controllo" faceva capo a un ente pubblico di gestione, che svolgeva nei loro riguardi le funzioni tipiche delle società finanziarie che controllano un gruppo di società. Questi enti di gestione erano enti pubblici economici, posti sotto la vigilanza e il potere di direttiva del ministro delle partecipazioni statali. Questo sistema voleva rispondere alla necessità di vigilare e indirizzare questo complesso sistema delle imprese a partecipazione statale senza peraltro negare l'opportunità di conservare loro un regime privatistico. La tendenza ad utilizzare la forma privatistica è alla base anche di altre numerose iniziative; inoltre, alcune leggi hanno creato singolari tipi di società per azioni, in posizione del tutto dipendente da alcuni ministeri, quasi si trattasse di loro enti strumentali. 
Le disposizioni che hanno riformato il settore pubblico bancario hanno prima previsto che gli istituti di credito di diritto pubblico creassero società per azioni per gestire l’attività creditizia, delle quali dovevano (di regola) controllare la maggioranza, successivamente le fondazioni bancarie sono state definite persone giuridiche private senza scopo di lucro ed è stato loro imposto di dimettere le partecipazioni di controllo delle società bancarie a suo tempo create. Nel 1991 si è prima prevista la possibilità di trasformare in S.p.A. "gli enti di gestione delle partecipazioni statali e gli altri enti pubblici economici, nonché le aziende pubbliche statali". Al tempo stesso, tutte le attività e i diritti di natura pubblicistica, attribuiti o riservati a questi enti, che hanno già assunto la veste di società per azioni, sono stati fatti oggetto di concessioni di durata non inferiore a vent'anni.
Ad alcune trasformazioni in s.p.a. di enti ha corrisposto la loro vendita o la vendita di alcune delle società controllate. L’assunzione della forma giuridica di s.p.a. da parte di aziende pubbliche non significa, di per sé, una rinuncia dello Stato ad intervenire in determinati campi.
Le autorità amministrative indipendenti
Un'eccezione a questo sistema di dipendenze dell'amministrazione statale dai ministri è costituita da quei casi nei quali il legislatore ha affidato determinate funzioni amministrative di particolare delicatezza ad autorità amministrative indipendenti, sulla base delle esperienze straniere. Si tratta dell'espletamento di funzioni per le quali sono ritenute essenziali non solo l'imparzialità, ma anche la terzietà dell'autorità amministrativa rispetto agli stessi interessi che si esprimono nel governo. La nomina dei loro vertici avviene nell'ambito di categorie professionali particolarmente qualificate e estranee a soggetti istituzionalmente collegati con gli organi di governo.
Si tratta non solo di autorità dotte di responsabilità amministrative estremamente differenziate, ma costituite a volte come organi monocratici o collegiali, a volte come enti pubblici. I dati comuni sono rappresentati soltanto dalla nomina dei loro vertici, la quale avviene nell’ambito di categorie professionali qualificate ed estranee a soggetti istituzionalmente collegati con gli organi di governo, dalla previsione di ampie clausole di incompatibilità e dal divieto di rinnovo nella carica oltre un certo periodo; dalla mancata previsione di modalità di revoca; dall’attribuzione di una larga autonomia organizzativa e di spesa; dalla dipendenza solo da esse del personale degli uffici o degli enti. Numerosi sono i casi di attribuzione di queste autorità di veri e propri poteri regolamentari, più spesso relativi alla loro organizzazione, ma altre volte anche attinenti alla disciplina dei settori da loro gestiti. Parimenti assai differenziati sono i poteri di amministrazione attiva e di controllo che le singole leggi loro attribuiscono. Solo in alcuni casi si attribuiscono funzioni di tipo giustiziale.
I COSIDDETTI ORGANI AUSILIARI
Si tratta di organi le cui funzioni sono tra loro alquanto eterogenee e riferite non solo al governo ma anche al parlamento e, ancora più in generale, al complesso delle istituzioni pubbliche. La stessa categoria degli organi ausiliari, intesi come organi la cui attività è finalizzata a favorire un miglior funzionamento dei complessi organici diotati di poteri legislativi o di amministrazione attiva, non appare sufficientemente omogenea, come testimonianza l’esigenza di altri organi ausiliari istituti per legge, alcuni dei quali dotati anche di rilevante autorevolezza.
Il Consiglio di Stato
Si tratta di un organo sia di "consulenza giuridico-amministrativa", sia di "tutela della giustizia nell'amministrazione". Con riferimento alla corte dei conti, l'articolo 100.3 della costituzione afferma che "la legge assicura l'indipendenza dei due istituti e dei loro componenti di fronte al governo". Il Consiglio di Stato è composto da un numero limitato di magistrati (poco più di 120), si articola in sette sezioni, le prime quattro con competenze consultive, le altre con competenze giurisdizionali.
In sede consultiva opera anche l'adunanza generale, formata da tutti consiglieri di Stato; a livello giurisdizionale, opera invece l'adunanza plenaria, composta da dodici consiglieri delle tre sezioni giurisdizionali. Il Consiglio di Stato è l’organo di appello rispetto alle sentenze adottate dai Tar, seppur si tratti di organi giurisdizionali distinti, molteplici sono i rapporti fra Tar e Consiglio di Stato, dai meccanismi di nomina dei consiglieri di Stato, al fatto che il consiglio di presidenza della giustizia amministrativa vede la presenza anche di rappresentanti dei magistrati dei Tar ed esercita i suoi poteri in riferimento ai magistrati che compongono entrambi questi organi.
Il consiglio di presidenza della giustizia amministrativa è formato dal presidente del consiglio di Stato (che lo presiede), da quattro magistrati del Consiglio di Stato e da sei magistrati dei Tar eletti dalle rispettive magistrature, nonché da quattro cittadini nominati da camera e senato (professori universitari in materie giuridiche o avvocati con vent'anni di esserci solo professionale). Quest'organo è chiamato a deliberare su tutti i provvedimenti attinenti lo status dei magistrati, le sanzioni disciplinari, l'esercizio dell'autonomia finanziaria del Consiglio di Stato. L'influenza del governo passa attraverso la nomina del presidente del Consiglio di Stato da parte del Consiglio dei Ministri. Anche se tale scelta è ristretta ai magistrati del Consiglio di Stato, attraverso la nomina di un quarto dei nuovi consiglieri di Stato da parte del consiglio dei ministri, scelta questa che deve avvenire fra categorie di personale particolarmente qualificate e previo parere del consiglio di presidenza “contenente valutazioni di piena idoneità all’esercizio delle funzioni di consigliere di Stato sulla base dell’attività e degli studi giuridico amministrativi compiuti e delle doti attitudinali e di carattere”. Gli altri posti che si rendono vacanti sono riservati, per metà, ai consiglieri di Tar aventi una certa anzianità di servizio e che ne facciano domanda. Solo il quarto residuo di posti è riservato ad un concorso pubblico, cui possono partecipare una serie di categorie di magistrati o di pubblici funzionari.
Il Consiglio di Stato può essere incaricato dal governo a esprimere il suo parere su proposte di legge e addirittura redigere progetti di legge e di regolamento (pareri facoltativi); i pareri obbligatori riguardano il caso in cui la pubblica amministrazione richiede il parere al Consiglio di Stato; rari sono i casi di pareri vincolanti.
La Corte dei Conti
La corte dei conti per l'articolo 100.2 "esercita il controllo preventivo di legittimità sugli atti del governo, e anche quello successivo sulla gestione del bilancio dello Stato. Partecipa, nei casi e nelle forme stabilite dalla legge, al controllo sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria. Riferisce direttamente alle camere sul risultato del riscontro avvenuto"; per l'articolo 103.2, invece, essa "ha giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge". Ci si trova dinanzi ad uno speciale organo composto da magistrati amministrativi che, oltre ad alcune funzioni giurisdizionali in vari settori in cui è in gioco l’interesse finanziario dello Stato, esercita anche una serie di funzioni amministrative riconducibili a diverse forme di controllo esterno sulla pubblica amministrazione statale, ma in parte anche su quella regionale e locale.
A livello centrale, esistono tre sezioni di controllo, rispettivamente sugli atti del governo e delle amministrazioni statali, sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce di ordinaria, sui conti consuntivi delle province e dei comuni; le tre sezioni giurisdizionali centrali invece sono giudice di appello rispetto alle sentenze delle sezioni giurisdizionali e regionali. Le sezioni giurisdizionali centrali, oltre alle funzioni di giudice di secondo grado, giudicano a sezioni riunite sui conflitti di competenza o su questioni di massima.
A livello regionale esistono sezioni giurisdizionali regionali, presso le quali opera anche un procuratore regionale. Sempre a livello regionale operano 4 sezioni di controllo per altrettante regioni speciali e collegi di controllo per le altre realtà regionali.
Sono da ricordare le importanti figure del presidente della corte dei conti e del procuratore generale presso la corte stessa (che svolge le funzioni del pubblico ministero).
Nell’attesa di una legge organica di riordinamento della Corte dei Conti, è stato istituito il consiglio di presidenza della Corte dei Conti, cui sono state attribuite funzioni in parte analoghe a quelle del consiglio di presidenza della giustizia amministrativa. La composizione di quest’organo, prevede accanto al presidente della Corte (che lo presiede), al procuratore generale e al presidente di sezione più anziano, 10 magistrati eletti fra le diverse qualifiche e 4 esperti designati d’intesa dai presidenti delle Camere, scelti fra i professori ordinari di materie giuridiche o gli avvocati con 15 anni di esercizio professionale. Il presidente della Corte è nominato dal governo; esso è tenuto a riferire “a capo del governo, primo ministro segretario di Stato, sull’andamenti dei lavori della Corte”, e che, soprattutto, il consiglio dei ministri conserva ancora il potere di nominare la metà dei consiglieri della Corte dei Conti, mentre la nomina dell’altra metà è riservata a promozioni fra i primi referendum. I magistrati della Corte dei Conti si distinguono in referendari, primi referendari e consiglieri; al primo grado si accede tramite un concorso pubblico riservato ai magistrati, avvocati iscritti all’albo da almeno un anno, alcune categorie di funzionari pubblici laureati in giurisprudenza; a quelli successivi mediante promozioni fra i magistrati del grado inferiore. Le sue principali funzioni di controllo possono distinguersi nel controllo preventivo di legittimità sugli atti del governo (e delle regioni Friuli Venezia- Giulia, Sardegna, Sicilia, Trentino Alto- Adige), nei controlli successivi sugli atti delle aziende pubbliche, nel controllo successivo sul rendiconto annuale dello Stato, nei diversi controlli sulla gestione finanziaria degli atti pubblici e dehli enti sovvenzionati dallo Stato. A questi tipi di controllo, la più recente legislazione ha aggiunto l’esercizio di un “controllo successivo sulla gestione del bilancio e del patrimonio delle amministrazioni pubbliche”, ivi comprese anche le amministrazioni regionali.
Notevoli modifiche sono state introdotte in relazione al controllo preventivo di legittimità: l’art. 3 della legge 20/1994 individua solo 9 categorie di atti da sottoporre necessariamente a questo controllo. A questi possono aggiungersi gli “atti che il presidente del consiglio dei ministri richieda di sottoporre contemporaneamente a controllo preventivo o che la Corte dei Conti deliberi di assoggettare, per un periodo determinato, a controllo preventivo in relazione a situazioni di diffusa e ripetuta irregolarità rilevante in sede di controllo successivo”. Si pongono brevi termini perentori per l’eventuale pronuncia di illegittimità, scaduti i quali il provvedimento diventa esecutivo. Se il magistrato adatto a fare ciò non rileva motivi di illegittimità, appone un visto all’atto e di ciò si tiene memoria in appositi registri; altrimenti egli formula un rilievo all’amministrazione interessata e provoca una deliberazione da parte della sezione di controllo. Contro la decisione negativa di tale organo, il ministro componente può portare la questione in consiglio dei ministri onde ottenere che quest’ultimo dichiari “che l’atto o decreto debba aver corso”; in tale ipotesi, la Corte dei Conti entro 30 giorni si riunisce a sezioni riunite “e qualora non riconosca cessata la causa del rifiuto, ne ordina la registrazione e vi appone il visto con riserva”, dandone peraltro comunicazione alle Camere.
Tuttavia, la registrazione con riserva è esclusa, e quindi il rifiuto di registrazione rende inefficace il provvedimento, in alcuni specifici casi relativi a spese prive di copertura e a nomina disposte oltre i limiti degli organici.
Per le aziende pubbliche e la "vigilanza e riscontro" dei loro atti è esercitato secondo le disposizioni delle leggi specifiche che le disciplinano e che, in genere, prevedono solo forme di controllo a posteriori. L’art.3.3 legge 20/1994 ha individuato un nuovo controllo a posteriori, in riferimento all’amministrazione statale: le sezioni riunite della Corte dei Conti possono deliberare che siano sottoposte al loro esame categorie di deliberazioni di notevole rilievo finanziario; in quest’ambito la Corte può chiedere il riesame degli atti, “ferma rimanendone l’esecutività”; anche se riesaminato viene valutato come illegittimo, la Corte ne dà semplicemente “avvio al ministro”.
Per quanto riguarda il controllo sulla gestione delle amministrazioni pubbliche è un controllo non solo di legittimità, ma di "regolarità delle gestioni" e, più in generale, di "rispondenza dei risultati dell'azione amministrativa agli obiettivi stabiliti dalla legge, valutando comparativamente costi, modi e tempi dello svolgimento dell'azione amministrativa". Non a caso, l’esito di questo tipo di controllo viene reso noto da relazioni che la Corte dei Conti invia alle amministrazioni interessate e al parlamento. Un ulteriore tipo di controllo delle sezioni regionali di controllo della Corte dei Conti “in funzione collaborativa con gli enti locali” è stato previsto per valutare gli equilibri di bilancio degli enti locali e delle regioni: gli esiti delle verifiche sono però destinati “esclusivamente ai consigli degli enti controllati” e a tal fine si prevede anche la possibilità che le sezioni regionali possono essere integrate da due esperti designati dalla regione e dagli enti locali. È, invece, un antico controllo a posteriori, essenzialmente di stimolo nei confronti del parlamento e del governo, quello di “parificazione del rendiconto generale dello Stato e dei rendiconti annessi”.
Il ministro del Tesoro, prima di trasmettere il rendiconto annuale alle camere, lo invia alla corte dei conti che, a sezioni riunite, valuta la legittimità delle spese rispetto alle previsioni di bilancio, ma anche come le varie amministrazioni si sono conformate alle discipline di ordine amministrativo e finanziario.
La legge 259/1958 ha dato applicazione alla previsione costituzionale di un controllo della Corte dei Conti “sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria”, mediante l’adozione di un differenziato sistema di controllo, a seconda che l’ente, pubblico o privato, sia destinatario di contribuzioni in via ordinaria, o che l’ente pubblico abbia dall’amministrazione statale un contributo al capitale (sono esplicitamente esclusi da questi tipi di controlli, gli enti locali, le istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza, gli istituti di credito).
Il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro
Organo composto di “esperti e di rappresentanti delle categorie produttive”, come organo consultivo delle Camere e del governo, ha rappresentato un debole tentativo di recupero dell’esigenza di innestare nel circuito decisionale i rappresentanti delle diverse attività lavorative e imprenditoriali.
L'articolo 99 della costituzione determina non solo la composizione di quest'organo, ma anche le funzioni e le modalità con le quali esso può "contribuire all'elaborazione della legislazione economica e sociale". In realtà, le 2 leggi principali sussedutesi in materia l’hanno configurato in termini tra loro molto diversi, in particolare aumentandone le funzioni e riducendo i poteri che su quest’organo possono essere esercitati dal Governo. Il CNEL non è finora riuscito a svolgere un ruolo particolarmente significativo: è composto da 122 componenti, che restano in carica cinque anni; il presidente, nominato dal governo, 12 esperti (ovvero qualificati esponenti della cultura economica, sociale e giuridica) di cui 8 nominati dal presidente della Repubblica e quattro nominati dal governo, 99 rappresentanti delle categorie produttive di beni e servizi nei settori pubblico e privato (dei quali 44 rappresentanti dei lavoratori dipendenti, 18 rappresentanti dei lavoratori autonomi, 37 rappresentanti delle imprese, 10 rappresentanti del volontariato e dell'associazionismo sociale).
La legge 936/1986 sembra configurare il CNEL come un rilevante organo ausiliario, nei settori della politica economica e sociale, del Parlamento, del Governo e delle regioni, organi tutti che possono rivolgersi ad esso per chiedere studi ed indagini, ma che possono anche essere i destinatari di sue autonome osservazioni e proposte. Il CNEL viene riconosciuto un autonomo potere di iniziativa legislativa a livello nazionale.

CAPITOLO X: Principi in tema di attività amministrativa. (pag. 285 – 316)

L’ATTIVITÀ AMMINISTRATIVA
Fra i fini che lo Stato sociale si pone troviamo il buon andamento e l’efficienza degli apparati pubblici, intesa come rapporto fra risultati conseguiti e risorse impiegate, mentre per efficacia si intende il rapporto fra risultati conseguiti e obiettivi prestabiliti.
Attività amministrativa e principio di legalità
Nel nostro sistema costituzionale, l'attività degli organi amministrativi appare sottoposta sotto molteplici aspetti alla legge e può essere descritta come l'attività volta a conseguire i fini determinati dalle prescrizioni costituzionali e legislative, tant'è che la pubblica amministrazione può fare solo ciò che la legge le prescrive o le permette di fare. Risulta diverso affermare che la legge debba limitarsi a prevedere che l'amministrazione provveda in un determinato ambito (legalità in senso formale) o che, invece, essa debba anche determinare quanto meno le linee fondamentali entro cui l'amministrazione pubblica deve operare (legalità in senso sostanziale). In realtà manca in Costituzione una prescrizione generale di puntuale sottoposizione dell’azione amministrativa a vincoli legislativi sostanziali: ciò in conseguenza dell’estrema difficoltà di disciplinare analiticamente, con legge, ogni rapporto relativamente al quale si preveda l’intervento della pubblica amministrazione, ma anche per i vincoli innumerevoli e diffusi che ne deriverebbero all’attività amministrativa, anche in settori di minore rilevanza o nei quali appare indispensabile permettere un’ampia discrezionalità agli organi della pubblica amministrazione, in considerazione della varietà e della mutevolezza dei fattori che devono essere considerati e la cui valutazione può essere meglio operata in sede amministrativa.
La nostra costituzione prevede l'ipotesi di riserve di legge, che equivalgono alla prescrizione che la disciplina di quelle determinate materie possa essere posta solo dal legislatore o integralmente o, almeno, nelle sue linee generali. La soluzione del problema è legata alla diversa tutela costituzionale dei diversi interessi di gioco: ad esempio, l’azione amministrativa dovrà essere disciplinata per legge. Ma, al tempo stesso, in altri ambiti, non coperti da riserva di legge, sarà sufficiente che il legislatore determini i fini per la cui realizzazione dovrà operare la pubblica amministrazione, potendo, quindi, quest’ultima disporre di una discrezionalità anche molto ampia, seppure con l’utilizzazione di apparati, strumenti giuridici e mezzi finanziari disciplinati legalmente. D’altra parte, la tradizionale distinzione fra attività legislativa, libera nell’individuazione dei fini nell’adozione dello Stato, e attività amministrativa, libera solo nell’individuazione delle modalità mediante le quali realizzare i fini determinati tramite le leggi, appare esatta nelle sue linee di fondo, ma attualmente da correggere su entrambi i versati: da una parte, la rigidità costituzionale, almeno in alcune materie, vincola non poco la stessa libertà del legislatore, dall’altra, la politicità, connessa all’esercizio del potere di Governo delle varie amministrazioni, emerge con tutta evidenza dall’esame della notevole discrezionalità di tante scelte lasciate alle determinazioni da assumere in sede amministrativa. Di norma, la genericità delle prescrizioni legislative impone all’amministrazione, che voglia dar loro attuazione, di operare una serie di scelte ulteriori rispetto a quelle determinate dalla legge.
Gli atti amministrativi sono attribuiti alla competenza degli organi politici di vertice dei diversi sistemi amministrativi, a conferma della rilevanza della natura largamente discrezionale delle scelte che vengono in tal modo operate in attuazione, ma spesso anche a integrazione, più o meno accentuata, delle scelte operate dal legislatore.
Gli atti della pubblica amministrazione
L'attuazione della legge in via amministrativa consiste in attività o in atti fisici, i quali o costituiscono atti materiali della pubblica amministrazione o, più comunemente, atti formali posti in essere dalla pubblica amministrazione.
Dal punto di vista giuridico si conoscono, infatti, anche atti che consistono in veri e propri comportamenti o anche in fatti, ma certo più comune sono gli atti dotati di una forma tipica (per lo più consistenti in testi scritti), che meglio rispondono ad esigenze di conoscibilità e certezza.
Fra le tante distinzioni possibili degli atti amministrativi troviamo gli atti unilaterali di tipo autoritativo (posti in essere solo da gli organi della pubblica amministrazione), quelli privi di una particolare efficacia giuridica e quelli di diritto comune.
La prima categoria corrisponde agli atti che possono essere posti in essere solo dagli organi della pubblica amministrazione, dal momento che concretizzato il primato di determinati interessi generali sulle altre posizioni coinvolte (si pensi, ad es., a un’espropriazione, a una concessione, all’adozione di un piano urbanistico). Questi atti sono anche dotati di una particolare efficacia giuridica: ad es., essi non solo hanno sempre, al termine del loro procedimento di formazione, la particolare capacità di incidere sulla situazione giuridica di altri soggetti, senza dover essere da questi accettati (imperatività o autoritarietà), ma che spesso godono anche di una disciplina particolare nella fase della loro esecuzione. Su tutti gli altri interessi coinvolti, essi non possono non essere tipici, in quanto appositamente previsti come gli strumenti giuridici per conseguire quei determinati fini (a differenza di quanto avviene nel diritto privato, in cui domina il principio opposto della libertà dei contenuti degli atti, salvi i limiti posti dalla legge). L’amministrazione pubblica di tipo autoritario rappresenta oggi la caratteristica dominante nell’amministrazione italiana. Tale caratteristica, tuttavia, non è in astratto necessaria; non solo, ma attualmente essa risulta in parte erosa dall’espansione dell’area dei servizi pubblici e soprattutto da una crescente utilizzazione degli strumenti di diritto comune a opera delle amministrazioni pubbliche. Nell'ambito dei servizi pubblici, buona parte delle attività poste in essere dalla pubblica amministrazione consistono in attività di servizio verso gli utenti e in comportamenti del tutto omogenei a quelli prestati da un qualsiasi soggetto che svolga attività analoga e quindi non sono certo disciplinati legislativamente mediante una rigorosa tipizzazione dei singoli atti.
Ciò non toglie che norme di diritto amministrativo regolino le strutture organizzative entro cui queste attività vengono svolte e tutta una serie di modalità di prestazione del servizio, di modo che, in tali settori, convivono attività amministrative non tipizzate e non autoritative, con altre, invece, riconducibili all’altra categoria. La vera diversità radicale si ha allorché il legislatore permette che la pubblica amministrazione o per i mediante veri e propri strumenti giuridici di diritto privato, evidentemente ritenuti, in determinati contesti, più idonei per il buon adattamento amministrativo. In sede dottrinale si ritiene che lo Stato e gli enti pubblici dispongono di una generale capacità di diritto privato, ma le diverse legislazioni tendono a ridurre questa facoltà ad un’eccezione, cui ricorrere là dove, e nella misura, in cui, essa sia espressamente prevista. Anche in questo settore a porre in essere atti di diritto privato sia una pubblica amministrazione, ove si considerino gli atti preliminari alla stipulazione del contratto, perché qui vengono in rilievo tutte quelle norme che tendono a tutelare la legalità, il buon adattamento e l’imparzialità dell’amministrazione anche nell’utilizzabilità di questi strumenti giuridici.
La discrezionalità amministrativa
L'autorità amministrativa deve concretizzare la volontà legislativa, che rappresenta la sua fonte di legittimazione, e deve quindi attuare il fine indicato dalla legge (quindi per definizione fine pubblico), nel contesto reale nel quale è chiamata operare e nella considerazione di tutti gli interessi, in quel contesto, giuridicamente rilevanti.
Altri importantissimi limiti derivano dai principi che in materia di pubblica amministrazione stabilisce l’art. 97 Cost. e dalla stessa collocazione dell’amministrazione all’interno di uno Stato democratico e sociale. Di norma, all'amministrazione spetta determinare se e quando adottare l'atto, attraverso quali modalità, con quali eventuali contenuti più specifici.
La discrezionalità amministrativa è pressoché inesistente nei cosiddetti atti vincolati ma può essere massima negli atti della cosiddetta alta amministrazione. L'organo amministrativo deve quindi operare per il perseguimento del fine legislativo (il cosiddetto interesse pubblico primario), ma nel contesto reale in cui occorre operare e rispetto al quale deve ricercare, e correttamente valutare, anche nei cosiddetti interessi pubblici secondari, nonché gli stessi interessi privati legittimamente considerabili. Solo su questa base, l’autorità amministrativa potrà adottare l’atto, che quindi sarà il frutto di una valutazione ponderata di diversi interessi, pur nel perseguimento di quello primario; da ciò la conferma che l’attività amministrativa è, di regola, non un’attività soltanto tecnica, ma anche politico-amministrativa, sia pur svolta in attuazione e nel rispetto della legge. Delicato il rapporto fra uso illegittimo della discrezionalità e scelte proprie dell’amministrazione (merito amministrativo): le scelte legittime operabili dall’amministrazione rappresentano l’essenza del potere amministrativo.
Discrezionalità tecnica è caratterizzata dall’autorizzazione da parte di una amministrazione di un potere di scelta esercitato sulla base di valutazioni tecniche di tipo scientifico e che quindi sottrarrebbero ogni discrezionalità all’amministrazione che debba adottare un provvedimento in materia.
I procedimenti amministrativi
Lo studio dei procedimenti amministrativi mira a evidenziare i rapporti intercorrenti fra i diversi atti degli organi degli uffici pubblici al fine di svolgere l'attività amministrativa necessaria per produrre gli effetti giuridici voluti. Risulta, dunque, indispensabile la considerazione di tutte le diversi fasi, tra loro – seppur in misura diverse – interdipendenti, se è vero che, ad es., alcuni vizi delle fasi preliminari possono determinare un vizio dell’atto finale e la mancanza della sola fase integrativa dell’efficacia pone nel nulla tutto il precedente procedimento. L'atto della pubblica amministrazione è il prodotto di un'organizzazione e pertanto, in genere, rappresenta una fase intermedia o finale di un procedimento, in parte originato dalla competenza specifica dei diversi uffici e organi che vi intervengono e dovrà essere il prodotto di un giusto procedimento. In ogni procedimento si usano distinguere tre fasi principali, ovvero la preparatoria (per fornire gli elementi necessari per la decisione a partire dall'atto di iniziativa). È indispensabile l’atto di iniziativa, che può essere della stessa amministrazione (procedimento d’ufficio), di una parte privata interessata (procedimento ad istanza di parte), o di un altro organo o soggetto pubblico (procedimento ad istanza pubblica); su questa base l’amministrazione inizia il procedimento e si apre l’importantissima sottofase istruttoria, nella quale gli organi amministrativi competenti raccolgono tutte le informazioni che reputano necessarie, avvalendosi anche di altri organi pubblici o soggetti privati per il recepimento della documentazione o per l’acquisizione delle opinioni di esperti o interessati; è in questa fase che si realizza, nei casi previsti dalla legge, il principio del contraddittorio fra soggetti interessati e amministrazione, mediante udienze pubbliche, presentazione di osservazioni o anche di opposizioni. Segue la sottofase della raccolta dei pareri di appositi organi amministrativi, dotati di particolari competenze tecnico scientifiche o, alcune volte, anche rappresentativi degli interessi coinvolti: qui si distinguono i pareri facoltativi, che l’amministrazione può ritenere opportuno richiedere, da quelli obbligatori per legge o regolamento e dai pareri vincolanti, che, invece, non solo devono essere necessariamente richiesti, ma vincolano l’amministrazione a seguirne il contenuto, salvo solo la possibilità di non adottare l’atto.
La costitutiva (così importante fase deliberativa che può essere semplice o complessa in base all'organo che si occupa di compierla). La fase deliberativa è semplice se l’adozione dell’atto è di competenza di un organo monocratico o anche di un organo collegiale (in questo caso occorrerà rispettare le norme prescritte per la validità delle deliberazioni). Se nella fase deliberativa, debbano intervenire più organi, si ha la formazione di un atto complesso: atti complessi uguali, nei quali le volontà di adottare l’atto da parte di tutti gli organi sono egualmente essenziali (si pensi ai decreti interministeriali o agli atti che devono essere adottati d’intesa fra gli organi), complessi diseguali, nei quali si distingue un organo titolare del potere deliberativo da altri organi la cui volontà può solo condizionare il contenuto dell’atto.
L'integrativa dell'efficacia dell'atto deliberato (il modo in cui gli atti producono effetti giuridici). Diverse sono le forme e le modalità del controllo sugli atti amministrativi: il controllo può essere generalizzato o ristretto a certe categorie di atti o operato a campione; di norma viene svolto in una fase preventiva all’efficacia dell’atto, ma possono darsi casi in cui interviene successivamente. Negli ultimi anni, possono anche essere previste ipotesi di controllo sostitutivo, mediante il quale l’organo di controllo può adottare un atto che l’organo e ente, tenuto a deliberarlo entro termini determinati, non abbia di fatto adottato. Per e ipotesi nelle quali l’organo di controllo dispone del potere di sindacare anche l’opportunità degli atti (controllo di merito), potendo quindi in tal modo giungere ad imporre la stessa riforma dell’atto: questi casi, a ben vedere, sono spiegabili come forme anomale di intervento nella fase deliberativa. Inoltre, normalmente, l’efficacia del provvedimento è subordinata, a tutela dell’essenziale valore della conoscenza, anche alla sua comunicazione o alla notificazione ai diretti interessati, o almeno a forme di pubblicità legali.
Al termine delle varie fasi del procedimento, si ha quindi un atto non solo perfetto, ma anche efficace. La validità dell'atto dipende dalla sua conformità alle diverse prescrizioni normative che ne stabiliscono i requisiti sostanziali e procedimentali e su di essa potranno eventualmente, in seguito, essere chiamati in causa la stessa amministrazione pubblica o gli organi giurisdizionali, mentre temporaneamente l’atto continuerà ad essere efficace. Dopo molti dibattiti e con grande ritardo rispetto ad alcune esperienze straniere, si è giunti all’adozione dell’importante legge 241/1990, relativa a “nuove norme in materia in procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi”, successivamente in parte modificata ed integrata dalla legge 15/2005, che ha introdotto disposizioni relative all’attività amministrativa.
GLI ATTI AMMINISTRATIVI
Atti e provvedimenti amministrativi
Fra gli atti amministrativi si opera una distinzione fra i meri atti amministrativi o atti amministrativi in senso stretto e i provvedimenti amministrativi: solo questi ultimi rappresentano infatti la manifestazione di volontà di una pubblica amministrazione diretta a soddisfare un interesse pubblico primario e pertanto sono assistiti dalla capacità di incidere, in modo unilaterale, sulle posizioni giuridiche coinvolte. Nel linguaggio giuridico corrente, si usa l'espressione atti amministrativi in un'accezione generica, riferendosi quindi anche ai provvedimenti amministrativi. I meri atti amministrativi corrispondono a momenti interni alle fasi del procedimento, o in mere dichiarazioni di conoscenza, espresse sulla base della documentazione esistente presso l’amministrazione (es. certificazioni), e quindi estranei al particolare regime giuridico previsto per gli atti dotati di imperatività.
Particolare efficacia dei provvedimenti amministrativi
Più volte ci si è riferiti all’imperatività o autoritarietà dei provvedimenti amministrativi, come alla tipica capacità del provvedimento amministrativo di incidere, in via unilaterale, sulla situazione giuridica del soggetto destinatario dell’atto, con conseguenze che si producono, non appena il provvedimento sia divenuto efficace.
I provvedimenti godono di esecutività e cioè dell'idoneità di poter immediatamente giungere alla fase della loro esecuzione, ove necessaria, consistente nella capacità di produrre i loro effetti sui destinatari, senza necessità di alcun intervento dell'autorità giudiziaria che ne confermi la legittimità. L’esecutorietà riguarda la fase dell'esecuzione forzata della pretesa dell'amministrazione, contro la volontà del soggetto coinvolto, senza che ciò dipenda dall'intervento, come del diritto privato, di un apposito giudice preposto all'esecuzione.
La radicale compressione delle situazioni soggettive che così si realizza, richiede che le pubbliche amministrazioni possono imporre coattivamente l’adempimento degli obblighi nei loro confronti solo nei casi e con le modalità stabilite dalle leggi e che il provvedimento costitutivo di obblighi debba indicare “il termine e le modalità dell’esecuzione da parte del soggetto obbligato”.
Con l'inoppugnabilità ci si riferisce al fatto che numerose disposizioni di legge restringono i termini entro i quali provvedimenti amministrativi possono essere impugnati dinanzi agli organi della giustizia amministrativa. Tutto ciò ha il fine evidente di consolidare gli esiti dell’attività amministrativa, evitando il prolungarsi di dannose incertezze e il rischio di annullamenti che possono essere presupposto per ulteriori annullamenti, ma con la possibile conseguenza che continuino a rimanere efficaci provvedimenti amministrativi illegittimi.
Elementi degli atti amministrativi
Il soggetto del provvedimento corrisponde all'organo titolare del potere amministrativo che viene esercitato ed è individuato dalla legge; le competenze fra i vari organi dell'apparato amministrativo vengono individuate per materia, per territorio o per grado. Per oggetto del provvedimento può intendersi la persona, la cosa o la situazione giuridica su cui si producono gli effetti dell'atto: è necessario che l'oggetto sia determinabile e idoneo a subire gli effetti del provvedimento. Si parla di una competenza per materia per individuare, all’interno di una organizzazione complessa, l’organo amministrativo competente; di una competenza per territorio per individuare la competenza fra organi centrali e periferici o fra diversi enti o organi a competenza locale; di una  competenza per grado, per individuare l’organo titolare del potere all’interno di una struttura gerarchizzata.
Per oggetto del provvedimento può intendersi la persona, la cosa o la situazione giuridica su cui si producono gli effetti dell’atto: è necessario che l’oggetto sia determinabile e idoneo a subire gli effetti del provvedimento.   Con causa giuridica del provvedimento ci si riferisce all'interesse pubblico primario che la legge ha voluto tutelare ed è accompagnata da un'apposita motivazione, nella quale si indicano le ragioni che hanno portato all'adozione del provvedimento.
Adesso l’art. 3.1 della legge 241/1990, prescrive in generale che “ogni provvedimento amministrativo deve essere motivato. La motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria”. Gli unici atti per quali non è richiesta la motivazione sono “gli atti normativi e quelli a contenuto generale”. Ciò si riferisce ai provvedimenti adottati in forma scritta, ma ciò non esclude che possono esservi anche provvedimenti consistenti in comportamenti di organi amministrativi e che, nei casi previsti dalla legge, il silenzio dell’amministrazione abbia effetti di tipo provvedimentale.
Le legislazione ormai prevede che l’attività dell’amministrazione possa equivalere all’accoglimento delle richieste ad essa avanzate (silenzio-accoglimento o silenzio-assenso).
In altri casi, invece, la legge attribuisce effetti, in varia misura negativi, al prolungato silenzio dell’amministrazione: sul piano processuale, si parla di silenzio-rigetto; sul piano sostanziale, vi sono non pochi casi di vero e proprio silenzio-diniego e altri nei quali si può giungere al silenzio-rifiuto nell’ipotesi in cui l’amministrazione non provveda, come sarebbe doveroso, e decorra un determinato periodo di tempo dalla diffida a provvedere dell’interessato.
La forma del provvedimento amministrativo appare un elemento particolarmente rilevante sia perché attraverso essa si documenta la conformità dell’atto alle prescrizioni legislative di tipo procedimentali e sia perché si consegue in tal modo il risultato di far dichiarare all’amministrazione quale sia il tipo di provvedimento che intende porre in essere.
Ci si chiede se sia ammissibile apporre elementi accidentali, come la condizione, in termine, il modo, ad un provvedimento amministrativo: la risposta non può che dipendere dalle previsioni legali,che, in alcuni casi consentono in modo esplicito (si pensi ad una serie di concessioni di servizi o di beni pubblici), o anche in modo implicito.

