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RIASSUNTI DEL
“MANUALE DI DIRITTO PRIVATO”
Di: A.Torrente P.Schlesinger
NOZIONI PRELIMINARI
1 L’ordinamento giuridico
L’ordinamento giuridico è costituito dal complesso delle norme e di istituzioni, mediante le quali viene regolato e diretto lo svolgimento della vita sociale e dei rapporti tra i singoli.
La cooperazione tra gli uomini rende realizzabili risultati che sarebbero altrimenti irraggiungibili per il singolo.
Per aversi un gruppo organizzato occorrono tre condizioni:
Il sistema di regole, modelli e schemi mediante i quali è organizzata una collettività viene chiamato “ordinamento”. Quindi la finalità dell’ordinamento giuridico è quella di “ordinare” la realtà sociale.
Gli uomini danno vita a collettività di vario tipo: si pensi alle chiese o ai partiti politici, ai sindacati o alle organizzazioni culturali…Tra tutte le forme di collettività, importanza preminente ha sempre avuto la società politica: quella, cioè, rivolta alla soddisfazione non dei vari bisogni dei consociati, bensì di quello più importante condizionandone il conseguimento, e che consiste nell’assicurare i presupposti necessari affinchè le varie attività promosse dai bisogni stessi possano svolgersi in modo ordinato e pacifico. Naturalmente le società politiche hanno assunto forme diverse nella storia.
Un ordinamento giuridico si dice originario quando la sua organizzazione non è soggetta ad un controllo di validità da parte di un’altra organizzazione.
L’ordinamento di una collettività è costituito da un sistema di regole. Ciascuna di queste regole, proprio perché concorre a disciplinare la vita organizzata della comunità, si chiama norma; e poiché il sistema di regole da cui è assicurato l’ordine di una società rappresenta il diritto di quella società, ciascuna di tali norme si dice giuridica.
La norma giuridica non va mai confusa con la norma morale, nemmeno quando l’una e l’altra abbiano identico contenuto. Difatti, mentre ciascuna regola morale è assoluta, nel senso che trova solo nel suo contenuto la propria validità, la regola giuridica deriva la propria forza vincolante dal fatto di essere prevista da un atto dotato di autorità nell’ambito dell’organizzazione di una collettività.
I fatti produttivi di norme giuridiche si chiamano “fonti”. Di solito la norma viene consacrata in un documento normativo. In tal caso occorre non confondere la “formula” (il testo) della disposizione, con il “precetto” (il significato) che a quel testo viene attribuito dall’interprete.
Non bisogna confondere il concetto di “norma giuridica” con quello di “legge”. Per un verso infatti, la legge è un atto o documento normativo, che contiene norme giuridiche, e che quindi sta con queste in rapporto da contenente a contenuto; per altro verso, accanto a norme aventi “forza di legge”, ogni ordinamento conosce tante altre norme giuridiche frutto di altri atti normativi; per altro verso ancora, una medesima legge può contenere molte norme, ma una norma può anche risultare soltanto dal “combinato disposto” di più disposizioni legislative, ciascuna delle quali può regolare anche un solo aspetto del problema complesso.
Il complesso delle norme da cui è costituito ciascun ordinamento giuridico rappresenta il “diritto positivo” di quella società.
Il c.d. “diritto naturale” è talvolta inteso come matrice dei singoli diritti positivi, talaltra come criterio di valutazione critica dei concreti ordinamenti.
Le norme giuridiche si caratterizzano per il fatto di essere suscettibili di attuazione forzata (coercizione) o sono comunque garantite dalla predisposizione, per l’ipotesi di trasgressione, di una conseguenza in danno del trasgressore, chiamata “sanzione”, la cui minaccia favorirebbe l’osservanza spontanea della norma.
Spesso, accanto a “norme di condotta” (dette primarie), il legislatore prevede una “risposta” o una “reazione” dell’ordinamento (c.d. norme sanzionatorie o secondarie), da far scattare in caso di inosservanza del comportamento prescritto.
Vi è peraltro da rilevare che la difesa dell’ordinamento non viene perseguita soltanto attraverso misure repressive di una situazione preesistente illegittimamente violata, ma anche mediante misure preventive, di vigilanza e di dissuasione, e perfino con l’ausilio di norme che si limitano ad affermazioni di principio, che svolgono un’importante funzione “esemplare”, indipendentemente dalla previsione di qualsiasi sanzione.
Di recente sono frequenti anche norme che stabiliscono “premi” e “incentivi a favore dei soggetti che si vengano a trovare in particolari situazioni (ad es. a favore di imprese che intraprendono nuove attività in zone considerate depresse o sottosviluppate).
La sanzione può operare in modo diretto (realizzando il risultato che la legge prescrive), o in modo indiretto: in questo caso l’ordinamento si avvale di altri mezzi per ottenere l’osservanza della norma o per reagire alla sua violazione. Nel diritto privato, in particolare, la sanzione non opera, di regola, direttamente.
I caratteri essenziali della norma giuridica avente forza di legge sono la generalità e la estrattezza dei relativi precetti.
Con il carattere della generalità si intende sottolineare che la legge non deve essere dettata per singoli individui, bensì o per tutti i consociati o per classi generiche di soggetti.
Con il carattere della astrattezza si intende sottolineare che la legge non deve essere dettata per specifiche situazioni concrete, bensì per fattispecie (stato di cose) astratte, ossia per situazioni individuate ipoteticamente.
Importante è diventata, per caratterizzare la norma avente valore di legge, il c.d. “principio di eguaglianza”(art. 3 Cost.).
Dal principio di eguaglianza va tenuto distinto il principio per cui i pubblici uffici devono rispettare il criterio della imparzialità (art. 97 Cost.), ossia l’obbligo di applicare le leggi in modo eguale.
Nell’art. 3 della Cost. è invece codificato il vero principio di eguaglianza, che ha due profili:
Il controllo del rispetto del principio di eguaglianza è affidato alla corte Costituzionale, la quale può dichiarare l’illegittimità di una norma avente forza di legge quando ritenga “irragionevole” o “incongruente” o “contraddittoria” o “arbitraria” una differenziazione normativa di situazioni che, in realtà, siano omogenee, ovvero un’assimilazione di trattamento nei confronti di situazioni che, in realtà, siano diverse.
In qualche ipotesi può avvenire che l’applicazione del comando al caso concreto dia luogo a conseguenze che urtano contro il sentimento di giustizia.
L’equità è stata, pertanto, definita la giustizia del caso singolo.
L’ordinamento giuridico sacrifica spesso la giustizia del caso singolo all’esigenza della certezza del diritto, in quanto ritiene pericoloso affidarsi alla valutazione soggettiva del giudice e preferisce che i singoli possano prevedere esattamente quali saranno le conseguenze dei loro comportamenti ( principio della certezza del diritto ).
Perciò, nel diritto privato, il ricorso all’equità è ammesso solo in casi eccezionali e precisamente in quelli in cui la stessa norma giuridica rinvia all’equità.
Capitolo 2 : IL DIRITTO PRIVATO
Il diritto pubblico disciplina l’organizzazione dello Stato e degli altri enti pubblici, regola la loro azione, interna e di fronte ai privati, ed impone a questi ultimi il comportamento cui sono tenuti per rispettare la vita associata e il reperimento dei mezzi finanziari necessari per il perseguimento delle finalità pubbliche.
Il diritto privato, invece, si limita a disciplinare le relazioni interindividuali, sia dei singoli che degli enti privati, non affidandone la cura ad organi pubblici, ma lasciando alla iniziativa personale anche l’attuazione delle norme.
Molto spesso, un medesimo fatto è disciplinato sia da norme di diritto privato che da norme di diritto pubblico.
Le norme di diritto privato si distinguono in derogabili (o dispositive ) e inderogabili (o cogenti): si dicono inderogabili quelle norme la cui applicazione è imposta dall’ordinamento prescindendo dalla volontà dei singoli; derogabili le norme la cui applicazione può essere evitata mediante un accordo degli interessati. Poi distinguiamo anche le norme supplettive, le quali sono destinate a trovare applicazione solo quando i soggetti privati non abbiano provveduto a disciplinare un determinato aspetto della fattispecie, in relazione al quale sussiste una lacuna, cui la legge sopperisce intervenendo a disciplinare ciò che i privati hanno lasciato privo di regolamentazione.
Sebbene le norme di diritto pubblico siano quasi sempre cogenti, e quelle di diritto privato per la maggior parte dispositive, possono anche aversi norme di diritto pubblico suscettibili di deroga o norme di diritto privato cogenti.
Con la norma dispositiva il legislatore enuncia una regola conforme alla disciplina che viene adottata di solito dalle parti stesse, e perciò può considerarsi “tipica”, potendosi presumere che, se l’ipotesi fosse stata contemplata, la volontà comune dei contraenti si sarebbe indirizzata verso quella soluzione.
Per “fonti” legali di “produzione” delle norme giuridiche si intendono gli atti e i fatti che producono o sono idonei a produrre diritto. Dalle fonti di produzione si distinguono le fonti di “cognizione”, ossia i documenti e le pubblicazioni ufficiali da cui si può prendere conoscenza.
Alle fonti di produzione delle singole norme giuridiche si possono contrapporre le fonti di un intero ordinamento, ossia le vicende storico-politiche che ne hanno determinato la nascita con quelle determinate caratteristiche.
Le fonti si possono distinguere in materiali e formali.
Rispetto a ciascuna fonte, quando si tratti di un “atto”, si può distinguere: a) l’Autorità investita del potere di emanarlo (il Parlamento, il Governo); b) il procedimento formativo dell’atto; c) il documento normativo (la legge considerata nella sua lettera); d) i precetti ricavabili dal documento.
E’ chiaro che ogni ordinamento deve stabilire le norme sulla produzione giuridica, ossia a quali Autorità, a quali organi, e con quali procedure, sia affidato il potere di emanare norme giuridiche.
Nel nostro Paese la gerarchia delle fonti viene così ricostruita:
Una legge ordinaria non può né modificare la Costituzione o altra legge di rango costituzionale, né contenere disposizioni in qualsiasi modo in contrasto con norme costituzionali. A presidio di questa rigidità della nostra Carta costituzionale è stato istituito un apposito organo, la Corte costituzionale, cui è affidato il compito di controllare se le disposizioni di una legge ordinaria siano in conflitto con norme costituzionali (Art.134 Cost.). Se la Corte ritiene illegittima una norma, dichiara con sentenza la incostituzionalità della disposizione viziata, che cessa la sua efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione (Art.136 Cost.).
A sua volta la legge ordinaria può abrogare o modificare qualsiasi norma non avente valore di legge, mentre non può essere modificata o abrogata se non da una legge successiva. Alle leggi statali sono equiparati sia i decreti legislativi delegati che i decreti legge di urgenza, sebbene emanati dal Governo e non dal Parlamento, ma a condizione che, rispettivamente, o si mantengano rispettosi della legge di delega ( nel 1° caso) o siano convertiti in legge dal Parlamento entro 60 gg.( nel 2° caso).
Peraltro ha valore prevalente rispetto alle stesse leggi ordinarie statali tutta la normativa comunitaria.
Subordinate alle leggi si possono avere tante altre “fonti” di diritto: l’art.1 delle preleggi menziona “ regolamenti”, “le norme corporative” e “gli usi”.
La Carta costituzionale prevede pure la legge regionale ed il referendum popolare abrogativo.
Nel linguaggio giuridici, il termine “codice” indica una raccolta di materiali normativi.
Essi possono essere sempre modificati o, in tutto o in parte abrogati, con leggi ordinarie successive; spesso le modifiche vengono apportate con la tecnica della “Novella”, ossia sostituendo direttamente il testo di un articolo, ferma la numerazione originaria, ovvero aggiungendo articoli nuovi.
Affinchè sussista una consuetudine è necessario che siano soddisfatte tre condizioni:
Non c’è elemento che sia prioritario e determinante rispetto all’altro.
In dottrina si usa distinguere tre tipi di consuetudini:
La consuetudine non è prevista e disciplinata dalla Costituzione. Essa è fonte strutturalmente subordinata alla legge, e può operare solo nei limiti in cui la legge lo consente.
Capitolo 3: EFFICACIA TEMPORALE DELLE LEGGI
Per l’entrata in vigore dei provvedimenti legislativi si richiede oltre all’approvazione da parte delle due Camere:
Con la pubblicazione la legge si reputa conosciuta e diventa obbligatoria per tutti, anche per chi, in realtà, non ne abbia conoscenza. Vale, infatti, il principio per cui ignorantia iuris non excusat, cosicchè nessuno può invocare a propria scusa, per evitare una sanzione, di aver ignorato l’esistenza di una disposizione di legge. La Corte costituzionale ha tuttavia stabilito che l’ignoranza della legge è scusabile quando l’errore di un soggetto in ordine all’esistenza o al significato di una legge penale sia stato inevitabile.
13 Abrogazione della legge
Una disposizione di legge viene abrogata quando un nuovo atto dispone che ne cessi l’efficacia (anche se una norma, pur dopo abrogata può continuare ad essere applicata ai fatti verificatisi anteriormente).
Per abrogare una disposizione occorre sempre l’intervento di una disposizione nuova di pari valore gerarchico: e così una legge non può essere abrogata che da una legge posteriore.
L’abrogazione può essere espressa o tacita. Espressa quando la legge posteriore dichiara esplicitamente abrogata una legge anteriore. Tacita se manca, nella legge successiva, una tale dichiarazione formale, ma le disposizioni posteriori: a) o sono incompatibili con una o più disposizioni antecedenti; b) o costituiscono una regolamentazione dell’intera materia già regolata dalla legge precedente, la quale, pertanto, deve ritenersi assorbita e sostituita integralmente dalle disposizioni più recenti anche in assenza di una vera e propria incompatibilità tra la vecchia e la nuova disciplina.
La deroga si ha quando una nuova norma sostituisce, ma solo per specifici casi, la disciplina prevista dalla norma precedente, che continua però ad essere applicabile a tutti gli altri casi.
Un’altra figura di abrogazione espressa può essere realizzata mediante un referendum popolare, quando ne facciano richiesta almeno 500.000 elettori o 5 Consigli regionali, e la proposta di abrogazione si considera approvata se alla votazione partecipi la maggioranza degli aventi diritto purchè la proposta di abrogazione consegua la maggioranza dei voti espressi (Art.75 Cost.). Anche la dichiarazione di incostituzionalità di una legge ne fa cessare l’efficacia. Ma mentre l’abrogazione ha effetto solo per l’avvenire (la legge, benchè abrogata, può e deve essere ancora applicata ai fatti verificatisi quando era in vigore), la dichiarazione di incostituzionalità, invece, annulla la disposizione illegittima ex tunc, come se non fosse mai stata emanata, cosicchè non può più essere applicata neppure nei giudizi ancora in corso e neppure ai fatti già verificatisi in precedenza.
L’abrogazione di una norma che, a sua volta, aveva abrogato una norma precedente non fa rivivere quest’ultima, salvo che sia espressamente disposto: in tal caso la norma si chiama ripristinatoria.
L’art.11.1 delle preleggi stabilisce che “la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo”. Si dice, quindi, retroattiva una norma la quale attribuisca conseguenze giuridiche a fattispecie (concrete) verificatesi in momenti anteriori alla sua entrata in vigore. Nel nostro ordinamento solo la norma penale non può essere retroattiva: “nessuno può essere punito per un fatto che non costituiva reato. Efficacia retroattiva hanno, poi, le c.d. “leggi interpretative”, ossia emanate per chiarire il significato di norme antecedenti e che, quindi, si applicano a tutti i fatti regolati da queste ultime.
In alcuni casi interviene il legislatore a regolare il passaggio tra la vecchia e quella nuova con specifiche norme, che si chiamano disposizioni transitorie. La legge nuova non può colpire i diritti quesiti, che, cioè, sono già entrati nel patrimonio di un soggetto (teoria del diritto quesito); inoltre la legge nuova non estende la sua efficacia ai fatti definitivamente perfezionati sotto il vigore della legge precedente, ancorchè dei fatti stessi siano pendenti gli effetti (teoria del fatto compiuto). Quest’ultima teoria è maggiormente seguita.
Si parla, invece, di ultrattività quando una disposizione di legge stabilisce che atti o rapporti, compiuti o svolgentisi nel vigore di una nuova normativa, continuano ad essere regolati dalla legge anteriore.
Capitolo 4: L’APPLICAZIONE E L’INTERPRETAZIONE DELLA LEGGE
Per applicazione della legge s’intende la concreta realizzazione, nella vita della collettività, di quanto è ordinato dalle regole che compongono il diritto dello Stato.
E’ compito dello Stato attraverso i suoi organi, curare l’applicazione delle norme di diritto pubblico. Viceversa l’applicazione delle norme di diritto privato non è imposta in modo autoritario, ma è lasciata alla prudenza e al buon senso dei singoli.
La maggior parte delle liti che quotidianamente insorgono, non viene portata all’esame del giudice: o si trascinano restando insolute, oppure vengono composte attraverso una delle seguenti vie.
Ciascuna delle parti, se non vuole lasciare insoluta la lite e non trova alcun altro mezzo per giungere ad una composizione stragiudiziale, ha sempre il diritto di rivolgersi ai giudici dello Stato, chiamando in giudizio la controparte.
Di fronte all’iniziativa giudiziale dell’attore, il convenuto può assumere uno dei seguenti atteggiamenti:
Per risolvere sia le questioni “di fatto” che quelle “di diritto” è indispensabile avere individuato la disposizione da applicare e averla “interpretata”.
Interpretare un testo normativo non vuol dire solo conoscere quanto il testo in sé già esprimerebbe, bensì decidere che cosa si ritiene che il testo effettivamente possa significare e, conseguentemente, come vadano risolti i conflitti che insorgono nelle sua applicazione.
L’attività di interpretazione non può mai esaurirsi nel solo esame dei dati testuali.
In primo luogo, infatti, non tutti i vocaboli contenuti nelle leggi possono essere definiti nelle leggi stesse: pertanto il significato che viene loro attribuito in ciascun contesto va ricavato da elementi extra-testuali.
In secondo luogo le leggi, nel disciplinare rapporti sociali, si riferiscono, in generale a classi di rapporti: spetterà all’interprete, di fronte a rapporti concreti, decidere se considerarli inclusi nella disciplina della singola norma, oppure no, ed a tal fine l’interprete dovrà impiegare particolari tecniche di “estensione” o di “integrazione” delle disposizioni della legge, attingendo a criteri di decisione extra-legislativi.
In terzo luogo le formulazioni delle leggi sono spesso in conflitto tra loro: conflitti che si superano ricorrendo a criteri di gerarchia tra le fonti, a criteri cronologici, a criteri di specialità.
In quarto luogo, di fronte a ciascun caso singolo difficilmente si può applicare un’unica norma, ma occorre utilizzare un’ampia combinazione di disposizioni, ritagliate e ricomposte per adattarle al caso: operazione complessa che si avvale di nozioni sistematiche a carattere dottrinario ed extra-testuali.
L’attribuzione da parte dell’interprete a un documento legislativo viene detta interpretazione “dichiarativa”. Quando invece il processo interpretativo attribuisce ad una disposizione un significato diverso da quello che apparirebbe, a prima vista, esserle “proprio”, si parla di interpretazione “correttiva”.
Dal punto di vista dei soggetti che svolgono l’attività interpretativa si distingue tra interpretazione giudiziale, dottrinale e autentica.
L’attività interpretativa assume valore vincolante solo quando è compiuta dai giudici dello Stato nell’esercizio della funzione giurisdizionale (c.d. interpretazione giudiziale).
L’interpretazione dottrinale è costituita dagli apporti di studio dei cultori delle materie giuridiche, i quali si preoccupano di raccogliere il materiale utile alla interpretazione delle varie disposizioni, di illustrarne i possibili significati, di sottolineare le conseguenze delle varie soluzioni interpretative.
Non costituisce, infine, vera attività interpretativa la c.d. interpretazione autentica, ossia quella che proviene dallo stesso legislatore, che emana apposite norme per chiarire il significato di norme preesistenti. Questa ha efficacia retroattiva: infatti essa chiarisce anche per il passato il valore da attribuire alla legge precedente, troncando i dubbi che erano sorti sulla sua interpretazione.
18 Le regole dell’interpretazione
Il c.c. impone di valutare non solo il significato proprio delle parole (c.d. interpretazione letterale), ma anche l’intenzione del legislatore.
Altri criteri cui l’interprete e il giudice si rivolge, sono:
Il giudice quando non riesce a risolvere il caso su cui deve pronunciarsi deve procedere applicando “per analogia” le disposizioni che regolino casi simili, e qualora il caso rimanga ancora dubbio, applicando “i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato”.
Ricorrere ad un ragionamento per analogia significa applicare ad un caso non regolato (in quanto per esso non si è trovato nessuna norma che lo contempli) una norma non scritta ricopiata da una norma scritta, la quale, però, risulta dettata per regolare un caso diverso, sebbene simile a quello da decidere.
Individuare tra due fattispecie diverse, una regolata ed un’altra non regolata, un rapporto di somiglianza, significa che di due entità può dirsi che sono simili se hanno qualche elemento in comune. Deve trattarsi proprio dell’elemento che giustifica la disciplina accordata al caso: l’identità di quell’elemento ci fa concludere che pur il caso non regolato merita identica disciplina.
L’analogia si fonda su una identità di ratio: ove tra due fattispecie sussista una somiglianza data da identità di alcuni elementi e la ratio della norma che disciplina uno dei due casi va rintracciata proprio in esigenze legate all’elemento che risulta comune ad entrambe le fattispecie, anche al secondo caso, per il quale ricorre una identica ratio (giustificazione), potrà applicarsi la norma dettata per la prima fattispecie.
Il ricorso all’analogia è sottoposto, nel nostro ordinamento a limiti: essa non è consentita né per le leggi penali, né per quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi.
Il divieto si giustifica in relazione alle norme penali, per il principio di stretta legalità che caratterizza le norme incriminatrici: nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto compiuto.
Il divieto dell’analogia nell’applicazione delle leggi penali non vale, peraltro, per l’interpretazione estensiva, con la quale ci si limita ad adeguare la portata letterale della norma alla effettiva volontà legislativa.
Capitolo 5: I CONFLITTI DI LEGGI NELLO SPAZIO
In ciascun Paese, vengono elaborate norme di diritto internazionale privato: ossia regole che stabiliscono quale tra varie leggi nazionali vada applicata nelle singole ipotesi, scegliendo dal punto di vista spaziale, la legge più idonea a disciplinare quella fattispecie, ossia la legge vigente nello Stato ove il rapporto appaia meglio localizzato.
Il diritto internazionale privato:
Per stabilire quale sia l’ordinamento da applicare occorre in primo luogo procedere alla qualificazione del rapporto in questione, evidenziandone la natura. Fatto ciò, occorre che la norma di diritto internazionale privato precisi un elemento del rapporto per elevarlo a momento di collegamento, ossia al momento decisivo per l’individuazione dell’ordinamento competente a regolare il rapporto in oggetto.
L’art.31 delle preleggi disponeva che “in nessun caso le leggi e gli atti di uno Stato estero possono avere effetto nel territorio dello Stato, quando siano contrari all’ordine pubblico o al buon costume.
L’ordine pubblico in questione non è il c.d. ordine pubblico interno, bensì quello internazionale, che abbraccia solo i fondamentali principi cui l’ordinamento pubblico giuridico italiano è ispirato.
Per quanto riguarda la capacità giuridica delle persone fisiche si applica la legge nazionale della persona. Se questa ha più cittadinanze si applica la legge di quello tra gli Stati di appartenenza con il quale essa ha il collegamento più stretto. Se tra le cittadinanze vi è quella italiana, questa prevale.
La capacità d’agire delle persone fisiche è pure regolata dalla loro legge nazionale.
Gli enti, le società, le associazioni e le fondazioni sono disciplinati dalla legge dello Stato nel cui territorio è stato perfezionato il procedimento di costituzione. Tuttavia si applica la legge italiana se la sede dell’amministrazione è situata in Italia, ovvero se in Italia si trova l’oggetto principale di tali enti.
Per quanto riguarda il matrimonio si distingue tra:
Lo stato di figlio è determinato dalla legge nazionale del figlio al momento della nascita. Il riconoscimento di un figlio naturale è regolato dalla legge nazionale del figlio al momento della nascita o dalla legge nazionale del soggetto che fa il riconoscimento, nel momento in cui questo avviene.
L’adozione è regolata dal diritto nazionale dell’adottato o degli adottanti se comune o, in mancanza, del diritto dello stato nel quale gli adottanti sono entrambi residenti al momento dell’adozione.
La successione mortis causa è regolata dalla legge nazionale del soggetto della cui eredità si tratta al momento della morte.
Per i beni immobili immateriali si applica la legge dello Stato di utilizzazione.
Le obbligazioni contrattuali sono regolate dalla legge dello Stato con il quale il contratto presenta il collegamento più stretto.
La responsabilità per il fatto illecito è regolata dalla legge dello Stato in cui si è verificato l’evento.
Tra gli stranieri occorre distinguere i c.d. cittadini comunitari dai c.d. extracomunitari. Per i primi si applica l’art.8 del Trattato Istitutivo della CE che ha introdotto la “cittadinanza dell’Unione”, attribuita a chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro. Ai cittadini comunitari non solo va riconosciuto il godimento degli stessi diritti civili attribuiti al cittadino nazionale, ma spettano perfino alcuni limitati diritti politici, quali il voto delle elezioni comunali.
Per gli extracomunitari è applicabile sia il diritto d’asilo, sia l’inammissibilità della estradizione per reati politici. Inoltre allo straniero comunque presente alla frontiera o nel territorio dello Stato sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno. Pure all’extracomunitario è assicurato il godimento dei diritti in materia civile attribuiti al cittadino italiano a meno che le convenzioni internazionali in vigore per Italia dispongano diversamente. Nei casi in cui sia prevista la condizione di reciprocità, ossia la concessione di un diritto allo straniero a condizione che nella medesima fattispecie ad un italiano, nel paese di cui quello straniero è cittadino, quel diritto sarebbe parimenti riconosciuto, la ricorrenza di tale reciprocità deve essere accertata secondo criteri da statuirsi in un apposito regolamento di attuazione.
A tutti i lavoratori stranieri, infine, è garantita parità di trattamento e piena eguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori italiani.
PARTE GENERALE
SEZIONE PRIMA: L’ATTIVITA’ GIURIDICA
Capitolo 6: IL RAPPORTO GIURIDICO
Il rapporto giuridico è la relazione tra due soggetti, regolata dal diritto oggettivo. Soggetto attivo è colui a cui l’ordinamento giuridico attribuisce il potere (o diritto soggettivo) (per es. di pretendere il pagamento). Soggetto passivo è colui a carico del quale sta il dovere (per es. di pagare).
Quando si vuole alludere alle persone tra le quali intercorre un rapporto giuridico si usa l’espressione “parti”. Contrapposto al concetto di parte è quello di terzo. Terzo è chi non è parte o non è soggetto di un rapporto giuridico. Regola generale è che il rapporto giuridico non produce effetti né a favore, né a danno del terzo.
Con l’attribuzione del diritto soggettivo si realizza la più ampia protezione dell’interesse del singolo al quale, al tempo stesso si riconosce una situazione di libertà (di chiedere o non chiedere il risarcimento del danno secondo una mia personale valutazione di opportunità).
In alcuni casi il potere non è attribuito al singolo nell’interesse proprio, ma per realizzare un interesse altrui. Le figure di poteri che al tempo stesso sono doveri (poteri-doveri) si chiamano potestà. Mentre l’esercizio del diritto soggettivo è libero, in quanto il titolare può perseguire i fini che ritiene più opportuni, l’esercizio della potestà deve sempre ispirarsi al fine della cura dell’interesse altrui.
Le facoltà (o diritti facoltativi) sono, invece, manifestazioni del diritto soggettivo che non hanno carattere autonomo, ma sono in esso comprese. Le facoltà non si estinguono se non si estingue il diritto di cui fanno parte.
Può avvenire che l’acquisto di un diritto derivi dal concorso di più elementi successivi. Se di questi alcuni si siano verificati ed altri no, si ha la figura dell’aspettativa (si pensi per es. all’ipotesi di un’eredità lasciata a taluno a condizione che prenda la laurea. Egli non acquisterà il diritto all’eredità se non quando avrà preso la laurea: intanto si trova in una posizione di attesa che viene tutelata dall’ordinamento).
Quest’ipotesi del diritto soggettivo che si realizza attraverso stadi successivi viene anche considerata, oltre che dal lato del soggetto (aspettativa), sotto il punto di vista oggettivo della fattispecie. Si parla, infatti, di fattispecie a formazione progressiva, per dire che il risultato si realizza per gradi e l’aspettativa attribuita al singolo costituisce un effetto anticipato della fattispecie.
A volte alcuni diritti e doveri si ricollegano alla qualità di una persona, la quale deriva falla sua posizione in un gruppo sociale. Status è, pertanto, una qualità giuridica che si ricollega alla posizione dell’individuo in una collettività. Lo status può essere di diritto pubblico (es. stato di cittadino) o do diritto privato (es. stato di figlio).
Colui al quale l’ordinamento giuridico attribuisce il diritto soggettivo si chiama titolare del diritto medesimo.
L’esercizio del diritto soggettivo deve essere distinto dalla sua realizzazione, che consiste nella soddisfazione dell’interesse protetto, sebbene spesso i due fenomeni possono coincidere.
La realizzazione dell’interesse può essere spontanea o coattiva: quest’ultima si verifica quando occorre far ricorso ai mezzi che l’ordinamento predispone per la tutela del diritto soggettivo (il debitore non adempie; il creditore, per conseguire quanto gli è dovuto, fa espropriare i beni del debitore).
La prima distinzione dei diritti soggettivi è in diritti assoluti, che garantiscono al titolare un potere che egli può far valere verso tutti e diritti relativi, che gli assicurano un potere che egli può far valere solo nei confronti di una o più persone determinate.
Tipici diritti assoluti sono i diritti reali e cioè diritti su una cosa.
La categoria dei diritti relativi si riferisce in primo luogo ai diritti di credito (che vengono anche chiamati personali); quella dei diritti assoluti non comprende solo i diritti reali ma anche i c.d. diritti della personalità (diritto al nome, all’immagine,…).
Il rovescio, sia del diritto di credito che del diritto reale, è costituito dal dovere.
In taluni casi, l’osservanza di una disposizione interessa determinati individui non più genericamente quali cittadini, bensì specificamente come portatori di interessi coinvolti dall’azione pubblica: ad es. il candidato di un concorso. In questi casi al privato viene riconosciuto uno specifico potere di controllo della regolarità dell’azione pubblica ed un potere di impugnativa degli atti eventualmente viziati.
La situazione giuridica dei portatori di tali interessi qualificati viene definita come “interesse legittimo” (il candidato ad un concorso non ha diritto di vincerlo, ma ha un interesse legittimo al regolare svolgimento della gara e può quindi chiedere l’annullamento di tutti gli atti che siano illegittimi).
L’ordinamento stesso protegge provvisoriamente contro la violenza e il dolo altrui anche la situazione di fatto in cui il soggetto può trovarsi rispetto ad un bene ed attribuisce anche ad essa alcuni effetti.
Le situazioni di fatto possono essere altresì rilevanti in tema di società, di pre-uso di un marchio, di famiglia, di rapporti di lavoro, di mezzadria.
La figura del dovere generico di astensione incombe su tutti come rovescio della figura del diritto assoluto; alll’obbligo è tenuto il soggetto passivo di un rapporto obbligatorio, a cui fa riscontro nel soggetto attivo la pretesa, ossia il potere di esigere il comportamento; la soggezione invece, corrisponde al diritto potestativo. Da queste situazioni passive si deve distinguere la figura dell’onere. Quest’ultimo ricorre quando ad un soggetto è attribuito un potere, ma l’esercizio di tale potere è condizionato ad un adempimento (che però, essendo previsto nell’interesse dello stesso soggetto, non è obbligatorio e quindi non prevede sanzioni per l’ipotesi che resti inattuato).
Il rapporto giuridico si costituisce quando un soggetto attivo acquista il diritto soggettivo. L’acquisto può essere di due specie: a titolo derivativo quando il diritto si trasmette da una persona ad un’altra (fenomeno di successione); e a titolo originario quando il diritto soggettivo sorge a favore di una persona senza essere trasmesso da nessuno. Per es. il pescatore che fa propri i pesci caduti nella rete fa un acquisto a titolo originario; se invece compro un immobile da chi è proprietario compio un acquisto a titolo derivativo.
Titolo d’acquisto è l’atto che giustifica l’acquisto.
Con la successione, colui che per effetto di essa perde il diritto si chiama autore o dante causa; chi lo acquista si chiama successore o avente causa. E’ chiaro che la successione non si verifica nel caso di acquisto originario.
L’acquisto a titolo derivativo può essere di due specie: si può trasmettere proprio lo stesso diritto che aveva il precedente titolare (acquisto derivativo-traslativo) o può attribuirsi al nuovo titolare un diritto differente che, peraltro, scaturisce dal diritto del precedente titolare (acquisto derivativo-costitutivo o successione a titolo derivativo-costitutivo), in quanto lo suppone e ne assorbe il contenuto, o, in parte, lo limiti.
Nelle due forme dell’acquisto a titolo derivativo, il nuovo soggetto ha lo stesso diritto che aveva il precedente titolare. La successione è di due specie: a titolo universale, quando una persona subentra in tutti i rapporti di un’altra persona, e, cioè, sia nella posizione attiva, sia in quella passiva (es. nella fusione tra società); a titolo particolare, quando una persona subentra solo in un determinato diritto o rapporto (es. nel caso di morte di una persona).
La vicenda finale di un rapporto è la sua estinzione. Il rapporto si estingue quando il titolare perde il diritto senza che questo sia trasmesso ad altri. Non di tutti i diritti soggettivi è consentito al titolare disfarsi o trasferendoli ad altri o rinunziandovi. Oltre ai diritti disponibili ci sono i diritti indisponibili che sono in genere i rapporti che servono a soddisfare un interesse superiore: tali le potestà e i diritti familiari.
Capitolo 7: IL SOGGETTO DEL RAPPORTO GIURIDICO
La capacità giuridica è l’idoneità a diventare titolare di diritti e doveri. Per le persone fisiche si acquista al momento della nascita (art.1.1 c.c.), del distacco, cioè, del bimbo dal seno materno, purchè vivo, anche se segue immediatamente la morte, o se il bimbo nasca “non vitale” , destinato cioè a morte sicura a breve, o ancora il nato presenti gravi anomalie. Non è invece considerato “soggetto” il concepito.
Per l’art.462.2 c.c. si presume concepito al tempo dell’apertura della successione che è nato entro 300 gg. dalla morte della persona della cui successione di tratta. Il comma 3 afferma che possono inoltre ricevere per testamento i figli di una determinata persona vivente al tempo della morta del testatore, benchè non ancora concepiti. Accanto alla capacità di succedere, ai nascituri non concepiti, il legislatore accorda pure una capacità di ricevere per donazione (art.784 c.c.) sempre che sia fatta sempre in favore di figli di una determinata vivente al tempo della donazione e in favore di tutti i figli di questa.
A norma dell’art.22 Cost., nessuno può essere privato della capacità giuridica.
L’art.3 Cost. afferma che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge e senza distinzioni di sesso, di razza, lingua, religione, opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
Sono tuttora individuabili figure di limitazione della capacità giuridica, come nel caso dello straniero che è ammesso a godere dei diritti civili a condizione di reciprocità, cioè nei limiti in cui lo Stato di appartenenza dello straniero riconoscerebbe gli stessi diritti ad un cittadino italiano.
La capacità di agire è l’idoneità a compiere validamente atti giuridici che consentano al soggetto di acquisire ed esercitare diritti o assumere ed adempiere obblighi. Se la persona fisica è incapace d’agire occorre che altri provvedano per lui alla cura dei suoi interessi (tutore). Ricorre in tal caso il fenomeno della rappresentanza legale.
Anche la persona giuridica è sempre, in un certo senso incapace di agire, e può compiere atti giuridici esclusivamente tramite i propri amministratori o rappresentanti (la c.d. rappresentanza organica).
Peraltro gli atti personalissimi, non possono essere compiuti tramite rappresentanti (es. testamento, matrimonio).
Con la legge 8 marzo 1975 la maggiore età è fissata al compimento del 18° anno. Con essa si acquista la capacità di compiere tutti gli atti per i quali non si è richiesta un’età diversa (sup. inf.).
Gli atti posti in essere da un minorenne sono, di regola, annullabili, a meno che il minore abbia, non soltanto dichiarato, falsamente, di essere maggiorenne, ma addirittura abbia con raggiri occultato la sua minore età (art.1426 c.c.). L’atto annullabile può essere impugnato dal rappresentante legale del minore o dallo stesso minorenne quando sia divenuto maggiorenne. Non può mai, viceversa, essere impugnato dalla controparte maggiorenne (si parla perciò di negozi claudicanti).
Manca nell’ordinamento un’organica disciplina che conceda tutela alle persone handicappate, disabili, psicolabilli.
Le ipotesi di trattamento sanitario obbligatorio sono limitate e possono effettuarsi solo in casi di urgenza e con carattere di eccezionalità: la degenza deve essere disposta dal sindaco e convalidata dal giudice tutelare il quale adotta i provvedimenti per la conservazione e l’amministrazione del patrimonio dell’infermo.
Se un maggiorenne si trova “in condizioni di abituale infermità di mente” tale da renderlo incapace di provvedere ai propri interessi possono richiederne la interdizione (art.414 c.c.) qualora lo ritengano necessario, il coniuge o i parenti entro il 4° grado, o gli affini entro il 2° grado, o il tutore o il curatore, ovvero il Pubblico Ministero (art.417 c.c.). Gli atti compiuti dall’interdetto, dopo la sentenza di interdizione possono essere annullati. L’incapacità decorre dalla pubblicazione della sentenza che il giudice pronuncia solo previo interrogatorio della persona sottoposta a procedimento d’interdizione e dopo aver atteso all’istruttoria (consulenza medica, interrogatorio dei parenti).
L’interdizione giudiziale è l’effetto di un provvedimento del giudice che accerta lo stato di inidoneità della persona a curare i propri interessi.
Il codice penale, oltre all’incapacità d’agire del minore e quella dell’interdetto giudiziale, prevede un altro caso di incapacità d’agire, come pena accessoria di una condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a 5 anni: per indicare questa ipotesi si parla di interdizione legale. Il condannato è in stato di interdizione legale fino a quando dura la pena. All’interdetto legale si applicano, per la disponibilità e l’amministrazione dei suoi beni, le norme dettate per l’interdetto giudiziale.
E’ incapace naturale la persona che sebbene legalmente capace, sia tuttavia incapace di intendere o di volere (art.428 c.c.). In tale situazione può trovarsi l’infermo di mente, il malato grave, l’anziano, il drogato, l’ubriaco.
Come si vede l’incapacità naturale può consistere sia in una condizione permanente di incapacità, sia in una situazione transitoria: ciò che conta, affinchè l’incapacità naturale assuma rilevanza, è il momento in cui un atto giuridico sia stato posto in essere.
L’impugnabilità consegue automaticamente alla sola incapacità naturale per alcuni atti più gravi (matrimonio, testamento, donazione). L’art.428 distingue due ipotesi:
La minore età e l’interdizione sono incapacità legali assolute: in quanto non consentono al soggetto di compiere validamente alcun atto giuridico. Ma il minore può essere talvolta emancipato o l’infermità non essere così grave da farsi luogo all’interdizione. In queste ipotesi si ha la c.d. incapacità relativa o parziale: il soggetto non può compiere da solo gli atti che possano incidere sul suo patrimonio, ma può compiere validamente atti di ordinaria amministrazione (art.394,424 c.c.).
Atti di ordinaria amministrazione sono quelli che riguardano la conservazione del bene e il consumo del reddito che il bene dà.
Incapaci relativi o parziali sono il minore emancipato e l’inabilitato. L’emancipazione può essere quindi conseguita soltanto dal minore che venga ammesso dal tribunale a contrarre matrimonio prima del compimento del 18° anno (art.84 c.c.). In tal caso con il matrimonio il minore risulta emancipato di diritto, ossia senza bisogno di altri provvedimenti (art.390 c.c.).
L’inabilitazione può essere pronunciata dal giudice nei confronti dell’infermo di mente lo stato del quale non sia talmente grave da far luogo all’interdizione (art.415 c.c.).
Sono anche causa di inabilitazione: l’abuso abituale di bevande alcoliche o di stupefacenti, il sordomutismo o la cecità dalla nascita o dalla prima infanzia.
La revoca dell’inabilitazione è disposta quando cessa la causa che via ha dato luogo. Legittimati a chiedere la revoca sono gli stessi soggetti che possono promuovere il procedimento di inabilitazione.
Ogni soggetto legalmente incapace di agire deve avere un rappresentante legale che sia in condizione di curare i suoi interessi e compiere ogni atto giuridico opportuno in sostituzione dell’incapace.
Per i minorenni, la rappresentanza legale spetta ai genitori (art.320 c.c.). Se entrambi i genitori sono morti o per altra causa non possono esercitare la patria potestà deve essere nominato un tutore (art.343 c.c.): la nomina spetta al giudice tutelare che deve scegliere “persona idonea all’ufficio, di ineccepibile condotta, la quale di affidamento di educare e istituire il minore conformemente a quanto è prescritto nell’art.320 c.c. .
Sia i genitore che il tutore non possono compiere atti di straordinaria amministrazione dei beni del minore senza autorizzazione del giudice tutelare (artt.320, 372, 374, 375 c.c.).
All’interdetto può essere nominato pure un tutore provvisorio se, dopo l’esame dell’interdicendo, il giudice si convinca che ciò sia opportuno (art.419.3 c.c.).
All’incapacità relativa o parziale si ovvia, per gli atti di straordinaria amministrazione, facendo ricorso all’assistenza che è affidata al curatore. Questi non si sostituisce, come accade nella rappresentanza legale, all’emancipato o all’inabilitato, che esprimono anch’essi la loro volontà, ma integra la dichiarazione di volontà dell’uno o dell’altro. Purchè l’atto sia valido il curatore deve dare il suo assenso. Il curatore è nominato dal giudice tutelare (artt.392, 424 c.c.).
Per taluni atti più gravi, che possono depauperare il patrimonio dell’incapace occorre l’autorizzazione da parte di un organo pubblico, il quale deve controllare se l’atto corrisponda agli interessi del minore. L’autorizzazione si chiede con ricorso al giudice competente che provvede in camera di consiglio con decreto motivato.
La legittimazione è l’idoneità giuridica dell’agente ad essere soggetto del rapporto che si costituisce con il compimento dell’atto. Legittimato è chi ha il potere di disposizione rispetto ad un determinato diritto, o, chi è qualificato o ha veste per esercitarlo.
In relazione alle persone fisiche abbiamo: il domicilio (luogo in cui una persona ha stabilito la sede principale dei suoi affari, anche morali e familiari), la residenza (luogo in cui la persona ha la dimora abituale) e la dimora (luogo in cui la persona attualmente si trova). Art.43 c.c. .
L’interdetto ha domicilio del tutore e il minore quello del luogo di residenza della famiglia o del tutore. Se i genitori non hanno la stessa residenza, il minore ha il domicilio del genitore con il quale convive (art.45 c.c.).
Inoltre, per determinati affari si può stabilire un luogo diverso (domicilio speciale) da quello in cui è la sede principale dei propri affari (domicilio generale). Mentre unico è il domicilio generale, si possono avere più domicili speciali.
La cittadinanza è la situazione di appartenenza di un individuo ad un determinato Stato.
La cittadinanza italiana si acquista:
Con la nuova disciplina si è ammessa la possibilità che un cittadino abbia anche contemporaneamente un’altra cittadinanza e si è ammessa la possibilità di riacquistare la cittadinanza anche avendola in precedenza perduta.
47 La posizione della persona della famiglia
Il rapporto che lega le varie persone appartenenti alla stessa famiglia dà luogo ad una serie di diritti e doveri ( status familiae). La parentela è il vincolo che unisce le persone che discendono dalla stessa persona e quindi dallo stesso stipite (art.74 c.c.). Ai fini della determinazione dell’intensità del vincolo occorre considerare le linee e i gradi: la linea retta unisce le persone di cui l’una discende dall’altra (nonno-nipote, padre-figlio); la linea collaterale quella che, pur avendo uno stipite comune non discendono l’una dall’altra (art.75 c.c. es. fratelli, zio-nipote). I gradi si contano calcolando le persone e togliendo lo stipite. Così tra padre e figlio vi è parentela di primo grado; tra fratelli, di secondo grado (figlio, padre, figlio=3; 3-1=2;); tra nonno e nipote vi è parentela di secondo grado (nonno, padre, figlio=3, 3-1=2); tra cugini vi è parentela di 4°grado …..
Di regola, la legge riconosce effetti alla parentela solo fino al 6° grado (art.77 c.c.).
L’affinità è il vincolo che unisce un coniuge e i parenti dell’altro coniuge (art.78 c.c.). Per stabilire il grado di affinità si tiene conto del grado di parentela con cui l’affine è legato al coniuge; così suocera e nuora sono affini in primo grado; i cognati sono affini di secondo grado. Di regola la morte di uno dei coniugi, anche se non vi sia prole, non estingue l’affinità. Questa cessa, invece, se il matrimonio è stato dichiarato nullo.
Tra coniugi non v’è né rapporto di parentela né di affinità ma di coniugio.
La personalità giuridica dell’individuo si estingue con la morte. Si tende a considerare decisiva la morte cerebrale, consistente nell’irreversibile cessazione di ogni attività del sistema nervoso centrale. L’accertamento del momento della morte è importante ai fini della disciplina dei trapianti.
Nel nostro ordinamento, il tentativo di suicidio non è sanzionabile mentre è punita la istigazione al suicidio.
Se due persone muoiono nello stesso sinistro, può avere talora rilevanza stabilire quale delle sue sia morta prima.
Persona scomparsa è quella rispetto alla quale concorrono questi due elementi: l’allontanamento dal luogo del suo ultimo domicilio o residenza; la mancanza di notizie. Accertati questi requisiti, il tribunale dell’ultimo domicilio o residenza può nominare un curatore il quale rappresenterà lo scomparsi negli atti che siano necessari per la conservazione del suo patrimonio (curatore dello scomparso art.48 c.c.).
L’assenza è la situazione che si verifica quando la scomparsa della persona si protrae per più tempo. Essa è dichiarata con sentenza, trascorsi due anni dal giorno a cui risale l’ultima notizia della persona (art.49 c.c.). Il tribunale ordina l’apertura dei testamenti, se vi sono, e i presunti eredi, legittimi o testamentari, sono immessi nel possesso temporaneo dei beni (art.50 c.c.).
La dichiarazione di assenza non scioglie però il matrimonio dell’assente.
La dichiarazione di morte presunta viene pronunciata con sentenza del tribunale quando la scomparsa si protrae per un periodo di tempo maggiore o si riconnette ad avvenimenti (guerra, infortuni) che fanno apparire probabile la morte, produce effetti analoghi a quelli prodotti dalla morte: gli aventi diritto possono disporre liberamente dei beni (art.63 c.c.); il coniuge può contrarre nuovo matrimonio (art.65 c.c.). Essa tuttavia da luogo solo ad una presunzione di morte, quindi, se la persona ritorna e se ne prova l’esistenza, recupera i beni nello stato in cui si trovano ed ha diritto di conseguire il prezzo di quelli alienati (art.66 c.c.), il nuovo matrimonio contratto dal suo coniuge è invalido (art.68 e 117.5 c.c.). Tuttavia, l’annullamento non pregiudica i figli, i quali restano legittimi. Si applicano i principi che l’art.128 c.c. stabilisce per il matrimonio putativo. Per la dichiarazione di morte presunta occorre che siano trascorsi 10 anni dal giorno a cui risale l’ultima notizia dell’assente (art.58 c.c.); termini minori sono richiesti dall’art.60 c.c. nell’ipotesi di scomparsa in operazioni belliche, prigionia di guerra, infortuni.
Le vicende più importanti della persona fisica sono documentate in appositi registri (registri dello stato civile), tenuti nell’ufficio di ogni comune.
I registri sono 4:
Essi sono pubblici (art.450 c.c.): chiunque può chiedere estratti e certificati.
I registri dello stato civile adempiono, pertanto, anche alla funzione di pubblicità-notizia delle vicende principali della persona fisica.
Persone giuridiche dovrebbero essere soltanto gli enti specificamente individuati e registrati (art.33 e 2200 c.c.).
Si costituiscono inoltre, enti “di fatto”, ciascuno privo di riconoscimento come persona giuridica, ma comunque attivi come centri ai quali è delegata la cura di interessi settoriali di gruppi più o meno numerosi di individui (campo sociale, culturale, sportivo…).
Gli enti si distinguono in base ai diversi criteri di classificazione:
Le figure più importanti di enti sono: le società, le associazioni, le fondazioni, le organizzazioni di volontariato.
Elemento caratteristico fondamentale della persona giuridica è la c.d. autonomia patrimoniale: vale a dire che il patrimonio dell’ente si distingue nettamente da quello degli associati, degli amministratori, di qualunque altro soggetto.
Gli elementi costitutivi della persona giuridica sono, per le associazioni, una pluralità di persone e lo scopo comune; per le fondazioni, il patrimonio e lo scopo. Ma non basta che questi elementi sussistano perché la personalità giuridica sia attribuita. Perché nasca, occorre il riconoscimento dello Stato, concesso con decreto del Presidente della Repubblica (art.12 c.c.). La facoltà di riconoscimento può anche essere delegata dal Governo ai prefetti per determinati categorie di enti che esercitano la loro attività nell’ambito della provincia. Il riconoscimento può, peraltro, anche essere conferito genericamente dalla legge (riconoscimento generico).
Il riconoscimento è, di regola, preceduto da atti mediante i quali uno o più persone manifestano la volontà di dar vita ad una persona giuridica. Questo atto si chiama atto costitutivo.
La vita e l’attività della persona giuridica sono regolate da un atto che si chiama statuto. Esso può essere anche incorporato nell’atto costitutivo o nel negozio di fondazione.
La persona giuridica non può unirsi in matrimonio, avere figli, essere titolari di rapporti di natura familiare, …, peraltro, essa può essere titolare di alcuni diritti personalissimi (diritto al nome, all0integrità morale ….). Le persone giuridiche non sono, per loro natura, in condizione di formare una loro volontà e di esprimerla. Esse si servono di persone fisiche, le quali si chiamano organi. La persona giuridica, dunque, agisce attraverso i suoi amministratori, i quali ne hanno in primo luogo la gestione e inoltre hanno il potere di rappresentare l’ente di fronte ai terzi.
La cittadinanza è un concetto riferibile alle persone fisiche, rispetto alle persone giuridiche, per designare l’appartenenza a questo o a quello Stato, si usa il termine nazionalità. La nazionalità è determinata dallo Stato che ha proceduto al riconoscimento. Alle persone giuridiche non si applicano i concetti di dimora e di residenza; essi sono sostituiti da quello di sede, che è il luogo in cui la persona giuridica svolge la sua principale attività. La sede deve risultare dall’atto costitutivo (art.16 c.c.); deve essere indicato nel registro delle persone giuridiche (art.33 c.c. sede legale). Se, questa sede è diversa da quella effettiva, i terzi hanno facoltà di attribuire prevalenza a quest’ultima.
Le persone giuridiche non sono soggette alla morte, ma la loro estinzione ha luogo per cause previste nell’atto costitutivo o nello statuto. Inoltre, l’estinzione si produce per il venire meno dell’elemento fondamentale per l’esistenza della persona giuridica: lo scopo. Ciò ha luogo quando lo scopo è stato raggiunto e ne è diventata impossibile la realizzazione.
Nelle associazioni l’estinzione di verifica anche per lo scioglimento disposto dall’assemblea o dal governo, oppure quando tutti gli associati sono venuti a mancare. Non è sufficiente, invece, la perdita dei beni, perché il patrimonio si può ricostituire con lasciti, donazioni …
L’estinzione non ha luogo automaticamente, ma è necessario un provvedimento di carattere pubblico: la dichiarazione dell’autorità governativa su istanza di qualunque interessato o di ufficio. Ma neppure questo provvedimento vale a segnare la fine della persona giuridica: esso serve solo a determinare il passaggio alla fase della liquidazione. Durante questa fase la personalità dell’ente continua a sussistere, ma con la limitazione che possono essere compiuti solo gli atti necessari per la finalità della liquidazione. Ricevuta infatti la comunicazione del provvedimento di estinzione, gli amministratori non possono compiere nuove operazioni. I beni residuati dalla liquidazione sono devoluti secondo le disposizioni dell’atto costitutivo o dello statuto, in mancanza di queste provvede l’autorità governativa.
Le vicende fondamentali relative alle persone giuridiche sono indicate in un registro istituito in ogni provincia (art.33 c.c.). Per spingere gli amministratori o i liquidatori ad effettuare le richieste di iscrizione nei casi e nei termini previsti dalla legge sono stabilite sanzioni penali (art.35 c.c.): per di più se omettono di chiedere la registrazione di una persona giuridica riconosciuta, rispondono in proprio, personalmente e solidalmente, insieme con la persona giuridica, delle obbligazioni da questa assunta (art.33.4 c.c.).
Scopo di queste registrazioni è di porre i terzi, che concludono atti con le persone giuridiche, in grado di conoscere se esse abbiano ricevuto il riconoscimento, quale sia il patrimonio su cui possano contare (pubblicità dichiarativa).
L’omissione della pubblicità non importa la nullità o l’inefficacia dell’atto, ma in plica solo che l’atto stesso non può essere opposto al terzo, a meno che non si provi che egli ne era ugualmente a conoscenza (art.34 c.c.).
Le associazioni non riconosciute sono quelle che non hanno chiesto il riconoscimento o, seppure l’hanno chiesto, questo è stato negato o non è stato ancora concesso (partiti politici, sindacati, circoli di cultura, ass. sportive …).
Naturalmente si presuppone che lo scopo a cui l’attività di queste organizzazioni è rivolta sia lecito, altrimenti si costituirebbe reato. Anzitutto, viene riconosciuta efficacia agli accordi intervenuti tra gli associati per quanto attiene all’ordinamento interno, cioè, ai rapporti degli associati tra loro e all’amministrazione dei beni (art.36 c.c.).
I contributi degli associati ed i beni acquistati con essi costituiscono il fondo comune dell’associazione (art.37 c.c.). Questo fondo comune è destinato a soddisfare i creditori dell’associazione. Vi è anche qui un’autonomia patrimoniale imperfetta. L’autonomia sussiste perché i creditori non possono far valere i propri diritti sul patrimonio dei singoli associati, ma sul fondo comune (art.38 c.c.). L’autonomia è imperfetta in quanto per le obbligazioni dell’associazione rispondono anche, personalmente e solidalmente, non tutti gli associati ma le persone che hanno agito in nome e per conto dell’associazione (art.38 c.c.). Alle associazioni non riconosciute è attribuita la capacità processuale: esse possono stare in giudizio nella persona di coloro ai quali, secondo gli accordi degli associati, è conferita la presidenza o la direzione dell’associazione (art.36.2 c.c.).
L’associazione non riconosciuta non può, in quanto tale, ricevere donazioni (art.786 c.c.), ne lasciti testamentari (art.600 c.c.). Per conseguire la donazione o il lascito eventualmente disposto a suo favore, l’ente non riconosciuto deve richiedere entro l’anno il riconoscimento della personalità giuridica.
Comitato è il gruppo delle persone che si propongono di raccogliere i fondi. Esso di può costituire senza formalità, anche verbalmente. Il comitato mira alla formazione di un patrimonio destinato ad uno scopo. I fondi si costituiscono con le offerte dei singoli che, di regola, avendo per oggetto beni mobili di modico valore, devono considerarsi donazioni manuali (art.783 c.c.).
Gli organizzatori, e coloro che assumono la gestione dei fondi raccolti, sono responsabili, sia verso gli oblatori sia verso i destinatari delle offerte, personalmente e solidalmente della conservazione dei fondi e della loro destinazione allo scopo (art.40 c.c.). Accanto a questa responsabilità civile può sussistere, ove ne ricorrano gli estremi, la responsabilità penale (appropriazione indebita).
