Riassunto sociologia

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Riassunto sociologia

Che cos’è la sociologia? (cap 1)

1         IL SENSO COMUNE SOCIOLOGICO
La vita sociale sarebbe impossibile se non potessimo nutrire ragionevoli aspettative e quindi conoscenze sufficientemente affidabili sul comportamento delle persone che incontriamo sul nostro cammino. Questo sapere ha dei limiti:

  • innanzitutto legato alla nostra esperienza diretta che per quanto vasta, è pur sempre circoscritta
  • inoltre bisogna far affidamento sul sentito dire e cioè sull’esperienza di altri: prima di arrivare a noi la conoscenza derivata dall’esperienza altrui ha  probabilmente subito deformazioni che non siamo in grado di controllare.

La sociologia, come scienza sociale, dispone di qualche strumento in più per superare i limiti della sociologia ingenua di senso comune, ma non può prescindere dalla presenza di quest’ultima.
La sociologia può quindi aiutarci a capire meglio il mondo in cui viviamo, ma non ci può dare certezze assolute.

2         QUAL E’ L’OGGETTO DELLA SOCIOLOGIA?
La sociologia è lo studio scientifico della società, quindi la società è l’oggetto della sociologia. Questa definizione non è del tutto soddisfacente poiché rimanda ai concetti di scienza e di società che a loro volta devono essere definiti; soprattutto il concetto di società è utilizzato in contesti molto diversi ed eterogenei (SpA, società civile, ecc.)
Altro problema: di società si occupano anche altre scienze sociali che si sono sviluppate prima o contemporaneamente alla sociologia: economia, scienza della polita, psicologia sociale, ecc. Questa sovrapposizione produce competizione e conflitto oppure vi sono linee di demarcazione su piani diversi? Sono state fornite varie risposte, riconducibili a tre soluzioni:

  • Soluzione gerarchica risale ad Auguste Comte (1798-1857) assegna alla sociologia una posizione privilegiata in un ordine che parte dall’astronomia e dalla fisica, per arrivare alla scienze sociali e alla sociologia cui è riservato il posto più alto. Proprio perché nata per ultima, la sociologia è destinata a completare il processo evolutivo che ha condotto la conoscenza umana ad affrontare oggetti sempre più complessi.. Oggi la sociologia non ambisce a diventare la regina delle scienze.
  • Soluzione residuale: il sociologo inglese Runciman (1970) sostiene che rientra nel campo di studio della sociologia tutto quanto non è, o non ancora, oggetto di un’altra scienza sociale specializzata. Anche questa soluzione risulta insoddisfacente in quanto non chiarisce il carattere problematico dei confini con le altre discipline: infatti la sociologia studia lo stesso ambito di fenomeni oggetto di altre scienze sociali.
  • Soluzione analitica o formale: risale a  Georg Simmel (1858-1918) per cui la sociologia è definibile non in base ad una classe di oggetti che le sia propria, ma in base ad una prospettiva analitica che dall’infinita varietà dei fenomeni sociali, isoli le forme di associazione dissociandole dal loro contenuto particolare. In pratica la sociologia studia le forme pure di relazione. Anche questa soluzione è insoddisfacente perché la maggior parte delle ricerche condotte dai sociologi non rientrerebbe in questa definizione.

A questo punto bisogna accontentarsi di una definizione tautologica (contiene il termine che vuole definire) di sociologia: l’insieme delle ricerche di coloro che si riconoscono e sono riconosciuti da altri come sociologi.

3         LE ORIGINI
Si incomincia a parlare di sociologia nella cultura europea intorno alla metà del 19 secolo contestualmente a tre rivoluzioni alla base del mondo moderno:

  • l’avvento della scienza moderna: verso la fine del 18 secolo incomincia a diffondersi la fiducia nella possibilità di estendere allo studio dell’uomo, della società e della cultura gli stessi principi del metodo scientifico che stavano dando ottimi risultati nello studio dei fenomeni  naturali.
  • la rivoluzione industriale: tra le scienze sociali la prima ad acquisire uno statuto autonomo dalla filosofia fu l’economia politica con Adam Smith (1723-1790): egli cerca di interpretare le trasformazioni sociali in atto in Inghilterra alla luce delle interdipendenze tra i vari gruppi sociali coinvolti nel processo economico; questi gruppi sono legati tra loro essenzialmente da rapporti di scambio e il mercato è l’elemento connettivo della società: sul mercato ogni scambista persegue il proprio interesse egoistico di vendere la propria merce al prezzo più alto possibile e di comprare quella altrui al prezzo più basso possibile.