Alcune innovazioni introdotte dalla legge 241/1990 sulle modalità di esercizio dell’attività amministrativa
Anzitutto, questa legge stabilisce, all’art.1, che le sue disposizioni abbiano portata generale, facendo salve solo quelle speciali disposizioni legislative che disciplinano specifici procedimenti; inoltre, essa stabilisce che l’amministrazione non possa aggravare il procedimento, salvo che “per straordinarie e motivate esigenze imposte dallo svolgimento dell’istruttoria”.
L'articolo 2 della suddetta legge stabilisce che, ove il procedimento debba essere iniziato d'ufficio o su istanza di parte, esso deve essere concluso entro i termini fissati per legge, per regolamento o per un apposito atto dell'amministrazione interessata, altrimenti la legge fissa il breve termine di trenta giorni. Nella stessa direzione vanno tutte quelle numerose disposizioni che impongono larghe forme di pubblicità riguardo il termine entro il quale il procedimento deve terminare e la persona fisica responsabile. Al tempo stesso, si accresce notevolmente l’area dei soggetti che la legge ritiene titolari di un potere di intervento nel procedimento.
L'articolo 7, in tema di potere di intervento del procedimento, equipara ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinata a produrre effetti diretti e a quelli che per legge posso intervenirvi anche i soggetti individuabili a cui possa derivare un pregiudizio da provvedimenti in formazione ( a tutti questi deve essere data comunicazione personale dell’avvio procedimento, salvo che ciò sia impedito “da particolari esigenze di celerità” dello stesso; a questo riguardo, l’amministrazione può adottare anche provvedimenti cautelari).
Inoltre, l’art.9 prevede la facoltà d’intervenire nel procedimento non solo per “qualunque soggetto, portatore d’interessi pubblici o privati”, ma anche per i “portatori d’interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati”. Ciò è importante, in quanto l’intervento nel procedimento non dà solo il diritto di prendere visione degli atti del medesimo, ma anche di “presentare memorie scritte e documenti, che l’amministrazione ha l’obbligo di valutare ove siano pertinenti”; questi interventi, inoltre, possono originare appositi accordi dell’amministrazione con gli interessati “al fine di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale ovvero, nei casi previsti dalla legge, in sostituzione di questo”.
In ogni amministrazione viene individuato un'unità organizzativa responsabile del procedimento. Ed eventualmente anche l’adozione del provvedimento finale, nonché lo stesso funzionario responsabile e questi dispone di tutti i poteri per assicurare il regolare svolgimento e la conclusione del procedimento o, almeno, della fase istruttoria. Si prevede, ancora, che “qualora sia opportuno effettuare un esame contestuale di vari interessi pubblici coinvolti in un procedimento amministrativo”, o quando si debbano “acquisire intese, concerti, nella osta o assensi comunque denominati di altre amministrazioni pubbliche”, ciò possa avvenire attraverso le deliberazioni di un’apposita conferenza di servizi fra tutte le amministrazioni interessate, con la possibilità, in certi casi, di superare situazioni di inerzia o di dissenso che ritardano o impediscono il procedimento.
Alcuni tipi di provvedimenti amministrativi
Una delle distinzioni più comuni operate tra le diverse categorie di provvedimenti attiene al loro contenuto, vi possono essere provvedimenti ampliativi o provvedimenti restrittivi. Fra i primi abbiamo, le autorizzazioni (o abilitazioni, licenze, permessi) corrispondono alla rimozione di un ostacolo da parte della pubblica amministrazione all'esercizio di un diritto o di un potere di cui sono titolari un soggetto privato o un ente o un organo pubblico; le concessioni consistono in provvedimenti mediante i quali la pubblica amministrazione attribuisce ad altri l'esercizio di un suo diritto o potere (concessione traslativa) o una situazione giuridica positiva appositamente creata (concessione costitutiva). Simili alle concessioni sono le sovvenzioni consistenti nell'attribuzione di contributi in denaro o in beni; le rinunce (dette anche esenzioni, esoneri, deroghe) consistono in provvedimenti mediante i quali la pubblica amministrazione rinuncia ad una sua precedente pretesa.
Le ammissioni consistono in provvedimenti amministrativi che permettono a soggetti in possesso di determinati requisiti, di accedere ad un certo status, di utilizzare un servizio pubblico, di esercitare determinate attività lavorative. Fra i provvedimenti restrittivi abbiamo, le revoche consistono semplicemente in provvedimenti che fanno venir meno i provvedimenti precedentemente adottati; gli ordini e i divieti valgono a specificare prescrizioni genericamente contenute nella legge e comportano, a carico dei trasgressori, possibili conseguenze di ordine disciplinare, amministrativo o penale; i provvedimenti sanzionatori producono, a carico di coloro che per l’amministrazione abbiano violato determinate prescrizioni, modifiche negative nello status professionale o nel rapporto di servizio (si pensi alle sanzioni disciplinari), nella sfera patrimoniale (si pensi alle sanzioni pecuniarie o alla codifica dei beni) o nella sfera giuridica (si pensi a decadenze o revoche di provvedimenti amministrativi favorevoli).
Le requisizioni riguardano beni mobili o immobili che possono essere prese in uso dalla pubblica amministrazione; l'espropriazione per pubblica utilità riguarda il trasferimento coattivo alla pubblica amministrazione della proprietà di beni immobili in cambio del pagamento a colui che era il proprietario di un indennizzo. Le occupazioni di beni immobili si distinguono in quelle finalizzate ad un uso temporaneo e quelle finalizzate all'esecuzione di opere pubbliche in situazioni di assoluta distanza.
Un’altra disposizione di una certa utilità fra i provvedimenti amministrativi è quella che fa riferimento al numero e alla identificabilità dei destinatari: si parla, così, di atti indirizzati ad un unico destinatario, ma anche di provvedimenti plurimi, allorché gli atti contengono determinazioni, tra loro distinte, riferite ad una pluralità di soggetti, di provvedimenti collettivi, allorché gli atti si riferiscono in modo unitario a tutti i componenti di un gruppo, di provvedimenti generali, allorché gli atti si riferiscono ad una pluralità indeterminata di destinatari, persone o beni che siano (si pensi ad un bando di concorso, ad un piano regolatore, ad un ordine amministrativo generale).
Atti normativi, di direzione, di indirizzo, di coordinamento, di programmazione
È antica prerogativa dei vertici delle diverse amministrazioni quella di essere titolari di un potere normativo di tipo secondario. Altrove facciamo specifico riferimento al potere regolamentare del Governo e dei singoli ministri, a quello delle regioni, al potere normativo degli enti locali. Attraverso tutti questi atti, pur tra loro differenziati e in parte collocati diversamente nel sistema delle fonti, gli organi titolari del relativo potere normativo compiono rilevanti scelte sul piano organizzativo e funzionale, negli spazi lasciati liberi dalle leggi, e vincolano giuridicamente il successivo operato delle pubbliche amministrazioni. Al di sotto delle fonti normative secondarie, si entra nell’ambito, ricco di tante diverse e mutevoli tipologie, spesso neppure formalizzate, degli atti mediante i quali i diversi organi di vertice dirigono le rispettive amministrazioni.
Il potere direttivo tende sempre più ad esprimersi attraverso atti dotati di relativa generalità, che dovranno essere rispettati dagli uffici e dagli organi pubblici, proprio sulla base del tipo di rapporto gerarchico esistente e dello stesso contenuto di questi atti. Il problema è ovviamente tanto più complesso ove l’atto si riferisca non solo a organi della medesima amministrazione, ma ad altri, più o meno dotati di autonomia: in questo caso, spesso, ma non sempre,il problema è risolto dal legislatore che, nel disciplinare alcuni tipi di questi atti, ne determina forma ed efficacia. Senza pretesa di esaustività; se ne elencano alcuni fra quelli oggi più comunemente utilizzati.
Fra le direttive (o atti di indirizzo) occorre distinguere quelle interorganiche da quelle intersoggettive, a seconda che si riferiscono o meno solo ad organi appartenenti all'amministrazione dal cui vertice viene adottata la direttiva. L’unico punto sicuro circa quelle interorganiche è che non equivalgono a un ordine, dal momento che lasciano al destinatario una discrezionalità operativa.
Particolarmente ampia è la previsione dei poteri direttivi del presidente del consiglio e molto importanti sono le “direttive generali per l’azione amministrativa e per la gestione”, adottate dai ministri per concretizzare i loro poteri di indirizzo politico-amministrativo sulle strutture ministeriali e sulle agenzie.
Per le direttive intersoggettive, occorre distinguere fra quella relativa gli enti pubblici strumentali, che tendono ad essere assimilato a quelle interorganiche e quelle relative ai rapporti fra enti dotati di reciproca autonomia, poiché in questo settore appare decisivo il rapporto deducibile dal sistema costituzionale per legittimare il tipo di vincolo che questi atti possono avere.
I programmi o i piani corrispondono ad un'esigenza molto avvertita dall'amministrazione pubblica contemporanea di ricercare momenti di prederminazione delle linee generali dell'azione amministrativa in interi settori. Questa prefigurazione sulla successiva attività è, in genere, conseguita attraverso complessi procedimenti che vedono la partecipazione di tutti, o di molti, diversi portatori d’interessi, pubblici e privati, e produce, di regola, la definizione di obiettivi e programmi, nei quali solo alcune predeterminanti sono rigide, mentre altre sono flessibili e adattabili; parallelamente, si prevedono verifiche per valutare i risultata conseguiti.
Le istruzioni, o circolari, o normali, corrispondono alla trasmissione di istruzioni e/o direttive agli uffici ed agli organi, al fine di assicurare l'omogenea applicazione delle diverse disposizioni. Strumento mediante il quale un’autorità amministrativa trasmette ad altre una qualsiasi comunicazione scritta (lettera circolare).
Cause di invalidità dei provvedimenti amministrativi
Le particolari caratteristiche di provvedimenti amministrativi sono alla base anche delle loro possibili cause di invalidità. La nullità o inesistenza del provvedimento amministrativo deriva dalla carenza delle condizioni minime necessarie per poterlo ritenere esistente, si parla di mancanza assoluta di uno di elementi essenziali. I casi di mera irregolarità attengono alla presenza di quelle anomalie del provvedimento che vengono ritenute sanabili. In nome dell’interesse alla conversazione dell’atto amministrativo, e che quindi non vengono considerate sufficienti a costituire una causa di annullamento.
Per ciò che riguarda i vizi di legittimità ci si continua a risalire alla tripartizione della incompetenza, dell'eccesso di potere e della violazione di legge, con l'avvertenza che attraverso il sindacato su questi vizi, devono essere sanzionate tutte le cause di possibile di legittimità dei provvedimenti amministrativi. Con il vizio dell'incompetenza, ci si riferisce alla classica carenza del provvedimento sotto il profilo soggettivo. L'incompetenza assoluta porta alla nullità dell'atto, si ha non solo quando l'organo amministrativo esercita un potere appartenente ad un'autorità non amministrativa, ma anche quando esercita un potere di un organo appartenente ad un altro apparato amministrativo, mentre la incompetenza relativa si verifica quando il potere esercitato appartiene ad altro organo del medesimo apparato amministrativo. Per eccesso di potere si intende un vizio di sviamento di potere, che mira a colpire l'abuso sostanziale del potere di cui dispone l'organo che adotta all'atto.
L’organo preposto a verificare la legittimità pel provvedimento amministrativo non può fermarsi al controllo meramente esteriore nella deliberazione, se vi sono elementi dai quali sia lecito dedurre che l’organo amministrativo ha utilizzato il potere, conferitogli per determinati fini, per perseguire, in realtà, altri. L’elaborazione giurisprudenziale ha così individuato tutta una serie di fattispecie, cosiddette sintomatiche, dell’eccesso di potere, di cui, qui, si enumerano le più note: contraddittorietà fra motivazione e dispositivo; fra provvedimenti; fra provvedimento finale e atti del relativo provvedimento; violazione immotivata di circolari amministrative, di istruzioni di servizio, di prassi amministrative; insufficienza, contraddittorietà, perplessità della motivazione; travisamento o falsa supposizione dei fatti; disparità di trattamento, ingiustizia grave e manifesta.
Appare abbastanza evidente il rischio che, almeno in alcune di queste figure sintomatiche, sia difficile distinguere i profili attinenti alla legittimità da quelli relativi alla valutazione del merito delle scelte amministrative, che, di norma, sono sottratte all’esame di organi di tipo giurisdizionale. Il vizio di violazione di legge svolge una funzione di tipo residuale rispetto agli altri vizi di legittimità.
L’autotutela
L'autotutela costituisce un potere amministrativo della pubblica amministrazione, e mediante il quale essa può eliminare o ridurre i conflitti, reali o potenziali, che possono sorgere in relazione ai suoi atti illegittimi od inopportuni, provvedendo direttamente ad annullarli, sanarli o modificarli. Non è un potere finalizzato astrattamente alla tutela della legalità o della efficacia dell’azione amministrativa, ma un potere discrezionale finalizzato all’eliminazione delle lesioni a pubblici interessi che un provvedimento viziato, sul piano della legittimità o del merito, può produrre, in indeterminato contesto.
La titolarità del potere è riconosciuta oltre che all'organo che ha adottato l'atto, a quelli gerarchicamente superiori. L'istituto che mira a salvare, con efficacia ex tunc, una deliberazione affetta da un vizio sanabile è la sanatoria: si parla di ratifica nel caso in cui l'organo competente faccia propria una delibera affetta da incompetenza relativa; di convalida, nel caso in cui si completi un elemento parzialmente mancante nella delibera; di conversione allorché si possa sostituire ad un provvedimento illegittimo un altro, di cui sussistano tutti gli elementi necessari. L'annullamento d'ufficio consiste nell'eliminazione di un provvedimento illegittimo.
Con efficacia ex tunc, sulla base di una valutazione di tipo discrezionale, che evidenzi un interesse pubblico attuale e specifico dell’amministrazione; in questa valutazione si potrà tener conto anche del periodo di tempo, più o meno lungo, trascorso dal momento dell’adozione della deliberazione annullabile. Di questo potere di annullamento non è titolare solo l'organo che ha adottato l'atto e l'autorità gerarchicamente superiore ma anche il Governo che continua a disporre del potere, a tutele dell’unità dell’ordinamento “di annullamento straordinario degli atti amministrativi illegittimi adottati da tutte le diverse amministrazioni pubbliche” (salvo le sole amministrazioni delle regioni e delle province autonome).
La revoca, è invece, un istituto mediante il quale l'amministrazione pubblica produce la cessazione del futuro degli effetti di un provvedimento amministrativo ad efficacia continuativa, il quale, opportuno e legittimo al momento della sua adozione, sia successivamente divenuto inopportuno o illegittimo a causa dei mutamenti intervenuti.
LE FORME DI TUTELA CONTRO L’ATTIVITA’ AMMINISTRATIVA ILLEGITTIMA
I ricorsi amministrativi
Con i ricorsi amministrativi, i soggetti che si ritengono danneggiati da una deliberazione amministrativa chiedono che l'amministrazione inizi un apposito procedimento per riesaminare la legittimità o l'opportunità di quella di liberazione. L’amministrazione a cui si è ricorsi è tenuta a provvedere, secondo le norme che  disciplinano in forme giustiziali questi particolari procedimenti amministrativi. L’amministrazione che deve decidere il ricorso opera in una posizione di terzietà, specialmente là dove deve giudicare della legittimità delle deliberazioni, pur restando un’autorità amministrativa, in alcuni casi chiamata a riformare nel merito la deliberazione ritenuta inopportuna. I ricorsi amministrativi sono attualmente divenuti uno strumento di tutela secondaria, sia per l’eliminazione, in attuazione dei principi dell’art. 113 Cost., dell’obbligo della loro utilizzazione prima del ricorso in via giurisdizionale, sia per la stessa diffusa articolazione del sistema amministrativo, che ha ridotto la presenza di un unitario modello gerarchico e, in certi casi, ha avuto come conseguenza la definizione di alcuni provvedimenti come definitivi e cioè in suscettibili di essere oggetto di un ricorso amministrativo per opposizione o tipo gerarchico.
Sulla base della disciplina attuale occorre distinguere i due ricorsi ordinari, consistenti nel ricorso gerarchico e nel ricorso in opposizione, dal ricorso straordinario al Presidente della Repubblica. Il ricorso gerarchico ha carattere generale mentre il ricorso in opposizione ha carattere speciale, essendo ammesso solo nei casi previsti dalla legge.
Comune ai due tipi di ricorso è il fatto di poter riguardare profili sia di legittimità che di merito, di essere facoltativi e non preclusivi dei ricorsi giurisdizionali, di essere esperibili in termini brevi (di regola trenta giorni) dalla data della notificazione o della comunicazione in via amministrativa dell’atto impugnato e da quando l’interessato ne abbia avuto piena conoscenza; inoltre, nel loro ambito, opera l’istituto del silenzio rigetto se, entro 90 giorni dalla data di presentazione del ricorso, non viene comunicata la decisione.
Il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica è un rimedio amministrativo di carattere generale, ma di sola legittimità esperibile solo nei riguardi dei provvedimenti definitivi; esso può essere proposto entro centoventi giorni. Ed è precluso dalla presentazione di un ricorso giurisdizionale sul medesimo atto. L’istruttoria è svolta dal “ministro competente”; il parere del consiglio di Stato vincola il contenuto della decisione, adottata ad un decreto del presidente della repubblica, su proposta del ministro competente; solo il consiglio dei ministri può deliberare di disattendere il parere espresso dal consiglio di Stato.
Il riparto della giurisdizione in materia amministrativa fra giudice ordinario e giudice amministrativo
In ogni ordinamento giuridico nel quale esista un diritto speciale per l'amministrazione pubblica, sorge il problema di come garantire un'efficace ed idoneo controllo di legittimità sugli atti amministrativi. Dal momento che occorre garantire non solo l’effettivo rispetto della normativa sostanziale, ma anche tutelare la speciale posizione dell’amministrazione, attraverso una disciplina processuale che di tale posizione tenga conto.
Nel nostro sistema la cognizione delle controversie in cui è parte la pubblica amministrazione è suddivisa fra la magistratura ordinaria, competente nei casi in cui si lamenti la lesione dei diritti soggettivi, e la magistratura amministrativa, competente nei casi in cui si lamenti la lesione "degli interessi legittimi". Il giudice amministrativo può annullare il provvedimento amministrativo, mentre il giudice ordinario può solo disapplicarlo nel caso concreto sottoposto a suo giudizio. Discrimine fondamentale nel riparto delle competenze giurisdizionale resta la distinzione fra diritto soggettivo ed interesse legittimo. Per diritto soggettivo si intende una situazione soggettiva di vantaggio riconosciuta dal legislatore come autonomamente degna di tutela nei riguardi sia dei privati che della pubblica amministrazione, mentre per interesse legittimo si intende quella situazione soggettiva di vantaggio riconosciuta dal legislatore come intimamente connessa ad una norma che garantisce in via primaria l'interesse generale. A colui che è leso nei suoi diritti soggettivi si garantisce la reintegrazione nella situazione originaria o almeno, il risarcimento dei danni; a colui che è leso nei suoi interessi legittimi si garantisce l'eliminazione dell'atto della pubblica amministrazione che ha operato la lesione.
Lasciando salvo, peraltro, un successivo esercizio del potere amministrativo in materia, che dovrà certo adeguarsi ai canoni di legalità indicati dal giudice per il miglior perseguimento dell’interesse pubblico. Solo di recente si è giunta ad ammettere che il giudice amministrativo posa giudicare anche sul riconoscimento da danno. Di conoscenza, spesso emerge una rilevante difficoltà a individuare in concreto l’una o l’altra situazione soggettiva: per risolvere questo problema, la giurisprudenza utilizza il criterio del grado maggiore o minore di vincolatezza dei poteri dell’amministrazione nelle specifiche fattispecie e, più in generale, tende a ricostruire le singole fattispecie sulla base dell’esistenza o meno, nelle singole materie, di una posizione di supremazia della pubblica amministrazione sulle situazioni soggettive interessate dalla sua azione. Arbitra, in ultima istanza, della definizione di questo delicato confine è di norma la corte di cassazione, giudice in tema dei conflitti, reali o virtuali, di giurisdizionale che sorgano fra giudici ordinari e amministrativi.
Al di là degli interessi legittimi, rilevano le posizioni soggettive qualificate come interessi collettivi e interessi diffusi. Gli interessi collettivi, ossia gli interessi propri degli appartenenti ad un gruppo delimitato vengono fatti valere solo tramite i loro organismi esponenziali.
Gli interessi diffusi ossia gli interessi dell'intera comunità hanno suscitato molti problemi in sede giurisprudenziale. Poiché raramente è stata ammessa la legittimazione a stare in giudizio di associazioni o organismi che si dichiarano portatori di tali interessi;peraltro il legislatore sembra aver assunto una posizione più aperta, disciplinando spesso ipotesi del generale.
Alcune caratteristiche del giudizio amministrativo
Al momento attuale gli organi della giurisdizione amministrativa ordinaria (quelli speciali sono la Corte dei conti ed il Tribunale superiore delle acque pubbliche) sono i Tribunali amministrativi regionali (TAR) ed il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, che svolge le funzioni di giudice di appello. La fondamentale funzione giurisdizionale dei TAR e del Consiglio di Stato è la giurisdizione generale di legittimità sugli atti amministrativi della pubblica amministrazione, con il potere di annullarli ove venga accertata l'illegittimità.
Ma senza la possibilità di procedere all’esercizio del potere amministrativo che pur risulti necessario a seguito della sentenza adottata: salvo poche eccezioni stabilite dal legislatore, starà all’amministrazione dare attuazione alla sentenza o comunque provvedere in coerenza ad essa. Solo nel caso che si constati il mancato adempimento da parte dell'amministrazione, gli interessati possono ricorrere ai giudici amministrativi per ottenere, tramite un nuovo giudizio (il cosiddetto giudizio di ottemperanza), "l'adempimento dell'obbligo dell'autorità amministrativa di conformarsi al giudicato" sia della autorità giudiziaria ordinaria che del giudice amministrativo (spesso, in questi casi, l’autorità giudiziaria nomina un apposito commissario ad acta, per adottare gli atti necessari in sostituzione dell’amministrazione).
Gli stessi organi giurisdizionali dispongono della giurisdizione di merito e cioè del potere di sindacare non solo la legittimità ma anche l'opportunità dei provvedimenti contro cui sia stato presentato un ricorso con la possibilità, in tale ipotesi, non solo di annullarli, ma anche di riformarli. Ben più importante è l'attribuzione agli organi della giurisdizione amministrativa della cosiddetta giurisdizione esclusiva nelle materie indicate dalla legge.
Viene qui in rilievo il fenomeno della difficoltà di distinguer fra le diverse situazioni soggettive, in determinate importanti materie, con la conseguenza di esporre la loro tutela all’incertezza circa l’individuazione del giudice competente e di accrescere la probabilità del formarsi di indirizzi giurisprudenziali difformi in relazione e situazioni tra loro fortemente collegate. Su questo versante, le materie elencate già nel testo unico delle leggi sul consiglio di Stato erano significative e fra questa emergeva, per la sua grande importanza, l’intera materia del pubblico impiego.
Appare molto significativa la crescente utilizzazione della giurisdizione esclusiva cui si riferisce l'art. 103.1 Cost.. nella giurisdizione amministrativa i ricorsi devono essere presentati entro i termini brevi: entro 60 giorni dalla notifica dell'atto, dalla sua piena conoscenza o dalla sua pubblicazione nell'albo.
Occorre notificare il ricorso all’organo che lo ha adottato e ai contrinteressati, condizione per depositare entro i successivi 30 giorni il ricorso al TAR soggetto legittimato a sollevare il ricorso è una qualsiasi persona fisica o giuridica che ritenga lesa da un provvedimento illegittimo dell’amministrazione, in un suo interesse legittimo o in un suo diritto soggettivo( nei casi di giurisdizione esclusa), e che possa dimostrare di avere un interesse concreto ed attuale all’accoglimento del ricorso. Quest’ultima condizione, soggetta ad una approfondita elaborazione in sede giurisprudenziale, conferma come questo processo non miri a ristabilire, in generale, la legalità dell’azione amministrativa, ma semplicemente a reintegrare la posizione soggettiva concretamente lesa di chi si faccia parte attiva. Ciò ha conseguenze ancora più vistose in relazione all’oggetto del giudizio: fermo restando che deve trattarsi di un provvedime4nto amministrativo sia sul piano soggettivo, che su quello oggettivo, la necessità che sussista nel ricorrere un interesse diretto ed attuale, rende non impugnabili molti atti amministrativi o perché non direttamente lesivi delle posizioni soggettive o perché fasi di un procedimento non ancora terminato o perché atti meramente interni, con la conseguenza dell’atto concretamente lesivo della situazione soggettiva.
Al ricorso presentato per l'annullamento di un provvedimento può accompagnarsi la richiesta in via di urgenza di una sospensione della sua esecuzione durante il periodo di svolgimento del processo allorché questa possa produrre "danni gravi ed irreparabili". Il provvedimento di sospensione provvisoria dell'esecuzione dell'atto impugnato presuppone una prima valutazione sulla sussistenza di un fondamento del ricorso principale. La sentenza è esecutiva ma impugnabile presso il Consiglio di Stato entro 60 giorni dalla data di notifica.
Il giudizio del consiglio di Stato è un vero e proprio giudizio di appello fra le parti originarie e l’amministrazione interessata e si conclude con una sentenza che conferma la sentenza appellata o la riforma, sostituendosi ad essa.
La giurisdizione dei giudici ordinari in materia amministrativa
Il giudice ordinario può intervenire solo incidentalmente e limitatamente agli effetti che un atto amministrativo, che si presume illegittimo, ha direttamente su un diritto soggettivo. Ove il magistrato ordinario ritenga il provvedimento illegittimo non può ne annullarlo, né modificarlo, ma semplicemente disapplicarlo nel caso che è sottoposto al suo giudizio. Al di là delle sentenze di mero accertamento, lo stesso suo essenziale potere di reintegrare la posizione soggettiva illecitamente danneggiata potrà portare ad una sentenza di condanna della pubblica amministrazione a risarcire i danni. Nei casi in cui il giudice ordinario è titolare di una giurisdizione esclusiva in una determinata materia, egli dispone di poteri di annullamento, di modifica, di sospensione, dei provvedimenti amministrativi.

CAPITOLO XI: Regioni ed enti locali. (pag. 317 - 370)

Il regionalismo e l’amministrazione locale nella costituzione del 1948
L'ordinamento regionale e locale sta profondamente cambiando in conseguenza di tre leggi costituzionali (1/1999, 2 e 3/2001), che hanno nel loro complesso modificato il titolo V della seconda parte della costituzione (risultano mutati o abrogati ben 18 dei venti articoli che lo componevano) ed alcune parti degli statuti speciali, ponendo quindi le premesse per molteplici interventi di attuazione. Peraltro molti provvedimenti attuativi di questa riforma non sono stati adottati e quindi continua a restare in vigore buona parte della legislazione precedente.
Nel testo costituzionale del 1948, le disposizioni costituzionali più espressive del mutamento intervenuto rispetto ai modelli precedenti di amministrazione locale possono essere individuati negli articoli 5 (principio dell'unità e indivisibilità della Repubblica, autonomia locale e decentramento amministrativo) e 114 (la Repubblica si riparte in regioni, province comuni).
In particolare, rimane nella Costituzione il modello di un’amministrazione locale in cui convivono e operano sul medesimo territorio più enti pubblici, a seconda del riparto tra loro delle diverse funzioni amministrative nelle differenziate materie. Ciò significa che esistono funzioni proprie dello Stato e altre delle regioni e degli enti locali e che quindi convivono sul medesimo territorio un’amministrazione statale decentrata e più amministrazioni pubbliche dipendenti dai diversi enti locali. Una seconda importante scelta consiste nel riconoscimento agli enti locali di autonomia che di autarchia. Con la prima si intende il riconoscimento agli enti locali del potere di determinare autonomamente, seppur nel rispetto dei limiti di legge, le loro regole di organizzazione e di azione. Con la seconda ci si riferisce al fatto che l’ente locale, per operare, adotta veri e propri provvedimenti amministrativi di tipo autoritativo, che non presentano alcuna diversità rispetto a quelli adottati dagli organi statali. Il riconoscimento del valore di un esercizio autonomo di significative funzioni di amministrazione pubblica a livello locale da parte di organi rappresentativi delle comunità locali risponde ad una maggiore adeguatezza dell’azione amministrativa ai problemi che è chiamata a risolvere. Da ciò il concetto di ente locale territoriale diverso da quello di ente pubblico locale, e cioè avente semplicemente una sfera di azione locale, ma non rappresentativo del corpo elettorale locale. Il problema se questi ultimi possono esercitare funzioni analoghe a quelle degli enti locali è stato risolto con la legge 59/1997 nel senso che, accanto agli enti locali territoriali, esistono enti pubblici locali dotati di autonomia funzionale (camere di commercio, università,ecc…), chiamati a esercitare alcune funzioni pubbliche. Pur con questi limiti, la netta volontà di riaffermare il valore dell’autonomia locale portò ad alcune scelte rilevanti: in primo luogo, l’art. 128 Cost. (ora abrogato) individua nelle “leggi generali della Repubblica” (e quindi in apposite e speciali leggi del Parlamento) le fonti abilitate a determinare i soli principi in tema di organizzazione di comuni e province, in modo da lasciar loro un sufficiente spazio normativo autonomo, nonché a definire le rispettive funzioni.
La creazione delle regioni, come enti le cui competenze sono costituzionalmente garantite, era concepita non in chiave concorrenziale con gli enti locali, ma, anzi, in vista di un loro auspicato rafforzamento. Infatti, gli enti locali mantenevano intatto il loro ruolo amministrativo, pur all'interno della materia di competenza delle regioni, e anzi queste ultime venivano esplicitamente impegnate dalle fonti costituzionali a delegare agli enti locali altre funzioni amministrative fra quelle che ad esse spettavano.
In terzo luogo, infine, gli artt. 125 e 130 Cost. (ora abrogati), nel disciplinare i controlli sugli atti di regioni ed enti locali, sottraevano questa funzione ai preesistenti organi statali e t5rasformavano radicalmente (fino a far scomparire) quel controllo di merito sulle delibere degli enti locali, in cui, in passato, si traduceva l’idea dell’appartenenza allo Stato, in ultime istanza, delle funzioni ad essi attribuite.
Le vicende successive, legate alla lenta e faticosa attuazione del disegno costituzionale, non solo hanno evidenziato ritardi culturali e sorde resistenze a tradurre in pratica un simile disegno di riforma istituzionale, ma hanno messo in luce anche una certa sommarietà ed ambiguità della disciplina costituzionale in materia.
Le maggiori innovazioni intervenute per attuare la disciplina costituzionale e le linee di fondo delle recenti modificazioni costituzionali
La stessa assemblea costituente approva gli statuti speciali di 4 o 5 regioni ad autonomia particolare (Sardegna, Sicilia, trentino-Alto Adige, valle d’Aosta), mentre per il Friuli Venezia Giulia si attendeva la soluzione del problema della definizione del confine orientale (solo nel 1963 verrà adottato il suo statuto). Rapidamente gli organi di queste 4 regioni vengono eletti ed esse iniziano a funzionare. Il parlamento eletto nel 1948, infatti, dimostra di non voler procedere in tempi brevi all’istituzione delle regioni ad autonomia ordinaria: mentre non si arriva all’elezione dei consigli regionali entro un anno dall’entrata in vigore della costituzione, divengono condizioni pregiudiziali al futuro svolgimento di queste elezioni l’approvazione di una serie di leggi.
Il lungo ritardo nell'elezione dei consigli delle regioni ad autonomia ordinaria ha provocato che le regioni ad autonomia particolare hanno finito per apparire enti del tutto atipici e quindi le loro funzioni, pur definite negli statuti speciali in modo particolarmente ampio, vennero non poco ridimensionate dall'azione degli organi dello Stato centrale.
E ciò non solo per le resistenze a modificare l’assetto amministrativo di settori così numerosi, ma anche per la necessità di mantenere apparati e politiche statali in quegli stessi settori, per tutta la parte residua del territorio nazionale. Inoltre, la ricostruzione del paese dopo il periodo bellico, la nascita di nuovi strumenti di intervento nell’economia e il notevole accrescimento delle funzioni e dei servizi pubblici, producono una forte espansione dell’amministrazione pubblica secondo moduli organizzativi di tipo accentrato, rispetto ai quali risulta anomala la presenza delle regioni ad autonomia particolare. Al tempo stesso, la legislazione attuativa delle disposizioni costituzionali relative alle diverse autonomie regionali risulta chiaramente ispirata alla volontà di restringere quanto previsto negli statuti speciali per le regioni ad autonomia particolare e nella costituzione per le regioni ad autonomia ordinaria. In particolare, le norme di attuazione degli statuti speciali trasferiscono alle regioni funzioni molto ridotte e condizionate. Sul versante delle regioni ad autonomia ordinaria, appaiono particolarmente significative molte disposizioni della legge 62/1953, che disciplinano con estrema analiticità i contenuti degli statuti di queste regioni e che subordinano alla previa adozione di apposite “leggi cornice”da parte del Parlamento, il futuro esercizio del potere legislativo regionale, in tutte.
Le materie ritenute più importanti a sua volta, la legislazione in materia di enti locali resta in sostanza quasi immutata rispetto all’ordinamento precostituzionale, corretto frettolosamente e solo in piccola parte. È solo con legislazione che precede e segue le elezioni, nel 1970, dei consigli delle regioni ad autonomia ordinaria, che tutta la situazione si rimette in movimento: anzitutto nella legge 281/1970 si sostituisce la discussa disposizione relativa alla necessità della previa esistenza delle leggi cornice con un’altra, che ammette la possibilità dell’esercizio della potestà legislativa regionale di tipo concorrente ove si rispettano i principi legislativi comunque deducibili dalle disposizioni vigenti.
Con la legge 1084/1970 in parte si abrogano ed in parte si dichiarano solo momentaneamente vigenti tutte quelle disposizioni, contenute nella legge 62/1953, che mirava ma condizionare le scelte statutarie delle regioni. La formazione, per la prima volta, nel sistema politico italiano, di uno schieramento di amministratori regionali e locali sufficientemente forte e unito nel rivendicare il ruolo non secondario delle regioni contribuisce a due importanti vicende istituzionali. In primo luogo, l'approvazione parlamentare degli statuti delle regioni ordinarie, adottati dei consigli regionali con contenuti in certa misura imprevisti e non poco innovativi. In secondo luogo la delega legislativa al governo per l'adozione degli atti necessari per il trasferimento alle regioni delle funzioni amministrative.
Né ciò basta, perché il parziale e modesto trasferimento di funzioni operato con gli undici decreti legislativi del 1972 viene giudicato tanto insoddisfacente anche a livello parlamentare, che già con la legge 382/1975 si prevede il completamento di questo processo di trasferimento delle funzioni amministrative dallo Stato delle regioni e agli enti locali. In questo contesto, se l’area dei settori di intervento delle regioni si espande in parte, al tempo stesso va affermandosi, quasi in funzione compensativa, una forte linea di riduzione del grado di autonomia riconosciuta alle regioni: mentre emerge in tutta la sua rilevanza la contrazione dell’autonomia regionale conseguente all’attività normativa della CEE, l’autonomia legislativa regionale viene ridotta ad opera delle norme di trasferimento e delle stesse leggi di principio adottate dal parlamento; al tempo stesso, si crea con legge un nuovo strumento di limitazione dell’autonomia regionale, rappresentato dal potere governativo di indirizzo e di coordinamento dell’attività amministrativa regionale; si costruisce un sistema di finanziamento delle regioni fortemente dipendente dalle determinazioni nazionali. In un settore molto importante anche per le regioni, le riforme hanno cominciato a concretizzarsi con la riforma della legislazione relativa agli enti locali tramite la legge 142/1990, che ha infine abrogato larga parte dei testi normativi del periodo liberale e di quello fascista che continuavano a disciplinare il settore.
I molti problemi irrisolti hanno determinato, nel clima degli anni '90 di ripensamento del complessivo modello costituzionale, una spinta a verificare se in materia regionale non fosse necessario introdurre modifiche alle disposizioni costituzionali. Alcune importanti novità sono state introdotte da tre importanti leggi ordinarie (59/1997, 127/1997, 191/1998), in parte di riforma e in parte di delega.
Le modifiche al titolo V della costituzione avvennero con la legge 1/1999, relativa alle regioni ad autonomia ordinaria, e con la legge 2/2001, relativa alle regioni ad autonomia speciale. Si è proceduto a introdurre l'elezione diretta dei presidenti regionali e l'elezione dei consiglieri regionali mediante un sistema elettorale di tipo proporzionale corretto da un significativo premio di maggioranza. Salva la possibilità delle regioni di disporre in modo difforme tramite i loro statuti e la loro legislazione elettorale. Infine, proprio al termine della XIII legislatura, che introduce molteplici e rilevanti novità nell’ordinamento e nelle funzioni delle regioni ad autonomia ordinaria, degli enti locali e, in parte, delle stesse regioni a statuto speciale.
La legge costituzionale 3/2001 è entrata in vigore nel novembre di quell'anno dopo lo svolgimento a esito favorevole del referendum popolare. Il nuovo articolo 114 stabilisce che "La Repubblica è costituita da comuni, province, città metropolitane, regioni e stato".
Poiché per la prima volta i diversi enti pubblici rappresentativi vengono posti, almeno apparentemente, in una posizione di parità, senza una gerarchizzazione fra i diversi livelli istituzionali. Anche nel nuovo titolo V si conferma la discussa distinzione fra regioni ad autonomia speciale e regioni ad autonomia ordinaria, disciplinate appunto dalla Costituzione. Una delle modifiche più rilevanti consiste nel netto superamento del precedente criterio di riparto delle competenze legislative fra Stato e regioni ad autonomia ordinaria, quale era configurato nel vecchio testo dell’art. 117 Cost.
Il nuovo articolo 117, che stabilisce le materie di competenza regionale, afferma che lo Stato mantiene una competenza esclusiva in diciassette materie o gruppi di materie, mentre in altre 19 materie o gruppi di materie si ha una legislazione concorrente fra Stato e regioni, nel senso che lo Stato mantiene il potere di determinazione di principi fondamentali; in tutte le residue materie spetta alle regioni la potestà legislativa.
Un altro tipo di potestà legislativa regionale concorrente era già stato previsto nel primo comma del nuovo art.123 Cost. in tema di sistema di elezione e di determinazione dei casi di ineleggibilità e di incompatibilità “del presidente e degli altri componenti della giunta regionale nonché dei consiglieri regionali”.
In questo ambito, le regioni dovranno anche cercare di dare attuazione al principio di rimuovere “ogni ostacolo  che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di acceso tra donne e uomini alle cariche elettive”.con questa riforma, sono quindi le regioni che dispongono in genere del potere legislativo e regolamentare, salvo che nelle materie di esclusiva competenza legislativa dello stato. Sotto altro profilo, il controllo statale sulle leggi regionali si limita ormai ai soli dubbi di legittimità costituzionale e diverse successivo, poiché il governo può ricorrere alla corte costituzionale solo dopo la pubblicazione della legge regionale, entro il termine di 60 giorni. Innovazioni significative si hanno anche sul versante dei rapporti con l’U.E. e con i soggetti esteri: si afferma, infatti, che tutte le regioni e le province autonome, nelle materie di loro competenza, partecipano alla fase ascendente relativa ad accordi internazionali ed a atti dell’U.E. nel rispetto di norme procedurali determinate da leggi statali; inoltre, ciascuna regione, sempre nelle materie di sua competenza, può “concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali interni ad altro Stato, nei casi e con le forme disciplinati da leggi dello stato”. Sul piano della titolarità e dell’esercizio delle funzioni amministrative, nel nuovo art. 118 si afferma, invia di principio, la loro tendenziale attribuzione ai comuni, “salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a province, città metropolitane, regioni e Stato, sulla base del principio di sussidiarità, differenziazione e adeguatezza”.a questo proposito, appare peraltro particolarmente complesso ricondurre a coerente unità quanto previsto nel nuovo titolo V proprio in riferimento ai poteri normativi chiamati a definire le funzioni degli enti locali: se il II comma dell’art. 117 enumera fra le competenze legislative esclusive dello Stato “ legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane”, la concreta determinazione di quali funzioni amministrative nelle diverse materie verranno attribuite ai vari enti locali spetterà al legislatore statale o regionale a seconda delle loro rispettive competenze legislative nei diversi settori.
Sempre nell’art. 118, si fa riferimento anche al principio di sussidiarità cosiddetta orizzontale, là dove si afferma che “Stato, regioni, città metropolitane, province e comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli o associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarità”.
Il nuovo art. 119 Cost. prevede che la legge statale debba garantire sia agli enti locali che alle regioni “autonomia finanziaria di entrata e di spesa”. Due le categorie fondamentali di finanziamento indicate, che nel loro complesso devono consentire “di finanziare integralmente le funzioni pubbliche” di questi enti: tributi propri e “compartecipazione al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio”; proventi derivanti da “un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante”. Nel nuovo titolo V vengono abrogate le precedenti disposizioni costituzionali che disciplinavano i controlli amministrativi sugli atti delle regioni e sugli atti degli enti locali, nonché quella che prevedeva l'istituzione del commissario di governo.
Nel II comma dell’art. 120, si disciplina un ampio potere sostitutivo del governo nazionale rispetto a regioni e enti locali “nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria oppure di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”. A ciò è da aggiungere che l’innovativa previsione nel V comma dell’art. 117 dei poteri regionali in tema di attuazione ed esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’unione europea è accompagnato dalla previsione che il legislatore nazionale determinerà anche m2le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza”. La riforma del titolo V ha stabilito che i regolamenti delle Camere possono prevedere la partecipazione alla commissione parlamentare bicamerale per le questioni regionali di rappresentanti regionali e locali, prevedendo che il parere negativo di questa ultima commissione, così integrata, sulle leggi cornice e sulle leggi in tema di finanza regionale e locale possa essere superato solo dal voto a maggioranza assunta delle assemblee parlamentari. Questa profonda riforma appare però largamente inattuata: nel corso di un’intera legislatura sono state adottate la legge 131/2003 (legge la loggia), che disciplina però solo parte dei nuovi istituti previsti, e la legge 165/2004, è mentre stata rimandata ad un lontano futuro l’elaborazione delle leggi necessarie per attuare il nuovo sistema di finanziamento di regioni e enti locali, per determinare i principi fondamentali nelle materie di (vecchia e nuova) competenza legislativa concorrente, per trasferire apparati e funzioni amministrative e regioni e enti locali.
Gli statuti delle Regioni ad autonomia speciale
Il regime giuridico fondamentale delle quindici ragioni ad autonomia ordinaria è contenuto nelle disposizioni del titolo V della seconda parte della costituzione; l'articolo 116 della costituzione riserva ad apposite leggi costituzionali l'adozione di statuti speciali che garantiscano forme e condizioni particolari di autonomia alla Sicilia, Sardegna, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Valle d'Aosta, denominate ragioni ad autonomia particolare, per rispecchiare i caratteri peculiari di ciascuna.
Sul piano giuridico l’autonomia di ciascuna delle regioni ad autonomia particolare è definita da una apposita legge costituzionale, denominata Statuto speciale e rispetto alla cui adozione e revisione, pertanto, la regione interessata non dispone sul piano formale che del proprio potere di iniziativa legislativa a livello nazionale. Inoltre, la disciplina degli statuti speciali appare alquanto più analitica delle corrispondenti disposizioni costituzionali relative ad autonomia ordinaria e contiene anche la previsione di speciali istituti attuativi, come le norme di attuazione che tendono a privilegiare il rapporto fra questi regioni e il governo.
Le disposizioni statutarie prevalgono su quelle costituzionali, salvo che vengano in gioco principi assolutamente fondamentali del patto costituzionale. Sono comuni a tutte le regioni le forme principali di partecipazione all'esercizio di funzioni statali: ciascun consiglio regionale dispone dell'iniziativa legislativa, delegati nominati dai consigli regionali partecipano all'elezione del presidente della Repubblica, cinque regioni possono chiedere che si svolgano i referendum di cui agli articoli 75 e 138 della costituzione, le regioni e le province autonome possono ricorrere alla corte costituzionale a tutela delle proprie competenze.
Sia in sede di giudizio di costituzionalità sulle leggi, che in sede di conflitto di attribuzione. Un’altra disposizione comune a tutte le regioni è quella contenuta nell’art. 132 Cost., secondo la quale la fusione di regioni esistenti o la creazione di nuove è possibile con un’apposita legge costituzionale, ma solo dopo un procedimento assai complesso e nel quale alcuni assensi appaiono indispensabili (richiesta da parte di consigli comunali “che rappresentino almeno un terzo delle popolazioni interessate”, apposito referendum approvato “dalla maggioranza delle popolazioni”, parere dei consigli regionali interessati).
Alcune disposizioni delle leggi costituzionali n°2 e 3 del 2001 sembrano emergere alcuni parziali avvicinamenti fra i 2 tipi di regioni: non solo la legge 2/2001 ha equiparato il sistema elettorale e la forma di governo provvisoria di tutte le regioni, e ha introdotto anche nelle regioni ad autonomia speciale una forma di autonomia statuaria interna, ma soprattutto la legge Cost.3/2001 espande notevolmente i poteri legislativi delle regioni ad autonomia ordinaria e in genere la loro autonomia, tanto da prevedersi all’art. 11 di questa legge che “sino all’adeguamento dei rispettivi statuti, le disposizioni della presente legge costituzionale si applicano anche alle regioni a statuto speciale a alle province autonome di Trento e di Bolzano per le parti in cui prevedono forme di autonomie più ampie rispetto a quelle già attribuite”. La previsione relativa alla rappresentanza in parlamento delle autonomie regionali e locali attraverso la possibile trasformazione della commissione bicamerale per le questioni regionali non distingue tra i diversi tipi di regione.
Ogni regione potrà adottare una speciale legge regionale, da provare a maggioranza assoluta, per determinare la forma di governo regionale, in analogia con quanto si prevede per gli statuti delle regioni ad autonomia ordinaria dalla legge 1/1999.
Questa particolare “legge statuaria” potrà essere sottoposta a previo referendum popolare su richiesta di frazioni di corpo elettorale o dei componenti del consiglio (ma questi ultimi solo se la delibera non ha conseguito la maggioranza dei 2/3) e sarà impugnabile in via preventiva dal governo entro 30 giorni dinanzi alla corte costituzionale per motivi di legittimità costituzionale. Anzitutto questi statuti regionali contengono una disciplina alquanto più analitica di quella prevista nel titolo V della Costituzione, giungendo a disciplinare anche istituti che, nell’ordinamento regionale ordinario, sono in sostanza rimessi ad altri atti normativi. Ciò ha permesso una più rapida entrata in funzione di queste regioni, ma ha molto irrigidito la disciplina del loro assetto istituzionale.per ridurre queste conseguenze negative, alcuni statuti prevedono la modificabilità delle disposizioni statuarie, in alcuni settori particolarmente bisognosi di frequenti aggiustamenti normativi (esempio il settore delle modalità del finanziamento delle attività regionali), mediante semplici leggi del parlamento, previa intesa o comunque partecipazione della regione interessata (si avrebbero così casi di decostituzionalizzazione di alcune disposizioni degli statuti speciali).
Tutti gli statuti speciali prevedono che le rispettive norme di attuazione siano poste in essere dal governo mediante speciali decreti legislativi. Ci si trova dinanzi all'unico, e alquanto discutibile, caso di vera e propria attribuzione in via esclusiva al governo di un potere normativo primario, per di più in un settore di grande importanza e senza nemmeno una precisa determinazione delle possibili materie disciplinabili.
È pur vero che il governo può esercitare il suo potere solo dopo aver ottenuto il parere di un’apposita commissione paritetica, formata da esperti designati dal governo e dalle regioni o province interessate, ma resta il fatto che, al di là dell’opportuna partecipazione dei rappresentanti locali al processo di elaborazione di questa norme, il governo dispone pur sempre di una posizione di supremazia nella commissione e non è comunque tenuto ad adottare tali norme. A ciò si aggiunge che da questo procedimento resta tagliato fuori il paramento. Il più evidente elemento distintivo fra le regioni ad autonomia particolare e tutte le altre, consisteva nella maggiore estensione dell’elenco delle materie di competenza legislativa ed amministrativa di queste regioni, che è contenuto nei rispettivi statuti. Ormai numerose sentenze della corte costituzionale hanno peraltro riconosciuto che queste regioni, ove i rispettivi statuti prevedono poteri legislativi minori di quelli delle regioni ad autonomia ordinaria, possono disporre, ai sensi dell’art. 10 della legge Cost. 3/2001, dei poteri legislativi previsti dall’art.117 Cost. (ovviamente nei limiti in cui li prevede il titolo V della Costituzione). Inoltre, in numerose materie di loro competenza,queste regioni dispongono di un potere legislativo di tipo primario-esclusivo. I meccanismi di finanziamento delle attività regionali: gli statuti speciali prevedono, in generale, più ampi e garantiti canali di finanziamento, soprattutto tramite l’individuazione di specifiche e rilevanti entrate fiscali, il cui ricavato è, almeno in parte, da trasferire alle regioni; mentre, d’altro canto, esistono anche canali di finanziamento speciale per alcune delle regioni ad autonomia particolare. Da segnalare il fatto che le disposizioni statuarie di queste regioni prevedono che il presidente della regione o delle province autonome possa prendere parte alla riunione del consiglio dei ministri, in cui siano in discussione questioni che riguardano la regione o la provincia autonoma. Fra gli elementi tipici più rilevanti di alcune fra queste regioni, sono, anzitutto, da evidenziare le disposizioni ispirate al rispetto e alla tutela delle minoranze linguistiche, che caratterizzano lo statuto nel Trentino- Alto Adige, in misura minore, lo statuto delle Valle d’Aosta. Mentre nello statuto valdostano, infatti, ci si limita ad affermare la parificazione della lingua francese a quella italiana nella pubblica amministrazione e nella scuola, nel primo il problema della tutela dei gruppi linguistici è alla base di molteplici disposizioni e addirittura diviene elemento caratterizzante nella stessa organizzazione di questo tipo del tutto particolare di autonomia territoriale.