Se sono state assunte obbligazioni verso terzi, di queste rispondono personalmente e solidalmente i componenti del comitato. I sottoscrittori sono tenuti solo ad effettuare le oblazioni promesse (art.41 c.c.).
Anche al comitato è stata riconosciuta la capacità processuale: essa può stare in giudizio nella persona del presidente (art.41 c.c.).
Se i fondi raccolti sono insufficienti o lo scopo non si può attuare o, raggiunto lo scopo, vi è un residuo di fondi, sulla devoluzione dei beni provvede l’autorità governativa.
L’art.810 c.c. precisa che sono beni solo le cose che possono formare oggetto di diritti, cioè quelle suscettibili di appropriazione e di utilizzo e che, perciò, possono avere un valore. Quindi il bene è oggetto diretto dei soli diritti reali. Può essere oggetto mediato dei diritti di credito, peraltro nelle sole obbligazioni di dare.
I beni oggetto dei diritti reali si caratterizzano per la loro materialità, oltre che per la loro suscettibilità di valutazione economica. Tra i beni mobili ritroviamo pure le energie naturali (energia elettrica) purchè anch’esse abbiano valore economico (art.814 c.c.).
Tra i beni immateriali vanno considerati gli stessi diritti quando possono formare oggetto di negoziazione.
Le opere di ingegno (poesia, brani musicali, quadro, …) sono considerate beni immateriali solo quando l’opera arrivi a formare oggetto di scambio o di sfruttamento, altrimenti all’autore spetta solo un diritto morale a riconoscimento della paternità.
Sono considerati beni anche marchi e invenzioni tutelati da brevetti.
Immobile è il suolo e tutto ciò che naturalmente a artificialmente è incorporato ad esso (art.812.1 c.c.). L’art.812.2 c.c. considera immobili anche alcuni beni che non sono incorporati al suolo: i mulini, i bagni e gli edifici galleggianti, uniti saldamente per destinazione permanente alla riva.
Tutti gli altri beni sono mobili (art.812.3 c.c.).
Gli atti di trasferimento dei beni immobili e le loro vicende giuridiche devono essere annotate in pubblici registri, in guisa da porre i terzi in condizione di conoscerli (art.2643 c.c. pubblicità immobiliare). Questo regime di pubblicità si è potuto istituire anche per alcuni beni mobili, detti mobili registrati (nave, aereo, auto).
Sono valori mobiliari le azioni ed obbligazioni emesse da società di capitali, titoli di stato, quote di fondi comuni di investimento e altri titoli negoziati sul mercato dei capitali e sul mercato monetario, contratti futures, swaps …
Qualsiasi sollecitazione all’investimento rivolta al pubblico per l’acquisto di strumenti finanziari, deve essere preventivamente comunicata alla Consob, allegando un apposito prospetto destinato alla pubblicazione e contenente ogni informazione utile per consentire ad ogni interessato una adeguata valutazione dell’investimento oggetto della sollecitazione.
Fungibile è il bene che può essere sostituito indifferentemente con un altro, in quanto non interessa avere proprio quel bene, ma una data quantità di beni di quel genere. Per adempiere l’obbligazione di dare una quantità di beni fungibile e renderne proprietaria un’altra persona è necessaria la separazione, la quale consiste nella numerazione, nella pesatura o nella misura della parte dovuta (art.1378 c.c.).
Consumabili sono quei beni che non possono prestare utilità all’uomo senza perdere la loro individualità o senza che il soggetto se ne privi (es. danaro). Gli altri beni (es. i vestiti) sono inconsumabili , ancorchè si deteriorano con l’uso. I beni consumabili, siccome capaci di una sola utilizzazione, sono anche detti beni di utilità semplice;i beni inconsumabili, in quanto suscettibili di una serie di utilizzazioni, sono invece detti beni di utilità permanente
Divisibili sono le cose suscettibili di essere ridotte in parti omogenee senza che se ne alteri la destinazione economica (es. un fondo, un edificio, un animale morto); è indivisibile, invece, un animale vivo, un appartamento.
L’indivisibilità può dipendere pure dalla volontà delle parti, che possono considerare non suscettibile di divisione anche un bene che, secondo il comune modo di vedere, è ritenuto divisibile.
Presenti sono i beni già presenti in natura; solo questi possono formare oggetto di proprietà o di diritti reali. Possono, peraltro, formare oggetto di rapporti obbligatori (art.1348 c.c.), salvo i casi in cui ciò non sia vietato dalla legge.
La ragione per cui non è concepibile un rapporto di natura reale su un bene futuro è ovvia: non si può esercitare un potere immediato su una cosa che non esiste. Comunque può darsi che chi acquista un bene futuro non voglia assumere nessun rischio: è perciò stabilito che, se esso non viene ad esistenza, il contratto non produce effetto e nessun corrispettivo è dovuto dall’altra parte. Del tutto diversa è, invece, l’ipotesi in cui le parti si affidano alla sorte (e perciò il contratto è detto aleatorio): comprano ciò che si ricaverà dal getto della rete, e quindi lo stesso prezzo sarà dovuto sia nel caso che la rete esca dal mare piena di pesci sia in quello in cui risulti vuota.
I frutti si distinguono in: frutti naturali e frutti civili.
I frutti naturali provengono direttamente da altro bene, con o senza l’opera dell’uomo, come i prodotti agricoli, i prodotti delle miniere (art.820.1 c.c.). perché si possa parlare di frutti, occorre che la produzione abbia carattere periodico e non incida sulla sostanza e sulla destinazione economica della cosa madre.
Finchè non avviene la separazione dal bene che li produce i frutti naturali si dicono pendenti: essi formano parte della cosa madre, non hanno ancora esistenza autonoma. Si può tuttavia disporre di essi come di cosa mobile futura (art.820.2 c.c.). chi li vende non trasferisce al compratore il diritto di proprietà su di essi, ma si obbliga a trasferirlo allorchè verranno ad esistenza. L’acquirente potrà chiedere che sia effettuata la separazione; solo quando questa si sarà verificata, acquisterà il diritto di proprietà sui frutti. Se la cosa madre forma oggetto di procedimento di espropriazione forzata da parte del creditore che vuol soddisfarsi del proprio credito, il pignoramento che cade sulla cosa madre colpisce anche i frutti pendenti, appunto perché essi non hanno ancora esistenza autonoma (art.2912 c.c.).
Frutti civili sono i redditi che si conseguono da un bene, come corrispettivo del godimento che ne venga concesso ad altri. Tali sono gli interessi di capitali, i dividendi azionari, le rendite vitalizie, il corrispettivo delle locazioni.
I frutti civili devono avere il requisito della periodicità. Essi si acquistano giorno per giorno in ragione alla durata del diritto: così ad es. se viene venduta la cosa locata, il canone in corso di maturazione va diviso tra alienante ed acquirente in proporzione della durata dei rispettivi diritti.
Cosa semplice è quella i cui elementi sono talmente compenetrati tra di loro che non possono staccarsi senza distruggere o alterare la fisionomia del tutto (es. un animale, un minerale, un fiore).
Cosa composta è, invece, quella risultante dalla connessione, materiale o fisica, di più cose, ciascuna delle quali potrebbe essere staccata dal tutto ed avere autonoma rilevanza giuridica ed economica (es. la cosa è fatta di mattoni, di un’armatura di ferro…).
Se una cosa è posta a servizio o ad ornamento di un’altra, senza costituirne parte integrante e senza rappresentare elemento indispensabile per la sua esistenza, ma in guisa da accrescerne l’utilità o il pregio, si ha la figura della pertinenza (art.817 c.c.). Per la costituzione del rapporto di pertinenza occorrono sia l’elemento oggettivo (ornamento tra cosa e cosa) sia l’elemento soggettivo (volontà di effettuare la destinazione dell’una cosa a servizio od ornamento dell’altra).
Esempi di pertinenza d’immobile ad immobile: il box è destinato al servizio di una casa d’abitazione; un pozzo per l’irrigazione di un fondo.
Esempi di pertinenza di mobile ad immobile: la cucina a gas e lo scaldabagno.
Esempi di pertinenza di mobile a mobile: le scialuppe di una nave.
La destinazione di una cosa al servizio o all’ornamento dell’altra fa sì che l’una cosa abbia carattere accessorio rispetto all’altra, che assume posizione principale. Se manca il vincolo di accessorietà, non vi è figura della pertinenza.
Il vincolo che sussiste tra due cose dev’essere durevole, ossia non occasionale, e dev’essere posto in essere da chi è proprietario della cosa principale ovvero ha diritto reale su di essa (art.817 c.c.).
Le pertinenze seguono, di regola, lo stesso destino della cosa principale, a meno che non sia diversamente disposto (art.818 c.c.).
La legge tutela la buona fede dei terzi in riferimento a:
L’art.816 c.c. definisce universalità di mobili la pluralità di cose che appartengono alla stessa persona e hanno una destinazione unitaria (es. i libri di una biblioteca).
L’universalità di mobili si distingue dalla cosa composta perché non vi è coesione fisica tra le varie cose; si distingue dal complesso pertinenziale in quanto le cose non si trovano l’una rispetto all’altra in rapporto di subordinazione: l’una non è posta a servizio o a ornamento dell’altra, ma tutte insieme costituiscono una entità nuova dal punto di vista economico-sociale: la biblioteca, il gregge.
I beni che formano l’universalità possono essere considerati a volte separatamente (art.816.2 c.c.) a volte come un tutt’uno. Ciò dipende dalla volontà delle parti ed assumere particolare importanza nell’usufrutto.
Il principio “possesso vale titolo” non si applica all’universalità di mobili (art.1156 c.c.).
Inoltre, il possesso di un’universalità di mobili può essere tutelato con l’azione di manutenzione (art.1170 c.c.), che non è concessa, invece, per i beni mobili.
Un’azienda è costituita da un insieme di beni vari, tutti organizzati, ossia collegati tra loro da un nesso di dipendenza reciproca, in guisa da servire al fine produttivo comune: danaro, crediti, bottega, merci.
Tra gli elementi che formano l’azienda ha particolare importanza l’avviamento che si può definire come la capacità di profitto dell’azienda. Secondo la cassazione, l’avviamento è una qualità dell’azienda, che può anche mancare come accade nel caso di un’azienda di nuova costituzione, o di azienda già in esercizio che abbia cessato temporaneamente di funzionare.
Per quanto riguarda l’impresa, il c.c. non dà la definizione, ma dà quella dell’imprenditore, che, secondo l’art.2082 c.c., è chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi (es. agricoltore, assicuratore…).
L’impresa, dunque, è l’attività economica svolta dall’imprenditore; l’azienda è, invece, il complesso dei beni di cui l'imprenditore si avvale per svolgere l’attività stessa.
Si chiama patrimonio il complesso dei rapporti attivi e passivi suscettibili di valutazione economica facenti capo ad una persona.
Diverso è il patrimonio autonomo che è quello che viene attribuito ad un nuovo soggetto mediante la creazione di una persona giuridica.
Di beni pubblici si parla in due sensi: a) beni appartenenti ad un ente pubblico (beni pubblici in senso soggettivo; b) beni assoggettati ad un regime speciale, diverso dalla proprietà privata, per favorire il raggiungimento dei fini pubblici cui quei cespiti sono destinati (beni pubblici in senso oggettivo).
Sotto questo secondo profilo sono pubblici i beni demaniali, che possono appartenere solo ad enti pubblici territoriali. E così vi appartengono:
Queste due categorie costituiscono il demanio naturale necessario, cioè beni che non possono non appartenere allo Stato;
I beni demaniali sono inalienabili (art.823 c.c.); non possono formare oggetto di possesso (art.1145 c.c.) e non possono essere acquistati per usucapione da privati. Essi sono disciplinati dal diritto pubblico.
I beni non demaniali appartenenti ad un ente pubblico si chiamano beni patrimoniali. Si distinguono in due categorie: a) beni indisponibili (foreste, miniere, edifici destinati a sedi di uffici pubblici …), che non possono essere sottratti alle loro destinazioni; b) beni disponibili, che non sono destinati direttamente ed immediatamente a pubblici servizi e sono soggetti, salvo leggi speciali, alle norme del c.c. .
Le chiese possono appartenere anche a privati e sono soggette alla disciplina del diritto privato, possono essere quindi alienate, usucapite…, ma finchè non siano sconsacrate secondo le regole del diritto canonico, non possono essere sottratte alla loro destinazione e al culto (art.831.2 c.c.).
Capitolo 10: IL FATTO GIURIDICO
Per fatto giuridico s’intende qualsiasi avvenimento che produca effetti giuridici. Si distinguono fatti materiali o bruti(quando si verifica un mutamento della situazione preesistente nel mondo esterno, percepibile dall’uomo con i sensi) e fatti in senso ampio, comprensivi sia di omissioni che di c.d. fatti interni o psicologici.
Si parla di fatti giuridici in senso stretto o naturali quando le conseguenze giuridiche sono ricollegate ad un evento senza che assuma rilievo se a causarlo sia intervenuto o meno l’uomo( morte per cause naturali di una persona, un’inondazione che può provocare perdite di proprietà).
Si parla invece di atti giuridici, se l’evento causativo di conseguenza giuridica postula un intervento umano ( i reati, i contratti, le sentenze).
La giuridicità di un fatto, non dipende mai da caratteristiche intrinseche di quell’avvenimento, bensì soltanto dalla circostanza estrinseca che a quell’evento sia ricollegabile, in forza di una norma giuridica che lo disponga, un effetto giuridico.
Il termine fattispecie deriva dal latino species facti .
Si parla di fattispecie astratta e di fattispecie concreta. Per fattispecie “astratta” s’intende un complesso di fatti non realmente accaduti, ma descritti ipoteticamente in una norma ad indicare quanto deve verificarsi affinché si produca una data conseguenza giuridica.
La struttura della norma giuridica è articolata nella previsione di una fattispecie astratta, un’ipotesi d’evento, al verificarsi del quale la legge ricollega determinati effetti giuridici.
Per fattispecie “concreta” invece, s’intende non più un modello configurato ipoteticamente, ma un complesso di fatti realmente verificatisi, e rispetto ai quali occorre accertare se e quali effetti giuridici ne siano derivati.
Mentre l’individuazione della fattispecie astratta si risolve in una pura operazione intellettuale, l’indagine sulla fattispecie concreta consiste nell’accertamento del fatto storico, quale realmente verificatosi, da porre poi a confronto con l’ipotesi astratta prevista dalla legge.
La fattispecie può constare di un solo fatto (morte di una persona) e si chiama allora fattispecie semplice. Se invece la fattispecie è costituita da una pluralità di fatti giuridici (per alienare i beni di un incapace occorrono l’autorizzazione del tribunale e il consenso del rappresentante legale) essa si dice complessa.
In alcuni casi se la fattispecie consta d una serie di fatti che si succedono nel tempo, si posso verificare effetti prodromici o preliminari, prima che l’interra serie sia completata ( contratto sottoposto a condizione sospensiva:il soggetto è titolare di una aspettativa fino a quando la condizione non si sia verificata.
Capitolo 11: INFLUENZA DEL TEMPO SULLE VECENDE GIURIDICHE
(in particolare: LA PRESCRIZIONE E LA DECADENZA)
Il tempi è preso in considerazione dall’ordinamento giuridico sotto vari aspetti: non si conta il giorno iniziale, si conta quello finale; il termine scadente il giorno festivo è prorogato al giorno seguente non festivo; se il termine è a mese, si segue il criterio secondo il quale il termine scade nel giorno corrispondente a quello del mese iniziale.
Il decorso di un determinato periodo di tempo insieme con altri elementi può dar luogo all’acquisto o all’estinzione di un diritto soggettivo. Se il decorso del tempo serve a far acquistare un diritto soggettivo, l’istituto che viene in considerazione è l’usucapione; invece, l’estinzione del diritto soggettivo per decorso del tempo forma oggetto di altri due istituti: la prescrizione estintiva e la decadenza.
La prescrizione estintiva produce l’estinzione del diritto soggettivo per l’inerzia del titolare del diritto stesso che non lo esercita (art.2934 c.c.) o non ne usa (art.954.4, 970, 1014, 1073) per il tempo determinato dalla legge.
Le parti non possono rinunciare preventivamente alla prescrizione (art.2937 c.c.) né prolungare né abbreviare i termini stabiliti dalla legge (art.2936 c.c.).
Il debitore che paga spontaneamente il debito, non può farsi restituire quanto ha pagato (art.2940 c.c.). Si verifica così, una ipotesi di obbligazione naturale (art.2034 c.c.).
La regola è che tutti di diritto sono soggetti a prescrizione estintiva; ne sono esclusi i diritti indisponibili come gli stati, la potestà dei genitori sui figli minori, … (art.2934 c.c. diritti imprescrittibili).
La ragione dell’esclusione è che questi diritti sono attribuiti al titolare nell’interesse generale e costituiscono, spesso, oltre che un potere anche un dovere.
Anche il diritto di proprietà non è soggetto a prescrizione estintiva (art.948.3), perché anche il non uso è un espressione della libertà riconosciuta al proprietario: inoltre la prescrizione ha sempre come finalità il soddisfacimento di un interesse, la dove l’estinzione del diritto di proprietà per non uso non avvantaggerebbe nessuno. Sono inoltre imprescrittibili sia l’azione di petizione di eredità (art.533.2 c.c.) sia l’azione per far dichiarare la nullità di un negozio giuridico (art.1422 c.c.).
La prescrizione inizia a decorrere dal giorno in cui il diritto avrebbe potuto essere esercitato; quindi se il diritto deriva da un negozio sottoposto a condizione o a termine, la prescrizione decorre dal giorno in cui la condizione si è verificata o il termine è scaduto.
La sospensione è determinata o da particolari rapporti fra le parti (art.2941 c.c. tra i coniugi, tra il genitore che esercita la potestà sue figli minori), o dalla condizione del titolare (art.2942 c.c. minori non emancipati o interdetti per infermità di mente o militari in servizio attivo in tempo di guerra). Le cause indicate sono tassative, cosìcchè i semplici impedimenti di fatto non valgono ad impedire il decorso della prescrizione.
L’interruzione ha luogo o perché il titolare compie un atto (art.2943 c.c.) con il quale esercita il diritto o perché il diritto viene riconosciuto dal soggetto passivo del rapporto (art.2944 c.c.).
Nella sospensione l’inerzia del titolare del diritto continua a durare, ma è giustificata; nell’interruzione invece è l’inerzia stessa che viene a mancare o perché il diritto è stato esercitato, o perché esso è stato riconosciuto dall’altra parte.
La differenza tra la sospensione e l’interruzione è che: la sospensione spiega i suoi effetti per tutto il periodo per il quale gioca la causa giustificativa dell’inerzia (quindi per esempio finchè dura la minore età), ma non toglie valore al periodo eventualmente trascorso in precedenza (es. prima del matrimonio). Nella sospensione quindi, il tempo anteriore al verificarsi della causa di sospensione non perde la sua efficacia e si somma con il periodo successivo alla cessazione dell’operatività della causa di sospensione. Invece, l’interruzione, facendo venir meno l’inerzia, toglie ogni valore al tempo anteriormente trascorso: dal beneficarsi del fatto interruttivo, però, comincia a decorrere un nuovo periodo di prescrizione (art.2945 c.c.).
Rispetto alla durata si distinguono la prescrizione ordinaria e le prescrizioni brevi.
La prima è applicabile in tutti i casi in cui la legge non dispone diversamente e dura 10 anni (art.2946 c.c.). Il periodo più lungo (20 anni) è stabilito in armonia con il termine per l’usucapione (art.1158 c.c.), per l’estinzione dei diritti reali su cosa altrui (art.954, 970, 1014, 1073 c.c.). Termini più brevi sono previsti per altri tipi di rapporto e danno luogo alle c.d. prescrizioni brevi (art.2947 e segg.). Esse riguardano il diritto al risarcimento del danno, le prestazioni periodiche (art.2948 c.c.) e vari rapporti commerciali (società, spedizione, trasporto, assicurazione).
Le prescrizione presuntive si basano sulla considerazione che vi sono rapporti della vita quotidiana nei quali l’estinzione del debito può avvenire senza che il debitore abbia cura di richiedere e conservare una quietanza che gli garantisca la possibilità di provare anche a distanza di tempo, di avere già provveduto ad estinguere il debito. A sua tutela perciò, la legge, trascorso un breve periodo, presume che il debito si sia già estinto.
Si noti bene: non è che il debito si estingua, ma si presume che si sia estinto ossia che il debitore è esonerato dall’onere di fornire in giudizio la prova dell’estinzione.
Le presunzioni sono di due specie: quelle che ammettono la prova contraria e quelle che non la ammettono (art.2728 c.c.). La presunzione che nasce a favore del debitore dalla prescrizione presuntiva appartiene alla prima categoria.
Contro la presunzione di estinzione non è ammesso qualsiasi mezzo di prova; il creditore, il quale abbia lasciato trascorrere imprudentemente l’intero periodo prescrizionale prima di pretendere il pagamento, ove la prescrizione presuntiva sia stata posta in giudizio, può cercare di vincerla solo ottenendo dal debitore la confessione che il debito, in realtà, non è stato pagato (art.2959 c.c.); altrimenti occorre deferire all’altra parte il giuramento decisorio (art.2736 c.c.), ossia l’invito ad assumere tutte le responsabilità inerenti ad una dichiarazione solenne davanti al giudice con la quale il debitore confermi che l’obbligazione sia davvero estinta (art.2960 c.c.).
Il vantaggio che il debitore riceve opponendo la prescrizione presuntiva è, perciò, chiaro: egli è esonerato dall’onere di provare quale fatto avrebbe determinato l’estinzione del debito: il giudice deve assolverlo dalla domanda di pagamento, senza bisogno che dimostri di avere effettivamente già pagato ovvero che si è davvero verificata qualche altra causa di estinzione del debito.
La decadenza produce l’estinzione del diritto in virtù del fatto oggettivo del decorso del tempo, esclusa, in genere, ogni considerazione relativa alla situazione soggettiva del titolare. La decadenza implica, quindi, l’onere di esercitare il diritto esclusivamente entro il tempo prescritto dalla legge.
La decadenza può, quindi, essere impedita solo dall’esercizio del diritto mediante il compimento dell’atto previsto (art.2966 c.c.). Con l’esercizio del diritto cade, infatti, la stessa ragione d’essere della decadenza: l’onere, a cui era condizionato l’esercizio del diritto, è ormai soddisfatto.
La decadenza legale costituisce sempre un istituto eccezionale, in quanto deroga al principio generale, secondo il quale l’esercizio dei diritti soggettivi non è sottoposto a limiti e il titolare può esercitarli quando, come e dove gli pare opportuno.
Capitolo 12: L’ATTO E IL NEGOZIO GIURIDICO
Gli atti giuridici si distinguono in due categorie: atti conformi alle prescrizioni dell’ordinamento giuridico (atti leciti) e atti compiuti in violazione di doveri giuridici e che producono la lesione del diritto soggettivo altrui (atti illeciti art.2043 c.c.).
Gli atti leciti si distinguono in operazioni che consistono in modificazioni del mondo esterno (es. la presa di possesso di una cosa), e dichiarazioni, che sono atti diretti a comunicare ad altri il proprio pensiero.
Si dicono invece dichiarazioni di scienza di atti con quali si comunica ad altri di essere a conoscenza di un atto o di una situazione (es. nella confessione).
Tutti gli atti umani consapevoli e volontari, che non siano negozi giuridici, sono denominati atti giuridici in senso stretto.
Il negozio giuridico è una dichiarazione di volontà con la quale vengono enunciati gli effetti perseguiti ed alla quale l’ordinamento giuridico ricollega gli effetti giuridici conformi al risultato voluto.
Il nostro c.c. non dedica un’apposita disciplina al concetto di negozio giuridico: in esso è regolato il contratto (artt.1321-1469), il testamento (artt.587-712), il matrimonio (artt.84-142), alcune altre figure negoziali, ma non il negozio giuridico in generale.
I negozi giuridici possono essere collegati tra loro: la figura più importante è costituita dal procedimento o atto-procedimento, che consiste in più atti successivi, di cui ogni atto costituisce l’antecedente del successivo.
Se il negozio giuridico è perfezionato con la dichiarazione di una sola parte, il negozio si dice unilaterale (es. il testamento).
Se le dichiarazioni di volontà sono dirette a formare la volontà di un soggetto diverso, si ha l’atto collegiale (es. deliberazione dell’assemblea di una s.p.a.). nell’atto collegiale si applica il principio della maggioranza: la deliberazione è valida ed efficace anche se è approvata dalla maggioranza e non da tutti coloro che hanno diritto di partecipazione alla formazione della volontà della persona giuridica.
I negozi giuridici unilaterali si distinguono in recettizi, se, per produrre effetto, la dichiarazione negoziale deve pervenire a conoscenza di una determinata persona, alla quale, pertanto, deve essere comunicata o notificata (art.1334 c.c.); e non recettizi, se producono effetto indipendentemente dalla comunicazione ad uno specifico destinatario (es. riconoscimento di un figlio naturale). Se le parti sono più di una, si ha il negozio bilaterale (se sono due) o plurilaterale (se sono più di due). Negozio bilaterale tipico è il contratto , che è l’accordo di due parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale(art.1321 c.c.).
Si distinguono così i negozi mortis causa (unico es. il testamento), i cui effetti presuppongono la morte di una persona dai negozi inter vivos, che prescindono da tale presupposto (es. vendita).
Secondo che si riferiscano a rapporti familiari o ad interessi economici si distinguono i negozi di diritto familiare (in cui prevale sull’interesse del singolo l’interesse superiore del nucleo familiare, onde sono stati qualificati come atti di potestà familiare) dai negozi patrimoniali che a loro volta si distinguono in negozi di attribuzione patrimoniale (che tendono ad uno spostamento di diritti patrimoniali da un soggetto ad un altro (es. vendita)), e i negozi di accertamento (che si propongono solo di eliminare controversie, dubbi sulla situazione esistente).
I negozi di attribuzione patrimoniale, a loro volta, si distinguono in negozi di disposizione (che importano una immediata diminuzione del patrimonio mediante alienazione o rinuncia), e negozi di obbligazione (che danno luogo solo alla nascita di una obbligazione diretta al trasferimento di un bene (es. vendita di cosa altrui nella quale il venditore si obbliga ad acquistare la cosa dal proprietario in guisa che il compratore possa, di conseguenza, diventarne a sua volta immediatamente proprietario art.1478.2 c.c.)).
I negozi di disposizione si distinguono in negozi traslativi (se attuano il trasferimento o la limitazione del diritto a favore di altri) e abdicativi.
Negozio abdicativo è la rinunzia, che è la dichiarazione unilaterale del titolare di un diritto soggettivo, diretta a dismettere il diritto stesso senza trasferirlo ad altri.
Se la rinunzia ha per oggetto un diritto di credito si chiama remissione (art.1236 c.c.).
I negozi patrimoniali si distinguono in negozi a titolo gratuito e negozi a titolo oneroso.
Un negozio a titolo oneroso si ha quando un soggetto, per acquistare qualsiasi tipo di diritto, accetta un correlativo sacrificio; mentre si dice a titolo gratuito il negozio per effetto del quale un soggetto acquisisce un vantaggio senza alcun correlativo sacrificio. In genere l’acquirente a titolo gratuito è protetto meno intensamente dall’acquirente a titolo oneroso.
Gli elementi del negozio giuridico si distinguono in elementi essenziali, senza i quali il negozio è nullo (art.1418 c.c.), ed elementi accidentali, che le parti sono libere di apporre o meno. Gli elementi essenziali si dicono generali, se si riferiscono ad ogni tipo di negozio (es. la volontà, la dichiarazione, la causa); particolari, se si riferiscono a quel particolare tipo considerato. Dagli elementi essenziali distinguiamo i presupposti del negozio, che sono circostanze estrinseche al negozio, indispensabili perché il negozio sia valido. Tali sono la capacità della persona che pone in essere il negozio, l’idoneità dell’oggetto, la legittimazione del negozio.
Elementi accidentali generali sono la condizione, il termine, il modo.
Distinguiamo anche i c.d. elementi naturali. In realtà si tratta di effetti naturali del negozio: essi si producono senza bisogno di previsione delle parti, salva la loro contraria volontà manifestata.
A seconda dei modi con cui la dichiarazione avviene, essa si distingue in dichiarazione espressa (se fatta con parole, cenni, alfabeto Morse…) e dichiarazione tacita.
In alcuni casi l’ordinamento giuridico richiede per forza una dichiarazione espressa, per evitare le incertezze circa l’esistenza della dichiarazione. Il silenzio può avere valore di dichiarazione tacita di volontà solo in concorso di determinate circostanze; oppure se, in basa alle regole della correttezza e della buona fede, il silenzio, dati i rapporti tra le parti, ha il valore di consenso.
Talvolta si ha la necessità di subordinare la validità di un atto a forme solenni: matrimonio o testamento. Ma il legislatore impone che la volontà sia dichiarata in forma scritta o mediante atto pubblico, ossia con l’intervento di un pubblico ufficiale (es. nel caso della donazione).
Per molti negozi lo Stato, per ragioni fiscali, impone l’uso della carta bollata. L’inosservanza di tale prescrizione non dà luogo, tuttavia, alla nullità del negozio, ma ad una sanzione pecuniaria notevole. Solo la cambiale e l’assegno bancario, se non sono stati regolarmente bollati al momento della emissione, pur essendo validi a tutti gli altri effetti, non hanno efficacia a titolo esecutivo.
Anche la registrazione serve prevalentemente a scopi fiscali. Essa è il mezzo di prova più comune per rendere certa, mediante l’attestazione dell’ufficio stesso sul documento, la data di una scrittura privata di fronte ai terzi (art.2704 c.c.).
In generale il negozio è formato o perfetto quando la dichiarazione esce dalla sfera di colui che la manifesta. Per determinare il momento di perfezionamento occorre distinguere tra negozio unilaterale, negozio unilaterale recettizio e contratto.
I negozi unilaterali (es. testamento) non recettizi sono perfetti nel momento in cui la volontà viene manifestata; i negozi unilaterali recettizi nel momento in cui pervengono a conoscenza della persona a cui sono destinati (art. 1334 c.c.).
L’efficacia, invece, è l’attitudine nel negozio a produrre i suoi effetti. Non sempre perfezione ed efficacia coincidono: per es. il testamento è formato quando è stato redatto, ma non produce i suoi effetti se non quando il testatore sia morto.
In molti casi, la legge impone l’iscrizione del negozio in registri tenuti dalla pubblica amministrazione, che chiunque può consultare, o in giornali ufficiali, bollettini…La pubblicità serve, pertanto, a dare ai terzi la possibilità di conoscere l’esistenza ed il contenuto di un negozio giuridico.
Distinguiamo tre tipi di pubblicità:
Secondo questa teoria, se la dichiarazione diverge dall’interno volere, ma colui cui essa è destinata non era in grado di conoscere la divergenza, il negozio è valido; è invalido se il destinatario sapeva che la dichiarazione non corrispondeva all’interno volere del dichiarante. Questa teoria vale per i negozi patrimoniali dell’intero volere a titolo oneroso, ma non per quelli mortis causa, per i negozi di diritto personale e familiare, e per quelli patrimoniali a titolo gratuito, nei quali occorre avere esclusivo riguardo alla volontà del dichiarante.
E’ applicando la teoria dell’affidamento che si risolvono i casi di mancanza di volontà o di divergenza tra volontà e dichiarazione.
Dobbiamo distinguere le dichiarazioni fatte nello scherzo, ossia in condizioni tali che ciascuno intenda che non si agisce sul serio; e le dichiarazioni fatte per ischerzo, ossia con intenzione non seria, senza, però, che ciò risulti all’altra parte. Nella prima il negozio è nullo, nella seconda è valido.
La riserva mentale consiste nel dichiarare intenzionalmente cosa diversa da quel che si vuole effettivamente, senza che l’altra parte sia in condizione di scoprire la divergenza. E, siccome chi riceve la dichiarazione non è tenuto ad indagare sulle reali intenzioni del dichiarante, questo rimane vincolato.
La violenza fisica si ha quando manca del tutto la volontà; la violenza psichica, invece, consiste in una minaccia che fa deviare la volontà inducendo il soggetto ad emettere una dichiarazione che, senza la minaccia, non avrebbe emesso. Il negozio concluso per violenza fisica è nullo.
L’errore ostativo è l’errore che cade sulla dichiarazione (volevo scrivere 100 e ha scritto 1000 per distrazione).
Si considera “simulato” un contratto quando le parti ne documentano la stipulazione, al fine di poterlo invocare di fronte ai terzi, ma sono tra loro d’accordo che gli effetti previsti dall’atto simulato non si devono verificare. Così, la situazione giuridica che dovrebbe essere effetto del contratto è solo apparente, mentre la situazione giuridica reale rimane quella anteriore all’atto.
La divergenza tra la dichiarazione e la reale volontà delle parti non soltanto è consapevole ma è addirittura concordata. Lo scopo per cui le parti ricorrono alla simulazione si chiama causa simulandi.
La simulazione si dice assoluta se le parti si limitano ad escludere la rilevanza, nei loro rapporti, del contratto apparentemente simulato; si dice invece relativa qualora le parti concordino che nei loro rapporti interni assuma rilevanza un diverso negozio, che si dice dissimulato (nel qual caso, in realtà, le parti non vogliono lasciare immutata la situazione giuridica preesistente, ma intendono modificarla secondo quanto da esse concordato con l’atto dissimulato).
La simulazione relativa può essere oggettiva o soggettiva, a seconda che il negozio dissimulato differisca da quello simulato per quanto riguarda l’oggetto dell’atto, ovvero i soggetti.
La figura più importante di simulazione relativa soggettiva è la c.d. interposizione fittizia di persona, che ricorre quando il contratto simulato viene stipulato tra Tizio e Caio, ma entrambi sono d’accordo con Sempronio che, in realtà, gli effetti dell’atto si verificheranno nei confronti di quest’ultimo.
L’interposizione fittizia si distingue dall’interposizione reale dove l’alienante non partecipa agli accordi tra acquirente (persona interposta) e terzo, cosicchè l’alienazione non è simulata, ma realmente voluta e gli effetti dell’atto si producono regolarmente in capo all’acquirente, restando indifferente per l’alienante che quest’ultimo non intende acquistare per sé, ma per conto di un terzo, con cui l’alienante non entra in rapporto e verso il quale né assume obblighi né acquista diritti.
Se la simulazione è assoluta si giunge alla conclusione che il negozio simulato non produce effetto (art.1414 c.c.).
Se la simulazione è relativa, il contratto simulato non può produrre effetti tra le parti in quanto queste sono d’accordo nell’averlo stipulato quale mera apparenza ma senza volerne realmente gli effetti.
La prima situazione è quella dei terzi interessati a dedurre la simulazione (art.1415.2 c.c.): i terzi estranei al contratto simulato, se ne sono pregiudicati, possono farne accertare la nullità.
L’art.1415.1 c.c. dispone che la simulazione non può essere opposta né dalle parti contraenti né dagli aventi causa o dai creditori del simulato alienante, ai terzi che in buona fede hanno acquistato diritti dal titolare apparente.
Per quanto riguarda l’onere della prova della buona fede, si applica il principio dell’art.1147 c.c., in base al quale la buona fede si presume. Perciò spetta a chi vuole opporre la simulazione fornire la prova che il terzo acquirente è in mala fede.
È importante chiarire che il terzo non solo è chi ha acquistato a titolo oneroso, ma anche chi ha acquistato a titolo gratuito.
I creditore dell’apparente alienante hanno interesse a far valere la simulazione, perché ne vengono ad essere pregiudicati, in quanto non possono agire sui beni che sono apparentemente usciti dal patrimonio del loro debitore; quelli dell’acquirente simulato invece, hanno un interesse contrario: essi infatti, hanno tutto da guadagnare dalla possibilità di espropriare i beni che sono fittiziamente entrati nel patrimonio del loro debitore.
Ora, i creditore del simulato alienante possono far valere la simulazione che pregiudica i loro diritti e, facendo prevalere la realtà sull’apparenza, agire sui beni che solo apparentemente sono usciti dal patrimonio del loro debitore (art.1416 c.c.).
Per quanto riguarda i creditori di colui che appare acquirente per effetto del negozio simulato, bisogna distinguere: se il credito è stato garantito da pegno o da ipoteca sui beni che hanno formato oggetto dell’apparente alienazione, avendo acquistato il creditore un diritto reale su quei beni, nei suoi confronti la simulazione è inopponibile (es. A aliena simulatamente a B un bene; B, pur non essendone, in realtà, diventato proprietario, concede un’ipoteca sul bene stesso a favore del suo creditore C; A, se C è in buona fede, non può opporgli che egli ha acquistato l’ipoteca a non dominio, perché non può opporgli che la vendita da lui fatta a B era simulata). Se invece C è un creditore chirografaro (cioè non munito di garanzia reale), e non ha acquistato alcun diritto specifico sui beni del debitore ha solo il diritto di chiedere l’espropriazione, a condizione che quei beni facciano effettivamente parte del patrimonio del debitore.
La figura dell’intestazione di un bene a norme d’altri ricorre tutte le volte in cui un bene viene intestato (non simultaneamente) a favore di un soggetto, anche se i mezzi per il suo acquisto siano stati forniti da un soggetto diverso.
Si ha il negozio indiretto quando un determinato effetto giuridico non viene realizzato direttamente, ma ponendo in essere atti diretti ad altri effetti, ma che con la loro combinazione realizzano egualmente il risultato perseguito.
La categoria più importante di negozi indiretti è costituita dai c.d. negozi fiduciari cioè quando un soggetto detto fiduciante, trasferisce (senza corrispettivo), o fa trasferire da un terzo (pagando lui il correlativo prezzo), ad un fiduciario la titolarità di un bene (mobile), ma con il patto che l’intestatario utilizzerà il bene esclusivamente in conformità alle istruzioni che il fiduciante gli ha impartito. Il negozio fiduciario non è regolato dal c.c.
I vizi della volontà sono: l’errore, il dolo e la violenza (art.1427 c.c.). essi non producono il grave effetto della nullità del negozio, ma l’annullabilità.
B) ERRORE
L’errore consiste in una falsa conoscenza della realtà.
L’errore-vizio è incidente sul processo interno di formazione della volontà (es. compro un oggetto credendo che sia d’oro, invece è di metallo vile); l’errore ostativo è la divergenza tra volontà e dichiarazione (es. vogli scrivere 100, ma per lapsus scrivo 110).
Entrambi gli errori determinano l’annullabilità del contratto, ma a condizione (art.1428 c.c.):
Peraltro l’azione di annullamento non può più essere proposta se l’altra parte, prima che alla parte in errore possa derivarne pregiudizio, offra di eseguire il contratto in modo conforme a quanto l’altro contraente riteneva (erroneamente) di aver pattuito (art.1432 c.c.).
Nei negozi bilaterali e plurilaterali un’altra figura di errore ostativo è costituita dal dissenso, che ha luogo quando le parti, pur sottoscrivendo una identica dichiarazione, non si rendono conto di attribuirle in realtà significati tra loro divergenti. Anche in tal caso la rilevanza del vizio dipende dalla sua essenzialità e riconoscibilità.
114 Errore di fatto ed errore di diritto
L’errore è di fatto quando cade su una circostanza di fatto; è di diritto quando riguarda la stessa vigenza o l’interpretazione di una norma giuridica.
115 Essenzialità dell’errore
L’errore è essenziale quando: 1) deve essere stato tale da aver determinato la parte a concludere il contratto;
2) non ogni errore determinante può considerarsi solo essenziale, perché il c.c. qualifica tale solo l’errore che cade (art.1429 c.c.):
L’errore si considera riconoscibile quando, in relazione al contenuto, alle circostanze del contratto o alle qualità dei contraenti, la controparte, usando la normale diligenza, avrebbe potuto accorgersene (art.1431 c.c.)
Nel caso di errore comune, e cioè quando entrambi i contraenti siano incorsi nello stesso errore, la giurisprudenza ritiene che non vada applicato il principio dell’affidamento, e quindi che sia sufficiente la essenzialità dell’errore per l’annullabilità del negozio, non rilevando la riconoscibilità dal momento che ciascuno dei contraenti ha dato luogo all’invalidità del contratto indipendentemente dal comportamento dell’altro.
C) DOLO
Un negozio è annullabile ove sia stato posto in essere, in conseguenza di raggiri fatti ai danni del suo autore.
Per l’annullabilità dell’atto devono concorrere:
Il dolo omissivo si ha quando si tacciono circostanze che avrebbero potuto indurre la controparte a rinunciare alla stipulazione dell’atto. Esso è sufficiente a far annullare il negozio. Il dolo incidente, invece, si limita ad incidere sulle condizioni contrattuali. Esso ricorre quando la vittima dell’inganno non si è determinata alla stipula dell’atto per effetto del raggiro subito. In questo caso (art.1440 c.c. il contratto non è annullabile, proprio perché il comportamento fraudolento del raggirante non è stato determinante del consenso.
Il dolo può avere rilevanza in tutti gli atti, tranne quelli in cui, per particolari ragioni, tale rilevanza è esclusa dalla legge.
Il dolo, come elemento intenzionale dell’illecito, non indica un particolare tipo di azione, un fatto che si verifica nel mondo esterno, ma costituisce soltanto un elemento soggettivo o psicologico, ossia l’intenzione dell’agente di realizzare un determinato risultato e si concreta, quindi, nella corrispondenza tra un programma perseguito deliberatamente da una persona e l’azione da essa posta in essere; il dolo quale vizio della volontà, invece, denota proprio l’azione di chi inganna e che si concreta, quindi, in un determinato fatto esterno.
D) VIOLENZA
La violenza psichica consiste nella minaccia di un male ingiusto, rivolta ad una persona allo specifico scopo di estorcerle il consenso alla stipulazione di un contratto. La violenza assume rilievo come vizio della volontà esclusivamente quando miri soltanto ad ottenere dal minacciato il compimento di un atto a carattere negoziale.
Nella fattispecie della violenza il timore che spinge il soggetto ad emettere la dichiarazione negoziale è provocato dalla minaccia altrui; nello stato di pericolo vi è una situazione di paura, ma non determinata dalla minaccia di altra persona diretta a far concludere il negozio, bensì da una stato di fatto oggettivo, nella maggior parte dei casi da forze naturali (un incendio pone in pericolo la vita di una persona cara ed io accedo alla richiesta esosa fatta da chi ha la possibilità di intervenire per cercare di salvarla). Se per effetto dello stato di pericolo una persona ha assunto obbligazioni a condizioni inique, il negozio non è annullabile, ma rescindibile.
La legge richiede che si tratti di una minaccia tale da fare impressione su una persona media(art.1435 c.c.), anche se, ovviamente, per stabilire se la violenza esercitata presentava tale caratteristica si deve guardare in concreto alle circostanze del caso (età, sesso, condizione delle persone art.1435 c.c.). Il male minacciato deve essere ingiusto e notevole e deve riguardare la vittima stessa , il coniuge, il discendente, un ascendente o i rispettivi beni.
Capitolo 17: LA CAUSA DEL NEGOZIO GIURIDICO
Elemento essenziale di ogni negozio giuridico è la sua causa. Si parla di causa dell’obbligazione per indicare “il titolo” da cui il debito deriva, la sua “fonte” (art.1173 c.c.); e di causa con riguardo a ciascuna attribuzione patrimoniale.
Quando il contenuto del negozio dipende dalla libera scelta del privato è necessario che gli effetti complessivamente perseguiti siano giustificati. L’esigenza della causa lecita indica la necessità che siano leciti non soltanto i singoli effetti perseguiti (es. trasferimento di una proprietà), ma soprattutto la loro combinazione, cioè non sempre un certo risultato può realizzarsi solo perché voluto e promesso: un “nudo” consenso non è sufficiente per dare luogo ad effetti giuridici.
Per i contratti tipici, che sono quelli disciplinati specificatamente dal legislatore (compravendita, locazione…), l’esistenza e la liceità della causa è già valutata positivamente in linea di principio dalla legge: ma resta da valutare se anche in concreto il contenuto effettivo del singolo accordo sia meritevole di approvazione. Per i contratti atipici, che sono quelli che la pratica pone in essere pur in assenza di uno schema legislativo, la valutazione deve riguardare non solo il contenuto concreto dell’accordo, ma pure lo stesso schema generico della pattuizione.
In alcuni negozi, gli effetti si producono astraendosi dalla causa, la quale resta, per così dire accantonata. Tali negozi sono detti astratti in contrapposizione agli altri che sono detti causali.
Distinguiamo ora, l’astrazione sostanziale da quella processuale. La prima è quella per cui il negozio nel suo funzionamento resta svincolato dalla causa; la seconda presuppone, invece, che il negozio sia casuale: chi agisce per ottenere la prestazione, derivante a suo favore da siffatto negozio, non ha l’onere di dimostrare l’esistenza e la liceità della causa, ma chi è chiamato in giudizio deve provarne l’eventuale mancanza o l’illiceità, se vuol sottrarsi alla condanna. La legge prevede l’astrazione processuale a proposito della promessa di pagamento e della ricognizione di debito: basta dimostrare che vi è stata siffatta promessa o che vi è stato un siffatto riconoscimento, perché colui, a cui favore la dichiarazione è stata fatta, sia dispensato dall’onere di provare il rapporto che giustifica la promessa o il riconoscimento (art.1988 c.c.).
Difetto genetico della causa: Nei negozi tipici la causa esiste sempre perché il legislatore l’ha prevista nel dettare le regole di quel determinato tipo di contratto. Essa può, peraltro, mancare quando, per la situazione in cui dovrebbe operare, il negozio non può esplicare la sua funzione. Se compro una cosa che è già mia (supponendo che non si sappia che ma appartiene, ma che ciò si venga a conoscere successivamente), ecco che il negozio non può realizzare il risultato di trasferirmi la proprietà di una cosa che è già di mia proprietà, e, se io ho pagato il prezzo, ho diritto a riaverlo, perché, altrimenti, l’attribuzione patrimoniale non avrebbe giustificazione, sarebbe senza causa.
Nei negozi atipici la causa manca, quando il negozio non è diretto a realizzare interessi meritevoli di tutela (art.1322 c.c.).
Può darsi che la causa manchi originariamente solo in parte (difetto genetico parziale della causa). Ciò può avvenire nei contratti a prestazioni corrispettive, nei quali al sacrificio patrimoniale di una parte fa riscontro quello dell’altra (es. vendita, nella quale il venditore trasferisce la cosa e il compratore paga il prezzo). Perché la causa debba ritenersi in parte mancante basterebbe che le due prestazioni non siano equivalenti: ma, per la sicurezza delle contrattazioni, la legge attribuisce rilevanza al difetto di causa solo se lo squilibrio tra la prestazione di una parte e il corrispettivo assuma proporzioni inique o notevoli. Possono esserci anche circostanze che impediscono alla causa di funzionare (difetto sopravvenuto o funzionale della causa). Sia nel caso d’inadempimento che di impossibilità sopravvenuta o di eccessiva onerosità sopravvenuta il contratto non è nullo, ma la parte può agire per la risoluzione del contratto e così sciogliersi dal vincolo.
La causa è illecita quando è contraria alla legge e all’ordine pubblico ( negozio illegale) e al buon costume (negozio immorale) (art.1343 c.c.): l’illiceità della causa produce la nullità del negozio (art.1418 c.c.). Se è stata eseguita una prestazione in esecuzione di un negozio avente causa illecita, essendo il negozio nullo, chi l’ha eseguita avrebbe diritto ad ottenere la restituzione di ciò che ha dato (art.2033 c.c.: ripetizione dell’indebito). Invece, la ripetizione non è sempre ammessa. Bisogna tener presente a riguardo che l’immoralità può essere unilaterale o bilaterale: se per liberare una persona a me cara che è stata sequestrata, pago la somma richiesta, non commetto un’azione immorale; l’immoralità è solo dalla parte dei banditi ed in questo caso il diritto di chiedere la restituzione di quanto sia stato pagato è ovviamente riconosciuto all’interessato. Tale diritto, invece, deve essere negato se il pagamento deve considerarsi immorale anche in relazione a chi effettua la prestazione (es. di colui che dà danaro per corrompere un pubblico funzionario) art.2035 c.c.
Il motivo che spinge un soggetto a porre in essere un negozio giuridico è lo scopo pratico, individuale, da lui perseguito e che lo “motiva” al compimento dell’atto e non viene comunicato alla controparte; ed anche se le viene comunicato rimane per questa del tutto indifferente (motivi giuridicamente irrilevanti). I motivi diventano rilevanti quando la loro realizzazione venga espressamente oggetto di un patto contrattuale: ad es. acquisto il terreno a condizione di potervi edificare questo determinato tipo di edificio e quindi il contratto diventerà efficace solo se il comune competente rilascerà una concessione ad aedificandum conforme ai miei scopi.
Perché il contratto sia colpito da nullità occorre:
Con il negozio contrario alla legge le parti mirano direttamente ad un risultato vietato; invece, con il negozio in frode, esse mirano ad ottenere un risultato equivalente a quello vietato dalla legge.
La frode alla legge costituisce un vizio della causa dell’atto, che si concreta in un abuso della funzione strumentale tipica del negozio: questo viene impiegato per un fine che contrasta con la funzione sociale (causa) che gli è propria.
La frode alla legge si distingue dalla frode ai creditori che è diretta a danneggiare costoro e che viene colpita con una particolare azione.
Il negozio in frode alla legge si distingue anche dal negozio simulato: la simulazione consiste nel dichiarare ufficialmente cosa diversa da quella realmente voluta; nel negozio in frode alla legge, invece, la dichiarazione negoziale è effettivamente voluta, ma ha una particolare finalità antigiuridica; eludere le disposizioni di una norma imperativa.
Capitolo 18: LA RAPPRESENTANZA
La rappresentanza è l’istituto per cui ad un soggetto (rappresentante) è attribuito (dalla legge o dall’interessato) il potere di sostituirsi ad un altro soggetto (rappresentato) nel compimento di attività giuridica per conto di quest’ultimo e con effetti diretti nella sua sfera giuridica.
Per avere rappresentanza diretta, non basta che una persona agisca per conto di un’altra persona: essa deve anche agire in nome di quest’altra persona, dichiarare, in sostanza, che non compie l’atto per sé, ma in nome dell’interessato. Se una persona agisce nell’interesse altrui, ma non dichiara di agire in nome altrui, si ha la c.d. rappresentanza indiretta. Mentre, nel caso della rappresentanza diretta, gli effetti del negozio si producono immediatamente e direttamente nella sfera del rappresentato; nella rappresentanza indiretta, invece, chi fa la dichiarazione acquista i diritti e diventa soggetto degli obblighi nascenti dal negozio, ed occorrerà un altro negozio per trasmettere gli effetti dell’atto del patrimonio della persona nel cui interesse l’atto è stato compiuto. La rappresentanza indiretta ha, perciò, l’inconveniente di richiedere due negozi. Essa si denomina anche interposizione reale. Figura particolare, che si avvicina alla rappresentanza indiretta, è l’autorizzazione, con cui una persona (autorizzante) conferisce ad un'altra (autorizzato) il potere di compiere negozi giuridici, diretti ad influire nella sfera dell’autorizzante, in nome dell’autorizzato.
Non in tutti i negozi è ammessa la rappresentanza: essa, di regola, è esclusa nei negozi che, per la loro natura, si vogliono riservare esclusivamente alla persona interessata e, perciò, in quelli di diritto familiare ( es. matrimonio).
Una persona, per potere agire in nome altrui, deve averne il potere. Questo potere può derivare dalla legge (rappresentanza legale) o essere conferito dall’interessato (rappresentanza volontaria). La rappresentanza legale ricorre quando il soggetto è incapace (minore). Si usa parlare di rappresentante legale anche a proposito della c.d. rappresentanza organica, ossia con riguardo al potere di rappresentare un ente che spetta all’organo che ha la competenza ad esternare la volontà dell’ente.
L’ufficio privato, invece, consiste nel potere di svolgere una attività nell’interesse altrui e con effetti diritti nella sfera giuridica del soggetto sostituito, in adempimento di una funzione prevista dalla legge (esecutore testament.).
Il negozio con il quale una persona conferisce ad un’altra il potere di rappresentanza si chiama procura, e il rappresentante volontario si chiama procuratore. La procura serve a rendere noto ai terzi, con i quali il rappresentante dovrà venire a contatto per assolvere l’incarico, che egli da me autorizzato a trattare in mio nome. Perciò, la procura consiste in un negozio unilaterale che va distinto dal rapporto interno tra rappresentante e rappresentato: questo rapporto interno può derivare da un mandato, da un contratto di lavoro …
La procura può essere espressa o tacita, risultante cioè, da fatti concludenti.
Le conseguenze dell’atto compiuto dal procuratore si ripercuotono direttamente sul patrimonio del rappresentato, che è il vero interessato all’atto. Perciò, per la vendita del negozio concluso mediante rappresentanza, è necessaria la capacità legale del rappresentato.
La procura può riguardare un solo affare o più affari determinati (procura speciale), o può riguardare tutti gli affari del rappresentato (procura generale).
Poiché in genere la procura è conferita nell’interesse del rappresentato, questi può modificarne l’oggetto o i limiti e può anche togliere al rappresentante il potere che gli aveva conferito. L’atto con il quale il rappresentato fa cessare gli effetti della procura si chiama revoca della procura. Anche la revoca è negozio unilaterale: come è sufficiente una dichiarazione dell’interessato per conferire il potere di rappresentanza, allo stesso modo una sua dichiarazione basta a toglierlo.
La procura, basandosi sulla fiducia personale che il procuratore ispira, cessa, di regola, anche per la morte sia del rappresentante che del rappresentato.
La revoca e le modificazioni della procura devono essere portati a conoscenza dei terzi con mezzi idonei.
Il negozio concluso dal rappresentante sarà annullabile, se egli versava in errore, o è stato costretto alla sua conclusione da violenza … Si fa eccezione nel caso in cui l’anomalia della volontà o lo stato soggettivo influente si riferiscano ad un elemento predeterminato dal rappresentato, cioè, incidano sulle istruzioni da lui date.
Se il rappresentante è portatore di interessi propri o di terzi in contrasto con quelli del rappresentato, si ha conflitto d’interessi tra rappresentato e rappresentante.
L’atto posto in essere dal rappresentante in conflitto di interessi è viziato, indipendentemente dal fatto che il rappresentato sia stato effettivamente danneggiato. Naturalmente il conflitto di interessi è irrilevante se il rappresentato, essendone a conoscenza, autorizzi il rappresentante a concludere egualmente il negozio.
Se il rappresentante agisce in conflitto d’interessi con il rappresentato, il negozio è annullabile su domanda del rappresentato. Anche qui, il negozio è annullabile solo se il conflitto era conosciuto o poteva essere conosciuto con l’ordinaria diligenza dal terzo (art.1394 c.c.).
Rientra nello schema del conflitto di interessi la figura del contratto con se stesso (unico soggetto che svolge contemporaneamente due parti). Questo contratto è, di regola, annullabile: è valido quando il rappresentato abbia autorizzato espressamente la conclusione del contratto oppure il contenuto del contratto sia stato determinato preventivamente dallo stesso rappresentato in guisa da escludere la possibilità di conflitto (art.1395 c.c.). Così, ad es., il commesso di negozio può acquistare merci nell’azienda a cui è addetto, corrispondendo il prezzo stabilito dal principale per la vendita al pubblico.
Il negozio compiuto da chi ha agito come rappresentante senza averne il potere (difetto di potere) o eccedendo i limiti delle facoltà conferitegli (eccesso di potere) non produce alcun effetto nella sfera giuridica dell’interessato. Il negozio è perciò inefficace. Infatti esso non può dirsi nullo, perché la nullità opera in maniera definitiva, ed invece, secondo l’art.1399 c.c., l’interessato può ratificare, con effetti retroattivi, il negozio stipulato per lui dal c.d. falsus procurator; e nemmeno annullabile, perché prima della ratifica il negozio concluso senza rappresentanza o eccedendo dei poteri conferiti al rappresentante non produce effetti per l’interessato. Questi può, per altro, con una propria dichiarazione di volontà, approvare ciò che è stato fatto da altri senza che egli avesse attribuito il potere di rappresentarlo. Questa dichiarazione si chiama ratifica. La ratifica può essere espressa o tacita: essa deve rivestire le forme previste dalla legge per la conclusione del negozio.