Il meccanismo della concorrenza assicura tuttavia che a prevalere sia l’interesse collettivo alla massima produzione di ricchezza, la mano invisibile che realizza il benessere di tutti. La sociologia nasce da un atteggiamento ambivalente nei confronti del tipo di società moderna: da un lato le rivoluzioni politiche e la rivoluzione industriale venivano viste come tappe decisive verso il progresso, dall’altro lato c’era chi vedeva nelle trasformazioni in atto l’irruzione di interessi senza freno che minacciavano di travolgere l’ordine sociale, politico e morale consolidato. A ciò va aggiunto lo sradicamento di intere masse di popolazione dai loro luoghi di origine e dalle loro abitudini di vita e dalle loro reti di relazioni, l’indebolimento dei rapporti tra generazioni per lo smembramento delle famiglie e l’assenza dei genitori impegnati nelle fabbriche. L’avvento della società industriale comporta il prevalere dei rapporti impersonali di scambio.

  • la rivoluzione francese: marca simbolicamente la caduta di un ordinamento politico fondato sul principio dinastico ed il potere assoluto; lo scettro passa simbolicamente nelle mani del popolo da cui i governanti devono ricevere investitura e consenso.

La sociologia nasce per rispondere agli interrogativi posti da queste radicali trasformazioni, la società emerge come oggetto di studio quando i suoi fondamenti sono messi in discussione e quando cambiano i rapporti trai gruppi sociali ed individui.

4         TEMI E DILEMMI TEORICI:ORDINE, MUTAMENTO, CONFLITTO, AZIONE E STRUTTURA
Thomas Kunh (1922-1997) ha proposto di chiamare paradigmi scientifici quegli assunti di base di natura teorica e metodologica sui quali una comunità scientifica in un dato campo sviluppa un consenso storicamente accettato da tutti o quasi i suoi membri. Quando ciò accade ci si trova in una fase di scienza normale, mentre nelle fasi di rivoluzione scientifica emerge un nuovo paradigma che, se ha successo, è destinato a sostituire quello precedente.
Nelle scienze sociali questo modello è difficilmente applicabile perché si è di fronte ad una pluralità di paradigmi in competizione tra loro e quando uno di essi tende a prevalere, la sua egemonia è sempre solo parziale e temporanea.

  • Il paradigma dell’ordine: l’interrogativo di fondo è che cosa unisce e cosa divide la società? Prima degli sconvolgimenti rivoluzionari (riv. industriale, scientifica e riv. Francese), l’ordine sociale era assicurato dalla credenza in un’entità trascendente da cui emanavano le leggi che governavano il mondo della natura e quello umano. Una volta infranta questa credenza, il fondamento dell’ordine doveva essere ricercato altrove, all’interno della società stessa.

Secondo Hobbes (1582-1679) gli uomini sottoponendosi all’autorità coercitiva dello stato erano riusciti a controllare la loro natura egoistica e violenta che altrimenti avrebbe condotto alla disgregazione della società.
Adam Smith aveva invece visto nel mercato e nella mano invisibile che regola gli scambi, l’elemento connettivo capace di tenere insieme individui e gruppi con interessi diversi.
Per i primi sociologi queste risposte non sono soddisfacenti: l’ordine sociale deve trovare fondamento in qualche meccanismo o processo che operi nella struttura interna dell’organismo sociale: nascono i modelli organicistici.
Per Spencer e Comte la società è concepita come un organismo le cui parti sono connesse tra loro da una rete di relazioni di interdipendenza: l’equilibrio che si genera tra le varie parti non è mai statico, ma dinamico in cui il motore del processo è la competizione tra le specie e all’interno di ciascuna specie (influenza della teoria dell’evoluzione di Darwin). Gli organismi sociali rispondono alle sfide poste dalle trasformazioni dell’ambiente generando nuove funzioni e quindi nuovi organismi con la conseguenza di innestare processi di differenziazione e di divisione del lavoro.
Per Simmel la divisione del lavoro produce differenziazione sociale per cui i vari compiti/funzioni sono svolti da organi specializzati: gli esseri umani diventano sempre più diversi l’uno dall’altro per cui devono sempre più far affidamento sugli altri per soddisfare le proprie esigenze, stabilendo rapporti di interazione reciproca diretta o indiretta attraverso la mediazione del denaro. Nella società moderna l’ordine sociale non è quindi qualcosa di imposto dall’esterno, ma cresce dall’interno: la società è possibile perché non si può fare a meno di quella rete di interdipendenze che lega insieme individui sempre più diversi l’uno dall’altro.
Anche per Durkheim (1858-1917) il problema dell’ordine di che cosa tiene insieme la società, è il problema centrale della sociologia ed egli individua un nesso profondo tra forme delle divisione del lavoro e forme della solidarietà sociale:

  • nelle società dove la divisione del lavoro è scarsa ciò che unisce è un vincolo di solidarietà fondato sulla credenza di una comune origine o identità; questo vincolo di solidarietà è di origine esterna (sacra, religiosa) viene chiamato meccanico.
  • Nelle società moderne invece dove prevale la divisione del lavoro, il vincolo di solidarietà è di natura interna, fondato cioè su nessi di interdipendenza tra le varie funzioni svolte da individui e gruppi sociali; questa forma di solidarietà è chiamata organica.

Anche Tonnies (1855-1936) guarda all’avvento della modernità con un misto di apprensione e nostalgia per il passato: per Tonnies i termini organico e meccanico hanno un significato opposto rispetto a Durkheim. Organica è la comunità della famiglia nei rapporti tra madre e figlio, tra moglie e marito: questi rapporti sono fondato su vincoli di sangue (famiglia), di luogo (vicinato), di spirito (amicizia) che contribuiscono a formare delle unità organiche. Nulla di tutto questo avviene nell’ambito della società dove gli individui vivono isolati o in tensione gli uni con gli altri; il rapporto societario tipico è quello di scambio dove i contraenti non sono mai disposti a dare qualcosa di più di quello che ricevono. La società è una costruzione artificiale e convenzionale composta da individui separati che perseguono il proprio interesse personale, essa entra in gioco solo come garante del fatto che le obbligazioni che i contraenti si sono reciprocamente assunti verranno onorate.

Il paradigma del conflitto: Le dicotomie solidarietà organica - solidarietà meccanica descrivono il mutamento sociale, ma non servono a spiegarlo.
Per ricercare spiegazioni bisogna fare riferimento a coloro che hanno studiato il conflitto sociale. Marx (1818-1883) in ogni società i rapporti sociali fondamentali sono quelli che si instaurano nella sfera della produzione e distribuzione dei beni e servizi; questi rapporti sono essenzialmente di dominio e sfruttamento e quindi intrinsecamente conflittuali in quanto gli interessi delle classi contrapposte sono antagonistici. Il conflitto di classe è la grande forza della storia, il motore del mutamento sociale: ogni sistema sociale produce nel suo seno le forze destinate a negarlo ed a superarlo. Il proletariato industriale è il prodotto del sistema capitalistico ed anche il fattore che condurrà alla sua distruzione ed all’instaurazione di una società senza classi dove verranno meno anche le ragioni del conflitto.
Per Weber (1864-1920) il conflitto sociale non si riduce alla lotta di classe: le classi non sono l’unica e neppure prevalente struttura intorno a cui si organizzano gli interessi in conflitto. La sfera economica non è l’unica nella quale si manifesta il conflitto: ci sono anche le sfere della politica, del diritto, della religione, del prestigio. Le varie sfere non sono isolate l’una dall’altra, ma reciprocamente connesse anche se ognuna mantiene una sua relativa autonomia: i conflitti che si manifestano in una sfera, si ripercuotono e possono estendersi anche alle altre senza però che si stabiliscano dei rapporti unilaterali. Il conflitto non è per Weber una condizione patologica della società, ma la sua condizione normale: non conduce alla disgregazione della società, ma alla creazione di strutture istituzionali (ordinamenti sociali) che esprimono i rapporti di forza che si sono provvisoriamente consolidati e che fino a quando non vengono messi in discussione, svolgono la funzione di regolazione del conflitto. Ogni assetto istituzionale è solo provvisoriamente stabile: non c’è in Weber, come invece in Marx, un esito finale dove i conflitti si placano e regna l’armonia.
Il conflitto genera sia ordine sia mutamento: l’ordine è l’assetto delle istituzioni che regolano temporaneamente il conflitto; il mutamento trasforma le istituzioni esistenti o dà vita a nuove istituzioni. Gli attori sociali si muovono in questo spazio dovendo continuamente scegliere da che parte stare. La dimensione della scelta si esprime nella contrapposizione tra paradigma della struttura e paradigma dell’azione.