 

Gli statuti e l’ordinamento interno delle Regioni ad autonomia ordinaria
Spesso, l’effettiva misura dell’autonomia regionale dipende proprio dal grado maggiore o minore specificità dei principi affermati in Costituzione e dal tipo di fonte a cui vengono rinviate le scelte normative ulteriori. Particolarmente importante appare la fonte statuaria, mediante la quale la regione determina autonomamente la propria organizzazione interna; al tempo stesso, però, questo potere appare limitato dalle disposizioni della stessa Costituzione o delle leggi cui essa rinvia per determinati oggetti riconducibili alla materia statuaria.
Il testo originario dell'articolo 123 della costituzione prevedeva che le regioni dovessero dotarsi di uno statuto per disciplinare "le norme relative all'organizzazione interna" mediante un atto normativo deliberato a maggioranza assoluta dal consiglio regionale e poi approvato dal parlamento con legge.
I testi statuari sono stati approvati nel 1970/1 con contenuti innovativi ed in certa misura imprevisti (questi testi sono tuttora vigenti in alcune regioni che non hanno ancora adottato il nuovo statuto). Le scelte statuarie si sono in genere caratterizzate per un consistente rafforzamento della posizione del consiglio regionale; per la valorizzazione della collegialità della giunta; per un ruolo non particolarmente significativo del presidente regionale: parte di queste scelte sono state però modificate dal nuovo sistema elettorale e costituzionale previsto dalla 1 Cost. 1/1999.
Particolarmente innovative sono state le scelte in tema di attività e organizzazione amministrativa: diffusa prescrizione di alcuni requisiti per l'attività amministrativa regionale (motivazione, contraddittorio, pubblicità) e previsione di numerosi istituti di partecipazione dei singoli e dei gruppi ai procedimenti amministrativi; articolazione organizzativa e strutture facilmente adeguabili al mutamento delle politiche regionali e affermazione di metodi di lavoro collegiali e intersettoriali; creazione di ruoli unici del personale regionale, con previsione di forme di mobilità interna; introduzione dell'istituto del difensore civico come organo indipendente, incaricato di controllare, su istanza degli interessati, il sollecito e regolare svolgimento dell'attività amministrativa regionale. Agli enti locali sono riconosciuti alcuni significativi poteri incidenti sull'esercizio di funzioni regionali, come il potere di iniziativa legislativa, ma anche il potere di richiedere referendum e di rivolgere interrogazioni.
Tutte le regioni hanno modificato la volontà di dare ampia attuazione alla direttiva di delegare funzioni amministrative agli enti locali. In questo conteso peraltro emergeva la consapevolezza della necessità di aiutare tali enti a superare i limiti della vecchia legislazione e la loro stessa eccessiva polverizzazione. Un altro settore nel quale gli statuti hanno innovato l’assetto normativo precedente è quello degli statuti di partecipazione popolare: non solo adozione degli istituti di democrazia diretta già previsti a livello nazionale(comunque con una maggiore garanzia per l’iniziativa popolare nei procedimenti consiliari e con l’estensione del referendum abrogativo anche ad una serie di provvedimenti amministrativi), ma valorizzazione della partecipazione popolare, sia individuale che tramite gli organismi rappresentativi del pluralismo sociale nelle fasi consultive nei procedimenti di formazione delle leggi o dei maggiori atti amministrativi regionali. Parallelamente, ci si è impegnati a fornire agli interessati idonei supporti informativi.
La legge costituzionale 1/1999 muta notevolmente la fonte statutaria delle regioni ad autonomia ordinaria, configurandolo con un tipo particolare di legge regionale caratterizzato da un procedimento speciale di approvazione e di controllo: dev'esser approvato a maggioranza assoluta dal consiglio regionale per due volte entro il termine due mesi e il governo può impugnare direttamente la delibera statutaria dinanzi alla corte costituzionale entro 30 giorni dalla pubblicazione.
Ove lo statuto regionale sia stato dichiarato illegittimo costituzionalmente, l’intero procedimento deve ricominciare; in tali ipotesi si procederà alla promulgazione del testo statuario privo della disposizione dichiarata incostituzionale, e il governo potrà solo sollevare conflitto di attribuzione dinanzi ad una promulgazione che ritenga illegittima.
È inoltre previsto che un cinquantesimo degli elettori regionali o un quinto dei consiglieri regionali possono chiedere un referendum sul testo statuario entro 3 mesi dalla sua pubblicazione notiziole: non si chiede alcun quorum minimo di partecipazione, ma il presidente regionale o può procedere alla promulgazione dello statuto solo se la maggioranza dei voti validamente espressi si è pronunciata a suo favore.
Viene confermato il primato della disciplina statutaria rispetto alla ordinaria attività regionale.
Lo statuto è una parte che “determina la forma di governo e i principi fondamentali di organizzazione e funzionamento” e “regola l’esercizio del diritto di iniziativa e del referendum su leggi e provvedimenti amministrativi della regione e la pubblicazione delle leggi e regolamenti regionali”. Al tempo stesso, si conferma la subordinazione della fonte statuaria alla disciplina costituzionale, che appunto configura lo statuto regionale come speciale fonte primaria nei limiti della disciplina contenuta nel titolo V della Costituzione”; inoltre la prescrizione secondo la quale lo statuto deve essere “in armonia con la Costituzione” indica la necessità che lo statuto, al di là del rispetto delle puntuali prescrizioni costituzionali, debba riuscire anche ad inserirsi armonicamente nel complessivo sistema delle istituzioni repubblicane, senza quindi contraddire principi e valori fondamentali. Alle determinazioni statuarie spetta anche la scelta di prendere eventualmente la nomina di componenti della giunta al di fuori dei consiglieri regionali e determinare la tipologia e la titolarità del potere regolarmente regionale. Anche i nuovi artt. 121 e 126 Cost. determinano alcune caratteristiche della forma di governo regionale: ora il presidente della regione appare decisamente rafforzato, poiché “dirige la politica della giunta e ne è responsabile” e può essere sfiduciato dal consiglio regionale solo mediante una mozione di sfiducia votata a maggioranza assoluta. Molto più rigido è il sistema se si decide che il presidente sia eletto direttamente dal corpo elettorale: in questo caso egli “nomina e revoca i componenti della giunta”, l’eventuale sfiducia provoca lo scioglimento del consiglio, e analogamente ove si verifichino “impedimento permanente, la morte o le dimissioni volontarie” del presidente. Le scelte di far eleggere in modo diretto il presidente della regione e di adottare un sistema elettorale di tipo proporzionale con un forte premio di maggioranza sono quindi state imposte solo in via transitoria dalla legge Cost. 1/1999, poiché il legislatore regionale può disporre diversamente in sede statuaria e nella legge elettorale regionale. Il nuovo 4°comma dell’art.123 Cost. impone che lo statuto regionale debba prevedere e disciplinare il consiglio delle autonomie locali e cioè un organo rappresentativo degli enti locali presenti nella regione, configurandone quindi i poteri di tipo consultivo e di stimolo nei confronti del consiglio regionale o eventualmente anche della giunta.
L’autonomia legislativa delle Regioni ad autonomia speciale
La riforma del titolo V della costituzione precisa che le materie di competenza legislativa delle regioni ad autonomia ordinaria sono quelle non regolate dalla costituzione, mentre per le regioni ad autonomia speciale sono quelle loro attribuite dalla costituzione. Le regioni ad autonomia speciale dispongono in alcuni settori di un tipo di potestà legislativa che incontra limiti solo "esterni" alle materie espressamente elencate dagli statuti speciali (la cosiddetta potestà legislativa primaria esclusiva); in altri settori, invece, dispongono della cosiddetta potestà legislativa ripartita o concorrente, la quale spetta anche le regioni ad autonomia ordinaria. La potestà legislativa facoltativa-integrativa può essere esercitata dalle regioni in materia di competenza statale, ma solo se nella misura in cui la legge dello Stato permette alle regioni la possibilità di adattarne il contenuto alle particolari esigenze locali. La potestà legislativa regionale primaria ha il divieto di disciplinare i rapporti di diritto privato, penale e processuale.
Limiti generali, in parte provengono da disposizioni esplicite degli statuti e della Cost., in parte si ricavano da un’interpretazione sistematica delle disposizioni costituzionali.
Tali limiti operano come limiti di legittimità, dal momento che delimitano l’ambito legislativo che spetta alla competenza statale e il loro rispetto è quindi garantito il controllo di costituzionalità operato dalla corte costituzionale. Il primo limite generale di legittimità è quello relativo al necessario rispetto dei confini delle materie e di competenza regionale. Malgrado qualche opinione contraria, sembra esservi preso atto della possibilità di un adeguamento del contenuto delle materie alle trasformazioni legislative intervenute. Un altro limite generale è quello che va sotto il nome di limite territoriale: esso consiste nel fatto che la legge regionale non può che riferirsi a fenomeni, attività o servizi relativi al territorio regionale, o, più raramente, a coloro che hanno un rapporto con il territorio regionale o comunque lo abbiano avuto. Un terzo limite è il limite costituzionale: è ovvio che la legge regionale non può, al pari di ogni altra fonte primaria, derogare ad alcuna disposizione costituzionale. Ma ciò che più rileva è stabilire se esistono disposizioni costituzionali che costituiscono limiti speciali per l’attività legislativa regionale. La risposta è positiva: è evidente, ad es., che il I comma dell’art. 120 Cost. si riferisce anche all’attività legislativa delle regioni, dal momento che esso punta ad impedire ogni limitazione o onere alla circolazione di persone e cose, nonché alla libertà dei cittadini di esercitare ovunque la loro attività professionale. Altri limiti alla potestà legislativa regionale primaria sono stati giustificati dalla giurisprudenza costituzionale con riferimento ad alcune disposizioni della Costituzione: si tratta del divieto di disciplinare i rapporti di diritto privato, nonché quelli relativi al diritto penale e processuale. Altri limiti generali sono previsti nelle disposizioni di alcuni statuti speciali, ma ritenuti estensibili alle altre regioni: si tratta del necessario rispetto dei principi delle grandi riforme economico-sociali della Repubblica, degli obblighi internazionali dello Stato, dei principi generali dell’ordinamento giuridico.
Il limite dei principi delle grandi riforme risponde alla volontà di consentire, nelle materie di competenza regionale, che il legislatore nazionale possa procedere a profondi processi di riforma o di riordino. La potestà legislativa delle regioni non deve contraddire gli elementi di fondo caratterizzanti il complessivo sistema giuridico.
I principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato costituiscono un limite dettato dall’esigenza di garantire che l’esercizio della potestà legislativa da parte delle regioni non contraddica. In ogni caso, alcuni elementi di fondo, e, in certa misura, caratterizzanti il complessivo sistema giuridico.
Il limite degli obblighi internazionali dello Stato stabilisce che solo lo Stato può esprimere apprezzamenti di politica estera e stipulare accordi con soggetti di diritto internazionale. Per quanto riguarda le fonti normative comunitarie nelle materie di competenza regionale, la legge statale prevale sulla legge regionale. Il quinto comma dell'articolo 117 della costituzione garantisce al livello costituzionale che le regioni e le province autonome nelle materie di loro competenza provvedono all'attuazione e all'esecuzione degli accordi internazionale e degli atti dell'Unione Europea nel rispetto delle norme di procedure stabilite dalla legge dello Stato.
Per le intese con gli enti territoriali stranieri o per “attività in mero rilievo internazionale”, si prevede che se ne dia preventiva notizia alla presidenza del consiglio dei ministri degli esteri, che entro 30 giorni possono fare osservazioni. Comunque questi atti regionali “non possono esprimere valutazioni relative alla politica estera dello stato”, né possono far sorgere impegni finanziari per lo Stato o danneggiati gli altri enti territoriali. Molto più rigido il controllo sugli accordi con Stati stranieri: non solo questi possono essere solo esecutivi di accordi internazionali già entrati in vigore, o “accordi di natura tecnico-amministrativa o accordi di natura programmata” nel rispetto degli “indirizzi di politica estera italiana”, ma delle trattative e poi del progetto di accordo si deve dare tempestiva comunicazione al ministro degli affari esteri e alla presidenza del consiglio dei ministri, dal momento che questi ultimi debbono, “accertata l’opportunità politica e la legittimità dell’accordo”, conferire alla regione i “pieni poteri di firma” previsti dalla normativa internazionale in materia.
Infine, in tutti gli ambiti incidenti sui rapporti internazionali, il ministro per gli affari esteri può sempre “rappresentare alla regione o alla provincia autonoma interessata questioni di opportunità” inerenti alle attività di tipo internazionale e, “in caso di dissenso” chiede l’esercizio dei poteri sostitutivi da parte del governo. Anche in riferimento alle leggi di queste regioni il governo ha un potere di impugnazione in via diretta solo entro 60 giorni dalla loro pubblicazione sul bollettino ufficiale.  
L’autonomia legislativa delle Regioni ad autonomia ordinaria
Il secondo comma dell'articolo 117 elenca diciassette materie o gruppi di materie nelle quali lo Stato dispone di una competenza esclusiva; il terzo comma contiene un secondo elenco di materie o gruppi di materie (19) nelle quali spetta alle regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato; infine, nel quarto comma, si stabilisce che spetta alle regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato.
Per le regioni ad autonomia ordinaria, sono anche cambiati buona parte dei limiti che incontra l’esercizio del potere legislativo regionale: se, infatti,in precedenza si ritenevano applicabili alle leggi delle regioni ad autonomia ordinaria, in quanto enti dotati di un minor grado di autonomia, i limiti generali alla potestà legislativa primaria delle regioni ad autonomia speciale, che erano dedotti da una interpretazione sistematica della Costituzione e da alcuni limiti previsti negli statuti speciali, essi sono ormai venuti meno in conseguenza della forte discontinuità prodotta dalla riforma del titolo V (basti pensare alla scomparsa di ogni riferimento al precedente limite di merito dell’interesse nazionale o delle altre regioni o alla evidente inutilizzabilità del potere di indirizzo e coordinamento progressivamente creato dal 1970 dalla legislazione statale sulla base di una discussa lettura sistematica del vecchio titoloV).
Per quanto riguarda i limiti della potestà legislativa regionale, il primo comma dell'articolo 117 afferma che questa è esercitata "nel rispetto della costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e di obblighi internazionali".
A ciò si aggiunga la delicatezza e l’importanza di alcune delle competenze legislative riservate in via esclusiva alla legge statale dal II comma dell’art.117, che rendono espliciti limiti alla potestà legislativa regionale che in precedenza erano semplicemente dedotti in via interpretativa: si pensi, ad es., alle conseguenze in tema di “tutela della concorrenza”, “ordine pubblico e sicurezza”,… Un vecchio problema che rimane aperto, nonostante la riforma, riguarda le modalità di “determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato” all’interno delle numerose e ormai importantissime materie di legislazione concorrente elencate nel III comma dell’art.117: ci si trova dinanzi ad una vera e propria suddivisione del potere legislativo fra Stato e regioni; al I spetta determinare solo i principi fondamentali della disciplina di quelle materie, alle II spetta esercitare il potere legislativo nel quadro di tali principi. Naturalmente è tutt’altro che agevole individuare, se non in astratto, cosa sia un principio legislativo fondamentale e quale sia, invece, lo spazio riservato alle regioni. Nelle materie in cui lo Stato deve esclusivamente dettare i principi generali, si dice che emani cosiddette "leggi cornici", che fungeranno appunto da limite alle disposizioni regionali. Nel passato, diverse sono state le soluzioni adottate dalla legislazione relativa alle regioni ad autonomia ordinaria: il discusso testo dell’art.9 della legge 62/1953 subordinava la possibilità delle regioni di esercitare il loro potere legislativo alla previa adozione di apposite “leggi cornice”; ad esso è stata sostituita, ad opera dell’art. 17 legge 281/1970, la disposizione secondo cui “l’emanazione delle norme legislative da parte delle regioni nelle materie stabilite dall’art. 117 Cost. si svolge nei limiti dei principi fondamentali quali risultano da leggi che espressivamente li stabiliscono per le singole materie o quali si desumono dalle leggi vigenti”. Anche questa soluzione presenta alcuni evidenti limiti: anzitutto, l’inevitabile opinabilità del processo di individuazione dei principi fondamentali, con il rischio che un dissenso su questa premessa fondamentale produca, in sede di controllo della legge regionale da parte del governo, l’impugnativa della legge presso la corte costituzionale, così chiamata a risolvere un complesso problema interpretativo.
In secondo luogo, spesso non è agevole ricavare da una legislazione, che non di rado consiste in un intreccio di tesi normativi di epoche diverse e comunque concepiti in un conteso che spesso prescindeva dalla presenza delle regioni, principi fondamentali idonei a permettere l’esercizio dell’autonomia legislativa regionale. Anzi, la previsione nel nuovo VI comma dell’art 117 Cost. che nelle materie di legislazione concorrente lo Stato non potrà comunque esercitare il potere regolamentare, riservato esclusivamente alle regioni, rischia di spingere ancora di più il legislatore statale, in sostanziale violazione del dettato costituzionale, a cercare di accentuare il grado di analiticità della legislazione di cornice. IV comma dell’art. 117 Cost., secondo la quale “spetta alle regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato”: essa dovrebbe impedire il rischio di un facile recupero di materie legislative da parte dello Stato e potrà anche permettere alle regioni un’espansione dei loro poteri legislativi in ambiti nuovi.
Il nuovo articolo 127 cambia notevolmente il sistema di controllo sulle leggi regionali: si è eliminato il precedente sistema di controllo preventivo, e il governo può impugnare le leggi per motivi di presunta incostituzionalità entro sessanta giorni dalla pubblicazione della fonte normativa. Lo Stato può dolersi che una legge regionale ecceda la competenza della regione, mentre la regione può promuovere la questione di legittimità costituzionale quando ritenga che una fonte primaria statale o di un altra regione lega la sua sfera di competenza.
Malgrado le tante e importanti innovazioni intervenute, ci si trova al momento attuale in una fase largamente incerta e provvisori, nella quale continuano a restare in vita le fonti normative precedentemente vigenti; spetta ai soggetti attualmente competenti sul piano legislativo sostituire la vecchia legislazione con la nuova, davvero con forme all’innovativo riparto dei poteri fra Stato e regioni. Peraltro, in una situazione di immobilismo del legislatore statale e in particolare in una situazione di assenza di una organica legislazione di cornice, questo processo istituzionale potrebbe essere avviato soltanto da iniziative delle stesse regioni, che riescano ad esercitare i loro nuovi e vecchi poteri legislativi sostituendo in tutto o in parte la preesistente legislazione statale. Anche nei settori a competenza concorrente, non potrà che prevedersi l’eventualità che lo Stato muti i principi fondamentali della materia, con ciò mettendo “in mora il legislatore regionale per la sollecita modificazione della sua legislazione, a meno di andare incontro al rischio di una automatica abrogazione dopo 90 giorni dall’entrata in vigore della legge nazionale e successivamente al possibile inizio della procedura di cui all’art. 126.1 Cost. La corte costituzionale ha cominciato ad elaborare alcuni strumenti di necessaria integrazione fra i diversi legislatori: ad esempio, se l’esistenza di materie di esclusiva competenza statale non può legittimare penetrazioni improprie in materie di competenze regionali, occorre però coordinare tra loro le diverse responsabilità legislative; le regioni possono anche tutelare, ma in modo non contraddittorio con le scelte del legislatore nazionale, esigenze analoghe a quelle che legittimano competenze legislative esclusive dello Stato. Dinanzi alla mancata previsione nel nuovo titolo V di norme adeguatamente precise nel riparto delle responsabilità legislative e amministrative di Stato e regioni e soprattutto in assenza di esplicite clausole o procedure che permettano un’azione coordinata a livello nazionale nelle molte e importanti materie di competenza delle regioni, la corte costituzionale, là dove si prevede che le funzioni amministrative, sulla base dei principi di “sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza”, possono essere conferite anche allo Stato “per assicurarne l’esercizio unitario”. “Chiamata in sussidiarietà “avviene tramite una legge statale che, eccezionalmente disponendo in materie che normalmente sarebbero di competenza regionale, attribuisce ad organi o a enti statali alcune limitate funzioni amministrative: alle regioni deve spettare in nome della leale collaborazione che deve caratterizzare i rapporti fra tutti i soggetti dell’ordinamento repubblicano, l’attribuzione di adeguati poteri di coesione. E così pure in riferimento a tutta una serie di possibili penetrazioni nelle materie regionali in nome della tutela di responsabilità legislative dello Stato di tipo esclusivo.
Comunque eventuali conflitti legislativi vanno risolti nelle sedi politiche o giurisdizionali previste nell’ordinamento costituzionale, senza che il potere legislativo regionale o statale possa essere utilizzato in funzione meramente preclusiva dell’applicabilità della legge “sgradita”.
L’autonomia amministrativa delle Regioni ed i rapporti con gli enti locali
Nel precedente titolo V della costituzione la regione era titolare, in base al principio del parallelismo delle funzioni, dei poteri amministrativi nelle medesime materie di sua competenza legislativa (valevole ancora per gli statuti speciali). Tuttavia agli enti locali venivano riservate le funzioni amministrative di interesse esclusivamente locale delle materie di competenza regionale al fine di salvaguardare la loro funzione di enti direttamente rappresentativi delle popolazioni locali, anche perché altrimenti si sarebbero trovati senza un ruolo specifico, dal momento che operano quasi interamente nelle materie di competenze regionali.
Nel precedente sistema si prevedeva che la regione esercitasse “normalmente le sue funzioni amministrative delegandone alle province, ai comuni o a altri enti locali o valendosi dei loro uffici” e degli statuti regionali ordinari del 1970/1 hanno scelto il modello delle delega di funzioni amministrative, consiste in una formula organizzativa per la quale la regione affida con legge l’esercizio di determinate funzioni amministrative agli enti locali,chiamati ad esercitarle secondo le loro scelte discrezionali, seppur nel rispetto delle specifiche direttive loro impartite dalla regione. Questo modello, pur presente anche negli statuti speciali, non ha però trovato diffusa e soddisfacente realizzazione. Al tempo stesso, il principio del parallelismo delle funzioni amministrative regionali era contraddetto anche da perduranti riserve di funzioni amministrative nelle materie di competenza delle regioni a favore di organi dello Stato centrale: veri e propri ritagli di competenze amministrative, il potere di indirizzo e coordinamento delle funzioni amministrative regionali, i poteri relativi all’attuazione amministrativa di alcuni atti comunitari o internazionali.
Il nuovo titolo V annulla il potere di indirizzo e coordinamento (delega alle amministrazioni locali di funzioni amministrative), l'attuazione dei trattati delle norme comunitarie nelle materie di competenza legislativa regionale viene affidata alle regioni, scomparsa dei controlli sui amministrativi regionali, introduzione di un tipo di controllo sostitutivo da parte del governo particolarmente ampio (in prima istanza con una sollecitazione a mutare l'atto, in secondo luogo adottando i provvedimenti necessari).
Modifiche significative riguardano sia la scomparsa dei controlli sugli atti degli enti locali, in conseguenza all’abrogazione dell’art.130 Cost., sia la diversa delimitazione dell’area di competenza amministrativa delle regioni, essendo venuto meno il precedente principio del tendenziale parallelismo delle funzioni amministrative e legislative. A quest’ultimo riguardo, il 1° comma del nuovo art. 118 Cost. opera la scelta a favore della tendenziale competenza amministrativa generale dei comuni; peraltro la concreta definizione dell’eccezioni a questa regola viene affidata alle leggi statali o regionali competenti nelle diverse materie alla luce dei principi di “sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza”. Nell’ambito di questa legislazione regionale non è escluso che possono anche prevedersi appositi controlli sostitutivi, purché pienamente rispettosi dell’autonomia e della natura rappresentativa dell’ente locale. Ciò che sicuramente si accresce per le regioni nell’ambito amministrativo è il potere regolamentare, che, ai sensi del 6° comma dell’art. 117. è di loro esclusiva competenza in tutte le materie nella quale dispongono di potere legislativo. Ed è molto probabile il ricorso alla fonte regolamentare assuma dimensioni consistenti, sia per il fatto che ora il suo esercizio spetterà di regola alle giunte regionali e non più ai consigli, sia per la tendenza generale a ricorrere sempre più frequentemente a tale fonte.