Perciò, se Tizio, qualificandosi, senza esserlo, procuratore di Caio, ha venduto in immobile a Sempronio che lo ha rivenduto a Mevio, rende il primo negozio valido fin dall’inizio e per conseguenza elimina anche il vizio dell’acquisto di Mevio.
La retroattività della ratifica non può, peraltro, pregiudicare i diritti acquistati dai terzi (art.1399.2 c.c.). Perciò, se Tizio ha venduto un suo immobile a Caio e poi viene a sapere che Mevio, qualificandosi suo rappresentante senza averne il potere, ha concluso in suo nome una vendita a migliori condizioni, la ratifica che egli faccia della vendita fatta da Mevio non può toccare la validità del negozio (vendita a Caio) che egli ha già compiuto perdendo così il potere di disporre ulteriormente dell’immobile.
Se il contratto, mancando la ratifica del rappresentato, rimane definitivamente inefficace, vi è da chiedersi se il terzo possa chiedere il risarcimento dei danni allo pseudo-rappresentante. L’art.1398 c.c. subordina un simile diritto del terzo alla condizione che questi abbia confidato senza sua colpa nella validità del contratto: se sapeva che colui che agiva in nome altrui non aveva il relativo potere, non può pretendere alcun risarcimento; se invece è stato ingannato, non si è accorto di aver a che fare con persona in realtà priva del potere di spendere, per quell’atto, il nome del rappresentato, allora avrà diritto di chiedere il risarcimento del danno subito.
La legge (art.2028 c.c.), nel caso in cui taluno, spontaneamente assume la gestione di affari altrui, stabilisce che, qualora la gestione sia stata utilmente iniziata, l’interessato deve adempiere le obbligazioni che il gestore ha assunto in nome di lui (art.2931 c.c.). Non si deve guardare perciò, al risultato, cioè se dall’atto il rappresentato ha tratto vantaggio, ma occorre, invece, tener conto dell’utilità iniziale e vedere, quindi, se l’affare stesso si prevedeva necessario o utile, in base alla valutazione che il rappresentato come buon padre di famiglia avrebbe fatto al momento in cui fu intrapreso. La gestione di affari può avere anche le alienazioni di beni altrui.
La rappresentanza si distingue da altre figure in cui una persona presta il proprio ausilio all’attività giuridica altrui. La forma più semplice è costituita dal consiglio che una persona può dare ad un’altra sulla convenienza o sulla necessità di un determinato punto di vista giuridico, del tutto estraneo all’atto. Forme più complesse di cooperazione si riscontrano nell’assistenza.
Nel momento della conclusione di un contratto una parte può riservarsi la facoltà di nominare la persona nella cui sfera giuridica il negozio deve produrre effetti (art.1401 c.c.). può dire cioè: acquisto l’immobile, ma per persona che mi riservo di nominare. Se segue entro 3 gg. La dichiarazione di nomina, accompagnata dalla dichiarazione di accettazione da parte della persona indicata, si producono gli stessi effetti che si sarebbero verificati se fosse stata conferita la procura anteriormente al negozio (artt.1402, 1403, 1404 c.c.): l’acquisto si intende, cioè, fatto fin da principio dalla persona indicata. Se manca la dichiarazione di nomina, il negozio produce effetti direttamente nei confronti di colui che ha stipulato il contratto riservandosi di fare la dichiarazione di comando, ma poi non l’ha fatta (art.1405 c.c.). Le parti possono convenire che la dichiarazione di nomina possa essere effettuata entro un termine maggiore di 3 gg. fissato dalla legge, purchè si tratti di un termine certo e determinato.
Il contratto per persona da nominare si distingue dalla rappresentanza indiretta, in quanto non occorre un nuovo negozio perché gli effetti si producano a favore dell’interessato: basta la dichiarazione unilaterale di nomina, purchè fatta nei termini.
Si distingue dall’interposizione fittizia o simulata, perché in questa, con l’intesa dell’altra parte, il contraente dichiara apparentemente di agire in nome proprio, ma, in realtà, chi contrae è l’interponente; nel caso del contratto per persona da nominare il contraente, invece, dichiara di contrarre per persona da nominare.
Il contratto per persona da nominare si distingue inoltre dal contratto per conto di chi spetti previsto dalla legge in alcuni casi (artt.1513, 1690, 1891 c.c.).
Capitolo 19: GLI ELEMENTI ACCIDENTALI DEL NEGOZIO GIURIDICO
La condizione è un avvenimento futuro ed incerto, dal quale le parti fanno dipendere o la produzione degli effetti del negozio, cui la condizione è apposta, o l’eliminazione degli effetti che il negozio ha già prodotto (art.1353 c.c.). La condizione può essere di due specie: sospensiva, se da essa dipende l’efficacia del negozio, risolutiva, se da essa dipende l’eliminazione degli effetti del negozio.
Es. di condizione sospensiva: mi impegno a comprare il fondo tusculano al prezzo pattuito se il Comune rilascerà la concessione ad aedificandum che è stata richiesta. Se invece compro il fondo subito, ma sotto la condizione che, ove entro un anno non venga rilasciata la concessione ad edificare, ili contratto cesserà di avere i suoi effetti, la condizione è risolutiva. Altro es. di condizione risolutiva: il patto di riscatto.
Non tutti i negozi giuridici tollerano l’apposizione della condizione: essa, per es., è inapponibile al matrimonio e, in genere, ai negozi di diritto familiare, all’accettazione dell’eredità, alla cambiale, all’accettazione e alla girata della cambiale.
La condicio facti dipende dalla volontà delle parti che sono libere nello stipulare un atto, di opporre o non opporre la condizione secondo la valutazione che le parti stesse fanno dei loro interessi. Invece, la condicio iuris costituisce un elemento stabilito dalla legge, sul quale la volontà delle parti non può influire.
La condizione si distingue in: casuale, se il suo avveramento dipende dal caso o dalla volontà dei terzi; potestativa, se dipende dalla volontà di una delle parti; mista, se dipende in parte dal caso o dalla volontà di terzi, in parte dalla volontà di una delle parti. La condizione potestativa si suddistingue in: meramente potestativa se consiste in un comportamento della stessa parte obbligata, che può tenero o meno a suo arbitrio; potestativa vera e propria o semplice o ordinata, se consiste in un comportamento che, pur essendo volontario, non è meramente arbitrario compiere o non compiere, perché costa qualche sacrificio o perché la volontà del debitore o dell’alienante dipende da un complesso di motivi ed interessi, sia pure rimessi alla sua valutazione (es. se costruirò un impianto per lo sfruttamento di energia elettrica, ti assumerò nel personale di tale stabilimento).
La presupposizione o condizione non dichiarata ricorre quando da una interpretazione secondo buona fede della volontà negoziale risulta che le parti, pur non facendone espressa menzione nel contratto, hanno considerato pacifica e come determinante per la conclusione dell’affare una data situazione di fatto attuale o futura. Es. mi impegno a pagare una somma di denaro per poter aver accesso in un dato giorno ad un balcone, senza che si dica espressamente che il contratto viene stipulato per assistere al passaggio di un corteo, sebbene sia evidente e pacifico che questa è la ragione che induce alla stipulazione. Se questo presupposto viene dedotto formalmente nel contratto, l’accorda ne risulta condizionato, e se la condizione non si verifica il contratto è inefficace; ma se il presupposto non viene menzionato e l’evento non si verifica, il contratto va ugualmente rispettato o se ne può rifiutare l’esecuzione? Analogamente si può ragionare per l’acquisto di in terreno, che le parti presupponevano edificabile, mentre poi risulta non esserlo. Dottrina e giurisprudenza sono al riguardo incerte.
La condizione è illecita quando è contraria alla legge, all’ordine pubblico e al buon costume. Circa gli effetti dell’illiceità della condizione, il codice non adotta una disciplina uniforme per tutti i negozi: distinguiamo così i negozi mortis causa (istituzione di erede) e i negozi inter vivos. La condizione illecita si considera non apposta ai primi (art.634 c.c.); rende, invece nullo in negozio inter vivos (art.1354 c.c.).
A condizione impossibile è quella che consiste in un avvenimento irrealizzabile, o dal punto di vista naturale o da quello giuridico. Essa si ha per non apposta nel testamento (art.634 c.c.); rende nullo il negozio, negli altri casi, se è sospensiva; si ha come non apposta, se è risolutiva (art.1354.2 c.c.). La differenza di disciplina fra negozi mortis causa e negozi inter vivos, deriva dall’intento di dare efficacia, il più possibile, alla volontà testamentaria; la divergenza tra condizione sospensiva e risolutiva impossibile, apposta ai negozi inter vivos, deriva dalla condizione che l’irrealizzabilità dell’avvenimento impedisce al negozio di produrre i suoi effetti, se la condizione sospensiva; se invece, è risolutiva, non potendo verificarsi l’avvenimento, gli effetti che il negozio ha già prodotto non potranno mai più essere rimossi.
In un negozio condizionato si distinguono due momenti:
Durante la pendenza della condizione sospensiva il diritto che deriva dal negozio non è ancora nato, ma vi è la possibilità che nasca; durante la pendenza della condizione risolutiva vi è la possibilità che il diritto stesso sia perduto dal suo titolare e acquistato dalla controparte. Quindi, nel corso della pendenza una delle parti esercita il diritto, mentre l’altra parte non lo esercita, ma ha la speranza di divenirne titolare, se la condizione si verificherà. Questa parte, se non ha un diritto, ha una aspettativa all’acquisto del diritto, aspettativa che è trasmissibile agli eredi. D’altro canto, l’altra parte ha l’onere di comportarsi in buona fede; quindi la condizione deve considerarsi come avverata, se colui che aveva interesse contrario all’avvenimento ne ha impedito il verificarsi (art.1359 c.c.).
Durante la pendenza chi ha un diritto subordinato a condizione sospensiva o risolutiva può anche disporne ( chi ha acquistato una cosa sotto condizione sospensiva può, per esempio venderla ad altri). Ma è ovvio che gli effetti di quest’ulteriore negozio restano subordinati alla stessa condizione cui era subordinato il primo: perciò, in tanto il secondo acquirente acquisterà la proprietà della cosa, in quanto la condizione, a cui prima la vendita era subordinata, si sarà verificata (art.1357 c.c.).
La condizione si dice avverata quando si verifica l’evento dedotto.
Quando la condizione sospensiva si è verificata si producono tutte le conseguenze del negozio, con effetto retroattivo al tempo in cui è stato concluso, ossia si considera come se gli effetti si fossero prodotti non dal momento in cui l’avvenimento dedotto in condizione ha avuto luogo, ma da quello della conclusione del negozio (art.1360 c.c. retroattività della condizione). L’inverso avviene se la condizione è risolutiva. Es. perciò, se Tizio ha acquistato un immobile l’01.01.95, sotto una condizione sospensiva che si verifica l’01.07.96, non solo egli acquista la proprietà dell’immobile per effetto del verificarsi della condizione, ma si considera come se ne fosse diventato proprietario fin dall’01.01.95: il che importa che, se ha venduto ad altri medio tempore, cioè tra l’01.01.95 e l’01.07.96, l’alienazione è valida in quanto deve ritenersi fatta di chi è proprietario e poteva disporre dell’immobile. Questa è detta retroattività reale, cioè che gli effetti del negozio si considerano verificati o caducati dal momento della conclusione anche di fronte ai terzi ( se Tizio ha venduto a Caio sotto condizione risolutiva e Caio ha, a sua volta, in pendenza della condizione, venduto a Sempronio, se la condizione risolutiva si verifica, sia Caio che Sempronio, non potranno considerarsi acquirenti della cosa.
La retroattività obbligatoria, invece, si applica in tema di risoluzione per inadempimento.
La retroattività non è un elemento essenziale: essa si fonda sulla presunta volontà delle parti che possono stabilire diversamente (art.1360 c.c.).
La retroattività non si applica agli atti di amministrazione compiuti in pendenza della condizione da colui che esercita il diritto, perché questi atti tendono alla conservazione della cosa o del diritto condizionato. Essa non si applica nemmeno ai frutti che siano stati percepiti durante il periodo di pendenza della condizione: perciò chi, per effetto del verificarsi della condizione, è tenuto a consegnare la cosa, sarà tenuto a consegnare i frutti che abbia eventualmente percepito, soltanto dl giorno in cui si è verificata la condizione (art.1361 c.c.). Le parti per altro, possono stabilire diversamente.
Il termine consiste in un avvenimento futuro e certo, dal quale (termine iniziale) o fino al quale (termine finale) debbono prodursi gli effetti del negozio.
Il termine differisce dalla condizione per il carattere di certezza del verificarsi dell’avvenimento: questo è anch’esso futuro (es. morte di una persona), ma non vi è alcun dubbio circa il suo avverarsi.
Il termine si distingue in: 1) termine determinato(che giungerà e quando giungerà: 05.04.90); 2) termine indeterminato( il giorno della mia morte); 3) il giorno in cui compirò 50 anni, non è certo che arrivi, potendo morire prima; 4) il giorno in cui prenderò la laurea, se la prenderò.
In relazione al termine si distinguono due momenti: pendenza (finchè la data indicata non sia giunta o l’avvenimento certo non si è avverato) e scadenza. Durante la pendenza, il diritto non può essere esercitato, perché il termine ha appunto lo scopo di differirne l’esercizio. Ma, se l’altra parte adempie la sua obbligazione, essa non può ripetere la prestazione, perché non può chiedere la restituzione di ciò che deve successivamente dare.
Il modo è una clausola accessoria che si appone a una liberalità (istituzione di erede, donazione) allo scopo di limitarla. La limitazione può consistere in un obbligo di dare (ti istituisco erede con l’obbligo di dare 50 euro annue ai poveri), di fare (ti dono un immobile con l’obbligo di costruire un ospedale nel mio paese9 o di non dare (ti lascio in legato un terreno con l’obbligo di non costruirvi).
Il modo non costituisce carattere gratuito del negozio (gratuità del negozio modale). Da ciò deriva che il beneficiario del legato o della donazione modale non è mai tenuto oltre il valore della cosa che forma oggetto del negozio stesso (artt.671-793 c.c.).
Il modo si distingue dalla raccomandazione o dal semplice desiderio, espresso dal donante o dal testatore, che rappresenta un dovere esclusivamente morale per chi riceve l’attribuzione patrimoniale. Esso si distingue anche dalla condizione sospensiva, in quanto questa non produce un obbligo a carico della persona, e, d’altro canto, il modo non sospende, a differenza della condizione sospensiva, l’efficacia del negozio.
Poiché il modo costituisce un motivo, si applica al modo illecito (ti dono una somma, ma devi uccidere un mio nemico) e al modo impossibile la disciplina che la legge adotta rispetto al motivo illecito negli atti a titolo gratuito (artt.626, 799, 1419 c.c.).
L’onere impossibile o illecito, sia che si tratti di liberalità inter vivos che mortis causa, si ha per non apposto.
Il modo costituisce un obbligo giuridico. Perciò, l’adempimento dell’obbligo che forma oggetto del modo può essere chiesto da ogni interessato (art.648.1 c.c.).
Circa gli effetti dell’inadempimento ricordiamo che il modo non inerisce alla causa del negozio e non si confonde con il corrispettivo, che caratterizza i negozi a titolo oneroso.
Capitolo 20: INTERPRETAZIONE DEL NEGOZIO GIURIDICO
Le regole di interpretazione si distinguono in due gruppi:
Il punto di riferimento dell’attività dell’interprete deve essere il testo della dichiarazione negoziale: ma non ci si deve limitare al senso letterale delle parole (art.1362 c.c.); occorre invece ricercare quale sia stato il risultato perseguito con il compimento dell’atto, e, quando si tratti di un contratto, quale sia stata “la comune intenzione delle parti”, ossia il significato che entrambe attribuivano all’accordo.
Valgono ancora come sussidiari i seguenti principi:
Vi è da ultimo una regola finale che si applica quando tutte le altre si siano dimostrate inefficienti: l’art.1371 c.c. stabilisce che il negozio deve essere inteso nel senso meno gravoso per l’obbligato, se è a titolo gratuito, e nel senso che esso realizzi l’equo contemperamento degli interessi delle parti, se è a titolo oneroso.
Capitolo 21: EFFETTI DEL NEGOZIO GIURIDICO
L’art.1372 c.c. afferma che il negozio giuridico ha forza di legge rispetto alle parti che lo hanno perfezionato. Vale a dire che gli effetti attribuiti all’atto sono vincolanti per chi lo ha posto in essere, quand’anche se ne sia pentito (salvo, quando sia ammissibile la revoca dell’atto o, per mutuo consenso, lo scioglimento del vincolo): ad es. chi ha concluso un contratto è vincolato ad adempierlo e non può a suo arbitrio liberarsi dagli obblighi assunti.
Per stabilire quali effetti un negozio è idoneo a produrre occorre non solo averlo interpretato, ma anche aver proceduto ad altre due operazioni: la qualificazione dell’atto e la integrazione dei suoi effetti.
Per qualificazione dell’atto s’intende la sua sussunzione sotto il nomen iuris dal quale si determina la disciplina applicabile.
L’atto non produce solo gli effetti perseguiti dalle parti, ma anche quelli disposti dalla legge, dagli usi e dall’equità. L’integrazione degli effetti del negozio è importante soprattutto per risolvere i problemi posti dalle eventuali lacune della disciplina negoziale, che possono essere colmate da norme dispositive.
Il negozio giuridico produce, di regola, i suoi effetti tra le parti: esso non può danneggiare né giovare al terzo estraneo (art.1372 c.c.). Naturalmente i negozi giuridici, se non producono effetti diretti rispetto ai terzi, possono peraltro produrre rispetto ad essi effetti indiretti o riflessi. Se io vendo una cosa a Tizio, la proprietà della cosa passerà a Tizio e non ad una persona estranea al negozio, ma il terzo che voleva acquistare da me la stessa cosa rimarrà pregiudicato, perché non può più acquistarla da me.
Gli effetti che i negozi aventi contenuto patrimoniale possono produrre sono di due specie: reali ed obbligatori. In conformità a questa distinzione, essi si distinguono in negozi dispositivi ad effetti reali e negozi ad effetti obbligatori: i primi hanno per oggetto la trasmissione o la costituzione di un diritto reale o il trasferimento di un altro diritto; i secondi danno luogo alla nascita di un rapporto obbligatorio.
Capitolo 22: INVALIDITA’ ED EFFICACIA DEL NEGOZIO GIURIDICO
Il negozio giuridico è invalido quando, per l’inosservanza dei limiti stessi, il negozio è viziato, difettoso, malato. L’invalidità può assumere due aspetti distinti: la nullità e l’annullabilità.
155 Nozione
Un atto si dice nullo quando va valutato come inidoneo a produrre i suoi effetti tipici. Per affermare la nullità di un negozio occorre individuare la causa che giustifica l’inidoneità dell’atto a produrre i suoi effetti.
Tali cause possono raggrupparsi in tre categorie:
Il vizio che determina la nullità può riguardare l’intero negozio (nullità totale) o solo una o più clausole dell’atto (nullità parziale): in quest’ultimo caso l’intero negozio è parimenti travolto dalla nullità se risulta che i contraenti non l’avrebbero concluso senza quella parte del suo contenuto che è colpita dalla nullità (art.1419.1 c.c.).
156 L’azione di nullità
Il negozio nullo non produce alcun effetto giuridico, ma questo non significa che non possa essere eseguito (ad es. è certamente nullo il contratto con cui un killer si impegna ad ammazzare una persona contro un compenso in danaro, ma la carenza di qualsiasi effetto giuridico non esclude affatto che quel patto venga tuttavia eseguito. Possiamo quindi trovarci di fronte ad un atto valido ed efficace, ma non eseguito, e viceversa un atto nullo ed inefficace può essere stato in toto o in parte eseguito. La nullità di un atto può essere pacifica per le parti, che quindi non ne pretendono l’esecuzione, ma può anche darsi invece che al riguardo insorgano contestazioni tra le parti. Qualora si voglia chiedere la restituzione di una prestazione effettuata in esecuzione di un atto nullo (ho pagato il prezzo di un immobile acquistato in forza di un contratto verbale e quindi nullo per vizio di forma) o rifiutare l’esecuzione di una prestazione, assumendo che sia nullo il negozio che la prevede; è necessario rivolgersi al giudice per far accertare e dichiarare la nullità del negozio in questione.
L’azione di nullità presenta alcune caratteristiche significative:
157 La conversione del negozio giuridico
Il negozio nullo non può, appunto stante la sua nullità, produrre gli effetti per realizzare i quali era stato posto in essere. La legge, però, ammette che, talvolta, possa attuarsi un fenomeno automatico di trasformazione/limitazione di quanto pattuito, denominato conversione.
Sebbene la conversione si realizzi in casi davvero rari, l’art.1424 c.c. richiede a tal fine i seguenti presupposti:
Se il negozio nullo sia stato eseguito, si può pretendere la restituzione delle prestazioni eseguite. Si applicano, al riguardo, le regole sulla ripetizione di ogni pagamento indebito (art.2033 c.c.). Tuttavia non è ammessa la ripetizione nel caso di prestazione eseguita in adempimento di un negozio immorale, se l’immoralità riguarda anche colui che ha eseguito la prestazione (art.2035 c.c.).
L’annullabilità deriva dall’inosservanza delle regole che, pur dettate nell’interesse generale, mirano a proteggere particolarmente uno dei soggetti (art.1425 c.c.).Il negozio annullabile produce tutti gli effetti a cui era diretto (c.d. efficacia precaria del negozio annullabile), ma questi effetti vengono meno se viene proposta ed accolta l’azione di annullamento. L’annullabilità del negozio presenta i seguenti aspetti:
Se l’azione dell’annullamento viene accolta dal giudice, l’annullamento ha effetto retroattivo: si considera come se il negozio non avesse prodotto alcun effetto. Tuttavia, se il negozio è annullato per incapacità di uno dei contraenti (art.2039 c.c.), l’incapace è tenuto a restituire la prestazione ricevuta solo nei limiti in cui essa è stata rivolta a suo vantaggio (art.1443 c.c.). Il principio dell’efficacia retroattiva dell’annullamento derivante da incapacità legale è applicato anche di fronte ai terzi.
Il negozio annullabile può essere sanato, oltre che per effetto della prescrizione, con la convalida (sanabilità del negozio annullabile). La convalida è un negozio con il quale la parte legittimata a proporre l’azione di annullamento si preclude la possibilità di far valere il vizio. Essa non deve essere affetta dallo stesso vizio che ha determinato l’annullabilità del negozio che si vuol sanare. La convalida può essere espressa, cioè deve contenere la menzione del negozio annullabile, del motivo di annullabilità, e la dichiarazione che s’intende convalidare il negozio; e tacita, cioè che si verifica qualora venga data esecuzione volontaria al negozio annullabile.
L’inefficacia può essere originaria (rispetto alle parti è sempre transitoria), e successiva (può dipendere dall’impugnativa di una delle parti o di terzi).
La cessazione degli effetti può anche derivare da appositi atti negoziali che si distinguono in: revoca, negozio successivo che toglie il negozio originario e determina l’eliminazione della situazione effettuale derivante dal negozio originario; e recesso, negozio che è invece diretto a sciogliere immediatamente il rapporto determinato dal contratto (art.1373 c.c.).
SEZIONE SECONDA: LA TUTELA GIURISDIZIONALE DEI DIRITTI
Capitolo 23: LA TUTELA GIURISDIZIONALE DEI DIRITTI
Chi esercita l’azione proponendo la domanda giudiziale si chiama attore (perché agisce), colui contro il quale l’azione si propone convenuto (perché è invitato nel suo interesse a presentarsi, se lo crede, nel giudizio e ad esporre le sue ragioni). Il diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti non può essere soppresso o limitato nei confronti di nessuno e per nessuna ragione.
Se tra me e un’altra persona sorge controversia circa la sussistenza di un diritto soggettivo a mio favore, s’instaura un processo di cognizione che ha il compito di individuare il comando contenuto nella norma di diritto sostanziale applicabile al caso concreto. Se io ho ottenuto la sentenza con cui Tizio viene condannato a pagarmi i danni e, ciò nonostante, egli non ottempera a quest’obbligo, io posso instaurare contro di lui un processo di esecuzione, la cui finalità consiste nel realizzare il comando contenuto nella sentenza (in questo caso, mediante l’espropriazione dei beni di Tizio e la loro vendita; sul danaro ricavato io soddisferò il mio credito). Per impedire che, nel corso del processo di cognizione, Tizio si spogli dei suoi beni, io posso avvalermi del processo cautelare (per es. posso chiedere ed ottenere il sequestro conservativo di quei beni), infatti, la finalità di tale processo è quella di conservare lo stato di fatto esistente per rendere possibile l’esecuzione della sentenza.
L’azione di cognizione può tendere ad una di queste tre finalità:
1) all’accertamento dell’esistenza o dell’inesistenza di un rapporto giuridico incerto e controverso ( se Tizio sia o meno proprietario di una cosa: azione e sentenza di mero accertamento);
2) all’emanazione di un comando, che il giudice rivolgerà alla parte soccombente di eseguire la prestazione che egli stesso riconosce dovuta all’attore (azione e sentenza di condanna);
3) alla costituzione, modificazione o estinzione di rapporti giuridici (art.2908 c.c.).
L’efficacia del giudicato concerne anzitutto il processo, esso preclude ogni ulteriore riesame ed impugnazione della sentenza. La cosa giudicata ha anche un valore sostanziale: non solo non si può impugnare la sentenza, ma, se in essa è stato riconosciuto il mio diritto di proprietà o di credito, ciò non può formare più oggetto di riesame tra me e l’altra parte in futuri processi.
Se non viene adempiuto il comando contenuto nella sentenza, colui a cui favore è stato emesso può iniziare il processo esecutivo. Esso può avere per oggetto la consegna di una cosa mobile o il rilascio di un immobile (art.2930 c.c.), se non è adempiuto l’obbligo di consegnare l’una o l’altro. Se, invece, non è adempiuto un obbligo di fare, l’avente diritto può ottenere solo che esso sia eseguito a spese dell’obbligato, tranne che si tratti di un facere infungibile, nel qual caso può soltanto ottenere il risarcimento del danno.
Se non è stato adempiuto un obbligo di non facere, l’avente diritto può ottenere la distruzione a spese dell’obbligato (art.2933 c.c.).
La forma più importante di processo esecutivo è l’espropriazione dei beni del debitore, nel caso che egli non adempia l’obbligazione di pagare una somma di danaro (espropriazione forzata).
Il pignoramento, invece, è l’atto con il quale si assoggetta il bene all’azione esecutiva. L’art.2913 c.c. stabilisce che non hanno effetto, in pregiudizio del creditore pignorante e dei creditori che intervengono nell’esecuzione, gli atti di alienazione dei beni sottoposti a pignoramento.
Tutte le volte che su una circostanza vi sia divergenza tra le parti, il giudice è tenuto, per poter arrivare a definire la lite, a scegliere tra le contrapposte versioni.
Nel giudizio civile, sono le parti che devono preoccuparsi di indicare quali siano i mezzi di prova, ossia gli elementi in base ai quali ciascuna di esse ritiene che la propria versione dei fatti litigiosi risulti più convincente di quella della controparte. Al giudice spetta valutare anzitutto se i mezzi di prova che le parti offrono siano ammissibili, cioè conformi alla legge; e rilevabili, cioè abbiano ad oggetto fatti che possano influenzare la decisione della lite. Dopo aver ammesso e assunto le prove, egli valuterà, con la sentenza, la loro concludenza, ossia la loro idoneità o meno a dimostrare i fatti sui quali vertevano.
In ogni caso, comunque, il giudice deve motivare la sua decisione, spiegando le ragioni del suo convincimento.
Può darsi che, riguardo ai fatti oggetto di opposte versioni delle parti, nel processo siano del tutto mancanti mezzi di prova. In questo caso, il giudice, non potendo rifiutarsi di decidere, dovrà per forza scegliere una soluzione.
La regola do giudizio che il legislatore gli offre si chiama “onere della prova” (art.2697 c.c.): in ordine a ciascun fatto grava sempre su una sola delle parti l’onere di persuadere il giudice, ossia, se il giudice non considera convincente o provata la versione offerta dalla parte gravata dall’onere, dovrà dare ragione, su quel punto, alla controparte, anche se consideri parimenti non convincente la versione che a quel fatto è stata data da quest’ultima. L’onere della prova, quindi, è una regola da applicare al termine del giudizio, risolvendosi nel rischio che sia accolta la versione sostenuta dalla controparte, se il soggetto gravato dall’onere non riesce ad offrire al giudice elementi di prova sufficientemente convincenti.
Per mezzo di prova s’intende qualsiasi elemento idoneo ad influenzare la scelta che il giudice deve fare per stabilire quale tra le contrapposte versioni di un fatto sostenute dalle parti in lite sia più convincente.
Il principio fondamentale è quello della loro libera valutazione da parte del giudice. Ci sono però, anche prove legali, la cui rilevanza è già predeterminata dalla legge, cosicchè il giudice non ha alcuna discrezionalità nel valutarle. I mezzi di prova si distinguono in due specie: prova precostituita o documentale(atto pubblico, scrittura privata), detta precostituita perché esiste già prima del giudizio; e prova costituenda (prova testimoniale, confessioni, presunzioni, giuramenti), detta costituenda perché deve formarsi nel corso del giudizio.
Per “documento” s’intende ogni cosa idonea a rappresentare un fatto, in modo da consentirne la presa di conoscenza a distanza di tempo.
Importanza preminente tra i documenti, rivestono l’atto pubblico e la scrittura privata:
L’atto pubblico è il documento redatto, con particolari formalità stabilite dalla legge, da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuire all’atto quella particolare fiducia nella sua veridicità che si chiama “pubblica fede” (art.2699 c.c.). L’atto pubblico fa piena prova della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha sottoscritto e di tutto quanto egli attesta essere avvenuto alla sua presenza (art.2700 c.c.). Con ciò significa che il giudice è vincolato a considerare senz’altro vere le circostanze, senza che siano possibile alternative, dubbi o controprove. Se una parte intende contrastare tale speciale forza probatoria privilegiata deve fare necessariamente ricorso ad un particolare procedimento che si avvia mediante una querela di falso: ossia mediante la richiesta che il giudice accerti, invia separata rispetto al processo in cui il documento è prodotto e se ne chiede l’utilizzazione, che quel documento è in realtà oggettivamente falso.
Scrittura privata è qualsiasi documento che risulti sottoscritto da un privato. Quest’ultimo, con la sua firma, si assume la paternità del testo e, quindi, la responsabilità in quanto in esso sia dichiarato. La scrittura privata, proprio perché non proviene da un pubblico ufficiale, non ha la stessa efficacia probatoria dell’atto pubblico. Essa, infatti, fa prova soltanto contro chi ha sottoscritto il documento e non a suo favore. Se, invece, la sottoscrizione è autenticata o è riconosciuta, essa, come l’atto pubblico fa piena prova legale fino a querela di falso, ma della sola provenienza delle dichiarazioni di chi ha sottoscritto. Elemento importante della scrittura privata è la data, ossia l’indicazione del giorno in cui la scrittura è stata sottoscritta.
La testimonianza (detta anche prova orale) è la narrazione fatta al giudice di una persona estranea alla causa in relazione a fatti controversi di cui il teste abbia conoscenza.
La prova testimoniale incontra limiti legali di ammissibilità:
Quando la forma (atto scritto o atto pubblico) è richiesta ad substantiam, essa costituisce un elemento essenziale del negozio, cosicchè ove il requisito formale non sia osservato l’atto è irrimediabilmente nullo.
Il legislatore impone alla parte l’onere di custodire il documento onde poterlo in qualsiasi momento, esibire al giudice: altrimenti, mancando il documento o, in alternativa, la prova della sua perdita incolpevole, il giudice deve presumere che esso non sia mai stato formato.
Diversa è la situazione, invece, quando l’osservanza di una forma sia stabilita ad probationem tantum. In tal caso, infatti, l’atto compiuto senza l’osservanza della forma stabilita dalla legge non è nullo l’unica conseguenza della inosservanza della forma è il divieto della forma testimoniale.
Le parti che pongono in essere un contratto simulato si premuniscono: quando fanno il contratto per iscritto, si scambiano una controdichiarazione scritta, nella quale si dichiarano reciprocamente che il contratto apparente non è da esse effettivamente voluto e che esse o non hanno voluto concludere alcun contratto (simulazione assoluta) oppure hanno voluto concludere un contratto diverso (simulazione relativa). Supponiamo che questa dichiarazione non sia stata fatta o sia andata perduta, è ammissibile che si chieda di provare la simulazione mediante testimoni e presunzioni in due casi: che la simulazione sia dedotta da terzi; o in cui essa sia fatta valere da una delle parti contro l’altra. I terzi non sono soggetti alle restrizioni che sono stabilite per la prova testimoniale e per le presunzioni, sia perché essi non si potevano procurare la prova scritta della simulazione, sia perché le restrizioni alla prova testimoniale si riferiscono ai contratti e non ai fatti e valgono, perciò, di fronte ai contraenti per i quali il contratto assume valore soltanto di semplice fatto. Per quanto riguarda l’ammissibilità della prova tra i contraenti, bisogna distinguere tra l’ipotesi in cui la prova sia diretta a far valere l’illiceità del contratto dissimulato e quella in cui quest’ultimo non sia illecito. Nel primo caso la prova per testimoni e per presunzioni è ammessa senza limiti, nella seconda ipotesi valgono le limitazioni stabilite dalla legge per la prova testimoniale.
Per presunzione (o prova indiretta) si intende ogni argomento, illazione, attraverso cui, essendo già provata una determinata circostanza (c.d. fatto base o indizio), si giunge a considerare provata altresì un'altra circostanza, sfornita di prova diretta (così ad es., dalla circostanza che sia decorso già un certo periodo di tempo dal momento in cui si poteva pretendere il pagamento di certi debiti, per i quali doveva avvenire entro breve tempo, si trae la presunzione che il debito sia già stato pagato o comunque si sia già estinto, sebbene manchino prove dirette del pagamento o del verificarsi di un'altra causa di estinzione dell’obbligo: prescrizione presuntiva).
Le presunzioni si dicono legali quando è la stessa legge che attribuisce ad un fatto, valore di prova in ordine ad un altro fatto, che quindi viene presunto (es. presunzione che chi ha il possesso di una cosa altrui sia in buona fede).
Le presunzioni legali, a loro volta, possono essere assolute e non ammettono prova contraria; o relative ed ammettono prova contraria.
Le presunzioni si dicono invece semplici quando non sonoprestabilite dalla legge, ma sono lasciate al prudente apprezzamento del giudice, il quale non deve ritenere provato un fatto, di cui manchino prove dirette, se non quando ricorrano indizi gravi, precisi e concordanti (art.2729 c.c.).
La confessione è la dichiarazione che la parte fa della verità di fatti a sé sfavorevoli e favorevoli all’altra parte. Essa è giudiziale, se resa in giudizio e, in questo caso, fa piena prova (artt.2730, 2732, 2733 c.c.).; stragiudiziale, se resa fuori dal giudizio. Se la confessione stragiudiziale è fatta alla parte o al suo rappresentante, ha lo stesso valore di quella giudiziale; se è fatta ad un terzo, può essere apprezzata liberamente dal giudice (art.2735 c.c.). A differenza della giudiziale, la confessione stragiudiziale deve essere, a sua volta, dimostrata.
La confessione si dice qualificata quando la parte riconosce la verità dei fatti a sé sfavorevoli, ma vi aggiunge altri fatti o circostanze tendenti ad infirmare l’efficacia del fatto confessato ovvero a modificarne o ad estinguerne gli effetti. In questo caso bisogna distinguere: a) se l’altra parte non contesta la verità dei fatti o delle circostanze aggiunte, le dichiarazioni fanno piena prova nella loro integrità; b) se l’altra parte contesta è rimesso al giudice di apprezzare, secondo le circostanze, l’efficacia probatoria delle dichiarazioni (art.2734 c.c.).
Il giuramento è un mezzo di prova di cui si può chiedere l’acquisizione nel corso di un giudizio civile. Il c.c. prevede (art.2736) due tipi di giuramento: il decisorio e il suppletorio. Quello decisorio si chiama così perché deve riguardare circostanze che abbiano valore decisorio in ordine ad una quaestio facti su cui il giudice è chiamato a pronunciarsi, cosicchè l’esito del giuramento preclude ogni ulteriore accertamento al riguardo.
Il giuramento è ammissibile solo quando (art.2739 c.c.) sia relativo ad un fatto proprio della parte cui è definito, ovvero quando sia relativo alla conoscenza che essa ha di un fatto altrui..
Se la parte si rifiuta di giurare o non si presenta, senza giustificato motivo, all’udienza fissata, la sua versione del fatto non può più essere considerata vera dal giudice. Se invece presta il giuramento, il giudice deve definitivamenteconsiderare vera la sua affermazione e decidere in conformità la questione per la quale il giuramento è stato ammesso.
Il giuramento non è ammissibile quando si tratti: a) di diritti indisponibili (es. questioni di stato); b) di fatto illecito; c) di atto per cui sia richiesta la forma scritta ad substantiam; d) di contestare l’attestazione, contenuta in un atto pubblico, che un determinato fatto è alla presenza del pubblico ufficiale che lo ha firmato.
Il giuramento suppletorio può essere deferito in base ad un potere discrezionale dello stesso giudice, quando questi si trovi di fronte ad un fatto rimasto incerto, ma per il quale la parte che aveva l’onere di provarlo abbia fornito elementi abbastanza rilevanti, sebbene non definitivamente persuasivi: in tal caso il giudice può offrirle di perfezionare la prova, già quasi raggiunta, confermando con il giuramento che i fatti affermati sono veri.
Una particolare specie di giuramento suppletorio è il giuramento estimatorio, che può essere deferito per stabilire il valore di una cosa quando non sia possibile accertarlo diversamente.
I diritti della personalità sono diritti assoluti, inerenti ad attributi essenziali della personalità: essi perciò si dicono essenziali o necessari, perché non possono mai mancare. Essi, inoltre, non si possono perdere: sono indisponibili, intrasmissibili agli eredi, si acquistano con la nascita e si estinguono con la morte. Essi non anno carattere patrimoniale, salvo il diritto al risarcimento dei danni in caso di loro violazione.
Con la legge 31.12.96, n.676 (Delega al Governo in materia di tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali) si è attribuito al singolo un diritto all’autodeterminazione informativa: occorre il consenso dell’interessato per la legittimità del trattamento di qualunque suo dato personale.
Inoltre al relativo potere di controllo individuale è stato affiancato uno strumento istituzionale, nella forma di una Autorità Garante, organo indipendente al quale è stata affidata una sorta di “governo” del settore, nell’ottica di vigilare affinchè il nuovo diritto sia rispettato.
Per l’art.32 Cost. ”La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. Conseguentemente spetta al singolo sia il diritto di esercitare ogni legittima difesa contro qualsiasi aggressore, sia il diritto di pretendere il risarcimento di qualsiasi danno subìto per effetto di atti lesivi del bene della vita o della incolumità personale. Lo stesso articolo, afferma, inoltre, che “nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”: ma un trattamento sanitario può diventare obbligatorio solo dove si tratti di neutralizzare una malattia diffusa considerata pericolosa per le sorti della collettività e di ciascun individuo.
La legge 25.02.92 n.210 prevede un indennizzo a carico dello Stato a favore dei soggetti che siano “danneggiati da complicazioni di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni, somministrazioni di emoderivati “. Il singolo può acconsentire a diminuzioni transitorie della propria integrità fisica (es. trasfusione di sangue), ma sono vietati (art.5 c.c.) atti di disposizione del proprio corpo quando cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica (es. un espianto di un organo).
La legge 01.04.99 n.191 (Disposizioni in materia di prelievi e di trapianti di organi e di tessuti), consente, esclusivamente allo scopo di provvedere a trapianti terapeutici, il prelievo di organi e di tessuti, purchè da un soggetto di cui sia stata accertata la morte e che abbia previamente concesso il suo assenso ( che può anche solo essere presunto, dove il cittadino non abbia espresso volontà contraria). Il prelievo deve essere effettuato in modo da evitare mutilazioni non necessarie e dopo il prelievo il cadavere deve essere ricomposto con la massima cura. Gli espianti devono essere finalizzati a trapianti a favore di soggetti che ne abbiano necessità, assicurando, per la relativa scelta, criteri di trasparenza e di pari opportunità tra i cittadini. Le parti staccate del proprio corpo (unghie, capelli, denti), diventano beni autonomi dal momento del distacco.
L’accertamento della morte richiede la verifica della cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo.
Sotto il punto di vista dell’integrità morale, ha importanza il diritto all’onore, protetto oltre che sul piano penale, anche sul piano civile , specie con l’obbligo di risarcire alla vittima ogni danno arrecato illecitamente, compresi quelli c.d. “non patrimoniali” o morali (art.2059 c.c.).
A ciascuno va anche riconosciuto il diritto di escludere ogni invadenza estranea nella sfera della propria intimità personale e familiare (c.d. diritto alla riservatezza).
Infine è tutelato il diritto alla propria immagine (art.10 c.c.), intendendosi per tale sia le sembianze fisiche del soggetto che possono essere riprese da un ritratto, sia le caratteristiche individuanti di una persona che possono risultare da una rappresentazione cinematografica o televisiva.
Per l’art.10 c.c., qualora l’immagine di una persona sia esposta o pubblicata senza il consenso di questa, l’autorità giudiziaria può disporre che cessi l’abuso (azione inibitoria), oltre al diritto del soggetto leso al risarcimento degli eventuali danni.
Tuttavia non occorre il consenso dell’interessato quando la riproduzione dell’immagine è giustificata dalla notorietà o dall’ufficio pubblico coperto, da necessità di giustizia o di polizia, da scopi scientifici o culturali, ovvero, quando la riproduzione è collegata a fatti di interesse pubblico o svoltisi in pubblico.
Peraltro il ritratto non può essere esposto o messo in commercio in nessun caso qualora ciò rechi pregiudizio all’onore, alla reputazione od anche al decoro della persona ritrattata.
Di regola il diritto reale attribuisce al titolare il potere di utilizzare il bene. Ma ciò non accade nelle servitù negative e nei diritti reali di garanzia (pegno, ipoteca), nei quali il titolare del diritto non ha alcun potere di utilizzare la cosa.
Viceversa, vi sono diritti di utilizzazione della cosa (come ad es. quelli che spettano al locatario) che non costituiscono diritti reali, in quanto non sono opponibili erga omnes.
Conseguenza dell’assolutezza che li caratterizza è pure il c.d. diritto di seguito o di sequela di cui i diritti reali beneficiano.
I diritti reali sono caratterizzati dalla tipicità. Vale a dire che mentre i privati sono liberi di concludere, nella loro autonomia negoziale (art.1322 c.c.), qualsiasi tipo di contratto a contenuto obbligatorio, anche diverso dai tipi legali (contratti atipici), non sono liberi di costituire diritti reali diversi da quelli espressamente disciplinati dal c.c. ciò dipende proprio dalla assolutezza che caratterizza i diritti reali.
Tra i diritti reali bisogna distinguere la proprietà dai diritti reali parziali o frazionari.
Al proprietario competono sia il potere di utilizzazione diretta della cosa (c.d. potere di godimento), sia il potere di appropriarsi del valore di scambio del bene (c.d. potere di disposizione).
I diritti reali parziali si distinguono in diritti reali di godimento (usufrutto, enfiteusi, uso, abitazione, servitù, superficie), se attribuiscono al titolare il diritto di conseguire direttamente dal bene determinati vantaggi; e in diritti di garanzia (pegno, ipoteca), se attribuiscono al titolare il potere di farsi assegnare con prelazione rispetto agli altri creditori il ricavato dell’alienazione forzata del bene, in caso di mancato adempimento dell’obbligo garantito.
Con la Cost. repubblicana del 1948, la proprietà non è più dichiarata “inviolabile” o “intangibile”. L’art.42 Cost. dichiara che la proprietà è pubblica o privata., ed impone al legislatore “di assicurare la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”. Inoltre, dichiara che la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge.
L’art.832 c.c. afferma che il proprietario “ha diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo”. Secondo questa definizione il diritto del proprietario si caratterizzerebbe per la sua assolutezza e per la sua esclusività, con divieto di ogni ingerenza della collettività in ordine alle scelte che il proprietario si riserva di effettuare con totale arbitrio e discrezionalità; per la sua imprescrittibilità (art.948.3 c.c.); per la sua perpetuità.
Pertanto al proprietario vanno riconosciuti:
Oggi, il fenomeno dell’urbanizzazione ha posto l’esigenza di assicurare un’abitazione dignitosa a tutti i lavoratori. Un primo passo in questa direzione fu compiuto con la legge urbanistica del 1942, che facilitò la formulazione di piani regolatori comunali e la rese obbligatoria per i comuni compresi in appositi elenchi, restando facoltativa per gli altri. Tale legge consentiva ai piani regolatori comunali, attraverso i vincoli di zonizzazione, “dove e cosa” si può fare sul territorio, ma “non in quale ordine e a spese di chi” gli interventi dovevano realizzarsi. La legge consente, infatti, di indicare le zone industriali e la relativa densità, le industrie, gli uffici, i servizi; ma non esprime densità abitative massime e le quantità minime di servizi, né se tali servizi devono far carico alla proprietà dei suoli o ai Comuni.
Dopo numerosi altri interventi legislativi si giunse alla legge 21.01.77 n.10 (c.d. legge Bucalossi), con la quale da un lato si subordinava qualsiasi costruzione ad una previa concessione comunale, che può essere lasciata solo se la costruzione è conforme alle previsioni del piano, e dall’altro si subordina il rilascio della concessione , al pagamento di un contributo, che deve servire ai Comuni per provvedere alle indispensabili opere di urbanizzazione primaria (strade, parcheggi, fognature) e secondaria (asili nido, scuole materne e dell’obbligo, chiese).
Il sistema avrebbe dovuto completarsi obbligando le autorità comunali a programmare lo sviluppo urbanistico del comune in un arco temporale dai 3 anni ai 5 anni (attraverso programmi pluriennali di attuazione), ed obbligando a loro volta i privati a realizzare le previsioni di tali programmi nei tempi fissati, a pena di subire l’espropriazione delle aree interessate. Questa non ha però avuto successo.
Nonostante i vari provvedimenti assunti, è sempre stato vasto il fenomeno dell’abusivismo edilizio. Per porvi termine, la legge 28.02.83 n.47, ha disposto una eccezionale ampia sanatoria delle opere illegittimamente realizzate fino al 1983, purchè i privati interessati facessero domanda di condono, pagando una proporzionale oblazione pecuniaria.
Per l’attuazione di opere pubbliche, di programmi di edilizia economica o di razionale sfruttamento del suolo, lo Stato può ricorrere alla espropriazione, ossia ad un trasferimento coattivo (ablazione) di beni oggetto della proprietà di privati a favore del soggetto che dovrà provvedere alla realizzazione dell’opera o del programma (Regioni, Province, Comuni, o anche privati). L’art.42.3 Cost. dispone che la proprietà privata può essere, nei casi previsti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale. Il concetto di espropriazione è stato esteso anche a provvedimenti non ablatori, ma che pur non determinando per il proprietario la perdita del diritto, non incidono in modo sostanziale sui suoi poteri di godimento e quindi, sul valore economico del bene. Tuttavia la Corte ha costruito la nuova figura delle c.d. “espropriazioni anomale o limitazioni espropriative”, ritenendo illegittime le norme che, non riguardando intere categorie di beni, consentano di porre ai singoli cespiti, limiti tali da incidere sulla sostanza del diritto di proprietà, secondo la valutazione di ciascun determinato momento storico.
Si escluse la sussistenza di una espropriazione tutte le volte in cui la legge prevede l’imposizione di limitazioni o di vincoli ad una intera categoria di beni, definiti a priori, per caratteristiche intrinseche: così è stata considerata legittima l’imposizione di vincoli a tutela di bellezze naturali (c.d. vincoli paesaggistici), di parchi nazionali, di beni avente valore storico, artistico o archeologico, di collezioni, di autostrade…
Per quanto riguarda i criteri da adottare per la determinazione dell’indennizzo da corrispondere al soggetto che subisce l'esproprio, la Corte costituzionale ha escluso che si conceda un integrale risarcimento del pregiudizio economico conseguente all’esproprio. Pertanto è stato ritenuto che legittimamente si possa prevedere un indennizzo non consistente nel valore venale (o di mercato) che il bene aveva prima del provvedimento che lo ha colpito, o che avrebbe avuto se questo provvedimento non fosse intervenuto.
Notevole rilevanza ha acquistato la c.d. occupazione espropriativa, che ricorre quando, a seguito di legittima dichiarazione di pubblica utilità di un’opera, il fondo espropiando viene occupato e vi si realizza l’opera pubblica programmata, senza peraltro che, entro il quinquennio, si provveda ad emanare il necessario decreto di esproprio. In tal caso, l’irreversibile trasformazione del bene comporta la perdita della proprietà per il privato ed un corrispondente acquisto a titolo originario del bene trasformato in favore della Pubblica Amministrazione, la quale, però, deve risarcire il privato per il danno arrecatogli con il suo comportamento illegittimo.
Gli atti di emulazione, sono quegli atti che hanno lo scopo di nuocere o di arrecare molestia ad altri (art.833 c.c.). perché l’atto sia vietato, occorrono due elementi: l’uno oggettivo (assenza di utilità per il proprietario); l’altro soggettivo (l’intenzione di nuocere o arrecare molestia ad altri).
I limiti posti dall’ordinamento giuridico alla proprietà si distinguono in due grandi categorie: a) limiti posti nell’interesse pubblico; b) limiti posti nell’interesse privato. L’art.44 Cost. prevede l’imposizione di obblighi e di vincoli alla proprietà terriera privata e la fissazione di limiti alla sua estensione, al fine di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali. Di recente si è accentuata la preoccupazione di proteggere più efficacemente il territorio, le acque, i boschi…, movimento che sta sfociando in numerosi provvedimenti che si spera possano arrestare il fenomeno di degradazione dell’ambiente. Nel vasto campo dei limiti pubblici alla proprietà ricordiamo: le distanze legali di ogni tipo di costruzione da strade, ferrovie, alberi…(c.d. zone di rispetto); le imposizioni sul fondo per assicurare l’utilità alle pubbliche amministrazioni (ad es. per i segnali stradali…); l’imposizione di servitù pubbliche (ad es. di non edificare nei pressi di aereoporti…); i vincoli forestali, idrogeologici, quelli di bonifica.
I limiti posti nell’interesse privato riguardano la proprietà immobiliare e regolano i rapporti tra le proprietà vicine (rapporti di vicinato). Le limitazioni legali del diritto di proprietà costituiscono, dal lato passivo, obbligazioni, negative (di non fare) o positive (di fare), di carattere reale, incombenti sul proprietario come tale: egli, cioè, è obbligato perché è proprietario della cosa. Questi limiti riguardano:
vedute o prospetti, sono quelle finestre che permettono di affacciarsi e guardare di fronte (vedute dirette), obliquamente (vedute oblique) o lateralmente (vedute laterali);
La proprietà si estende in linea verticale, teoricamente all’infinito, cioè nel sottosuolo e nello spazio soprastante al suolo. In senso orizzontale, ciascuna proprietà immobiliare si estende nell’ambito dei propri confini. L’accesso di terzi al fondo non può essere impedito (artt.842, 843, 924-926 c.c.) per l’esercizio della caccia, nell’ambito delle leggi speciali che regolano l’attività venatoria, per costruire o riparare un muro o altra opera, per riprendere una cosa o un animale, …
Le immissioni materiali riguardano cose o persone. Quelle immateriali (fumo, calore, rumori…) non sono conseguenza di una intrusione nella sfera altrui, ma di quanto ciascuno fa in casa propria, ma che, peraltro, si propaga inevitabilmente anche sui fondi vicini. L’art.844 c.c. dispone che ciascun proprietario non può opporsi alle immissioni che non superano la normale tollerabilità. In nessun caso, peraltro, sono giustificabili immissioni che non solo superano la normale tollerabilità, ma risultano addirittura intollerabili.
Per l’art.922 c.c. la proprietà si acquista “per occupazione, invenzione, accessione, specificazione, unione, usucapione, successione a causa di morte, per effetto di contratti e negli altri modi stabiliti dalla legge”.
Tra i modi di acquisto della proprietà, distinguiamo quelli a titolo originario (nascita di un diritto nuovo)e quelli a titolo derivativo (cioè la successione dello stesso diritto è già appartenente ad un altro soggetto, per cui gli eventuali vizi che inficiavano il titolo d’acquisto del precedente proprietario si riversano anche sul successore).
Modi di acquisto a titolo originario:
a) l’occupazione; presa di possesso delle cose mobili che non sono in proprietà di alcuno;
b) l’invenzione; riguarda le cose smarrite che devono essere restituite al proprietario o al sindaco (art.927 c.c.), altrimenti si commette il delitto di appropriazione indebita di cose smarrite. Trascorso un anno, se la cosa è stata consegnata al sindaco e non si presenta il proprietario, la proprietà spetta a colui che l’ha trovata. Se, invece, si presenta il proprietario, questi deve al ritrovatore un premio proporzionale al valore della cosa o all’entità della somma smarrita (artt.929-930 c.c.). una particolare forma di invenzione è quella che riguarda il tesoro, cosa mobile di pregio, nascosta e sotterrata, di cui nessuno può provare di essere proprietario. Esso appartiene al proprietario del fondo in cui si trova, ma, se è trovato per caso nel fondo altrui, spetta per metà al proprietario e per metà al ritrovatore (art.932 c.c.);
Azioni a difesa della proprietà sono:
L’attore ha l’onere di dimostrare il suo diritto (art.2697 c.c.); perciò, se l’acquisto non è a titolo originario, ha l’onere di dare la prova del suo titolo di acquisto dei precedenti titolari fino ad arrivare ad un acquisto a titolo originario. A voler andare all’infinito, la prova sarebbe, se non addirittura impossibile, estremamente difficile. Soccorrono, pertanto, due istituti. Rispetto agli immobili è sufficiente che l’attore, unendo al tempo per cui è durato il suo possesso quello dei suoi autori , provi il possesso continuato per 20 anni (art.1158 c.c.), che egli avrebbe in ogni caso fatto acquistare per usucapione la proprietà sulla cosa. Se si tratta di beni mobili è sufficiente che l’attore abbia, a suo tempo, ricevuto in buona fede ed in base ad un titolo idoneo al trasferimento della proprietà (art.1153 c.c.) il possesso del bene;
Tutte queste si chiamano azioni petitorie per distinguerle da quelle a tutela del possesso (possessorie).
Caratteristica comune ai diritti reali di godimento consiste nel fatto che essi comprimono il potere di godimento che spetta al proprietario. Essi sono la superficie, l’enfiteusi, l’usufrutto, l’uso, l’abitazione, la servitù.
La superficie consiste o nel diritto di costruire, al di sopra del suolo altrui, un’opera, di cui il superficiario, quando l’abbia realizzata, acquista la proprietà; o nel diritto di mantenere una costruzione già esistente, di cui il superficiario acquista la proprietà separatamente dalla proprietà del suolo, che resta al concedente. Una separazione analoga si può stabilire per il sottosuolo (art.955 c.c.) ma non per le piantagioni (art.956 c.c.).
Fino a quando la costruzione non sia stata eseguita, il diritto, che il proprietario del suolo ha concesso, limita il potere del proprietario del suolo e l’estensione della sua proprietà in senso verticale: è un diritto reale su cosa altrui, che si estingue se il titolare non costruisce per 20 anni (art.954.4 c.c.).
L’estinzione della superficie o per decorso del termine o per altra ragione, dà luogo all’acquisto della proprietà della costruzione da parte del proprietario del suolo (art.953 c.c.).
Il titolare del diritto di superficie (superficiario) ha la libera disponibilità della costruzione che è una proprietà separata: può alienarla e costituire su di essa diritti reali, ma, se il diritto di superficie fu costituito a tempo determinato, la scadenza del termine, facendo venir meno il diritto del superficiario, segna l’estinzione anche di questi diritti.