Il paradigma della struttura  parte dall’assunto che per spiegare i comportamenti umani bisogna ricondurli alle coordinate sociali in cui si manifestano: ogni uomo nasce in un mondo sociale preformato, cresce in un dato ambiente assumendone i valori e le credenze, si trova a frequentare scuole adeguate alla sua condizione, entrando nel mondo del lavoro in cui si aspettano da lui date prestazioni. La sua intera esistenza seguirà un percorso ampiamente prevedibile. La struttura sociale altro non è che il reticolo di queste strade: ciò non vuol dire che l’individuo non sia libero di compiere delle scelte, ma la sua libertà è tuttavia confinata nei limiti ristretti consentiti dalla struttura sociale.(comportamenti devianti si va a scavare nella sua biografia dicendo che le cause del crimine sono cause sociali).
I modelli di spiegazione utilizzati da Marx e Durkheim sono classificabili nell’ambito del paradigma della struttura:
quando Marx analizza i rapporti tra le classi non pensa di certo che i membri delle due classi abbiano la possibilità di comportarsi in modo diverso: la posizione che occupano nella struttura sociale impone agli uni di fare tutto il possibile per accrescere i profitti e agli altri di vendere la forza lavoro. Se un imprenditore filantropo decidesse di aumentare i salari sarebbe costretto ad uscire dal mercato schiacciato dalla concorrenza.
Durkheim teorizza esplicitamente che la società viene prima degli individui. Le spiegazioni strutturali fanno sempre riferimento a qualche forza che agisce alle spalle degli individui spingendoli a comportarsi in un determinato modo.
Le teorie funzionalistiche operano anch’esse con un modello di spiegazione di tipo strutturale: è la società che spiega gli individui e non viceversa: non sono tanto gli individui che scelgono la posizione sociale che occupano ed i ruoli che svolgono, ma è piuttosto la struttura sociale che seleziona e forma gli individui adatti a ricoprire quei ruoli ed occupare quelle posizioni.

Il paradigma dell’azione nasce in Germania e sostiene che per spiegare i fenomeni sociali è necessario ricondurli ad atteggiamenti, credenze e comportamenti individuali.
I principi del paradigma dell’azione sono due:

  • i fenomeni macroscopici devono essere ricondotti alle loro cause microscopiche (azioni individuali): si parla di individualismo metodologico che indica che non si possono imputare azioni ad entità astratte o ad attori collettivi di cui si ipostatizza l’unità. (distinzione tra attori collettivi che non sono in grado di esprimere sentimenti e volontà e attori collettivi dotati di organi e procedure capaci di produrre decisioni vincolanti per tutti i loro aderenti). Nella sociologia contemporanea si sostituisce il concetto di attore collettivo con il concetto di agency per indicare un ente che agisce attraverso individui ma è dotato di una propria volontà e capacità di azione indipendente dalla volontà e capacità degli individui che la esprimono.
  • per spiegare le azioni individuali è necessario tenere conto dei motivi degli attori: alla base c’è la concezione dell’uomo come essere dotato della capacità di compiere delle scelte. Nell’ambito dei vincoli contestuali l’uomo persegue mete ed elabora strategie che possono avere più o meno successo ma che danno un senso alla sua azione (Comportamento malato di mente può apparire insensato, ma non lo è per chi lo compie).

Secondo Weber la comprensione raggiunge il massimo grado di evidenza nel caso delle azioni razionali; Weber distingue tra:

  • razionalità strumentale che si riferisce a quelle forme di comportamento orientate intenzionalmente verso uno scopo.
  • razionalità rispetto al valore riguarda i comportamenti conformi a scelte valutative che l’attore ha adottato come criteri assoluti di orientamento dell’azione a prescindere dalle conseguenze che da tali comportamenti potrebbero derivare.

Compatibilità tra paradigmi: i paradigmi della struttura e dell’azione sono tra loro compatibili?
Il paradigma della struttura vede nella società prevalentemente l’elemento della costrizione e gli individui come esseri che devono adattarsi alle circostanze che vengono loro imposte. Le metafore utilizzate sono quelle del teatro delle marionette o del teatro.
Il paradigma dell’azione al contrario concede spazio all’attore, non solo nel senso che questi può scegliere diversi corsi d’azione, per nell’ambito dei vincoli posti dalla struttura, ma con la sua azione pone in essere la struttura stessa.
Il passaggio dall’azione alla struttura, dal livello micro al livello macro, è decisivo nel quadro del paradigma dell’azione. Il concetto di effetto non intenzionale (Pareto commerciante che abbassa i prezzi per sottrarre clienti alla concorrenza, obbligando questa a fare altrettanto a vantaggio del consumatore) è importante per due ragioni:

  • mette in luce come sia frequente il caso di azioni individuali che producono effetti diversi e spesso contrari alle intenzioni degli attori.
  • spiega come da una molteplicità di azioni individuali si generino strutture istituzionali che nessun attore ha voluto intenzionalmente, ma che una volta consolidatesi, costituiscono un vincolo per gli attori stessi: l’istituzione mercato è il tipico esempio di una struttura che si è generata storicamente in modo spontaneo dall’intrecciarsi di una miriade di scambi tra compratori e venditori.

Alla luce di quanto sopra i due paradigmi sono incompatibili solo se si adotta una visione rigorosamente deterministica del condizionamento dei comportamenti umani da parte della struttura sociale, oppure se si adotta una visione unilaterale dell’individuo come attore svincolato da ogni condizionamento esterno.
Al di fuori di queste visioni unilaterali, nella ricerca sociale empirica i due paradigmi sono spesso utilizzati contemporaneamente.

  • TEORIA E RICERCA EMPIRICA

In quasi tutte le discipline scientifiche c’è una sorta di divisione tra la ricerca teorica e quella empirica che può produrre:

  • effetti positivi (quando l’elaborazione teorica produce un input per la ricerca empirica e riceve da questa conferme o smentite in merito alla validità della strada scelta),
  • effetti negativi (quando teoria e ricerca non si arricchiscono reciprocamente, ma proseguono su strade separate).

Anche in sociologia , teoria e ricerca possono interagire tra loro in modo fecondo oppure percorrere strade separate.
Parson (1954) definisce una teoria un corpus di concetti generalizzati, logicamente interdipendenti, dotati di riferimento empirico. E’ proprio il riferimento empirico il nesso tra teoria e ricerca: molte teorie sociologiche sono formulate ad un livello di astrazione tale da rendere difficile se non addirittura impossibile una loro traduzione in proposizione passibili di essere trattate empiricamente. Si può dire che non si può sottoporre a prova empirica una teoria soprattutto se si tratta di una teoria di portata molto generale, ma solo singole proposizioni da essa ricavate.
Popper (1902-1994) una teoria è rilevante sul piano empirico se da essa possiamo ricavare delle congetture passibili di confutazione.
La difficoltà a sottoporre a prova empirica teorie molto generali, ha indotto Merton a sostenere che la sociologia debba orientarsi verso la formulazione di teorie di medio raggio il cui ambito di applicazione sia limitato a fenomeni specifici entro coordinate spazio-temporali definite.
Un nesso forte tra teoria e ricerca si ha se e solo se la ricerca empirica è volta a verificare o falsificare un’ipotesi teorica (ricerche esplicative). Non tutte le ricerche empiriche in sociologia rispondono ad una logica di tipo esplicativo; esistono ricerche empiriche prive di rilevanza teorica, ricerche che hanno quindi un intento esplorativo o descrittivo, anche se a dire il vero nessuna ricerca è del tutto priva di presupposti teorici.
Se il ricercatore si lascia guidare esclusivamente da ipotesi teoriche precostituite è probabile che egli trovi soltanto quello che cerca; soprattutto nelle fasi esplorative è consigliabile che il ricercatore adotti una disposizione che lasci spazio alla possibilità di sorprendersi di fronte a casi o dati anomali per cui non dispone di un’ipotesi plausibile di spiegazione. Per designare questo effetto sorpresa Merton ha usato il termine serendipity.
Il rapporto tra teoria e ricerca empirica in sociologia si articola quindi come un rapporto a due vie di scambi reciproci in cui la teoria alimenta la ricerca ma questa, a sua volta, retroagisce sulla teoria ponendole nuove interrogativi.


La formazione della società moderna (cap 2)

 

1         L’IDEA DI MUTAMENTO
La velocità del mutamento sociale nel corso dei secoli è stata differente: vi sono state epoche in cui gli esseri umani si trovavano a vivere in un mondo non molto diverso da quello in cui erano vissuti i loro padri e nonni: le società agrarie fino a due secoli fa vivevano una vita analoga a due o tremila anni addietro. I concetti di società statica e dinamica sono concetti relativi, nessuna società è in sé statica o dinamica, ciò che cambia è la velocità del mutamento che può essere molto lento e quindi impercettibile nell’arco della vita di un uomo, oppure molto accelerato. In un periodo che varia tra il 16 e 19 secolo le società europee hanno vissuto una forte accelerazione del mutamento sociale. La caratteristica fondamentale di questo processo è la sua globalità che ha coinvolto tutti i settori: economici, politici, giuridici e culturali.