 

Il finanziamento delle Regioni
L’autonomia di ogni ente rappresentativo di una comunità presuppone che esso possa disporre di un’adeguata autonomia finanziaria, in assenza della quale la stessa autonomia legislativa e amministrativa rischia di essere solo apparente; d’altra parte, però, la finanza pubblica di uno Stato sociale contemporaneo non può che essere unitaria a causa dell’interdipendenza dei fenomeni economici e dell’esigenza di recepire crescenti e cospicui entrate fiscali.
I comuni, le province, le città metropolitana e le regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa, in armonia con la costituzione secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica del sistema tributario.
Con le disposizioni della legge 281/1970, la I legge finanziaria regionale, al riconoscimento di una modestissima autonomia tributaria, si sommava un “fondo comune”, alimentato dai proventi di alcune imposte erariale e ripartito fra le regioni in modo parzialmente perequativo, nonché un fondo per il finanziamento dei programmi regionali di sviluppo e poi numerosi e molto consistenti fondi settoriali o speciali di finanziamento vincolato in diverse submaterie. Le molte critiche contro lo svuotamento dell’autonomia finanziaria regionale potranno, specialmente negli anni ’90, alla riduzione dei finanziamenti settoriali e a una parziale e limitata autonomia tributaria regionale, seppur quasi solo nella forma di aliquote aggiuntive a imposte erariali. Questo faticoso processo legislativo viene di recente definito dallo stesso legislatore come “ federalismo fiscale”: si tratta di un’espressione enfatica e impropria, dal momento che il potere normativo in materia resta saldamente agli organi nazionali, mentre le regioni  recuperano solo una maggiore autonomia finanziaria soprattutto sul versante delle entrate.
Il decreto legislativo 56/2000 prevede che il finanziamento delle regioni debba esser assicurato da un'ampia compartecipazione regionale alle entrate dell'Iva, da una limitata addizionale regionale all'Irpef e da un'aliquota dell'imposta sulla benzina. A ciò è da aggiungere la permanenza di alcuni fondi settoriali, fra i quali emergono per la loro grande consistenza i fondi destinati al settore sanitario e al settore dei servizi sociali. Viene inoltre previsto un "fondo perequativo nazionale" alimentato da una parte del gettito della compartecipazione alle entrate dell'Iva e suddiviso fra le diverse regioni in base a complessi parametri perequativi.
Il nuovo art. 119 Cost. non sembra introdurre radicali novità, se non per l’esplicito riconoscimento dell’autonomia finanziaria anche degli enti locali, dal momento che il finanziamento integrale delle funzioni pubbliche di ciascun ente potrebbe essere garantito da tributi ed entrate propri e da compartecipazioni a tributi erariali, peraltro riferibili al loro territorio, nonché dalla ripartizione di un apposito fondo perequativo a tutela delle aree con minori capacità fiscali per abitante. Inoltre si prevede la possibilità che lo Stato dia finanziamenti speciali a singoli enti regionali o locali per i molteplici fini  indicati nel 5° comma dell’art. 119 Cost. occorre evidenziare che particolarmente in questo settore vi è stata una radicale in attuazione delle nuove disposizioni costituzionali, mentre il legislatore statale continua a usare tutte le preesistenti forme di finanziamento delle regioni: ciò è tanto più grave in quanto in questo settore lo stesso organo di giustizia costituzionale può intervenire limitatamente, dichiarando illegittime forme di finanziamento estranee all’art. 119 Cost., ma non potendo certo far venire meno le preesistenti (per quanto scorrette) forme di finanziamento o addirittura di sostituirsi alla nuova necessaria legislazione statale di riforma del sistema tributario e della finanza pubblica.
Gli organi di raccordo fra Stato e Regioni
La riforma del titolo V ha eliminato alcune forme di relazione fra Stato e regioni che risentivano di una concezione di tipo gerarchico (si pensi alla scomparsa della previsione in Costituzione del commissario del governo, all’eliminazione dei controlli sugli atti amministrativi regionali, alla trasformazione dei controlli sulle leggi regionali da preventivi a successivi).
La possibile integrazione della commissione bicamerale per le questioni regionali con rappresentanti delle regioni, delle province autonome e degli enti locali è stata sostanzialmente rifiutata dal sistema politico. Gli unici organi istituzionali che al momento attuale, seppure debolmente, fungono da raccordo tra Stato e regioni, sono le conferenze fra Stato, regioni ed enti locali che sono state create e disciplinate negli ultimi anni. È un organo consultivo composto dai presidenti delle giunte delle regioni e delle province autonome, presieduto dal presidente del Consiglio dei Ministri o da un ministro da lui delegato, titolare dei poteri di convocazione e determinazione dell'ordine del giorno.
Al di là delle numerose funzioni consultive, quest’organo ha riassorbito, attraverso alcune sue articolazioni interne, le funzioni in precedenza svolte da alcuni organi collegiali misti, composti da rappresentanti ministeriali e rappresentanti regionali, che erano stati creati da numerose leggi settoriali.peraltro alcune leggi e sentenze della corte costituzionale lo hanno individuato come sede di intese fra le amministrazioni statali e regionali o gli hanno affidato qualche limitato potere amministrativo. Con il D.lgs 281/1997 si è proceduto ad una riforma della conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano e alla sua unificazione (conferenza unificata), per le questioni  di comune interesse, con la conferenza Stato, città e autonomie locali (prima istituita solo in via amministrativa): malgrado l’ampiezza delle competenze consultive e di stimolo di questi 3 organi e la loro utilizzazione come sedi importanti di confronto politico-istituzionale, resta l’anomalia di organi istituzionali fortemente disomogenei e che possono deliberare solo mediante accordi generali. In questo stesso atto normativo si stabilisce anche che le intese da definirsi in sede di conferenza Stato- regioni debbano essere conseguite entro 30 giorni dallo svolgimento della prima riunione nella quale sono poste all’ordine del giorno; altrimenti il governo è legittimato a provvedere autonomamente con deliberazione motivata. In caso di urgenza il governo può comunque provvedere subito ei provvedimenti adottati saranno successivamente sottoposti all’esame della conferenza. La disposizione costituzionale che esprime con più chiarezza la supremazia degli organi statali su quelli regionali e quella relativa ai controlli sugli organi regionali: essi sono previsti dall’art.126 Cost., attraverso una disciplina analitica, rilevatrice della delicatezza di un procedimento che può portare a far dichiarare lo scioglimento anticipato dell’organo rappresentativo della comunità regionale ad opera di organi statali,rappresentativi di un diverso indirizzo politico. La disposizione costituzionale disciplina la possibilità di procedere allo scioglimento anticipato del consiglio regionale e alla rimozione del presidente della giunta per aver “computo atti contrari alla Costituzione o gravi violazioni di legge”, nonché “per ragioni di sicurezza nazionale”. Allo scioglimento si procede mediante un decreto motivato, adottato, previo parere della commissione bicamerale per le questioni regionali, con D.P.R., su proposta del presidente del consiglio e deliberazione dello stesso consiglio dei ministri. Il nuovo art. 126 Cost. non prevede più la nomina di un organo straordinario per l’amministrazione temporanea della regione e non comprende neppure chi possa gestire le regioni nelle analoghe situazioni di “scioglimento automatico” dei loro organi.
Le trasformazioni dell’amministrazione locale
La legislazione degli anni ’90,  culminata con il “testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali” e con l’attuazione delle “leggi bassanini”, ha modificato in modo sostanziale l’amministrazione locale, anche se molta parte di questa legislazione deve essere ancora attuata. E ora occorrerà valutare anche l’impatto che deriverà dall’adozione del nuovo testo V, che in molte parti si riferisce anche agli enti locali. Si tratta di una legislazione che pone alcuni principi fondamentali, per lo più da attivare da parte delle regioni e degli stessi enti locali:le I soprattutto perciò che riguarda il ridisegno territoriale degli enti locali e la specificazione delle loro funzioni; i II soprattutto per tutte le scelte che sono riservate ai loro statuti e regolamenti.
Si cerca anche di limitare la stessa discrezionalità legislativa nel settore, dal momento che l’art.1 del D.lgs 267/2000 chiede che le leggi relative agli enti locali debbano enunciare in modo espresso i principi che “costituiscono limiti inderogabili per la loro autonomia normativa”. Inoltre si prescrive che le abrogazioni al testo unico siano espresse.
Il testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali (decreto legislativo 267/2000) definisce come enti locali i comuni, le province, le città metropolitane, le comunità montane, le comunità isolane, le unioni di comuni, alcuni consorzi fra gli enti locali.
Vengono mantenuti sia i comuni che le province, ma sotto le stesse denominazioni appaiono modelli organizzativi differenziati: per ciò che attiene ai comuni meno popolosi, non solo si innalza a diecimila abitanti il limite minimo di popolazione per la costituzione di nuovi comuni e si prevedono una serie di agevolazioni per quelli che vogliono fondersi fra loro, ma si rafforzano le comunità montane 8ora anche presenti nelle isole minori) e le unioni di comuni per la gestione associata di una serie di funzioni.
Il limite minimo di popolazione per la costituzione di nuovi comuni è stato innalzato a 10.000 abitanti. La città metropolitana costituisce un tipo particolare di provincia, dotata di alcuni poteri maggiori rispetto alle province.
Si prevede che nelle aree metropolitane circostanti gli attuali comuni di Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Bari, Napoli (nelle regioni a statuto speciale si può prevedere analogamente) la regione, “su conforme proposta degli enti locali interessati”, debba provvedere alla delimitazione dell’area metropolitana, intesa come l’area che comprende i territori del comune maggiore e degli altri comuni “i cui insediamenti abbiano con essi rapporti di stretta integrazione territoriale e in ordine delle attività economiche, ai servizi essenziali alla vita sociale, nonché alle relazioni culturali e alle caratteristiche territoriali”. All’interno di queste aree, si può proporre l’istituzione di una città metropolitana: è richiesta un0identica deliberazione in tal senso dei consigli comunali e referendum approvati nei comuni interessati (occorre la maggioranza assoluta degli elettori in almeno la metà più uno dei comuni interessati); la determinazione finale è adottata con legge del parlamento, su proposta della regione interessata. Una delle maggiori innovazioni introdotte negli anni 90 consiste nell’attribuzione alla legge regionale del compito di specificare le funzioni di comuni e province, definite solo in via generale dalla legge statale. La legge regionale è, infatti, chiamata ad identificare “nelle materie e nei casi previsti dall’art. 117 Cost. gli interessi comunali e provinciali in rapporto alle caratteristiche della popolazione e del territorio. Tendenzialmente tutte le funzioni e i compiti amministrativi dovrebbero essere attribuiti agli enti locali “secondo le loro” dimensioni territoriali, associative e organizzative, con l’esclusione delle sole funzioni che richiedono esercizio a livello regionale”. Ciò comporterà il superamento dell’uniformità amministrativa locale, dal momento che, a seconda delle diverse zone e delle scelte operate a livello regionale, vi saranno enti territoriali tra loro diversi e comunque dotati di funzioni differenziate, anche se denominate nel medesimo modo.
L’art. 6 del D.lgs 267/2000 stabilisce che lo statuto disciplina le norme fondamentali dell’organizzazione dell’ente, nonché le forme della collaborazione fra comuni e province, della partecipazione popolare, del decentramento, dell’accesso dei cittadini alle informazioni e ai procedimenti amministrativi, a queste materie, così vaste e importanti, affidate alla discrezionalità normativa dell’ente locale, corrisponde uno speciale procedimento di approvazione dello statuto (necessità di conseguire la maggioranza dei 2/3 dei voti, ove questa non venga raggiunta, necessità di una duplice approvazione a maggioranza assoluta entro 30 giorni) e una particolare forma di pubblicità (pubblicazione sul bollettino ufficiale della regione, affissione all’albo pretorio, inserimento nella raccolta ufficiale degli statuti degli enti locali). Questo consistente potere normativo può permettere di adeguare l’organizzazione e le stesse regole di funzionamento di enti che restano,comunque, tra loro estremamente differenziati dal punto di vista dell’organizzazione politica e amministrativa.
I regolamenti degli enti locali, adottati nelle forme determinate dagli statuti, disciplinano, nel “rispetto dei principi fissati dalla legge e dallo statuto l’organizzazione e il funzionamento delle istituzioni e degli organismi di partecipazione, il funzionamento degli organi e degli uffici e l’esercizio delle funzioni”. Il 6° comma del nuovo art. 117 Cost., dopo aver previsto un ampio potere regolamentare delle regioni, afferma che “i comuni, le province e le città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite”. Ciò significa che i regolamenti degli enti locali rappresentano una fonte non più negabile dal legislatore ordinario.
L’organizzazione politica e amministrativa degli enti locali
Il consiglio comunale o provinciale (che resta in carica cinque anni) è un organo di indirizzo e di controllo politico amministrativo, ed è titolare esclusivo di un'ampia, ma pur sempre limitata, serie di atti fondamentali indicati dalla legge; la giunta compie gli atti di amministrazione che non siano di competenza di funzionari e che non siano riservati dalla legge al consiglio e che non ricadono nelle competenze, previste dalla legge dallo statuto, del sindaco e del presidente della provincia o degli organi di decentramento. Dal 1993 sindaco e presidente sono eletti direttamente dal corpo elettorale, cui spettano la nomina, la designazione e la revoca dei rappresentanti del comune e della provincia presso enti, aziende e istituzioni; e procedono alla nomina e revoca delle rispettive giunte.
Essi sono, peraltro, tenuti ad informare i consigli della nomina delle giunte e a presentare ad essi le proprie linee di programma, entro 60 giorni dalla prima riunione delle giunte. La sfiducia del consiglio alla giunta, motivata e approvata per appello nominale dalla maggioranza assoluta dei consiglieri, porta automaticamente anche allo scioglimento del consiglio e alla nomina di un commissario, che amministra l’ente locale fino alle elezioni. Per agevolare lo scioglimento di un significativo ruolo di controllo sull’amministrazione locale, la legge assicura ai consiglieri il “diritto di ottenere dagli uffici, nonché dalle aziende e dagli enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’esplemento del loro mandato”. Inoltre, si prevede la nomina, da parte del consiglio, del collegio dei revisori, composto da 3 membri (o da uno nei comuni con meno di 5000 abitanti) scelti fra esperti qualificati in revisori contabili. È prevista la figura del presidente del consiglio comunale o provinciale, che è obbligatoria negli enti con più di 15000 abitanti e può essere prevista dagli statuti negli enti con minore popolazione.
Decisamente rafforzata appare la figura del sindaco e del presidente della provincia: se essi, in genere, “rappresentano l’ente, convocano e presiedono la giunta, nonché il consiglio quando non è previsto il presidente del consiglio, e sovrintendono al funzionamento dei servizi e all’esecuzione degli atti”, la loro volontà è assolutamente decisiva per la composizione delle giunte e per la stessa sopravvivenza del consiglio.
Il sindaco o il presidente possono nominare gli assessori scegliendoli anche fra cittadini estranei ai consigli ma eleggibili.

La giunta è formata da un numero di membri determinato dallo statuto, entro il limite di un terzo dei componenti dei rispettivi consigli. Il sindaco o il presidente della provincia possono nominare gli assessori scegliendoli anche fra cittadini estranei ai consigli ma eleggibili; i consiglieri sono nominabili, ma decadono alla carica di consigliere. La giunta, configurata come organo collegiale, “collabora con il sindaco e con il presidente della provincia nell’attuazione degli indirizzi generali del consiglio, riferisce annualmente al consiglio sulla propria attività e svolge attività propositive e di impulso nei confronti dello stesso”. Anche a livello locale si è affermata la tendenza a distinguere le responsabilità degli organi politici da quelle degli organi burocratici e a valorizzare il ruolo dei vertici dirigenziali dell’amministrazione locale, evidenziandone le specifiche responsabilità.
Il segretario comunale o provinciale non dipende più dal ministero dell’interno, ma da un’apposita agenzia autonoma per la gestione dell’albo dei segretari comunali e provinciali,e, nell’esercizio delle sue funzioni, dal capo dell’amministrazione locale presso cui lavora. Inoltre,esso viene scelto all’interno dell’albo dal sindaco o dal presidente della provincia e la sua carica dura quanto il mandato di chi lo ha nominato. Le sue funzioni diminuiscono fortemente ove l’amministrazione nomini il direttore generale.
I sindaci dei comuni con più di 15000 abitanti o i presidenti di provincia possono, infatti,assumere, previa deliberazione delle rispettive giunte, con un contratto a tempo determinato e al di fuori dei dipendenti dell’ente locale, un direttore generale, “che provvede ad attuare gli indirizzi e obiettivi stabiliti dagli organi di governo dell’ente, secondo le direttive impartite dal sindaco o dal presidente della provincia, e che sovrintende alla gestione dell’ente”. La durata in carica del direttore non può eccedere il mandato del sindaco o del presidente della provincia e degli enti è comunque revocabile anche prima, con il medesimo procedimento con cui è stato nominato. Si prevede che ai dirigenti, coordinati dal segretario o dal direttore, spettino “tutti i compiti, compresa l’adozione di atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto fra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di governo dell’ente e non rientranti tra le funzioni del segretario o del direttore generale”. Si stabilisce che “i dirigenti sono direttamente responsabili in relazione agli obiettivi dell’ente, della correttezza amministrativa, dell’efficienza e dei risultati della gestione”. Come a livello nazionale, l’incarico dirigenziale è a tempo determinato ed è revocabile. Ogni proposta di deliberazione sottoposta al consiglio o alla giunta deve essere accompagnata dal “parere, in ordine alla sola regolarità tecnica e contabile, rispettivamente del responsabile del servizio interessato e del responsabile di ragioneria”.
Gli autori di questi pareri ne “rispondono in via amministrativa e contabile”.
Il difensore civico svolge un ruolo di garante dell'imparzialità e del buon andamento della pubblica amministrazione comunale o provinciale, segnalando, anche di propria iniziativa, gli abusi, le disfunzioni, le carenze e i ritardi dell'amministrazione nei confronti dei cittadini; è una figura facoltativa.
Per la gestione dei servizi pubblici, i comuni e le province possono utilizzare strumenti differenziati: la gestione in economia, la concessione a terzi mediante selezioni pubbliche. La distinzione fra istituzione e azienda passa per la natura del servizio pubblico che esse devono gestire: la istituzione è, infatti, l’organismo strumentale dell’ente locale, dotato di autonomia gestionale, per l’esercizio di servizi sociali senza rilevanza imprenditoriale,mentre l’azienda speciale è un ente strumentale, dotato di personalità giuridica, dell’ente locale per la gestione di servizi di rilevanza economica e imprenditoriale. La nuova legge ha preferito rafforzare, da un lato, il livello provinciale, e di creare, dall’altro, duttili strumenti di collaborazione fra gli enti locali, nonché di agevolare processi di spontanea fusione fra i comuni minori.
In tema di fusioni, per legge regionale, dei comuni, si stabilisce che la regione debba predisporre un programma di modifica delle circoscrizioni comunali e di fusioni dei piccoli comuni e che lo statuto del nuovo comune possa prevedere l’istituzione nei territori dei vecchi comuni, dei municipi, organismi eletti a suffragio universale. Al tempo stesso, si prevedono vari tipi di contributi straordinari al fine di favorire la fusione dei comuni. Le unioni di comuni, dalla legge definite come “enti locali costituiti da 2 o più comuni di norma con termini, allo scopo di esercitare congiuntamente una pluralità di funzioni di loro competenza”. Gli organi dell0unione vengono determinati dai comuni interessati tramite l’adozione dello statuto, ma il presidente dell’unione deve essere uno dei sindaci dei comuni aderenti e gli altri organi devono essere composti da assessori e consiglieri comunali. Appaiono consolidate le comunità montane, speciali tipi di unioni, poiché enti rappresentativi obbligatori dei comuni montani, titolari non solo delle funzioni relative agli interventi speciali per la montagna, ma di tutte le funzioni che i comuni della zona dovrebbero esercitare in forma associata. Diversi sono, invece, gli strumenti per permettere a comuni e province un’ordinaria collaborazione con altri enti locali: le convenzioni e i consorzi.
Le convenzioni appaiono come strumenti molto duttili, mediante i quali comuni e province possono deliberare di svolgere in modo coordinato determinati servizi o funzioni, utilizzando le loro strutture organizzative. I consorzi, invece, sono enti dotati di personalità giuridica per la gestione associata tra enti locali e enti pubblici di uno o più servizi o funzioni; l’assemblea del consorzio sia formata dai sindaci dei comuni e dal presidente della provincia aderenti o dai loro delegati, nonché dai rappresentanti degli altri pubblici aderenti.
Si espandono i controlli di tipo sostitutivo. Permane, inoltre, la competenza degli organi statali in tema di controllo sugli organi degli enti locali: in questo settore, si distinguono le misure transitorie e definite in tema di rimozione degli amministratori, da quelle relative allo scioglimento dei consigli comunali e provinciali. La rimozione degli amministratori locali avviene con decreto del presidente della Repubblica, su proposta del ministro per l’interno, allorché essi abbiano compiuto “atti contrari alla Costituzione o per gravi e persistenti violazioni di legge o per gravi motivi di ordine pubblico”. In tutti questi casi, “qualora sussistano i poteri di grave e urgente necessità”, il prefetto può provvisoriamente sospendere gli amministratori locali . Lo scioglimento dei consigli degli enti locali interviene, invece, per decreto del presidente della Repubblica, su proposta del ministro dell’interno e previa deliberazione del consiglio dei ministro, nei seguenti casi: 1. per il compimento di atti contrari alla Cost. per gravi e persistenti violazioni di legge, per gravi motivi di ordine pubblico; 2. per mancato normale funzionamento, originato da dimissioni del sindaco o del presidente della provincia, da dimissioni contestuali di oltre metà dei consiglieri o dall’impossibilità di surrogarli; 3. per mancata approvazione del bilancio entro i termini prescritti. Con il decreto di scioglimento, comunicato al parlamento e pubblicato sulla gazzetta ufficiale, viene nominato un commissario governativo, che si sostituisce agli organi dell’ente locale, per un periodo massimo di 90 giorni, trascorso il quale devono svolgersi le nuove elezioni.
Anche in questa ipotesi, si prevede che il prefetto, per motivi di grave e urgente necessità, ove il procedimento per lo scioglimento sia già in corso, possa sospender i consigli dell’ente locale e nominare un commissario, per un periodo non superiore a 90 giorni. Le nuove elezioni amministrative devono, comunque, essere tenute entro i termini massimi prima detti.
Le funzioni degli enti locali ed il loro finanziamento
Secondo l'articolo 13 del decreto legislativo 267/2000 "spettano al comune tutte le funzioni amministrative che riguardano la popolazione e il territorio comunale, in particolare nei settori organici dei servizi alla persona e alla comunità, dell'assetto e utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico, salvo quanto non sia espressamente attribuito ad altri soggetti dalla legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze"; significa anche che al comune è stata riconosciuta natura di ente a fini generali, legittimandolo ad intervenire in ogni materia non riservata espressamente ad altri soggetti dalla legge, quanto meno tramite strumenti privatistica, atti di spesa, iniziative politiche.
L'articolo 19 dello stesso decreto stabilisce, per quanto riguarda le funzioni delle province, che bisogna attendere le leggi statali e regionali che identificano concretamente le funzioni amministrative di interesse provinciale che riguardino vaste zone intercomunali o l'intero territorio provinciale. Per quanto riguarda l'aspetto finanziario, agli enti locali spetterebbero le tasse, i diritti, le tariffe e i corrispettivi sui servizi di propria competenza; il finanziamento delle spese di investimento degli enti locali passerebbe ed un fondo ordinario in fondo speciale, finalizzato ad aree particolari.
Un primo inizio di attuazione di questo disegno si è avuto dal 1992, mediante la disciplina di alcune imposte locali (fra le quali l’ICI). Come nel caso della finanza regionale, il sistema di finanziamento degli enti locali appare molto lontano da un assestamento soddisfacente, pur indispensabile perché possa parlarsi di un’effettiva autonomia locale.

CAPITOLO XII: La Corte Costituzionale. (pag. 371 - 399)

Le origini della giustizia costituzionale
Solo nei regimi a Costituzione rigida le norme costituzionali sono poste al vertice della scala gerarchica sulla quale si collocano le diverse fonti di cui si compone il sistema normativo, sì che solo in essi si pone il problema di prevedere appositi meccanismi di reazione di fronte a possibili violazioni di tale regola gerarchica o a possibili violazioni delle regole costituzionali che disciplinano i rapporti tra i diversi poteri dello Stato. È con una famosa sentenza del 1803 del giudice Marshall che al riconoscimento della superiorità delle norme costituzionali rispetto ad ogni altra fonte normativa sub-costituzionale, e in particolare rispetto alla legge, si accompagna l'affermazione dell'esigenza che tale superiorità venga garantita non solo sul piano politico, ma anche su quello giuridico. Con riferimento alla decisione delle questioni relative alla legittimità costituzionale delle leggi, opera il principio dello "stare decisis", ossia del valore vincolante del precedente giudiziario, un principio che ha in grado di vincolatezza direttamente proporzionale al livello cui appartiene il giudice che ha avuto una decisione. Questo sistema di giustizia costituzionale, che vede chiamati in causa tutti i giudici è chiamato sistema diffuso, in contrapposizione al sistema che con un secolo di ritardo, comincerà ad essere sperimentato in Europa e che è detto sistema accentrato, giacché affida non ai singoli giudici bensì a un organo appositamente creato a questo fine, il compito di assicurare la conformità delle leggi alla Costituzione. Questo secondo sistema fu previsto dalla Costituzione austriaca del 1920; e nasceva soprattutto dall’esigenza di risolvere i possibili conflitti in ordine al riparto del potere legislativo fra federazione e singoli lander. La soluzione di tali conflitti richiedeva, infatti, l’individuazione di un organo imparziale cui affidare l’interpretazione delle norme costituzionali relative al riparto delle competenze tra organi federali e locali. Di qui la creazione del tribunale costituzionale.
Il ritardo con cui i primi sistemi di giustizia istituzionale hanno fatto il loro ingresso negli ordinamenti europei è dovuto ad un duplice ordine di ragioni; all'assenza di un vero pluralismo politico, sociale e istituzionale o comunque di un pluralismo tale da porre l'esigenza di immaginare una sede imparziale di soluzione giuridica dei conflitti che possono nascere dalla dinamica interna del sistema. In secondo luogo, alla difficoltà, comune a tutti gli ordinamenti europei a staccarsi dal principio della "sovranità" della legge, intesa quale atto sovrano per eccellenza. Solo dopo il secondo conflitto mondiale, la giustizia costituzionale (insieme al principio di rigidità della Costituzione) è divenuto, in Europa un principio generalmente accolto.
Il modello di giustizia costituzionale voluto dai Costituenti
Quando in Assemblea costituente matura la scelta a favore di una Costituzione rigida i due modelli, cui i Costituenti possono fare riferimento, sono: quello "diffuso", proprio della tradizione americana, e quello "accentrato" proprio dell'esperienza austriaca. Il risultato finale del dibattito fu l'introduzione di un modello di giustizia costituzionale che tenta una fusione tra elementi appartenenti ad entrambi quei modelli di riferimento. Del modello accentrato il Costituente accolse il principio di affidare ad un apposito organo costituzionale, con tutte le garanzie di autonomia e di indipendenza proprie di organi di questo tipo, il compito di garantire il rispetto della rigidità della Costituzione; del modello diffuso accolse il principio dell'estensione del sindacato della Corte costituzionale anche ai profili di legittimità sostanziale della legge e del coinvolgimento nel processo di costituzionalità dei giudici comuni. I motivi che determinarono questa scelta furono motivi di natura tecnico- giuridica e di natura politica. Quanto ai primi, giocarono un ruolo importante non solo le esigenze legate alla struttura regionale dello Stato ma anche l'inesistenza nel nostro ordinamento di un principio analogo a quello dello "stare decisis". In assenza di un vincolo di questo tipo, affidare la decisione delle questioni di legittimità costituzionale ai singoli giudici avrebbe, infatti, comportato il rischio di inevitabili difformità di giudizio, con altrettanto inevitabili conseguenze negative sul piano della certezza del diritto.
Quanto ai motivi di natura politica, vanno ricercati in un atteggiamento di diffidenza nei confronti del corpo dei magistrati. I quali, in larga parte,si erano formati sotto il regime fascista: si temeva,dunque, che non offrissero sufficienti garanzie per una piena e sollecita applicazione di principi costituzionali, come quelli contenuti nella nuova carta repubblicana, così profondamente innovativi rispetto a quelli cui si era ispirato l’ordinamento precedente.
Quella che viene disegnata dal Costituente è un'alta magistratura, che riflette nella sua composizione la natura peculiare dell'attività che essa è chiamata ad esercitare (giurisdizionale e politica) e alla quale possono rivolgersi tanto organi dello Stato o delle Regioni quanto i singoli cittadini, attraverso l'intermediazione del giudice.
Struttura e funzionamento della corte
L'art. 135 Cost. fissa a 15 il numero dei membri della giustizia costituzionale, attribuendo la nomina di 5 giudici rispettivamente al Parlamento, al Presidente della Repubblica e alle supreme magistrature ordinarie e amministrative (Corte di Cassazione, Consiglio di Stato e Corte dei Conti). Le nomine parlamentari avvengono a Camere riunite, all'istituzione della Corte è invalsa una regola convenzionale ovvero quella di riservare la designazione di questi 5 giudici ai partiti che siedono in Parlamento, secondo i rapporti di forza che le rispettive rappresentanze esprimono. Una regola analoga ha guidato anche l'esercizio del potere di nomina assegnato al Capo dello Stato. Nel senso che, anche in questo caso, si tratta di nomine che spesso, anche se non sempre, non vengono ispirate prevalentemente da criteri di equilibrio della rappresentanza delle diverse aree politiche.
L'indubbia politicità delle nomine di origine parlamentare e presidenziale è bilanciata dalla durata in carica particolarmente lunga (9 anni), dalla non rieleggibilità e dalla previsione di precisi requisiti di professionalità. Oltre a questi requisiti positivi, sono previste numerose cause di incompatibilità, alcune dettate direttamente dalla Costituzione, altre previste dalla legge quali il divieto di ricoprire ogni altro impiego pubblico o privato, il divieto di svolgere qualunque forma di attività professionale, il divieto di svolgere funzioni di sindaco. La Costituzione non si occupa direttamente di disciplinare le modalità che devono essere seguite per la nomina dei giudici costituzionali da parte delle supreme magistrature. Tale disciplina prevede che tre dei cinque giudici vengano nominati dalla Corte di Cassazione, uno dal Consiglio di Stato e uno dalla Corte dei Conti. Per essere eletti è richiesta, al primo scrutinio, la maggioranza assoluta; ove questa non venga raggiunta si procede al ballottaggio tra i candidati che abbiano riportato il maggior numero dei voti. In caso di parità risulta eletto il più anziano. Il ruolo di Presidente della Corte è svolto da uno dei suoi membri eletto a maggioranza di componenti (ove tale maggioranza non venga raggiunta nei primi due scrutini, si procede al ballottaggio e risulta eletto chi ha raggiunto la maggioranza dei voti).
Il Presidente dura in carica 3 anni ed è rieleggibile, entro i limiti del suo mandato novennale. Al Presidente sono conferiti numerosi e rilevanti poteri non sono in ordine allo svolgimento della discussione del collegio (a cui spetta, tra l’altro, il voto decisivo in caso di parità dei voti espressi dagli altri giudici) ma anche in ordine alla definizione del calendario delle cause da decidere. Il presidente è in grado non solo di far o parare la corte più o meno intensamente, ma anche di scegliere il momento più opportuno nel quale chiamarla a pronunciarsi su questioni particolarmente controversie e di forte impatto politico.
Non appena eletti i giudici della corte costituzionale sono tenuti a prestare giuramento di fedeltà alla Repubblica e di osservanza della Costituzione davanti al Presidente della Repubblica. Allo scadere del termine dei 9 anni, i giudici costituzionali cessano dalla carica e dall’esercizio delle loro funzioni, si che non si applica alla corte l’istituto della “prorogatio”, che invece abbiano visto essere espressamente previsto per le camere. Quella ora descritta è la composizione per così dire ordinaria della corte; essa muta nel caso in cui l’organo di giustizia costituzionale sia chiamato a esercitare la sua competenza penale, in ordine ai reati di alto tradimento e attentato alla costituzione del presidente della Repubblica: la composizione della corte viene in questo caso integrata dai 16 giudici non togati, estratte a sorte dalla lista di persone nominate dal parlamento in seduta comune.
Come ogni altro organo costituzionale, la corte e i suoi membri godono di particolari guarentigie volte a garantirne l'autonomia e l'indipendenza. Per ciò che attiene alle garanzie esse consistono: nel potere di procedere alla verifica dei poteri dei propri membri, ossia alla verifica del processo dei requisiti richiesti per rivestire la carica di giudice costituzionale; nel potere di decidere ogni questione relativa ad eventuali cause di incompatibilità; nel potere di decidere la rimozione della carica dei propri membri; nell'autonomia finanziaria; nell'autonomia amministrativa, che consente alla Corte non solo di determinare il proprio fabbisogno di personale di supporto, ma anche di decidere ogni questione con essa a questi rapporti di impiego; nell'autonomia regolamentare, attraverso la quale la corte può dettare una disciplina integrativa della propria organizzazione; nel potere di polizia interna assegnata al Presidente della Corte. Per quanto attiene alle garanzie assicurate ai giudici costituzionali esse consistono: nella inamovibilità di impedimento per incapacità sopravvenuta o gravi mancanze nell'adempimento delle proprie funzioni; nella insindacabilità e non perseguibilità per le opinioni e i voti espressi nell'esercizio delle loro funzioni; nella non sottoponibilità a limitazione delle libertà personali, salva l'autorizzazione della stessa Corte; nell'assegnazione di una retribuzione che la legge determina in misura non inferiore a quella del più alto magistrato della giurisdizione ordinaria. I principi generali su cui si basa il suo funzionamento sono quello della pubblicità e quello della collegialità. Le sedute della Corte sono pubbliche; sentenze e ordinanze sono pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale. Il principio di collegialità stabilisce che la corte opera alla presenza di almeno 11 giudici e che le decisioni siano prese in camera di consiglio, alla presenza di tutti i giudici che hanno partecipato alle varie fasi di trattazione della causa, a maggioranza assoluta dei votanti.
Il controllo di legittimità costituzionale: l’oggetto
La prima funzione della Corte Costituzionale è quella di esercitare il controllo sulla legittimità costituzionale delle leggi, a garanzia della rigidità della Costituzione.
Si tratta di un controllo successivo all’entrata in vigore della legge, da non confondere con quel controllo, sempre di conformità alla Costituzione ma preventivo, che viene esercitato dal presidente della Repubblica, in sede di promulgazione delle leggi e di emanazione degli atti con forza di legge.
Oggetto di tale controllo non sono le sole leggi approvate dal Parlamento ma anche gli atti aventi forza di legge dello Stato e delle Regioni. Non sono stati ricompresi nella categoria degli atti sottoponibili a giudizio della corte i regolamenti, nella convinzione che essendo fonti secondarie subordinati alla legge, non potessero direttamente apportare alcuna violazione alla Costituzione.
Va tuttavia precisato che l’attuale esclusione dei regolamenti dal novero degli atti sottoponibili al controllo di legittimità costituzionale alla corte non esclude che alcuni fra essi possono essere sindacati dalla corte stessa in sede di decisione dei conflitti di attribuzione, nonché, sempre per profili attinenti alla loro conformità alla Costituzione, dallo stesso giudice comune, trasformandosi il vizio di costituzionalità in vizio di legittimità dell’atto regolamentare.
Non rientrano tra gli atti sottoponibili del giudizio della corte neppure i regolamenti parlamentari, pur fonti primarie, in contrasto con parte della dottrina e analoga regola è da ritenersi operante anche per i regolamenti degli altri organi costituzionali. Vi rientrano sia le leggi costituzionali e di revisione costituzionale, sia gli atti normativi comunitari, anche se non direttamente, bensì per il tramite della legge di esecuzione dei Trattati istitutivi delle comunità. In relazione a quest’ultimi la corte ha avuto modo di affermare in più di una occasione la propria competenza a verificare la perdurante compatibilità dei trattati rispetto a quelli che essa chiama i “principi supremi” dell’ordinamento costituzionale italiano, nonché rispetto ai diritti inalienabili della persona umana.
Esistono, infine, alcune ipotesi dubbie, come quella che riguarda l’atto (decreto del presidente della Repubblica) che contiene l’esito positivo, cioè abrogante, del referendum di cui all’art. 75 Cost. è da sottolineare che la corte non ha escluso, in linea di principio, questa eventualità, ma al controllo l’ha affermata in una serie di sentenza. In linea con la sua giurisprudenza sulla collocazione delle leggi di esecuzione dei trattai internazionali allo stesso livello delle altre leggi (e dunque vincolate al rispetto dei principi costituzionali), la corte ha risolto in senso positivo l’interrogatorio circa la loro sottoponibilità al suo sindacato, ovvero quelle in tema di esecuzione interna di trattati di estrazione verso paesi in cui ordinamento prevede la pena di morte.
Sempre in ordine all'oggetto del giudizio della Corte, resta da chiarire il problema se esso debba svolgersi solo sulle disposizioni legislative che le vengono sottoposte ovvero anche sulle norme e se ne possono desumere. La legge 87/1953 quando disciplina il modo di porre le questioni di legittimità costituzionale alla Corte, nonché il modo in cui quest'ultima deve deciderle, allude solo alle disposizioni: così il giudice che propone la questione deve indicare il testo delle specifiche disposizioni impugnate; così la Corte in sede di decisione deve indicare quali siano le disposizioni che essa ritiene illegittime. Oggi nessuno mette in discussione che il controllo di legittimità delle leggi investa tanto le disposizioni, quanto le norme da esse comunque desumibili.
I vizi sindacabili e le norme parametro
Il controllo di legittimità costituzionale delle leggi è un controllo formale: la Corte può sindacare il rispetto o meno delle regole che disciplinano il procedimento che porta all'approvazione e all'entrata in vigore di una legge o di un atto avente forza di legge.
Queste regole sono in parte contenute direttamente nella Costituzione o in altre fonti sulla produzione cui la Costituzione rinvia e la corte ha affermato la propria competenza ad accertare l’avvenuto rispetto delle prime, facendo così cadere, molto parzialmente, il principio della insindacabilità degli “interna corporis” del parlamento.
Il controllo della Corte può essere anche sostanziale, può cioè investire, oltre ai profili formali della legge impugnata, quelli relativi al suo contenuto, al fine di vagliarne la conformità o meno rispetto alla Costituzione. Sotto il profilo sostanziale, i vizi della legge sindacabili dalla corte sono di tre ordini: violazione della Costituzione: ogni vizio di legittimità costituzionale di una legge si traduce in una violazione della Costituzione, ma qui il termine è usato in un significato più puntuale e sta ad indicare il contrasto tra una legge ed una specifica norma costituzionale; incompetenza: è il vizio che riguarda gli atti legislativi adottati da soggetti diversi da quelli cui, per Costituzione, sarebbe aspettato adottarli; vizio, dunque, che si risolve nella violazione dei criteri di riparto della funzione legislativa previsti dal dettato costituzionale e che attiene, essenzialmente, ai rapporti tra legge statale e legge regionale (o provinciale); eccesso di potere legislativo: si tratta di un vizio, la cui definizione si deve alla giurisprudenza della Corte costituzionale.
In relazione agli atti amministrativi, esso sta ad indicare l’adozione di un atto per conseguire finalità diverse da quelle previste dalla legge; in relazione alla legge,esso sta ad indicare l’adozione di una legge che, per il suo contenuto, non risponde a certe finalità, previste dalla Costituzione, al cui raggiungimento essa risulta violata. La stessa corte ha messo a punto, in via giurisprudenziale, alcuni criteri guida, esso potrà investire la palese contraddittorietà del contenuto della legge rispetto ai suoi presupposti; l’incongruità dei mezzi predisposti, rispetto al raggiungimento delle finalità che stanno alla base della disciplina legislativa impugnata; infine, ed è il criterio di cui si è più discusso, la ragionevolezza del contenuto della legge, sempre misurata alla luce delle sue finalità nel quadro dei principi costituzionali.
Il parametro del controllo di costituzionalità della legge rimane sempre un parametro costituzionale, sia esso rappresentato da norme espressamente previste dalla Costituzione ovvero da principi desumibili anche implicitamente dal dettato costituzionale.