L’enfiteusi attribuisce alla persona a cui favore è costituita lo stesso potere di godimento del proprietario, salvo l’obbligo di migliorare il fondo e di pagare al proprietario concedente un canone periodico (art.960 c.c. che può consistere in danaro o in una quantità fissa di prodotti naturali) che non può superare limiti massimi fissati. Questo potere di godimento, che spetta all’enfiteuta, si chiama dominio utile; al proprietario o concedente compete il dominio diretto che si riduce a ben poca cosa (il diritto al canone).
Il diritto dell’enfiteuta si estingue per non uso (art.970 c.c.) e il diritto di proprietà non si estingue per prescrizione estintiva.
L’enfiteusi può essere perpetua o a tempo (ma non può mai avere durata inferiore a 20 anni). L’enfiteusi può essere costituita mediante titolo (contratto o testamento) o per usucapione.
Tra le norme inderogabili, vi è la facoltà dell’enfiteuta di disporre del proprio diritto, sia per atto tra vivi sia per atto di ultima volontà (art.965 c.c.), ed in caso di alienazione del suo diritto, l’enfiteuta non è tenuto ad alcuna prestazione a favore del concedente. Inoltre, vi è il divieto di subenfiteusi (art.968 c.c.), perché questa potrebbe dar luogo a speculazioni che il legislatore ha voluto evitare proponendosi, invece, di realizzare con l’istituto il fine del miglioramento dei fondi.
Per effetto dell’esercizio del potere di affrancazione, l’enfiteuta diventa proprietario del fondo mediante il pagamento di una somma corrispondente a 15 volte il canone annuo. Se il concedente si rifiuta di aderire alla dichiarazione di affrancazione fatta dall’enfiteuta, costui può rivolgersi al giudice ed ottenere una sentenza costitutiva che pronuncia l’affrancazione.
Un potere inverso spetta al concedente: il diritto alla devoluzione. Per effetto di questa, il diritto di proprietà del concedente, che era ristretto durante l’enfiteusi, riprende la sua primitiva ampiezza. La devoluzione può domandarsi per una delle seguenti ragioni:
L’estinzione dell’enfiteusi si verifica:
La legge, allo scopo di incoraggiare l’enfiteuta a praticare migliorie sul fondo, gli accorda il diritto di ottenere dal concedente il rimborso dell’aumento di valore conseguito dal fondo (art.975 c.c.) nei casi nei quali, come ad es. la devoluzione, il fondo ritorna nella piena proprietà del concedente.
L’art.975 c.c. distingue tra miglioramenti che aumentano il reddito senza assumere carattere di opere aventi una propria individualità, e addizioni che sono opere fatte sul fondo dall’enfiteuta che conservano la propria individualità.
L’usufrutto consiste nel diritto di godere della cosa altrui con l’obbligo di rispettarne la destinazione economica (art.981 c.c.). E, cioè, l’usufruttuario può trarre dalla cosa tutte le utilità che ne può trarre il proprietario, ma se, per es. , l’usufrutto ha per oggetto un’area, non può costruirvi, né può trasformare un giardino in un orto,…
L’usufrutto ha durata temporanea: se non è detto nulla nel titolo costitutivo, s’intende costituito per tutta la durata della vita dell’usufruttuario, ed in ogni caso la morte di quest’ultimo determina l’estinzione del diritto anche qualora non fosse ancora scaduto il termine finale previsto al momento della costituzione del rapporto. La durata dell’usufrutto non può essere superiore a 30 anni, se è costituito a favore di una persona giuridica (art.979 c.c.). quando invece è costituito a favore di una persona, il proprietario è spogliato di ogni utilità economica fino all’estinzione dell’usufrutto (nuda proprietà).
Il quasi usufrutto ha per oggetto beni consumabili, la cui proprietà passa all’usufruttuario, salvo l’obbligo di restituire non gli stessi beni ricevuti, ma altrettanti dello stesso genere (art.995 c.c.). dai beni consumabili, si distinguono i beni deteriorabili, cioè quelli che possono formare oggetto di un uso ripetuto, che ne diminuisce il valore, ma non li distrugge: l’usufruttuario ha diritto di servirsene secondo l’uso al quale sono destinati. Alla fine dell’usufrutto, l’usufruttuario è tenuto a restituirli nello stato in cui si trovano (art.996 c.c.).
Modi di acquisto dell’usufrutto possono essere o la legge (usufrutto legale dei genitori sui beni dei figli minori) o la volontà dell’uomo (contratto, testamento,…) o l’usucapione (art.1158 c.c.).
Quanto alla costituzione dell’usufrutto volontario, gli atti che costituiscono l’usufrutto su beni immobili devono farsi per iscritto (art.1350.2 c.c.) e sono soggetti a trascrizione (art.2643.2 c.c.).
I diritti dell’usufruttuario sono:
L’usufruttuario può anche dare in locazione le cose che formano oggetto del suo diritto (art.999 c.c.). Le locazioni dovrebbero estinguersi quando si estingue l’usufrutto, ma quelle in corso al momento della cessazione dell’usufrutto possono proseguire per la durata stabilita, ma a condizione che la locazione e la sua durata risultino da atto pubblico o da scrittura privata con data certa, ed in ogni caso per non oltre 5 anni dalla cessazione dell’usufrutto. Peraltro, se l’estinzione dell’usufrutto si verifica per effetto della scadenza del termine fissato per la sua durata, la locazione non può durare se non per l’anno in corso (art.999 c.c.).
L’usufruttuario ha il dovere di restituire la cosa al termine del suo diritto (art.1001 c.c.); è inoltre tenuto ad usare la diligenza del buon padre di famiglia nel godimento della cosa (art.1001.2), a fare l’inventario e a prestare garanzia (art.1002, 1003 c.c.). egli è anche tenuto alle spese relative alla custodia, all’amministrazione, alla manutenzione ordinaria della cosa, alle imposte, ai canoni, alle rendite fondiarie e agli altri pesi che gravano sul reddito (art.1008 c.c.). Sono, invece, a carico del proprietario le riparazioni straordinarie, cioè, in genere quelle che superano i limiti della conservazione della cosa e delle sue utilità per la durata della vita umana.
L’estinzione dell’usufrutto si verifica:
L’uso e l’abitazione sono tipi limitati di usufrutto. L’uso consiste nel diritto di servirsi di un bene e, se è fruttifero, di raccogliere i frutti limitatamente ai bisogni propri e della propria famiglia (art.1021 c.c.); l’abitazione nel diritto di abitare una casa limitatamente ai bisogni propri e della propria famiglia (art.1022 c.c.). I due diritti si distinguono dall’usufrutto solo sotto l’aspetto quantitativo: l’usuario ha le stesse facoltà dell’usufruttuario, ma solo entro il limite indicato. I due diritti non si possono cedere o dare in locazione. Essi si estinguono con la morte del titolare: pertanto, non possono formare oggetto di disposizione testamentaria.
204 Natura
La servitù prediale consiste nel peso imposto sopra un fondo (fondo servente) per l’utilità di un altro fondo (fondo dominante), appartenente a diverso proprietario (art.1027 c.c.).
L’utilità può essere anche rivolta ad un edificio da costruire o ad un fondo da acquistare (art.1029 c.c.).
Il c.c. esclude le c.d. servitù irregolari o personali, in cui il servizio è prestato da un fondo a favore di una persona.
Principi fondamentali in materia di servitù sono:
Nei casi in cui il proprietario del fondo servente è tenuto, in forza del titolo, ad una prestazione positiva, non si ha un unico rapporto giuridico, ma si hanno due rapporti distinti: a) il rapporto reale di servitù; b) un rapporto obbligatorio congiunto con quello reale ed accessorio rispetto ad esso.
Le servitù si distinguono in:
La costituzione delle servitù può avvenire in due modi:
la costituzione può avere luogo anche per effetto dell’usucapione e della destinazione del padre di famiglia.
L alcuni casi, la legge, in vista della situazione nella quale si trova un fondo, si preoccupa del pregiudizio che essa arreca alla produttività dell’immobile e attribuisce al proprietario il diritto potestativo di ottenere l’imposizione della servitù sul fondo altrui e così ovviare alla situazione pregiudizievole. In corrispettivo del sacrificio che subisce, il proprietario del fondo, su cui si è imposta la servitù, ha diritto ad una indennità (art.1032 c.c.). Questa servitù, che viene imposta dalla legge al proprietario del fondo servente, si chiama servitù coattiva o legale.
Le figure più importanti di servitù legali sono:
Il sacrificio che con l’imposizione della servitù si impone al fondo servente, dev’essere, in tutti i casi, il minore possibile. La via breve dev’essere preferita in quanto sia anche la meno dannosa: ma, se essa recasse un danno maggiore di una più lunga, al criterio della brevità dovrebbe preferirsi quello del minor danno.
Con la cessazione dell’interclusione cessa anche la servitù (art.1055 c.c.).
La servitù può essere imposta anche per testamento (art.1058 c.c.). Il contratto, riferendosi ad un diritto reale immobiliare, deve farsi per iscritto (art.1350.4 c.c.) ed è soggetto, per l’opponibilità ai terzi, a trascrizione (art.2648 c.c.). Anche l’accettazione di eredità che importi l’acquisto di una servitù è soggetta a trascrizione (art.2648 c.c.). Alcune servitù si possono costituire anche mediante usucapione.
Servitù apparenti sono quelle al cui esercizio sono destinate opere visibili e permanenti, destinate all’esercizio della servitù, costituenti il mezzo necessario affinchè la servitù sia esercitata.
L’esercizio delle servitù è regolato dal titolo; se questo manca, dalla legge (art.1063 c.c.).
Si chiama modo di esercizio della servitù, l’elemento che determina come la servitù deve essere esercitata. Le servitù devono essere esercitate soddisfacendo il bisogno del fondo dominante con il minor aggravio del fondo servente (principio del minimo mezzo, art.1065 c.c.).
Le servitù si estinguono:
Le servitù, sono positive, quando attribuiscono al proprietario del fondo dominante il potere di svolgere un’attività nel fondo servente. Negative, sono le servitù che attribuiscono al proprietario del fondo dominante il potere di vietare qualche cosa al proprietario del fondo servente, il quale, è tenuto ad un non facere. In questo caso, la prescrizione non comincia a decorrere se non quando il proprietario del fondo servente ha violato il divieto. Allora il proprietario del fondo dominante reagisce chiamando in giudizio l’altro. Se questa reazione manca, l’inerzia protratta da quel momento per 20 anni conduce all’estinzione del diritto. Se il divieto è violato solo parzialmente, la servitù non si estingue per intero, ma solo limitatamente alle opere per cui non vi è stata reazione.
Le servitù affermative si distinguono a loro volta, in servitù continue e discontinue: nelle prime l’attività dell’uomo è antecedente all’esercizio della servitù; nelle seconde, invece, il fatto dell’uomo deve essere concomitante con l’esercizio della servitù: in tanto esercito la servitù di passaggio in quanto passo sul fondo altrui.
Se la servitù è continua, si riproduce la stessa situazione della servitù negativa (perciò la prescrizione comincia a decorrere se non quando si è verificato un fatto contrario all’esercizio della servitù). Se, invece, la servitù è discontinua, la prescrizione comincia a decorrere dall’ultimo atto di esercizio.
L’impossibilità di fatto di usare la servitù e la cessazione dell’utilità, non fanno estinguere la servitù, perché lo stato del luoghi nuovamente mutare e la servitù risorgere. Si ha in questo caso sospensione della servitù: l’estinzione non si verifica se non quando è decorso il termine per la prescrizione (art.1074 c.c.).
A tutela della servitù c’è l’azione confessoria, con la quale il titolare della servitù chiede che sia accertata, nei confronti di chi la contesta o ne ostacola l’esercizio, l’esistenza del suo diritto e che pertanto siano fatti cessare gli eventuali impedimenti all’esercizio della servitù.
Questa azione ha carattere petitorio e il suo accoglimento presuppone l’accertamento del diritto alla servitù. A tutela dello stato di fatto corrispondente alla servitù possono esperirsi le azioni possessorie di reintegrazione (art.1168 c.c.) e di manutenzione (art.1170 c.c.).
Un diritto soggettivo può appartenere a più persone le quali sono tutte contitolari del medesimo diritto. Quando la contitolarità cade su un diritto reale prende il nome di comunione. Coloro che partecipano alla comunione si chiamano comunisti, o, se si tratta di comproprietà, condomini. Ma la vera comunione è quella pro indiviso, in cui il diritto di ciascuno dei partecipanti investe l’intera cosa. La quota rappresenta la misura del diritto di ciascuno sulla cosa. La comunione è volontaria, quando si costituisce per volontà delle parti, che, d’accordo, acquistano o mettono in comune la proprietà della cosa; è incidentale, quand’essa sorge per volontà della legge.
La comunione è anzitutto regolata dal titolo (art.1100 c.c.). ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purchè non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri di servirsene (art.1102 c.c.); può disporre della sua quota alienandola o ipotecandola (art.1103 c.c.). La legge attribuisce rilievo, per ciò che attiene alla conservazione e all’amministrazione della cosa, alla volontà della maggioranza dei condomini (artt.1105, 1106, 1108 c.c.), le cui deliberazioni vincolano anche coloro che sono dissenzienti (principio maggioritario). La maggioranza non è calcolata in base alle persone, ma in base al valore delle quote. Può anche essere formato un regolamento per l’ordinaria amministrazione ed il miglior godimento della cosa comune. L’amministrazione può essere delegata ad uno o più partecipanti o anche ad un estraneo (amministratore della comunione), il quale nei limiti stabiliti rappresenta i comunisti. Contro gli abusi della maggioranza è attribuita a ciascuno dei componenti la minoranza dissenziente la facoltà d’impugnare la deliberazione davanti al giudice (art.1109 c.c.).
Il condominio negli edifici si verifica quando gli appartamenti, di cui l’edificio consta, non appartengono alla stessa persona, ma a persone diverse. Ciascuna di queste persone è proprietaria esclusiva del proprio appartamento, ma alcune parti dell’edificio appartengono in comunione ai vari condomini.
Il diritto di ciascuno dei condomini e l’obbligo di partecipare alle spese per la manutenzione delle parti comuni sono stabiliti nel titolo: in mancanza, essi corrispondono al valore del piano o della porzione di piano (artt.1118, 1123 c.c.). In genere le quote sono indicate in millesimi. Per tutto ciò che riguarda l’uso e l’amministrazione delle cose comuni sono previsti due organi, uno deliberativo (assemblea dei condomini) e uno esecutivo (l’amministratore). All’assemblea è attribuito il compito di decidere le innovazioni e le opere di manifestazione straordinaria, di stabilire il regolamento di condominio, di approvare il preventivo delle spese, nonché il rendiconto della gestione. All’amministrazione è invece attribuito il compito di curare l’osservanza del regolamento. Egli ha l’obbligo di rendere annualmente il conto della sua gestione. Nei condomini più numerosi è obbligatoria la formazione del regolamento di condominio (art.1138 c.c.). Questo regolamento contiene le norme circa l’uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese ed è approvato dall’assemblea con la maggioranza richiesta. Può essere impugnato davanti al giudice dai condomini dissenzienti (art.1138.3 c.c.). All’assemblea, che è l’organo supremo, si applicano le regole generali che disciplinano il funzionamento degli organi collegiali:
Con l’espressione multiproprietà si intende l’attribuzione ad un soggetto, da parte del proprietario di un bene, di un diritto di utilizzazione di una singola unità ricompresa nel complesso, limitatamente ad una o più settimane all’anno, ma in perpetuo o per parecchi anni. Il venditore ha l’obbligo di fornire un’informazione dettagliata nella fase della trattativa; l’oggetto del trasferimento, e cioè un diritto reale o un altro diritto di godimento su uno o più immobili per un periodo determinato dell’anno, non inferiore ad una settimana, per non meno di un triennio; il corrispettivo che deve essere costituito da un prezzo globale. Tale contratto deve essere concluso per iscritto a pena di nullità. E’ vietato pretendere acconti, anticipi o caparre fino alla scadenza dei termini concessi per l’esercizio del recesso. Qualora si tratti di immobile in costruzione, il venditore ha l’obbligo di prestare specifica fideiussione, bancaria o assicurativa, a garanzia dell’ultimazione dei lavori.
Capitolo 30: IL POSSESSO
L’esercizio di fatto dei poteri sulle cose dà luogo alle situazioni possessorie (detenzione, possesso vero e proprio (corpo e anima) e il possesso mediato (solo anima)). La detenzione consiste nell’avere la possibilità di utilizzare la cosa tutte le volte che si voglia, senza bisogno di superare ostacoli, pur riconoscendo che essa è di altri.
Se colui che ha la detenzione sulla cosa, ha anche ricevuto o acquistato la cosa con l’intenzione di esercitare su di essa qualunque potere, ed escludendo ogni volontà di restituirla o di riconoscere diritto alcuno di altri sul bene, si ha il possesso pieno (corpo e anima); possessore mediato è invece colui che non ha la detenzione del bene, ma al quale il detentore riconosce di dover rendere conto dell’utilizzazione della cosa (art.1140c.c. es. il locatore).
Le ragioni per cui la legge tutela il possesso sono varie. Anzitutto essa assicura allo stesso proprietario, che di solito è lui il possessore, la difesa del suo interesse a conservare lo status quo. La legge assicura al possessore e al detentore una protezione provvisoria (in quanto è destinata a cadere allorchè risulti la mancanza del diritto soggettivo nel possessore. Il possesso attribuisce al possessore, il vantaggio di trarre dalla cosa le utilità di cui questa è capace.
Differenza tra ius possessionis e ius possidendi: il primo designa l’insieme dei vantaggi che il possesso di per sé genera a favore del possessore e il diritto alla tutela possessoria; il secondo il diritto di chi abbia effettivamente titolo a possedere la sua cosa: il ladro ha lo ius possessionis, ma non lo ius possidendi che spetta al proprietario.
217 L’acquisto e la perdita del possesso
L’acquisto del possesso avviene in modo originario con l’apprensione della cosa o con l’esercizio su di essa di poteri di fatto corrispondenti a quelli che spettano al titolare di un diritto reale di godimento. Ma questi non fanno acquistare il possesso se si verificano per mera tolleranza altrui (art.1144 c.c.), ossia quando chi potrebbe impedire l’acquisto se ne astiene per amicizia, gentilezza, buon vicinato,… Il possesso si acquista in modo derivativo con la consegna (detta tradizione): questa, per gli immobili può aver luogo con la consegna delle chiavi.
Quando il possesso viene acquistato da più persone insieme si ha il compossesso.
La perdita del possesso si verifica per il venir meno di uno dei due elementi del possesso e, cioè, o della signoria sulla cosa (corpo) o della volontà di tener la cosa per sé (anima). Il possesso delle cose mobili si perde quando esse sono uscite dalla custodia del possessore in modo permanente.; per i beni immobili la conservazione può avvenire anche per solo effetto della persistenza dell’anima, nonostante si sia perduta la disponibilità fisica, limitatamente al periodo di tempo entro cui si può esercitare l’azione di spoglio (un anno; art.1168 c.c.).
Si ritiene in buona fede in senso soggettivo chi ritiene di comportarsi correttamente, di possedere in conformità a un diritto che gli spetta (art.1147.1 c.c.). Il titolare è sempre un possessore di buona fede; chi invece possiede una cosa senza avere un corrispondente diritto, è possessore di buona fede solo se ignora il difetto del suo titolo di acquisto, purchè la sua ignoranza non dipenda da colpa grave. La buona fede, in materia di possesso, si presume (art.1147.3 c.c.). Si tratta di presunzione iuris tantum: grava su chi contesta la buona fede del possessore l’onere di provare la sua mala fede, adducendo, per es., gli indizi idonei a dedurre che l’uomo medio, in quelle circostanze, non avrebbe potuto non rendersi conto di acquistare il possesso con un titolo difettoso. Non occorre che la buona fede perduri per tutta la durata del possesso, è sufficiente che vi sia al momento dell’acquisto (art.1147.3 c.c.).
Secondo l’art.1146.1 il possesso continua nell’erede con effetto dall’apertura della successione, con gli stessi caratteri che aveva rispetto al defunto (buona o mala fede, viziosità o meno; successione nel possesso). L’art.1146.2, invece, parla di accessione del possesso, applicabile solo a chi acquista il possesso a titolo particolare (compratore), e purchè acquisti egli stesso il possesso. Egli acquista un possesso nuovo, diverso da quello del suo dante causa, e pertanto può essere in buona fede benchè il suo dante causa fosse in mala fede, e viceversa.
Per far riconoscere il suo diritto ed ottenere la restituzione della cosa posseduta da altri, il proprietario può agire con l’azione di revindica. Se questa è accolta, il possessore è tenuto a restituire il bene ma: il possessore in buona fede non è tenuto a restituire i frutti che ha percepito. Per determinare il momento nel quale cessa il diritto del possessore di buona fede ai frutti, occorre tener presente che gli effetti della sentenza retroagiscono al momento della domanda (effetti anticipati del giudicato); invece, il possessore in mala fede, deve restituire la cosa con tutti i frutti, non solo con quelli percepiti successivamente alla domanda giudiziale di restituzione, ma anche con tutti i frutti percepiti anteriormente, a partire dal momento in cui ha avuto inizio il possesso, salvo quelli per i quali sia già maturata la prescrizione. Le spese si distinguono in:
Inoltre vale il principio che non è giusto che il proprietario tragga vantaggio dall’aumento di valore della propria cosa a spese altrui (art.2041 c.c.). Per il possessore in buona fede, l’indennità si deve corrispondere nella misura dell'aumento di valore conseguito dalla cosa per effetto dei miglioramenti; per il possessore in mala fede, nella minor somma tra lo speso ed il migliorato. Al possessore in buona fede è riconosciuto il diritto di ritenzione, ossia la facoltà di non restituire la cosa fino a che non gli siano corrisposte le indennità dovutegli (art.1152 c.c.).
Altro effetto ricollegabile alla tutela del possesso di buona fede, è l’acquisto della proprietà di una cosa mobile, in forza di un titolo d’acquisto proveniente a non domino, vale a dire da chi non sia titolare della proprietà sul bene alienato (art.1153 c.c.), sono ovviamente necessarie alcune condizioni:
Un ulteriore effetto del possesso in buona fede è previsto dall’art.1155 c.c. Nei contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa determinata, la costituzione o il trasferimento di un diritto reale è sufficiente il consenso, non occorre la consegna della cosa. Ma può darsi che taluno alieni la stessa cosa a più persone o costituisca lo stesso diritto a favore di più persone. In questo caso, l’art.1155 c.c. stabilisce che tra queste persone, quella che ne ha acquistato in buona fede il possesso è preferita alle altre, anche se il suo titolo è di data posteriore.
225 Il regime dei mobili registrati e delle universalità
I principi che abbiamo esaminato, relativi agli effetti del possesso di buona fede, non si applicano alle universalità di mobili e ai beni mobili iscritti in pubblici registri (art.1156 c.c.). Motivazioni: per le universalità di mobili (biblioteche, pinacoteche, greggi…) non sempre si verifica l’ipotesi di un’alienazione a non dominio in favore di un acquirente in buona fede, si preferisce sollecitare l’attenzione di chi vuole acquistare un siffatto complesso di beni, evitando che questi possa accontentarsi dell’apparente titolarità di chi si accinga a compiere atti di disposizione dell’universitas. Per i beni mobili iscritti in pubblici registri (autoveicoli, navi, aerei) trovano applicazione i principi relativi alla trascrizione, in base ai quali viene tutelato non chi acquista il possesso in buona fede, ma chi acquista da chi può vantare un titolo di acquisto trascritto, purchè a sua volta provveda alla trascrizione del suo titolo d’acquisto.
Il possessore spogliato o molestato è tutelato con le c.d. azioni possessorie, a prescindere dal fatto se il suo possesso sia conforme o no ad un diritto e perfino se l’azione sia esperita contro lo stesso proprietario.
Le azioni petitorie, invece, possono essere fatte valere solo da chi sia titolare del diritto di proprietà o di un diritto reale di godimento, indipendentemente dal fatto che l’attore abbia altresì, oppure no, il possesso del bene. Quindi, le azioni possessorie assicurano una tutela di carattere solo provvisorio, nel senso che chi soccombe nel giudizio possessorio può, viceversa, vincere nel giudizio petitorio, dove, peraltro, ha l’onere di dare la prova del diritto di cui si pretende titolare.
L’azione di reintegrazione o di spoglio (art.1168 c.c.) garantisce a chi possiede un bene una sollecita tutela giudiziaria, indipendentemente dalla prova che gli spetti un diritto, qualora venga privato violentemente o occultamente della disponibilità del bene, anche quando l’autore dello spoglio sia titolare di un diritto sul bene.
Per spoglio si intende, appunto, la sottrazione della disponibilità del bene. Chi abbia invece subìto uno spoglio violento o clandestino può reagire con l’azione di reintegrazione che mira a ripristinare il possesso dello spogliato. Lo spoglio si dice violento quando si attua contro la volontà espressa o presunta dell’attuale possessore.
Si dice clandestino quando lo spoliator approfittadi circostanze idonee ad evitare l’opposizione del possessore (ad es. in assenza dell’inquilino, il locatore si introduce nella stanza a lui affittata e ne asporta qualcosa).
La legittimazione attiva ad esercitare l’azione spetta non solo al possessore, ma pure a chi abbia il possesso a titolo di usufruttuario o di una servitù.
La legittimazione passiva riguarda l’autore dello spoglio; ma l’azione può essere esperita anche contro chi abbia sostituito nel possesso lo spoliator, acquistando da questo il bene con la consapevolezza dell’avvenuto spoglio. L’azione non sarà perciò esperibile contro un acquirente in buona fede, al quale non si potrebbe richiedere la restituzione del possesso. Lo spogliato, in questo caso, potrà agire contro lo spogliator con l’azione di risarcimento del danno subito; e contro l’acquirente con l’azione petitoria, con la revindicatio, a condizione che fosse, e sia rimasto, proprietario del bene.
Lo spoglio è soggetto ad un termine di decadenza: un anno dal sofferto spoglio (art.1168 c.c.), o, se questo è clandestino, dal giorno della scoperta dello spoglio.
L’azione di manutenzione è concessa al possessore di un bene immobile, di un diritto reale sopra ad un immobile o di una universalità di mobili per far cessare le molestie arrecate al suo possesso (art.1170 c.c.).
Per molestia s’intende qualunque attività che arrechi al possessore un apprezzabile disturbo, sia che consista in attentati materiali (c.d. molestia di fatto), sia che si estrinsechi in atti giuridici (c.d. molestia di diritto).
La legittimazione attiva, a differenza dell’azione di spoglio, spetta solo al possessore di un immobile, di un’universalità di mobili o di un diritto reale su un immobile. Inoltre occorre che il possessore molestato abbia già il possesso da oltre un anno, in modo continuo, né viziato da violenza o clandestinità.
La molestia può anche essere costituita dallo spoglio non violento e non clandestino (art.1170 c.c.). In questo caso l’azione di manutenzione ha funzione recuperatoria: serve, infatti, come l’azione di spoglio a recuperare il possesso perduto. Poiché all’azione di manutenzione è legittimato solo il possessore e tale non è l’inquilino, costui non è legettimato ad agire nel caso di spoglio non violento o clandestino.
Anche l’azione di manutenzione è soggetta al termine di decadenza di un anno che decorre dalla molestia.
229 Le azioni di nuova opera e di danno temuto
le azioni di nunciazione mirano a prevenire un danno o un pregiudizio che può derivare da una nuova opera o dalla cosa altrui, in attesa che successivamente si accerti il diritto alla proibizione.
La denunzia di nuova opera spetta al proprietario, al titolare di un diritto reale di godimento o al possessore che abbia ragione di temere che da una nuova opera, iniziata da meno di un anno e non terminata, stia per derivare danno alla cosa che forma oggetto del suo diritto o del suo possesso. Il giudice può vietare o permettere la continuazione dell’opera, stabilendo le opportune cautele (art.1171 c.c.).
La denunzia di danno temuto è data al proprietario, al titolare di un diritto reale di godimento o al possessore nel caso in cui vi sia pericolo di un danno grave e prossimo derivante da qualsiasi edificio, albero o altra cosa (non quindi da una persona), senza che ricorri l’ipotesi di nuova opera (art.1172 c.c.). il giudice dispone idonea garanzia per i danni eventuali.
L’usucapione è il mezzo in virtù del quale, per effetto del possesso protratto per un certo tempo, si produce l’acquisto a titolo originario della proprietà e dei diritti reali di godimento (art.1158 c.c.).
Differenza tra l’usucapione e la prescrizione estintiva: in entrambi gli istituti hanno importanza il fattore tempo e l’inerzia del titolare del diritto, ma nella prescrizione questi elementi danno luogo all’estinzione, nell’usucapione all’acquisto di un diritto. Inoltre, la prescrizione si riferisce a tutti i diritti tranne eccezioni (la più importante, la proprietà); l’usucapione riguarda invece solo la proprietà ed i diritti reali di godimento.
Requisiti dell’usucapione sono il possesso e il tempo.
Il possesso non deve essere vizioso, cioè, non deve essere stato acquistato in modo violento o clandestino. L’art.1163 c.c. stabilisce che il possesso, benchè acquistato in modo violento o clandestino, giova per l’usucapione dal momento in cui la violenza o la clandestinità è cessata.
Il possesso, inoltre, non deve subire interruzioni (interruzione naturale dell’usucapione). L’interruzione naturale si verifica quando il possessore è stato privato del possesso per oltre un anno, che è il termine entro il quale il possessore spogliato può agire con l’azione di reintegrazione (art.1168 c.c.).
In relazione al tempo per cui il possesso deve durare, si distingue l’usucapione ordinaria da quella abbreviata.
L’usucapione ordinaria si compie, per i beni immobili, in 20 anni (art.1158 c.c.). nell’usucapione ordinaria (art.1166 c.c.), la legge ha stabilito l’inefficacia delle cause di impedimento e di sospensione rispetto al terzo possessore che spesso non è in grado di conoscerle.
L’usucapione abbreviata richiede per gli immobili 10 anni (art.1159 c.c.) e per i mobili registrati 3 anni (art.1162 c.c.). per l’usucapione abbreviata, oltre il possesso non vizioso e senza interruzione, occorrono:
L’usucapione in materia di beni mobili acquista importanza solo quando manchi il titolo o la buona fede: altrimenti, l’acquisto della proprietà si verifica istantaneamente (art.1153 c.c.). Essa, quando manchi un titolo idoneo, ma non la buona fede, si compie in 10 anni; occorrono, invece, 20 anni, quando il possessore sia in mala fede (art.1161 c.c.).
Alle universalità di mobili, si applica un regime analogo a quello degli immobili (usucapione ordinaria: 20 anni; usucapione abbreviata: acquisto in buona fede da chi non è proprietario, in forza di titolo idoneo, 10 anni) (art.1160 c.c.).
Con l’art.1159-bis, il termine normale di usucapione di beni immobili (20 anni) è stato ridotto a 15 anni per i fondi rustici con annessi fabbricati situati in comuni che per legge siano classificati come “montani”; cioè, anche se non sono situati in comuni montani, purchè abbiano reddito dominicale iscritto in catasto non superiore a complessivi euro 2.5.
La stessa norma stabilisce, inoltre, per gli stessi beni, un termine di soli 5 anni per il caso che ricorrano i presupposti dell’usucapione abbreviata, e cioè acquisto in buona fede in forza di un titolo idoneo al trasferimento della proprietà, che sia stato debitamente trascritto.
I DIRITTI REALI
LE OBBLIGAZIONI
Capitolo 32: IL RAPPORTO OBBLIGATORIO
L’obbligazione consiste in un rapporto tra due parti in virtù del quale una di esse (debitore) è obbligata, ha il dovere giuridico di tenere un certo comportamento, di eseguire una prestazione a favore dell’altra parte (creditore).
Il rapporto obbligatorio è sempre relativo: il diritto di credito può essere fatto valere solo nei confronti del debitore (si dice, perciò, che è un diritto personale).
Il debitore risponde dell’inadempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri (art.2740 c.c.). quindi, in caso di inadempimento, il creditore può invocare misure coercitive sul patrimonio dell’obbligato.
Per obbligazione in senso naturale (art.2034 c.c.), si intende qualunque dovere morale o sociale, in forza del quale un soggetto determinato sia tenuto ad eseguire un’attribuzione patrimoniale a favore di un altro soggetto parimenti determinato.
Il debitore naturale, quindi, non è obbligato giuridicamente ad adempiere, ma è obbligato solo in forza di doveri morali e sociali. Perciò il creditore naturale, benchè non abbia il diritto di agire in giudizio per pretendere l’adempimento dell’obbligo, ha il diritto di trattenere la prestazione che sia stata spontaneamente adempiuta dal debitore, il quale, quindi, non può ottenerne la restituzione.
Perché sia esclusa la ripetizione è necessario che:
Secondo l’art.1173 c.c., fonte dell’obbligazione può essere il contratto, l’atto illecito ed ogni altro atto idoneo a produrla secondo l’ordinamento.
Capitolo 33: GLI ELEMENTI DEL RAPPORTO OBBLIGATORIO
I soggetti sono almeno due: creditore o soggetto attivo; debitore o soggetto passivo. Essi sono di regola determinati all’epoca in cui l’obbligazione sorge, ma a volte può accadere che uno dei soggetti del rapporto sia determinato solo successivamente al sorgere del vincolo.
Se 100 è il mio debito complessivo, ma da ciascun debitore posso pretendere solo la sua parte, l’obbligazione si dice parziaria; se invece da ciascun debitore posso pretendere l’intero, l’obbligazione si dice solidale. In tal caso ciascuno dei debitori può essere costretto all’adempimento per la totalità, ma l’adempimento da parte di uno libera gli altri (art.1292 c.c.).
L’art.1294 c.c. stabilisce una presunzione generale di solidarietà passiva nel senso che nel caso di pluralità di debitori, se dalla legge o dal titolo non risulta altrimenti, i condebitori sono tenuti in solido.
Ciascun condebitore è tenuto solo per la sua parte, a meno che l’obbligazione sia stata contratta nell’interesse esclusivo di uno dei condebitori. La parte di ciascun condebitore si presume eguale a quella degli altri, se non risulta diversamente (art.1298.2 c.c.).
Il condebitore solidale che abbia pagato l’intero può agire contro gli altri condebitori 8azione di regresso) perché ciascuno gli rimborsi la sua parte (art.1299.1 c.c.); se uno dei condebitori risulta inadempiente la perdita va ripartita tra tutti gli altri condebitori (art.1299.2 c.c.).
La solidarietà attiva, invece, si verifica se, in caso di pluralità di creditori, ciascuno può pretendere l’intero, ma l’adempimento fatto nelle mani di uno di essi libera il debitore verso tutti. Questa figura è poco frequente.
Nell’obbligazione indivisibile, il diritto di richiedere e correlativamente l’obbligo di prestare l’intero derivano dalla natura della prestazione che ha per oggetto una cosa (o un fatto) che non è suscettibile di essere ridotta in parti per sua natura (es. un cavallo vivo; indivisibilità oggettiva) o per la volontà delle parti (indivisibilità soggettiva) (art.1316 c.c.).
L’indivisibilità opera anche nei confronti degli eredi del debitore o di quelli del creditore (art.1318 c.c.).
La prestazione cui il debitore è obbligato può consistere in un dare o in un facere. La prestazione si dice infungibile quando assumono rilievo le qualità personali dell’obbligato; fungibile quando per il creditore è irrilevante chi gli procura il risultato cui ha diritto.
Non importa che la prestazione corrisponda ad un interesse economico del creditore: anche il soddisfacimento di interessi culturali, sportivi può essere procurato dal debitore. Ma la prestazione dovuta deve avere carattere patrimoniale, vale a dire che deve essere suscettibile di valutazione economica (art.1174 c.c.).
Perché un’obbligazione sia validamente assunta occorre che la prestazione dovuta sia:
Le parti possono stabilire che l’oggetto della prestazione di una di esse sia determinato da un terzo (arbitratore). Questi deve procedere con equo apprezzamento: le parti possono perciò rivolgersi al giudice se la determinazione dell’arbitratore è manifestamente iniqua o erronea (art.1349.1 c.c.).
Le parti, peraltro, possono anche rimettersi al mero arbitrio del terzo, lasciandogli carta bianca: in tal caso potranno impugnare la determinazione solo nel caso estremo che si riesca a provare il dolo del terzo. Né è consentito alle parti rivolgersi al giudice, qualora l’arbitratore non provveda: esse possono solo accordarsi per sostituirlo, altrimenti il contratto è nullo (art.1349.2 c.c.).
Oggetto dell’obbligazione è la prestazione dovuta (art.1174 c.c.). Nelle obbligazioni di dare, peraltro, pure il bene dovuto viene talvolta indicato come oggetto (mediato) dell’obbligazione. Nelle obbligazioni generiche il debitore è tenuto a dare cose non ancora individuate ed appartenenti ad un genere (10 bottiglie di vino di quel certo tipo); nelle obbligazioni specifiche il debitore è tenuta a dare una cosa determinata (questa auto). In caso di obbligazione generica il debitore deve scegliere di prestare cose di qualità non inferiore alla media (art.1178 c.c.).
Per l’estinzione dell’obbligazione pecuniaria occorre utilizzare moneta avente corso legale nello Stato al tempo del pagamento (art.1277.1 c.c.).
L’obbligazione si dice a termine, quando va adempiuta dopo un certo intervallo di tempo rispetto al momento in cui è sorta (art.1183 c.c.).
Il principio nominalistico (art.1277 c.c.) stabilisce che il debitore si libera pagando, alla scadenza, la medesima quantità di moneta inizialmente fissata, nonostante il tempo passato dalla costituzione del debito ed indipendentemente dal fatto che, nel frattempo, il potere d’acquisto del danaro sia più o meno diminuito. Il creditore può cercare di cautelarsi contro le oscillazioni di valore della moneta: il modo più semplice è quello di pattuire degli interessi.
Peraltro il principio nominalistico si applica con certezza ai crediti liquidi, ossia già determinati nel loro ammontare; non altrettanto può dirsi per i crediti illiquidi, ossia per quei crediti dei quali non risulti ancora fissato il concreto quorum dovuto.
Se il debito pecuniario è espresso in moneta estera, il debitore, di regola, può pagare anche in moneta nazionale, al corso del cambio nel giorno della scadenza (art.1278 c.c.). Peraltro, qualora sia stato chiarito, con clausola “effettivo” o altra equivalente, che il pagamento va fatto proprio nella moneta pattuita, il debitore è tenuto ad adempiere con la valuta straniera (art.1279 c.c.).
243 Gli interessi
Un particolare tipo di obbligazione pecuniaria è quella relativa agli interessi che si aggiungono al capitale.
Gli interessi possono essere:
In linea di principio è proibito l’anatocismo, ossia la capitalizzazione degli interessi dovuti affinchè questi producano a loro volta altri interessi. Tuttavia gli interessi scaduti possono essere capitalizzati e produrre a loro volta interessi (art.1283 c.c.) solo quando si tratti di interessi già scaduti da almeno 6 mesi ed intervenga o una convenzione in tal senso o una domanda giudiziale rivolta ad ottenere il pagamento sia degli interessi scaduti sia degli interessi sugli interessi dovuti.
L’obbligazione nella quale è dedotta un’unica prestazione si dice semplice; se ci sono più prestazioni, abbiamo l’obbligazione alternativa. Se le parti non hanno stabilito diversamente, la scelta spetta al debitore (art.1286 c.c.). nell’obbligazione facoltativa, invece, una sola è la prestazione prevista, e l’obbligazione è, pertanto semplice, ma il debitore si può liberare prestando altra cosa.
Capitolo 34: MODIFICAZIONE DEI SOGGETTI DELL’OBBLIGAZIONE
Si parla di cessione del credito (art.1260 c.c.) sia per indicare il contratto con il quale il creditore (cedente) pattuisce con un terzo (cessionario) il trasferimento in capo a quest’ultimo del suo diritto verso il debitore (ceduto); sia per indicare l’effetto di tale contratto e cioè, il trasferimento del credito in capo al cessionario.
Per quanto riguarda il contratto di cessione, qualunque credito può formare oggetto, purchè il credito non abbia carattere strettamente personale o il trasferimento non sia vietato dalla legge (art.1260.1 c.c.) ovvero la cessione non sia stata convenzionalmente esclusa dalle parti (art.1260.2 c.c.): in quest’ultimo caso, però, il patto di non trasferibilità non è opponibile al cessionario se non si prova che egli lo conosceva al tempo della cessione.
Se la cessione ha luogo per estinguere un diverso debito del cedente verso il cessionario (cessione solutoria), si deve distinguere a seconda che la cessione operi pro soluto o pro solvendo.
247 Efficacia della cessione
Affinchè la cessione abbia efficacia nei confronti del debitore ceduto, occorre che a quest’ultimo la cessione venga notificata dal cedente o dal cessionario ovvero sia da lui accettata (art.1264 c.c.). Ove, peraltro, anche se non sia intervenuta accettazione o notifica, il debitore abbia comunque conoscenza della cessione, egli non può invocare la buona fede e, se ha pagato al cedente, può essere costretto dal cessionario ad un nuovo pagamento. E poiché la buona fede si presume, incombe al cessionario l’onere di provare che il debitore era a conoscenza dell’avvenuta cessione (art.1264.2 c.c.). L’accettazione o la notificazione della cessione servono inoltre ad attribuirle efficacia di fronte ai terzi. (se il cedente ha ceduto lo stesso credito prima ad A e poi a B ed è stata notificata, o è stata accettata per prima, con atto di data certa (art.2704 c.c.), la cessione fatta a B, è questa che prevale sull’altra (art.1265 c.c.).
Quanto agli effetti della cessione, in conseguenza di essa, benchè venga ad essere modificato il soggetto attivo del credito, l’obbligazione rimane, per tutto il resto, inalterata: perciò il credito è trasferito al cessionario con i privilegi, con le garanzie personali e reali e gli altri accessori (art.1263 c.c.).
Parimenti, il debitore ceduto può opporre al cessionario le stesse eccezioni che avrebbe potuto opporre al cedente.
248 Rapporti tra cedente e cessionario
Se la cessione è a titolo oneroso, il cedente è tenuto a garantire l’esistenza del credito, ma non risponde affatto se il debitore risulta insolvente (art.1266 c.c.). Il cedente può, peraltro, con apposito patto, garantire anche la solvenza del debitore: in tal caso, qualora il debitore ceduto non adempia, il cedente sarà tenuto a restituire quanto aveva eventualmente ricevuto come corrispettivo della cessione, oltre agli interessi, alle spese della cessione e a quelle sostenute dal cessionario per escutere il debitore, salvo sempre l’obbligo ulteriore del risarcimento del danno, ove ne ricorrano i presupposti (art.1267 c.c.).
Quando la cessione sia stata effettuata per estinguere un debito del cedente verso il cessionario (art.1198 c.c.), si presume che la cessione avvenga pro solvendo (ossia che la liberazione del cedente si verifichi solo quando il cessionario abbia ottenuto il pagamento dal debitore ceduto); qualora risulti una diversa volontà delle parti, nel senso che il cessionario liberi senz’altro il cedente dall’obbligo che quest’ultimo aveva nei suoi confronti, accollandosi, pertanto, l’intero rischio della solvenza del debitore ceduto, si parla di cessio pro soluto. In ogni caso il cedente è tenuto a consegnare al cessionario i documenti probatori del credito che si trovino in suo possesso (art.1262.1 c.c.)
249 Il contratto di factoring
Con il contratto di factoring, un’impresa specializzata (factor) si impegna contro pagamento di una commissione variabile a seconda dell’entità degli obblighi assunti, a gestire per conto di un’impresa cliente, l’amministrazione di tutti o di parte dei crediti di cui quest’ultima diventa titolare verso i propri clienti nella gestione della sua attività imprenditoriale. Spesso il factor concede al cliente anticipazioni sull’ammontare dei crediti gestiti, spesso accompagnati dalla cessione di tali crediti, o pro solvendo, e cioè lasciando a carico del cliente il rischio dell’eventuale insolvenza dei debitori ceduti, o pro soluto, e cioè accollandosi il factor il rischio dell’insolvenza dei debitori ceduti, cosicchè, in caso di inadempimento di questi ultimi, il factor non potrà pretendere dal cliente la restituzione degli anticipi versatigli.
Le banche o gli intermediari finanziari, possono rendersi cessionari, dalle imprese clienti, solo di crediti pecuniari, sorti nell’esercizio dell’impresa, ma può trattarsi anche di crediti in massa e di crediti futuri (cioè ceduti anche prima che siano stipulati i contratti dai quali sorgeranno), purchè in un periodo di tempo non superiore a un anno dalla stipulazione della cessione.
La cessione è opponibile ai terzi, ed in particolare all’eventuale fallimento del cedente.
Altre figure di successione nel lato attivo del rapporto obbligatorio sono la delegazione attiva e la surrogazione per pagamento.
Il c.c. si occupa solo della delegazione passiva. La delegazione attiva è un accordo tra creditore, debitore e un terzo, con il quale il creditore dà mandato al debitore che accetta, di pagare al terzo. Al creditore originario (delegante) si aggiunge il delegatario, ma senza estinzione del diritto del primo, cosicchè, in caso di successiva inadempienza da parte del debitore, contro quest’ultimo potrà ancora agire pure il primo creditore.
La sostituzione del soggetto passivo del rapporto obbligatorio può realizzarsi mediante la delegazione passiva, la espromissione e l’accollo.
La sostituzione del debitore non è possibile senza l’espressa volontà del creditore: se questa manca, il precedente debitore non viene liberato, ma si aggiunge un nuovo soggetto passivo a quello che già c’era.
252 La delegazione
Sa ha la delegazione quando una persona (delegante) ordina o invita un’altra persona (delegato) ad eseguire o a promettere di eseguire un determinato pagamento in favore di un terzo soggetto (delegatario). L’operazione quindi si perfeziona solo con la collaborazione di tutti e tre i soggetti e consiste perciò in un’operazione trilaterale.
Conviene trattare separatamente la delegazione di pagamento e la delegazione a promettere. Si ha la prima quando il delegante invita il delegato ad effettuare un determinato pagamento. Il delegato, non è tenuto ad accettare l’incarico (art.1269.2): se però esegue il pagamento, la prestazione da lui eseguita nelle mani del delegatario vale come effettuata a quest’ultimo dal delegante, e vale contemporaneamente come effettuata dal delegato al delegante per quanto riguarda i rapporti tra questi.
Nella delegazione a promettere, il delegante ordina al delegato di assumere l’obbligo di effettuare successivamente un determinato pagamento al delegatario.
253 L’espromissione
Un terzo può assumere verso il creditore il debito di un altro, promettendo che provvederà lui al pagamento. Quest’obbligo può essere assunto spontaneamente, ossia senza il consenso o l’incarico del debitore, dal momento che si tratta di un atto vantaggioso per costui.
Il contratto con il quale il creditore e il terzo convengono che il terzo si assuma che il debito dell’obbligato originario si chiama espromissione.
L’elemento differenziale tra la delegazione e l’espromissione consiste nella spontaneità dell’iniziativa del terzo (art.1272 c.c.).
Come la delegazione, anche l’espromissione può essere cumulativa (il terzo è obbligato in solido con il debitore originario) o liberatoria, se il creditore dichiara espressamente di liberare il debitore originario: nel qual caso rimane obbligato solo il terzo assuntore.
Il terzo espromittente subentra nella stessa posizione del debitore originario.
254 L’accollo
L’accollo è un contratto tra il debitore (accollato) e un terzo (accollante), con il quale quest’ultimo assume a proprio carico l’onere di procurare il pagamento al creditore (accollatario).
Distinguiamo due tipi di accollo:
L’accollo esterno può a sua volta essere:
Capitolo 35: L’ESTINZIONE DELL’OBBLIGAZIONE
L’adempimento o pagamento consiste nell’esatta realizzazione della prestazione dovuta. Il debitore deve curare con attenzione, prudenza e perizia sia i preparativi dell’adempimento, sia la conformità del risultato da procurare al creditore rispetto al contenuto dell’obbligo assunto (art.1176 c.c.).
Se il creditore accetta preventivamente di esonerare il debitore da responsabilità per inadempienze che derivino da dolo o colpa grave di quest’ultimo, il patto è nullo (art.1229 c.c.). Il creditore può, se vuole, rifiutare un pagamento parziale che il debitore abbia ad offrirgli. Il debitore può adempiere personalmente o a mezzo di ausiliari, del cui comportamento è però sempre responsabile egli stesso di fronte al creditore (art.1228 c.c.).
Per valutare la regolarità dell’adempimento:
Il debitore decade dal termine fissato a suo favore, ossia il creditore può agire in giudizio come se il termine fosse già scaduto, qualora il debitore sia divenuto insolvente o abbia diminuito le garanzie che aveva dato o non abbia dato le garanzie che aveva promesso (art.1186 c.c.).
Sulla base di una direttiva comunitaria anche in Italia è stata introdotta una disciplina per combattere il c.d. riciclaggio del denaro sporco: sono stati così imposti limiti alla circolazione di denaro contante o di titoli di credito al portatore (che possono essere utilizzati solo per effettuare versamenti entro l’importo massimo di lire 20 milioni), mentre per pagamenti superiori a tale limite occorre necessariamente avvalersi di intermediari abilitati (banche, società finanziarie, assicurazioni). Questi ultimi, a loro volta, sono tenuti a identificare le complete generalità di chiunque effettui un’operazione per importo superiore a 20 milioni di lire, ed a registrare in un apposito archivio gli estremi dell’operazione. Le violazioni degli obblighi determinano sanzioni amministrative e, nei casi più gravi, perfino penali a carico dei responsabili.
Le limitazioni all’uso del contante favoriscono il diffondersi di mezzi di pagamento c.d. alternativi (trasferimenti elettronici di fondi, bonifici bancari, carte di credito…).
Di regola per il creditore è indifferente se la prestazione viene eseguita personalmente dal debitore o da un terzo. Quando però, la prestazione sia infungibile, il creditore può rifiutare la prestazione che il debitore gli proponga di far eseguire da un suo sostituto (art.2232 c.c.). Se invece, la prestazione è fungibile (es. pagamento di una somma di danaro), il creditore non può rifiutare la prestazione che gli venga offerta da un terzo (art.1180 c.c.). Solo se il debitore gli ha comunicato la sua opposizione, il creditore può rifiutare l’adempimento offertogli dal terzo (art.1180.2 c.c.), pur essendo naturalmente libero di accettare la prestazione nonostante l’opposizione del debitore.
In ogni caso il terzo, a meno che sia intervenuto per spirito di liberalità, potrà esperire contro il debitore avvantaggiatosi l’azione di arricchimento (art.2041 c.c.).
Se una persona, che ha più debiti della stessa specie verso la stessa persona, fa un pagamento che non comprenda la titolarità dei debiti, è importante stabilire quale tra i vari debiti viene estinto. L’art.1193 c.c. riconosce al debitore la facoltà di dichiarare, quando paga, quale debito intende soddisfare: in mancanza il pagamento deve essere imputato al debito scaduto; tra più debiti scaduti, a quello meno garantito; tra più debiti ugualmente garantiti, al più oneroso per il debitore; tra più debiti ugualmente onerosi, al più antico. Se tali criteri non soccorrono, l’imputazione va fatta proporzionalmente ai vari debiti.
Il pagamento può anche dar luogo alla sostituzione del creditore con altra persona (surrogazione). Anche la surrogazione, come la cessione, dà luogo ad una successione nel lato attivo del rapporto obbligatorio ma con la differenza che la surrogazione suppone che l’obbligazione sia adempiuta; la cessione, che l’adempimento non si sia ancora verificato. La finalità della surrogazione è, infatti, quella di agevolare l’adempimento verso il creditore originario con l’attribuire ad un terzo, che rende possibile l’adempimento, i diritti, e soprattutto le garanzie, che erano inerenti al rapporto obbligatorio.
La surrogazione può avvenire per volontà del creditore che, ricevendo il pagamento da un terzo, può dichiarare espressamente di volerlo far subentrare nei propri diritti verso il debitore (art.1201 c.c.); o per volontà del debitore che, prendendo a mutuo una somma di danaro al fine di pagare il debito, può surrogare il mutuante nella posizione del creditore; o per volontà della legge (surrogazione legale) nei vari casi elencati nell’art.1203 c.c.).
Il creditore, avendo diritto all’esatta esecuzione della prestazione dovuta, può rifiutare di accettare una prestazione diversa da quella dedotta in obbligazione, anche se si tratti di prestazione avente valore eguale o addirittura maggiore., oppure può accettala (art.1197 c.c.).
Se la prestazione eseguita in luogo di adempimento consiste nel trasferimento della proprietà di una cosa, il debitore è tenuto alla garanzia per i vizi della cosa secondo le norme dettate per il contratto di vendita.
A volte per la realizzazione dell’adempimento è necessaria la cooperazione del creditore, come nel caso in cui il debitore sia tenuto alla consegna di una cosa: questa non si può effettuare, se il creditore non sia disposto a riceverla.
La figura della mora del creditore ha luogo quando il creditore, senza legittimo motivo, rifiuta di ricevere il pagamento offertogli dal debitore (art.1206 c.c.), oppure omette di compiere gli atti preparatori per il ricevimento della prestazione. Perché si abbia mora credendi, è necessario che il debitore faccia al creditore offerta della prestazione secondo delle modalità. Così si distinguono due tipi di offerta:
l’offerta non formale (per es. mediante lettera), invece, dimostrando l’intenzione del debitore, vale ad escludere la mora debendi, ma non produce gli ulteriori effetti propri della mora credendi (risarcimento del danno, art.1220 c.).
Quando tra due persone intercorrono rapporti obbligatori reciproci, questi ultimi possono estinguersi, in modo parziale o totale, senza bisogno di provvedere ai rispettivi adempimenti, mediante compensazione tra i rispettivi crediti. La legge prevede tre tipi di compensazione:
Perché la compensazione legale operi, è necessario che la parte la eccepisca in giudizio: il giudice non può rilevarla d’ufficio (art.1242 c.c.). Tuttavia, i debiti si estinguono non dal giorno della sentenza e per effetto di questa, ma dal momento della loro coesistenza, automaticamente, per effetto della legge.
Alcuni crediti, per la loro causa esigono che la prestazione sia in ogni caso eseguita: perciò, non possono formare oggetto di compensazione. Essi sono indicati nell’art.1246 c.c., il più importante tra essi è il credito degli alimenti.
La compensazione non è ammessa tra un’obbligazione civile e un’obbligazione naturale.
Qualora creditore e debitore sia la stessa persona, l’obbligazione si estingue (art.1253 c.c.): ciò può accadere, per es., perché il creditore diventa erede del debitore o viceversa; oppure perché il creditore diventa cessionario dell’azienda del debitore ed il suo credito era relativo all’azienda ceduta. In caso di successione ereditaria, tuttavia, non si ha confusione se l’erede accetta col beneficio d’inventario (art.490 c.c.).
La novazione è un contratto con il quale i soggetti di un rapporto obbligatorio sostituiscono un nuovo rapporto a quello originario. Se la sostituzione riguarda il debitore, la novazione si dice soggettiva. Se viene modificato l’oggetto o il titolo, la novazione si dice oggettiva. Gli elementi che caratterizzano la novazione oggettiva sono due: uno oggettivo, consistente nella modificazione dell’oggetto o del titolo; e uno soggettivo, la volontà di estinguere l’obbligazione precedente, che può risultare, come ogni dichiarazione di volontà, anche tacitamente.
Se l’obbligazione originaria era inesistente o nulla, la novazione manca di causa e, perciò, è senza effetto (art.1234.1 c.c.). Può, invece, novarsi un’obbligazione dipendente da titolo annullabile, se il debitore conosceva il vizio che produceva l’annullabilità (art.1234.2 c.c.).
La remissione è la rinunzia del credito. Essa consiste in un negozio unilaterale recettizio, che produce effetto quando la dichiarazione è comunicata al debitore, il quale, peraltro, può dichiarare di non volerne profittare (art.1236 c.c.). La remissione estingue oggettivamente il debito. Essa fa cadere le garanzie inerenti al credito e, se si tratta di obbligazioni solidali, libera tutti gli altri debitori.