E lo stesso vale per quelle ipotesi in cui, oltre alla Costituzione e alle leggi costituzionali, vengono utilizzate come parametro norme di legge ordinaria, la cui violazione, da parte della legge impugnata davanti all’organo di giustizia costituzionale, si traduce in una violazione indiretta della Costituzione. È il caso delle leggi di delegazione, le quali devono necessariamente contenere, secondo quanto previsto dall’art.76 Cost., tutta una serie di limiti cui il governo deve attenersi nell’adottare i conseguenti decreti delegati: ove questi ultimi non rispettino le indicazioni contenute nella legge di delegazione, possono essere impugnati davanti alla corte e dichiarati incostituzionali per violazione della norma interposta, in quanto violazione indiretta dei limiti alla delegazione legislativa, previsti dall’art.76 Cost.
In secondo luogo, è il caso delle norme internazionali generalmente riconosciute: la loro violazione da parte del legislatore nazionale si tradurrebbe in una violazione indiretta del trincio affermato dall’art. 10 Cost., il quale, come abbiamo visto, consente una diretta operatività di tali norme nell’ambito dell’ordinamento interno, con conseguente obbligo di rispetto del loro contenuto da parte della legge nazionale.
In terzo luogo, è il caso delle “leggi cornice”, quelle destinate, a dettare i principi fondamentali nelle materie affidate alla competenza legislativa concorrente delle regioni e nel rispetto dei quali tale competenza deve essere esercitata: anche in questa ipotesi l’eventuale violazione è soggetta al sindacato della corte, in quanto violazione della norma interposta. Infine, è stato a lungo il caso delle norme comunitarie, la cui violazione da parte del legislatore nazionale la corte riteneva di dover sindacare in quanto violazione indiretta dell’art. 11 Cost., inteso quest’ultimo come disposizione che autorizza la diretta applicabilità delle norme comunitarie nell’ordinamento interno. Successivamente essa, aderendo alla posizione assoluta dalla corte di giustizia, ha cambiato indirizzo e ha affermato la competenza del giudice comune ad operare questo raffronto e, se del caso, disapplicare la legge nazionale che risulti in contrasto con le norme comunitarie. Queste norme di legge ordinaria, o di atti ad essa equiparati, sono norme interposte: perché si interpongono tra la norma costituzionale, di cui rappresentano una specifica attuazione, e la norma di legge impugnata davanti alla corte, si che quest’ultima, per accertare l’eventuale violazione della norma costituzionale, dovrà fare riferimento innanzitutto alla norma che ne rappresenta l’applicazione.
L'accesso alla corte in via incidentale
La Costituzione non detta a una disciplina circa i modi di accesso alla Corte Costituzionale. È alla legge cost. 1/1984 che è necessario fare riferimento per conoscere le regole procedimentali che consentono di sottoporre una legge, o un atto avente forza di legge, al sindacato di legittimità dell'organo di giustizia costituzionale. Tali regole danno vita a due distinti procedimenti: un procedimento in via incidentale e un procedimento in via principale. Il procedimento in via incidentale nasce da un'iniziativa di un giudice comune la quale si lega strettamente alla soluzione di un caso concreto che quel giudice si trovi a dover decidere. Uno degli aspetti procedurali sui quali la corte ha dovuto intervenire con numerose pronunce ha riguardato l'esatta definizione della nozione di giudice "a quo", del soggetto cioè abilitato a promuovere una questione di legittimità costituzionale.
L’art. 23 della legge 87/1953 parla di “autorità giurisdizionale”, alludendo a quei soggetti in possesso dei requisiti formali necessari per appartenere all’ordine giudiziario, e di “giudizio”, alludendo al processo quale sede naturale nella quale può essere sollevata (dalle parti) o rilevata(di ufficio) una siffatta questione. La corte costituzionale ha avuto modo di occuparsi in numerose occasioni di questo problema, risolvendo sempre sulla base di una nozione di “attività giurisdizionale” (e di “giudizio”) non astratta, ma specifica, ossia legata alle finalità particolari del processo costituzionale, il quale deve consentire la più ampia possibilità di sottoporre le leggi vigenti al vaglio di costituzionalità. In questo modo, essa ha potuto andare al di là del dato formale e affermare un’interpretazione estensiva dei termini utilizzati dal legislatore, ricomprendendo nella nozione di “giudice a quo”, oltre a sé medesima, la commissione disciplinare del consiglio superiore della magistratura, la corte dei conti, sia in sede di giudizio di parificazione del bilancio dello Stato, sia in sede di controllo sugli atti del governo, il giudice di sorveglianza, in sede di esecuzione della pena, l’arbitro rituale, e così via.
Nel corso del giudizio può avvenire che il giudice si convinca che una certa disposizione legislativa, che dovrebbe applicare per quel processo, sia di dubbia legittimità costituzionale. Convinzione alla quale il giudice può intervenire per iniziativa propria o perché indotto da un'istanza di una delle parti in causa, ovvero dal pubblico ministero. In questo caso, il giudice sospende il processo creando così un incidente nel corso del medesimo (procedimento in via incidentale) e solleva la questione di legittimità costituzionale di quella disposizione legislativa davanti alla corte, l'unica abilitata a deciderla. L'atto che sospende il processo in corso e apre quello che si svolge davanti all'organo di giustizia costituzionale è un'ordinanza motivata di rinvio, la quale deve contenere: l'indicazione della disposizione legislativa della cui legittimità costituzionale si dubita; l'indicazione delle disposizioni costituzionali che si ritengono violate; i motivi che hanno indotto il giudice a ritenere la questione di legittimità costituzionale sottoposta alla corte rilevante ai fini della decisione del processo che pende davanti a lui (giudizio di rilevanza). Il giudice deve cioè convincersi, e motivare di conseguenza, che la decisione del processo richiede necessariamente l’applicazione della disposizione legislativa impugnata, si che la soluzione della questione di legittimità costituzionale, di cui essa è oggetto, diviene pregiudiziale rispetto alla decisione finale del processo in corso. I motivi che hanno indotto il giudice a ritenere che la questione di legittimità costituzionale non sia manifestamente infondata 8è giudizio di non manifesta infondatezza), ossia a ritenere che esistano davvero dei dubbi circa la conformità a Cost. di quella disposizione. Le ordinanze di rinvio alla Corte costituzionale sono soggette ad un regime di pubblicità: sono pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale al duplice scopo di consentire a chiunque di conoscere i profili di dubbia costituzionalità e di consentire ad altri giudici che si trovino nella stessa situazione di espandere la loro decisione.
Le ordinanze sono inoltre notificate alle parti in causa, al pubblico ministero, al presidente del consiglio o al presidente della giunta regionale. Si tratta, dunque, di un procedimento che realizza quella combinazione tra elementi del modello diffuso di giustizia costituzionale e elementi propri del modello accentrato di cui si è detto, coinvolgendo anche i giudici comuni nel controllo di legittimità costituzionale delle leggi, con un ruolo non decisionale (esso è riservato alla corte), ma di iniziativa e di filtro delle diverse questioni che possono nascer in sede di applicazione della legge nelle singole specifiche controversie. Una volta esclusa l’introduzione di un accesso diretto alla corte da parte dei singoli cittadini si è fatto del giudice comune il limite necessario di ogni istanza relativa alla legittimità costituzionale delle leggi: un tramite necessario, ma non meccanico e automatico, giacché esso, prima di chiamare in causa l’organo di giustizia costituzionale, deve vagliare (ecco la funzione di filtro) che la questione che gli viene proposta non solo sia, come si è detto, rilevante per la decisione di quella specifica controversia, ma anche non manifestamente infondata.
L’accesso in via principale (o diretta)
L'unica ipotesi in cui è consentito un accesso diretto alla Corte per un giudizio sulla legittimità costituzionale o meno di una legge, attiene ai rapporti tra legge statale e legge regionale: qualora lo Stato o una Regione ritengano, una legge regionale o una legge statale in contrasto con la Costituzione o in contrasto con i criteri costituzionali fissati per il riparto della competenza legislativa tra Stato e Regioni essi possono direttamente sollevare la relativa questione davanti alla Corte. In seguito all'approvazione delle leggi costituzionali 1/1999 e 2/2001, l'impugnazione da parte dello Stato può riguardare la legge di approvazione degli statuti delle Regioni ad autonomia ordinaria o la legge delle Regioni ad autonomia speciale: tali leggi possono essere impugnate dal Governo davanti alla Corte, entro 30 giorni dalla loro pubblicazione notiziale.

Per ciò che attiene alle altre leggi delle regioni, in base al nuovo art. 127 Cost., l’impugnazione da parte del governo, deliberata dal consiglio di ministri, deve intervenire entro 60 giorni dalla pubblicazione delle leggi regionali sul bollettino ufficiale della regione.
I motivi che possono determinare l'impugnazione delle leggi regionali davanti alla corte da parte del governo sono legati al mancato rispetto da parte del legislatore regionale dei limiti che la Costituzione pone alla potestà legislativa delle Regioni.
Analogamente, anche la regione può impugnare in via diretta una legge o un atto con forza di legge dello Stato entro 60 giorni dalla sua pubblicazione sulla gazzetta ufficiale, ma solo nell’ipotesi in cui ritenga che l’atto statale “leda la sua sfera di competenza” (art. 127.2 Cost.).
Oltre che da parte dello Stato una legge regionale può essere impugnata anche da parte di un altra Regione. Sul versante regionale, legittimato a promuovere l'impugnazione di una legge dello Stato è il Presidente della Regione, sulla base di un'apposita deliberazione adottata dalla Giunta entro 30 giorni dalla pubblicazione della legge.
In analogia a quanto previsto per i conflitti tra Stato e regione, la legge 131/2003 ha attribuito alla corte il potere di sospendere le leggi statali o regionali impugnate, qualora essa “ritenga che l’esecuzione dell’atto impugnato o di parti di esso possa comportare il rischio di un irreparabile pregiudizio all’interesse pubblico o all’ordinamento giuridico della Repubblica, ovvero il rischio di un pregiudizio grave e irreparabile per i diritti dei cittadini.
L'esame della questione da parte della Corte
Una volta scaduto il termine di venti giorni dalla pubblicazione dell'ordinanza di rinvio sulla Gazzetta Ufficiale per la costituzione delle parti ha inizio il processo di costituzionalità davanti alla Corte.
L’esame di questo deve attenersi strettamente ai termini nei quali essa è stata posta nell’ordinanza di rinvio, attraverso l’indicatore delle disposizioni di legge, ritenute di dubbia legittimità e delle norme costituzionali di riferimento, e può essere esteso dalla corte solo alle disposizioni di legge connesse a quelle indicate nell’ordinanza. Tale esame inizia con una valutazione della rilevanza della questione per la decisione del processo “a quo”. Il giudizio di rilevanza è riservato al giudice comune, si che l’intervento della corte deve limitarsi (ma non sempre questo limite è stato rispettato) ad accertare l’esistenza di una motivazione, su questo punto, sufficiente, non palesemente erronea o contraddittoria dell’ordinanza di rinvio, e non arrivare fino a un riesame autonomo degli elementi che hanno portato il giudice “a quo” a certe conclusioni.in caso di esito negativo di questo primo tipo di valutazione operato dalla corte,essa adotterà una pronuncia di inammissibilità della questione, per difetto di rilevanza, e, senza entrare nel merito della questione di legittimità costituzionale, rinvierà gli atti al giudice 2° quo” (ordinanza di inammissibilità).
Sempre con ordinanza, la Corte rinvia gli atti al giudice "a quo", nel caso in cui ritenga la questione di legittimità costituzionale manifestamente infondata (ordinanza di manifesta infondatezza). Nell’ipotesi opposta, viceversa, la corte dovrà valutare se i dubbi di legittimità costituzionale espressi nell’ordinanza di rinvio, e non ritenuti manifestamente infondati, siano tali da portare o meno ad una dichiarazione di incostituzionalità delle norme impugnate. Se al giudice “a quo” spetta solo accertare l’esistenza di dubbi non manifestamente infondati circa la legittimità delle norme impugnate, alla corte spetta, invece, in va esclusiva e inappellabile, il compito di decidere circa l’esistenza o meno del contrasto ipotizzato dall’ordinanza di rinvio.la decisione della questione avviene in camera di consiglio, ma può essere preceduta da un’udienza pubblica. In genere, tutte le decisioni di carattere processuale della Corte rivestono la forma dell'ordinanza non, là dove assumono la forma della sentenza le decisioni che investono il merito della questione di legittimità costituzionale sollevata.

Le modalità di conclusione del processo costituzionale

  1. La conclusione del processo in via incidentale

La sentenza della corte può esprimere o l’accoglimento dei dubbi espressi nell’ordinanza di rinvio in relazione alle norme impugnate, ovvero il loro rigetto. Nel I caso, la corte adotta una sentenza che è detta, appunto, di accoglimento. Nel II caso, una sentenza del rigetto.
Le sentenze si compongono di tre parti: nella prima ("in fatto") vengono riassunti i termini della questione così come proposti nell'ordinanza di rinvio, ed esposte le posizioni espresse dalle parti che si sono costituite; nella seconda ("in diritto") la Corte prende posizione sia in ordine alla rilevanza della questione proposta, sia in ordine della sua fondatezza o meno; nella terza ("dispositivo") la Corte sintetizza il contenuto della sua decisione.
Le sentenze di accoglimento recano nel dispositivo la dichiarazione di incostituzionalità delle norme impugnate; le sentenze di rigetto, la dichiarazione dell’infondatezza dei dubbi di costituzionalità espressi nell’ordinanza di rinvio.
Sia le sentenze, che le ordinanze sono depositate presso la cancelleria della stessa Corte. Il dispositivo delle sentenze di accoglimento viene pubblicato nella gazzetta ufficiale (ovvero nel bollettino della regione interessata, se riguardano leggi regionali).
Le sentenze di accoglimento producono l'annullamento della norme di legge dichiarate incostituzionali. La dichiarazione di incostituzionalità ha effetti “erga omnes”. La portata di tali effetti riguarda i rapporti giuridici che vengono a formarsi nel periodo successivo alla pubblicazione della sentenza di accoglimento, ma anche quelli ad essa precedenti che non siano giuridicamente esauriti con l’unica eccezione rappresentata dai rapporti giuridici decisi con sentenza di condanna penale irrevocabile (si prevede che l’eventuale dichiarazione di incostituzionalità delle norme di legge, in base alle quali tale condanna è stata pronunciata, ne produca la cessazione degli effetti a carico del condannato).
Un altro limite alla retroattività delle sentenze di accoglimento è divenuto affermandosi in quella giurisprudenza della Corte nella quale essa ha deciso di disporre in ordine agli effetti temporali delle sue pronunce, stabilendo il momento da cui essi dovessero prodursi (sentenze di incostituzionalità sopravvenuta). In questo modo la corte finisce per attribuirsi un potere nell’esercizio nel quale possono facilmente giocare valutazioni di ordine sostanziale,non strettamente legate alla logica del processo costituzionale, con il rischio di determinare disparità di trattamento, non sempre facilmente giustificabili. Come per gli effetti retroattivi, così anche per quelli futuri la corte ha messo a punto una serie di meccanismi decisori che consentono di differire nel tempo le conseguenze connesse all’accertamento dell’incostituzionalità della legge impugnata.
Con le sentenze di rigetto precario ovvero di costituzionalità provvisoria, la Corte accerta l'incostituzionalità della legge ma rinvia ad un momento successivo la declatoria di incostituzionalità della medesima. Si pensi alle sentenze di incostituzionalità differita, che sono delle sentenze di accoglimento, con le quali la corte dichiara l’incostituzionalità della legge, ma, contestualmente, decide di rinviarne gli effetti ad un “dies a quo”, futuro, che, in certi casi, viene lasciato indeterminato, in altri viene puntualmente determinato dalla stessa corte. L’esigenza cui quest’ultimo tipo di sentenze risponde è quella di evitare che una pronuncia di accoglimento “tout-court” produca una lacuna particolarmente grave nell’ordinamento giuridico, cui solo l’azione creativa del legislativo può ovviare: il differimento degli effetti della pronuncia in incostituzionalità serve appunto a dar tempo al parlamento di intervenire ad eliminare la situazione di illegittimità riscontrata dalla corte.le norme dichiarate incostituzionali cessano di esistere e ciò spiega perché si parli, in relazione agli effetti delle sentenze di accoglimento, della creazione di “lacune” nel sistema normativo. Colmare queste lacune spetta al legislatore (sia quello nazionale o quello regionale), ovviamente attraverso la predisposizione di una disciplina che non presenti gli stessi aspetti di incostituzionalità che hanno portato alla caducazione delle norme sottoposte al controllo di legittimità costituzionale della corte.
Il presidente del consiglio riferisca periodicamente al consiglio stesso (dandone comunicazione alle camere) circa lo Stato del contenzioso costituzionale, ma anche che il presidente promuova le iniziative legislative che, in relazione a questioni di legittimità costituzionali pendenti, risultino opportune.
A differenza di effetti delle sentenze di accoglimento, quelli delle sentenze di rigetto si riverberano nei confronti del processo "a quo": il giudice di quel processo dovrà adottare la sua decisione applicando le norme di legge in relazione alle quali la Corte ha dichiarato infondati i dubbi di legittimità costituzionale avanzati nell'ordinanza di rinvio. Ed ovviamente le stesse norme potranno continuare ad essere applicate da altri giudici comuni, nonché dagli organi amministrativi. Il rigetto di una questione di legittimità costituzionale non esclude che la stessa possa essere riproposta alla corte, accompagnata da diverse motivazioni, e che possa andare incontro ad un esito diverso. Sentenze di accoglimento e sentenze di rigetto non esauriscono la tipologia delle decisioni della Corte costituzionale. Quest’ultima, infatti, nel corso della sua lunga attività, ha messo a punto un apparato di strumenti decisori assai più articolato e complesso, che le ha permesso di impostare un rapporto con i soggetti istituzionali destinatari delle sue pronunce (legislatore e giudici comuni) meno schematico di quello che il solo ricorso ai tipi di sentenze sin qui esaminati le avrebbe consentito.
Un primo arricchimento degli strumenti decisori della Corte si è avuto con l'introduzione delle sentenze interpretative. Con esse, la corte, sciogliendo in senso positivo l’interrogativo circa la possibilità di esercitare il controllo di legittimità costituzionale non solo sulle disposizioni, ma anche sulle norme da esse desumibili, valuta la conformità di queste ultime rispetto alla Costituzione, si che su queste e non sulle disposizioni scritte operano gli effetti della pronuncia adottata. Se la corte giudica incostituzionale la norma desunta in via di interpretazione dalla disposizione impugnata (sentenza interpretativa di accoglimento), la disposizione rimarrà nell'ordinamento senza che si determini alcuna lacuna, ma essa non potrà trovare applicazione nell'interpretazione sulla base della quale la Corte ne ha dichiarata l'incostituzionalità.
Può anche avvenire che la corte giudichi infondati i dubbi di legittimità costituzionale avanzati in relazione alla disposizione impugnata, qualora essa ritenga che la norma da essa desumibile, sempre in via di interpretazione,non consenta di arrivare ad una pronuncia di accoglimento (sentenza interpretativa di rigetto) e in questo caso l’effetto sarà, di nuovo, quello di consentire non solo la sopravvivenza della disposizione impugnata, ma anche la sua applicazione nell’interpretazione datane dalla corte. Anche in questo caso, oggetto della pronuncia della corte non è tanto la disposizione, quanto una sua particolare interpretazione. L’obiettivo della corte intendeva raggiungere nel dare il via alla prassi delle sentenze interpretative (quello di evitare troppe “lacune” nel tessuto normativo) incontra, nel nostro sistema, il limite rappresentato dalla inesistenza di un obbligo giuridico per il giudice comune di confermare le proprie decisioni alle interpretazioni delle disposizioni legislative sostenute dall’organo di giustizia costituzionale. Tali interpretazioni possono avere al più un valore persuasivo nei confronti degli altri giudici, ma non certo quello proprio di un vincolo giuridico. Ciò spiega il perché, in numerose occasioni, la corte, di fronte al mancato seguito giurisprudenziale delle proprie sentenze interpretative, una volta chiamata di nuovo a pronunciarsi sulle medesime disposizioni di legge, abbia cambiato strada e imboccato quella delle sentenze di accoglimento in senso proprio.
Diritto vivente è il diritto che risulta dalla consolidata interpretazione giurisprudenziale delle disposizioni di legge.
Un secondo tipo di sentenze è rappresentato dalle sentenze additive, da quelle ablative e da quelle sostitutive. Si tratta in tutti e tre i casi di sentenze di accoglimento.
Con le I, la corte dichiara la incostituzionalità della disposizione impugnata “nella parte in cui non prevede” un qualche cosa che invece dovrebbe prevedere; con le II, la corte dichiara l’incostituzionalità della disposizione impugnata “nella parte in cui prevede” un qualche cosa  che invece non dovrebbe prevedere; con le III, la corte dichiara la incostituzionalità della disposizione impugnata nella parte in cui prevede un qualche cosa “anziché” un qualcos’altro. L’effetto delle I sarà quello di estendere la portata normativa della disposizione impugnata, giacché dal giorno successivo a quello della pubblicazione della sentenza, la parte mancante diverrà norma applicabile dal giudice e andrà così a integrare il contenuto della disposizione impugnata (di qui la definizione di sentenze additive). L’effetto delle II sarà, invece, quello di eliminare dalla disposizione impugnata la parte ritenuta incostituzionale dalla corte, lasciandone in vita la parte restante (sentenza ablative). L’effetto delle III sarà quello di imporre al giudice comune l’applicazione della norma individuata dalla corte incostituzionale di quella dichiarata illegittima. Il ricorso a questo secondo tipo di sentenze è stato soggetto a critiche soprattutto per i problemi che esso pone in relazione alla definizione dei rapporti tra Corte costituzionale e legislatore. Per superare le critiche la corte ha messo a punto una nuova tecnica decisoria rappresentata dalle sentenze additive- di principio: il giudice costituzionale si astiene dal formulare la norma "mancante" ma si limita ad enunciare i principi, applicando i quali tale lacuna va colmata o ad opera del giudice comune o ad opera del legislatore. Tra i problemi derivati sul piano dei rapporti tra corte e parlamento, vanno ricordate le sentenze-delega e le sentenze di incostituzionalità differita delle disposizioni impugnate. A differenza delle sentenze additive, la legittimità di questi ulteriori tipi di sentenze non è stata messa in discussione, bensì per l’effetto condizionante che esse intendono produrre sul piano dell’esercizio successivo della funzione legislativa da parte dei soggetti che ne sono titolari e, in primo luogo, del parlamento. Con le sentenze-delega, la corte nel motivare la propria decisione si preoccupa di indicare al legislatore quali dovrebbero essere, alla luce del dettato costituzionale, le linee generali alla normativa della materia oggetto di esame. E parimenti, con le sentenze di incostituzionalità differita, la corte, nel riconoscere la legittimità costituzionale delle norme impugnate, ne fa salve tuttavia, transitoriamente, l’applicazione, in attesa di un intervento riformatore del legislatore, chiamato, anche in questo caso, ad intervenire in attuazione di precise indicazioni, direttamente fornite dall’organo di giustizia costituzionale.
b) La conclusione del processo in via principale
Nel caso in cui la Corte adotti una sentenza di accoglimento, l'effetto sarà quello di determinare l'annullamento della legge statale impugnata ovvero quello di impedire la promulgazione della delibera legislativa regionale o provinciale. Nei casi in cui la Corte adotti una sentenza di rigetto, l'effetto sarà quello di consentire l'ulteriore applicazione della legge statale impugnata ovvero la promulgazione, e la successiva entrata in vigore della legge regionale o provinciale.
Il giudizio sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato
La seconda funzione che l'art. 134 Cost. attribuisce alla Corte costituzionale, attiene alla risoluzione dei conflitti di attribuzione che possono verificarsi tra i poteri dello Stato, tra Stato e Regioni, e tra Regione e Regione. L'art. 37 della legge 87/1953 pone due principi fondamentali: essi possono sorgere solo tra gli "organi competenti a dichiarare definitivamente la volontà dei poteri cui appartengono" ed hanno ad oggetto "la delimitazione della sfera di attribuzione determinata per i vari poteri da norme costituzionali". Innanzitutto, quello dell'esatta individuazione dei soggetti legittimati a sollevare il conflitto davanti alla Corte. Trattandosi di conflitti aventi ad oggetto attribuzioni direttamente conferite dalla Cost., non vi è mai stato dubbio sul fatto che legittimati ad aderire la corte fossero non solo gli organi che impersonano, dal punto di vista organizzativo, i 3 tradizionali poteri dello Stato (il parlamento, quello legislativo; il governo, quello esecutivo; i giudici, quello giudiziario, fatta salva, tuttavia, l’esigenza di analizzare, anche in relazione a tali organi, le specifiche disposizioni costituzionali che li riguardano), ma anche gli organi che abbiano ricompresso nella categoria degli organi incostituzionali, ossia il presidente della Repubblica e la corte costituzionale stessa.
A questi, la corte ha successivamente assimilato questi organi che, pur non appartenendo allo Stato-appararto, ma essendo esterni ad esso, sono tuttavia titolari di “funzioni pubbliche costituzionalmente rilevanti e garantite,concorrenti con quelle attribuite a poteri e organi statali in senso proprio”.la questione riguardava il comitato promotore del referendum che, in quanto frazione del corpo elettorale, svolgente una pubblica funzione costituzionalmente garantita, è stato ritenuto titolare della legittimazione  chiedere alla corte di risolvere l’eventuale conflitto che lo contrapponga ad altri organi dello Stato, titolari di funzioni concorrenti con quelle attribuite al corpo elettorale in tema di referendum.
L'art. 134 Cost. e l'art 37 della legge 87/1953 escludono che il conflitto sollevabile davanti alla Corte possa essere quello che nasce tra organi appartenenti allo stesso potere.
La corte costituzionale ha riconosciuto, proprio in relazione a tale specifica attribuzione di funzioni, la legittimità a sollevare il conflitto da parte del ministro (nel caso di specie, nei confronti del consiglio superiore della magistratura). Ancora, con al successiva sentenza, sempre la corte ha ammesso legittimazione dei singoli ministri nell’ipotesi in cui siano colpiti da una mozione di sfiducia individuale, dovendosi ritenere l’atto contestato idoneo a distinguere e a isolare la responsabilità individuale del ministro, al di là del conferimento di specifiche attribuzioni da parte della Cost. Analogamente si è ammesso che un ex presidente della Repubblica sia legittimato a essere pare di un conflitto, ove questo si riferisca al periodo del suo mandato e sia in gioco una prerogativa costituzionale. La corte ha riconosciuto, in alcuni casi, la legittimazione al ricorso per conflitto di attribuzione a ciascuna camera del parlamento e alle commissioni d’inchiesta parlamentari (in quanto organi titolari di una propria sfera autonoma di attribuzioni costituzionali, distinte da quelle dell’organo cui appartengono); così la stessa legittimazione è stata riconosciuta ad ogni singolo organo giurisdizionale, dovendosi ritenere il potere giudiziario un potere diffuso, privo, in quanto tale, di un organo di vertice, e la cui “volontà” dunque tutti i singoli organi giudiziari, soggetti solo alla legge, sono in grado di esprimere in via definitiva.
Un ulteriore ordine di problemi ha riguardato la definizione dei comportamenti suscettibili di dare origine al conflitto. Anche a questo problema si è data una soluzione non restrittiva.
Nel senso di ritenere ammissibili non solo i conflitti determinati da atti invasivi della altrui sfera di attribuzioni, ma anche quelli determinati dall’esercizio o dal mancato esercizio di determinate competenze, da cui derivi un impedimento o un pregiudizio all’esercizio di competenze spettanti ad un altro organo. Mentre nel I caso vi sarà un organo che chiede alla corte che questa riconosca che l’adozione di quell’atto rientra nell’ambito delle proprie attribuzioni. Nel II caso vi sarà un organo che chiederà alla corte di dichiarare incostituzionale il comportamento (positivo o negativo) impugnato e di determinare così quel corretto esercizio di competenze altrui, che si ritiene necessario per l’esplicazione delle attribuzioni proprie. La corte, prima di esaminare il ricorso con il quale il conflitto è sollevato decidere con ordinanza circa l'ammissibilità del medesimo. Solo successivamente alla dichiarazione di ammissibilità del ricorso, la Corte procede a notificarlo ai soggetti controinteressati. La sentenza che risolve il conflitto ha un duplice effetto: determina a quale dei poteri confliggenti spettino le attribuzioni in contestazione; in secondo luogo, può determinare l'annullamento dell'atto adottato in violazione dei criteri costituzionali di riparto delle competenze, così come interpretati, in relazione alla specifica fattispecie, della stessa Corte. Nel caso di conflitti aventi ad oggetto comportamenti omissivi, la pronuncia della Corte comporterà l'accertamento della illegittimità del comportamento contestato, con la conseguenza di imporre una diversa linea di azione all'organo interessato.
Il giudizio sui conflitti tra Stato e Regione e tra Regioni
I conflitti nascono da interferenze, ritenute anch’esse illegittime, ma dovute ad atti non legislativi: ad atti amministrativi, in I luogo, ma anche normativi (di livello regolamentare) o giurisdizionali là dove questi ultimi comportino una invasione o una menomazione della sfera di competenza regionale o provinciale.
L'interpretazione estensiva accolta dalla Corte in ordine alla definizione della nozione di conflitto ha interessato anche la sfera dei conflitti tra enti. Sono così ritenuti ammissibili non solo i conflitto nascenti da un atto specifico di esercizio di un’altrui competenza, ma anche quelli nascenti da un uso (o non uso) illegittimo delle proprie competenze, con competenze negative in ordine al corretto esercizio di competenze costituzionalmente assegnate allo Stato o alla regione. Analogamente a quanto avviene per i conflitti tra poteri dello Stato, la pronuncia della Corte vale a sciogliere i dubbi circa l'appartenenza allo Stato o alla Regione della competenza contestata e a determinare l'annullamento dell'atto illegittimamente adottato o il mutamento del comportamento omissivo illegittimo. Una particolarità di questo procedimento è rappresentata dalla possibilità per la parte interessata di chiedere alla corte la sospensione dell'efficacia dell'atto impugnato, in attesa che questa si pronunci sul merito del conflitto.
Il giudizio sulle accuse promosse contro il Presidente della Repubblica
Terza funzione attribuita alla Corte è quella di giudicare sulle accuse promosse dal Parlamento nei confronti del Presidente della Repubblica per i reati di alto tradimento e attentato alla Costituzione. Quanto al procedimento che si svolge davanti alla corte nella composizione integrata dai 16 giudici aggregati, una volta esaurita la fase preliminare delle indagini e la fase dibattimentale diretta alla contestazione delle accuse, si conclude con una decisione presa in camera di consiglio, alla presenza dei giudici che hanno partecipato a tutte le udienze. Nella votazione finale, non è ammessa l’astensione e, in caso di parità di voti, prevede la soluzione più favorevole all’imputato. La sentenza che conclude il giudizio d'accusa, anch'essa soggetta alla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, è irrevocabile; tuttavia può essere sottoposta a revisione da parte della stessa Corte nell'ipotesi in cui emergano fatti o elementi nuovi. La revisione può essere chiesta dal comitato parlamentare per le accuse.
Il giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo
L' attribuzione alla Corte costituzionale della funzione relativa al giudizio sull'ammissibilità delle richieste di referendum abrogativo non deriva da un'espressa previsione costituzionale. Si tratta dell'unica ipotesi in cui la corte decide in assenza di parti. La Corte decide in camera di consiglio e la sua sentenza ha effetti limitati al caso deciso e non pregiudica, nell'ipotesi di giudizio negativo, la riproposizione di una richiesta referendaria avente lo stesso oggetto.

CAPITOLO XIII: Il potere giudiziario. (pag. 401 - 423)

Il dibattito in Assemblea Costituente
L'impostazione accolta dai Costituenti nell'affrontare i problemi connessi alla disciplina del potere giudiziario è più ispirata al recupero del sistema precedente all'avvento del regime fascista. Quanto alla struttura l'elemento di maggior continuità è rappresentato dal mantenimento del doppio binario di giurisdizione, che deve convivere insieme giustizia ordinaria e giustizia amministrativa, l'elemento di maggiore novità è rappresentato dalla introduzione del sistema di giustizia costituzionale. Con l'entrata in vigore della Costituzione repubblicana il sistema giudiziario italiano ha visto confermata ed accresciuta la sua caratteristica di sistema fortemente articolato: ai giudici ordinari (civili e penali), si affiancano i giudici amministrativi (i Tribunali amministrativi regionali, il Consiglio di Stato), i giudici in materia contabile (la Corte dei Conti) e tributaria (le Commissioni tributarie) e i giudici militari. La Costituzione prevede due principi di grande rilievo: quello per cui "nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge" e quello per cui " non possono essere istituiti giudici straordinari o giudici speciali".
Si tratta di 2 divieti rivolti al legislatore ordinario e che mirano entrambi, seppur in modo diverso, ad assicurare al cittadino la terzietà (e quindi l’imparzialità) del giudice.
Con il primo principio si garantisce la previa costituzione del giudice competente a decidere la controversia; con il secondo si vieta la costituzione di organi giudicanti "ex post", successivamente cioè al verificarsi dei fatti sottoposti a giudizio (i giudici straordinari), ovvero di organi giudicati con competenze speciali, in quanto riferite a specifiche materie (i giudici speciali), gli uni e gli altri istituti con criteri diversi da quelli adottati per i magistrati ordinari e legati o alla natura dei fatti oggetto del giudizio o alla specialità della materia (e che potrebbero essere troppo sensibili agli interessi in gioco).
Altro principio costituzionale che attiene all'organizzazione del potere giudiziario è quello sancito dall'art. 106, il quale affida alla legge il compito di disciplinare "i casi delle forme della partecipazione diretta del popolo all'amministrazione della giustizia".
Un principio che si lega direttamente a quello affermato nell’art. 101.1 Cost. (“la giustizia è amministrata in nome del popolo”) e che lascia intravedere per il potere giurisdizionale, la possibilità che il legislatore ne disciplini un esercizio non esclusivamente affidato a giudici professionali.
Le novità di significative della disciplina costituzionale si registrano sul versante dei rapporti tra giudici e altri poteri dello Stato (sul versante della loro indipendenza esterna), nonché sul versante dei rapporti tra i singoli magistrati e la struttura organizzativa nell'ambito della quale essi esercitano le loro funzioni (sul versante della loro indipendenza interna).
Le garanzie che la Cost. predispone si collegano tutte le fondamentale principio in base al quale “i giudici sono soggetti soltanto alla legge” (art.101.2 Cost.). essa sta a significare non solo la subordinazione del giudice (così come dell’amministratore), nell’esercizio delle sue funzioni, all’atto espressivo della volontà dell’organo rappresentativo della volontà popolare, ma anche la sua indipendenza rispetto ad ogni interferenza che altri poteri dello Stato intendessero porre in essere nei confronti dell’azione dei magistrati, intesi sia come singoli che come ordine giudiziario. Sotto il profilo dell'indipendenza esterna la Costituzione repubblicana prevede l'istituzione di un organo "ad hoc", il Consiglio Superiore della Magistratura al quale sono state conferite una serie di funzioni di natura amministrativa e di natura giurisdizionale, in precedenza spettanti al ministro della giustizia. Con tale previsione si è, dunque, inteso sottrarre definitivamente al ministro, e quindi all’esecutivo, una serie di delicate funzioni, suscettibili di essere esercitate in modo distorto al fine di condizionare indebitamente l’imparziale svolgimento della funzione giurisdizionale. Restano, invece,assegnati allo stesso ministro i compiti relativi all’organizzazione dei servizi indispensabili ad assicurare un’amministrazione della giustizia efficiente e sollecita.
È soprattutto a questa previsione che la Cost. affida la realizzazione, nei fatti, di una concezione della magistratura quale “ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”, che trova la sua solenne enunciazione nell’art. 104.1.
Sotto il profilo dell'indipendenza interna la Costituzione stabilisce due principi tendenti a rafforzare le garanzie predisposte a favore del singolo magistrato. Il primo della inamovibilità inteso quale il divieto di procedere alla dispensa, alla sospensione dal servizio o alla destinazione ad altra sede se non in seguito ad una decisione del Consiglio Superiore della Magistratura. “adottata o per i motivi e con le garanzie di difesa stabilite dall’ordinamento giudiziario o con il consenso” dell’interessato. Il secondo, quello del divieto di operare distinzioni fra i magistrati se non in ragione della diversità di funzioni ad essi assegnate.
Massima indipendenza eterna e interna rappresentano i punti di forza della concezione costituzionale della magistratura, intesa come potere autonomo e indipendente, ma non separato: come potere “diffuso” (la cui titolarità cioè va riconosciuta a ciascun organo giurisdizionale, libero da vincoli di soggezione esterna e interna), come potere certamente subordinato alla legge e alle sue determinazioni, ma anche come elemento fondamentale dell’impianto garantistico della nuova carta costituzionale.
La struttura dell’ordinamento giudiziario
Una delle caratteristiche del nostro ordinamento giudiziario è rappresentata dalla sua accentuata complessità. Limitando l'osservazione agli aspetti che costituiscono la struttura portante di tale ordinamento, esaminiamo i quattro diversi profili: quello dell'articolazione strutturale, quello delle regole che disciplinano lo status giuridico dei suoi membri, quello delle regole che ne assicurano l'indipendenza esterna, quello delle regole che disciplinano l'esercizio delle loro funzioni.
I giudici ordinari (organi giudicanti e organi requirenti)
Il riparto di competenza tra i vari giudici è operato direttamente dalla legge. In relazione alle funzioni, il giudici ordinari entrano a far parte degli organi giudicanti o degli organi requirenti. Quali organi giudicanti di primo grado in materia civile sono previsti il Giudice di pace e il Tribunale (il quale opera come giudice individuale, salvo le ipotesi previste dalla legge, nelle quali opera come giudice collegiale).
Le decisioni del Giudice di pace sono impugnabili davanti al Tribunale e quelle adottate dal Tribunale il primo grado sono appellabili davanti alla Corte d'appello, giudice collegiale.
Il Giudice di pace è un giudice onorario, opera come giudice di primo grado con una limitata competenza sia civile che penale. Sempre fra i giudici ordinari va annoverato il Tribunale regionale delle acque pubbliche, il quale giudica in materia di controversie relative all'uso delle acque soggette a regime pubblicistico, ed opera come sezione specializzata della Corte d'appello. Contro le sue decisioni è possibile proporre appello al Tribunale superiore delle acque pubbliche. In materia penale, sono giudici di primo grado il giudice di pace e il Tribunale, il Tribunale dei minorenni e la Corte d'Assise. Come giudici penali di secondo grado operano la Corte d'Appello e la Corte d'Assise d'Appello. Fra i giudici in materia penale va annoverato il Tribunale della libertà. Come giudice specializzato è da ricordare il tribunale dei minorenni, che ha competenze in sede civile e penale, secondo quanto determinato dalle leggi. Si affiancano agli organi giudicanti gli organi requirenti, cioè quegli organi cui non spetta la decisione della controversia, bensì l'esercizio di funzioni proprie del pubblico ministero (PM) che sono preparatorie o di stimolo rispetto a tale decisione, nell’interesse generale alla giustizia, o volte alla tutela di posizioni soggettive altrimenti indifese. Essi sono rappresentati dalle Procure della Repubblica, dalle Procure generali, dalla Procura Generale presso la Corte di Cassazione. Oltre all'obbligo di esercitare l'azione penale il PM ha alcune competenze anche in campo civile ed amministrativo (es. diritto di famiglia, per la dichiarazione di morte presunta,…). Si ritiene, in genere, che, anche in questo campo, pur in assenza di una espressa previsione legislativa, esista per il PM un obbligo di agire.
Gli organi requirenti, nel nostro sistema giudiziario, non si differenziano da quelli giudicanti, né sotto il profilo dei criteri di selezione, né sotto il profilo dei loro status professionale. Tali organi presentano nell’organizzazione interna dei relativi uffici, un’impronta gerarchica ancora marcata, giacché, al fine di conseguire un orientamento uniforme in ciascun ufficio requirente, le funzioni attribuite al dirigente dell’ufficio (procuratore  della Repubblica; procuratore generale) vengono esercitate tramite sostituti procuratori. La totale assimilazione che esiste tra organi giudicanti e organi requirenti è stata oggetto di numerose critiche e hanno dato origine a una serie di proposte tese a diversificare i 2 tipi di organi se non dal punto di vista delle rispettive carriere, quanto meno dal punto di vista delle funzioni, nel senso di rendere meno agevole il passaggio delle une e delle altre. Su questa seconda linea si è mosso il legislatore che, all’art. 28 del D.P.R. 449/1988, ha previsto che tale passaggio avvenga a domanda dell’interessato, previo accertamento, da parte del C.S.M., dell’effettiva sussistenza delle necessarie attitudini personali.
I giudici amministrativi
Anche sul versante della giustizia amministrativa ha trovato applicazione il principio del doppio grado di giurisdizione. A seguito dell'istituzione il Consiglio di Stato, prima giudice unico, è divenuto giudice di secondo grado. Sia i TAR che il Consiglio di Stato sono giudici collegiali: i TAR si compongono di un Presidente e da almeno cinque magistrati; il Consiglio di Stato opera attraverso le tre sezioni giurisdizionali e l'adunanza plenaria. I TAR e il Consiglio di Stato esercitano giurisdizione generale di legittimità.
I giudici in materia contabile
La Corte dei conti ha una struttura particolarmente complessa. Per provvedere all’esercizio delle sue funzioni di controllo e di giurisdizionali. Perciò che attiene a quest’ultime, dopo l’istituzione delle sezioni regionali della corte, è stato introdotto il principio del doppio grado di giurisdizione. Infatti, contro le sentenze delle sezioni giurisdizionali regionali si può ricorrere alle sezioni giurisdizionali centrali, mentre “le sezioni riunite della corte dei conti decidono sui conflitti di competenza e sulle questioni di massima (art. 1.7, legge 19/1994).
La Costituzione, all'art. 103.2, stabilisce che "la Corte dei conti ha giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge". La Corte è giudice esclusivo sia dei diritti che degli interessi legittimi. Del tutto tipici sono i giudizi in materia di responsabilità amministrativa e contabile: soggetti a questi giudizi sono gli amministratori, gli impiegati e i contabili dello Stato, delle Regioni, degli enti locali, degli enti pubblici.
Questi giudizi hanno un carattere inquisitorio, nel senso che prescindono dalle richieste delle parti e sono promossi dai procuratori regionali e dal procuratore generale della corte dei conti.
La responsabilità contabile riguarda i tesorieri e gli agenti contabili che sono tenuti ad un rendiconto periodico delle erogazioni di denaro pubblico da loro maneggiato.
La presentazione del conto dà luogo automaticamente all’avvio di un procedimento di giudizio, che termina con un decreto di discarico, se il magistrato della sezione cui il conto è affidato lo giudica regolare; il giudizio si estingue anche nell’ipotesi in cui decorrono 5 anni dal deposito del conto, senza che il magistrato contabile depositi la sua relazione. In caso contrario, si apre una fase di giudizio di contraddittorio, attraverso la quale si accerterà l’esistenza di eventuali responsabilità contabili.Quanto ai giudizi di responsabilità vengono promossi dai Procuratori regionali e si svolgono in contraddittorio. I giudizi in materia di pensioni (ordinarie e militari) vengono promossi dalle parti interessate.
I giudici in materia tributaria
Con i DD.Lgs 545 e 546/1992 si è proceduto ad una riforma sia dell'ordinamento degli organi speciali di giurisdizione tributaria, sia delle regole procedurali cui si informa il processo che davanti ai medesimi si svolge. Le Commissioni tributarie si distinguono in Commissioni provinciali (aventi sede nel capoluogo di ogni provincia) e Commissioni regionali (istituite in ogni capoluogo di Regione).
Contro le decisioni dalle Commissioni provinciali è ammesso appello alle Commissioni regionali. Avverso le sentenze delle Commissioni regionali può essere proposto ricorso per Cassazione.
Anche per i giudici che operano in materia tributaria è prevista l'istituzione di un Consiglio di presidenza della giustizia tributaria che ne tutela l'autonomia e l'indipendenza.
I giudici militari
L'art. 103.3 Cost., ha confermato la competenza dei tribunali militari a giudicare dei reati compiuti da appartenenti alle Forze armate non solo per il periodo di guerra ma anche in tempo di pace. Alla costituzionalizzazione di questa giurisdizione speciale si è accompagnata la mancata riforma della disciplina dell'ordinamento giudiziario militare e comprendente tanto la disciplina dell'ordinamento militare di pace, quanto quella dell'ordinamento militare di guerra. Solo con l'approvazione della legge 180/1981 si è proceduto ad adeguare ai nuovi principi costituzionali la disciplina di questo settore del nostro ordinamento giudiziario. Si è così prevista l'istituzione, accanto ai Tribunali militari, di un giudice di secondo grado (la Corte militare d'appello). Si è prevista la possibilità di ricorrere in Cassazione contro i provvedimenti dei giudici militari e si è istituito l'ufficio del Pubblico Ministero militare, ricoperto da magistrati militari.
La Corte di Cassazione
A chiusura del sistema giudiziario, opera la Corte di cassazione (giudice collegiale). Essa è articolata in Sezioni (civili, penali, del lavoro) e giudica sui ricorsi contro le sentenze adottate in sede di appello dagli organi giurisdizionali ordinari, nonché in tema di conflitti di competenza, di giurisdizione e di attribuzione. Il ricorso può riguardare solo le eventuali violazioni di legge compiute dagli organi giudicanti, si parla quindi della cassazione come il giudice della legittimità.
In ordine ai ricorsi contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti, la competenza della Corte di cassazione può investire le sole questioni di giurisdizione. La posizione di organo di chiusura del sistema giudiziario, occupata dalla Corte di cassazione si lega alla generale funzione "nomofilattica" che ad essa spetta esercitare: la funzione cioè di assicurare l'uniformità dell'interpretazione delle norme di legge da parte dei giudici attraverso la definizione, con le sue sentenze, delle linee interpretative cui i giudici dovranno attenersi. L'immediato ricorso in Cassazione è sempre ammesso per motivi di legittimità, "contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati per gli organi giurisdizionali ordinari o speciali", con l’unica eccezione delle sentenze dei tribunali militari in tempo di guerra. Ad integrazione dell'istituto del ricorso in Cassazione, contro i provvedimenti attinenti alla libertà personale è stato istituito il Tribunale della libertà chiamato a riesaminare i provvedimenti limitativi della libertà che si traducono in misure detentive(coercitive). Il Tribunale della libertà deve decidere i relativi ricorsi nei tre giorni successivi con ordinanza presa in Camera di consiglio, confermando o revocando il provvedimento.
Mezzi alternativi per la soluzione delle controversie: l’arbitrato
Oltre che dagli organi giurisdizionali le controversie giuridiche che attengono a diritti disponibili possono essere decise anche da altri organi, i arbitri (o giudici privati). Sulla base del principio dell'autonomia privata questi possono decidere di affidare ad un soggetto terzo, non appartenente all'ordine giudiziario, la risoluzione delle eventuali controversie. Esistono due forme diverse di arbitrato: l'arbitrato rituale e l'arbitrato irrituale. Il primo, disciplinato dall'art. 806 riconosce alla decisione dell'arbitro gli stessi effetti della sentenza del giudice. Nel secondo la decisione dell'arbitro ha valore immediatamente vincolante ed è soggetta ai controlli propri dei contratti. Per ciò che attiene all'arbitrato rituale, spetta alle parti decidere il numero (sempre dispari) degli arbitri (il collegio non può essere comunque inferiori a tre) e procedere alla loro nomina (in caso contrario interviene il presidente del tribunale del luogo dove ha sede l’arbitrato).
Sempre le parti possono indicare agli arbitri le regole che essi debbono seguire per arrivare alla decisione (in caso contrario è il collegio arbitrale a stabilire tali regole, fatto salvo comunque il principio del contraddittorio).
Il lodo, ossia la decisione degli arbitri deve intervenire in ogni caso entro 180 giorni; termine quest'ultimo che gli arbitri o le parti possono decidere di prorogare, ma solo per una volta.
Lo “status” giuridico dei magistrati: l’accesso alla magistratura
Principio generale che regola l'accesso alla magistratura è quello del concorso pubblico. L'art. 106 Cost. Prevede due possibili eccezioni: la prima attiene alla possibilità che il legislatore disponga l'istituzione di magistrati onorari elettivi "per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli"; la seconda attiene alla possibilità che vengano chiamati a ricoprire l'ufficio di consigliere di Cassazione, per meriti insigni, professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati che possono vantare almeno quindici anni di esercizio della professione e siano iscritti negli albi speciali.
Il concorso è riservato a coloro che sono in possesso della laurea in giurisprudenza. Con l’approvazione del D.lgt 328/1997, espressamente dedicato alle scuole di specializzazione per le professioni legali, si è previsto che, a partire da un certo anno, al concorso per la magistratura possono partecipare solo coloro che, oltre alla laurea in giurisprudenza, abbiano conseguito il diploma rilasciato dalle scuole, di durata biennale. La possibilità di accedere al concorso è stata estesa dalla legge delega 150/2005 a coloro che abbiano conseguito il titolo di dottore di ricerca, l’abilitazione all’esercizio della professione forense, ovvero abbiano svolto per almeno 3 anni funzioni direttive nelle pubbliche amministrazioni, ovvero ancora abbiano svolto per almeno 4 anni, senza demerito, le funzioni di magistrato onorario.
Rispetto al reclutamento per concorso, risultano finora marginali le ipotesi di ingresso in magistratura in applicazione di principi diversi: la nomina per meriti insigni all'ufficio di consigliere di Cassazione e l'elezione di magistrati onorari. Il Giudice di pace è nominato con decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Consiglio giudiziario competente per territorio, integrato da cinque rappresentanti designati dai Consigli dell'ordine degli avvocati e procuratori. La nomina a Giudice di pace ha durata di quattro anni ed è rinnovabile allo stesso soggetto per una sola volta. Per la nomina è necessario il possesso di alcuni requisiti tra i quali l’unico di natura “professionale” è la laurea in giurisprudenza.
Una presenza di giudici-laici di nozze di giustizia ordinaria è quella prevista per la composizione del tribunale dei minorenni di cui fanno parte anche due cittadini, nominati per tre anni dal CSM tra alcune specifiche categorie di soggetti. Per la composizione delle Corti d'Assise di cui fanno parte alcuni giudici popolari, estratti a sorte fra i cittadini dotati dei requisiti di buona condotta, di età non inferiore ai 30 anni e non superiore ai 65 e in possesso di titoli di studio determinati dalla legge.
La mobilità interna dei magistrati
Da un sistema articolato su una serie di passaggi selettivi, si è passati ad un sistema in cui l'elemento nettamente predominante è l'automaticità del passaggio da una qualifica all'altra sulla base dell'anzianità di servizio maturata. Problemi e inconvenienti, che hanno suscitato dibattiti e proposte di riforma legislativa, ha provocato anche l'applicazione del principio di inamovibilità. Tali problemi sono legati a tre ordini di fattori: all'introduzione della regola della irreversibilità delle funzioni; alla regola che consente la permanenza, nell'esercizio delle stesse funzioni, e nella stessa sede, per l'intera durata della carriera; alla mancata coincidenza tra organico nominale era organico reale. Il sistema ivi disciplinato non si discosta molto da quello appena descritto, relativo ai giudici ordinari, salvo l’accesso al consiglio di Stato, in relazione al quale si prevedono 2 modalità distinte: metà dei posti che si rendono vacanti vengono riservati ai consiglieri di TAR; un quarto dei posti vacanti vengono messi invece a concorso per titoli ed esami teorici-pratici, cui possono partecipare i magistrati dei TAR, con almeno un anno di anzianità, oltre che altri magistrati (ordinari, militari, contabili) con un minimo di anzianità di servizio, nonché funzionari pubblici della carica direttiva.

Il Consiglio Supremo della Magistratura, quale organo di garanzia dell'indipendenza  esterna dei giudici ordinari: la composizione
La garanzia dell'indipendenza esterna dei giudice ordinali è affidata dalla Costituzione al Consiglio Superiore della Magistratura.  L'art. 104 Cost. prevede una composizione mista del CSM, con membri elettivi e membri di diritto (il Presidente della Repubblica che presiede l'organo; il Primo Presidente della Corte di Cassazione e il Procuratore generale presso la stessa Corte di cassazione). La scelta a favore di una composizione mista fu dovuta all'intento del Costituente di evitare che l'organo garante dell'autonomia ed indipendenza della magistratura corresse il rischio di trasformarsi in una struttura chiusa a difesa di posizioni corporative. Si tratta di 33 membri: 10 nominati dal Parlamento in seduta comune, 20 eletti dai magistrati tra le varie categorie e i 3 membri di diritto. Il Vicepresidente è chiamato a sostituire, in caso di assenza, il Capo dello Stato nell'esercizio delle sue funzioni di presidente del CSM. I membri elettivi del CSM durano in carica 4 anni e non sono immediatamente rieleggibili. Scaduti i quattro anni l'elezione del nuovo CSM deve avvenire entro 3 mesi dalla scadenza di quello precedente. Accanto al "plenum" del Consiglio operano una serie di organi più ristretti (Commissioni) il cui numero e le cui attribuzioni sono determinate dal Presidente dell'organo. Uno speciale rilievo assumono la Commissione speciale competente in materia di conferimento di incarichi direttivi ai magistrati e la sezione disciplinare.
Quanto ai rappresentanti tra C.S.M. e il ministro della giustizia permangono ancora elementi di ambiguità della legislazione vigente che lasciano aperti dubbi di legittimità costituzionale. La corte ha affermato l’esigenza che i 2 organi operino nel rispetto del principio di “leale collaborazione”, ma che, alla fine, in presenza di un contrasto non superabile, l’ultima parola spetti al C.S.M. legge 44/2002 prevede che i membri togati vengano eletti in 3 distinti collegi nazionali: uno per l’elezione di 2 magistrati di cassazione: 1 per l’elezione di 4 magistrati che svolgono le funzioni di PM presso gli uffici di merito o presso la direzione nazionale antimafia ovvero presso la corte di cassazione; uno, infine, per l’elezione di 10 giudici di merito. L’elezione avviene sulla base di candidature singole nei diversi collegi, sottoscritte da un certo numero di magistrati, le quali vengono inviate a ciascun avente diritto al voto a cura del C.S.M. Ciascun votante riceve 3 schede elettorali, corrispondenti a 3 collegi, con la possibilità di esprimere su ciascuna una sola preferenza. Risultano eletti in ciascun collegio i candidati che ottengono il maggior numero di preferenze.
Le funzioni
Al CSM la legge attribuisce una serie articolata di funzioni inerenti la carriera e lo "status" dei magistrati. Tali funzioni amministrative riguardano in particolare: le assunzioni, le assegnazioni e ogni altro provvedimento sullo stato dei magistrati; la nomina e revoca dei magistrati onorari e dei componenti estranei alla magistratura delle sezioni specializzate; le nomina a magistrato di Cassazione per meriti insigni di professori e avvocati; concessione di sussidi ai magistrati che esercitano funzioni giudiziarie e alle loro famiglie; le proposte dirette al Ministro della Giustizia in ordine alla modificazione delle circoscrizioni giudiziarie ed ogni altra questione relativa al funzionamento dei servizi relativi alla giustizia; i pareri sui disegni di legge concernenti l'ordinamento giudiziario e l'amministrazione della giustizia. Quanto al potere disciplinare attiene alla comminazione di specifiche sanzioni nel caso in cui i magistrati tengano una condotta tale da renderli immeritevoli della fiducia di cui devono godere, compromettono il prestigio dell'ordine giudiziario, trasgrediscano all'obbligo di residenza. L’azione disciplinare può essere promossa solo dal ministro della giustizia, ovvero dal procuratore generale presso la corte di cassazione, nella sua qualità di procuratore generale presso la sezione disciplinare del C.S.M.
Contro i provvedimenti del C.S.M. in materia di Stato dei magistrati è ammesso il ricorso davanti al giudice amministrativo o, mentre contro i provvedimenti della sezione disciplinare, è ammesso il ricorso in cassazione.
Distinta dalla responsabilità disciplinare è la responsabilità civile dei magistrati, riguarda i casi in cui il giudice è chiamato a rispondere personalmente del risarcimento del danno ingiustamente recato al cittadino.
La legge 117/1988 ha previsto l’allargamento della responsabilità civile dei magistrati, oltre che al caso di dolo o di diniego di giustizia (omissione o ritardo a compiere atti del loro ministero), anche al caso della colpa grave, consistente in una grave violazione di legge determinata da un comportamento negligente inescusabile, ovvero nell’adozione di un provvedimento limitativo della libertà personale al di fuori dei casi previsti dalla legge o senza la necessaria motivazione.
La natura dell'organo
Il CSM possiede alcune delle caratteristiche tipiche di organi costituzionali (indipendenza, rappresentatività, titolarità di funzioni di rilievo costituzionale, inerenti a uno dei "poteri" dello Stato, necessarietà ed indefettibilità) ma risulta escluso da ogni forma di partecipazione all'esercizio della funzione di indirizzo politico. Proprio per il prevalere, nella sua funzione generale, dell’elemento di garanzia. Non deve stupire allora che, mentre parte della dottrina, in considerazione delle sue funzioni, e valorizzando soprattutto l’elemento dell’indipendenza che al C.S.M. la costituzione assicura rispetto agli altri “poteri” dello Stato, abbia pensato di annoverarlo tra gli organi costituzionali, altra parte, in verità maggioritaria, abbia invece ritenuto di ascriverlo o alla categoria degli organi di rilievo costituzionale, sottolineando l’assenza di una funzione di indirizzo politico tra quelle riconducibili al C.S.M., ovvero a quella degli organi di alta amministrazione, sottolineando, in questo senso, la natura prevalentemente amministrativa delle sue attribuzioni e la stessa sindacabilità dei suoi provvedimenti.
Le garanzie di indipendenza esterna dei giudici amministrativi, dei giudici contabili e dei giudici militari
Principi analoghi a quelli che hanno ispirato l'istituzione del CSM sono stati adottati per il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, per ciò che attiene ai giudici amministrativi; per il Consiglio di presidenza della Corte dei conti, per ciò che attiene ai giudici contabili; per il Consiglio della magistratura militare per ciò che attiene ai giudici militari; per il Consiglio di presidenza della giustizia tributaria. L'istituzione di questi organi ha solo parzialmente risolto il problema di assicurare un'effettiva autonomia esterna ai giudici speciali. Essa risulta ancora compromessa dal permanere di un potere di nomina governativo di una parte cospicua dei membri, e dei presidenti del consiglio di Stato e della corte dei conti; poteri di nomina, che, solo a seguito dell’intervento della corte costituzionale, è stato in parte ridotto e disciplinato in modo da limitarne la discrezionalità, attraverso la predisposizione di alcune regole procedimentali.
Principi costituzionali in materia di esercizio della funzione giurisdizionale
Tra i principi costituzionali che più direttamente incidono sull'esercizio della funzione giurisdizionale vanno menzionati quello che impone l'obbligo dell'esercizio dell'azione penale al pubblico ministero; quello che dispone la dipendenza dall'autorità giudiziaria della polizia giudiziaria; quello che sancisce l'obbligo di motivazione per tutti i provvedimenti giurisdizionali.

  1. Ai sensi dell'art. 12 Cost. "Il pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale". Tale disposizione risponde ad una duplice finalità: da un lato quella di eliminare ogni discrezionalità nell'esercizio di una funzione così delicata, dall'altro quella di assicurare, un'effettiva eguaglianza di trattamento. L’affermazione dell’obbligatorietà dell’azione penale, e il conseguente potere-dovere che ne deriva per il pubblico ministero, intanto si spiega, in quanto al suddetto organo siano assicurate le più ampie garanzie di indipendenza da ogni possibile indebita ingerenza, che ne possa mettere in dubbio la necessaria imparzialità.

Il dibattito che si è svolto sulla figura del pubblico ministero ha costantemente collegato i 2 aspetti ora richiamati (obbligo di esercizio dell’azione penale e garanzie di indipendenza). Un dibattito che ha avuto origine da certe ambiguità del dettato costituzionale, che annovera il pubblico ministero tra i magistrati, ma gli riconosce le garanzie di indipendenza garantite “dalle norme sull’ordinamento giudiziario” (art. 107.4 Cost.), consentendo così un’interpretazione di queste garanzie in chiave riduttiva, o comunque diversa, rispetto a quelle disposte, direttamente dalla Costituzione, per gli altri magistrati.
b) Il principio della dipendenza della polizia giudiziaria dall'autorità giudiziaria muove dall'intento di assicurare all'autorità inquirente uno strumento attraverso il quale condurre le indagini. Si è qui prevista la creazione di apposite e distinte sezioni di polizia giudiziaria alle dipendenze del tribunale e del pubblico ministero; si è accentuata la dipendenza funzionale degli addetti ai servizi di polizia giudiziaria dal giudice e, contestualmente, attenuata quella gerarchica nei confronti del corpo di appartenenza.
c) L' obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali risponde ad una duplice finalità: da un lato consente al cittadino di basare sul contenuto della motivazione la sua eventuale difesa contro l'atto a lui sfavorevole nei diversi gradi di giudizio; dall'altro consente a tutti i cittadini di conoscere, di discutere e di criticare le ragioni che hanno ispirato una certa decisione giurisdizionale (si tratta di funzione "extra-processuale" della motivazione).
Attività giurisdizionale e diritti dei cittadini
I principi costituzionali che toccano la posizione del cittadino nei confronti del giudice nell'esercizio delle sue funzioni riguardano: l'affermazione del diritto alla difesa; l'affermazione dell'obbligo di riparazione degli errori giudiziari; l'affermazione del diritto a non essere distolti dal proprio giudice naturale precostituito per legge; l'affermazione del diritto a non essere puniti se non in forza di una legge entrata in vigore prima della commissione del fatto; l'affermazione del carattere personale della responsabilità penale; l'affermazione del diritto a non essere considerati colpevoli finché non sia intervenuta una condanna definitiva.
a) L' affermazione del diritto alla difesa si collega all'art. 24.1 Cost., assicura a tutti il diritto di agire in giudizio a tutela dei propri diritti e interessi legittimi. È compito del legislatore assicurare anche ai non abbienti i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione. La Corte ha escluso che il diritto alla difesa significhi, nel processo penale, oltre che diritto a farsi assistere da un difensore anche il diritto all'autodifesa. La presenza del difensore secondo la Corte, sarebbe elemento indispensabile ad assicurare l'esercizio del diritto in questione e il regolare e corretto esercizio della funzione giurisdizionale. In seguito all'approvazione del nuovo codice di procedura penale il diritto alla difesa ha ricevuto una soddisfacente applicazione, con l'approvazione della legge 217/1990 il legislatore ha adempiuto all'obbligo di assicurare a tutti, anche ai non abbienti, un esercizio effettivo di tale diritto. Al vecchio sistema del gratuito patrocinio si è sostituito quello dell'assunzione da parte dello Stato delle spese di patrocinio per i soggetti che abbiano un reddito inferiore alla soglia fissata dalla legge.
b) In dottrina e in giurisprudenza si era affermato un indirizzo interpretativo volto a considerare la riparazione dell'errore giudiziario come diritto soggettivo e diretto ad ottenere un risarcimento tanto del danno materiale, quanto del danno morale subito dalla vittima dell'errore.
c) Il principio del giudice naturale.
d) L' affermazione in base alla quale nessuno può essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto addebitato sancisce il principio della irretroattività della legge penale, ciò significa che l'azione repressiva dello Stato può essere legittimamente esercitata solo ove si sia previamente proceduto a disciplinare i comportamenti che sono passibili di sanzione penale.
e) Sancendo il principio della personalità della responsabilità penale, il costituente ha inteso impedire che il cittadino potesse essere chiamato a rispondere per un fatto altrui. Questo principio ha comportato anche l'eliminazione o la trasformazione della disciplina di ipotesi di responsabilità penale oggettiva.
f) D' importanza fondamentale è il principio costituzionale relativo alla presunzione di non colpevolezza, fino a che non intervenga una sentenza di condanna definitiva. Esso si traduce in una precisa direttiva rivolta al legislatore ordinario e in quella di regolamentare i procedimenti e gli istituti processuali in modo tale da evitare che il soggetto coinvolto nella vicenda processuale abbia a subirne gli effetti negativi anticipati rispetto al momento dell'accertamento di specifiche responsabilità.
g) Il principio del giusto processo riassume tutti gli altri principi. In vista della piena realizzazione di questo principio si è proceduto ad un'integrazione dell'art. 111 Cost., sono stati inseriti cinque nuovi commi al fine di esplicitare in dettaglio il contenuto di detto principio. Il primo comma del nuovo testo attiene: al rispetto del principio del contraddittorio tra le parti "in condizioni di parità, davanti al giudice terzo ed imparziale"; alla garanzia di una "ragionevole durata" dei processi; alla garanzia, nel processo penale, per la persona accusata di un reato del diritto ad essere informata, nel più breve tempo possibile e in maniera riservata; al diritto ad avere il tempo e le condizioni necessarie ad apprestare la propria difesa.

CAPITOLO XIV: I diritti di libertà (pag. 425 – 475)

Diritti di libertà e forma di Stato
La disciplina dei diritti di libertà costituisce uno degli aspetti caratterizzati della forma di Stato. È in essa che si riassumono gli aspetti essenziali dei reciproci rapporti tra Stato e società civile. All'evoluzione storica delle diverse forme di Stato si accompagna una parallela evoluzione della disciplina delle libertà. Col tramonto del liberalismo di stampo ottocentesco e con l'avvento dello Stato sociale, in seguito al crollo dei regimi autoritari, l'originaria tecnica di garanzia dei diritti di libertà è rimasta sostanzialmente inalterata. I diritti di libertà trovano un'articolata disciplina direttamente nella Carta costituzionale. Lo svolgimento dei principi che in essa si trovano affermati è di norma riservato alla legge (riserva di legge), ad esclusione di ogni altra fonte. Una riserva è assoluta nel senso che essa esclude del tutto l'intervento di altre fonti normative, in altri è relativa nel senso che consente un tale intervento nel rispetto dei principi fissati dalla legge. L'applicazione alle singole fattispecie concrete dei limiti così definiti è riservata al giudice(riserva di giurisdizione) anche in questo caso ad esclusione di ogni altra pubblica autorità. L'introduzione del principio della rigidità della Costituzione muta profondamente il significato dell'istituto della riserva di legge: da strumento di esaltazione dell'autorità essa diventa strumento di applicazione di una disciplina costituzionale articolata e dettagliata.
Quest’ultimo in ceri casi deve esercitare la sua discrezionalità in attuazione di istituti e limiti già fissati dalle disposizioni costituzionali: si parla di riserva di legge rinforzata, volendo con ciò significare che la riserva alla legge della disciplina di una certa libertà va esercitata nel rigoroso rispetto delle direttive direttamente tracciate dalla Costituzione.
In secondo luogo, anche il significato della riserva di giurisdizione si rafforza, si che alla garanzia formale della sottazione alla discrezionalità della autorità amministrativa del potere di limitare l’esercizio dei diritti di libertà e del radicamento del medesimo in capo all’autorità giudiziaria si aggiunge, ora, la garanzia sostanziale rappresentata dal necessario rispetto di tutti quei principi costituzionali, relativi al procedimento che davanti al giudice si svolge (pubblicità, diritto di difesa, obbligo di motivazione,…).
Accanto alle tradizionali libertà individuali vi sono le libertà collettive, cioè quelle libertà la cui titolarità spetta sì al singolo, ma acquistano significato solo attraverso l'esercizio che facciano più soggetti, nonché dei diritti sociali (diritto allo studio, diritto alla salute,…) dall’altro, e conseguentemente, l’ingresso di una dimensione della tutela dei diritti fondamentali che punta alla loro concreta effettività, in quanto strumenti di partecipazione alla vita economica, sociale e politica.
La tutela internazionale dei diritti di libertà
La tendenza ad una maggiore attenzione del diritto internazionale nei confronti dei diritti di libertà, ha comportato un arricchimento dei sistemi nazionali di tutela sotto un duplice profilo: da un lato ha arricchito il catalogo di tali diritti attraverso la enucleazione di nuovi contenuti desumibili dalla nozione tradizionale di alcune libertà; dall'altro ha consentito l'attivazione di un sistema di garanzie, integrativo di quello predisposto dal diritto interno, che fa capo ad istanze giurisdizionali di natura internazionale. Tra gli atti internazionali di carattere essenzialmente programmatico va ricordata la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo approvata dall'Assemblea generale dell'ONU nel dicembre del 1948, il cui contenuto ha trovato ulteriore specificazione nel Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali e nel Patto internazionale sui diritti civili e politici. In tali atti, al riferimento ai tradizionali diritti di libertà (libertà personale, di domicilio, di corrispondenza, di circolazione e soggiorno, di associazione, di opinione, religiosa, di voto) si accompagna la previsione della tutela di altre posizioni soggettive, possono riassumersi nella categoria dei diritti sociali (diritto alla vita, a formarsi una famiglia, al lavoro, ad una retribuzione equa, alla sicurezza sociale, alla salute, all'istruzione).
Tali atti costituiscono, innanzitutto un punto di riferimento obbligato per l’interpretazione dell’esatta portata delle disposizioni costituzionali, là dove esse trovino nel testo della dichiarazione e dei patti una diversa e più articolata definizione.
In secondo luogo, tali atti costituiscono un preciso impegno per il legislatore nazionale a dare piena attuazione al loro contenuto la dove l'ordinamento giuridico interno si presenti carente o lacunoso.  In terzo luogo, essi si impongono all’attività del giudice nazionale nella risoluzione di specifiche controversie. Tra gli atti internazionali che fanno seguire la predisposizione di appositi e specifici strumenti di tutela vanno ricordati la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. La tutela dei diritti da essa enunciati è affidata alla Corte europea dei diritti dell'uomo.
La corte, composta da un numero di membri uguale al numero degli stati contraenti, decide in via definitiva la controversia e, in caso di accertata violazione della convenzione, ove il diritto interno della parte contraente condannata non consenta di eliminare le conseguenze di tale violazione, assicura al soggetto che ha promosso l’istanza un’equa soddisfazione (cioè a dire un equo risarcimento del danno subito).
Possono ricorrere alla Corte sia gli Stati contraenti, sia persone fisiche o gruppi di privati.
Il ricorso dei privati o dei gruppi è subordinato a 2 condizioni: la I, al fatto che lo Stato chiamato in causa abbia accettato, con un’espressa dichiarazione, questa clausola della conversazione; la II, al fatto che tali soggetti abbiano previamente esperito tutti i ricorsi contro la misura lesiva dei loro diritti, disposti dal diritto interno dei vari Stati. Un altro esempio di tutela esterna dei diritti di libertà è rappresentata dall’intervento della corte di giustizia delle comunità europee a difesa delle libertà codificate dai trattati istitutivi contro possibili violazioni poste in essere da atti delle istituzioni comunitarie: libertà di circolazione dei lavoratori all’interno degli stati membri, diritto di stabilimento e di prestazione di servizio, diritto alla parità di trattamento retributivo per i lavoratori uomini e donne. Alla corte i giustizia possono ricorrere sia gli Stati, sia, in certi casi, anche i privati. Resta da dire delle forme di tutela da internazionale di fonte a violazioni generalizzate poste in essere da uno Stato nei confronti di interi settori della propria popolazione.
Di fronte a comportamenti siffatti 2 sono gli strumenti che il diritto internazionali ha messo in campo: da un lato quello dell’istituzione di appositi tributi internazionali, incaricati di perseguire e reprimere i soggetti responsabili di crimini contro l’umanità, dall’altro quello del ricorso all’uso della forza militari “a fini umanitari”. Due strumenti che appaiono tuttavia assai lontani l’uno dall’altro, tendono il I a valorizzare la funzione del diritto internazionale, rappresentando il II una rottura del diritto internazionale stesso, ma anche del diritto costituzionale nazionale di quei paesi che, come l’Italia, hanno escluso in ogni caso il ricorso alla guerra, se non a scopo difensivi oppure nel quadro di quanto disposto dallo statuto dell’ONU in ordine all’uso in forza.
La disciplina dei diritti di libertà nella Costituzione italiana: caratteri generali
L'evoluzione della disciplina di diritti di libertà nell'esperienza costituzionale italiana rispecchia gli sviluppi che ha conosciuto il costituzionalismo europeo. Se lo Statuto Albertino è espressione di una concezione individualistica dei diritti di libertà e fa proprio un modello di tutela dei medesimi il cui perno è rappresentato dalla garanzia della legge a difesa di queste sfere di autonomia individuale, la Costituzione repubblicana è espressione di quella diversa concezione dei diritti di libertà che si vanno affermando con le costituzioni europee del secondo dopoguerra. La Costituzione italiana rappresenta una svolta decisiva che si caratterizza per alcune scelte fondamentali:

  1. Accoglimento di una nozione dei diritti di libertà non solo come libertà individuali, nella loro accezione di libertà negative ma anche come libertà positive, come strumenti per realizzare un'effettiva partecipazione di tutti cittadini indipendentemente dalle loro condizioni economiche e sociali.