L’impossibilità sopravvenuta estingue l’obbligazione liberando il debitore, se essa dipende da causa non imputabile al debitore, ossia se la prestazione è diventata impossibile senza colpa del debitore (art.1256.1 c.c.). L’effetto estintivo si verifica se l’impossibilità ha carattere definitivo; se, invece, essa è temporanea, il debitore è esonerato dalla responsabilità per il ritardo nell’adempimento.
Non costituiscono causa di impossibilità della prestazione fatti che si limitano a rendere difficile per il debitore l’adempimento dell’obbligo.
Capitolo 36: L’INADEMPIMENTO E LA MORA
L’inadempimento è imputabile al debitore, che ne risponde con l’obbligo di risarcire i danni che la mancata esecuzione della prestazione provoca al creditore (art.1218 c.c.). il debitore può evitare la responsabilità che il mancato adempimento dell’obbligazione fa sorgere a suo carico solo qualora sia in grado di dare la prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile (art.1218 c.c.).
Si ha inadempimento inesatto quando la prestazione eseguita differisce quantitativamente o qualitativamente da quella dovuta. Si ha inadempimento assoluto quando non soltanto la prestazione non è stata ancora adempiuta, ma ormai l’adempimento non potrà più verificarsi. Si ha invece inadempimento relativo (o mora) quando il debitore non ha ancora eseguito la prestazione dovuta, ma l’adempimento, sebbene in ritardo, può ancora verificarsi. In questo caso l’obbligo di risarcire il danno al creditore si aggiunge alla prestazione originaria, la quale continua però ad essere anch’essa dovuta
Il ritardo, o inadempimento relativo, si chiama anche mora del debitore.
La mora debendi presuppone la imputabilità del ritardo al debitore: il debitore non è responsabile del ritardo se gli è stato impossibile adempiere per una causa che non era in grado di prevedere e prevenire. L’onere della prova di tale impossibilità grava sul debitore.
La mora può verificarsi ex re, ossia automaticamente, per il fatto solo del ritardo, o ex persona, mediante un atto di costituzione in mora, con cui il creditore richiede per iscritto l’adempimento.
Si ha la mora ex re (art.1219 c.c.):
La costituzione in mora (art.2943.4 c.c.) vale anche ad interrompere la prescrizione.
La mora debendi può essere considerata solo nelle obbligazioni positive (di fare, di dare). Se l’obbligazione ha carattere negativo (di non facere), basta contravvenire all’obbligo assunto perché si verifichi un inadempimento assoluto (o parziale) e non è possibile parlare di ritardo (art.1222 c.c.).
Gli effetti della mora debendi sono:
La conseguenza sanzionatoria principale dell’inadempimento del debitore è l’obbligo a suo carico, di risarcire al creditore il danno arrecatogli (responsabilità del debitore art.1218 c.c.). Se l’inadempimento è assoluto, la prestazione risarcitoria si sostituisce a quella originariamente dovuta (la quale ormai non potrebbe più essere eseguita); se l’inadempimento è relativo, la prestazione risarcitoria si aggiunge a quella originariamente dovuta (che è già stata eseguita, sebbene in ritardo, o che deve essere ancora eseguita). Peraltro è risarcibile soltanto il danno che sia conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento. Inoltre, se l’inadempimento o il ritardo dipendono da colpa del debitore, ma non da dolo, il risarcimento è limitato al danno che poteva prevedersi nel tempo in cui è sorta l'obbligazione (art.1225 c.c.).
Per il caso in cui il creditore offra prove sufficienti di avere certamente subito il danno, ma senza che riesca a dare la prova del suo preciso ammontare, il giudice può provvedere alla liquidazione anche con valutazione equitativa (art.1226 c.c.).
Peraltro, nelle obbligazioni pecuniarie, le regole relative all’onere della prova in ordine all’entità del danno per il quale si richiede il risarcimento, sono parzialmente derogate dall’art.1224 c.c.. Difatti dal giorno della mora il debitore che non abbia puntualmente pagato la somma dovuta è tenuto automaticamente (e cioè senza bisogno che il creditore provi di aver sofferto alcun danno) a pagare, in aggiunta al capitale che avrebbe dovuto versare, gli interessi moratori. Ma se il creditore non si accontenta di pretendere gli interessi moratori, ma sostiene di aver subito un danno maggiore (art.1224.2 c.c.), grava su di lui, l’onere di fornire le prove del supposto maggior danno di cui chiede il risarcimento.
La liquidazione del danno si dice convenzionale quando le parti si mettono d’accordo al riguardo; o giudiziale quando il creditore è costretto a richiedere al giudice di stabilire l’importo dovutogli. La liquidazione deve essere diminuita se a determinare il danno ha concorso il fatto colposo del creditore (art.1227.1 c.c.).
Mentre nella mora debendi il ritardo dipende dal comportamento del debitore, nella mora credendi esso dipende dal comportamento del creditore.
Il primo degli effetti della mora credendi consiste nell’impedire che il ritardo nell’adempimento sia addebitato al debitore e che quindi scattino a carico di quest’ultimo le conseguenze pregiudizievoli che deriverebbero dalla mora debendi.
Naturalmente la mora credendi non estingue l’obbligazione e neppure elimina o attenua la responsabilità del debitore, se questi rende impossibile la prestazione per colpa sua, ovvero, cessata la mora del creditore, non provvede ad adempiere.
Tuttavia, se il creditore è in mora, il debitore non deve più gli interessi, né i frutti della cosa e può pretendere il risarcimento dei danni che il comportamento del creditore gli abbia procurato, oltre il rimborso delle eventuali spese sostenute per la custodia e la conservazione della cosa dovuta (art.1207.2 c.c.).
Inoltre, quando il creditore è in mora, è a suo carico il rischio per l’ipotesi che la prestazione divenga impossibile per causa non imputabile al debitore (art.1207.1 c.c.): vale a dire che in tal caso non soltanto il debitore è liberato dell’obbligo, ma il creditore, se il credito deriva da un contratto a prestazioni corrispettive, non può invocare l’art.1463 c.c. e considerarsi a sua volta libero dall’obbligo di eseguire la controprestazione, ma deve egualmente quest’ultima.
Se il debitore non adempie la prestazione dovuta, tutti i suoi beni, sia quelli che aveva al momento in cui sorse l’obbligazione, sia quelli che egli ha successivamente acquistato, possono essere espropriati dal creditore (cioè vende i beni del debitore per soddisfarsi sul danaro ricavato; art.2740 c.c.). Quindi tutto il patrimonio del debitore costituisce la garanzia generica del creditore.
Se vi sono più creditori, tutti hanno uguale diritto di soddisfarsi con il ricavato della vendita dei beni del debitore (art.2741 c.c.). tuttavia, ad alcuni creditori la legge assicura il soddisfacimento a preferenza degli altri.
Le cause legittime di prelazione, sono i privilegi, il pegno e l’ipoteca. Se la cosa soggetta a pegno, ipoteca o a privilegio perisce o è deteriorata, il creditore perde la possibilità di esercitare il diritto di prelazione. Tuttavia, se il debitore si era assicurato contro i danni, si verifica la c.d. surrogazione reale.
Il privilegio è la prelazione che la legge accorda in considerazione della causa del credito (art.2745 c.c.). Alcuni creditori sono, cioè, sono preferiti nella distribuzione di quanto venga ricavato dalla vendita forzata dei beni del debitore, ai creditori chirografari, non assistiti cioè da cause di prelazione. Tra i crediti privilegiati l’ordine di preferenza è stabilito dalla legge.
Il privilegio è generale (su tutti i beni mobili del debitore) o speciale (su determinati beni mobili e immobili) (art.2746 c.c.).
Il privilegio generale non attribuisce il diritto di sequela; il privilegio speciale costituisce un diritto reale di garanzia. Perciò di regola il privilegio speciale sui mobili, a differenza di quello generale, può esercitarsi anche in pregiudizio dei diritti acquistati dai terzi posteriormente al sorgere del privilegio (art.2747 c.c.).
Tuttavia, in alcuni casi l’esistenza del privilegio è fatta dipendere dalla condizione che la cosa si trovi in un determinato luogo (art.2757 c.c.).
Il pegno è preferito al privilegio speciale sui mobili, il privilegio speciale sugli immobili è preferito all’ipoteca (art.2748 c.c.).
Capitolo 38: I DIRITTI DI GARANZIA (pegno ed ipiteca)
Sia il pegno che l’ipoteca sono diritti reali. La differenza tra pegno e ipoteca, da un lato, e privilegio speciale, dall’altro, consiste in questo: i privilegi sono stabiliti dalla legge per la causa del credito; il pegno e l’ipoteca hanno bisogno di un proprio titolo costitutivo. Mentre il privilegio cade sempre su un bene del debitore, pegno e ipoteca possono essere concessi anche da un terzo (terzo datore di pegno o ipoteca). Sia i, terzo datore che il fideiussore garantiscono il debito di un terzo, ma il fideiussore risponde con tutti i suoi beni, il terzo datore solo con il bene su cui è costituito il pegno o l’ipoteca.
Sia il creditore pignoratizio che ipotecario, qualora la cosa data in pegno o ipoteca perisca o si deteriori, in modo da diventare insufficiente alla sicurezza del credito, può chiedere che gli sia prestata idonea garanzia e, in mancanza, può esigere l’immediato pagamento del debito (art.2743 c.c.).
Il legislatore vuole tutelare il debitore contro il rischio che, confidando di poter riuscire a pagare il debito, accetti di pattuire ex ante, per il caso di mancato adempimento, l’automatico trasferimento in favore del creditore della proprietà del bene concesso in garanzia (non importa se con pegno o ipoteca). Ha perciò sancito la nullità di un simile patto (patto commissorio), senza bisogno neppure di accertare se il valore della cosa ipotecata o data in pegno sia superiore o no all’importo del debito e senza che assuma rilievo se il patto viene stipulato contestualmente al sorgere del debito e alla concessione della garanzia ovvero successivamente (art.2744 c.c.). Naturalmente la nullità si estende pure all’ipotesi in cui le parti si accordino di vendere un bene contro un prezzo (apparente), ma con clausola risolutiva della vendita qualora il venditore restituisca entro un tempo definito l’importo ricevuto.
Si vuole, invece, che la cosa ipotecata o pignorata, se il debitore non paga, sia venduta agli incanti e sul ricavato il creditore si soddisfi nel limite del suo credito: la gara tra gli aspiranti varrà a garantire l’interesse del debitore a che il prezzo sia il più elevato possibile.
Il pegno è un diritto reale su una cosa mobile del debitore o di un terzo, che il creditore può acquistare mediante un accordo con il proprietario (art.2784 c.c.). Oltre ai beni mobili possono essere concessi in pegno crediti, universalità di mobili e altri diritti aventi per oggetto dei mobili. È invece vietato il suppegno, ossia il pegno che abbia per oggetto un altro diritto di pegno (art.2792 c.c.).
Il diritto di prelazione del creditore pignoratizio consiste nel diritto di pretendere che il debitore provveda al pagamento in suo favore prima di quelli dovuti ad altri creditori. La prelazione comporta che , sull’eventuale ricavato della vendita coatta del bene costituito in pegno, il creditore ha diritto di soddisfarsi con priorità rispetto ai creditori chirografari, e ciò perfino se, nel frattempo, la cosa sia stata trasferita in proprietà di terzi (c.d. diritto di sequela), purchè la cosa sia rimasta in suo possesso (art.2787 c.c.).
Scaduta l’obbligazione, se il debitore non adempie spontaneamente, il creditore, per conseguire quanto gli è dovuto, può far vendere coattivamente la cosa ricevuta in pegno (art.2796 c.c.), previa intimazione al debitore (art.2797.1 c.c.); la vendita può essere effettuata alternativamente o ai pubblici incanti, se la cosa non ha un prezzo di mercato, o a mezzo di privati autorizzati. Il creditore può anche domandare al giudice che la cosa gli venga assegnata in pagamento, fino alla concorrenza del loro credito, purchè si provveda previa stima peritale del bene, a meno che questo abbia un prezzo corrente di mercato (art.2798 c.c.).
Un diritto di pegno può essere costituito, mediante un accordo contrattuale, a favore del creditore dal debitore oppure anche da un terzo. La costituzione del pegno potrebbe avvenire, se si guarda solo agli effetti inter partes, perfino con un accordo soltanto verbale. È indispensabile che il pegno sia opponibile ai terzi, ma a questo fine è necessario:
Infine per la costituzione del pegno occorre lo spossessamento del debitore (o del terzo costituente) nel senso che la cosa oggetto del pegno deve essere consegnata al creditore, ovvero ad un terzo di comune fiducia; può anche essere mantenuta in custodia di entrambe le parti, ma a condizione che il costituente sia nell’impossibilità di disporne senza la cooperazione del creditore (art.2786 c.c.).
Per il pegno di un credito occorrono ai fini della prelazione l’atto scritto e la notifica della costituzione al debitore o l’accettazione da parte si quest’ultimo con un atto di data certa (art.2800 c.c.).
Gli effetti che la costituzione del pegno produce sono:
L’ipoteca è un diritto reale di garanzia, che attribuisce al creditore il potere di espropriare il bene (diritto di sequela) sul quale l’ipoteca è costituita e di essere soddisfatto con preferenza (art.2808 c.c.).
L’ipoteca presenta, in comune con il pegno, i seguenti ulteriori requisiti:
Non esistono ipoteche occulte (pubblicità), chiunque deve essere in grado di conoscere se un bene è o no ipotecato, per regolarsi se gli conviene acquistarlo o concedere credito al proprietario del bene.
L’ipoteca si costituisce soltanto dopo che l’iscrizione sia stata effettivamente eseguita.
Oggetto d’ipoteca possono essere gli immobili con le loro pertinenze, i mobili registrati e le rendite dello Stato (art.2810.2 c.c.) e i diritti reali di godimento su beni immobili escluse le servitù (art.2810 c.c.). Anche la quota di un bene indiviso può formare oggetto di ipoteca. Poiché la cosa accessoria segue il destino della cosa principale, l’ipoteca si estende ai miglioramenti, alle costruzioni e alle altre accessioni dell’immobile ipotecato (art.2811 c.c.).
L’ipoteca può essere iscritta in forza di una norma di legge (ipoteca legale), in forza di una sentenza (ipoteca giudiziale) o in forza di un atto di volontà del debitore (ipoteca volontaria) o di un terzo, che la costituisce a garanzia del debito altrui (terzo datore d’ipoteca).
In alcune ipotesi previste dalla legge, l’ipoteca legale attribuisce a determinati creditori, il diritto di ottenere unilateralmente, e perciò senza o anche contro la volontà del debitore, l’iscrizione dell’ipoteca sui beni del debitore stesso. Anche in questo caso l’ipoteca nasce se non è scritta.
L’ipoteca legale spetta (art.2817 c.c.):
Questi due tipi di ipoteche presentano due caratteristiche:
Di regola il creditore, anche pecuniario, non ha diritto di chiedere unilateralmente l’iscrizione di un’ipoteca a carico di beni del debitore e a garanzia del suo credito, anche quando già scaduto ed esigibile. Tuttavia il legislatore gli concede un siffatto diritto quando ottenga una sentenza esecutiva che condanni il debitore a pagargli una somma di denaro ovvero un risarcimento di danni da liquidarsi successivamente (art.2818 c.c.). Vale a dire che in tal caso il creditore, presentando al Conservatore dei registri immobiliari copia autentica della sentenza, ha diritto di ottenere l’iscrizione dell’ipoteca su un qualsiasi bene immobile appartenente al debitore, senza bisogno che risulti il consenso di quest’ultimo ed anzi anche ove questi si opponga.
L’ipoteca volontaria può essere iscritta in base a contratto o anche a dichiarazione unilaterale del concedente, ma non per testamento. Nell’atto devono essere contenute le indicazioni idonee ad individuare l’immobile su cui si concede ipoteca (art.2826 c.c.). Legittimato alla concessione è il proprietario del bene.
L’ordine di preferenza tra le varie ipoteche è determinato dalla data di iscrizione. Ogni iscrizione riceve un numero d’ordine che determina il grado dell’ipoteca (art.2853 c.c.). Non è vietato lo scambio del grado tra creditori ipotecari, purchè esso non leda i creditori aventi gradi successivi. La surrogazione nel grado ipotecario può avvenire anche in forza di legge, quando si verificano i presupposti indicati nell’art.2856 c.c. (surrogazione del creditore perdente).
La pubblicità ipotecaria si attua mediante i seguenti atti: iscrizione, annotazione, rinnovazione, cancellazione.
L’iscrizione è l’atto con il quale l’ipoteca prende vita. Essa si esegue nell’ufficio dei registri immobiliari del luogo in cui si trova l’immobile (art.2827 c.c.).
L’iscrizione del credito fa collocare nello stesso grado, oltre il credito principale, i seguenti crediti accessori:
L’annotazione serve a rendere pubblico il trasferimento dell’ipoteca a favore di un’altra persona. Essa (che si esegue in margine all’iscrizione) ha efficacia costitutiva: la trasmissione o il vincolo dell’ipoteca non ha effetto finchè l’annotazione non sia eseguita.
Un’altra vicenda che può subire l’ipoteca è la riduzione, che ha luogo quando il valore del bene risulta eccessivo rispetto al credito garantito (artt.2872-2877).
L’iscrizione dell’ipoteca conserva il suo effetto per 20 anni dalla sua data (artt.954, 970, 1014.1, 1073 c.c.).
La rinnovazione serve appunto ad evitare che si verifichi l’estinzione dell’iscrizione: essa deve eseguirsi prima che i 20 anni dall’iscrizione siano decorsi, altrimenti l’ipoteca si può di nuovo iscrivere, purchè il titolo all’iscrizione conservi la sua efficacia, ma essa prende grado dalla nuova iscrizione: perciò, se nel frattempo qualche creditore ha iscritto altra ipoteca, sarà preferito a colui che non ha curato a tempo debito la rinnovazione (art.2848 c.c.).
La cancellazione estingue l’ipoteca e ha luogo di regola quando il credito è estinto o quando il creditore rinunzia all’ipoteca (art.2882 c.c.). La cancellazione può essere consentita dal creditore oppure essere ordinata dal giudice: in questo caso, peraltro, la cancellazione non può essere effettuata, se la sentenza non è passata in giudicato.
Il terzo acquirente è esposto all’espropriazione del bene soltanto per averlo acquistato nonostante che vi fosse ipoteca. Perciò la legge, senza sacrificare i diritti del creditore, gli consente di evitare l’espropriazione esercitando a sua scelta una delle seguenti facoltà:
Il terzo datore non può dire al creditore di fare espropriare prima i beni del debitore e poi quello ipotecato (art.2878 c.c.). Se paga i crediti iscritti o subisce l’espropriazione, può rivolgersi contro il debitore per farsi rimborsare (diritto di regresso: art.2871 c.c.).
Le cause estintive dell’ipoteca sono indicate nell’art.2878 c.c.. L’estinzione dell’ipoteca colpisce lo stesso diritto di ipoteca. Dato il carattere accessorio dell’ipoteca, se si estingue il credito per prescrizione, si estingue anche l’ipoteca e se ne può ottenere la cancellazione. L’ipoteca può formare anche oggetto di rinunzia.
Come sappiamo, il patrimonio del debitore costituisce per il creditore la garanzia del soddisfacimento delle obbligazioni contratte dal debitore stesso (art.2740 c.c.).
Per impedire che il patrimonio del debitore possa subire diminuzioni che incidano sulla garanzia anzidetta, la legge dà al creditore la facoltà di sperimentare dei rimedi, volti ad assicurare la conservazione di tale garanzia: si tratta dell’azione surrogatoria (art.2900 c.c.), dell’azione revocatoria (artt.2901-2904 c.c.) e del sequestro conservativo (artt.2905-2906 c.c.).
Qualora il patrimonio del debitore divenga insufficiente a garantire il soddisfacimento di tutti i suoi creditori, la legge consente che ciascun creditore possa surrogarsi al debitore inattivo per esercitare i diritti e le azioni che gli spettano.
Perché si possa esperire un’azione surrogatoria, non basta l’inerzia del debitore, ma occorre che da questa inerzia derivi un pregiudizio per i creditori, pregiudizio consistente nel rendere insufficiente la garanzia generica dei creditori, costituita dal patrimonio del debitore.
Solo i diritti patrimoniali concorrono a formare la garanzia generica del creditore.
Qualora il debitore dovesse compiere atti che diminuiscono il suo patrimonio fino a renderlo insufficiente a garantire il soddisfacimento dei diritti di tutti i suoi creditori, ovvero dovesse compiere atti che, pur non diminuendo il patrimonio, diminuiscono la garanzia dei creditori, a questi ultimi è concesso il rimedio dell’azione revocatoria. Per l’esperimento dell’azione revocatoria si richiedono i seguenti presupposti (art.2901 c.c.):
L’onere di provare la consapevolezza dell’acquirente spetta a chi agisce in revocatoria.
Il negozio simulato non è voluto dalle parti; il negozio concluso in frode ai creditori è, invece, voluto, ancorchè vi sia, in chi lo mette in essere, la consapevolezza di pregiudicare i creditori. Es: se Tizio, essendo oberato di debiti, per sfuggire all’esecuzione da parte dei propri creditori, si mette d’accordo con il suo amico Caio, stipulando un contratto che in realtà nessuno dei due vuole realmente, ma che è volto a far apparire che il primo vende al secondo i suoi beni, ma in realtà Caio non sborsa un soldo, Tizio rimane in possesso dei suoi beni e continua a percepirne i frutti, il negozio è simulato. Se, invece, Tizio vende effettivamente i suoi beni a Caio, si ha un negozio in frode ai creditori.
L’azione revocatoria non rende affatto invalido l’atto. Essa non ha effetto restitutorio: il bene non ritorna nel patrimonio del debitore. L’inefficacia dell’atto giova solo al creditore che abbia agito, eliminando il pregiudizio che si era creato ai suoi danni: di essa non potrebbe avvalersi né il debitore, né gli altri creditori , né il terzo.
Nel caso in cui, chi ha acquistato dal debitore ha disposto a sua volta del bene oggetto del negozio fraudolento a favore di terzi (subacquirenti), la legge non accorda alcuna protezione all’acquisto a titolo gratuito, perché ritiene più giusto evitare il pregiudizio al creditore. Se invece, l’acquisto è a titolo oneroso, allora creditore e terzo si trovano alla pari: entrambi vogliono evitare un pregiudizio.
La legge inoltre protegge l’affidamento che i terzi, ignari della frode, e quindi, in buona fede, hanno fatto sull’efficacia del precedente contratto.
I creditori, se esercitano l’azione revocatoria, devono dimostrare che il credito è anteriore all’atto in frode e in ogni caso che questo ha arrecato loro pregiudizio: nell’azione di simulazione, ciò non è necessario.
Differenza tra l’azione surrogatoria e la revocatoria: l’una ha per presupposto l’inerzia del debitore nell’esercizio di un diritto, l’altra il compimento di un atto pregiudizievole per i creditori.
Il sequestro conservativo è una misura preventiva e cautelare, che il creditore può chiedere al giudice, quando ha fondato timore di perdere le garanzie del proprio credito (art.2905 c.c.).
Il sequestro ha per scopo di impedire la disposizione del bene da parte del debitore (art.2906 c.c.), che viene colpito con sanzioni penali, se sottrae o danneggia i beni sequestrati.
Il diritto di ritenzione è il diritto di rifiutare la consegna di una cosa di proprietà del debitore, che il creditore detiene, fin quando il debitore non adempia all’obbligazione, connessa con la cosa.
Il diritto di ritenzione è consentito soltanto nei casi espressamente previsti.
Per l’art.1321 c.c. il contratto è l’accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale.
Le patri possono liberamente determinare il contenuto del contratto (autonomia contrattuale), nei limiti imposti dalla legge (art.1322.1 c.c.).
Per l’art.1325 c.c. gli elementi essenziali del contratto sono: l’accordo delle parti (art.1326 c.c.); la causa (artt.1343-1345 c.c.); l’oggetto o contenuto degli accordi dei contraenti (art.1346 c.c.); la forma.
Le più importanti classificazione dei contratti sono le seguenti:
Si dice preliminare il contratto con cui le parti si obbligano a stipulare un successivo contratto definitivo, di cui, peraltro, devono avere già determinato nel preliminare il contenuto essenziale.
Il contratto preliminare può vincolare ambedue le parti o una sola (promessa o preliminare unilaterale). Come per ogni altro contratto che rimanga inadempiuto, si può chiedere il risarcimento dei danni subìti a causa dell’inadempienza della controparte.
Inoltre, la parte che vi ha interesse, può ottenere, ove lo voglia, qualora sia possibile e non sia escluso dal titolo, una sentenza costitutiva che produca gli stessi effetti che avrebbe dovuto produrre il contratto che l’altra parte non ha voluto concludere.
La figura del contratto preliminare si può riscontrare in relazione a qualsiasi tipo di contratto; unica eccezione è quella relativa all’inammissibilità del contratto preliminare di donazione.
Alcuni contratti preliminari sono assoggettabili a trascrizione.
L’art.2645-bis stabilisce la trascrivibilità dei contratti preliminari aventi ad oggetto la stipulazione di contratti che, relativamente a beni immobili, trasferiscono la proprietà, costituiscono o trasferiscono diritti di usufrutto, superficie ed enfiteusi, ovvero diritti di comunione, diritti di servitù prediali, uso e abitazione.
Naturalmente la trascrizione è ammissibile solo se tali preliminari risultano da atto pubblico o da scrittura privata con sottoscrizione autenticata o accertata giudizialmente.
La trascrizione del preliminare è ammessa anche per gli edifici da costruire o in corso di costruzione (art.2645-bis.4 c.c.), ma a condizione che indichino la superficie utile della porzione di edificio e la quota del diritto spettante al promissario acquirente relativa all’intero costruendo edificio espressa in millesimi.
Si ha cessione di un contratto (art.1406 c.c.) quando una parte (il cedente) di un contratto originario, purchè a prestazioni corrispettive da ambo le parti non ancora eseguite, stipula con un terzo (il cessionario) un nuovo contratto (di cessione), con il quale cedente e cessionario si accordano per trasferire a quest’ultimo il contratto (originario), ossia tutti i rapporti attivi e passivi determinati dal contratto ceduto.
Il consenso alla cessione da parte del contraente ceduto può essere dato anche in via preventiva (art.1407.1 c.c.): in tal caso la cessione del contratto diventa efficace con la semplice notificazione al ceduto dell’accordo di cessione tra cedente e cessionario.
Per effetto della cessione il cedente è liberato dalle sue obbligazioni verso il contraente ceduto e non è neppure responsabile verso quest’ultimo dell’eventuale inadempimento contrattuale da parte del cessionario (art.1408.1 c.c.). Se il ceduto vuole evitare questa conseguenza, deve dichiarare espressamente che con il suo consenso alla cessione non intende liberare il cedente: in tal caso quest’ultimo risponde in proprio qualora il cessionario si renda inadempiente agli obblighi contrattuali assunti (art.1408.2 c.c.).
Parimenti il cedente non è responsabile verso il cessionario qualora il ceduto non adempia agli obblighi derivanti dal contratto ceduto. In ogni caso il cedente è tenuto a garantire al cessionario la validità del contratto (artt.1410, 1266 c.c.).
La cessione del contratto può essere stipulata senza prevedere alcun corrispettivo a carico dell’uno o dell’altro dei contraenti: in tal caso le parti considerano equilibrati i rispettivi oneri e vantaggi.
Ma la cessione del contratto può anche essere stipulata prevedendo un corrispettivo o a carico del cessionario e a favore del cedente; o a carico del cedente e a favore del cessionario.
Occorre distinguere la cessione del contratto dal subcontratto o contratto derivato. Nella cessione si ha sostituzione di un nuovo soggetto ad uno dei contraenti originari e tutti i rapporti contrattuali restano invariati, salva la modifica di uno dei titolari; nel subcontratto, invece, i rapporti tra i contraenti originari continuano a sussistere, ma accanto ad essi si creano nuovi rapporti tra uno dei contraenti originari ed un terzo.
Capitolo 41: LA CONCLUSIONE DEL CONTRATTO
Per giungere alla stipulazione di un contratto spesso è necessario un periodo di trattative. Durante le trattative le parti sono libere di concludere o meno il contratto, ma devono comportarsi secondo buona fede (art.1337 c.c.).
Se violano questo dovere, incorrono in un particolare tipo di responsabilità (responsabilità precontrattuale).
In particolare trasgredisce l’obbligo di comportarsi secondo buona fede, la parte che, avendo le trattative raggiunto un punto tale da determinare un ragionevole affidamento circa la conclusione del contratto, le interrompa senza un giustificato motivo: conseguentemente dovrà risarcire all’altra parte le spese che questa fosse stata indotta a sostenere e che non avrebbe affrontato se non avesse confidato nella stipulazione dell’accordo.
Nell’ipotesi d’inadempimento di un contratto, viene leso l’interesse positivo all’osservanza del contratto, e quindi il risarcimento si commisura all’intero danno subìto dal contraente.
Se non vengono osservati i doveri che la legge impone durante le trattative e negli altri casi di colpa in contrahendo, si viene a ledere l’interesse che la parte aveva, a non iniziare trattative che le hanno fatto perdere tempo e procurato delle spese (interesse negativo).
Mentre nel caso di inadempimento del contratto è risarcibile l’intero danno derivante dall’inadempienza, il risarcimento dovuto in caso di culpa in contrahendo, di responsabilità precontrattuale, è limitato alle spese e alle perdite che siano strettamente dipendenti dalle trattative e al vantaggio che la parte avrebbe potuto conseguire se, invece di impiegare la sua attività nella trattativa fallita, si fosse dedicata ad altre contrattazioni (lucro cessante).
Proposta ed accettazione non costituiscono un negozio, ma sono elementi che precedono il perfezionamento del negozio e sono, perciò, denominati prenegoziali.
Quando alla proposta segue l’accettazione, allora si ha l’accordo.
Vari princìpi potrebbero essere adottati dal legislatore:
Per dimostrare che il contratto si è perfezionato, è sufficiente dimostrare che la dichiarazione di accettazione sia pervenuta all’indirizzo del proponente (art.1335 c.c.).
Spesso, peraltro, i contratti si concludono senza bisogno di una formale accettazione, dando direttamente esecuzione ad un ordine ricevuto: in tal caso l’accordo si considera perfezionato nel tempo e nel luogo in cui ha avuto inizio l’esecuzione (art.1327.1 c.c.).
L’accettante deve dare, però, prontamente avviso all’altra parte dell’iniziata esecuzione (art.1327.2 c.c.).
Se poi si tratta di un contratto con obbligazioni a carico del solo proponente (es. fideiussione), siccome in tal caso l’accettazione del destinatario della proposta si può agevolmente presumere, è sufficiente, per la perfezione del contratto, il contegno omissivo del destinatario il quale non respinga la proposta stessa, nel termine richiesto dalla natura dell’affare o dagli usi (art.1333 c.c.).
Il proponente, per impedire la conclusione del contratto, può revocare la proposta purchè prima che gli sia giunta l’accettazione; mentre per la revoca dell’accettazione non è sufficiente che tale revoca sia stata emessa e trasmessa prima che l’accettazione giungesse a conoscenza del proponente, ma occorre altresì che la revoca dell’accettazione pervenga all’indirizzo di quest’ultimo prima che vi sia pervenuta l’accettazione.
La proposta perde automaticamente efficacia se, prima che il contratto si sia perfezionato, il proponente muore o diventa incapace (intrasmissibilità della proposta).
Del pari perde efficacia l’accettazione se l’accettante muore o diventa incapace nell’intervallo tra la spedizione della dichiarazione di accettazione e l’arrivo di questa al proponente. Quest’ultimo può anche precludersi la facoltà di revoca, dichiarando che la proposta è irrevocabile. In tal caso una eventuale revoca che venisse successivamente comunicata al destinatario della proposta, sarebbe inefficace (proposta ferma), a meno che la revoca intervenga dopo scaduto il termine per il quale la proposta era stata dichiarata irrevocabile.
Se la proposta irrevocabile non è accompagnata dalla indicazione della durata della irrevocabilità, questa si intende estesa per tutto il tempo ordinariamente necessario per la sua accettazione.
La proposta irrevocabile conserva il suo valore pure in caso di morte o sopravvenuta incapacità del proponente (art.1329 c.c.), di modo che anche in tali ipotesi il destinatario della proposta potrebbe ancora perfezionare il contratto accettando l’offerta, purchè l’accettazione giunga all’altra parte entro il termine di validità della proposta.
L’offerta al pubblico (art.1336 c.c.9 è valida benchè indirizzata a destinatari indeterminati, purchè contenga gli estremi essenziali del contratto alla cui conclusione è diretta.
L’offerta al pubblico è revocabile come ogni altra proposta contrattuale.
La revoca è efficace anche in confronto di chi, essendo in precedenza venuto a conoscenza dell’offerta, non sia invece venuto a conoscenza della revoca (art.1336.2 c.c.).
L’opzione (art.1331 c.c.) si ha quando il vincolo della irrevocabilità della proposta non consegue ad un impegno assunto unilateralmente dal proponente, ma ad un accordo stipulato tra le parti.
Il vincolo derivante dall’opzione non può durare all’infinito e quindi, se non è stato fissato un termine di validità del vincolo, questo è stabilito dal giudice (art.1331.2 c.c.).
La prelazione è il diritto di essere preferito ad un altro soggetto, a parità di condizioni, nel caso in cui la persona soggetta alla prelazione dovesse decidersi a stipulare un determinato contratto.
Il soggetto passivo della prelazione non è obbligato a concludere tale contratto e conserva la sua piena libertà di decidere se, ad es. vendere o meno il bene oggetto della prelazione.
La prelazione può essere volontaria, quando venga concessa con un accordo tra privati, o può essere legale, ricorrendo determinati presupposti, per finalità di interesse generale.
La prelazione volontaria non è opponibile ai terzi ed ha quindi mera efficacia obbligatoria.
Di solito le imprese predispongono moduli contrattuali, nei quali inseriscono clausole uniformi e standardizzate (perciò si parla di contratti standard), e che il cliente non può discutere: o aderisce o rifiuta.
È tuttavia necessario predisporre delle cautele a favore dell’aderente, ad evitare abusi ai suoi danni.:. si prevede:
Le regole principali della nuova disciplina relativa ai contratti del consumatore sono:
Capitolo 42: GLI EFFETTI DEL CONTRATTO
Si dice che il contratto ha forza di legge (art.1342 c.c.) in quanto le parti, dal momento in cui esso si perfeziona, sono obbligate ad osservarlo. Il contratto obbliga le parti non solo a quanto è nel medesimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge, o, in mancanza, secondo gli usi e l’equità (art.1374 c.c.).
Tuttavia un diritto di recesso (convenzionale) può essere concordato a favore di una o di entrambe le parti, ma il tal caso la facoltà di recedere deve essere esercitata prima che abbia inizio l’esecuzione del contratto (art.1373.1 c.c.). Spesso un diritto di recesso è attribuito ad una parte a fronte di un corrispettivo, rappresentato di solito da una somma di danaro. Talvolta è la stessa legge che attribuisce ad una della parti il diritto di recedere da un contratto ove si verifichino determinati presupposti (artt.1537, 1660, 1674 c.c.).
Nella determinazione del contratto non si deve tener conto soltanto delle clausole pattuite dalle parti. Là dove queste non abbiano disposto occorre provvedere alla integrazione del contratto (art.1374 c.c.), applicando le eventuali norme dispositive o gli usi o l’equità. Ma la legge interviene non solo con funzione integratrice della volontà privata, ma pure con funzione imperativa, che annulla ogni contraria pattuizione dei privati.
Infine va ricordato che il principio fondamentale in tema di esecuzione del contratto, come in tema di interpretazione, deve essere il rispetto della buona fede (art.1375 c.c.).
Per quanto riguarda i contratti con effetti reali, è importante tener presente la regola che, in mancanza di accordo delle parti, fissa il momento in cui ha luogo il passaggio della proprietà, per tutte le conseguenze che ne derivano, tra cui la più importante è quella relativa al rischio per il perimento fortuito della cosa.
I principi fissati dalla legge sono:
Se una persona concede lo stesso diritto prima ad A e poi con un successivo contratto a B, tra A e B, dovrebbe essere preferito colui a cui il diritto è stato concesso per primo. In ogni caso, il contraente che viene sacrificato ha diritto al risarcimento dei danni verso l’altra parte, la quale, attribuendo lo stesso diritto ad altri, ha violato il contratto. Se taluno, con successivi contratti aliena a più persone un bene mobile non registrato, quella tra esse che ne ha acquistato in buona fede il possesso, è preferita alle altre, anche se il suo titolo è di data posteriore (art.1155 c.c.). Se il conflitto riguarda diritti reali ed alcuni diritti personali su beni immobili o mobili registrati, si applicano le regole della trascrizione. Se il diritto di utilizzare lo stesso bene è stato concesso a più persone, tra i vari aventi diritto è preferito chi per primo ha conseguito il godimento della cosa (art.1380 c.c.); se nessuno ha conseguito tale godimento, si applica la regola generale: la preferenza spetta a colui che può dimostrare di aver concluso il contratto in data anteriore.
In caso di inadempimento, il creditore ha diritto, come sappiamo, ad essere risarcito dei danni subìti. Perciò le parti possono stabilire nel contratto una clausola con cui stabiliscono ex ante, quanto il debitore dovrà pagare, a titolo di penale, ove dovesse rendersi inadempiente. In tal caso la parte inadempiente è tenuta a pagare la penale stabilita, senza che il creditore debba dare la prova di aver subìto effettivamente un danno di misura corrispondente: e perciò si dice che tale clausola penale contiene una liquidazione convenzionale anticipata del danno.
La penale può essere prevista sia per inadempimento assoluto dove il creditore, se pretende la penale, non può più pretendere la prestazione principale, che per il semplice ritardo dove può pretendere sia la penale che la prestazione contrattualmente prevista (art.1383 c.c.). Se nello stabilire la penale le parti non hanno espressamente previsto la risarcibilità dell’eventuale danno ulteriore, il creditore non può pretendere più di quanto non sia stabilito nella penale, nemmeno se il danno da lui subìto finisca poi col risultare maggiore. Le parti sono però libere di prevedere, nella clausola, che il creditore abbia il diritto di pretendere, oltre alla penale, anche il risarcimento dell’eventuale maggiore danno, naturalmente purchè dia la prova che il danno effettivamente subìto non era coperto da quanto stabilito a titolo di penale. Ma il giudice può ridurre l’ammontare della penale ove la ritenga eccessiva.
La caparra: il c.c. disciplina due tipi di caparra: la caparra confirmatoria (art.1385) e la caparra penitenziale (art.1386). Con la prima si provvede già a consegnare all’altra parte, nel momento stesso del perfezionamento dell’accordo, una somma di danaro o una quantità di cose fungibili. La caparra, una volta eseguito il contratto, deve essere restituita o trattenuta a titolo di acconto sul prezzo. Ove, però, la parte che ha dato la caparra si rendesse inadempiente agli obblighi assunti, l’altra parte può scegliere se recedere dal contratto, trattenendo in tal caso definitivamente la caparra ricevuta o preferire la risoluzione del contratto. Ove inadempiente fosse invece la parte che ha ricevuto la caparra, è ovviamente la controparte a poter scegliere se recedere o meno dal contratto, ed in caso di recesso può pretendere il doppio di quanto aveva versato a titolo di caparra (art.2385.2.3 c.c.).
In caso di caparra penitenziale, la somma versata a titolo di caparra ha solo la funzione di corrispettivo di un diritto di recesso che le parti possono riservarsi ai sensi dell’art.1373 c.c.: vale a dire che chi ha versato la caparra può rinunciarvi ed il contratto è sciolto, senza che la controparte possa pretendere altro (art.1386 c.c.). Parimenti chi ha ricevuto la caparra può recedere dal contratto restituendo il doppio della caparra ricevuta.
Se ti prometto che un terzo assumerà il tuo debito o svolgerà una determinata attività a tuo favore, il terzo è naturalmente libero di compiere o meno quanto io ho promesso: obbligato sono soltanto io a persuadere il terzo a fare quanto ho promesso. Se il terzo non aderisce alle mie premure, l’unica conseguenza della promessa dell’obbligazione sarà che io dovrò indennizzare colui a cui ho fatto la promessa, anche quando mi sia adoperato con ogni mezzo per indurre il terzo (art.1381 c.c.)
L’art.1411 c.c. ammette in via generale la figura del contratto con cui le parti attribuiscono ad un terzo il diritto di pretendere l’adempimento di un contratto, benchè stipulato da altri, subordinandone la validità soltanto alla condizione che lo stipulante abbia un interesse, anche se solamente morale, all’attribuzione di tale vantaggio al terzo. Perché si abbia contratto a favore di terzi è indispensabile l’attribuzione al terzo della titolarità di un diritto a poter pretendere egli stesso e direttamente dall’obbligato, l’esecuzione della prestazione promessa: con la conseguenza che il terzo, occorrendo, potrà agire in giudizio contro l’obbligato, indipendentemente dalle iniziative e dal comportamento dello stipulante.
Figure particolari di contratti a favore del terzo sono costituite dal contratto di assicurazione sulla vita a favore del terzo, dal contratto di trasporto di cose, dall’accollo, dalla rendita vitalizia a favore del terzo.
La disciplina fondamentale a favore del terzo è:
Capitolo 43: LA RESCISSIONE E LA RISOLUZIONE DEL CONTRATTO
La rescissione del contratto può chiedersi a) perché è stato concluso in istato di pericolo; b) per lesione.
Per poter sperimentare l’azione di rescissione di un contratto stipulato in condizioni di pericolo occorrono i seguenti presupposti:
Il c.c. ha voluto offrire un rimedio contro i contratti sinallagmatici nei quali vi sia una sproporzione abnorme tra le due prestazioni e vi ha provveduto con un’azione di carattere generale, esperibile rispetto a qualsiasi contratto.
Si richiedono:
Il contraente contro cui è proposta l’azione di rescissione può evitarla eliminando lo squilibrio che ne costituisce il fondamento, cioè offrendo un aumento della sua prestazione o, comunque, una modificazione del contratto sufficiente per ricondurlo ad equità.
La rescissione non ha efficacia retroattiva: perciò non pregiudica i diritti acquistati dai terzi, salva l’applicazione dei principi sulla trascrizione della domanda (art.1452 c.c.).
L’azione si prescrive di regola, in un anno dalla conclusione del contratto.
È prevista la risoluzione del contratto:
Difatti, di fronte all’inadempimento dell’altra parte, al contraente non inadempiente è lasciata (art.1453 c.c.) la facoltà di scegliere fra queste due vie: o insistere per l’adempimento degli accordi, chiedendo la c.d. manutenzione del contratto e quindi la condanna della controparte ad eseguire la prestazione non adempiuta, o esercitare il diritto potestativo di chiedere la risoluzione del contratto, ossia che il contratto venga sciolto e considerato come se non fosse mai stato stipulato. In entrambi i casi il contraente non inadempiente ha inoltre il diritto di pretendere il risarcimento dei danni subìti, che vanno però calcolati in modo ben diverso nelle due ipotesi.
Difatti, se egli insiste per la manutenzione del contratto, questo significa che l’adempimento della controparte è ancora possibile e che ci troviamo di fronte ad un semplice ritardo: perciò il contraente non inadempiente potrà pretendere sia l’esecuzione della prestazione originariamente dovuta, sia il risarcimento del danno che gli deriva dal ritardo nel conseguire l’adempimento e correlativamente sarà tenuto ad eseguire la controprestazione.
Quando, viceversa, il creditore non intende più restare vincolato dal contratto stipulato, di cui, pertanto, non solo non vuole la manutenzione, ma vuole lo scioglimento (risoluzione), il risarcimento cui ha diritto non si aggiunge al diritto nascente dal contratto, ma si sostituisce a quello, è perciò è commisurato non al semplice danno da ritardo, ma al pregiudizio che il contraente ha subìto per non aver ricevuto la prestazione promessa.
D’altra parte, una volta che sia stata chiesta la risoluzione, l’inadempiente non può più rimediare alla precedente violazione del contratto con una tardiva esecuzione della prestazione da lui dovuta (art.1453.3 c.c.).
Per ottenere la risoluzione occorre proporre una domanda giudiziale, e spetterà al giudice, in caso di contestazione, accertare se, veramente vi sia stato inadempimento del contratto e se di tale inadempimento sia responsabile il convenuto.
Inoltre il giudice, per dichiarare risolto il contratto, deve anche accertare che l’inadempimento non abbia scarsa importanza (art.1455 c.c.).
La risoluzione ha efficacia retroattiva (art.1458 c.c.), il che significa che non soltanto il contratto risolto non produce più effetti per l’avvenire, ma che pure le prestazioni già eseguite devono essere restituite, salvo che per i contratti a esecuzione periodica.
La risoluzione del contratto può intervenire non soltanto per effetto di una sentenza del giudice, ma anche di diritto, in tre casi espressamente regolati dal c.c.:
Un altro rimedio, sempre nei contratti a prestazioni corrispettive, è offerto dalla legge nel caso d’inadempimento di una delle parti, se l’altra non ha ancora adempiuto la sua prestazione. Cioè, la parte tenuta ad adempiere successivamente può legittimamente rifiutare di eseguire la prestazione da lei dovuta, qualora l’altra parte non abbia ancora eseguito la propria.
A ciascun contraente è attribuita la facoltà di sospendere l’esecuzione della prestazione da lui dovuta, se le condizioni patrimoniali dell’altro sono divenute tali da porre in pericolo il conseguimento della controprestazione. Naturalmente, se viene prestata idonea garanzia, cessa il pericolo che la prestazione non sia conseguita e la prestazione non ha alcuna giustificazione.
Una delle parti può assicurarsi, mediante un’apposita clausola (clausola solve et repete; art.1462 c.c.), una protezione ai fini dell’adempimento della prestazione ad essa dovuta. Può, cioè, essere stabilito che una delle parti non può opporre eccezioni al fine di evitare o ritardare la prestazione dovuta.
La clausola stabilisce dei limiti:
L’impossibilità sopravvenuta della prestazione, estingue l’obbligazione. Se la prestazione è divenuta solo parzialmente impossibile (impossibilità parziale), il corrispettivo è giustificato solo per la parte corrispondente e dev’essere ridotto. Se poi la prestazione che è residuata non offra un interesse apprezzabile per il creditore, egli può recedere dal contratto (art.1464 c.c.).
Per quanto riguarda i contratti ad effetti reali, occorre tener presente il momento in cui avviene il trasferimento della proprietà: se il perimento della cosa determinata avviene dopo che la proprietà è passata all’acquirente, è questi che deve sopportare il rischio. Egli è tenuto ugualmente a corrispondere la controprestazione stabilita (art.1465 c.c.), anche se non sia avvenuta la consegna.
333 La risoluzione per eccessiva onerosità
Il legislatore ha concesso un rimedio per il caso in cui fatti sopravvenuti straordinari ed imprevedibili rendano la prestazione di una delle parti eccessivamente onerosa, determinando un sacrificio sproporzionato di una parte a vantaggio dell’altra e che si tratti di contratti per i quali è previsto il decorso di un intervallo di tempo tra la stipulazione dell’accordo e la sua esecuzione. È solo in questi limiti che si è accolta una clausola secondo la quale un accordo sarebbe vincolante solo a condizione che non si modifichino i rapporti di valore tra le prestazioni oggetto dello scambio.
La risoluzione per eccessiva onerosità non si applica ai contratti aleatori, per i quali è normale l’accettazione di un rischio particolare. Comunque, la parte contro la quale è domandata la risoluzione può evitarla offrendo (art.1467.3 c.c.) di modificare equamente le condizioni del contratto (offerta di riduzione di equità).
Capitolo 44: PREMESSA
Il titolo 3° del libro 4° del c.c. contiene la disciplina dei contratti tipici ossia di quei contratti che sono stati specificatamente regolati dal legislatore. Non tutti i contratti sono però compresi in questo titolo.
L’ordine con cui questi contratti sono esaminati è:
Si parla di vendita “porta a porta”, di contratti a “distanza”, di contratti negoziati “fuori dai locali commerciali”, mediante i quali una persona fisica, agendo al di fuori della sua attività professionale, si procura beni o servizi da un fornitore professionista che opera a distanza. La tutela del consumatore si sostanzia per un verso nel diritto ad essere adeguatamente e preliminarmente informato su tutti gli aspetti di rilievo del contratto e sui poteri che gli spettano in proposito; e per altro verso in un diritto di recesso esercitabile, incondizionatamente e senza subire perdite di sorta, entro 10 gg. dalla stipulazione del contratto.
Capitolo 45: LA COMPRAVENDITA
La vendita viene attuata:
La compravendita è il contratto che ha per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa o il trasferimento di un altro diritto verso il corrispettivo di un prezzo che è elemento essenziale della vendita e consiste in un corrispettivo in danaro.
La vendita è un contratto consensuale: per il suo perfezionamento non occorre la consegna della cosa, che, invece, costituisce una delle obbligazioni del venditore. La vendita è un contratto ad effetti reali, cioè la proprietà o il diritto oggetto dello scambio si trasmettono automaticamente per effetto del consenso delle parti.
Il prezzo deve essere determinato o determinabile: in difetto il contratto è nullo.
Nel preliminare di vendita le parti non trasferiscono ancora il diritto oggetto dell’accordo, né si impegnano al pagamento del prezzo, ma si limitano ad obbligarsi a stipulare successivamente la vendita (contratto definitivo), al verificarsi di una condizione o allo scadere di un termine. Solo con la stipulazione della vendita si verificheranno gli effetti tipici di questo contratto, mentre dal preliminare derivano soltanto effetti obbligatori e non il trasferimento del diritto.
Quando invece le parti hanno pattuito un’opzione di vendita, il beneficiario non ha più bisogno dl consenso della controparte e può perfezionare la vendita con una sua dichiarazione unilaterale di accettazione delle condizioni contrattuali fissate nell’opzione.
Molto frequente, infine, è la concessione di una prelazione per l’acquisto di un bene. La violazione di quest’obbligo non comporta nessuna conseguenza per la controparte acquirente, ma obbliga l’inadempiente al risarcimento dei danni.
La vendita ha di regola effetti reali, ossia produce, in virtù del consenso, il trasferimento della proprietà della cosa o, in genere, del diritto oggetto della vendita. In alcune ipotesi, peraltro, questo effetto non può immediatamente realizzarsi e il contratto ha, quindi, efficacia obbligatoria. Le figure più importanti di vendita obbligatoria sono:
La vendita di beni immobili deve farsi per atto scritto ed è soggetta a trascrizione. A questa pubblicità soggiace anche la vendita di beni mobili registrati.
340 Obbligazioni del venditore
Le obbligazioni principali del venditore sono:
341 La garanzia per evizione
Al riguardo vanno distinte due ipotesi:
342 La garanzia per i vizi
Vizi di una cosa sono le imperfezioni o alterazioni del bene, dovute alla sua produzione o alla sua conservazione. Il compratore non ha diritto di protestare per qualsiasi difetto della cosa acquistata. Il venditore è tenuto alla garanzia quando i vizi siano tali da rendere il bene inidoneo all’uso a cui è destinato o quanto meno da diminuire in modo apprezzabile il valore. La garanzia non è dovuta se, al momento del contratto, il compratore, trattandosi di vendita di cosa specifica, conosceva i vizi della cosa o si trattava di vizi facilmente riconoscibili.
Il compratore, peraltro, se intende far valere la garanzia cui il venditore è tenuto, ha l’onere di denunciare l’esistenza dei vizi entro 8 gg., che decorrono dalla consegna se si tratta di vizi apparenti o dalla scoperta se si tratta di vizi occulti.
Il vizio si dice apparente quando, con un esame diretto della cosa condotto con criteri di diligenza, avrebbe dovuto accorgersene.
Ove ricorrano i requisiti indicati, il compratore ha diritto di chiedere, a sua scelta, o la risoluzione del contratto, restituendo il bene e facendosi restituire il prezzo pagato o liberandosi dall’obbligo di pagarlo, ovvero la riduzione del prezzo, salvo in ogni caso il diritto al risarcimento del danno, a meno che il venditore provi di avere ignorato senza colpa i vizi della cosa.
L’azione del compratore è soggetta ad un termine di prescrizione di un anno, che decorre dal momento della consegna.
Identica tutela spetta al compratore qualora la cosa venduta non abbia le qualità promesse, ossia garantite dal venditore al momento della conclusione del contratto.
343 Le obbligazioni del compratore
L’obbligazione principale del compratore consiste nel dovere di pagare il prezzo pattuito (art.1498 c.c.) nel termine e nel luogo fissati dal contratto. Di regola il prezzo è oggetto di libero negoziato tra le parti, che di solito, concordano per il prezzo di mercato. Le parti possono anche affidare la determinazione del prezzo ad un terzo eletto nel contratto o da eleggere posteriormente. Sarebbe nulla, per mancanza di un elemento essenziale, la vendita in cui il prezzo non sia stato né espressamente né implicitamente determinato.
344 La vendita con patto di riscatto
La vendita con patto di riscatto (artt.1500-1509 c.c.) è una vendita sottoposta a condizione risolutiva potestativa: il venditore si riserva il diritto di riavere la cosa venduta mediante la restituzione del prezzo e i rimborsi stabiliti dalla legge. Vi si ricorre di solito quando il venditore è indotto a vendere per realizzare denaro liquido, ma spera di poter, entro un certo termine, avere la somma necessaria per farsi restituire la cosa venduta. La vendita produce i suoi effetti, ma questi si eliminano se il venditore dichiara di voler riscattare la cosa venduta. Basta questa dichiarazione a far rientrare la cosa nel patrimonio del venditore. L’esercizio del diritto di riscatto è sottoposto ad un breve termine di decadenza (art.1501 c.c.).
Dal 1° dicembre 1988 è entrata in vigore anche in Italia la “Convenzione di Vienna sui contratti di vendita internazionale di beni mobili”, che detta una disciplina internazionale uniforme, applicabile a tutti i casi in cui siano compravendute merci tra le parti “le cui sedi di affari si trovano in Stati differenti”.
Nella vendita mobiliare ricorre spesso il patto volto a garantire al compratore “il buon funzionamento” della cosa venduta e a garantire la presenza nelle cose vendute delle qualità desiderate dal compratore.
Figure particolari di vendite mobiliari sono:
346 Vendita di valori mobiliari
Quotidianamente si scambiano titoli di Stato, azioni e quote di s.p.a., titoli obbligazionari, quote di fondi di investimento, ecc.., per ammontari di grande rilievo. È prassi diffusa, per le cessioni di pacchetti azionari rilevanti per il controllo di una s.p.a., accompagnare la vendita con patti di garanzia in ordine al patrimonio sociale di cui la società emittente è titolare.
Nella vendita a rate le parti stabiliscono che il prezzo debba essere pagato frazionatamente entro un certo tempo e che la proprietà passi al compratore solo quando sarà pagata l’ultima rata del prezzo stesso (art.1523 c.c.). Chi compra a rate non può alienare la cosa fin quando non ne ha acquistato la proprietà.
La vendita di immoli deve farsi per iscritto (art.1350 c.c.) ed è soggetta a trascrizione (art.2643.1 c.c.). si distinguono, in relazione alla determinazione del prezzo, la vendita a misura, in cui il prezzo è stabilito in proporzione delle unità di misura (tanto a mt quadrato o a mt cubo), e la vendita a corpo, in cui l’immobile è venduto per un prezzo globale.
Capitolo 46: GLI ALTRI CONTRATTI DI SCAMBIO CHE REALIZZANO UN DO UT DES
La permuta differisce dalla vendita in quanto lo scambio non è caratterizzato dall’intervento di un prezzo, ma ha per oggetto il reciproco trasferimento della proprietà di cose o della titolarità di altri diritti (art.1552 c.c.).