Un'affermazione che ha una serie di corollari nelle disposizioni costituzionali successive, con riferimento alle libertà sindacali e politiche ma anche con riferimento all'affermazione della tutela dei diritti dell'uomo "sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità", con riferimento all'espresso riconoscimento dei diritti sociali (diritto al lavoro, alla salute, all'istruzione).
b) Predeterminazione in Costituzione delle categorie di limiti cui l'esercizio dei singoli diritti di libertà può essere sottoposto. Lo schema normativo adottato muta profondamente: all'affermazione dei singoli diritti di non segue più un rinvio alla legge bensì una riserva di legge, vincolata al rispetto di quanto previsto dal testo costituzionale. È il principio di tassatività dei limiti ai diritti di libertà che si sostanzia in un divieto rivolto al legislatore. I limiti disposti direttamente dalla Costituzione si distinguono in limiti particolari che attengono all'esigenza di contemperare l'esercizio dei medesimi con la tutela di alcuni interessi generali (sicurezza pubblica, sanità, igiene, buon costume) e limiti generali (riferibili a tutti i diritti di libertà) rappresentati dallo stato di necessità e dall'adempimento dei "doveri di solidarietà politica, economica e sociale".
c)Affermazione della regola generale in base alla quale solo il giudice ha il potere di imporre le limitazioni all'esercizio dei diritti di libertà previste dalla legge e ridefinizione dell'intervento dell'autorità di polizia in termini di eccezione rispetto a questa regola.
d) Rigidità della Costituzione.
e) Sottrazione al procedimento di revisione costituzionale del nucleo essenziale della disciplina dei diritti di libertà contenuta nella Costituzione, in quanto elemento fondamentale e indispensabile a caratterizzare in senso democratico l’ordinamento statuale voluto dai costituenti.
f) Estensibilità della disciplina dei diritti di libertà disposta dalla Costituzione a quelle nuove e diverse posizioni soggettive, raccomandabili ai diritti formalmente sanciti. Una scelta che consente di leggere nuovi contenuti nella definizione dei diritti di libertà allora codificati.
g) Allargamento dei destinatari dei diritti di libertà, riconosciuti non solo ai singoli, ma anche alle formazioni sociali (famiglia, partiti, sindacati, confessioni religiose, associazioni) non solo ai cittadini ma anche agli stranieri.
Eguaglianza formale ed eguaglianza sostanziale
L'art. 3 Cost. rappresenta il punto di riferimento per cogliere il rapporto tra la nostra forma di Stato e i diritti di libertà. Al principio dell'eguaglianza formale sancito dal 1° comma (Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali), si aggiunge l'affermazione di un nuovo principio, quello dell'eguaglianza sostanziale in cui si esprime l'impegno dello Stato "a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica economica e sociale del Paese".
Quanto al principio dell’uguaglianza formale, esso si traduce nell’imposizione di un divieto, innanzitutto rivolto al legislatore ordinario, di adottare trattamenti irragionevolmente differenziali tra i cittadini. Tale principio va inteso come divieto di introdurre discriminazioni illegittime, non solo perché basate su uno dei motivi espressamente e numerati dalla norma costituzionale, ma anche perché basate su una valutazione irrazionale delle situazioni di fatto da regolare, si che esso risulta leso ogni qual volta il legislatore tratti in modo irragionevolmente uguale situazioni che si presentino diverse o quando, viceversa, tratti in modo diverso situazioni che risultino tra loro assimilabili.
L'art. 3.1 vieta espressamente che possano essere previsti trattamenti differenziati a causa di uno dei motivi elencati dalla stessa disposizione costituzionale. Questo divieto si articola:

  1. Nel divieto di discriminazione in relazione all'appartenenza all'uno o all'altro sesso.

Grazie all'intervento del legislatore si è arrivati all'eliminazione delle disparità di trattamento esistenti, sia in materia penale sia in materia civile. L'eguaglianza tra i sessi trova applicazione nei rapporti di lavoro, in virtù del quale alla donna lavoratrice non solo devono essere riconosciuti "gli stessi diritti, e a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore", ma devono essere garantite condizioni di lavoro che ne salvaguardino l'" essenziale funzione familiare". Un ulteriore corollario stabilisce che "tutti i cittadini possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di parità".
b) Nel divieto di discriminazione in ragione dell'appartenenza ad una o ad un'altra razza. Tale divieto potrebbe diventare di grande attualità in relazione all'accentuarsi del fenomeno dell'immigrazione.
c) Nel divieto di discriminazione in ragione dell'utilizzazione di una lingua diversa da quella nazionale. Il Costituente a intenso imporre allo Stato un obbligo positivo di tutela del patrimonio linguistico delle diverse comunità. A tale obbligo lo Stato ha adempiuto con la legge 482/1999 che contiene "norme in materia di minoranze linguistiche storiche".
d) Nel divieto di discriminazione in ragione della religione professata. Il principio di eguaglianza in materia religiosa si trova nei artt. 7 e 8: il primo relativo alla disciplina dei rapporti tra lo Stato e della Chiesa cattolica, il secondo relativo alla disciplina dei rapporti tra lo Stato e le altre confessioni religiose. L'art. 19 afferma il "diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale ed associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto", con l'unico limite rappresentato da riti contrari al buoncostume.
e) Nel divieto di discriminazione in ragione delle proprie opinioni politiche, il quale risulta rafforzato da tutta una serie di ulteriori disposizioni costituzionali.
f) Nel divieto di discriminazione in ragione delle diverse condizioni personali e sociali, che si ritiene debba intendersi come comportante l'illegittimità di ogni atto posto in essere dai poteri pubblici o dai privati che possa ledere l'attività dell'onore personale dei singoli.
Le libertà individuali: la libertà personale
L'art. 13 Cost. è dedicato alla disciplina della libertà personale, ossia alla tutela della libertà fisica e psichica della persona. All'affermazione dell'inviolabilità della libertà personale seguono i due istituti di garanzia: una riserva di legge (tale libertà può essere limitata solo nei casi e nei modi previsti dalla legge) e una riserva di giurisdizione (solo l'autorità giudiziaria può applicare in concreto tali limitazioni). L'unica deroga a questo regime ordinario è prevista in ragioni eccezionali di necessità e di urgenza che non consentono un intervento tempestivo dell'autorità giudiziaria. Può essere direttamente l'autorità di pubblica sicurezza ad intervenire (fermo di polizia giudiziaria), tale intervento porta all'applicazione di misure limitative della libertà personale di carattere transitorio. Si prevede che entro 48 ore dall’avvenuta applicazione di tali limitazioni da parte dell’autorità di pubblica sicurezza, quest’ultima sia tenuta a darne comunicazione all’autorità giudiziaria, cui spetta il compito di convalidare o meno i provvedimenti assunti in via provvisoria. Se questi non sono convalidati entro le 48 ore successive, essi si considerano revocati e privi di ogni effetto.
Il sistema di tutela dell'art. 13 si completa con l'affermazione di altri due principi: quello che impone al legislatore l'obbligo di punire qualunque tipo di violenza, morale o fisica, esercitata nei confronti dei soggetti sottoposti a misure limitative della libertà personale, e quello che impone al legislatore l'obbligo di stabilire i limiti massimi della carcerazione preventiva.
Il I principio si collega direttamente all’art. 27.3 Cost. (il quale esclude che possano essere irrogate pene contrarie al senso di umanità, mentre impone che esse debbano tendere alla rieducazione del condannato).
L’affermazione del valore rieducativi della pena spiega anche il divieto della pena di morte.
Quando al II principio, esso punta ad evitare che il periodo di detenzione, cui può essere sottoposto un soggetto in attesa del definitivo accertamento di una eventuale responsabilità penale, non si trasformi in una sorta di pena anticipata, in contrasto con la presunzione di non colpevolezza, sancita dall’art. 27.2 Cost. si prevede, così, che la legge fissi, per ogni fase e ogni grado del procedimento, dei termini massimi, scaduti i quali l’interessato ha diritto alla scarcerazione. Alludendo all’art. 27 Cost., si è fatto riferimento ad una delle altre numerose disposizioni costituzionali che integrano il sistema di tutela della libertà personale: tra queste l’art. 23, che stabilisce che “nessuna prestazione personale può essere imposta se non in base alla legge”; l’art. 24, in materia di diritto alla difesa.
Secondo l'art. 25.3 nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge. L’art. 26, in base al quale si può procedere all’estradizione del cittadino soltanto ove essa sia prevista da apposite convenzioni internazionali e comunque mai per reati politici.
Una svolta di grande importanza nella disciplina della libertà personale si è avuta con l'approvazione del nuovo codice di procedura penale, le novità più significative sono: la riserva all'autorità giudicante del potere di disporre misure stabili di limitazione della libertà personale, su richiesta del pubblico ministero; una più rigorosa disciplina dei presupposti che legittimano il fermo (per i reati più gravi, si sussistono gravi indizi a carico del fermato, quando esistono elementi che facciano temere il pericolo di fuga); introduzione del principio di pluralità e gradualità delle misure cautelari di natura personale e della loro necessaria proporzionalità e adeguatezza alle esigenze di giustizia; ampliamento del sistema delle garanzie attivabili da colui che è colpito da una misure limitativa della libertà personale.
Nuove misure limitatrici  della libertà personale sono state configurate dalla legislazione sull’immigrazione; gli istituti di maggiore rilevanza sono l’espulsione amministrativa e il trattamento in un centro di permanenza temporanea, che la corte costituzionale ha ricondotto sotto la tutela  dell’art. 13 Cost., disposizione pienamente applicabile anche agli stranieri.
La corte non ha ritenuto questi istituti incostituzionali, ove su di essi sussista un “controllo giurisdizionale pieno”. Se si guarda alla legislazione ordinaria attuativa delle garanzie costituzionali predisposte a tutela della libertà personale, uno dei problemi ancora aperti circa la conformità della medesima al dettato costituzionale attiene alle misure di prevenzione o misure di sicurezza “ante delictum” (da tenere distinte dalle misure di sicurezza che invece si legano ad una responsabilità penale, in via di accertamento o già accertata, e che per queste sono dette misure di sicurezza “post-delictum”). La Cost. non solo non menziona tali misure, facendo esclusivo riferimento alle pene e alle misure di sicurezza, ma afferma il principio della presunzione di non colpevolezza fino a condanna definitiva, da cui si dovrebbe desumere un divieto di sottoporre a misure limitative della libertà personale soggetti, a carico dei quali non sia quanto meno iniziato un procedimento penale. La legislazione più recente in materia di misure di prevenzione di carattere personale ha quanto meno provveduto a ricondurne la disciplina ai principi costituzionali in materia di libertà personale, operando soprattutto sul piano della rigorosa riserva al giudice (riserva di giurisdizione) del potere di deciderne l’applicazione e su quello di una più puntuale individuazione dei presupposti che ne giustificano l’imposizione a carico di determinati soggetti (riserva di legge). Tali misure (ossia la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, che impone una serie di restrizioni e di obblighi di comportamento al soggetto cui è applicata, cui può accompagnarsi il divieto di soggiorno di uno o più comuni o province, ovvero l’obbligo del soggiorno nel comune in cui l’interessato risiede o dimora abitualmente) possono essere irrogate solo dal tribunale del capoluogo di provincia, su proposta del questore. Le stesse misure possono essere adottate solo a carico di coloro che, sulla base di elementi di fatto, “debba ritenersi che siano abitualmente dediti a traffici delittuosi” o di coloro che “per la loro condotta e il tenore di vita debba ritenersi che vivano abitualmente con i proventi di attività delittuose” o di coloro che “per il loro comportamento debba ritenersi che siano dediti alla commissione di reati che offendono o mettono a repentaglio l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica” o, infine, a coloro che siano indirizzati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso o ad analoghe forme di associazioni a delinquere.
Mentre nel tempo si è accresciuta l’importanza delle misure di prevenzione che incidono sul patrimoni e sull’attività economica, specie in riferimento a fenomeni di tipo mafioso o affini: si prevedono sequestri e confische di beni di dubbia provenienza, depositi cauzionali, divieto di ottenere o revoca di patenti, autorizzazioni, concessioni, finanziamenti, agevolazioni,…
Ai diritti della persona appartiene anche il diritto alla riservatezza dei propri dati personali.
La tutela giuridica di tale diritto si è rafforzata con l’approvazione della legge 675/1996, intitolata alla “tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali”, successivamente più volte modificata e integrata. Oggetto della disciplina è la raccolta e il trattamento dei dati personali effettuati da qualunque soggetto sul territorio nazionale. Tali attività sono assoggettate ad una serie di regole (il consenso; l’obbligo di consentire l’accesso ai dati da parte degli interessati), il cui rispetto è assicurato da un’apposita autorità garante ( composta da 4 componenti di nomina parlamentare), con compiti generali di vigilanza sulla corretta applicazione della legge e con poteri di intervento, volti a far cessare comportamenti contrari alla legge, anche su ricorso dei diretti interessati. Al fine di ridurre l’impatto delle nuove regole sull’esercizio dell’attività giornalistica, la legge prevede alcune disposizioni appositamente dedicate a questo delicato profilo. Infatti, ai giornalisti e, in generale, a tutti coloro che esercitano l’attività di informazione si consente di raccogliere e diffondere i dati personali senza incontrare tutti i limiti prescritti dalla legge, ma solo nell’ambito di un’attività di informazione essenziale rispetto a fatti di interesse pubblico.
La libertà di domicilio
L'art. 14 Cost. si preoccupa di tutelare la proiezione spaziale della persona, ossia il domicilio. I Costituenti hanno adottato una nozione ampia di domicilio, non limitata solo a quella che era allora la nozione penalistica (la privata dimora), ne a quella civilistica (la sede principale degli affari e degli interessi della persona). Oggi la garanzia costituzionale si estende ad ogni luogo di cui la persona, fisica o giuridica, abbia legittimamente la disponibilità per lo svolgimento di attività connesse alla vita privata o di relazione e dal quale intenda escludere i terzi. Secondo il 2° comma dell'art. 14 nessuna violazione di domicilio è consentita se non nei casi e nei modi previsti dalla legge e a seguito di apposita disposizione del giudice. Il 3° comma introduce una deroga, disponendo che, per determinati motivi o per determinati fini, leggi speciali possono prevedere limitazioni della libertà disciplinare ad opera dell'autorità amministrativa, anche in assenza di un provvedimento del giudice.
Sul piano interpretativo: da un lato, si è affermato che le maggiori garanzie previste dal 2° comma sono da collegarsi agli interessi primari che vi sono tutelati (quelli cioè legati alla persona in sé o ai rapporti strettamente privati, es. quelli familiari), là dove il 3° comma fa riferimento a interessi essenzialmente economici dell’individuo; dall’altro, si è sostenuto che, in questo II caso, il mancato intervento del giudice dovrebbe essere compensato dall’ammissibilità di forme di intervento dell’autorità amministrativa dirette a meri fini conoscitivi (accertamenti e ispezioni) e non anche di misure di natura coercitiva (perquisizioni e sequestri), per le quali sussisterebbe sempre l’obbligo di un provvedimento preventivo o successivo del giudice.
La libertà di circolazione e soggiorno
Al di là della sfera domiciliare, l'art. 16 Cost. garantisce al cittadino la libertà di circolare e soggiornare liberamente all'interno del territorio dello Stato, nonché la libertà di uscire e rientrare in tale territorio (libertà di espatrio). La libertà di circolazione e soggiorno può incontrare solo i limiti disposti dalla legge, in via generale, per motivi di sanità o di sicurezza, mentre sono escluse limitazioni determinate da motivi politici. La libertà di espatrio non incontra alcun limite specifico se non quelli derivanti dall'avere l'interessato adempiuto quelli che l'art. 16 chiamati gli obblighi di legge. La legge 1185/1967 che ha riformato la materia indica quali sono i soggetti che dovendo adempiere a certi obblighi non possono ottenere il passaporto: i minori, coloro nei confronti dei quali sia stato emanato un mandato o ordine di cattura, coloro che debbano adempiere al servizio militare.
La libertà di espatrio si collega alla libertà di emigrazione, cioè al diritto di recarsi all'estero per prestarvi una vita lavorativa. In virtù della istituzione della Comunità Economica Europea i cittadini di un Paese membro godono, oltre che della libertà di circolazione anche del diritto di stabilimento in ciascuno degli Stati membro. Quanto ai problemi legati all’immigrazione da paesi extracomunitari, essi sono oggetto di un’apposita disciplina (D.lgs 286/1998) che si occupa espressamente di stabilire le regole che consentono l’ingresso e il soggiorno degli immigrati, oltre che la tutela dei diritti che loro spettano.
La libertà e segretezza della corrispondenza
A differenza dello Statuto Albertino la Costituzione repubblicana tutela la libertà e segretezza della corrispondenza. Dopo aver affermato il principio dell'inviolabilità e della segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione, stabilisce che "la loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge". La mancata previsione che autorità amministrative possono intervenire autonomamente dipende dall’eccezionale delicatezza di queste intromissioni nelle relazioni interpersonali e dal possibile coinvolgimento di terzi estranei.
Libertà e segretezza presentano profili distinti sul piano delle possibili violazioni. La libertà e segretezza della corrispondenza tutela due posizioni soggettive, quella del "mittente" e quella del "destinatario", e va intesa sia come libertà di ciascuno di comunicare con altri soggetti, sia come libertà di ricevere tali comunicazioni. Gli artt. 617 e ss. del codice penale, puniscono ogni comportamento diretto a prendere cognizione, in modo fraudolento, di comunicazioni telegrafiche o telefoniche; ogni comportamento diretto all'utilizzazione di apparecchiature speciali per intercettare, interrompere o impedire telecomunicazioni. La tutela giuridica del diritto alla riservatezza si è rafforzata in seguito all'approvazione della legge 675/1996 intitolata "Tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali". Oggetto della disciplina è la raccolta e il trattamento dei dati personali il cui rispetto è assicurato da un'apposita Autorità garante con compiti di vigilanza.
La libertà di manifestazione del pensiero
L'oggetto specifico della libertà di manifestazione del pensiero non è il diritto di comunicare liberamente con un destinatario specifico ma il diritto di comunicare il proprio pensiero. Le garanzie disposte al riguardo coprono tutte le possibili manifestazioni del pensiero: non solo quelle orali o scritte ma anche quelle espresse attraverso un qualunque altro mezzo di comunicazione (cinema, teatro, radio, televisione). Per definire l'oggetto della libertà il Costituenti si preoccupò di disciplinare la libertà di stampa, considerata come il mezzo principale di esercizio della libera manifestazione del pensiero. A riguardo l'art. 21 pone tre principi fondamentali: il divieto di sottoporre la stampa ad autorizzazioni o censure, da intendersi come divieto di sottoporre a misure di controllo amministrativo preventivo sia l’attività diretta alla produzione degli stampati (autorizzazione), sia il contenuto degli stessi (censura);  il divieto di sottoporre la stampa a sequestro (forma di intervento successivo alla pubblicazione) se non nel caso di commissione di un delitto a mezzo stampa, per il quale la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, ovvero nel caso di violazione delle norme stabilite dalla legge per l’indicazione dei responsabili (riserva di legge) e sulla base di un atto motivato dell’autorità giudiziaria (riserva di giurisdizione); la possibilità che il legislatore imponga alle imprese editrice della stampa periodica l'obbligo di rendere noto i loro mezzi di finanziamento. L'unico limite previsto espressamente è rappresentato dal buon costume.
La legge deve stabilire meccanismi e strumenti adeguati a prevenirne e reprimerne le violazioni . un limite da intendersi riferito alla possibile violazione della sfera del pudore sessuale e non già a valori più ampi e generici, come la morale comune e simili. Si ritiene, tuttavia, che la libertà di manifestazione del pensiero incontri altri limiti, riconducibili ad altrettanti interessi costituzionalmente protetti: tra questi, il limite dell’onore e della riservatezza delle persone, l’interesse della giustizia, il dovere di difesa della patria, la tutela della salute, la tutela dei minori.
Non appare invece convincente la posizione assunta dalla corte in ordine ai vari reati di vilipendio delle istituzioni ritenuti non contrastanti con le garanzie disposte a favore della libertà di manifestazione del pensiero, in quanto riconducibili al limite rappresentato dalla necessaria tutela delle massime istituzionali dello Stato: il presidente della Repubblica, le assemblee parlamentari, il governo, la corte costituzionale, la magistratura, le forze armate. Infatti, la repressione penale, in quanto diretta a colpire mere manifestazioni del pensiero, per quanto radicalmente critiche nei confronti delle pubbliche istituzioni, deve considerarsi in contrasto con la garanzia costituzionale.
a) La stampa
Il legislatore repubblicano si è preoccupato di riformare la disciplina dell'Ordine e dell'Albo dei giornalisti: la nuova disciplina, mentre mantiene l'obbligo di iscrizione all'Albo per l'esercizio della professione giornalistica, ha eliminato i requisiti di natura politica che in passato erano richiesti.
Tra i tanti problemi aperti che attengono nell’esercizio dell’attività giornalistica, un cenno va fatto a quelli che riguardano la segretezza delle fonti di informazione utilizzate e i limiti al c.d. diritto di cronaca (la libertà di manifestazione del pensiero non ricomprende solo il diritto di comunicare liberamente ad altri il proprio pensiero, ma anche quello di poter conoscere e raccontare i fatti della vita quotidiana). Sul I piano, il dibattito ha interessato soprattutto la mancata disciplina di un segreto professionale del giornalista, che gli consentisse di esimersi dall’obbligo di testimoniare davanti al giudice e protegge così l’anonimato delle fonti di informazione. Il nuovo codice di procedura penale contiene una novità al riguardo: l’art. 200 consente, infatti, ai giornalisti di sottrarsi all’obbligo di testimonianza, salvo che le notizie di cui siano a conoscenza siano indispensabili ai fini del procedimento in corso e non possano venire accertate se non attraverso la identificazione della loro fonte.
I problemi più delicati riguardano i limiti che il diritto di cronaca incontra ai fini della tutela del segreto istruttorio (per cui è vietata la pubblicazione degli atti) e del segreto di Stato (per cui è vietata la pubblicazione di notizie coperta da segreto di Stato). In II luogo, tali problemi attengono al rispetto alla tutela dell’onore e della dignità personale dei terzi (assicurata dallo specifico reato della diffamazione a mezzo stampa), nonché al rispetto del canone della veridicità delle notizie o dei fatti riferiti, soprattutto attraverso un rigoroso controllo delle fonti. A tutela del singolo di fronte ad uso scorretto del diritto di cronaca esiste il diritto di rettifica: consente di richiedere la rettifica delle notizie false o inesatte. Un terzo settore di intervento legislativo in ordine alla disciplina della libertà di stampa attiene al fenomeno delle concentrazioni della proprietà editoriale.
b) La radiotelevisione
L’art. 21 non menziona espressa la radiotelevisione. L’evoluzione della legislazione in materia ha conosciuto nel secondo dopoguerra due fasi distinte: la prima caratterizzata dal mantenimento del regime pubblicistico ereditato dal fascismo; la seconda caratterizzata dalla progressiva trasformazione del regime pubblicistico in un regime misto, in cui accanto all’emittente radiotelevisiva pubblica operano anche emittenti private. Il sistema del monopolio pubblico, basato sulla riserva allo Stato di ogni servizio di telecomunicazione, prevedeva un regime di concessione in esclusiva del servizio radiotelevisivo ad un’unica società la RAI s.p.a., sottoposta ad una serie di controlli incisivi da parte del Governo. Principio cardine è quello del pluralismo informativo, inteso sia come rispetto sia come accesso all’attività radiotelevisiva del numero più ampio di imprese. Gli elementi portanti del nuovo sistema pubblico-privato sono rappresentati dall’affidamento alla RAI del servizio pubblico radiotelevisivo, dall’introduzione di un regime di concessioni per le emittenti private; dalla fissazione di una normativa anti-trust dettata per tutti i mezzi di comunicazione, nonché dalla creazione di un’apposita Autorità indipendente, rappresentata dall’Autorità di garanzia nelle comunicazioni. Tale Autorità, composta dal Presidente (nominato dal Capo dello Stato) e da otto membri di nomina parlamentare.
Di fatto, il settore radiotelevisivo vive tutt’ora in regime di duopolio da un lato l’emittente pubblica e dall’altro un operatore privato, Mediaset, che supera ogni altro operatore privato.
L’obiettivo di un maggiore pluralismo nell’informazione radiotelevisiva è al centro anche della nuova legge 112/2004, la quale punta a conseguirlo sfruttando la nuova tecnica di comunicazione digitale. A regime (e cioè dopo una fase transitoria che non si annuncia affatto beve), il nostro sistema radiotelevisivo vorrebbe ad assumere l’assetto seguente:

  1. l’attività radiotelevisiva verrà svolta da soggetti privati (anche la RAI dovrebbe essere progressivamente privatizzata), nel quadro di una serie di principi comuni che tutti saranno tenuti a rispettare;
  2. il panorama degli operatori vedrà da una parte operatori di rete (le imprese che gestiscono le reti di trasmissione) e fornitori di sevizi, ossia di programmi, ai quali è assicurato un diritto di accesso alla rete in condizioni di parità, non discriminazione e trasparenza;
  3. sono ridefiniti i limiti anti-trust, individuando una soglia massima raggiungibile da un unico soggetto nel c.d. sistema integrato della comunicazione (S.I.C);
  4. il servizio pubblico radio televisivo, i cui contenuti rimangono definiti in parte dalla legge e in parte da un apposito contratto di servizio, viene affidato alla RAI privatizzata;
  5. su tutto l settore continua ad esercitate poteri di regolazione, di controllo, vigilanza e, in certi casi, di sanzione l’autorità per le garanzie nelle comunicazioni.

c) Il cinema e il teatro
Il mezzo cinematografico e teatrale è un settore in cui le interferenze dei pubblici poteri sono particolarmente incisivi. Quello dello spettacolo è l’unico settore in cui è sopravvissuta una forma di censura preventiva. La legge 161/1962 prevede che il contenuto di un’opera cinematografica venga sottoposa a controllo da parte di un’apposita Commissione Ministeriale, prima di essere presentata al pubblico.
La Commissione può esprimere parere negativo al rilascio del nulla-osta o può condizionare la visione pubblica del film all’apposizione del divieto ai minori di 14 o 18 anni. L’unico parametro di riferimento è rappresentato dal rispetto del limite del buon costume.
Con la legge 203/1995 un analogo meccanismo di censura prevenivo è stato introdotto anche per le “opere” a soggetto e per i film prodotti dalla televisione. Sono rimaste molte norme, alcune indenni al vaglio della Corte costituzionale in materia di polizia dello spettacolo, la norma prevede la presenza alle rappresentazioni teatrali e cinematografiche di agenti di pubblica sicurezza, con la possibilità di sospendere la rappresentazione in caso di minaccia per l’ordine pubblico.
d) Libertà dell’arte, della scienza e libertà di insegnamento
La libertà della scienza e dell'arte è disciplinata dall'art.21. In relazione ad altri diritti di libertà, anche in questo caso alle garanzie, negative, assicurate alle attività artistiche e scientifiche, si accompagna la prevenzione di garanzie attive, consistenti dell'impegno dei pubblici poteri di promuovere "lo sviluppo della cultura della ricerca scientifica e tecnica".
A tale impegno lo Stato provvede attraverso una serie articolata di istituti, che vanno dal sostegno finanziario assicurato alle istituzioni, al sostegno finanziario alla ricerca svolto attraverso il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), ai contributi di vario genere.
Il 1° comma dell'art. 33 stabilisce uno stretto collegamento tra libertà dell'arte e della scienza e libertà di insegnamento. La libertà di insegnamento può incontrare dei limiti nella "libertà della scuola" là dove si afferma che "enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato". Si prevede al 4° comma la creazione con legge di scuole private "parificate" a quelle statali, in grado di rilasciare gli stessi titoli scolastici.
L'art. 33 si preoccupa del versante strutturale e del versante funzionale delle attività preposte all'istruzione; l'art. 34 affronta invece il versante degli utenti, ponendo due principi fondamentali: quello della libertà di accesso al sistema scolastico e quello del necessario intervento dello Stato a garanzia del diritto allo studio per i capaci e meritevoli, ma privi di mezzi economici necessari.
e) I nuovi "media"
Problemi del tutto particolari e nuovi si sono posti in relazione alle comunicazioni che si realizzano attraverso Internet. Questo mezzo di comunicazione consente attraverso il World Wide Web possibilità illimitate sia di diffondere che di ricevere e di cercare di informazioni; consente un uso interattivo del mezzo; consente di diffondere comunicazioni sia scritte che per immagini. Si pensi al buon costume, alla tutela dei minori, alla  tutela della “privacy”, alla prevenzione e repressione dei reati. Esiste poi il problema di disciplinare l “governo” della rete, ossia di stabilire delle regole in ordine alle condizioni di accesso alla rete stessa, alla condizioni di gestione della medesima, alle condizioni di fornitura dei servizi che attraverso la rete transitano.
Le libertà collettive: la libertà di riunione
Gli artt. 17 e 18 Cost., insieme agli artt. 39 (libertà di associazione sindacale) e 49 (libertà di associazione politica) formano il sistema delle garanzie costituzionali di quelle libertà che possiamo definire collettive, il nuovo esercizio presuppone il concorso di una pluralità di soggetti, accomunati da un unico fine diretto alla realizzazione di comuni finalità. La prima libertà e la libertà di riunione, una volta fissato il principio generale, valido per ogni genere di riunione, tutti sono liberi di riunirsi, purché la riunione sia pacifica e senza armi, detta un regime di regole particolari per le riunioni che si svolgono in luogo pubblico.
Con riferimento alle riunioni che si svolgono in luogo pubblico si impone gli organizzatori un obbligo di preavviso all'autorità di pubblica sicurezza del giorno, dell'ora e del luogo della riunione. L'autorità competente, ricevuto il preavviso, può vietare la riunione o imporre particolari limitazioni. Nessun obbligo di preavviso è previsto ne per le riunioni in un luogo aperto pubblico ne per quelle in luogo privato. Il preavviso deve essere dato al questore almeno tre giorni prima della riunione, pena l'arresto e un'ammenda a carico degli organizzatori. L’obbligo di preavviso tenuto distinto da una richiesta di autorizzazione: esso si configura come un mero obbligo di notificare determinate informazioni alla pubblica autorità, onde consentirle una valutazione preventiva degli eventuali rischi che gli interessi di carattere generale, individuati dal costituente nella sicurezza e incolumità pubblica, possono correre, a causa della progettata riunione. E infatti, ove si verifichi l’ipotesi in cui al preavviso non segua, nel periodo di tempo che precede la riunione, un atto di diniego della medesima, da motivarsi con riferimento esclusivo a quelli interessi, la riunione potrà aver luogo, senza che debba intervenire alcun atto positivo di autorizzazione da parte dell’autorità di p.s.
La riunione di cui non si è dato preavviso che si dimostri pericolosa o in cui vi sia la presenza di soggetti armati, può essere sciolta secondo le modalità previste dalla legge.
La libertà di associazione
Il 1° comma dell'art. 18 Cost. afferma che gli unici limiti opponibili alla libertà dei cittadini di associarsi liberamente consistono nel perseguimento di fini che sono vietati al singolo dalla legge penale. Questa regola conoscere due sole eccezioni con riferimento alle associazioni segrete e a quelle che indirettamente, perseguano fini politici, avvalendosi di una organizzazione di carattere militare, le quali quindi sono vietate a prescindere dal perseguimento di fini penalmente illeciti.
La I eccezione si spiega proprio in ragione della particolare ampiezza della garanzia disposta dal 1° comma della citata disposizione costituzionale; un ampiezza che, traducendosi nel divieto di imposizione di limiti specifici alle associazioni, intanto ha un senso in quanto di queste associazioni siano note almeno l’esistenza e le finalità che esse perseguono.
La II eccezione si collega a quanto previsto dall’art. 49 Cost. che pone a carico delle associazioni che perseguono fini politici l’obbligo di rispettare il “metodo democratico”, ossia le regole fondamentali che disciplinano lo svolgimento della vita politica in un sistema basato sulla democrazia, regole che la presenza di strutture interne di carattere militare o paramilitare fa presumere che non vengano rispettate né all’interno dell’associazione, né nelle sua attività esterna.
Quanto alla definizione di associazione di carattere militare, essa non presuppone la presenza di un'organizzazione militare in senso proprio, ma è sufficiente che il rapporto tra gli associati sia ispirato a principi di forte gerarchia da far temere lo svolgimento di attività di intimidazione o violenza.
a) La libertà di associazione sindacale
La generale libertà di associazione trova un primo corollario importante nella libertà sindacale disciplinata dall'art. 39 Cost.. Si richiedeva alle organizzazioni sindacali di darsi un ordinamento interno a base democratica e di ottenere la registrazione presso appositi uffici. Con la registrazione, le organizzazioni sindacali da associazioni di fatto si sarebbero trasformate in associazione dotate di personalità giuridica e avrebbero potuto stipulare contratti collettivi di lavoro, contratti con efficacia "erga omnes", con valore analogo a quello della legge. La legge che avrebbe dovuto disciplinare organi e procedimenti di registrazione non è mai stato approvata.
Di conseguenza, i sindacati, privi di personalità giuridica, sono a tutt’oggi associazioni non riconosciute, in grado di stipulare contratti collettivi di lavoro, ma con un’efficacia limitata alle sole parte contraenti, ossia agli iscritti alle associazioni sindacali che li sottoscrivono. Sulla base, infatti, dell’interpretazione dell’art. 36, 1°comma, Cost., che garantisce al lavoratore una retribuzione “sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa “come norma direttamente produttrice di effetti”, giudici hanno stabilito il principio che il livello “sufficiente” di retribuzione non possa essere inferiore ai minimi salariali fissati nei contratti collettivi di lavoro, che dunque finiscono per avere un effetto obbligatorio anche per coloro che non hanno sottoscritto il contratto.
La libertà dei sindacati dei lavoratori ha ricevuto un significativo potenziamento in seguito all'approvazione dello Statuto dei lavoratori il quale assicura non solo ai singoli lavoratori, ma anche alle associazioni sindacali tutta una serie di diritti da esercitarsi all'interno degli ambienti di lavoro e punisce la condotta antisindacale del datore di lavoro.
Solo nel 1190, con la legge 146 si è proceduto a disciplinare legislativamente l’esercizio del diritto di sciopero, ma limitatamente al settore dei servizi pubblici: oltre a prevedere l’istituzione di un’apposita commissione di garanzia, col compito di assicurare la corretta applicazione della legge stessa, essa introduce speciali procedure di rafforzamento e di conciliazione del conflitto sindacale, al fine di prevenire lo sciopero, detta particolari modalità per l’indizione dello sciopero e soprattutto obbliga, con il concorso delle associazioni sindacali, a definire misure dirette a consentire, nei singoli servizi, l’erogazione delle prestazioni indispensabili a tutela degli interessi costituzionalmente protetti dei cittadini-utenti.
b) La libertà di associazione politica
Un secondo corollario importante della libertà di associazione è rappresentato dalla libertà di dar vita ad associazioni con fini politici, i partiti. Essi sono chiamati a svolgere la funzione di garantire ai cittadini di "concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale"; rappresenta uno strumento principale di partecipazione politica dei cittadini.
L’art. 49 parla di “tutti” i cittadini, ma il successivo art. 98.3 stabilisce che la legge può introdurre limitazioni al diritto di iscriversi ad un partito politico per alcune categorie di dipendenti pubblici, le cui funzioni richiedono un grado massimo di imparzialità (i magistrati, i militari, i funzionari e agenti di polizia, i diplomatici).
Nessun limite di natura ideologica è previsto per la costituzione di un partito politico, purché l'attività di esso svolge risulti rispettosa del metodo democratico, ossia delle regole che in democrazia disciplinano la lotta politica.