350 I contratti di borsa
Attualmente la Borsa è affidata alla gestione della Borsa italiana s.p.a., società di diritto privato. Ferme le responsabilità di controllo e vigilanza attribuite alla Commissione Nazionale per le Società e la Borsa (CONSOB), si è attuato un sistema di autoregolamentazione, in quanto la società di gestione della Borsa ha approvato l’organizzazione e la gestione del mercato con proprio regolamento, sia pure soggetto all’approvazione della Consob. Su questi mercati possono operare solo intermediari specializzati (agenti di cambio…). Con i contratti di borsa si trasferiscono dagli alienanti agli acquirenti titoli di serie, e quindi cose generiche, la cui proprietà passa all’acquirente solo al momento della consegna. Si distinguono contratti “per contanti”, ”a termine” e “ premio”.
Di particolare importanza è il divieto del c.d. insider trading ossia di uno sfruttamento abusivo, con vantaggi personali, di notizie riservate che una persona conosca ed utilizzi per anticipare i movimenti di mercato che si può prevedere avverranno nel momento in cui quelle notizie diverranno pubbliche.
351 Il riporto
Con il riporto una persona (riportato) trasferisce all’altro contraente (riportatore) la proprietà di una data quantità di titoli di credito di massa contro contestuale pagamento di un prezzo; al tempo stesso, il riportatore si obbliga a trasferire al riportato, alla scadenza del termine fissato nell’accordo iniziale, la proprietà di altrettanti titoli della stessa specie contro rimborso del prezzo, che però può essere, a seconda del patto, maggiore di quanto a suo tempo ricevuto (ipotesi normale) o inferiore (deporto), oppure uguale riporto alla pari) (art.1548 c.c.).
Il riporto proroga consiste invece, nella proroga dell’esecuzione di un contratto a termine (art.1335 c.c.): non potendosi o non volendosi far luogo alla consegna dei titoli, il compratore, che li dovrebbe ricevere, concorda il rinvio della consegna dando a riporto all’altra parte quei titoli che questa gli dovrebbe consegnare.
352 Il contratto estimatorio
Con il contratto estimatorio, una parte (tradens) consegna una o più cose mobili all’altra (accipiens), che si obbliga a pagare il prezzo, con la facoltà però di liberarsi da tale obbligazione restituendo la cosa nel termine stabilito. Il trasferimento della proprietà avviene al momento del pagamento del prezzo: tuttavia, per effetto della consegna, il tradens perde la disponibilità della cosa che può essere legittimamente venduta all’accipiens, sul quale peraltro grava il rischio inerente al perimento della cosa stessa.
353 La somministrazione
La somministrazione è il contratto con il quale una parte si obbliga, verso corrispettivo di un prezzo, ad eseguire a favore dell’altra prestazioni periodiche di cose (art.1559 c.c.). Esso dà luogo ad una pluralità di prestazioni. Poiché queste prestazioni non devono compiersi in un unico momento, ma ad intervalli periodici di tempo, la somministrazione è un contratto di durata.
Capitolo 47: I CONTRATTI DI SCAMBIO CHE REALIZZANO UN DO UT FACIAS
354 La locazione
La locazione è il contratto con il quale una parte (locatore) si obbliga a far utilizzare ad un altro soggetto (affittuario) una cosa per un dato tempo, in cambio di un corrispettivo. Per il c.c. il contratto di locazione:
355 La locazione di immobili urbani
La legge 9/12/98 n°431 distingue tra contratti liberi e contratti tipo. Per i primi la determinazione del canone e della relativa dinamica nel tempo (aumenti periodici) è interamente lasciata alla libera negoziazione delle parti, ferma una durata minima quadriennale del contratto, con previsione vincolante di rinnovo alla scadenza un eguale ulteriore periodo. Per i secondi, invece, le parti aderiscono, beneficiando di sgravi fiscali, ad un contratto tipo le cui condizioni sono fissate mediante accordi stipulati in sede locale fra le organizzazioni della proprietà edilizia e le organizzazioni dei conduttori (affittuari) maggiormente rappresentative, sulla base di indicazioni contenute in una Convenzione nazionale da promuovere a cura del Ministro dei lavori pubblici. Per questo tipo di contratti la durata non può essere inferiore a 3 anni, con proroga di diritto per altri 2 anni, ove alla scadenza le parti non si accordino sul rinnovo del contratto.
Per le locazioni di immobili adibiti ad uso diverso da quello di abitazione: principi importanti:
356 Il leasing
Col leasing o locazione finanziaria, l’utilizzatore, avendo bisogno di un bene, anziché chiedere in prestito il danaro necessario per l’acquisto, si rivolge ad un intermediario specializzato chiedendogli di acquistare il bene dal fornitore, o di farlo costruire dal produttore, per poi darlo in godimento temporaneo allo stesso utilizzatore contro pagamento di un canone periodico. Essenziale al leasing, è l’opzione a favore del concessionario ad acquistare il bene, alla scadenza del contratto, per un prezzo residuo finale; altrimenti può restituire il bene oggetto del contratto o chiedere una proroga del contratto, proseguendo il pagamento dei canoni.
Diverso dal leasing è il contratto di leaseback: il proprietario di un bene (di solito un immobile) lo aliena ad una finanziaria, che però lo lascia in godimento all’alienante, contro pagamento di un canone per il periodo fissato, e con la facoltà per il concessionario, alla scadenza, di riacquistare la proprietà con il pagamento di un prezzo finale, ovvero di prorogare il godimento continuando a pagare i canoni per un ulteriore periodo, oppure ancora di consegnare definitivamente il bene al concedente.
357 L’appalto
L’appalto è il contratto con il quale un committente affida ad un appaltatore o il compimento di un’opera o lo svolgimento di un servizio, verso un corrispettivo in danaro (art.1655 c.c.). Gli appalti si distinguono in privati e pubblici. Caratteristica dell’appalto è la gestione a rischio dell’appaltatore, il quale deve provvedere ad organizzare tutti i mezzi necessari per l’esecuzione del contratto. L’oggetto dell’appalto deve essere determinato o determinabile. Il corrispettivo può essere stabilito o a forfait, per tutta l’opera nel suo complesso, o a misura (tanto al mt quadro…). Se le parti non hanno fissato il corrispettivo né hanno determinato i criteri per calcolarlo, il compenso va stabilito con riferimento alle tariffe esistenti o agli usi, o, in mancanza, deve essere determinato dal giudice. L’appaltatore ha anche diritto ad un ulteriore compenso se nel corso dell’opera si manifestano difficoltà di esecuzione derivanti da cause geologiche, idriche e simili, non previste dalle parti, che rendano più onerosa la prestazione dell’appaltatore. Ultimati i lavori, il committente ha diritto di verificare l’opera compiuta. La verifica si chiama collaudo. L’appaltatore è tenuto a garantire il committente per eventuali vizi dell’opera. La garanzia non è dovuta se il committente ha accettato l’opera e i vizi erano da lui conosciuti; se invece non ha accettato l’opera o se i vizi erano occulti, il committente ha l’onere di denunciare i vizi entro 60 gg. dalla scoperta. Il committente ha diritto che l’appaltatore elimini a sue spese i vizi oppure che il prezzo sia proporzionalmente diminuito.
Frequente è la stipulazione di subappalti (art.1656 c.c.), sebbene il subappalto richieda una specifica autorizzazione da parte del committente.
358 La subfornitura
La subfornitura consiste nell’affidamento da parte di imprese più grandi, della predisposizione di talune parti di un prodotto finale o dello svolgimento di talune fasi di un processo produttivo, donde la dipendenza del subfornitore dalle direttive impartite dall’impresa committente. La disciplina si concreta prevalentemente:
359 Il contratto di trasporto
Con il contratto di trasporto, una parte (vettore) si obbliga verso corrispettivo a trasferire persone o cose da un luogo all’altro. Distinguiamo il trasporto terrestre, il trasporto per acqua e il trasporto per aria.
Ad evitare abusi e per assicurare il servizio alla generalità del pubblico, sono stabiliti a carico delle imprese concessionarie due obblighi:
La differenza fondamentale che sussiste tra il trasporto di persone e quello di cose è: nel trasporto di cose queste sono affidate al vettore, che ha l’obbligo di provvedere alla custodia di esse durante il trasporto; nel trasporto di persone manca invece, questo affidamento perché in tal caso si parla di esseri umani dotti di intelligenza, i quali devono cooperare con il vettore sia per evitare danni a sé stessi sia per lo stesso buon esito del viaggio. Le cose che il viaggiatore porta con sé durante il viaggio, siccome restano nella sua sfera di detenzione, non formano oggetto di affidamento al vettore, il quale non ha l’obbligo della custodia.
Capitolo 48: I CONTRATTI DI COOPERAZIONE NELL’ALTRUI ATTIVITA’ GIURIDICA
360 Il mandato
Il mandato è il contratto con cui una parte (mandatario) assume l’obbligo di compiere uno o più atti giuridici per conto dell’altra parte (mandante) (art.1703 c.c.). Il mandato può essere con rappresentanza (gli effetti giuridici degli atti compiuti dal mandatario si verificano direttamente in capo al mandante) o senza rappresentanza (il mandatario agisce in nome proprio e acquista i diritti e assume gli obblighi derivanti dal negozio e i terzi non hanno rapporto con il mandante. Il mandatario ha poi l’obbligo di trasferire con un successivo negozio al mandante il diritto acquistato in norme proprio, ma nell’interesse del mandante). Il mandato senza rappresentanza è applicato dalla legge solo per gli immobili o i beni mobili iscritti in pubblici registri: il mandatario che li abbia acquistati in nome proprio, ma nell’interesse del mandante, ne diventa proprietario, ma ha l’obbligo di ritrasferirne la proprietà al mandante; in caso di inadempimento di quest’obbligo, si applicano gli stessi principi che vigono nell’ipotesi di inadempimento del contratto preliminare: il mandante può chiedere che il giudice attui il trasferimento mediante sentenza costitutiva. Se il bene mobile è acquistato, sì, nel nome del mandatario, ma nell’interesse del mandante, a quest’ultimo è concesso di rivendicare i beni stessi, se non gli sono stati trasferiti dal mandatario, sia contro il mandatario, sia contro i terzi. Naturalmente, ove nel frattempo il mandatario abbia già alienato ad un terzo, che abbia acquistato in buona fede e sia entrato in possesso dei beni, si applica il principio stabilito dall’art.1153 c.c.: la rivendicazione del mandante non può perciò essere accolta.
Il trasferimento degli immobili esige la forma scritta ad substantiam, ed è soggetto, per la tutela dei terzi, a pubblicità (trascrizione); perciò la proprietà non può essere attribuita al mandante senza un nuovo atto scritto di trasferimento da sottoporsi a pubblicità. Nessun ostacolo si oppone, invece, all’acquisto immediato della proprietà dei beni mobili a favore del mandante: occorre solo proteggere la buona fede dei terzi subacquirenti e per questo è sufficiente l’applicazione della regola generale “possesso vale titolo”.
Per quanto riguarda i crediti nascenti dal rapporto posto in essere dal mandatario, il mandante può esercitare i diritti nascenti dal rapporto obbligatorio sostituendosi al mandatario.
Il mandato si dice collettivo, se è conferito ad una stessa persona da più mandanti per un interesse comune a questi ultimi; congiuntivo, se è conferito a più mandatari, perché attendano congiuntivamente ad un medesimo affare. Il mandato si presume oneroso. L’obbligo fondamentale del mandatario consiste nell’eseguire il mandato con la diligenza del buon padre di famiglia. Il mandante dal suo canto, è tenuto a fornirgli i mezzi necessari per l’esecuzione del mandato, a rimborsargli le spese, a pagargli il compenso, e a risarcirgli i danni che questi abbia subìto a causa dell’incarico. La morte, l’interdizione o l’inabilitazione del mandante o del mandatario, determinano l’estinzione del mandato tranne che si tratti di mandato conferito nell’interesse del mandatario o di un terzo. L’estinzione può verificarsi anche per dichiarazione unilaterale del mandante (revoca) o del mandatario (rinunzia), comunicata all’altra parte (dichiarazione recettizia). La revoca può essere espressa o tacita. Essa non è ammessa se il mandato è conferito anche nell’interesse del mandatario o di terzi. Quando il mandato si estingue per rinunzia del mandatario, salvo l’obbligo di corrispondere i danni, se la rinuncia non è fondata su giusta causa, oppure se, trattandosi di mandato a tempo indeterminato, non è preceduta da congruo preavviso.
361 Gestioni patrimoniali
Anche in Italia si è diffusa l’attività della gestione del risparmio. Vale a dire che i risparmiatori, anziché provvedere in proprio alla gestione dei propri risparmi, si rivolgono a imprese specializzate, affidando a queste il frutto dei propri risparmi affinchè vengano gestiti nel modo migliore, con diritto di recuperare in qualsiasi momento, in tutto o in parte, le liquidità di loro pertinenza. Il contratto deve essere redatto in forma scritta ed un esemplare deve essere consegnato al cliente che può impartire istruzioni vincolanti in ordine alle operazioni da compiere e può recedere in ogni momento dal contratto.
362 La commissione
La commissione è un mandato senza rappresentanza, che ha per oggetto l’acquisto e la vendita di beni per conto di una parte (committente), e in nome dell’altra (commissionario) (art.1731 c.c.).
A questo contratto si applicano le regole generali per il mandato senza rappresentanza.
Il compenso che spetta al commissionario si chiama provvigione. Se il commissionario assume verso il committente la garanzia del buon esito dell’affare, ossia risponde con il proprio patrimonio nel caso le persone con le quali ha concluso il contratto siano inadempienti, si dice che egli è tenuto allo “star del credere” ed ha diritto ad una maggiore provvigione.
363 Il contratto di spedizione
Il contratto di spedizione è un mandato senza rappresentanza. Con esso, una parte (spedizioniere) assume l’obbligo di concludere, in nome proprio e per conto del mandante, un contratto di trasporto e di compiere le operazioni accessorie (imballaggio, presa a domicilio, assicurazione…).
364 Il contratto di agenzia
Con il contratto di agenzia, un’impresa affida ad un agente l’incarico, con carattere di stabilità, di promuovere, nella zona assegnatagli, la stipulazione di contratti con i terzi relativi ai prodotti del preponente. L’agente, pertanto, non provvede a stipulare lui direttamente i contratti con i clienti per conto dell’imprenditore, ma si limita a trasmettere a quest’ultimo gli ordini che raccoglie nella sua zona, e che il preponente, peraltro, è libero di accettare o meno. Talvolta all’agente viene conferito anche un potere di rappresentanza dell’imprenditore: nel qual caso, più che di agente si parla di rappresentante di commercio. Di regola, la retribuzione dell’agente è calcolata a “provvigione” sugli affari conclusi per suo tramite. L’agente sopporta in proprio tutte le spese per la propria organizzazione. Non è raro che il ruolo di agente sia svolto non da una persona fisica, ma da una società.
Di regola per l’agenzia vale, a favore e a carico di entrambe le parti, una esclusiva (art.1743 c.c.), sia nel senso che l’agente non può assumere incarichi per più imprese in concorrenza tra loro, sia nel senso che l’imprenditore non può nominare altri agente nella zona assegnata ad un agente e deve corrispondere a questo la provvigione anche per gli affari che l’impresa abbia concluso direttamente, senza l’intervento dell’agente, purchè debbano essere eseguiti nella zona assegnata a quest’ultimo.
Il contratto di agenzia può essere stipulato a tempo determinato o a tempo indeterminato.
365 Il franchising
E’ a tutti noto il fenomeno delle catene di negozi, composte da una molteplicità di imprese commerciali di vendita al dettaglio che distribuiscono esclusivamente i prodotti di un determinato produttore (contrassegnati da un certo marchio), che adottano gli stessi segni distintivi (ditta, insegna) e sono tra loro spesso identici anche nell’arredamento dei locali. Tali catene sono, nella quasi totalità dei casi, costituite mediante contratti di franchising. I negozi non appartengono al produttore dei beni, e coloro che li gestiscono non sono suoi dipendenti. Si tratta, invece, di autonomi imprenditori commerciali, i quali, stipulando un contratto di franchising, sono entrati nella catena, acquistando il privilegio di vendere i beni di un determinato produttore, utilizzando il suo marchio e esponendo la sua insegna. Il franchising, in sostanza, si presenta come un contratto a prestazioni corrispettive, con cui un imprenditore (un produttore di beni di consumo detto franchisor) attribuisce ad un altro imprenditore (commerciante affiliato detto franchisee), il diritto di vendere i suoi prodotti, usando il suo marchio e i suoi segni distintivi, e gli fornisce un’assistenza commerciale sia per avviare l’unità di vendita che per tutta la successiva durata del contratto. in cambio, la controparte deve pagare un corrispettivo all’atto della stipulazione del contratto con il quale entra nella catena ed un canone periodico.
La mediazione
Carattere fondamentale della mediazione è l’intervento di una persona (o di un’agenzia) estranea alle parti (il mediatore) che, pur non essendo legato a nessuna di esse da rapporti di collaborazione o di dipendenza, le mette in relazione tra loro per provocare o agevolare la conclusione di un affare (art.1754 c.c.). Il legislatore ha istituito un apposito ruolo, al quale sono tenuti ad iscriversi quanti intendono svolgere attività di mediazione, anche se in modo discontinuo ed occasionale; e solo chi sia scritto in tale ruolo ha diritto a percepire la provvigione. Anche le società di mediazione devono essere iscritte a ruolo, nel quale devono iscriversi pure il rappresentante legale della società e quanti svolgono per conto di questa attività di mediazione. La legge in questione non si applica agli agenti di cambio, ai mediatori marittimi, agli intermediari nei servizi turistici e assicurativi. Il mediatore ha diritto ad una provvigione da entrambe le parti, anche se abbia agito per incarico di una sola di esse, ma la provvigione gli spetta solo se l’affare è concluso per effetto del suo intervento. La misura della provvigione e la ripartizione di essa tra le parti, ove non sia fissata pattizialmente, può essere desunta da tariffe professionali, dagli usi o dal giudice.
Capitolo 49: I PRINCIPALI CONTRATTI REALI
Il deposito è il contratto reale con il quale una parte (depositario) riceve dall’altra (depositante) un cosa mobile con l’obbligo di custodirla e di restituirla in natura, quando il depositante gliela richiede (es. il deposito del bagaglio presso la stazione; art.1766 c.c.). Il depositario detiene la cosa solo nel mio interesse e non ne può disporre e nemmeno servirsene. Se l’alienasse, si renderebbe responsabile del delitto di appropriazione indebita. Il deposito si presume gratuito. Il depositario non può pretendere che il depositante provi di essere proprietario della cosa.
Altra figura peculiare del deposito è il sequestro convenzionale che ha luogo quando v’è controversia tra due o più persone circa la proprietà di una cosa; fin quando la controversia non sarà decisa, la cosa resta affidata ad un terzo perché la custodisca e la restituisca a quella cui spetterà quando la controversia sarà decisa. Dato che questo è difficile da verificarsi, si ricorre al sequestro giudiziario.
368 Il deposito irregolare
Il deposito irregolare ha per oggetto una quantità di danaro o altre cose fungibili, delle quali viene concessa al depositario la facoltà di servirsi. Il depositario acquista allora la proprietà delle cose e può farne quel che crede; egli è tenuto a restituire non le stesse cose, ma la stessa quantità di esse. Se depositaria è una banca e il deposito irregolare ha per oggetto una somma di danaro, si ha il deposito bancario.
Una figura caratteristica di deposito è il deposito nei magazzini generali o nei depositi franchi (artt.1787-1797 c.c.). I magazzini generali sono locali in cui i commercianti possono depositare le merci; l’impresa che li gestisce provvede verso compenso alla custodia ed alla conservazione. I depositanti traggono quest’utilità da questo tipo di deposito: su loro richiesta vengono rilasciati titoli che rappresentano le merci (fedi di deposito e note di pegno o warrant). Trasferendo la fede di deposito, il commerciante trasferisce la proprietà della merce, senza bisogno di spostarla dal magazzino; con la nota di pegno riesce ad avere sovvenzioni costituendo un pegno sulla merce che rimane nel magazzino.
I depositi franchi sono una sottospecie dei magazzini generali: la merce ivi depositata è franca, esente da dogana.
370 Il comodato
Il comodato è il contratto con il quale una parte (comodante) consegna all’altra (comodatario) una cosa mobile o immobile, affinchè questa se ne serva per un tempo o un uso determinato, con l’obbligo di restituire la stessa cosa ricevuta, ma senza essere tenuta a pagare alcun corrispettivo. Solo le cose inconsumabili possono formare oggetto del comodato, non le cose consumabili.
Il comodato è un contratto essenzialmente gratuito (art.1803 c.c.), altrimenti diventerebbe un contratto di locazione. Peraltro il requisito della gratuità del comodato non viene meno se non sono poste a carico del comodatario prestazioni accessorie, purchè non siano tali da assumere il carattere di un vero corrispettivo.
371 Il mutuo
Il mutuo è il contratto con il quale una parte (mutuante) consegna all’altra (mutuatario) una determinata quantità di danaro, o di altre cose fungibili, e l’altra si obbliga a restituire altrettante cose della stessa specie e qualità (art.1813 c.c.). Il mutuo si presume oneroso: salva diversa volontà delle parti, il mutuatario deve corrispondere gli interessi al mutuante. Se le parti non hanno pattuito il tasso di interesse dovuto, si applica il tasso legale.
Capitolo 50: I CONTRATTI BANCARI
Le banche sono imprese che esercitano l’attività bancaria. Per attività bancaria si intende la raccolta del risparmio tra il pubblico e l’esercizio del credito. Le banche possono operare solo se abbiano ottenuto l’autorizzazione e siano state iscritte nell’apposito Albo, curato dalla Banca d’Italia.
La normativa comunitaria ha stabilito il principio del c.d. “mutuo riconoscimento”, vale a dire che le banche dei Paesi della Comunità, una volta ottenuta l’autorizzazione ad operare nel Paese d’origine, sono automaticamente autorizzate ad operare in tutto il territorio della CEE senza bisogno di alcun’altra autorizzazione.
Le banche svolgono anche numerose altre attività, direttamente o tramite partecipazioni in società controllate, quali il leasing finanziario, il factoring, servizi di pagamento, emissioni di assegni, cambiali...
Le operazioni bancarie si distinguono in operazioni passive, con cui le banche si indebitano verso la clientela raccogliendo fondi, operazioni attive, con cui le banche diventano creditrici dei clienti cui concedono finanziamenti, ed operazioni accessorie, che consistono nei servizi che le banche prestano utilizzando la propria organizzazione (trasferimento di fondi, acquisto e custodia di titoli…).
Le banche sono tenute alla pubblicità nei locali ove svolgono la loro attività, a tutti gli elementi di costo dei servizi e prodotti offerti alla clientela, mentre i singoli contratti devono essere stipulati per iscritto (consegnandone copia al cliente).
Il deposito bancario costituisce la tipica operazione bancaria passiva e rappresenta lo strumento tradizionale di raccolta del risparmio, essenziale per lo svolgimento della funzione di intermediazione che le banche assolvono. Di regola il deposito è remunerato dalla banca, con un riconoscimento di interessi a favore del depositante.
Per lo più il rapporto è regolato in c/c, consentendo al cliente prelievi e versamenti in qualsiasi momento, nonché l’utilizzo di assegni bancari.
A richiesta del cliente la banca rilascia al depositante un libretto, sul quale si annotano tutti i versamenti e i prelevamenti. I libretti di risparmio possono essere nominativi se vengono intestati ad una o più persone; al portatore se il depositante preferisce che possano risultare legittimati ad operare anche altre persone. La normativa contro il riciclaggio ha comportato che il saldo dei libretti di risparmio al portatore non può essere superiore a 20 milioni.
Con il danaro raccolto le banche provvedono a concedere prestiti alla clientela.
Le forme tecniche con cui possono essere concessi affidamenti sono: l’apertura di credito, l’anticipazione bancaria, lo sconto.
L’apertura di credito è il contratto con il quale la banca si obbliga a tenere a disposizione dell’affidato, per un dato periodo di tempo o a tempo indeterminato, l’importo pattuito, con diritto dell’altra parte, di ritirare o no, in tutto o in parte, le somme poste a sua disposizione e di procedere successivamente con piena libertà a prelievi e versamenti in c/c, sempre nei limiti di quanto la banca gli ha accordato.
L’anticipazione bancaria va distinta dall’apertura di credito per la circostanza che nell’anticipazione bancaria il prestito è sempre accompagnato dall’accensione di un pegno a favore della banca su titoli o merci. Il pegno costituito a garanzia dell’anticipazione bancaria può essere regolare o irregolare; è regolare e, pertanto, la banca non può disporre delle cose ricevute in pegno, se essa ha rilasciato un documento nel quale le cose stesse sono individuate; è irregolare se manca l’individuazione delle cose consegnate oppure è stata conferita alla banca la facoltà di disporne. In questa seconda ipotesi, la banca acquista la proprietà delle cose ricevute in pegno e deve restituire solo la somma o la parte delle merci che eccedono l’ammontare dei crediti garantiti.
Lo sconto è il contratto con il quale la banca, alla quale viene ceduto il credito non ancora scaduto che il cliente ha verso terzi, anticipa a quest’ultimo l’importo del credito. Lo sconto, pertanto, è una cessione di credito contro corrispettivo.
La cessione avviene pro solvendo, per cui, se il debitore non paga alla scadenza, la banca può rivolgersi anche a colui a cui favore ha concesso lo sconto e farsi restituire la somma versata. Inoltre, la banca deduce dall’importo del credito ceduto gli interessi per l’anticipazione fatta. Lo sconto si configura in sostanza come un prestito che la banca fa al cliente.
I crediti che più frequentemente formano oggetto di sconto sono quelli derivanti da cambiali (art.1859 c.c.).
376 Il conto corrente
C/c ordinario (art.1823 c.c.) è il contratto col quale due parti, avendo plurimi rapporti da cui derivano crediti pecuniari reciproci, si accordano per considerare inesigibili temporaneamente le rispettive ragioni di credito, inserendole in un apposito conto unitario, ed accettandone la compensazione integrale, fino a concorrenza, cosicchè, alle scadenze pattuite (o, in mancanza, al termine di ogni semestre) tutte le partite risultino sistemate con il pagamento del solo saldo.
Il c/c bancario, invece, è un contratto col quale si stabilisce di far confluire in medesimo conto accrediti ed addebiti, ma con il quale il correntista può disporre in qualsiasi momento delle somme risultanti a suo credito.
Di regola, il c/c bancario è utilizzato anche per l’esecuzione degli incarichi che il cliente affida alla banca (mandati di pagamento, ordini di acquisto, cambio di valute,…).
La banca è tenuta ad inviare estratti conto periodici, ma questi si ritengono tacitamente approvati in mancanza di opposizione scritta da parte del cliente entro 60 gg. dal ricevimento.
377 Cassette di sicurezza
Uno tra i più importanti servizi bancari accessori è costituito dalle cassette di sicurezza. Queste sono recipienti collocati in stanze corazzate, predisposte dalle banche: il cliente vi può deporre ciò che crede (denaro, gioielli, titoli).
Con questo contratto il cliente realizza due finalità: un elevato grado di sicurezza contro i furti e una totale riservatezza, perché l’utente può introdurre nella cassetta a propria esclusiva discrezione i valori che preferisce, senza che la banca debba o possa venirne a conoscenza.
Per la natura giuridica di questo contratto, si ritiene preferibile qualificarlo come contratto misto o complesso, nel senso che in esso sono presenti prestazioni tipiche di più contratti.
Capitolo 51: I CONTRATTI ALEATORI
A) LA RENDITA
378 La nozione di rendita
Con l’espressione rendita si intende qualunque prestazione periodica (ogni anno, ogni mese,...), avente per oggetto danaro o una certa quantità di cose fungibili (grano, vino, …).
379 La rendita perpetua
Con il contratto di rendita perpetua una parte conferisce all’altra (e da questa ai suoi eredi) il diritto di esigere in perpetuo una prestazione, del genere ora accennato, quale corrispettivo dell’alienazione di un immobile o della cessazione di un capitale, oppure quale onere dell’alienazione gratuita di un immobile o della cessazione gratuita di un capitale (art.1861 c.c.). Il debitore ha la facoltà di sciogliersi dal vincolo mediante una dichiarazione unilaterale di volontà, accompagnata dal pagamento di una somma che risulta dalla capitalizzazione della rendita annua sulla base dell’interesse legale. La rendita si dice fondiaria, se è costituita mediante alienazione di un immobile; semplice, se mediante cessione di un capitale (art.1863 c.c.).
380 La rendita vitalizia
Col termine “vitalizia” si vuol dire che l’obbligazione di corrispondere la rendita dura finchè dura la vita di una persona designata dalle parti, la quale può essere sia il beneficiario della rendita che un terzo. La rendita vitalizia ha natura aleatoria. L’alea è un requisito essenziale: se manca, il contratto è nullo. La rendita vitalizia può costituirsi, oltre che per contratto, anche per testamento o a favore di un terzo.
381 Natura
L’assicurazione è un contratto con il quale una parte (assicuratore), verso pagamento di una somma, detta premio, si obbliga a rivalere l’assicurato, entro i limiti convenuti, dal danno ad esso prodotto da un sinistro (assicurazione contro i danni), ovvero a pagare un capitale o una rendita al verificarsi di un evento attinente alla vita umana (assicurazione sulla vita) (art.1882 c.c.), ovvero a risarcire a terzi il danno che dovrebbe essere risarcito dall’assicurato (assicurazione contro la responsabilità civile) (art.1917 c.c.). Il contratto di assicurazione costituisce, pertanto, un atto di previdenza per l’assicurato ed una speculazione per l’impresa assicuratrice. Esso appartiene alla categoria dei contratti aleatori: il rischio costituisce un elemento essenziale; se manca, il contratto è nullo (art.1896 c.c.). Inoltre l’assicuratore deve essere in condizione di apprezzare il rischio per decidere se è opportuno o no concludere il contratto e quale premio gli conviene chiedere per compensare con gli altri rischi omogenei la prestazione che contrattualmente è tenuto a corrispondere (proporzione del premio al rischio).
Le risposte inesatte o reticenti dell’assicurato danno luogo all’annullabilità del contratto soltanto nell’ipotesi di dolo o colpa grave dell’assicurato. Altrimenti, l’assicuratore ha la facoltà di recedere dal contratto e l’indennità, nel caso che il sinistro si verifichi prima della dichiarazione di recesso o della conoscenza dell’inesattezza o della reticenza da parte dell’assicurato, è ridotta in proporzione.
382 Assicurazione contro i danni
Alle assicurazioni contro i danni si applica il c.d. principio indennitario (artt.1905, 1908-1911 c.c.), per effetto del quale l’indennizzo dovuto dall’assicuratore non può mai superare l’importo del danno sofferto dall’assicurato: l’assicurazione è regolata e tutelata dal legislatore come atto di previdenza e, cioè, come mezzo di conservazione del patrimonio e non può, quindi, diventare fonte di arricchimento o di speculazione. E l’assicuratore che ha pagato l’indennità può esercitare le azioni che spettano all’assicurato contro i terzi responsabili del danno arrecato alla cosa (surrogazione legale: art.1916 c.c.). Inoltre, non ci si può assicurare per un bene altrui, la cui perdita o il cui deterioramento è del tutto indifferente per il nostro patrimonio.
383 Assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli
Un particolare tipo di assicurazione contro i danni è rappresentato dalla c.d. assicurazione della responsabilità civile: con tale contratto l’assicuratore si obbliga a tener indenne l’assicurato di quanto questi, in conseguenza del fatto accaduto durante il tempo dell’assicurazione, deve pagare ad un terzo, in dipendenza dalla responsabilità dedotta nel contratto (art.1917 c.c.). Sono esclusi i danni derivanti da fatti posti in essere dall’assicurato con dolo.
Si tratta di una forma di assicurazione molto diffusa e nota soprattutto per quanto riguarda la circolazione dei veicoli. Anzi, per questi rischi, è stato introdotto anche in Italia il principio che l’assicurazione della responsabilità civile è obbligatoria per tutti i veicoli e per i natanti. La legge consente al danneggiato di rivolgersi per il risarcimento dei danni subìti anche direttamente contro l’assicuratore. Inoltre è stato costituito un fondo di garanzia per le vittime della strada, dal quale il danneggiato potrà farsi risarcire il danno subìto qualora questo sia stato provocato da un veicolo o natante non identificato oppure non coperto da assicurazione.
384 Assicurazioni sulla vita
Alla categoria delle assicurazioni sulla vita appartengono tutte quelle forme di assicurazione in cui la prestazione dell’assicuratore dipende dalla durata della vita umana. L’assicurazione può anche essere contratta sulla vita di un terzo. Per evitare che una siffatta forma di assicurazione costituisca un incentivo all’omicidio (per lucrare l’indennità), si è stabilita la necessità del consenso della persona sulla cui vita l’assicurazione è contratta (art.1919)
Una figura frequente di assicurazione sulla vita è l’assicurazione a favore di un terzo: le parti stabiliscono che alla morte dell’assicurato l’indennità sia attribuita ad un terzo designato dalla persona che contrae l’assicurazione (beneficiario).
385 Assicurazioni private e assicurazioni sociali
Le assicurazioni sociali attuano obbligatoriamente una forma di previdenza del lavoratore (contro gli infortuni sul lavoro, contro le malattie, l’invalidità, la vecchiaia…). Queste forme di assicurazione hanno carattere pubblicistico.
386 La conclusione del contratto
L’assicuratore è obbligato a rilasciare al contraente un documento, la polizza, che può essere all’ordine o al portatore. Il contratto di assicurazione è, di regola, un contratto per adesione: la polizza contiene le clausole contrattuali a stampa (condizioni generali di contratto), alle quali si applicano gli artt.1341, 1342, 1469-bis e ss c.c.
387 La riassicurazione
La riassicurazione è il contratto con il quale l’assicuratore assicura presso un’altra impresa i rischi che ne ha assunto (art.1928 c.c.). Esso non costituisce una forma di cessione del contratto di assicurazione, perché nella cessione si sostituisce al contraente originario un terzo; invece il contratto di riassicurazione non crea rapporti tra l’assicurato e il riassicuratore (art.1929 c.c.).
Gioco e scommessa sono contratti aleatori per eccellenza. Essi si distinguono dall’assicurazione perché non hanno, come questa, finalità previdenziale per una delle parti, ma scopo di lucro per entrambe. Se il gioco o la scommessa sono proibiti, il negozio è illecito e nessun diritto sorge a favore del vincitore, il quale è anche tenuto a restituire ciò che il perdente abbia eventualmente pagato. Se, invece, il gioco è lecito, il vincitore non ha azione, ma il perdente non può ripetere quanto abbia spontaneamente pagato (art.1933 c.c., obbligazione naturale). L’azione è, invece, ammessa se si tratti di giochi o scommesse relative a competizioni sportive (es. totocalcio) o di lotterie autorizzate. L’irripetibilità si applica a tutti i debiti che sono contratti tra giocatori per iniziare o proseguire il gioco (es. prestito fatto da un giocatore all’altro a tal fine). Queste regole si applicano anche al gioco esercitato nelle case da gioco organizzate da comuni e all’uopo autorizzate, in quanto l’autorizzazione governativa ha il solo effetto di togliere valore alle sanzioni penali stabilite per i giochi d’azzardo, ma non incide sul regime privatistico del gioco.
Capitolo 52: CONTRATTI DIRETTI A COSTITUIRE UNA GARANZIA
389 La fideiussione
Fideiussore, dice l’art.1936 c.c. è colui che, obbligandosi personalmente verso il creditore, garantisce l’adempimento di un’obbligazione altrui. La garanzia è personale, perché il creditore può soddisfarsi sopra il patrimonio di una persona diversa dal debitore, e non dà luogo a nessun diritto reale ma riguarda tutto il patrimonio del fideiussore (art.2740 c.c.). Il fideiussore risponde con tutti i suoi beni laddove il terzo datore di pegno o d’ipoteca risponde soltanto con la cosa data in pegno o in ipoteca. Ma la fideiussione non attribuisce diritto di seguito: la garanzia sussiste se ed in quanto nel patrimonio del fideiussore si trovano dei beni: se ne escono, il creditore non può rivolgersi contro il terzo acquirente. La fideiussione può essere anche spontanea, cioè essere assunta anche se il debitore non ne ha conoscenza.
La fideiussione ha natura accessoria: la garanzia intanto sussiste in quanto esista l’obbligazione principale.
Il fideiussore che ha pagato il debito è surrogato nei diritti che il creditore aveva contro il debitore; egli può cioè valersi contro il debitore o gli eventuali condebitori che erano a disposizione del debitore. Oltre tale surrogazione nei diritti e nelle ragioni del creditore, il fideiussore ha un’azione specifica (azione di regresso) contro il debitore, anche se questi fosse ignaro dalla prestata fideiussione: con essa può farsi rimborsare tutto ciò che abbia pagato per il debitore principale.
390 La fideiussione omnibus
Si parla di fideiussione omnibus per indicare un impegno assunto da un soggetto (privato, società o altra banca) verso una banca, e con cui si garantisce l’adempimento di tutti i debiti, compresi quelli che potranno sorgere successivamente al rilascio della fideiussione, che un terzo (beneficiario della garanzia, debitore principale della banca) risulterà avere verso la banca nel momento della scadenza pattuita ovvero nel momento in cui la banca chiederà di recedere dal rapporto e di ottenere il saldo dei propri crediti. Ove il debitore principale, in tutto o in parte, non sia in grado di provvedere alla estinzione dei suoi debiti, la banca potrà rivolgersi al fideiussore omnibus, il quale non potrà opporre di non essere a conoscenza dell’entità dei debiti del garantito/beneficiario. Con tale formula, quindi, si evita di dover richiedere una nuova garanzia ad ogni nuova operazione; peraltro il fideiussore corre il rischio di ignorare di quanto si stia espandendo il totale dei debiti del soggetto in cui favore ha rilasciato la garanzia omnibus.
391 La c.d. garanzia “a prima richiesta”
L’accordo tra garante (di regola una banca o una compagnia di assicurazione) e garantito, si inserisce in un’operazione complessa per rendere sicuro l’incasso di una determinata somma di danaro da parte del beneficiario/garantito, a richiesta di quest’ultimo. Difatti il debitore della prestazione (il garante), che opera su ordine di un suo cliente, si impegna a versa re al beneficiario l’importo stabilito alla sola condizione che costui gliene faccia richiesta, essendo pertanto stabilito che il garante rinuncia formalmente ad opporgli qualsiasi tipo di eccezione.
Naturalmente il garante, quando versa l’importo al beneficiario, lo addebita al suo mandante, mentre questi lo conteggia a carico della controparte nei loro rapporti diretti.
392 L’anticresi
In forza del contratto di anticresi (= scambio di godimento), il debitore o un terzo si obbliga a consegnare un immobile al creditore a garanzia del credito, affinchè il creditore ne percepisca i frutti, imputandoli agli interessi, se dovuti, e quindi al capitale (art.1960 c.c.): il debitore gode il danaro prestatogli, il creditore il fondo.
La differenza tra anticresi e ipoteca è che questa non richiede il passaggio del possesso del fondo al creditore: l’immobile continua, invece, ad essere posseduto dal debitore che ne percepisce i frutti.
Il divieto del patto commissorio si estende, per analogia di ragioni, all’anticresi.
L’anticresi richiede ad substantiam la forma scritta (art.1350.7 c.c.).
La transazione è il contratto con il quale le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine ad una lite già cominciata o prevengono una lite che può sorgere tra loro (art.1965 c.c.).
Senza il reciproco sacrificio, le spese ed il rischio di un processo, non v’è transazione.
Di fronte al rischio di perdere la lite, entrambi gli interessati preferiscono pervenire ad un regolamento contrattuale che rende inammissibile e irrilevante l’accertamento di chi avesse ragione o torto e di quale fosse la reale situazione giuridica antecedente all’accordo transattivo, ormai superata dal contratto concluso, che si pone quale fonte esclusiva della nuova disciplina tra le parti.
La transazione non può riguardare diritti indisponibili (es. non si può transigere una lite relativa alla legittimità di un figlio) e deve essere stipulata da chi abbia la capacità di disporre dei propri diritti.
È nulla ovviamente, la transazione relativa ad un contratto illecito.
In linea di principio la transazione non può essere impugnata dalla parte che si convinca che avrebbe potuto affrontare vittoriosamente un giudizio sulla lite, invece di accettare di comporla.
Tuttavia, se una delle parti era consapevole non solo di aver torto, ma addirittura che la lite era, per parte sua, temeraria, l’altra parte può chiedere l’annullamento della transazione.
La cessione dei beni ai creditori è il contratto con il quale il debitore incarica i suoi creditori o alcuni di essi di alienare tutti o alcuni suoi beni e di ripartirne fra loro il ricavato in soddisfacimento dei loro crediti (art.1977 c.c.).
La cessione, salvo patto contrario, s’intende pro solvendo: il debitore è liberato verso i creditori solo dal giorno in cui essi ricevono la parte loro spettante sul ricavato della liquidazione e nei limiti di quanto hanno ricevuto.
È richiesta ad substantiam la forma scritta.
Per effetto della cessione il debitore perde la disponibilità dei beni ceduti, ma ha diritto di esercitare il controllo sulla gestione e di ottenere l’eventuale residuo della liquidazione.
Con il pagamento del capitale, degli interessi e delle spese vien meno la ragione d’essere della cessione e pertanto è attribuito al debitore di recedere dal contratto offrendo tale pagamento.
Ai creditori è concessa l’azione di annullamento, se il debitore, pur dichiarando di cedere tutti i beni, ha dissimulato, cioè nascosto, una parte notevole di essi.
395 Nozioni generali
La promessa unilaterale, rivolta da un soggetto ad un altro per assicurare a quest’ultimo un certo comportamento futuro del promittente, è sufficiente per far sorgere un vincolo giuridico a carico del promittente, se la promessa è inserita in un contratto, a condizione che questo abbia una valida causa.
Infatti il nostro ordinamento esclude, in linea di principio, che una promessa unilaterale produca effetti obbligatori, salvo che nei casi ammessi dalla legge.
Le promesse unilaterali vincolanti sono tipiche, in quanto, ove rientrino nei casi ammessi dalla legge, potranno al massimo far sorgere una obbligazione naturale.
396 Nozione
Al riconoscimento di debito l’art.1988 c.c. equipara una promessa di pagamento in quanto è implicito, nel concetto di pagamento, l’esistenza di un debito da assolvere.
Naturalmente, ove il presunto debitore intenda contestare il riconoscimento o la promessa di pagamento invocati contro di lui in giudizio dal creditore, la situazione sarà più agevole se il riconoscimento o la promessa sono titolati, ossia menzionano la causa o il titolo del debito.
La situazione del supposto debitore, viceversa, sarà più difficile ove il riconoscimento o la promessa siano astratti, ossia non menzionino la causa o fonte del debito riconosciuto.
397 Natura
Per promessa al pubblico s’intende la promessa di una prestazione fatta a favore di chi si trovi in una determinata situazione o compiuto una determinata azione.
La promessa, appunto perché è un contratto unilaterale, acquista efficacia vincolante non appena è resa pubblica (ad es. con giornali, radio…) ed è revocabile solo per giusta causa.
La revoca non ha effetto se la situazione prevista nella promessa si è già verificata o se l’azione è già stata compiuta.
Se alla promessa non è stato apposto un termine, il vincolo di questa cessa qualora entro l’anno dalla promessa non gli sia stato comunicato l’avveramento della situazione o il compimento dell’azione prevista nella promessa (art.1989.2 c.c.).
398 Natura
I titoli di credito costituiscono una categoria ricavata per generalizzazione dall’esperienza di figure antiche (cambiali e assegni), caratterizzate dal rilievo attribuito ad un documento contenente una promessa unilaterale di pagamento o un ordine di pagamento di una somma di danaro. Nella categoria confluiscono, ora, i c.d. titoli di Stato o del debito pubblico, le azioni e le obbligazioni emesse da s.p.a., l’emissione di titoli atipici.
Nei titoli di credito il documento non costituisce soltanto una prova del rapporto, in quanto esso è addirittura necessario per poter far valere il diritto documentato dal titolo: il debitore o emittente non può pagare validamente a chi non gli esibisca il documento; e per converso il portatore del titolo, purchè sia legittimato nelle forme prescritte dalla legge, ha diritto alla prestazione in esso indicata.
Conseguentemente può essere legittimato a pretendere la prestazione anche chi non sia titolare del diritto: difatti il debitore, che senza dolo o colpa grave adempia la prestazione nei confronti del possessore, è liberato anche se questi non è titolare del diritto.
Dai titoli di credito vanno distinti i documenti di legittimazione e i titoli impropri. I primi servono alla identificazione dei soggetti aventi diritto alla prestazione. I secondi consentono il trasferimento del diritto senza l’osservanza delle forme proprie della cessione. Ma per entrambe queste figure non può parlarsi di titoli di credito perché non si verifica il fenomeno della incorporazione del diritto nel documento.
Difatti, in caso di smarrimento di questo, proprio perché il titolo non ha carattere costitutivo, il titolare potrà egualmente pretendere la prestazione dovutagli offrendo in altro modo la prova della sua titolarità e non avrà bisogno di ricorrere alla procedura di ammortamento che è invece necessaria per i titoli di credito.
399 Titoli al portatore, all’ordine e nominativi
Il requisito del possesso è indispensabile per l’esercizio del diritto in esso contenuto; in relazione ad alcuni titoli di credito è richiesto un ulteriore elemento. Sotto questo aspetto, i titoli di credito si suddistinguono in tre categorie:
400 La “dematerializzazione” dei titoli di credito
Per titoli di massa (emessi, cioè, in serie e non per operazioni individuali), la crescente rapidità della circolazione mobiliare crea problemi per la necessità di un continuo maneggio di documenti di rilevante valore, soggetti a rischi di furti, smarrimenti e distruzioni. Da ciò l’esigenza di sostituire ai normali meccanismi di trasferimento cartolare, semplici operazioni di trasferimenti scritturali.
Il conseguimento di tale risultato è legato a due presupposti: la fungibilità dei titoli, che rende irrilevante la consegna materiale del documento essendo sufficiente la registrazione contabile del trasferimento; e l’accertamento della gestione nelle mani di un soggetto affidabile, che si incarica di operare tutte le registrazioni di cui sia fatta legittima richiesta.
Il processo di dematerializzazione può svolgersi a due livelli. Il primo, di mero accertamento dei titoli coinvolti, comporta la conservazione del documento, che viene però custodito presso un gestore senza più circolare fisicamente. Nel secondo, invece, si realizza una dematerializzazione integrale, cosicchè viene eliminato qualsiasi certificato, sostituito per intero da una intestazione solo contabile da parte del gestore, che poi provvede alla registrazione di ogni trasferimento sempre e soltanto in via scritturale.
La dematerializzazione integrale è stata resa obbligatoria per tutti i titoli negoziati o destinati alla negoziazione su mercati regolamentati. Può poi attuarsi anche in via facoltativa.
401 Titoli rappresentativi, titoli di partecipazione
I titoli rappresentativi sono documenti che incorporano il diritto alla consegna delle merci in esso specificate (es. fede di deposito, rilasciata dai magazzini generali al depositante…). Questi titoli attribuiscono al possessore non solo il diritto ad ottenere la consegna delle merci dall’emittente, ma pure il potere di disporne mediante trasferimento del titolo.
I titoli di partecipazione (es. azioni emesse da s.p.a.), invece, attribuiscono al possessore, oltre al diritto di disposizione sul titolo stesso, anche i c.d. diritti corporativi o associativi, vale a dire il diritto di riscuotere i dividendi, di prendere parte alle assemblee sociali…
402 Caratteristiche dei titoli di credito
Caratteristiche dei titoli di credito sono:
Titoli astratti sono, invece, quelli nei quali il rapporto fondamentale non è enunciato nel titolo ed è irrilevante nei confronti del terzo possessore in buona fede, il quale ha diritto alla prestazione anche se il rapporto fondamentale non sussista.
Le eccezioni opponibili dal debitore si distinguono in eccezioni reali (o assolute) che si possono opporre a qualunque possessore e eccezioni personali (o relative) che si possono opporre soltanto ad un possessore determinato.
Eccezioni reali sono:
Eccezioni personali sono quelle che derivano da rapporti che non risultano dal titolo. Esse sono opponibili solo a colui con il quale il rapporto si è svolto.
Questa eccezioni personali si comunicano, ossia possono essere opposte anche ad un possessore successivo in un’ipotesi particolare: quando il possessore medesimo abbia agito intenzionalmente a danno del debitore.
Con il procedimento di ammortamento si mira a distruggere l’efficacia del titolo smarrito o sottratto o distrutto ed a procurare a chi ha perduto il possesso del titolo un documento che di questo faccia le veci (c.d. ricostituzione della legittimazione).
A tal fine non basta la semplice denuncia, fatta dal possessore del titolo al debitore, dell’avvenuto smarrimento o sottrazione, ma occorre presentare un ricorso al presidente del tribunale del luogo in cui il titolo dovrebbe essere pagato, indicando nel ricorso i requisiti essenziali del titolo e i fatti che ne hanno provocato lo smarrimento, la distruzione o la sottrazione.
Il presidente del tribunale, premessi gli opportuni accertamenti sulla verità dei fatti esposti dal ricorrente, pronunzia con decreto l’ammortamento e autorizza il pagamento del titolo alla scadenza o, ove si tratti di titolo già scaduto, dopo 30 gg. dalla data di pubblicazione del decreto nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica.
La procedura di ammortamento non è ammessa per i titoli al portatore: denunciando all’emittente lo smarrimento o la sottrazione e fornendone la prova, che lo ha smarrito può ottenere la prestazione soltanto se nessuno si presenta a chiedere il pagamento entro il termine stabilito dalla legge per la prescrizione.
La cambiale è un titolo di credito all’ordine.
Si distinguono due figure di cambiali: la tratta e il vaglia cambiario (o pagherò cambiario). La prima contiene l’ordine che una persona (traente) dà ad un’altra (trattario) di pagare ad un terzo (prenditore) una somma di danaro.
Il vaglia cambiario contiene la promessa fatta da una persona (emittente) di pagare una somma di danaro direttamente nelle mani del prenditore. Entrambi sono negozi giuridici unilaterali.
Figure particolari di cambiali sono:
a)la cambiale ipotecaria, il cui pagamento è garantito da ipoteca che si trasferisce con la girata del titolo di credito;
b)la cambiale agraria, che garantisce i prestiti agrari di esercizio o di miglioramento di un fondo.
La cambiale presenta anzitutto caratteristiche comuni con gli altri titoli di credito: letteralità e autonomia.
Per il principio di autonomia, la cambiale può essere trasferita mediante girata. Perciò può avvenire che sullo stesso documento cambiario siano contenute più firme di soggetti diversi. L’autonomia caratterizza i singoli rapporti cambiari: ciascuna delle obbligazioni cartolari è indipendente dall’altra, è valida anche se l’altra è invalida.
Accanto a questi caratteri comuni agli altri titoli di credito la cambiale presenta anche le seguenti caratteristiche:
a) astrattezza. Il rapporto che dà luogo all’emissione della cambiale può essere di varia natura e può perfino mancare: ciò non ha importanza; una volta che ho sottoscritto una cambiale, io non posso eccepire la mancanza di causa, o riferirmi a vizi per sottrarmi all’obbligo di pagare la cambiale, se il pagamento mi viene chiesto dal terzo giratario. Si deve ricordare che l’astrattezza di un negozio non esclude l’azione di ripetizione, quando sia dimostrata la mancanza di causa. Chi risulta debitore in base a un negozio astratto deve adempiere l’obbligazione nei confronti del terzo acquirente del titolo.
Se poi il pagamento mi viene chiesto dalla controparte , allora io posso opporre le eccezioni nascenti dal rapporto. L’astrattezza, quindi, funziona solo nei confronti dei terzi.
Applicando i principi esposti, risulta che la cambiale di favore, ossia quella creata soltanto per procurare, mediante la girata, credito ad una determinata persona, è valida.
b) efficacia esecutiva del titolo cambiario: vuol dire che non c’è bisogno di una sentenza di condanna del debitore per iniziare l’esecuzione, basta all’uopo la cambiale. Per questo effetto, essa deve essere in regola con il bollo fin dall’inizio, ossia dal momento in cui si perfeziona il negozio cambiario.
407 Requisiti del negozio cambiario
I requisiti essenziali, in mancanza dei quali il documento non vale come cambiale sono:
La scadenza della cambiale può essere:
c) a vista (in questo caso la cambiale è pagabile al momento della presentazione).
Se non vi è indicazione di scadenza, la cambiale si considera pagabile a vista.
Se è indicato come luogo di pagamento il domicilio di un terzo, cioè di una persona diversa dal trattario o dall’emittente, la cambiale si dice domiciliata;
In ordine alla capacità a porre in essere i negozi cambiari, possono sottoscrivere validamente cambiali, il minore emancipato autorizzato all’esercizio di un’impresa commerciale ed il genitore o il tutore o l’inabilitato autorizzati alla continuazione dell’esercizio di un’impresa commerciale per conto del minore o dell’interdetto. La cambiale può essere anche scritta per procura. Una deroga alle norme comuni è stabilita nel caso di negozio cambiario concluso da chi assume di essere dotato del potere di rappresentare altra persona, mentre né è sprovvisto. In questo caso il negozio non produce effetti né per il rappresentante né per il rappresentato ed è soltanto sancita eventualmente la responsabilità del rappresentante sprovvisto di procura.
409 La cambiale in bianco
La cambiale incompleta quando fu emessa (detta cambiale in bianco), può essere completata in conformità degli accordi intercorsi tra i soggetti del negozio cambiario (c.d. negozio di riempimento). Se tali accordi non vengono osservati, l’eccezione di abusivo riempimento non può essere opposta al terzo portatore, salvo che questi abbia acquistato la cambiale in mala fede ovvero abbia commesso colpa grave acquistandola. La facoltà di riempimento è sottoposta ad un termine di decadenza di 3 anni dall’emissione del titolo; la decadenza non è però opponibile al portatore di buona fede al quale il titolo sia pervenuto già completo.
Con la cambiale tratta una persona (traente) rivolge ad un’altra (trattario) l’ordine di pagare ad una terza persona (beneficiario o prenditore) la somma indicata nella cambiale stessa. La cambiale può essere tratta anche a favore dello stesso traente: se il beneficiario è un terzo, il traente assume già con l’emissione un obbligo cambiario verso il prenditore; se è tratta a favore dello steso traente, questi assume un obbligo cambiario soltanto quando trasmette la cambiale ad un terzo.
Il rapporto che giustifica l’ordine impartito dal traente al trattario si chiama rapporto di provvista. Quale che sia il rapporto di provvista tra traente e trattario questi, anche se si sia obbligato verso il traente ad aderire all’ordine contenuto nella cambiale, non assume alcun obbligo cambiario se non quando provveda ad apporre una dichiarazione scritta sulla cambiale di adesione all’ordine impartitogli dal traente: l’accettazione.
L’accettazione è espressa con la parola “accettato”, “visto” o con altre equivalenti. Non è ammessa l’apposizione di condizioni; è valida peraltro l’accettazione limitata ad una parte soltanto della somma. Se l’accettazione è rifiutata, il portatore della cambiale può rivolgersi contro il traente e i giranti (azione di regresso). L’accettazione può essere fatta anche da persona diversa dal trattario (accettazione per intervento). Questa persona può anche essere indicata all’uopo sulla cambiale (al bisogno) dal trattario o dal traente (indicato al bisogno).
La cambiale può essere trasferita mediante girata. Ossia mediante l’ordine, scritto direttamente sul retro del documento, con cui il prenditore del titolo, o un successivo giratario, ingiunge al debitore di pagare l’importo dovuto al beneficiario dell’ordine, detto giratario. Il trasferimento mediante girata costituisce la circolazione normale, regolare del titolo, ma non è vietato che la cambiale si trasferisca in base alle regole della cessione. Infatti, il traente può imprimere alla cambiale una circolazione anomala vietandone con le parole “non all’ordine” o altre equivalenti, il trasferimento mediante girata: in questo caso la cambiale si trasferisce solo con la forma e con gli effetti di una cessione ordinaria. Anche il girante può vietare una nuova girata.
La girata deve essere scritta sulla cambiale o, nel caso che questa contenga già tante firme da non potersene apporre altre, su un foglio ad essa attaccato che si chiama allungamento.
La girata può essere piena (per me pagate al sig. X) o in bianco: quest’ultima non contiene l’indicazione del giratario ed è costituita dalla sola firma del girante. Nel caso di girata in bianco il giratario può riempirla con il proprio nome o con quello di altra persona, girare la cambiale di nuovo in bianco o a persona determinata, trasmettere la cambiale ad un terzo, senza riempire la girata in bianco e senza girarla.
Figure particolari di girata sono: la girata per incasso o per procura (il giratario non può girare il titolo se non per procura e a lui possono essere opposte le eccezioni opponibili al girante) e la girata a titolo di pegno (attribuisce al giratario un diritto di pegno sulla cambiale).
412 L’avallo
Un’obbligazione cambiaria può essere garantita anche con un’ulteriore obbligazione cambiaria. Questa obbligazione cambiaria si chiama avallo. La persona che garantisce si chiama avallante; la persona a cui favore la garanzia è prestata, avallato. L’obbligazione di avallare la cambiale deve essere scritta sulla cambiale; di solito si scrive “per avallo” seguita dalla firma dell’avallante, la quale può essere scritta sia sulla parte anteriore che posteriore della cambiale.
413 Il pagamento
Le persone obbligate al pagamento della cambiale si distinguono in due categorie: obbligati principali (emittente del pagherò; accettante della tratta) ed obbligati in via di regresso (giranti del vaglia, traente e giranti nella tratta). Solo il pagamento compiuto dall’obbligato principale estingue la cambiale, non quello degli obbligati di regresso, in quanto costoro, se pagano la cambiale, vengono surrogati nei diritti del portatore e possono, a loro volta, agire contro gli obbligati principali. Tutti gli obbligati cambiari sono tenuti in solido.
Il pagamento della cambiale deve essere effettuato nel luogo e nell’indirizzo indicato nel titolo, che è, di solito, la residenza dell’accettante o dell’emittente, ma può avvenire al domicilio di un terzo (cambiale domiciliata).
In deroga ai principi generali, il portatore non può rifiutare un pagamento parziale perché questo libera, sia pure parzialmente, gli obbligati in via di regresso.
414 L’azione cambiaria
Il portatore di una cambiale può servirsi di essa come titolo esecutivo ed iniziare senz’altro l’esecuzione, o promuovere un ordinario giudizio di cognizione od ottenere decreto ingiuntivo. L’azione cambiaria è di due specie: diretta (contro gli obblighi principali), di regresso (contro gli obbligati di regresso). Quest’ultima può essere esercitata dopo la scadenza, per mancato pagamento; prima della scadenza, per rifiuto dell’accettazione…L’azione principale è soggetta a prescrizione triennale, l’azione di regresso a prescrizioni più brevi.
Il protesto è un atto pubblico con il quale si accerta il rifiuto di accettazione o il rifiuto di pagamento nel termine fissato dalla legge. Il protesto, in entrambi i casi, non è necessario quando vi sia la clausola “senza spese” “senza pretesto” e può essere sostituito da una dichiarazione di rifiuto dell’accettazione o del pagamento, scritta e datata sulla cambiale e firmata dal trattario. Indipendentemente dal protesto, il portatore ha l’obbligo di avvisare il proprio girante e gli eventuali avvallanti della mancata accettazione o del mancato pagamento ed ogni girante deve informare il precedente. Gli avvisi servono solo ad informare gli obbligati in via di regresso che la cambiale non è stata pagata e che quindi provvedano al pagamento.
415 Eccezioni cambiarie
Se le eccezioni cambiarie opponibili dal convenuto, richiedono una lunga indagine, il giudice, su istanza del creditore, può, intanto emettere sentenza provvisoria di condanna con riserva di esame delle eccezioni (condanna con riserva). Pur concedendo questa particolare tutela al creditore cambiario, la legge offre un rimedio che consente di tener conto della situazione del debitore. Infatti, quando concorrono gravi ragioni, il giudice può anche sospendere l’esecuzione iniziata dal creditore in base alla cambiale.
Capitolo 56: GLI ASSEGNI
L’assegno è uno strumento di pagamento e mira a procurare al portatore l’immediata disponibilità di una somma di danaro.
Gli assegni sono pagabili a vista e non se ne può quindi dilazionare l’adempimento; essi prevedono l’intervento di una banca. Le due più importanti figure di assegno sono l’assegno bancario e l’assegno circolare.
L’assegno bancario ha la stessa struttura della cambiale tratta: vale a dire che consiste in un documento sul quale unilateralmente l’emittente (o traente) sottoscrive un ordine incondizionato rivolto alla banca di pagare una somma di danaro determinata a favore del beneficiario indicato sul titolo.
L’emissione di assegni bancari deve essere autorizzata dalla banca, la quale, quando stipula con un cliente una c.d. convenzione di assegni, gli consegna un libretto con i moduli prestampati.
Se invece un assegno viene emesso senza l’autorizzazione della banca trattaria, il traente commette un reato. L’emissione dell’assegno presuppone l’esistenza, presso la banca, di una adeguata provvista, cioè di fondi disponibili, attingendo ai quali la banca potrà provvedere a pagare al beneficiario l’importo indicato.
Chiunque emetta un assegno che non venga pagato per mancanza di sufficiente provvista commette un reato ed è inoltre tenuto a pagare al portatore del titolo che agisca contro di lui, oltre all’importo del titolo, un ulteriore 10% a titolo di penale.
A sua volta la banca trattaria, qualora per l’assegno non pagato sia stato elevato il protesto, deve revocare al traente l’autorizzazione ad emettere assegni, invitandolo a restituire tutti i moduli di assegni che abbia ancora in suo possesso. Se la banca non adempie a ciò, diventa responsabile, nella misura di 10 milioni per assegno, degli eventuali assegni che il protestato dovesse continuare ad emettere senza provvista.
L’assegno può essere emesso con la specifica indicazione del nome del beneficiario, ovvero a favore del portatore, e cioè di chi lo presenterà all’incasso.
Un assegno può anche essere emesso anche a favore dello stesso traente.
L’assegno è un titolo all’ordine e si trasferisce quindi per mezzo della girata, ma se è emesso al portatore può essere trasferito anche mediante semplice consegna.
L’assegno circolare non può essere emesso se non da una banca, solo se essa ha ottenuto specifica autorizzazione dalla Banca d’Italia.
Naturalmente gli assegni circolari sono emessi dalle banche in quanto un cliente ne faccia richiesta e versi il relativo importo, ovvero previo addebito a suo carico dell’importo per il quale il titolo è emesso.
L’emissione non può essere fatta al portatore, ma necessariamente all’ordine di uno specifico nominativo: o quello di un terzo, al quale il cliente, dopo averlo ritirato dalla banca si ripromette di riconsegnare l'assegno, o dello stesso cliente, il quale si ripromette di incassarlo altrove o di girarlo a favore di terzi.
La struttura dell’assegno circolare è quella del pagherò: la banca si impegna incondizionatamente a pagare a vista l’importo per cui il titolo è emesso, o all’intestatario dell’assegno o ad un giratario.
Per la circolazione e il pagamento dell’assegno circolare valgono gli stessi principi del pagherò.
Figure di obbligazioni nascenti dalla legge sono la gestione di affari; la ripetizione d’indebito; l’arricchimento senza causa.
Si ha gestione di affari altrui nell’ipotesi in cui taluno, senza esservi obbligato, si intromette negli affari di un altro, che non sia in grado di provvedervi.
La legge ne fa derivare un obbligo a carico del gestore di continuare la gestione intrapresa fino a quando il dominus non possa intervenire direttamente (art.2028 c.c.).
A sua volta il dominus è tenuto ad adempiere le obbligazioni che il gestore ha assunto in nome di lui e deve tenere indenne il gestore per quelle che questi abbia assunto in nome proprio, rimborsandogli altresì tutte le spese necessarie od utili effettuate nell’interesse del dominus (art.2031 c.c.).
Se si è fatto un pagamento senza che preesista un debito, chi l’ha fatto ha diritto alla restituzione di ciò che ha pagato, mentre non era dovuto.
Distinguiamo due diverse figure d’indebito:
non dà luogo a ripetizione d’indebito, l’adempimento di un’obbligazione naturale. Parimenti non ha diritto di pretendere la restituzione chi abbia eseguito una prestazione che costituisca offesa al buon costume anche da parte sua.
La ripetizione comprende non solo ciò che si è pagato, ma anche i frutti e gli interessi.
L’azione di ripetizione dell’indebito è un’azione personale: se chi ha ricevuto indebitamente una cosa determinata l’ha successivamente alienata, chi ha pagato no può pretendere la restituzione dal terzo acquirente, ma soltanto chiedergli il corrispettivo qualora sia ancora dovuto (art.2038 c.c.).
L’ordinamento giuridico non può consentire che una persona riceva un vantaggio dal danno arrecato ad altri, senza che vi sia una causa che giustifichi lo spostamento patrimoniale da un soggetto ad un altro.
Così la legge ha stabilito, come rimedio generale, l’azione d’ingiustificato arricchimento.
Essa ha carattere sussidiario: è proponibile quando il danneggiato non può esperire altra azione per rimuovere il pregiudizio (art.2042 c.c.).
Elementi dell’azione sono:
Qualsiasi pregiudizio che altri può provocarmi, con una sua azione o anche con una sua omissione, costituisce un danno. Un evento pregiudizievole può influire sulla mia situazione economica (danno patrimoniale) e/o sulla mia situazione fisica o psichica (danno morale). Ogni danno dà diritto a pretendere un risarcimento, ma non si è sempre obbligati a risarcire il danno arrecato. La norma fondamentale in tema di c.d. responsabilità aquiliana è, nel nostro ordinamento, l’art.2043 c.c., secondo il quale chi ha cagionato ad altri un danno è obbligato al risarcimento soltanto quando si tratti di un danno ingiusto. Se taluno, pur compiendo atti leciti, omette di adottare le cautele necessarie per assicurare l’incolumità altrui, risponde indubbiamente per i pregiudizi che eventualmente ne siano derivati a carico di terzi.
Per l’art.2043 c.c., il danno è risarcibile soltanto se provocato con colpa. Un evento si dice colposo quando non è stato intenzionalmente determinato, ma si è verificato a causa di negligenza, imprudenza , imperizia, o per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini, discipline. La colpa è dunque esclusa se il fatto si verifica per caso fortuito, forza maggiore o, comunque, per cause che il danneggiante non ha potuto evitare e non poteva prevedere. Ovviamente il risarcimento sarà dovuto a fortiori se il danno sia stato addirittura provocato con dolo, ossia quando l’autore del comportamento pregiudizievole ha previsto e l’evento lesivo, realizzandolo intenzionalmente.
Il c.c. stabilisce che non risponde delle conseguenze del fatto dannoso chi non aveva la capacità di intendere o di volere al momento in cui lo ha commesso (art.2046 c.c.). Se il danno è stato provocato da persona incapace, il danneggiato ha diritto di pretendere il risarcimento dal soggetto tenuto alla sorveglianza dell’incapace: la persona tenuta alla sorveglianza è esente da responsabilità soltanto qualora riesca a dare la prova di non aver potuto impedire il fatto. Qualora la persona tenuta alla sorveglianza non sia in grado di risarcire il danno, il danneggiato può chiedere al giudice di condannare l’incapace (ovviamente se questi abbia un suo patrimonio) al pagamento di un’equa indennità.
425 Il nesso di causalità
Ulteriore elemento indispensabili per l’affermazione della responsabilità è costituito dal c.d. nesso di causalità: ossia il danno deve essere stato cagionato dal soggetto dal quale si pretende di essere risarciti, la sua condotta deve essere stata causa dell’evento pregiudizievole. Il soggetto è tenuto a risarcire l’intero danno anche se ha solo contribuito a provocarlo, mentre parimenti ne sarà responsabile (in solido) per intero chiunque altro eventualmente abbia concorso a causare il pregiudizio. Il nesso di causalità tra una condotta che ha contribuito a provocare un evento dannoso e il danno stesso si dice giuridicamente interrotto, quando l’evento risulta altresì provocato da una causa a carattere eccezionale, che non può farsi ricadere sul primo soggetto (ad es. la persona investita, trasportata al pronto soccorso, viene coinvolta in un incendio, il responsabile dell’incendio non risponde delle conseguenze di questo nuovo incidente). Anche un comportamento omissivo può essere causa di un evento dannoso, quando si aveva l’obbligo giuridico di impedirlo. A produrre l’evento dannoso può contribuire il comportamento colposo dello stesso danneggiato: in tal caso, l’obbligo del risarcimento viene diminuito, restando affidato al giudice, in caso di controversia tra le parti, determinare di quale % del danno dovrà rispondere il danneggiante.
426 Cause di giustificazione
Si dicono cause di giustificazione quelle circostanze in presenza delle quali un comportamento pregiudizievole diventa giustificato, cosicchè non si è tenuti a risarcire il danno che ne è derivato. La responsabilità è esclusa innanzitutto se il comportamento dannoso è compiuto nell’adempimento di un dovere. Anche la legittima difesa esclude l’antigiuridicità del comportamento dannoso. La difese però, deve essere proporzionata all’offesa che si voleva respingere; altrimenti la reazione eccessiva non è più giustificata e si è responsabili del danno così provocato (c.d. eccesso colposo). Anche nel caso in cui si agisce in stato di necessità, non si è tenuti al risarcimento del danno, ma al danneggiato è dovuta una indennità, la cui misura è rimessa all’equo apprezzamento del giudice.
La responsabilità del produttore per danni arrecati a persone o cose da vizi dei prodotti posti in circolazione dal fabbricante, è sancita senza bisogno di alcuna prova di una sua specifica colpa, e dipende dal fatto oggettivo della lesione arrecata al cliente da un difetto del prodotto. Sono risarcibili soltanto il danno cagionato dalla morte o da lesioni personali di un individuo, la distruzione o il deterioramento di una cosa diversa dal prodotto difettoso; il danno a cose è risarcibile solo ove ecceda una franchigia di 750.000 lire.
Per poter ottenere il risarcimento in caso di contestazione, il danneggiato deve provare non solo di aver subito un danno e che questo pregiudizio è stato cagionato dal soggetto dal quale pretende di essere risarcito, ma deve altresì provare la colpa di quest’ultimo. Vengono in considerazione due ipotesi:
Accanto alla responsabilità diretta dell’autore dell’illecito è prevista anche la responsabilità indiretta di un’altra persona. Le principali ipotesi di responsabilità indiretta sono:
La distinzione tra i due tipi di responsabilità riguarda innanzitutto l’onere della prova: nella responsabilità contrattuale all’attore è sufficiente provare il suo credito e la scadenza dell’obbligazione; è il debitore che, se vuole giustificarsi, ha l’onere di dimostrare di non aver potuto adempiere per una causa a lui non imputabile. Nella responsabilità extracontrattuale, invece, è l’attore che ha l’onere di provare non soltanto che la condotta del convenuto gli ha causato un danno, ma anche che si tratta di un comportamento tenuto con colpa o con dolo.
I due tipi di responsabilità presentano differenze anche in ordine agli effetti giuridici che da essi derivano. Ambedue danno luogo al risarcimento del danno. Tuttavia, mentre l’art.1225 c.c. limita il risarcimento ai soli danni prevedibili nel tempo in cui è sorta l’obbligazione, se l’inadempimento o il ritardo non dipende dal dolo, questa limitazione non sussiste in materia extracontrattuale: quindi, mentre in tema di responsabilità contrattuale, se non vi è dolo, ma colpa, sono risarcibili soltanto i danni prevedibili, in tema di responsabilità aquiliana non ha mai rilevanza, ai fini del risarcimento, la prevedibilità del danno.
L’autore dell’illecito è obbligato a risarcire il danno. Per la valutazione dei danni sono applicabili gli artt.1223, 1226, 1227 c.c.. Il responsabile deve risarcire sia il danno emergente (la diminuzione patrimoniale subita dalla vittima) sia il lucro cessante (i guadagni che la vittima avrebbe potuto conseguire se non ne fosse stata impedita dalla lesione subita). Queste sono le regole relative al c.d. danno patrimoniale. Si dicono non patrimoniali, invece, i danni che consistono in mere sofferenze, patemi d’animo, dolori. Il legislatore, ad evitare il rischio di richieste alluvionali e speculative di risarcimenti per danni morali a fronte di qualsiasi tipo di illecito, ne ha concluso la risarcibilità, ammettendola solo nei casi determinati falla legge, di cui il più importante è quello relativo al danno derivante da reato: soltanto quando un illecito non sia tale solo dal punto di vista del diritto civile, ma concreti altresì una lesione rilevante penalmente, allora è legittimo richiedere, oltre al risarcimento dei danni patrimoniali, anche i danni non patrimoniali o morali.
Il campo in cui più di frequente si registra la richiesta di risarcimento dei danni morali è quello del danno alla persona.
Tra i danni patrimoniali indiretti troviamo il c.d. danno alla vita di relazione, vale a dire la diminuita capacità (a causa ad es. di una una invalidità, o di un peggioramento estetico) di inserirsi nei rapporti socio-economici.
L’art.2058 c.c. dispone che il danneggiato può chiedere la reintegrazione in forma specifica, qualora sia in tutto o in parte possibile.
Il risarcimento, di solito, si opera per equivalente, vale a dire attribuendo alla vittima una somma di danaro commisurata alla entità del pregiudizio cui si intende porre riparo. Tuttavia, il danneggiato può decidere di chiedere, purchè sia possibile, il risarcimento in forma specifica, ossia l’imposizione al responsabile di una attività volta a procurare al danneggiato la diretta riparazione della lesione (es. l’ordine al datore di lavoro di riassumere il lavoratore ingiustamente licenziato).
La prescrizione del diritto al risarcimento del danno derivante da fatto illecito è più breve di quella ordinaria (in genere 5 anni dal giorno in cui il fatto si è verificato).
Se il danno è prodotto dalla circolazione dei veicoli, il termine di prescrizione è di 2 anni.
Però, se il fatto è considerato dalla legge come reato, e per il reato è stabilita una prescrizione più lunga, questa si applica all’azione civile. Tuttavia, se il reato è estinto per causa diversa dalla prescrizione o è intervenuta sentenza irrevocabile nel giudizio penale, il diritto al risarcimento del danno si prescrive nei termini, rispettivamente, di 5 e 2 anni a decorrere dalla data di estinzione del reato o dalla data in cui la sentenza penale è divenuta irrevocabile.
Se il fatto è considerato dalla legge come reato, ed il reato è estinto per amnistia, il termine decorre dal giorno di entrata in vigore del provvedimento di clemenza, qualora il reato sia compreso tra quelli previsti dall’amnistia.
Il c.c. non definisce la famiglia e l’art.29 della Costituzione proclama che la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale.
Con il processo di industrializzazione e la conseguente concentrazione dei luoghi di lavoro all’esterno delle famiglie, si è avviato il processo di disgregazione della famiglia antica, sul piano della composizione numerica, della contrazione dei poteri del capo famiglia, della riduzione delle funzioni svolte all’interno della famiglia.
Con la Legge 19/05/75 n°151, tutto il vecchio diritto di famiglia ha subìto una profonda opera di riforma.
La legge, infatti, ha provveduto a sostituire con nuovi testi numerosi articoli del c.c..
Le principali novità riguardano:
502 Famiglia legittima e famiglia di fatto
La famiglia legittima è quella fondata sul matrimonio (art.29 Carta costituzionale).
Anche i figli si dicono legittimi in quanto concepiti da genitori uniti in matrimonio (art.231 e ss. c.c.).
La famiglia di fatto è quella costituita da persone che, pur non essendo legate tra loro dal vincolo matrimoniale, convivono insieme agli eventuali figli nati dalla loro unione.
Il riconoscimento dei diritti della famiglia contenuto nell’art.29 Cost. si rivolge solo alla famiglia fondata sul matrimonio.
Il matrimonio è un istituto che assume rilievo sia dal punto di vista religioso che da quello dell’ordinamento giuridico dello Stato (c.d. matrimonio civile).
Per il diritto italiano il termine matrimonio è adoperato tanto per indicare l’atto (le nozze) mediante il quale viene fondata la società coniugale, quanto il rapporto che ne deriva per gli sposi.
Il rapporto che così si costituisce è il rapporto coniugale, che determina l’acquisizione automatica, per la prole, dello status di figli legittimi.
Fine essenziale del matrimonio civile è la costituzione di una comunione di vita spirituale e materiale tra i coniugi. Il matrimonio si limita a produrre delle conseguenze giuridiche, e cioè la costituzione di un vincolo tra gli sposi. Questo vincolo ha cessato fin dal 1970 di essere indissolubile, a seguito dell’introduzione del divorzio; esso, pertanto, rimane esclusivo (monogamico), indisponibile e di durata indeterminata.
La celebrazione dell’atto può aver luogo con due forme diverse: con la celebrazione davanti ad un ufficiale dello stato civile, oppure con la celebrazione davanti ad un ministro del culto cattolico, secondo le regole del diritto canonico, purchè seguita da trascrizione dell’atto nei registri dello stato civile.
Il matrimonio è di solito preceduto dal fidanzamento. I fidanzati si promettono reciprocamente di celebrare il matrimonio, ma le parti sono libere fino al momento della perfezione del matrimonio.
Perciò la promessa non obbliga a contrarre il matrimonio né ad eseguire ciò che si fosse convenuto in caso di inadempimento.
Se la promessa è fatta per iscritto da un maggiorenne o da un minore ammesso a contrarre matrimonio a norma dell’art.84 c.c., il promittente, qualora senza giusto motivo ricusi successivamente di dare esecuzione alla promessa e di contrarre le nozze, è tenuto ai danni (qualora una delle parti abbia contratto delle spese ai fini del matrimonio). In ogni caso di rottura del fidanzamento, inoltre, può essere chiesta la restituzione dei doni fatti a causa della promessa di matrimonio.
Tali sono i c.d. regali d’uso tra fidanzati, di valore adeguato alle condizioni sociali ed economiche del donante.
La restituzione può essere chiesta a prescindere dai motivi della rottura del fidanzamento, e quindi ad essa è tenuto anche il promittente incolpevole.
L’azione per il risarcimento dei danni e quella per la restituzione dei doni sono soggette ad un breve termine di decadenza: un anno dal giorno del rifiuto di celebrare le nozze oppure, per la restituzione dei doni, da quello della morte di uno dei promittenti.
Per contrarre matrimonio occorre per un verso che ciascuno dei nubendi abbia la piena capacità di sposarsi e per altro verso che non sussistano impedimenti relativi alla coppia.
Sotto il primo profilo sono necessari, per ciascuno degli sposi:
a) la libertà di stato: non può contrarre nuovo matrimonio chi è legato da vincolo di nozze precedenti;
b)l’età minima: per entrambi è necessaria la maggiore età;
In particolare per la donna che sia già stata sposata è poi necessaria: e) non può contrarre nuove nozze se non dopo che siano trascorsi 300 gg. dallo scioglimento o dall’annullamento del precedente matrimonio concordatario, eccetto il caso in cui il matrimonio sia dichiarato nullo per impotenza di uno dei coniugi.
Dopo la riforma, non costituisce più condizione necessaria per celebrare matrimonio la capacità di intrattenere rapporti sessuali.
Difatti, mentre l’art.123 c.c., ora totalmente modificato, disponeva che l’impotenza costituiva causa di nullità del matrimonio, purchè anteriore alle nozze, con la riforma l’impotenza non ha più alcun rilievo autonomo, ma può essere adotta quale causa di invalidità del vincolo soltanto quando sia stata ignorata dall’altro coniuge, e purchè si accerti che questi non avrebbe prestato il suo consenso se avesse conosciuto l’anomalia del partner.
La mancata consumazione del matrimonio, peraltro, legittima la domanda di divorzio, qualunque ne sia stata la causa, e perciò pure quando sia conseguenza di impotenza di uno dei coniugi.
Sotto secondo profilo (impedimenti), non possono contrarre matrimonio tra loro:
1) gli ascendenti e i discendenti in linea retta, legittimi o naturali;
2)i fratelli e le sorelle germani (figli degli stessi genitori), consanguinei (figli dello stesso padre ma di madre diversa) o uterini (figli della stessa madre ma di padre diverso);
Non possono inoltre contrarre matrimonio tra loro le persone delle quali l’una è stata condannata per omicidio consumato o tentato e l’altra sia il coniuge della vittima.
La celebrazione del matrimonio deve essere preceduta dalla pubblicazione, salva autorizzazione giudiziale ad ometterla.
La pubblicazione consiste nell’affissione di un atto, contenente le generalità degli sposi, alla porta del comune ed è fatta a cura dell’ufficiale dello stato civile.
Essa serve a rendere noto il proposito che i nubendi hanno di contrarre nozze e a mettere così ogni interessato in grado di fare le eventuali opposizioni.
La celebrazione deve avvenire pubblicamente nella casa comunale davanti all’ufficiale di stato civile al quale fu fatta richiesta di pubblicazione: questi, alla presenza di due testimoni, anche se parenti, dà lettura agli sposi degli artt.143, 144, 147 c.c.; riceve da ciascuna delle parti personalmente, l’una dopo l’altra, la dichiarazione che esse si vogliono prendere rispettivamente in marito e in moglie, e di seguito dichiara che esse sono unite in matrimonio; immediatamente dopo la celebrazione deve essere compilato l’atto di matrimonio, che verrà poi iscritto nel registro di stato civile.
È ammessa la celebrazione per procura per i militari in tempo di guerra, o quando uno degli sposi risieda all’estero e concorrano gravi motivi, da valutarsi dal tribunale nella cui circoscrizione risiede l’altro coniuge.
La procura deve essere rilasciata per atto pubblico; deve indicare il nome dell’altro sposo ed è soggetta ad un breve termine (180 gg.) di efficacia.
Le cause di invalidità possono essere fatte valere da chiunque vi abbia interesse (annullabilità assoluta), altre possono essere fatte valere soltanto dai coniugi o dal pubblico ministero (annullabilità relativa), talune possono essere fatte valere in qualunque tempo (annullabilità insanabile e imprescrittibile), altre sono suscettibili di rapida sanatoria. Sinteticamente le cause di invalidità del matrimonio civile sono:
In pendenza del giudizio di annullamento può essere disposta la separazione dei coniugi.
508 Il matrimonio putativo
Se i coniugi sono in buona fede (ossia ignoravano, al momento della celebrazione, il vizio che inficiava le loro nozze), il matrimonio si considera valido fino alla pronunzia della sentenza di annullamento, la quale, dunque, opera ex nunc (quasi fosse una causa di scioglimento del vincolo), anzicchè ex tunc (perciò si parla di matrimonio putativo, ossia credere: matrimonio, cioè, che i coniugi credevano valido).
Se in buona fede è uno solo dei coniugi, gli effetti del matrimonio putativo si verificano soltanto in favore suo e dei figli.
Se entrambi i coniugi sono in mala fede, i figli si considerano egualmente legittimi, a meno che la nullità dipenda da bigamia o incesto: in queste due ipotesi, ai figli spetta lo status di figli naturali riconosciuti.
Non può ricorrere la figura del matrimonio putativo nel caso in cui il matrimonio sia addirittura inesistente.
509 Nozioni generali
Accanto al matrimonio celebrato civilmente, può aversi il c.d. matrimonio concordatario, ossia quello religioso che, in base agli accordi tra Stato e Chiesa, può produrre effetti non soltanto religiosi, ma anche civili. Condizioni:
Anche la celebrazione del matrimonio canonico deve essere preceduta dalle pubblicazioni, mediante affissione di un avviso con le generalità degli sposi alle porte della chiesa parrocchiale, per la durata di almeno 8 gg. comprese due domeniche successive, e dopo che il parroco si sia accertato che non esistono impedimenti.
Ma perché il matrimonio consegua gli effetti civili occorrono anche le pubblicazioni alla porta della casa comunale.
L’ufficiale di stato civile deve rifiutare le pubblicazioni se accerta che il matrimonio canonico non potrebbe essere trascritto.
L’Accordo di revisione del Concordato ha previsto la intrascrivibilità del matrimonio canonico nei seguenti casi:
La Corte costituzionale ha stabilito che la scelta del matrimonio concordatario, e quindi la trascrizione del matrimonio canonico, è impugnabile qualora sia stata effettuata da persona in stato di incapacità naturale.
Se la trascrizione del matrimonio canonico sia stata omessa, può essere chiesta in ogni tempo la trascrizione tardiva, purchè la richiesta sia fatta da entrambi i coniugi, o anche da uno solo di essi purchè l’altro ne sia a conoscenza e non faccia opposizione.
È peraltro necessario che entrambi abbiano conservato ininterrottamente lo stato libero dal momento della celebrazione a quello della richiesta di trascrizione.
Anche la trascrizione tardiva ha effetto retroattivo: cioè gli effetti civili del matrimonio decorrono dal momento della celebrazione.
Perciò i figli nati dopo tale celebrazione, ma prima della trascrizione, si considerano egualmente legittimi.
L’Accordo del 1984 per la revisione del Concordato ha stabilito che, affinchè le sentenze di nullità di matrimonio pronunciate dai Tribunali ecclesiastici siano dichiarate efficaci nella Repubblica, occorre che la Corte d’appello competente per territorio accerti:
Peraltro ogni questione relativa alla validità della trascrizione di un matrimonio canonico è rimasta di competenza dell’autorità giudiziaria italiana.
Il matrimonio celebrato davanti ad un ministro di un culto diverso da quello cattolico produce gli stessi effetti civili del matrimonio celebrato davanti all’ufficiale dello stato civile.
Questo matrimonio, a differenza di quello celebrato davanti ad un ministro del culto cattolico, è integralmente regolato dal c.c., anche per quanto riguarda i requisiti di validità.
Anche tale matrimonio deve essere trascritto nei registri dello stato civile italiano, perché produca effetti civili.
Capitolo 70: IL MATRIMONIO: IL REGIME DEL VINCOLO
Per l’art.29 Cost. il matrimonio è ordinato sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi. Gli artt.143-148 c.c. sono dedicati ai diritti e doveri che nascono dal matrimonio (con il matrimonio, il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono gli stessi doveri). La famigli non ha più, oggi, un capo ed una struttura gerarchica, ma impegna i coniugi a concordare l’indirizzo della vita familiare e la residenza della famiglia.
Costituisce eccezione alla rigida regola dell’eguaglianza tra i coniugi, la norma che prevede l’aggiunta del cognome maritale a quello della moglie, così come i figli assumono il cognome paterno.
Dal matrimonio derivano l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza, alla collaborazione e alla coabitazione.
C’è parificazione tra i coniugi, anche sul piano dei rapporti patrimoniali; essi sono tenuti entrambi, in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia.
Oltre al divorzio, altra causa di scioglimento del matrimonio è la morte di uno dei coniugi. In questo caso, il matrimonio, sebbene sciolto, continua a produrre i suoi effetti (successione, diritto alla pensione di reversibilità, divieto di nuove nozze durante il lutto vedovile, conservazione della cittadinanza italiana da parte dello straniero che aveva sposato un italiano, conservazione da parte della vedova, del diritto all’uso del nome del marito).
In materia di divorzio, il nostro ordinamento non ammette né il divorzio consensuale, né il c.d. divorzio sanzione, ossia giustificato come reazione ad una colpa di un coniuge verso l’altro. Il divorzio, quindi, è ammissibile solo quando la comunione spirituale e materiale tra i coniugi non può essere mantenuta o ricostruita. L’accertamento di tale mancanza è ammissibile esclusivamente quando ricorra la separazione personale dei coniugi, protrattasi ininterrottamente per almeno 3 anni. Le altre cause che rendono ammissibile il divorzio sono: una condanna penale, passata in giudicato, di particolare gravità; una condanna penale per reati in danno del coniuge o di un figlio; l’assoluzione per vizio totale di mente da uno dei delitti per i quali la condanna comporterebbe causa sufficiente a giustificare la domanda di divorzio; l’annullamento del matrimonio o il divorzio ottenuti all’estero dal coniuge straniero; la mancata consumazione del matrimonio; il passaggio in giudicato della sentenza che rettifichi l’attribuzione del sesso di uno dei coniugi (transessualismo).
In tutti i casi il giudice deve esprimere pregiudizialmente un tentativo di conciliazione. Se la conciliazione non riesce, il giudice deve accertare la sussistenza di una delle cause di divorzio indicate dell’art.3. con la sentenza di divorzio il Tribunale dispone l’obbligo per un coniuge (di regola il marito) di corrispondere all’altro un assegno periodico (di regola mensile), purchè quest’ultimo non abbia mezzi adeguati. L’obbligo di corresponsione dell’assegno cessa se il coniuge beneficiario passa a nuove nozze. L’abitazione nella casa familiare spetta di preferenza al genitore cui vengano affidati i figli o con il quale i figli maggiorenni convivono. Il Tribunale deve decidere sull’affidamento dei figli, avendo come esclusivo riferimento l’interesse morale e materiale degli stessi.
Il c.c. si occupa solo della separazione legale: si può però anche avere una separazione di fatto, ossia un’interruzione della convivenza coniugale non sanzionata da alcun provvedimento giudiziale, ma voluta ed attuata deliberatamente, sulla base di un previo accordo informale dei coniugi, o per il rifiuto unilaterale di uno di essi a proseguire la vita in comune. La separazione di fatto non determina conseguenze giuridiche. La separazione legale può essere giudiziale. Si può chiedere la separazione per il solo fatto che la prosecuzione della convivenza sia diventata intollerabile o tale da arrecare grave pregiudizio alla educazione della prole. Con la sentenza di separazione il giudice dichiara a quale dei coniugi vengono affidati i figli. Tale coniuge ha l’esercizio esclusivo della potestà sui figli, ma deve concordare le decisioni di maggior interesse per i figli con l’altro coniuge; ha il diritto e il dovere di vigilare sulla loro istruzione ed educazione. Sia per l’abitazione che per il mantenimento valgono gli stessi principi che per il divorzio. L’assegno però, non può essere attribuito al coniuge cui sia stata addebitata la responsabilità della separazione, al quale può semmai essere riconosciuto solo il diritto agli alimenti. Il giudice può vietare alla moglie l’uso del cognome del marito, quando tale uso sia a lui gravemente pregiudizievole. La separazione legale può anche essere consensuale che necessita, per la validità della separazione, dell’omologazione del tribunale.
Capitolo 71: IL REGIME PATRIMONIALE DELLA FAMIGLIA
518 Obbligo di contribuzione per il soddisfacimento dei bisogni della famiglia
Entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia (art.143 c.c.). inoltre ciascun coniuge deve adempiere all’obbligo di mantenere, istruire ed educare la prole in proporzione delle rispettive sostanze e secondo la sua capacità di lavoro professionale o casalingo (art.148 c.c.). Ciascun coniuge, quando abbia correttamente adempiuto all’obbligo di concorrere in modo adeguato a sostenere gli oneri familiari, è libero di destinare come preferisce l’eventuale eccedenza che abbia guadagnato. Se la coppia non ha mezzi sufficienti a provvedere al mantenimento dei figli, la legge impone ai loro ascendenti di fornire i mezzi necessari affinchè possano essere adempiuti i doveri nei confronti della prole. Inoltre, qualora uno dei coniugi non contribuisca adeguatamente al soddisfacimento dei bisogni familiari, il tribunale può imporre che una quota dei redditi del coniuge inadempiente sia versata direttamente all’altro coniuge o a chi provvede al mantenimento dei figli.
519 Regime patrimoniale legale. Le convenzioni matrimoniali.
Con la riforma, il regime patrimoniale legale della famiglia è costituito dalla comunione dei beni. La nuova disciplina ha trovato applicazione automatica soltanto per le coppie sposatesi dopo l’entrata in vigore della legge di riforma (20.09.75). Per le coppie già unite in matrimonio a quella data una norma transitoria ha previsto un periodo di pendenza di 2 anni a partire dall’entrata in vigore della riforma (periodo poi prorogato fino al 15.01.78): se durante questo periodo uno qualsiasi dei coniugi, con atto unilaterale ricevuto da notaio o dall’ufficiale dello stato civile del luogo in cui fu celebrato il matrimonio, ha dichiarato di non volere il regime di comunione legale, la coppia è rimasta assoggettata, come prima, al regime di separazione dei beni. Qualora, invece, nessuno dei due coniugi abbia preso, entro il 15.01.78, l’iniziativa di un simile atto, la coppia è stata automaticamente assoggettata al regime di comunione legale. Per quelle coppie unite in matrimonio successivamente all’entrata in vigore della riforma, che volessero la separazione dei beni, devono convenire in un accordo stipulato per atto pubblico o farlo risultare dall’atto di matrimonio.
La comunione legale, non è una comunione universale, cioè di tutto quanto appartiene a ciascuno dei coniugi.
In base al c.c. riformato cadono automaticamente in comunione:
Sono invece esclusi dalla comunione e rimangono beni personali di ciascun coniuge:
Se uno dei coniugi è minore o non può amministrare, per lontananza o per impedimenti, o ha male amministrato, l’altro coniuge può chiedere al giudice di escluderlo dall’amministrazione. I beni della comunione rispondono:
521 Scioglimento della comunione
La comunione legale si scioglie per effetto di una delle seguenti cause:
In mancanza di apposita convenzione matrimoniale, il regime patrimoniale legale che si applica ai coniugi è quello della comunione automatica degli acquisti. Il legislatore ha previsto che i coniugi possano convenire, con apposita stipulazione matrimoniale, di non escludere il regime di comunione, ma soltanto di disciplinarlo diversamente, dando luogo ad una comunione, per l’appunto, convenzionale. In concreto, la stipulazione di un accordo tra i coniugi per dar vita ad una comunione convenzionale può soprattutto mirare o a ricomprendere nella comunione anche beni personali.
523 La separazione dei beni
Il regime patrimoniale legale è quello della comunione degli acquisti, ma resta salva la facoltà dei coniugi di convenire che ciascuno di essi conservi la titolarità esclusiva dei beni acquistati durante il matrimonio. Quando si applica il regime di separazione ciascun coniuge conserva il godimento e l’amministrazione dei beni di cui è titolare esclusivo.
524 Il fondo patrimoniale
La riforma prevede la possibilità che venga costituito un fondo patrimoniale per far fronte ai bisogni della famiglia. Il fondo patrimoniale può essere costituito da ciascuno dei coniugi, da entrambi, o anche da un terzo. La costituzione deve avvenire con un atto pubblico o, se il costituente è un terzo, anche mediante testamento. Possono far parte del fondo solo beni immobili, mobili registrati o titoli di credito. La proprietà dei beni che costituiscono il fondo, salva diversa disposizione nell’atto costitutivo, spetta ad entrambi i coniugi. L’amministrazione del fondo è regolata dalle stesse norme che disciplinano l’amministrazione della comunione legale. I frutti dei beni del fondo non possono essere utilizzati che per i bisogni della famiglia. I beni del fondo, non possono essere alienati, concessi in garanzia, se non con il consenso dei coniugi e, qualora vi siano figli minori, previa autorizzazione giudiziale da concedersi solo per necessità evidente della famiglia
525 L’impresa familiare
Una novità della riforma del 1975 è stato l’art.230-bis c.c. dedicato alla impresa familiare. La norma mira a tutelare i familiari dell’imprenditore che prestino in modo continuativo la loro attività di lavoro nell’impresa del loro congiunto. I familiari tutelati con la norma, sono il coniuge, i parenti entro il 3°grado, gli affini entro il 2°grado. A costoro viene riconosciuto il diritto al mantenimento ed il diritto a partecipare agli utili dell’impresa ed agli incrementi dell’azienda. In caso di cessazione della prestazione del lavoro e in caso della cessazione dell’azienda il diritto di partecipazione spettante ai familiari dell’imprenditore può essere liquidato in danaro e il pagamento può essere dilazionato in più annualità. I partecipanti hanno diritto di prelazione sull’azienda in caso di cessione o di divisione ereditaria.
526 La dote
La dote era rappresentata da quei beni che, mediante un atto solenne, la moglie apportava al marito per sostenere i
pesi del matrimonio. Essa presupponeva, quindi, che sul marito ricadesse l’onere di mantenere la moglie. Introdotto il regime di assoluta uguaglianza tra i coniugi, l’istituto della dote ha perso ogni significato. Infatti, la riforma ha stabilito un divieto rigoroso di costituzione della dote. Le doti costituite anteriormente all’entrata in vigore della riforma, continuano ad essere disciplinate dalle norme anteriori.
Capitolo 72: LA FILIAZIONE LEGITTIMA
527 Filiazione legittima
Il figli è legittimo quando è stato concepito da genitori uniti in matrimonio. È invece naturale quando è stato concepito da genitori che non sono sposati tra loro.
Perché ad una persona possa attribuirsi lo status di figlio legittimo occorre, in primo luogo, che sia nato da madre coniugata; in secondo luogo occorre che sia stato concepito ad opera del marito della madre.
La presunzione di paternità, non opera se il figlio, pur essendo stato concepito in circostanza di matrimonio, sia nato decorsi 300 gg. dalla pronuncia di una separazione giudiziale tra i coniugi o dalla omologazione di una tra loro separazione consensuale, o dalla data in cui i coniugi sono stati autorizzati dal giudice a vivere separati in pendenza di un giudizio di separazione, di divorzio o di annullamento del matrimonio.
Il figlio che nasce dopo le nozze, ma prima che siano trascorsi 180 gg. dalla celebrazione del matrimonio, è egualmente reputato legittimo.
Se il figlio nasce dopo che siano trascorsi 300 gg. dall’annullamento del matrimonio, dal divorzio, dalla morte del padre o dalla separazione legale tra i coniugi, non gli spetta lo status di figlio legittimo.
528 Prova della filiazione legittima
Lo status di figlio legittimo si prova, di regola, con l’atto di nascita iscritto nei registri dello stato civile.
L’atto di nascita deve essere redatto entro 10 gg. dalla nascita a cura dell’ufficiale di stato civile che raccoglie la dichiarazione di coloro che sono obbligati per legge a denunciare la nascita.
L’atto di nascita indica le generalità dei genitori e, se i genitori sono uniti in matrimonio, costituisce il titolo dello stato di figlio legittimo.
Se la madre non vuole che il figlio sia considerato legittimo deve opporsi a che sia menzionato il suo nome e deve fare redigere l’atto di nascita in modo che il bimbo risulti figlio di madre che non desidera essere nominata o di genitori ignoti.
Lo stato di figlio legittimo potrà essere dimostrato, ove eccezionalmente manchi l’atto di nascita, mediante il possesso continuo dello stato di figlio legittimo.
Ad integrare il possesso di stato di figlio legittimo devono concorrere i seguenti elementi: nomen, ossia la persona deve aver sempre portato il cognome del padre che pretende di avere; tractatus, ossia deve essere sempre stata trattata da costui come figlio e, come tale, mantenuta, educata ed istruita; fama, ossia deve essere stata costantemente considerata come figlio nei rapporti sociali e nell’ambito della famiglia.
529 L’azione di disconoscimento della paternità
La riforma del diritto di famiglia del 1975 ha concesso la legittimazione ad esperire l’azione di disconoscimento di paternità anche alla madre ed al figlio che abbia raggiunto la maggiore età.
L’azione di disconoscimento di paternità è consentita soltanto nei seguenti casi:
Mentre i primi due casi sono sufficienti per ottenere una pronuncia di disconoscimento della paternità, l’ultimo caso, non è sufficiente.
L’azione di disconoscimento deve essere proposta, a pena di decadenza:
In tema di filiazione legittima sono previste altre due azioni di stato:
530 Rapporti tra genitori e figli
Il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l’obbligo di mantenere, istruire ed educare la prole, tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli. Tale dovere non cessa allorchè i figli raggiungano la maggiore età.
A loro volta i figli devono rispettare i genitori e devono anch’essi contribuire al mantenimento della famiglia, fin quando vi convivono, in proporzione alle proprie sostanze e al proprio reddito.
La riforma ha soppresso la patria potestà, sostituendola con la potestà dei genitori, cui il foglio è soggetto fino al raggiungimento della maggiore età o al matrimonio, qualora si sposi prima di diventare maggiorenne.
La potestà deve essere esercitata dai genitori di comune accordo: in caso di contrasti, purchè si tratti di questioni di particolare importanza, ciascuno dei genitore può ricorrere senza formalità al giudice, il quale, sentiti i genitori, ed anche il figlio se ha raggiunto i 14 anni, suggerisce le determinazioni più utili nell’interesse del figlio e della unità familiare.
I genitori rappresentano i figli minori in tutti gli atti civili e ne amministrano i beni. Gli atti di ordinaria amministrazione possono essere compiuti disgiuntamente da ciascun genitore.
Ai genitori spetta l’usufrutto legale sui beni del figlio, tranne quelli specificatamente esclusi dall’art.324 c.c.. I frutti dei beni del minore devono essere destinati dai genitori al mantenimento della famiglia e all’istruzione ed educazione dei figli.
L’usufrutto legale, a differenza de quello ordinario, non può essere alienato, né costituito in garanzia, né sottoposto ad azione esecutiva da parte dei creditori.
Quando il patrimonio del minore è male amministrato, il tribunale può stabilire le condizioni a cui i genitori devono attenersi nell’amministrazione; può rimuovere dall’amministrazione stessa uno di essi o entrambi, sostituendoli con un curatore o privarli, in tutto o in parte, dell’usufrutto legale.
531 La tutela
Se entrambi i genitori sono morti o non possono esercitare la potestà sui figli, si apre la tutela.
Organi della tutela sono il giudice tutelare, che è istituito presso ogni pretura per sopraintendere alle tutele e alle cautele; il tutore e il protutore, nominati dal giudice tutelare.
Il tutore ha la cura della persona del minore, lo rappresenta in tutti gli atti civili e ne amministra i beni; il protutore rappresenta il minore nei casi in cui l’interesse di questo è in opposizione con l’interesse del tutore e, in via provvisoria, per gli atti conservativi ed urgenti, quando il tutore è venuto a mancare o ha abbandonato l’ufficio.
Il tutore deve procedere all’inventario dei beni del minore, provvedere circa l’educazione e l’istruzione di costui, investirne i capitali.
Il tutore non può compiere atti di straordinaria amministrazione senza l’autorizzazione del giudice tutelare e gli atti di alienazione senza l’autorizzazione del Tribunale. Quando cessa dalle funzioni il tutore deve rendere conto.
Capitolo 73: L’ADOZIONE
La disciplina dell’adozione dei minori, si trova oggi, in una legge speciale fuori dal c.c., mentre nel c.c. è conservata , sebbene priva di applicazione pratica, l’adozione tradizionale riservata però soltanto a persone maggiori di età.
533 L’adozione dei minori
L’adozione ha ora come fine primario procurare una famiglia ai minori che ne siano privi o che non ne abbiano una idonea. L’adozione è consentita, anche in un numero plurimo e con atti successivi, solo ai coniugi, uniti in matrimonio da almeno 3 anni, non separati, idonei ad educare, istruire ed in grado di mantenere i minori che intendono adottare. L’età di entrambi gli adottanti deve superare di almeno 18 anni l’età dell’adottando; la legge stabilisce, inoltre, che l’età degli adottanti non deve superare di più di 40 anni l’età dell’adottando. Dichiarato in stato di adottabilità, il minore viene collocato in affidamento preadottivo, con cui si instaura una specie di adozione provvisoria, che deve durare almeno un anno. In caso di esito favorevole della prova, il Tribunale pronuncia il decreto di adozione. L’adozione ha per effetto l’acquisto, da parte del minore, dello status di figlio legittimo degli adottanti, dei quali assume e trasmette il cognome, mentre cessa ogni rapporto con la famiglia di origine. Talvolta, pur se il minore non sia abbandonato o quando l’adozione piena sia irrealizzabile, può farsi egualmente luogo all’adozione, ricorrendo i seguenti casi particolari:
In questi casi con l’adozione il minore non acquista, come nell’adozione piena, lo stato di figlio legittimo degli o dell’adottante, ma gli spettano tutti i diritti propri del rapporto di filiazione, e quindi innanzitutto il diritto al mantenimento, all’educazione e all’istruzione. Non cessano invece i rapporti con la famiglia d’origine, anche se occorre, ovviamente, tenere conto pure dei nuovi rapporti con l’adottante.
Per l’adozione di un bimbo straniero, valgono le stesse condizioni richieste per l’adozione di un bimbo italiano.
534 L’adozione di persone maggiori di età
L’adozione di persone maggiorenni è permessa a coloro che non hanno discendenti legittimi o legittimati, che hanno compiuto i 35 anni di età e che superano almeno di 18 anni l’età di coloro che intendano adottare (art.291 c.c. e ss.). Ma la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art.291 c.c., nella parte in cui non consente l’adozione a persone che abbiano discendenti legittimi o legittimati maggiorenni e consenzienti. Non esiste, invece, alcun limite massimo di età né per adottare, né per essere adottato. Chiunque può essere adottato. L’unico divieto riguarda i figli naturali dell’adottante: se questi sono stati riconosciuti il divieto è chiaro, perché mira ad evitare la sovrapposizione di status incompatibili; ma se si tratta di minori non riconosciuti e non dichiarati la norma non autorizza il Tribunale a svolgere indagini in un rapporto di filiazione legalmente non risultante. Per l’adozione si richiedono il consenso dell’adottante e dell’adottando, nonché l’assenso dei genitori dell’adottando e del coniuge dell’adottante e dell’adottando. L’adottato assume il cognome dell’adottante e lo antepone al proprio. L’adottato conserva tutti i diritti e i doveri verso la sua famiglia di origine; mentre nei confronti dell’adottante, egli assume gli stessi diritti di successione che spetterebbero ai figli legittimi dell’adottante. L’adozione può essere revocata quando l’adottato abbia attentato alla vita dell’adottante e del coniuge o dei discendenti o ascendenti di quest’ultimo, ovvero si sia reso colpevole verso di loro di delitto punibile con pena restrittiva della libertà personale non inferiore a 3 anni.
Con l’affidamento il minore viene dato in custodia a qualcuno che deve prendersi cura di lui, provvedendo al suo mantenimento, alla sua educazione e istruzione; inoltre egli deve agevolare i rapporti fra il minore e i suoi genitori e favorirne il reinserimento nella famiglia di origine. Possono essere affidati ad un’altra famiglia, possibilmente con figli minori, i minori che siano temporaneamente privi di un ambiente familiare idoneo. Trascorso il periodo per cui l’affidamento è stato disposto, o si rende possibile il ritorno del minore preso i genitori o deve avviarsi la procedura di adozione.
Capitolo 74: LA FILIAZIONE NATURALE
536 Il riconoscimento dei figli naturali
I figli procreati da genitori non uniti in matrimonio tra loro si chiamano figli naturali. Il figlio naturale concepito da genitore che, all’epoca del concepimento, era legato da matrimonio con persona diversa dall’altro genitore, si chiama figlio adulterino; il figlio naturale concepito da persone tra le quali esiste un rapporto di parentela, anche soltanto naturale, in linea retta o in linea collaterale di 2°grado, o un vincolo di affinità il linea retta, si chiama figlio incestuoso. Il riconoscimento di un figlio naturale è un atto solenne mediante il quale uno o entrambi i genitori trasformano il fatto della procreazione, insufficiente a creare un rapporto giuridico, in uno status di filiazione (figlio riconosciuto), rilevante per il diritto. La legge del 1975 ha cancellato il divieto di riconoscimento dei figli adulterini. Per quanto riguarda i figli incestuosi, invece, è stato conservato il divieto del riconoscimento, salvo per i genitori in buona fede. In nessun caso può essere validamente effettuato il riconoscimento quale proprio figlio naturale di una persona che risulti già figlio legittimo di altri. Il riconoscimento potrebbe diventare ammissibile solo in quanto lo status di figlio legittimo sia stato prima eliminato attraverso un disconoscimento di paternità o un’azione di contestazione di legittimità. La capacità di effettuare il riconoscimento di un figlio naturale si acquista con il compimento del 16°anno di età. Se la persona riconosciuta ha già compiuto a sua volta i 16 anni, ne occorre l’assenso affinchè il riconoscimento produca i suoi effetti. Il riconoscimento può essere fatto sia da entrambi i genitori che da uno solo di essi. Ovviamente il riconoscimento produce i suoi effetti in quanto si presume che chi procede ad un riconoscimento dichiari un fatto vero. L’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità può essere intentata sia dall’autore del riconoscimento, sia da colui che è stato riconosciuto, sia da chiunque vi abbia interesse. L’impugnazione per difetto di veridicità può essere accolta solo in quanto si dia la prova, con qualsiasi mezzo, che il rapporto di filiazione non sussiste.
537 Lo status di figlio naturale riconosciuto
La riforma si è preoccupata di equiparare la posizione dei figli naturali riconosciuti a quella di figli legittimi: mentre il figlio legittimo ha uno status che gli garantisce un rapporto giuridico con la coppia dei genitori e quindi appartenente ad una famiglia, il figlio naturale assume uno status soltanto nei confronti di ciascun genitore, ed anche quando sia riconosciuto da entrambi, la mancanza di un rapporto coniugale tra i genitori determina la costituzione di due rapporti, indipendenti tra loro, con ciascuno dei genitori. Se il figlio naturale viene riconosciuto contemporaneamente da entrambi i genitori assume il cognome del padre, altrimenti assume il cognome del genitore che lo ha riconosciuto per primo. Se il riconoscimento da parte del padre segue quello effettuato dalla madre, il figlio può assumere il cognome paterno aggiungendolo o sostituendolo a quello della madre. Al genitore che ha riconosciuto il figlio naturale spetta la patria potestà su di lui. Se il riconoscimento è fatto da entrambi i genitori, l’esercizio della potestà spetta congiuntamente ad entrambi qualora siano conviventi; se invece non convivono, l’esercizio della potestà spetta al genitore con il quale il figlio convive, o, se non convive con alcuno di essi, al primo che ha fatti il riconoscimento.
Se i genitori non hanno provveduto al riconoscimento, il figlio può anche agire in giudizio per ottenere lo status che spetta al figlio naturale riconosciuto. L’azione che tende a questo fine si chiama azione di dichiarazione giudiziale della paternità o della maternità naturale. Tale azione può essere sempre esperita, tranne quando si tratti di figli incestuosi o di persone che risultano figli legittimi o legittimati di altri genitori. L’azione deve essere preliminarmente ammessa dal tribunale, valutando con inchiesta sommaria se concorrono circostanze tali da farla
apparire giustificata. La prova può essere data con ogni mezzo.
Il figlio naturale non riconosciuto, e la cui filiazione non sia stata neppure dichiarata giudizialmente, non è, per il diritto, figlio dei suoi genitori naturali, rispetto ai quali è un estraneo. Il figlio naturale può anche non essere riconoscibile (caso di figli incestuosi). Tuttavia, anche questi può agire in giudizio, previa la stessa autorizzazione prevista dall’art.274 c.c. per l’azione di dichiarazione giudiziale della filiazione naturale. Se il figlio naturale non riconoscibile è maggiorenne e in stato di bisogno, può agire per ottenere gli alimenti. Inoltre gli spettano diritti successori , ovviamente in quanto sia stata data la prova del rapporto di filiazione col defunto.
Con la legittimazione il figlio nato fuori dal matrimonio acquista la qualità di figlio legittimo. Non possono essere legittimati i figli che non possono essere riconosciuti, mentre possono essere legittimati pure i figli premorti, a favore dei loro discendenti. La legittimazione può avvenire per susseguente matrimonio dei genitori naturali o per provvedimento del giudice. La legittimazione per susseguente matrimonio si verifica automaticamente nel caso che si sposino tra loro i genitori che abbiano entrambi riconosciuto il figlio, ovvero che lo riconoscano dopo essersi sposati. La legittimazione può essere concessa anche se vi siano figli legittimi o legittimati del genitore che ha chiesto di far luogo alla legittimazione, ma questi devono previamente sentiti, se hanno già compiuto 16 anni.
La legittimazione giudiziale può essere richiesta pure dal figlio, qualora il genitore sia morto dopo aver espresso in un testamento o in un atto pubblico la volontà di legittimarlo. In questo caso la domanda deve essere comunicata agli ascendenti , discendenti e coniuge del genitore premorto, nei cui confronti si chiede la legittimazione, affinchè questi possano esporre le eventuali ragioni in contrario. Se mancano ascendenti, discendenti e coniuge, la domanda deve essere comunicata a due tra i parenti entro il 4°grado.