Le libertà economiche: la libertà di iniziativa economica privata
La nostra Carta costituzionale contiene una serie di disposizioni che danno corpo a quella che è chiamata costituzione economica. Il nucleo centrale della costituzione economica è rappresentato dalla disciplina dell'esercizio del diritto di proprietà (il diritto cioè di godere in modo esclusivo di un determinato bene, di cederlo o di ricavarne tutte le possibili utilità), nonché dalla disciplina della libertà di iniziativa economica (ossia della libertà di organizzare i mezzi attraverso i quali produrre beni o servizi da vendere sul mercato). La nostra Costituzione punta allo sviluppo di un sistema misto nel quale iniziativa economica privata e iniziativa economica pubblica concorrono insieme al perseguimento delle finalità.
La Costituzione non si limita a garantire ai singoli la tutela di una determinata sfera di autonomia, ma prevede e disciplina tutta una serie di istituti, attraverso i quali prende corpo, in questo settore, l’impegno dei pubblici poteri a ridurre le disuguaglianza, di ordine economico e sociale, esistenti di fatto tra i cittadini. Il riparto dei poteri decisionali per realizzare questo disegno di economia mista ruota intorno all’istituto della riserva di legge. È infatti al parlamento che spettano tutte le scelte di carattere generale in materia, al fine di garantire la democraticità delle stessa e di evitare possibili abusi della pubblica amministrazione.
La libertà di iniziativa economica è affermata nel 1° comma dell'art. 41. Tra gli interventi legislativi più rilevanti va annoverata la legge 287/1990 che ha introdotto in Italia una legislazione generale "antitrust". Tale legislazione è centrata sulla nozione di posizione dominante sul mercato, il cui uso è vietato in quanto ritenuto elemento che altera e falsa il libero gioco della concorrenza. Ne consegue una serie di limiti a quei comportamenti e a quelle attività delle imprese (accordi, intese,…) che siano in grado di produrre gli effetti distorsivi che la legge intende evitare. Il rispetto di questi limiti è affidato a un’autorità amministrativa indipendente (l’autorità garante della concorrenza e del mercato), composta da 5 membri, designati d’intesa dai presidenti delle camere. Anche questa autorità è dotata di poteri di monitoraggio delle condizioni di mercato, di poteri di indagini e sanzionatori, di poteri consultivi e di informazione nei confronti del parlamento. Tra i limiti alla libertà di iniziativa economica vanno, infine, ricordati quelli derivanti dalle disposizioni dell’art. 43 Cost. Quest’ultimo prevede, infatti, che “ai fini di utilità generale”, la legge possa riservare originariamente ovvero trasferire, previa espropriazione e relativo indennizzo, allo Stato o a enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese che si riferiscono “a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio e abbiano carattere di preminente interesse generale”. Ove ricorrano dunque, tali presupposti, la libertà di iniziativa economica risulta preclusa “ab  origine”, nel senso che non può svilupparsi nei settori oggetto di riserva “originaria”, ovvero deve obbligatoriamente cessare in seguito al provvedimento espropriato. Al momento attuale, la creazione di un mercato europeo tende a ridurre la stessa possibilità e utilità di ricorrere a strumenti del genere: non a caso, molto dei settori assoggettati in passato a monopolio pubblico sono oggi in via di privatizzazione (ad es. i settori delle telecomunicazioni o dell’energia elettrica).
Il diritto di proprietà
Nell'art. 42 trova la sua espressione più radicale il tentativo operato dal Costituente di contemperare l'esercizio delle libertà economiche e il soddisfacimento di interessi sociali. In materia di disciplina del diritto di proprietà privata, il Costituente ha scelto la strada della subordinazione di tale diritto al perseguimento di determinati fini sociali, tanto che si è parlato dell’esistenza in Cost. di una concezione “funzionale” della proprietà e si è definito questo diritto come diritto soggetto ad affievolimento.
Non solo scompare ogni riferimento alla inviolabilità del diritto, ma si afferma che la legge, nel riconoscere e garantire la proprietà privata, ne disciplina modi di acquisto, di godimento e limiti "allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti"; in base a norme di legge la proprietà può essere espropriata per motivi di interesse generale.
I diritti sociali: diritto al lavoro e diritto alla salute
Oltre al diritto allo studio tra i diritti sociali riconosciuti dalla Costituzione assumono un particolare rilievo il diritto al lavoro e il diritto alla salute.
a) Diritto al lavoro
Secondo l'art. 4.1 Cost. la "Repubblica riconosce a tutti i cittadini di diritto al lavoro e promuove le condizioni che avevano effettivo questo diritto". Si è a lungo discusso dell'opportunità o meno di utilizzare il termine "diritto", posto che difficilmente si sarebbe riusciti a garantire a tutti un posto di lavoro, e ancor più difficile sarebbe stato riconoscere la possibilità di ricorrere davanti ad un giudice per avere soddisfazione.
La stessa disposizione costituzionale distinguendo tra riconoscimento astratto del diritto e sua effettiva realizzazione lascia intendere come essa vada interpretata essenzialmente come obiettivo da raggiungere attraverso l’impegno diretto dei pubblici poteri volto a creare le condizioni idonee al suo conseguimento. A fronte di un'inadempienza a questo impegno, non si apre per il cittadino la via del ricorso al giudice, bensì la via del giudizio politico. Veri e propri "diritti" azionabili davanti ad un giudice sono: il diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto e sufficiente a garantire un'esistenza libera e dignitosa, al diritto di avere assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia o disoccupazione involontaria.
b) Diritto alla salute
Secondo l'art. 32.1 la "Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuita agli indigenti".
Tutti i soggetti pubblici che inizia la compongono la Repubblica sono impegnati a rendere effettivo questo diritto interferendo sia direttamente attraverso apposite strutture assistenziali, sia indirettamente mediante la predisposizione di strumenti idonei a consentire anche a soggetti privati lo svolgimento della stessa funzione. L’impegno dei soggetti pubblici si traduce nell’obbligo di garantire le condizioni minime di salute e di benessere psicofisico dell’individuo, indipendentemente dalle sue condizioni economiche: un impegno che ha portato, nel 1978, all’istituzione del servizio sanitario nazionale, che vede la gestione delle attività assistenziali, in gran parte affidata alla competenza regionale.
Il diritto alla salute, la cui lesione può dar luogo a risarcimento anche nei casi in cui non produca  un danno di natura patrimoniale (danno biologico), non comporta un connesso dovere individuale a mantenersi in buona salute. Esso non comporta cioè alcun obbligo di sottoporsi a determinati trattamenti sanitari, salvo i casi espressamente previsti dalla legge e sempre nel rispetto della persona umana. Entra qui in gioco la seconda accezione del diritto alla salute, inteso come interesse della collettività. Tale accezione spiega e giustifica anche tutta l’attività di prevenzione che i soggetti pubblici sono tenuti a svolgere soprattutto nel settore delle malattie infettive, nonché gli interventi limitativi dell’esercizio di alcune libertà costituzionali per motivi di sanità (art. 14 e 15 Cost.). infine, al diritto alla salute si collegano i numerosi interventi dello Stato e degli altri soggetti pubblici a tutela dell’ambiente.
L’ambiente è ormai considerato un bene di valore primario tanto che le disposizioni dirette a assicurare condizioni ambientali in grado di migliorare la qualità della vita, tendono ormai a configurare un vero e proprio diritto all’ambiente salubre, come premessa per un’effettiva realizzazione del dritto alla salute.
I doveri pubblici
Tra i limiti  generali previsti dalla Costituzione all’esercizio dei diritti di libertà vi è l’adempimento di alcuni doveri pubblici: dovere al lavoro; dovere alla difesa; dovere di concorrere alle spese pubbliche; dovere di fedeltà.
a) Dovere al lavoro
Previsto dall’art. 4.2 afferma che “ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. Gli inadempimenti registrabili nell’azione dello Stato fanno ritenere questo dovere più un dovere morale che un dovere propriamente giuridico.
b) Dovere di difesa
Secondo l’art. 52 Cost. “la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”. Si impone dunque a tutti i cittadini, può essere adempiuto nei modi più vari e può comportare tutte le limitazioni ai diritti di libertà che l’obiettivo cui è preordinato, ossia la difesa del territorio nazionale da minacce esterne. Il Costituente ha fissato alcune garanzie: una volta affermato il principio della obbligatorietà del servizio militare, ha previsto una riserva di legge in ordine alla disciplina dei limiti entro i quali tale obbligatorietà va intesa e dei modi con cui tale obbligo va adempiuto; ha affermato che al cittadino militare vanno garantiti il mantenimento della posizione di lavoro conseguita al momento della chiamata alle armi, così come il pieno esercizio dei diritti politici. Con la legge 382/1978, in ossequio al principio della riserva di legge, è stata approvata una nuova regolamentazione del servizio militare. Tale legge ha puntualizzato quali sono le possibili limitazioni che può subire il cittadino-soldato nell’esercizio dei suoi diritti di libertà. Per quanto riguarda l’obiezione di coscienza, dopo anni di dibattiti l’obiettore punito penalmente quale renitente alla leva, ha cominciato a farsi strada l’idea che ragioni della coscienza ed esigenze di difesa potevano trovare un punto di equilibrio che potesse salvaguardarle entrambe. L’obiezione si configura come un vero e proprio diritto che consente al cittadino di adempiere all’obbligo di difesa attraverso un servizio civile sostitutivo, parificato a quello militare. Riservato fino a pochi anni fa ai soli cittadini di sesso maschile, il reclutamento nelle forze armate e della Guardia di Finanza è stato esteso, sia pure su base volontaria, anche alle donne dal D.Lgs. 24/2000. Ad esse è garantita una parità di status rispetto al personale maschile sia per quanto attiene al reclutamento, che allo stato giuridico e agli avanzamenti in carriera . La novità più rilevante in tema di dovere di difesa è rappresentata dalla sospensione dell'obbligatorietà del servizio militare disposta dalla legge 331/2000 la quale rappresenta la trasformazione progressiva delle forze armate in corpi esclusivamente composti da professionisti e non più da personale di leva. Contemporaneamente è stato istituito il servizio civile nazionale che verrà prestato solo su base volontaria.
c) Dovere di contribuire alle spese pubbliche
Due sono i principi affermati dall'art. 53 Cost. in ordine all'adempimento del dovere che impone a tutti di contribuire alle spese pubbliche: quello per cui tale dovere va adempiuto in ragione della capacità contributiva di ciascuno, e quello di base al quale la legge che disciplina il sistema tributario deve ispirarsi a criteri di progressività. Si tratta di due principi che si integrano e si completano a vicenda, stabilendo il primo un rapporto di proporzionalità tra capacità contributiva e imposizione fiscale, imponendo l'adozione da parte del legislatore di un criterio di base al quale, muovendo dalle fasce di reddito più basse e procedendo verso quelle più alte, la proporzionalità dell'imposizione viene integrata dalla sua progressività. La capacità contributiva fa riferimento alla situazione economica complessiva del soggetto, non ogni situazione economica è indice di capacità contributiva: al di sotto di un certo livello non vi è capacità contributiva e quindi non può esservi imposizione fiscale. La legge affida i relativi controlli ad appositi Garanti del contribuente.
d) Dovere di fedeltà alla Repubblica e di osservanza della Costituzione e delle leggi
L'art. 54 Cost. impone a tutti i cittadini "il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi" e ai cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche "il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge". I riflessi giuridicamente rilevanti delle eventuali violazioni del dovere di fedeltà sono quelli legati alla repressione di comportamenti diretti al sovvertimento violento del sistema costituzionale o volti a realizzare interferenze indebite nel regolare esercizio dell'attività degli organi preposti all'esercizio di pubbliche funzioni e di quella degli organi costituzionali.
A queste conseguenze si aggiungono quelle legate alle eventuali violazioni del dovere di adempiere con disciplina e onore alle funzioni pubbliche, che il 2° comma della disposizione costituzionale in esame impone a coloro che ne sono investiti: un dovere al cui adempimento, in certi casi, si richiede di impegnarsi attraverso un solenne giuramento (la Costituzione lo prevede per il presidente della Repubblica, per il presidente del consiglio dei ministri e per i ministri; le leggi ordinarie lo prevedono per alcune categorie di pubblici funzionari, quali i giudici della corte costituzionale, i magistrati in genere, i sindaci e i presidenti delle province,…).

CAPITOLO XV: Il sistema delle fonti normative (pag. 477 – 503)

Le fonti normative dell’ordinamento giuridico repubblicano: categorie e criteri di identificazione
Se la convivenza tra individui e gruppi sociali determina la continua produzione di norme di comportamento, lo Stato moderno ha progressivamente preteso di disciplinare ogni fenomeno che ritenesse socialmente rilevante. Se a ciò si aggiunge la considerazione che le fonti prodotte dal nostro ordinamento giuridico statale sono in forma scritta, può comprendersi come l'usuale distinzione fra fonti- atto e fonti- fatto registri una decisa prevalenza ad delle prime sulle seconde. Per fonti atto si intendono quegli atti giuridici cui l'ordinamento costituzionale attribuisce l'idoneità a porre in essere norme giuridiche, molto rari sono i casi in cui il nostro ordinamento riconosce a fatti l'idoneità di porre in essere norme rilevanti per l'ordinamento giuridico. Un'altra distinzione preliminare è quella fra fonti di produzione e fonti di cognizione: con la prima espressione ci si riferisce agli atti o fatti cui l'ordinamento riconosce l'idoneità a porre in essere una norma attraverso l'individuazione dell'organo titolare del potere e del procedimento di formazione dell'atto normativo; con la seconda ci si riferisce agli atti formali nei quali consistono le diverse norme giuridiche.
Fra le fonti di produzione, una particolare ed importante categoria è costituita dalle fonti sulla produzione: queste fonti hanno come contenuto specifico la disciplina della produzione di norme giuridiche e della loro efficacia; la fonte sulla produzione per eccellenza è la Costituzione.
È pacifica l’opinione che la nostra Cost. prevede un “numero chiuso” di fonti operanti a livello costituzionale e a livello delle leggi ordinarie, ma che invece permetta al legislatore ordinario, seppure in coerenza alle disposizioni costituzionali in tema di organizzazione e di tutela delle posizioni soggettive, di configurare anche diversi tipi di fonti secondarie.
I criteri sostanziali per l'individuazione delle fonti di sono: la generalità, la astrattezza e l'innovatività. Con la generalità ci si riferisce al fatto che la norma è destinata ad una pluralità indeterminata ed a priori indeterminabile di soggetti o di rapporti; con la astrattezza ci si riferisce al fatto che la norma tende a valere nel tempo per tutti i rapporti che saranno ad essa riconducibili; il requisito della innovatività attiene ai requisiti minimi di contenuto di una norma. In un regime giuridico a Costituzione rigida, nel quale lo stesso principio di uguaglianza esige, almeno una volta, un intervento razionalmente differenziato e, al limite, anche puntuale e concreto, deve dirsi che i requisiti di generalità e di astrattezza costituiscono soltanto requisiti normali, ma derogabili, sulla base di idonee motivazioni, dalle fonti normative di livello primario. Più attuale il requisito dell’innovatività, quanto meno in riferimento al richiamo che l’efficacia delle fonti normative non può sussistere che nel caso in cui queste abbiano un contenuto, o contribuiscono alla formazione di un contenuto, di tipo prescritto e non meramente descrittivo di una possibile ipotetica attività.
In realtà, ormai, i criteri sostanziali svolgono solo una funzione limitativa nell’individuazione delle fonti normative, perché decisamente prevalente appare il criterio della loro individuazione in termini formali, attraverso la determinazione, più o meno esaustiva, nelle fonti sulla produzione, della denominazione di ciascuna fonte,dell’organo titolare del relativo potere normativo, del procedimento di formazione e di entrata in vigore, della sua orza giuridica.
La pubblicazione delle fonti normative
La pubblicazione costituisce l'ultima fase del procedimento di produzione normativa; essa svolse una funzione essenziale per la conoscibilità del testo legale e dalla data della pubblicazione dipende il momento della efficacia della fonte, dopo un periodo di "vacatio"(15 giorni).
Si parla di pubblicità legale, una volta intervenuta questa pubblicazione, si ha la presunzione di conoscenza del testo da parte di diversi soggetti che ne possono essere i destinatari. Fra le diverse pubblicazioni ufficiali che svolgono così importante funzione di pubblicità legale un ruolo del tutto particolare è svolto dalla Gazzetta Ufficiale della Repubblica, che non solo deve pubblicare tutti gli atti normativi statali e molti degli altri atti pubblici ma finge da strumento di pubblicità legale anche per le sentenze della Corte costituzionale. Devono essere pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana tutti gli atti normativi statali "che siano strettamente necessari per l'applicazione di atti aventi forza di legge e che abbiano contenuto normativo", tutti gli accordi internazionali, i dispositivi delle sentenze che dichiarano l'illegittimità costituzionale di leggi o fatti con forza di legge.
La pubblicazione legale di questi atti è quella che avviene sulla gazzetta ufficiale, mentre il necessario inserimento degli atti normativi nella raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica costituisce una semplice ripubblicazione.
La legge prevede anche alcune opportune pubblicazioni, aventi peraltro solo efficacia notiziole, in quanto frutto di un’attività tecnica delle strutture ministeriali interessate, volta ad agevolare la comprensione dei testi pubblicati.
Il sistema delle fonti e la rilevanza della funzione interpretativa
L'individuazione delle norme non deriva da una lettura del testo, ma è il frutto di complessi procedimenti interpretativi. In relazione alle fonti atto va tenuta presente la distinzione fra disposizioni (ossia gli elementi testuali) e norme (ossia le regole giuridiche che si traggono da questi testi tramite l'interpretazione). Le disposizioni sull'interpretazione non appaiono compatibili con il nuovo sistema costituzionale. La stessa elencazione dei possibili criteri interpretativi (l'interpretazione letterale e logica, l'intenzione del legislatore; solo nel caso che non sia individuabile una norma applicabile, si consente l'utilizzazione della analogia legis e poi di quella iuris) appare riferirsi ad una sorta di percorso obbligato per l'interprete. Il valore interpretativo dell'intenzione del legislatore è stato ridotto ad essere un criterio importante ma non risolutivo; e più utilizzato il criterio dell'interpretazione logico- sistematica, che mira ad individuare il contenuto di una singola disposizione dal significato che essa assume nel settore normativo cui esso si riferisce (la ratio legis) o in relazione ai principi costituzionali o ai principi generali dell'ordinamento giuridico (ratio iuris). La stessa indicazione, dell'adozione dell'analogia per colmare le lacune interne all'ordinamento, quelle cioè relative a rapporti giuridicamente rilevanti ma non disciplinati, le quali si prestano all'individuazione di "disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe" (analogia legis). A conferma della crescente difficoltà dei processi interpretativi relativi a leggi che essendo frutto di mediazioni complesse, stanno moltiplicandosi i casi di leggi di interpretazione autentica e cioè di leggi che definiscono l'esatto contenuto di disposizioni contenute in leggi precedenti con efficacia fino dal momento della loro originaria approvazione (ex tunc), dal momento che si tratterebbe, appunto, solo di leggi tese a chiarire il significato originario delle disposizioni cui si riferiscono.
La successione delle fonti nel tempo
Il caso di conflitto fra più fronti viene risolto tramite lo strumento dell'abrogazione della norma precedente da parte di quella successiva; l'abrogazione, consistente nella capacità del nuovo atto- fonte di sostituirsi, in tutto o in parte, alla disciplina precedente. L'abrogazione comporta la non applicabilità della norma rispetto a nuovi fatti, mentre continua la sua eventuale efficacia rispetto a fatti che si siano verificati prima dell'abrogazione (solo una legge retroattiva potrebbe far venir meno questa efficacia). L'art. 15 prevede tre tipi di abrogazione: l'abrogazione espressa, allorché la fonte successiva indichi puntualmente le disposizioni precedenti abrogate; l'abrogazione tacita si verifica quando la fonte successiva contiene disposizioni incompatibili con quelle precedenti; l'abrogazione implicita, consegue ad una complessiva modifica della disciplina dell'intero settore rendendola radicalmente superata.
La gerarchia delle fonti
Se lo Stato liberale si è caratterizzato, sul piano delle fonti, per la netta supremazia di quelle primarie su quelle secondarie, lo Stato costituzionale contemporaneo appare sempre più caratterizzato dalla presenza di costituzioni di tipo rigido, che mirano a garantire comunque il rispetto di una serie di norme e di principi da parte delle stesse fonti primarie.
Le antinomie che si producono fra norme di grado diverso vengono risolte non più in termini di successione nel tempo, ma in termini di illegittimità della fonte di grado inferiore contrastate con quella superiore, a prescindere dalle diverse possibili successione (temporali) delle morali. Il principio di costituzionalità si esprime nel senso di una necessaria preesistenza di una disposizione costituzionale nella materia disciplinata da una fonte primaria, mentre il principio di legalità impone che le fonti secondarie presuppongano l'esistenza di specifiche disposizioni di norme primarie o diano loro esecuzione.
Le disposizioni costituzionali costituiscono un lime per le norme primarie e, solo più raramente, indirizzato la discrezionalità del legislatore, mentre sta al legislatore ordinario, anche al di là dei casi di riserva di legge relativa, indirizzare il potere normativo secondario; l’accertamento dell’illegittimità costituzionale della legge, e delle fonti ad essa equiparate, è di competenza esclusiva della corte costituzionale, mentre l’accertamento dell’illegittimità delle fonti secondarie per contrasto con le fonti primarie rientra nella competenza degli organi cui spetta giudicare della legittimità degli atti amministrativi.
Tutte le fonti di un livello gerarchico superiore abrogano le fonti inferiori. Ma la possibilità che ciò avvenga non in modo esplicito, ma solo in modo tacito o implicito, permette agli operatori giuridici di disapplicare le disposizioni ritenute abrogate e legittima la magistratura ordinaria ad accettarne l’avvenuta abrogazione. In apparente contrasto con la netta separazione fra i diversi livelli di “durezza” delle varie fonti, sono i procedimenti di decostituzionalizzazione, mediante i quali una fonte di tipo primario può sostituirsi a disposizioni di livello costituzionale, e di delegificazione, mediante i quali una fonte di tipo secondario può sostituirsi a disposizioni di livello primario. Si tratta di casi rari, ma che possono essere ammissibili se tale processo è previsto e disciplinato dalla fonte di livello superiore con disposizioni che delimitano con sufficiente precisione l’area dell’effetto abrogativo che si produce sulla fonte di grado superiore.
L'applicazione del criterio di competenza
Il principio del riparto di competenza mira ad affidare il potere normativo, in determinati settori, ad organi od enti diversi da quelli che ne sarebbero titolari o ad instaurare procedimenti nei quali devono necessariamente intervenire. L'eventuale illegittimità delle fonti di tipo costituzionale e primario potrà essere dichiarata solo dalla Corte costituzionale. Apparentemente affini alle fonti sono le applicazioni in senso "debole" del principio di competenza: numerose fonti speciali, che sono o fonti specializzate per disciplinare determinati oggetti, o fonti comuni caratterizzate da un contenuto normativo tipico.
Le fonti di livello costituzionale
Al primo gradino si colloca ovviamente la Costituzione norma fondamentale dell'intero ordinamento nonché della massima forza di resistenza al cambiamento. Fra le fonti operanti a livello costituzionale, oltre alla Costituzione, si collocano le leggi di revisione e di integrazione della Costituzione e le altre leggi costituzionali, quelle cioè cui per dettato costituzionale è "riservata" alla disciplina di certe materie, esse si differenziano soprattutto per i diversi limiti che incontrano. Le I essendo soggette ai limiti espliciti e impliciti che circoscrivono la capacità innovativa della funzione di revisione costituzionale, le II essendo soggette ai limiti aggiuntivi dovuto dal fatto di essere fonti a competenza determinata e speciale, chiamate cioè a disciplinare specifici istituti previsti dalla Costituzione. Tra queste ultime, vi è poi da segnalare l’esistenza di leggi costituzionali c.d. “rinforzate”, quelle per la cui approvazione la Costituzione prevede fasi procedimentali ulteriori rispetto a quelle indicate nell’art. 138: è il caso delle leggi costituzionali che dispongono la fusione di regioni esistenti o la creazione di nuove regioni, la cui approvazione parlamentare, nelle forme dell’art. 138, è preceduta da un’apposita richiesta di un certo numero di consigli regionali, nonché da referendum da tenersi tra le popolazioni interessate. Altre fonti di livello costituzionale sono rappresentate dalle norme internazionali generalmente riconosciute. Sul contenuto delle disposizioni costituzionali possono incidere anche le sentenze della Corte costituzionale, sia quelle in tema di conflitti fra i poteri dello Stato, sia quelle in tema di salvaguardia dei supremi principi costituzionali.
Le fonti primarie
Al di sotto della Costituzione e delle leggi costituzionali si pongono le fonti primarie. La legge rappresenta tuttora la principale fonte a competenza generale: la tradizionale qualificazione di legge formale significa la capacità della legge di abrogare e modificare atti normativi precedenti, nonché quella di resistere all'abrogazione e alla modifica da parte di atti normativi successivi, subordinati dalla legge stessa. Questa caratteristica propria della legge si chiama forza di legge, subisce, nel nostro attuale ordinamento, una serie di correzioni in relazione, da un lato, all’adozione di una Cost. di tipo rigido e, dall’altro, all’introduzione, accanto al principio di gerarchia, del principio di competenza quale principio regolatore dei rapporti fra fonti normative. Sotto il primo profilo, la "competenza generale" della legge risulta ridimensionata innanzitutto dalla impossibilità di nascere in violazione delle regole costituzionali che disciplinano il provvedimento legislativo ordinario (per violazione dunque di limiti formali), ma anche nel senso che non possono essere violate le ulteriori regole procedimentali che caratterizzano le leggi ordinarie rinforzate. In secondo luogo, dalla impossibilità di violare principi sostanziali posti dalla Costituzione (per violazione dunque di limiti sostanziali), sia nel caso in cui tali principi si presentino come meri limiti negativi imposti al legislatore, sia nel caso in cui tali principi si presentino come meri limiti positivi, destinati a condizionare in positivo il contenuto della legge. Rientrano in questo ambito anche quelle definite leggi meramente formali, ossia quelle che rivestono di forma legislativa un contenuto normativo che non è nella piena disponibilità del Parlamento. Sotto il secondo profilo, il ridimensionamento della "competenza generale" della legge deriva dalla rottura che la Costituzione opera del monopolio parlamentare del potere legislativo e dalla nascita della legge regionale anch'essa fonte primaria, in suscettibile di essere abrogata e modificata da una successiva legge del parlamento e incapace, a sua volt, di abrogare o modificare precedenti leggi statali. In secondo luogo, essa deriva dal diffuso ricorso da parte del costituente all’istituto della “riserva” della disciplina di alcune materie ad altre fonti normative. È il caso della riserva di regolamento disposta dall’art. 64.1 Cost. in relazione al potere di ciascuna camera di adottare a maggioranza assoluta la disciplina della propria attività, appunto con regolamento, sempre nel rispetto della Cost., ma è anche il caso delle numerose  riserve di legge che si ritrovano nel testo costituzionale. In quest’ultimo caso, la riserva è disposta a favore della legge e tuttavia, in un regime di costituzione rigida come il nostro, essa comporta in ogni caso un limite per il legislatore.
La riserva di legge non esclude l'intervento autonomo di fonti normative diverse dalla legge ma impone alla legge di disciplinare quella certa materia in modo compiuto (nel caso di riserva assoluta) o in modo da definire gli elementi principali della normativa in questione (nel caso di riserva relativa). Un limite alla competenza generale della legge deriva anche dal principio di irretroattività della legge stessa. Va detto che esso non opera in termini generali, quale principio costituzionale implicito; e tuttavia là dove esso è espressamente previsto, con riferimento alla legge penale (vietando l’introduzione di norme incriminatici di comportamenti non ritenuti punibili al momento in cui sono stati posti in essere), ovvero là dove esso può essere ragionevolmente desunto dal dettato costituzionale, con riferimento alle leggi tributarie (vietando la qualificazione di elementi idonei a determinare la capacità contributiva dei soggetti a elementi che in precedenza non erano considerati tali), tale principio ha un indubbio effetto limitativo delle libere scelte del legislatore.
Oltre alla legge sono da annoverare i atti aventi forza di legge, ossia i decreti legislativi e i decreti legge. I decreti legislativi sono fonti che si collocano allo stesso livello della legge ma che tuttavia incontrano dei limiti; limiti con riferimento ai "principi e criteri direttivi", al "tempo", agli "oggetti definiti". Entro questi limiti, si può affermare che i decreti legislativi, per così dire ordinari, hanno al pari della legge una competenza di carattere generale, mentre hanno una competenza specifica quegli atti aventi forza di legge riconducibili alla categoria delle deleghe atipiche: le norme di attuazione degli statuti speciali, gli atti di esercizio dei “poteri necessari” conferiti al governo in caso di guerra (art. 78 Cost.). Le I sono soggette a un procedimento di approvazione, disciplinato dagli statuti speciali, che non configura una vera e propria delegazione legislativa, ma l’attribuzione permanente al governo di un potere normativo primario. I II, generalmente ricondotti, pur nel silenzio della Cost., ad un rapporto di delegazione (si tratterebbe cioè di atti che avrebbero il loro fondamento in un’espressa legge di delegazione del parlamento), presentano un carattere fortemente atipico per l’inapplicabilità ad essi, in ragione delle finalità cui sono preordinati, dei limiti previsti dall’art. 76 Cost., risultando pressoché inimmaginabile lavoro sottoposizione a limiti di tempo di principi e criteri direttivi o di oggetti definiti. Fra le deleghe ordinarie, merita soffermarsi su quelle finalizzate alla formazione di testi unici fra leggi preesistenti, cioè di fonti normative che riescano a coordinare, in testi organici e completi, la normativa precedentemente contenuta disorganicamente in più fonti primarie: a tal fine, si procede ad una delega legislativa al governo, individuando le fonti da unificare e delegando il governo ad operare le modificazioni e integrazioni necessarie al conseguimento dei fini fissati dalla legge; in questo caso, non vi è dubbio che il decreto legislativo, cioè l’atto di esercizio della delega, ponga in essere una nuova fonte primaria e che le fonti precedenti risultino abrogate. Il governo, sulla base di un programma di priorità di interventi deliberato dal consiglio dei ministri, presenti al parlamento un decreto di legge per la semplificazione, il riassetto normativo e la codificazione, volto a definire, per l’anno successivo, gli indirizzi, i criteri, le modalità e le materie i intervento, anche ai fini della ridefinizione dell’area di incidenza delle pubbliche funzioni, con particolare riguardo all’assetto delle competenze statali, regionali e degli enti locali. Anche i decreti legge possono considerarsi fonti primarie a competenza generale: per tali atti non valgono i limiti che incontrano i decreti legislativi, ma valgono i limiti sostanziali che incontra la legge. La peculiarità di questi atti è rappresentata dalla precarietà del loro contenuto normativo: si tratta delle uniche fonti che producono effetti per un breve periodo di tempo (al massimo sono 60 giorni per la loro conversione in legge); effetti destinati comunque a scomparire in quanto effetti di un atto di questo tipo e a trasformarsi negli effetti della legge di conversione (che opera una novazione del contenuto del decreto-legge) o a decadere fin dall’inizio, nell’ipotesi di mancata conversione. Fonti primarie a competenza determinata e riservata sono invece i regolamenti degli organi costituzionali, intendendo per tali non solo i regolamenti interni delle 2 camere del parlamento, espressamente disciplinati dall’art.64 Cost. ma anche quelli della corte costituzionale, della presidenza della Repubblica e del consiglio dei ministri. Si ritiene che anche il referendum abrogativo di legge (statale o regionale) sia da includere tra le fonti normative primarie, o meglio che il decreto del capo dello Stato che dichiara l’avvenuta abrogazione, totale o parziale, di una legge vada riconosciuta la natura di atto avente forza di legge. Alle fonti normative andrebbe poi aggiunti i contratti collettivi di lavoro con efficacia erga omnes, così come andrebbero aggiunte le sentenze di accoglimento della corte costituzionale. Eguale natura di fonte primaria a competenza riservata è da riconoscersi alle leggi regionali e delle province autonome di Trento e Bolzano. Contrariamente a quanto sostenuto da parte della dottrina, si ritiene oggi che anche il referendum abrogativo di legge sia da includere tra le fonti normative primarie.
Sono equiparate alle fonti normative primarie nazionali anche i regolamenti e le altre norme comunitarie direttamente applicabili, le quali impongono al giudice nazionale di disapplicare la legge nazionale che interferisce nella stessa materia disciplinata dalla fonte comunitaria.
Le norme internazionali generalmente riconosciute possono collocarsi, a seconda del loro contenuto, o al livello delle norme costituzionali o a quelle delle fonti primarie. A quest’ultimo livello i collocano le norme internazionali patrizie,quelle cioè che entrano a far parte del nostro ordinamento in virtù di un atto del legislatore nazionale (legge di esecuzione), tuttavia con una particolarità già segnalata, che tale atto si ritiene dotato di una particolare forza di resistenza all’abrogazione da parte di una legge successiva e, in questo senso, si sottrae alla regola ordinaria che disciplina la successione nel tempo di fonti normative di pari grado gerarchico.
Le fonti secondarie
Se le fonti di livello costituzionale e primario sono da ritenersi " a numero chiuso" altrettanto non può dirsi per le fonti secondarie. Le fonti secondarie tendono ad ordinarsi in relazione ai diversi livelli amministrativi con un rapporto che è regolato dalle disposizioni costituzionali e legislative che garantiscono l'autonomia dei livelli di governo locale rispetto all'assetto amministrativo centrale. Fonte secondaria per eccellenza è il regolamento governativo. La Costituzione è laconica, limitandosi a stabilire che essi assumono la veste formale di decreti del Presidente della Repubblica e a tracciare una linea di confine con le fonti primarie laddove essa prevede delle riserve di legge, essa si colloca al di sotto delle fonti primarie e, che obbliga i giudici ordinari di disapplicare non solo gli atti amministrativi, ma anche i regolamenti non conformi alla legge, nonché secondo quanto stabilito dall’art. 4 delle “preleggi”, là dove si afferma che “i regolamenti non possono contenere norme contrarie alle disposizioni delle leggi”. Ci si è chiesti se la fonte regolamentare debba rispettare oltre che il principio di legalità formale (ossia trovare il suo fondamento in un espresso atto legislativo), anche il principio di legalità sostanziale (ossia rispettare anche i criteri dettati dal legislatore nell'attribuzione del potere regolamentare). A livello regionale, le fonti secondarie sono rappresentate dai regolamenti regionali e da alcune forme di potestà statutarie e regolamentare previste da leggi regionali a favore di enti pubblici regionali. A livello di enti locali esistono due tipi di fonti normative secondarie (gli statuti e i regolamenti), con un esplicito vincolo per i regolamenti di rispetto dalle disposizioni statutarie.
Le fonti e le situazioni di necessità
Il sistema delle fonti risente in varia misura di situazioni di necessità sia perché alcune fonti si trovano la loro legittimazione, sia perché situazioni di necessità legittimano l’eventualità che alcuni atti deroghino alle prescrizioni contenute in vati tipi di fonti normative. L’ordinamento giuridico si fa carico di possibili situazioni di assoluta necessità che possono alterare il normale funzionamento degli strumenti di disciplina dei rapporti interpersonali e collettivi: sul terreno delle fonti, ciò trova riscontro palese nella disciplina della decretazione di urgenza e dei poteri normativi in caso di guerra. Nella legislazione ordinaria, esistono, tuttavia, anche altre manifestazioni della rilevanza delle situazioni di assoluta necessità, come è testimoniato dai bandi militari e dai poteri di ordinanza. I bandi militari come fonti normative di grado primario a ciò delegati dal Comandante supremo; presupposto per l’adozione di tali bandi è la presenza di situazioni di necessità. Le ordinanze di necessità conseguono al conferimento ad alcuni organi amministrativi del potere di adottare “ordinanze con tingibili ed urgenti” in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica o di grave pericolo per l’incolumità ai cittadini: caratteristica tipica di questi atti ad efficacia temporanea è quella di poter derogare anche alle prescrizioni legislative vigenti, con l’unico limite rappresentato dai principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato. La necessità può essere anche un fatto normativo, che produce i suoi effetti al di fuori delle stesse regole costituzionali o legislative.
Le fonti di natura consuetudinaria
Le fonti di natura consuetudinaria rientrano fra le fonti- fatto. Per consuetudine si intende una norma di comportamento non scritta, di rilevanza collettiva, regolarmente seguita nel gruppo sociale o nell’ambito territoriale interessato dalla norma (“longa repetitio”), in quanto ritenuta giusta o necessitata.
Il nostro ordinamento giuridico caratterizzato da atti-fonte scritti, riserva uno spazio marginale alle font consuetudinarie: l’art. 8 delle “preleggi” prevede che gli “usi” abbiano efficacia “nelle materie regolate dalle leggi e dai regolamenti” soltanto “in quanto sono da essi richiamati”. Ciò legittima il riconoscimento di un valore giuridico ad alcuni usi secundum legem ed anche praeter legem; la loro esistenza viene documentata mediante raccolte ufficiali tenute dal Ministero dell’industria e dalle Camere di commercio.  Gli usi non esauriscono il quadro delle fonti consuetudinarie. La consuetudine si afferma come un fatto normativo, sulla base della mera effettività dell’adesione sociale alle sue prescrizioni. Questo fenomeno può prodursi in forma relativamente più agevole con riferimento alle fonti costituzionali, dal momento che, pur non essendovi nella Cost. un rinvio a fonti consuetudinarie e, anzi, operandosi, in un regime costituzionale rigido, la disciplina costituzionale, pur relativamente lunga e analitica, non regola ogni ambito della materia costituzionale e si presenta, per molti aspetti, suscettibile di subire adattamenti e integrazioni in relazione ai mutamenti che possono intervenire nel conteso in cui opera. Si tenga, infine, presente che, al livello delle fonti costituzionali, la consuetudine può dare adito a una produzione normativa di tipo primario: si pendi, ad es., alla introduzione della sfiducia individuale prima in via di prassi e poi in via regolamentare. Non sempre comportamenti costanti nel tempo ad integrazione delle disposizioni costituzionali costituiscono consuetudini costituzionali. Esistono le norme di correttezza costituzionale, che rappresentano mere regole di corretto espletamento delle funzioni che spettano agli organi fondamentali dello Stato. Ma non provocano conseguenze giuridiche di alcun genere, né possono provocare reazioni se non di tipo strettamente politico. Alquanto diffuse sono le convenzioni costituzionali e cioè regole di comportamento che gli organi fondamentali dell’ordinamento costituzionali si danno per l’esercizio delle loro funzioni. Non si tratta, quindi, è di fonti normative, né di accordi, poiché ciascun soggetto resta libero di decidere il proprio comportamento, salvo andare incontro a reazioni da parte degli altri soggetti protagonisti della vita istituzionale. Può avvenire che alcune di queste regole vengano progressivamente sentite come obbligatorie e tendano a trasformarsi in vere e proprie consuetudini vincolanti, ove riconosciute come tali dagli organi titolari dei poteri istituzionali e, in particolare, dalla corte costituzionale, chiamata a giudicarne la natura.
Le fonti derivanti dal rapporto con altri ordinamenti
L’antica e rigida concezione di una netta separazione fra ordinamento statale ed altri ordinamenti appare ormai superata su due versanti. Prima di tutto, l’adattamento automatico alle norme internazionali generalmente riconosciute appare di grande importanza, poiché inserisce stabilmente nel nostro ordinamento un tipo di fonte appartenente all’ordinamento internazionale (ci si trova dinanzi ad un rinvio formale). In secondo luogo, le fonti comunitarie producono in settori materiali ampi numerose fonti di tipo primario, buona parte delle quali entrano in vigore nel nostro ordinamento, mentre altre devono essere recepite mediane appositi atti normativi od anche attuate in via amministrativa. Sono espressione del sistema binario di rapporti fra l’ordinamento interno e quello internazionale le leggi di esecuzione dei trattati internazionali, sia che l’esecuzione intervenga in via ordinaria mediante l’adozione di un apposito atto normativo dotato della forza giuridica idonea a dare attuazione all’accordo, ovvero per semplice ordine di esecuzione, il quale dovrà essere contenuto in un atto normativo idoneo a dare attuazione all’accordo. Nel caso che nella fonte statale ci si riferisca alla fonte del diritto internazionale, questo rinvio sarà un rinvio recettizio e cioè semplicemente un rinvio alle disposizioni di quella fonte e non a quella fonte di produzione. Se la fonte statale i riferisce a fonti di produzione di altri ordinamenti, si parla di rinvio formale o mobile, ciò determina l’ingresso nel nostro ordinamento delle disposizioni prodotte da quelle fonti esterne.

 

Fonte: http://economiaunipa.altervista.org/wp-content/uploads/2013/05/Riassunto-Istituzioni-di-Diritto-Pubblico-Caretti-De-Siervo-11.doc

Sito web da visitare: http://economiaunipa.altervista.org/

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

Il testo è di proprietà dei rispettivi autori che ringraziamo per l'opportunità che ci danno di far conoscere gratuitamente i loro testi per finalità illustrative e didattiche. Se siete gli autori del testo e siete interessati a richiedere la rimozione del testo o l'inserimento di altre informazioni inviateci un e-mail dopo le opportune verifiche soddisferemo la vostra richiesta nel più breve tempo possibile.

 

Riassunto Istituzioni di Diritto Pubblico Libro di Caretti De Siervo

 

 

I riassunti , gli appunti i testi contenuti nel nostro sito sono messi a disposizione gratuitamente con finalità illustrative didattiche, scientifiche, a carattere sociale, civile e culturale a tutti i possibili interessati secondo il concetto del fair use e con l' obiettivo del rispetto della direttiva europea 2001/29/CE e dell' art. 70 della legge 633/1941 sul diritto d'autore

Le informazioni di medicina e salute contenute nel sito sono di natura generale ed a scopo puramente divulgativo e per questo motivo non possono sostituire in alcun caso il consiglio di un medico (ovvero un soggetto abilitato legalmente alla professione).

 

Riassunto Istituzioni di Diritto Pubblico Libro di Caretti De Siervo

 

"Ciò che sappiamo è una goccia, ciò che ignoriamo un oceano!" Isaac Newton. Essendo impossibile tenere a mente l'enorme quantità di informazioni, l'importante è sapere dove ritrovare l'informazione quando questa serve. U. Eco

www.riassuntini.com dove ritrovare l'informazione quando questa serve

 

Argomenti

Termini d' uso, cookies e privacy

Contatti

Cerca nel sito

 

 

Riassunto Istituzioni di Diritto Pubblico Libro di Caretti De Siervo