Capitolo 75: L’OBBLIGAZIONE DEGLI ALIMENTI
541 Fondamento e natura
L’obbligazione legale degli alimenti ha il presupposto dello stato di bisogno del creditore. L’obbligazione non sorge, infatti, se la persona non si trova in tale stato. Peraltro, il diritto agli alimenti è condizionato all’obbligo del lavoro, ed è quindi legato alla prova, da parte di chi chiede gli alimenti, dell’impossibilità di provvedere al proprio mantenimento. L’avente diritto non è però tenuto ad un lavoro non confacente alla sua posizione sociale. L’obbligazione incontra, in ogni caso, un limite: non deve superare le esigenze della vita dell’alimendando.
Siccome tra i soggetti tenuti agli alimenti figura pure chi abbia in precedenza ricevuto, dalla persona che si trova ora in stato di bisogno, delle donazioni, in tal caso per l’obbligato è previsto un ulteriore limite, che ben s’intende, se si ha riguardo al fondamento del suo obbligo: egli non è tenuto oltre il valore della donazione ricevuta, tuttora esistente nel suo patrimonio. Appunto perché gli alimenti devono adeguarsi al bisogno dell’alimentando e alle condizioni economiche dell’alimentante, l’obbligazione non ha una durata prestabilita ed una misura determinata: essa, invece, può cessare, se cessa lo stato di bisogno o mutano le condizioni economiche, può essere ridotta o aumentata con il mutare dei due coefficienti. L’obbligazione alimentare ha carattere strettamente personale: cessa con la morte di uno dei due soggetti; il creditore non può cedere ad altri il proprio credito né questo può formare oggetto di pignoramento. L’obbligato ha la facoltà di scelta circa le modalità delle prestazioni alimentari: o può pagare un assegno anticipato o può accogliere e mantenere in casa sua l’alimentando. Questa facoltà di scelta non è assoluta: il giudice può anche disporre diversamente.
542 Ordine tra gli obbligati
Vi è una gerarchia tra gli obbligati agli alimenti; la legge stabilisce una graduatoria tenendo conto dell’intensità del vincolo e l’alimentando deve seguire quest’ordine oppure dimostrare che si è rivolto all’obbligato ulteriore (per es. al figlio anziché al coniuge), perché quello precedente non si trova in condizioni economiche tali da soddisfare l’obbligo stesso. Nel caso di concorso di coobbligati di pari grado, ciascuno è tenuto in proporzione delle proprie condizioni economiche. L’ordine è indicato nell’art.433 c.c.: bisogna in proposito ricordare che l’obbligo degli alimenti tra i coniugi è diverso da quello del mantenimento e rilevare che tra fratelli e sorelle gli alimenti sono dovuti nella misura dello stretto necessario. Con la riforma l’obbligo alimentare dei figli naturali e dei genitori naturali è stato parificato a quello dei figli legittimi e dei genitori legittimi. La mancata prestazione degli alimenti costituisce causa di revoca della donazione che la persona, la quale si trova in stato di bisogno, abbia precedentemente fatto alla persona obbligata agli alimenti.
543 L’obbligazione volontaria degli alimenti
L’obbligazione degli alimenti, oltre che dalla legge, può derivare da negozio giuridico. In questo caso, essa trova giustificazione nella volontà delle parti o del testatore. L’obbligazione volontaria degli alimenti non si distingue dagli altri rapporti obbligatori se non per il fatto che la misura della prestazione non è determinata: le parti, il testatore, non stabiliscono la quantità o la somma dovuta, ma l’indicano, genericamente con il termine “alimenti”. Salva diversa volontà delle parti, anche per la misura degli alimenti negoziali si applica il principio della proporzionalità al bisogno dell’alimentando e alle condizioni economiche dell’alimentante.
LA SUCCESSIONE PER CAUSA DI MORTE
Capitolo 76: PRINCIPI GENERALI
544 Premesse
Il sistema successorio è oggi così disciplinato: lo Stato interviene in tutte le successioni mortis causa che superino certi valori minimi, assoggettando ad appositi tributi sia l’intero compendio ereditario sia i trasferimenti di ricchezza a favore dei singoli beneficiari; l’intera eredità si devolve invece allo Stato soltanto quando nessun altro soggetto risulti chiamato, ex lege o ex testamento, alla successione. Escluso, quindi, almeno di solito, un intervento pubblico, se non in forma di prelievo fiscale, la sorte del patrimonio ereditario è lasciata alle decisioni dello stesso ereditando, che può disporre dei propri beni mediante testamento. Per la parte disponibile del suo patrimonio l’ereditando può provvedere come preferisce, anche a favore di persone estranee alla cerchia dei familiari e di quanti hanno avuto con lui, in vita, rapporti più intensi.
545 Eredità e legato
Il complesso dei rapporti patrimoniali trasmissibili, attivi e passivi, facenti capo al de cuius al momento della sua morte, costituisce la sua eredità, intesa in senso oggettivo.
La successione mortis causa può avvenire a “titolo universale” ed allora si parla di erede, (o, in caso di pluralità di successori, di coeredi), oppure a “titolo particolare”, ed allora si parla di legatario.
La disciplina delle due forme di successione si differenzia notevolmente: l’erede succede nel possesso del defunto, mentre per il legatario si ha solo il fenomeno dell’accessio possessionis; l’erede è tenuto ipso iure al pagamento dei debiti e pesi ereditari , a differenza del legatario; al solo erede è concessa la hereditatis petitio per ottenere la restituzione dei beni ereditari posseduti da altri a titolo di erede o senza titolo; solo l’erede subentra in ogni rapporto come se ne fosse stato parte ab initio e perfino in quelli in via di formazione al momento della morte del de cuius; soltanto l’erede succede nel possesso in cui era parte il defunto.
Per quanto riguarda le situazioni giuridiche non patrimoniali, essendo in genere intrasmissibili, non si verifica la successione; tuttavia in alcune ipotesi la legge riconosce la trasmissione all’erede della legittimazione attiva o passiva in relazione ad interessi non patrimoniali.
Intrasmissibile è anche il c.d. diritto morale d’autore: mentre i diritti di utilizzazione economica si trasferiscono agli eredi, la legge attribuisce ai parenti, e non agli eredi, il diritto di rivendicare la paternità dell’opera e di opporsi a qualsiasi deformazione, mutilazione o altra modificazione dell’opera.
546 Apertura della successione
Quando una persona muore, il suo patrimonio, per effetto della morte, resta privo di titolare: un’altra persona subentra al posto di quella che è defunta. Questo fenomeno si chiama apertura della successione. L’art.456 c.c. stabilisce che la successione si apre al momento della morte, nel luogo dell’ultimo domicilio del defunto.
547 Patti successori
Aperta la successione, occorre vedere a chi spettano il patrimonio ereditario o i singoli beni. Si parla allora di vocazione ereditaria, che significa indicazione di colui che è chiamato alla eredità. Il c.c. preferisce parlare di delazione all’eredità e, cioè, di offerta dell’eredità ad una persona che, se vuole, la può acquistare (art.457 c.c.). La delazione può avvenire in due modi: per legge (successione legittima) o per testamento (successione testamentaria). È esclusa la successione per contratto.
Sono altresì vietati i patti successori. Si distinguono tre specie di patti successori: confermativi o istitutivi (con cui Tizio conviene con Caio di lasciargli la propria eredità); dispositivi (vendo a Caio i beni che dovrebbero pervenirmi dall’eredità di X); rinunciativi (convengo con Caio di rinunciare all’eredità di X non ancora devoluta).
Tali patti sono vietati per il votum captandae mortis che essi determinano. Inoltre, i patti istitutivi, vincolando il de cuius, gli toglierebbero quella libertà di disporre, che la legge riconosce ad ogni persona fino al momento della morte; quanto ai patti rinunciativi e dispositivi, il legislatore ha voluto impedire che un soggetto possa disporre con leggerezza di sostanze che non gli appartengono ancora e di cui, l’acquisto non può essere mai sicuro. È vietata anche la donazione mortis causa. È invece valida, la donazione fatta sotto la condizione sospensiva “se il donante morirà prima del donatario” (condizione di premorienza del donante), perché, retroagendo la condizione al momento della conclusione della donazione, l’attribuzione patrimoniale dipende da un atto inter vivos e non mortis causa.
Alla successione legittima si ricorre quando manca qualsiasi testamento o, pur essendovi un testamento, questo dispone soltanto per una parte dei beni: in tal caso, per la parte restante si provvede con la successione legittima.
548 Giacenza dell’eredità
Con la morte del de cuius colui che è chiamato all’eredità, sia per legge che per testamento, non acquista senz’altro la qualità di erede né la titolarità dei beni e dei diritti. Per questo occorre una sua dichiarazione di volontà (accettazione o adizione all’eredità). L’accettazione, pur verificandosi successivamente alla apertura della successione, retroagisce a tale momento, ossia opera in modo che non si verifichi soluzione di continuità tra il de cuius e l’erede: l’erede si considera come titolare del patrimonio ereditario fin dal momento dell’apertura della successione (efficacia retroattiva dell’accettazione). Può darsi che l’erede si decida immediatamente ad accettare l’eredità, ma può darsi anche che lasci passare qualche tempo per riflettere se gli convenga o meno accettare. Nell’intervallo tra la morte dell’ereditando e l’accettazione del chiamato il patrimonio ereditario rimane senza un titolare attuale dei rapporti attivi e passivi che di esso fanno parte. Secondo una vecchia concezione tale situazione andrebbe sempre qualificata come di “giacenza” dell’eredità.
La specifica figura dell’eredità giacente ricorre soltanto quando concorrono tutte le seguenti condizioni:
549 La capacità di succedere
Qualunque persona fisica che sia già nata e sia ancora in vita, è senz’altro capace di succedere. Ma il legislatore concede la capacità di succedere anche a coloro che al tempo dell’apertura della successione erano soltanto concepiti, presumendo, salvo prova contraria, che fosse già concepito chi sia nato entro i 300 gg. dalla morte della persona della cui successione si tratta. Naturalmente la chiamata è subordinata alla nascita: ma già il fatto del concepimento, quand’anche poi il soggetto non venga ad esistenza, determina una situazione di pendenza, che regola l’amministrazione dell’eredità in quel periodo.
Se alla successione è chiamato un concepito, il periodo di incertezza circa la definitiva attribuzione dei beni a lui devoluti è breve: in tal periodo, perciò, l’amministrazione dei beni spetta al padre e, in mancanza di questo, alla madre. Se invece alla successione sono chiamati i nascituri non ancora concepiti, il periodo di incertezza circa la sorte dei beni ad essi destinati può durare anche a lungo: il tal periodo, l’amministrazione dei beni è affidata a coloro cui l’eredita sarebbe devoluta qualora i nascituri chiamati alla successione non dovessero venire ad esistenza, salvo il diritto della persona indicata nel testamento di rappresentare i nascituri e tutelarne le aspettative.
L’incapacità di succedere consiste nella inidoneità del soggetto a subentrare nei rapporti che facevano capo al defunto; l’indegnità, invece, si basa sull’incompatibilità morale del successibile: ripugna alla coscienza collettiva che chi si è reso colpevole di atti gravemente pregiudizievoli verso il de cuius possa succedergli.
L’indegnità può essere rimossa con la riabilitazione.
Le cause d’indegnità sono indicate nell’art.463 c.c.. Esse sono così raggruppate:
La sentenza che pronuncia l’indegnità ha effetto retroattivo: l’indegno è considerato come se non fosse mai stato erede ed è perciò obbligato a restituire i frutti che gli sono pervenuti dopo l’apertura della successione. L’indegno può essere riabilitato con dichiarazione espressa (atto pubblico) o testamento (riabilitazione totale) o mediante la contemplazione nel testamento (riabilitazione parziale); nel qual caso è ammesso a succedere nei limiti della disposizione, ma non può ricevere niente come successore legittimo e neppure può agire per lesione di legittima, se quanto ha ricevuto è inferiore alla quota di riserva.
551 La rappresentazione
Si dice rappresentazione, l’istituto in forza del quale i discendenti legittimi o naturali (c.d. rappresentanti) subentrano al loro ascendente nel diritto di accettare un lascito qualora il chiamato (c.d. rappresentato) non può o non vuole accettare l’eredità o il legato (art.468 c.c.). Peraltro, la rappresentazione può aver luogo soltanto quando il chiamato che non può o non vuole accettare sia o un figlio o un fratello o una sorella del defunto; sono quindi esclusi sia gli estranei che gli altri parenti. La rappresentazione è inoltre esclusa, nel caso di successione testamentaria, quando il testatore abbia già provveduto con una sostituzione per l’ipotesi in cui il primo chiamato non possa o non voglia accettare. Infine è esclusa quando si tratti di legato di usufrutto o di altro diritto di natura personale, in quanto costituiscono attribuzioni strettamente legate alla persona indicata dal testatore.
La rappresentazione opera sia quando la chiamata a favore del rappresentato non può più verificarsi, sia quando vi sia stata una prima vocazione, ma quest’ultima sia caduta. Mentre in quest’ultima ipotesi può essere accettabile la definizione della rappresentazione come vocazione indiretta, in quella precedente il rappresentante è in realtà, fin dall’apertura della successione, l’unico chiamato alla successione.
Quando si applica la rappresentazione, la divisione si fa per stirpi: ossia i discendenti subentrano tutti in luogo del capostipite, indipendentemente dal loro numero e lo stesso criterio si applica anche qualora uno stipite abbia prodotto più rami.
I rappresentanti succedono direttamente al de cuius, cosicchè hanno diritto di partecipare alla successione di quest’ultimo anche nell’ipotesi che abbiano rinunciato all’eredità del loro ascendente (c.d. rappresentato) o che siano indegni o incapaci nei suoi confronti.
L’istituto dell’accrescimento può aversi solo nel caso di chiamata congiuntiva: in tal caso, qualora uno dei chiamati non possa o non voglia accettare, ove non ricorrano le condizioni per farsi luogo alla rappresentazione, la quota devoluta al chiamato che non abbia potuto o voluto accettare si devolve a favore degli altri beneficiari della chiamata congiuntiva. La vocazione (o chiamata) congiuntiva si verifica:
1) se si tratta di istituzione di erede, quando gli eredi siano stati chiamati con uno stesso testamento e il testatore non abbia fatto determinazione di parti. Qualora manchino pure i presupposti dell’accrescimento, la porzione dell’erede mancante si devolve agli eredi legittimi;
2)se si tratta di legato, basta che sia stato legato lo stesso oggetto a più persone.
L’accrescimento opera di diritto, senza bisogno di accettazione da parte di colui a cui profitta.
Può darsi che il testatore abbia preveduto l’ipotesi che il chiamato non possa o non voglia accettare l’eredità o il legato, designando altra persona in sua vece (sostituzione ordinaria o volgare). Dalla sostituzione volgare si distingue la sostituzione fedecommissaria (il testatore istituisce erede, per es. il figlio, vincolando i beni affinchè, alla morte di questo, possano automaticamente passare ad un’altra persona indicata dal testatore. Perciò si ha sostituzione fedecommissaria quando ricorrono le seguenti condizioni: 1) doppia istituzione: il testatore nomina erede Caio e vuole che, alla morte di Caio, l’eredità passi a Sempronio; 2) ordo successivus: occorre che il passaggio dell’eredità dal 1°istituito al 2°sostituito si verifichi in conseguenza della morte del 1°; 3) vincolo di conservare per restituire: il 1° chiamato non ha la titolarità dei beni trasmessigli e non può disporne, ma ne ha soltanto l’usufrutto. La riforma del diritto di famiglia ha totalmente modificato l’art.692 c.c., che obbedisce ormai unicamente a specifiche finalità di protezione dell’incapace, essendo ammissibile soltanto se l’istituto è un interdetto o un minore di età in condizioni di abituale infermità di mente. Difatti il nuovo testo della norma esclude la validità di una sostituzione fedecommissaria in tutti i casi, con la sola eccezione che sia disposta dai genitori, dagli ascendenti in linea retta o dal coniuge dell’interdetto o del minore incapace, a favore della persona o degli enti che, sotto la vigilanza del tutore, hanno avuto cura dell’istituito.
Capitolo 77: L’ACQUISTO DELL’EREDITA’ E LA RINUNCIA
Il chiamato all’eredità potrebbe avere un interesse a non diventare l’erede di una certa persona. Perciò la legge fa dipendere l’acquisto dell’eredità da una decisione del chiamato, dalla accettazione dell’eredità (art.459 c.c.).
Vi sono due tipi di accettazione: pura e semplice, o con beneficio d’inventario. Per effetto della prima si verifica la confusione tra i due patrimoni: quello del defunto e quello dell’erede, essi diventano un patrimonio solo. L’erede succede sia nell’attivo che nel passivo. Egli perciò è tenuto al pagamento dei debiti del de cuius, anche se superino l’attivo che gli perviene dall’eredità. Se, invece, il chiamato all’eredità accetta con beneficio d’inventario, non si produce la confusione e, quindi, l’erede non è tenuto al pagamento dei debiti ereditari e dei legati oltre il valore dei beni a lui pervenuti. Sotto la comune denominazione di accettazione dell’eredità, sono ricomprese varie fattispecie che non implicano tutte una consapevole decisione del chiamato:
L’accettazione delle eredità devolute alle persone giuridiche, non può farsi che col beneficio d’inventario. Lo stesso principio vale per i minori e gli incapaci. Il contenuto dell’atto deve implicare la manifestazione di una scelta consapevole da parte del chiamato, diretta all’acquisto dell’eredità.
Il diritto di accettare l’eredità è soggetto alla prescrizione ordinaria. Ma può darsi che qualcuno abbia interesse a che il chiamato si decida entro uno spazio più limitato di tempo a dichiarare se intende o no accettare l’eredità. In tal caso si può far ricorso ad una speciale azione con cui si chiede all’autorità giudiziaria fissi un termine, trascorso il quale il chiamato perde il diritto di accettare (decadenza dal diritto all’accettazione). L’accettazione si può impugnare per violenza o dolo, ma non per errore. Inoltre, non può farsi carico all’erede dell’omissione dell’accettazione col beneficio d’inventario, se, dopo l’accettazione pura e semplice, si scopre un testamento la cui esistenza era ignorata al tempo dell’apertura della successione, e che contenga legati che esauriscano o superino il valore della quota o oltrepassino la legittima, se l’erede è un legittimario. In questo caso, l’erede non è tenuto a soddisfare i legati scritti nel testamento oltre il valore dell’eredità, o se è un legittimario, oltre i limiti della quota disponibile. Data l’importanza dell’atto è prevista, a pena di nullità, la forma scritta, anche se il complesso ereditario non contenga beni immobili.
555 Accettazione con beneficio d’inventario
L’accettazione con beneficio d’inventario impedisce la confusione del patrimonio del de cuius con quello dell’erede. Perciò:
La facoltà di accettare con beneficio d’inventario ha carattere personale.
L’accettazione con beneficio d’inventario, disposta nell’interesse dei minori, vale a limitare la responsabilità intra vires hereditatis e, quindi, se non sia eseguita, il minore può, entro l’anno dal raggiungimento della maggiore età, redigere utilmente l'inventario stesso e accettare con il beneficio. Se il chiamato è nel possesso dei beni ereditari, deve fare l’inventario entro 3 mesi dall’apertura della successione ed entro i 40 gg. successivi deve deliberare se accetta o rinunzia all’eredità. Trascorso il termine di 3 mesi senza aver compiuto l’inventario, il chiamato è considerato erede puro e semplice. Invece, il chiamato che non sia in possesso dei beni può fare la dichiarazione di accettazione con beneficio d’inventario fino a quando non sia prescritto il diritto di accettazione, a meno che non sia stata esercitata contro di lui l’actio interrogatoria, nel qual caso deve fare nel termine fissato, salvo proroga dell’autorità giudiziaria, tanto l’inventario che la dichiarazione. All’erede che abbia accettato con beneficio d’inventario è vietata l’alienazione dei beni ereditari senza autorizzazione del giudice: se viola questo divieto, decade dal beneficio e diventa erede puro e semplice.
La decadenza è comminata anche per omissioni e infedeltà nell’inventario.
Accettata l’eredità con beneficio d’inventario, il pagamento dei creditori del defunto può avvenire in tre modi:
Per venire incontro ai creditori del defunto, i quali hanno fatto affidamento sul patrimonio di quest’ultimo nel fargli credito, ed ai legatari, che non è giusto che siano danneggiati dal concorso dei creditori dell’erede, è apprestato un altro rimedio: la separazione del patrimonio del defunto da quello dell’erede. Anche la separazione impedisce la confusione dei due patrimoni, ma opera a favore dei creditori del defunto e dei legatari, i quali si assicurano il soddisfacimento sui beni del defunto, a presenza dei creditori dell’erede. Ora, però, questa separazione assoluta non c’è più: i creditori dell’erede si possono anch’essi soddisfare sui beni del defunto, dopo che sono stati soddisfatti i creditori del defunto medesimo. Inoltre, la separazione non impedisce ai creditori e ai legatari, che l’hanno esercitata, di soddisfarsi anche sui beni propri dell’erede. Infine, la separazione ha carattere particolare e non universale: vale a dire che essa opera non sull’intera massa del patrimonio ereditario, ma sui singoli beni per i quali sia stata fatta valere specificatamente.
Il diritto alla separazione deve essere esercitato entro 3 mesi dall’apertura della successione. Sono prescritte forme particolari: per i mobili occorre una domanda giudiziale; per gli immobili l’iscrizione del credito o del legato sopra ciascuno dei beni ereditari per i quali il creditore o il legatario separatista faccia valere il suo diritto. Le iscrizioni a titolo di separazione richieste dai singoli creditori e legatari separatisti prendono tutte lo stesso grado e prevalgono sulle trascrizioni o iscrizioni contro l’erede o il legatario, anche se anteriori.
557 L’azione di petizione ereditaria
Acquistata l’eredità, l’erede può rivolgersi contro chiunque possegga (affermando di essere colui l’erede) beni ereditari per farsi riconoscere la qualità di erede e farsi consegnare i beni. L’azione che è diretta a questo scopo è l’azione di petizione ereditaria.
558 L’erede apparente
L’erede può agire non soltanto contro il possessore, ma anche contro le persone a cui costui abbia alienato le cose possedute. La legge, in questa materia, dà importanza all’apparenza della qualità di erede e alla buona fede del terzo acquirente. Sono perciò salvi i diritti acquistati per effetto di convenzione con l’erede apparente, purchè ricorrano delle condizioni: che si tratti di convenzioni a titolo oneroso e che il terzo sia in buona fede. Non ha invece importanza che l’erede apparente abbia o non abbia un titolo e che sia o non sia in buona fede.
La rinuncia all’eredità consiste in una dichiarazione unilaterale non recettizia, con la quale il chiamato all’eredità manifesta la sua decisione di non acquistare l’eredità. La dichiarazione deve essere ricevuta da un notaio o dal cancelliere della pretura del mandamento in cui si è aperta la successione. È soggetta anche a pubblicità.
Gli effetti della rinuncia sono diversi secondo che si tratti di successione legittima o testamentaria. Nel primo caso, se non ha luogo la rappresentazione, la parte di colui che rinuncia va a favore di coloro che avrebbero concorso con il rinunciante. Se la successione è per testamento, si deve distinguere tra l’ipotesi in cui il testatore abbia previsto il caso della rinuncia ed abbia disposto una sostituzione e quella in cui il testatore non abbia disposto nulla. Nel primo caso la quota del rinunciante va a favore della persona indicata dal testatore (sostituto); nel secondo, se ricorre uno dei casi previsti per la rappresentazione, si applicano le norme già considerate. Se mancano i presupposti per la rappresentazione, la parte del rinunciante va a favore dei suoi coeredi, altrimenti va a favore degli eredi legittimi.
La rinuncia è revocabile: chi ha rinunciato può tornare sulla decisione presa ed accettare l’eredità, ma non deve essere trascorso il termine di 10 anni per la prescrizione della facoltà di accettazione e l’eredità non deve essere già stata accettata nel frattempo da un altro chiamato. La rinunzia può essere impugnata solo per violenza o per dolo, ma non per errore.
Capitolo 78: LA SUCCESSIONE LEGITTIMA
Le categorie successibili, nella successione legittima, sono le seguenti: il coniuge; i discendenti legittimi, naturali, legittimati e adottivi (con i rispettivi discendenti, che escludono sia gli ascendenti che i collaterali); gli ascendenti legittimi, i fratelli e le sorelle (nonché i loro discendenti); i collaterali dal 3° al 6° grado (hanno diritto di venire alla successione solo quando non vi siano altri successibili, e per i quali vale il principio che il più vicino in grado esclude il più remoto, mentre quelli di pari grado concorrono per quote eguali); i genitori del figlio naturale, gli altri parenti, lo Stato (art.565 c.c.). Al coniuge spetta la metà del patrimonio del defunto, se in concorso un solo figlio, 1/3 se concorre alla successione con più figli, 2/3 se concorre con ascendenti legittimi o con fratelli e sorelle. In mancanza di tali soggetti al coniuge si devolve l’intera eredità. In caso di separazione, il coniuge conserva i diritti ereditari, tranne che nell’ipotesi che sia a lui addebitata la separazione. In tal caso ha diritto soltanto ad un assegno vitalizio se, al momento dell’apertura della successione, godeva degli alimenti a carico del coniuge deceduto. Ai figli naturali non riconoscibili spetta, invece, un assegno vitalizio pari all’ammontare della rendita della quota di eredità alla quale avrebbe diritto, se la filiazione fosse stata dichiarata o riconosciuta. Su loro richiesta, è prevista la capitalizzazione di detto assegno in danaro o, a scelta degli eredi legittimi, in beni ereditari.
In mancanza di altri successibili l’eredità è devoluta allo Stato (art.586 c.c.). L’acquisto si opera di diritto senza bisogno di accettazione e non può farsi luogo a rinuncia. Inoltre lo Stato non risponde mai dei debiti ereditari e dei legatari oltre il valore dei beni acquistati.
Capitolo 79: LA SUCCESSIONE NECESSARIA
La quota dei beni del de cuius che deve essere attribuita ai successibili si chiama quota di legittima o riserva; i successibili che vi hanno diritto si chiamano legittimari o riservatari o successori necessari. Il complesso degli istituti che riguarda la determinazione delle categorie dei legittimari, le quote ad essi spettanti vanno sotto il nome di successione necessaria. Il fondamento di questi principi hanno carattere inderogabile.
Quando all’apertura della successione vi sono dei legittimari, il patrimonio ereditario si distingue idealmente in due parti: disponibile, della quale il testatore era libero di disporre attribuendola a chiunque avesse voluto, e legittima, o riserva, della quale non poteva disporre, perché spettante per legge ai legittimari. Il legittimario ha diritto ad ottenere la propria quota in natura ed il testatore non può imporre alcuna condizione sulla legittima (intangibilità della legittima). Il legato in sostituzione di legittima si distingue dal legato in conto di legittima. Con il primo il testatore intende escludere il legittimario da ogni partecipazione alla divisione dell’eredità. Con il secondo, il testatore fa, invece, al legittimario un’attribuzione di beni, che deve essere calcolata ai fini della legittima, con la conseguenza che il legittimario può chiedere il supplemento, se i beni attribuitigli non raggiungono l’entità della legittima.
Per poter stabilire se il testatore abbia leso i diritti spettanti a qualcuno dei legittimari, occorre calcolare l’entità del suo patrimonio all’epoca dell’apertura della successione. Questa operazione si chiama riunione fittizia. Si calcolano i valori dei beni che appartenevano al defunto al tempo dell’apertura della successione. Dalla somma stessa si detraggono i debiti. Al risultato così ottenuto si aggiungono i beni di cui il testatore abbia eventualmente disposto in vita a titolo di donazione secondo il valore che avevano al tempo dell’apertura della successione.
Se dai calcoli risulta che le disposizioni testamentarie o le donazioni eccedono la quota di cui il testatore poteva disporre, ciascun legittimario può agire per la riduzione delle une e delle altre con la c.d. azione di riduzione. Questa azione è irrinunciabile dai legittimari finchè il donante è in vita. Se il legittimario agisce contro estranei per la riduzione di donazioni o di legati, la legge stabilisce l’accettazione con beneficio. Con la riduzione, sono colpite per prime le disposizioni testamentarie; se questa non vale ad integrare la legittima, si procede alla riduzione delle donazioni (partendo dall’ultima). Se la riduzione è accolta, il donatario o il beneficiario della disposizione testamentaria deve restituire in tutto o in parte il bene. Se il bene è stato alienato a terzi, il legittimario, prima di rivolgersi contro costoro, ha l’onere di escutere i beni del donatario, per ottenere il rimborso del valore del bene. Se il donatario o il beneficiario può pagare, l’acquisto è rispettato: in caso diverso, il legittimario avrà diritto di rivolgersi contro il terzo chiedendo il rilascio del bene.
Capitolo 80: LA SUCCESSIONE TESTAMENTARIA
568 Il testamento
Il testamento è un atto con il quale taluno dispone, per il tempo in cui avrà cessato di vivere, delle proprie sostanze (art.587 c.c.). Esso è revocabile fino all’ultimo momento di vita del testatore. Il testamento è un tipico negozio unilaterale, non recettizio. Esso è inoltre un atto strettamente personale; per questo non è consentito il testamento congiuntivo (fatto da due o più persone nel medesimo atto) né a vantaggio di un terzo, né con disposizione reciproca. Diverso dal testamento congiuntivo è il testamento simultaneo che consta di due atti distinti, ciascuno firmato da una sola persona, ma scritti su uno stesso foglio. I testamenti simultanei non sono nulli: possono soltanto far sorgere il sospetto che uno dei due testatori abbia influenzato la volontà dell’altro.
Il testamento è inoltre un negozio solenne, in quanto è richiesta ad substantiam una forma determinata.
569 Il testamento come negozio giuridico
Circa la capacità di testare, non è ammessa una sostituzione per rappresentanza, neppure legale, trattandosi di un atto personalissimo. Sono incapaci: i minorenni; gli interdetti per infermità di mente; gli incapaci naturali. Il testamento fatto da un incapace è annullabile; l’impugnativa può essere proposta da chiunque vi abbia interesse (annullabilità assoluta): l’azione si prescrive in 5 anni dall’esecuzione del testamento. Per l’art.624.1 c.c. sono applicabili anche al testamento le norme sull’impugnabilità dei negozi giuridici a causa del c.d. vizio di volontà, e cioè per violenza, per dolo e per errore. L’errore sul motivo è causa di annullamento della disposizione testamentaria, ma subordinatamente a due condizioni: che il motivo erroneo risulti dal testamento; che il motivo erroneo sia il solo che ha determinato il testatore a disporre.
Anche in caso di motivo illecito rende nulla la disposizione testamentaria se quel motivo risulta dal testamento ed è il solo che ha determinato il testatore a disporre.
Essendo, il testamento un atto solenne, esso richiede la forma ad substantiam. Il testamento orale non è ammesso nel nostro ordinamento. Si distinguono forme ordinarie e forme speciali; il testamento ordinario dà luogo a due figure: olografo e testamento per atto di notaio; il testamento per atto di notaio è pubblico o segreto.
571 Il testamento olografo
Il testamento olografo deve essere iscritto per intero, datato e sottoscritto di pugno dal testatore. I requisiti di forma sono pertanto tre: autografia, data, sottoscrizione. Anche una lettera che contenga i requisiti indicati, può valere come testamento. Sono validi anche i fogli sui quali il testatore aveva scritto appunti per le sue disposizioni di ultima volontà, se vengono aggiunte espressioni le quali rivelino la volontà di imprimere all’atto il carattere di testamento. L’autografia viene meno nel caso di collaborazione grafica di un terzo, il quale sorregga e guidi la mano del testatore, impedito nei suoi movimenti da paralisi. Invece, non produce nullità la preparazione della minuta dell’atto da parte di un terzo, semprecchè l’atto stesso sia ricopiato dalla mano del testatore. La data consiste nell’indicazione del giorno, del mese e dell’anno in cui il testamento fu scritto. La data serve ad accertare se il testatore era capace nel giorno in cui il testamento fu formato e, nel caso di più testamenti successivi della stessa persona, quale sia il testamento posteriore che revochi le disposizioni incompatibili contenute nei testamenti anteriori. Se la data risulti cancellata o interlineata, il testamento è nullo. La sottoscrizione serve ad individuare il testatore: essa, di solito, comprende il nome e il cognome, ma può comunque essere costituita da qualsiasi indicazione che designi con certezza la persona del testatore. La sottoscrizione deve essere posta in calce alle disposizioni: l’inosservanza di questa regola conduce all’invalidità dell’atto.
572 Il testamento pubblico
Il testamento pubblico è un documento redatto con le richieste formalità da un notaio. Esso risponde all’esigenza che la manifestazione di ultima volontà del soggetto sia a riparo da ogni evento naturale o umano che possa comprometterne l’integrità.
I requisiti specifici di forma richiesti per il testamento pubblico sono:
573 Il testamento segreto
Il testamento segreto ha, rispetto a quello pubblico, il vantaggio che il testatore può, se vuole, conservare completamente segreto il contenuto delle disposizioni e, rispetto al testamento olografo, una maggiore garanzia di conservazione. Il testamento segreto consta di due elementi: da un alto la scheda testamentaria, predisposta dal testatore e costituita da uno o più fogli su cui vengono scritte le volontà relative alla sua successione ereditaria; dall’altro, un atto di ricevimento, con cui il notaio documenta che il testatore, alla presenza di due testimoni, gli ha consegnato personalmente la scheda e gli ha dichiarato che ivi sono scritte le sue volontà testamentarie. La scheda viene sigillata dal notaio che poi fa sottoscrivere l’atto di ricevimento pure al testatore e ai due testimoni, oltre a sottoscriverlo anch’egli, che né è l’autore. La scheda può non essere autografa: può essere scritta, perciò, anche da un terzo o con mezzi meccanici.
Non occorre la data: data del testamento segreto è quella dell’atto di ricevimento. È essenziale, tuttavia, che il testatore sappia o possa leggere per poter controllare ciò che è stato scritto: chi non sa o non può leggere, non può fare testamento segreto e può servirsi solo della forma del testamento pubblico.
574 Il testamento “internazionale”
Il testamento internazionale consiste nella consegna al notaio di un documento su cui risultano scritte le disposizioni testamentarie e nella dichiarazione, resa al notaio dal testatore in presenza di due testimoni, che il documento consegnato è il suo testamento e che egli è a conoscenza di quanto in esso contenuto.
575 testamenti speciali
le forme dei vari tipi di testamento ordinario non possono essere osservate in particolari circostanze, nelle quali non è consentito ricorrere al notaio; a bordo di navi o di aereomobili, testamenti dei militari.
Questi testamenti perdono la loro efficacia 3 mesi dopo la cessazione della causa che ha impedito al testatore di valersi delle forme ordinarie o dopo che il testatore sia venuto a trovarsi in un luogo in cui è possibile fare testamento nelle forme ordinarie.
576 Invalidità del testamento
La mancanza di elementi senza i quali non v’è la certezza della provenienza del testamento dalla persona a cui si vuole attribuirlo, non può essere la nullità assoluta ed imprescrittibile dell’atto.
L’inosservanza di tutte le altre ipotesi è comminata l’annullabilità deducibile da chiunque vi abbia interesse (annullabilità assoluta), soggetta a prescrizione quinquennale, decorrente dal giorno in cui è stata data esecuzione al testamento.
577 La revoca del testamento
Il testamento è revocabile fino all’ultimo momento di vita del testatore. La revocazione espressa può farsi soltanto o con un atto che abbia gli stessi requisiti formali richiesti per un valido testamento, indipendentemente, quindi, dal fatto che nell’atto sia manifestata solamente la volontà di revocare un testamento precedente oppure siano anche contenute nuove disposizioni testamentarie; o con un atto notarile, destinato esclusivamente alla revoca.
La revocazione tacita si verifica in vari casi: innanzitutto un testamento posteriore comporta la revoca tacita di tutte quelle disposizioni contenute in atti anteriori che siano incompatibili con le nuove volontà del testatore; per quanto riguarda il solo testamento olografo, la sua distruzione, lacerazione o cancellazione fa presumere la revoca delle disposizioni in esso contenute, salva agli interessati la possibilità di provare che la distruzione, lacerazione o cancellazione furono opera di persona diversa dal testatore o che il testatore non aveva intenzione di revocare il testamento. La revoca di un testamento può essere a sua volta revocata, determinando la reviviscenza delle volontà revocate, ma a condizione che la revoca della revoca sia fatta in forma espressa.
578 la pubblicazione del testamento
La pubblicazione del testamento ha luogo, su richiesta di chiunque vi abbia interesse, davanti ad un notaio. Anzi è fatto obbligo a chiunque sia in possesso di un olografo di presentarlo ad un notaio dopo la morte del testatore per la pubblicazione. Il procedimento per la pubblicazione consta di alcune formalità:
579 L’esecuzione del testamento
Per l’esecuzione del testamento, il testatore può nominare uno o più esecutori. Questi hanno il compito di curare che siano esattamente eseguite le disposizioni di ultima volontà del defunto. Di regola hanno il possesso, per non oltre un anno, dei beni ereditari e devono amministrarli come un buon padre di famiglia. Alla fine devono rendere conto della loro gestione e consegnare i beni all’erede. La dottrina ritiene che essi esercitino un ufficio di diritto privato.
Capitolo 81: IL LEGATO
Il legato è una disposizione a titolo particolare, che, cioè, non comprende l’universalità o una quota dei beni del testatore. L’assenza del legato consiste in un’attribuzione patrimoniale relativa a beni determinati, e che normalmente importa un beneficio economico per la persona designata dal testatore. Il legato è, di regola, disposto con testamento, ma può anche derivare dalla legge. Si dice legatario la persona a cui favore la disposizione è fatta. egli, quale successore a titolo particolare, non risponde dei debiti ereditari. Il sublegato si distingue dal prelegato, che è il legato a favore coerede e a carico dell’eredità. Ciò significa che l’erede beneficiato dal prelegato risponderà dei debiti ereditari soltanto in proporzione della quota ereditaria e non anche del valore dei beni pervenutigli a titolo di prelegato. Oggetto del legato può essere o il diritto di proprietà o altro diritto reale su cosa determinata già appartenente al testatore, oppure di cose determinate solo nel genere.
581 Acquisto del legato
Il legato di genere dà luogo ad un rapporto obbligatorio: il legatario è un creditore dell’erede. Il legato si acquista di diritto, senza bisogno di accettazione; il legatario ha però facoltà di rinunciare. La rinuncia può essere espressa o tacita.
582 Tipi particolari di legati
Legato di cosa altrui. Presuppone che la proprietà o il diritto reale appartenesse al de cuius. Se, invece, apparteneva a terzi, o allo stesso legatario, bisogna distinguere. Se il testatore ignorava che la cosa non era sua, il legato è nullo. Se, invece, dal testamento o da altra dichiarazione scritta del testatore risulta che egli conosceva che la cosa apparteneva ad altri, allora il legato avrà effetti obbligatori.
Legato di genere. Esso è valido anche se nessuna cosa del genere considerato fa parte del patrimonio ereditario: il legatario sarà tenuto ad acquistare il numero o la quantità di cose stabilita dal testatore.
Nel legato alternativo (lascio a X il camion). Si applicano i princìpi stabiliti per le obbligazioni alternative: la scelta spetta al legatario.
Altre figure di legati sono:
Capitolo 82: LA DIVIZIONE DELL’EREDITA’
Se l’eredità è acquistata da più persone, si forma sui beni ereditari tra i coeredi medesimi una comunione.
Alla comunione ereditaria si applicano le regole stabilite in generale per la comunione (art.1100 c.c.).
Tuttavia, mentre nella comunione ordinaria ciascun partecipante può liberamente alienare la propria quota, nella comunione ereditaria, i coeredi hanno diritto di essere preferiti agli estranei, qualora uno di essi intenda alienare la sua quota o una parte di essa.
Se viene omessa la notificazione agli altri coeredi e il coerede procede alla vendita della sua quota, gli altri coeredi possono riscattare la quota per il prezzo pagato.
584 La divisione
Lo stato di comunione cessa con la divisione.
Ciascuno dei soggetti che partecipavano alla comunione medesima ottiene la titolarità esclusiva su una parte determinata del bene, o dei beni che erano comuni, corrispondente per valore alla quota spettante nello stato di indivisione.
585 Natura della divisione
La divisione ha natura dichiarativa ed effetto retroattivo.
Ciò significa che, se della comunione fanno parte un appartamento ed una bottega e l’appartamento viene assegnato nella divisione al coerede Tizio e la bottega al coerede Caio, Tizio si considera come se fosse stato proprietario esclusivo dell’appartamento e Caio della bottega fin dal momento in cui è sorta la comunione.
586 La divisione contrattuale
Se il contratto di divisione riguarda beni immobili, è richiesta ad substantiam la forma scritta.
Ed il contratto medesimo è soggetto, se riguarda beni immobili o mobili registrati, a trascrizione.
Il contratto di divisione può essere annullato per errore o dolo, ma non per errore.
587 La divisione giudiziale
Nel giudizio di divisione si procede dapprima alla stima dei beni, quindi alla formazione delle porzioni.
Ciascuno dei coeredi ha diritto alla sua parte in natura dei beni mobili ed immobili dell’eredità.
Tuttavia, non sempre questa norma può essere rigorosamente applicata: vi sono beni che non possono essere divisi, o perché indivisibili per natura, o perché la divisione non è opportuna nell’interesse della produzione. Allora questi beni sono venduti all’incanto e il danaro ricavato è diviso tra i coeredi.
588 Divisione fatta dal testatore
Se il testatore nel fare le porzioni lede la quota di legittima spettante ad alcuno dei coeredi, questi può sempre agire con l’azione di riduzione.
Secondo la dottrina, la divisione del testatore non è vera e propria divisione, perché non vi è in nessun memento una comunione ereditaria ed anzi questa viene impedita dal testatore prima che, con l’apertura della successione, possa sorgere.
In sostanza il testatore non fa che assegnare beni determinati.
I debiti e i pesi ereditari devono essere sopportati da ciascuno dei coeredi in proporzione della propria quota di eredità.
Questa regola vale non solo nei rapporti interni tra coeredi, ma pure nei rapporti esterni, di fronte al creditore: vale a dire che ciascun creditore del de cuius non può pretendere dal singolo coerede, a meno che si tratti di un’obbligazione indivisibile, più di quanto proporzionalmente è imputabile alla quota ereditaria.
590 La garanzia per evizione
Se un terzo assume che il de cuius non era proprietario di uno o più beni compresi nella porzione attribuita ad uno dei coeredi ed il coerede è costretto a rilasciare i beni richiesti, ecco che viene a mancare la corrispondenza della porzione con la quota ereditaria.
È giusto, pertanto, che il danno non sia subìto solo dalla persona a cui era stato assegnato proprio il bene oggetto della evizione, ma sia ripartito tra tutti i coeredi, i quali, perciò, come il venditore è tenuto a garantire il compratore, sono tenuti tra di loro alla garanzia per evizione.
La funzione della collazione consiste nel mantenere tra i discendenti e il coniuge del de cuius chiamati a succedergli la proporzione stabilita nel testamento o nella legge.
Alla collazione non si fa luogo quando il testatore ha disposto diversamente.
Non sono soggette a collazione le spese ordinarie fatte dal padre a favore del figlio; le donazioni di modico valore fatte al coniuge.
È invece soggetto a collazione ciò che il defunto ha speso a favore dei suoi discendenti per assegnazioni fatte a causa di matrimonio, per avviarli all’esercizio di un’attività produttiva o professionale, per soddisfare premi relativi a contratti di assicurazione sulla vita a loro favore o per pagare i loro debiti.
La collazione si distingue dalla riduzione, perché la collazione serve a mantenere tra gli aventi diritto la proporzione stabilita nel testamento o nella legge; la finalità della riduzione è, invece, quella di salvaguardare la quota di legittima.
La collazione si distingue, inoltre, dalla riunione fittizia, perché nella collazione la riunione delle donazioni con il patrimonio esistente alla morte del de cuius è reale e serve a formare la massa da dividere tra i coeredi, nella riunione fittizia, se non risulta lesa la legittima, l’operazione si riduce ad un calcolo che rimane sulla carta, senza produrre conseguenza: se vi è lesione, le donazioni non rientrano nella massa ereditaria, ma sono soltanto eventualmente esposte a riduzione.
LE LIBERALITA’
Capitolo 83: LA DONAZIONE
La donazione è definita nell’art.769 c.c. un contratto ed in verità essa richiede per la sua perfezione il consenso di due parti: non soltanto occorre la volontà del donante di arricchire l’altra parte senza corrispettivo, ma perché questo risultato si produca, è necessaria l’accettazione dell’altra parte. La donazione deve essere spontanea.
Elementi della donazione sono:
593 La donazione indiretta
Lo scopo di arricchire un’altra persona si può raggiungere o mediante la via diretta del negozio di donazione o in altri modi indiretti e, cioè, avvalendosi di atti che hanno una causa diversa.
Esempio: se voglio aiutare uno studente povero e meritevole, gli pago le tasse universitarie, compio un atto la cui causa consiste nell’estinzione del debito, ma che avvantaggia lo studente allo stesso modo che se gli donassi la somma necessaria per il pagamento delle tasse.
Costituisce un caso di donazione indiretta pure la vendita a prezzo inferiore al valore della cosa.
Per aversi la figura del negozio misto con donazione, non basta che vi sia la sproporzione tra le due prestazioni, ma occorre ancora che questa sproporzione sia voluta da colui che la subisce allo scopo di attuare una liberalità e che questa finalità sia nota ed accettata dall’altra parte.
La donazione indiretta deve essere distinta dalla donazione simulata: nella prima il negozio apparente è quello effettivamente voluto e concluso, non esiste divergenza tra volontà e dichiarazione ed il contratto produce realmente l’effetto dichiarato: nella seconda, invece, il contratto apparente non corrisponde alla vera volontà delle parti, le quali danno parvenza di negozio oneroso alla loro volontà di stipulare un contratto gratuito.
594 Requisiti e disciplina
La capacità di donare è regolata dai princìpi generali: non possono fare donazioni i minorenni, l’interdetto, l’inabilitato, l’incapace naturale. Un’eccezione è fatta per le donazioni a causa di matrimonio.
Poiché per la donazione è richiesto l’atto pubblico ad substantiam, la procura a donare deve essere fatta ugualmente per atto pubblico e sempre con l’intervento dei testimoni.
A ragioni di protezione degli incapaci contro il rischio di abusi si ispira il divieto di donazione a favore del tutore o del produttore. Oggetto della donazione non può essere un bene futuro né un bene altrui.
Se la donazione ha per oggetto cose mobili, nell’atto deve essere contenuta la specificazione del loro valore. Inoltre, la donazione può avere per oggetto la nuda proprietà con riserva dell’usufrutto a favore del donante.
Questi può anche stabilire che dopo di lui l’usufrutto sia riservato ad un’altra persona o a più persone, ma non successivamente.
La donazione può essere sottoposta a condizione. Un particolare tipo di donazione, sottoposto a condizione sospensiva mista, è la donazione fatta in riguardo ad un futuro matrimonio.
Altra particolare condizione è quella di riversibilità. Si tratta, in sostanza, di una condizione risolutiva: si stabilisce che i beni ritornino al donante nel caso che il donatario muoia prima del donante stesso.
La donazione può essere gravata di un onere o modo (donazione modale), nella quale si esula l’idea di corrispettivo.
Le sostituzioni sono consentite nelle donazioni nei casi e nei limiti stabiliti per gli atti di ultima volontà.
L’errore sul motivo della donazione la rende annullabile se il motivo risulti dall’atto e sia il solo che ha determinato il donante a compiere la liberalità.
Il motivo, però, deve sì aver avuto efficacia determinante esclusiva, ma non è necessario che sia comune ad entrambe le parti, basta che risulti dall’atto.
La nullità non è sanabile e non è suscettibile di conferma.
Inoltre, la giurisprudenza ritiene applicabile l’art.799 c.c. non solo quando la liberalità manchi nelle forme speciali all’uopo prescritte, ma anche quando sia priva di qualsiasi forma.
596 La revoca della donazione
Come tutti i contratti, la donazione non può sciogliersi se non per le cause ammesse dalla legge.
Tuttavia, in presenza di due gravi ragioni la legge prevede che la donazione possa essere revocata.
Tali cause sono:
È ovvio che se il donante avesse preveduto che la donazione da lui fatta gli avrebbe provocato l’ostilità e l’ingratitudine del donatario, non avrebbe certamente fatto la donazione.
Inoltre il donante se avesse saputo che egli aveva figli, il naturale amore verso la prole lo avrebbe probabilmente indotto a tutt’altro avviso.
Perchè la revoca sia efficace, basta che il donante proponga la domanda; non occorre alcuna dichiarazione del donatario.
LA PUBBLICITA’ IMMOBILIARE
Capitolo 84: LA TRASCRIZIONE
597 Premessa
La trascrizione è un mezzo di pubblicità che si riferisce agli immobili o ai mobili registrati. Essa serve a far conoscere ai terzi le vicende giuridiche di un immobile o di un mobile registrato.
598 La funzione originaria della trascrizione
Come potrebbe che intende acquistare diritti reali su un bene sapere se l’alienante non li abbia già trasferiti ad altri? Egli non sarebbe mai sicuro. A questo problema, l’ordinamento giuridico soccorre con l’adozione di due criteri diversi. Per i mobili non registrati, il conflitto tra più acquirenti dal medesimo titolare è risolto in base al principio del possesso vale titolo. Invece, il conflitto tra più acquirenti dello stesso diritto dal medesimo titolare, viene appunto risolto in base alla trascrizione: colui che per primo ha fatto trascrivere in pubblici registri il trasferimento è preferito rispetto a colui che non ha trascritto affatto o ha trascritto successivamente il suo titolo d’acquisto.
599 La natura dichiarativa della trascrizione
Appunto perché la trascrizione non è un elemento integrale della fattispecie negoziale, essa attua una forma di pubblicità dichiarativa. Eccezionalmente, in alcuni casi la trascrizione ha efficacia costitutiva. Tra di essi, il più importante è rappresentato dall’usucapione abbreviata. Perché tale usucapione si maturi occorrono la buona fede dell’acquirente e la trascrizione del titolo d’acquisto. In questo caso, se non ho trascritto il titolo, non posso vantare nei confronti di nessuno il mio diritto di proprietà.
Sotto un altro profilo, l’efficacia della trascrizione è duplice:
600 La nozione di terzo
Ai sensi dell’art.2644 c.c., sono terzi soltanto coloro che abbiano acquistato diritti sull’immobile oggetto di quegli atti “in base ad un atto trascritto o iscritto anteriormente” rispetto alla trascrizione di quegli atti medesimi. Dunque, ipotizzata la trascrizione di una compravendita da Primus a Secundus, si considera terzo, soltanto colui il quale abbia acquistato, a qualunque titolo, un diritto lesivo della proprietà acquista da Secundus e abbia già provveduto a trascrivere o iscrivere il suo titolo d’acquisto nel pubblico registro immobiliare.
Non può invece considerarsi terzo l’eventuale sub-acquirente, così come l’eventuale rappresentante, vuoi dell’alienante che dell’acquirente. Allo stesso modo, ovviamente, non è terzo il notaio o un creditore chirografario.
601 L’impostazione dei nostri registri immobiliari
Il nostro ordinamento si basa su un criterio personale con partite intestate nei registri al nome della singola persona interessata. Il Conservatore non deve fare, quando gli viene richiesto di procedere alla trascrizione di un atto, alcuna indagine in ordine alla validità ed efficacia sostanziale di tale atto, ma possa limitarsi a verificare che il titolo di cui gli si chiede la trascrizione sia un atto pubblico, o una scrittura privata con sottoscrizione autenticata o accertata giudizialmente.
602 Il principio della continuità delle trascrizioni
Per cercare di indurre i soggetti a trascrivere, il legislatore introduce il principio della continuità delle trascrizioni. Difatti, ad evitare che chi consulta i registri controllando la posizione di un determinato soggetto non sia in grado di rendersi conto della trascrizione di un acquisto precedente nei confronti del dante causa del soggetto rispetto al quale la verifica viene condotta, il legislatore sanziona il comportamento di chi non provvede a trascrivere il proprio titolo di acquisto rendendo inopponibili al suo avente causa anche trascrizioni anteriori ove manchi la trascrizione di un anello della catena: e così le trascrizioni o iscrizioni a carico di un acquirente, quand’anche anteriori, sono inopponibili nei confronti di chi abbia (quand’anche successivamente) trascritto o iscritto atti di acquisto provenienti dal dante causa dell’alienante. Quindi, chi acquista diritti reali su beni immobili, per essere tranquillo, non ha soltanto l’onere di curare la trascrizione del proprio titolo d’acquisto, ma deve anche preoccuparsi di accertare se risulti trascritto il titolo di acquisto del suo dante causa e se ravvisa, a questo riguardo, una omissione e, pertanto, una lacuna nella serie di trascrizioni che lo devono proteggere, deve preoccuparsi, per rendere inattacabile il suo acquisto, di fare in modo che venga ripristinata la continuità delle trascrizioni, e che quindi anche il titolo di acquisto del dante causa del suo dante causa venga anch’esso trascritto.
603 Atti soggetti a trascrizione
Gli atti rispetto ai quali la trascrizione svolge la funzione di dirimere il conflitto tra due acquirenti dal medesimo titolare, sono indicati nell’art.2643 c.c. Gli atti soggetti a trascrizione si individuano in base ai beni cui si riferiscono (immobili, mobili registrati). Gli atti si suddistinguono in diverse categorie:
604 Trascrizione degli acquisti mortis causa
L’art.2650 c.c. è applicabile anche all’acquisto mortis causa, cosicchè non ci si può avvalere della priorità della propria trascrizione fino a quando non siano stati trascritti tutti i precedenti acquisti facenti capo ai propri dante causa, sia pure remoti, appartenenti alla stessa catena, senza possibilità di distinguere tra acquisti inter vivos e acquisti dante causa. Quindi la trascrizione dell’acquisto mortis causa non giova direttamente all’acquirente, ma soltanto ai suoi aventi causa.
Per quanto riguarda la trascrizione delle divisioni, dobbiamo tener presente l’art.1113 c.c. e l’elenco dei soggetti aventi diritto ad intervenire nella divisione. A questa, difatti, devono partecipare non solo tutti i comunisti, ma pure i creditori e gli aventi causa i quali, trattandosi di dividere beni immobili, abbiano non solo notificato un’opposizione anteriormente alla divisione, ma abbiano anche trascritta tale opposizione prima della trascrizione dell’atto di divisione e, se si tratta di divisione giudiziale, prima della trascrizione relativa domanda. Devono poi essere trascritti, se hanno per oggetto beni immobili, la costituzione del fondo patrimoniale, le convenzioni matrimoniali che escludono i beni stessi della comunione tra i coniugi, gli atti e i provvedimenti di scioglimento della comunione, gli atti di acquisto di beni personali.
Il legislatore assoggetta all’onere della trascrizione anche numerose domande giudiziali (artt.2652-2653 c.c.). In questi casi la trascrizione serve a mettere in grado i terzi di conoscere che in ordine a quel bene è stata mossa una contestazione il cui esito, a seguito della trascrizione, diventa opponibile pure agli aventi causa dal convenuto. In questi casi, se la domanda trascritta verrà successivamente accolta, la stessa sentenza di accoglimento verrà considerata opponibile ai terzi aventi causa del convenuto.
607 Modalità per eseguire la trascrizione
La trascrizione deve essere richiesta presso l’ufficio dei registri immobiliari nella cui circoscrizione si trova il bene. Si può ottenerla soltanto in forza di sentenza oppure di atto pubblico o di scrittura privata con sottoscrizione autenticata o accertata giudizialmente. Per la trascrizione di una domanda giudiziale, occorre presentare copia autenticata del documento che la contiene, munita della relazione di notifica alla controparte. Se nelle note vi sono omissioni o inesattezze, queste determinano la nullità della trascrizione soltanto se esse sono tali da indurre incertezza sulle persone o sul rapporto giuridico a cui l’atto si riferisce.
Fonte: http://studiando.altervista.org/UNIVERITY/1anno/PRIVATO/riassunto%20del%20torrente.doc
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