2         LE RAFORMAZIONI NELLA SPFERA ECONOMICA: LA NASCITA DEL CAPITALISMO
2.1 Il concetto di capitalismo
Il concetto di capitalismo è stato introdotto da Marx: egli sostiene che per capire una società bisogna innanzitutto rendersi conto di come in essa gli uomini provvedono a soddisfare i loro bisogni e di quali rapporti si instaurano tra di loro nella sfera della produzione. Nel corso della storia si sono succeduti diversi sistemi economici: comunismo primitivo, schiavismo, feudalesimo, capitalistico.
Ciascun sistema è caratterizzato da una combinazione tra:

  • forme di divisione del lavoro e competenza tecniche (definite da Marx forze produttive)
  • forme di proprietà e rapporti tra le classi (definite come rapporti sociali di produzione)

Il modo di produzione capitalistico si distingue dai precedenti perché dominano i detentori del capitale che pongono al loro servizio il lavoro salariato. In ogni società in un dato momento è presente una pluralità di modi di produzione di cui uno soltanto è dominante: vi sono periodi storici in cui un modo di produzione in cui i rapporti di produzione sono di ostacolo per lo sviluppo delle forze produttive e si generano quindi conflitti tra classi portatrici di interessi antagonistici. Così il capitalismo è nato dalle contraddizioni del modo di produzione feudale, così come il comunismo nell’idea di Marx, nascerà dalle contraddizione del modo di produrre capitalistico.

Concetto di capitalismo secondo Sombart (1863-1941): è un sistema economico con le seguenti caratteristiche: è un’organizzazione economica di scambio (gli scambi non avvengono in natura, ma attraverso la mediazione del denaro) in cui collaborano, uniti dal mercato (non si scambiano solo merci ma anche prestazioni lavorative tra la classe di capitalisti e quella dei proletari), due diversi gruppi di popolazione, i proprietari dei mezzi di produzione (che hanno come obiettivo l’accumulazione del profitto ed il suo reinvestimento nell’impresa) ed i lavoratori e che è dominata dal principio del profitto del razionalismo economico (l’organizzazione della produzione e la gestione d’impresa sono improntate a criteri di razionalità economica).

2.2 Le trasformazioni dell’agricoltura
L’agricoltura feudale era caratterizzata da una moltitudine di famiglie contadine e da una cerchia più o meno ristretta di signori fondiari; le forme e gli usi che regolano il rapporti tra signori e servi variano molto da paese a paese e tra le varie epoche.
In genere si può dire che l’agricoltura feudale è di tipo estensivo a basso livello di produttività e con scarse innovazioni produttive.  I signori feudali non hanno infatti né le competenze tecniche, né la volontà di occuparsi della conduzione dei fondi, avendo come unico interesse quello di incrementare il flusso della rendita. D’altro lato anche i contadini non hanno alcun interesse a migliorare la resa delle coltivazioni poiché sanno che l’eventuale maggior prodotto andrebbe ad esclusivo vantaggio dei proprietari fondiari.
Su molte terre, soprattutto boschi e prati, i villaggi esercitavano diritti comuni di legnatico e pascolo e ciò contribuiva in modo decisivo a mantenere equilibrio tra bisogni e risorse.
Questo quadro di staticità incomincia ad infrangersi prima in Inghilterra e poi in tutta Europa: la spinta che mette in moto il processo proviene dalla crescente domanda di manufatti e derrate che si genera dove gli scambi vanno intensificandosi.
Vediamo la concatenazione dei processi: esigenza equipaggiamento esercito, richiesta di panni di lana che fa aumentare il prezzo della materia prima: la lana proviene dalle pecore che hanno necessità di vasti pascoli; se non ci sono terre libere si abolisce l’uso civico sui pascoli mediante recinzioni, privatizzando ciò che prima era del villaggio. Per lo strato più povero dei contadini l’abolizione del diritto di pascolo mina le fondamenta dell’equilibrio economico per cui non potendo più alimentare il bestiame, non sono più in grado di coltivare la terra e devono cederla al signore ed offrirsi come salariati senza terre oppure emigrare in città. Le recinzione (enclosures) non sono l’unica causa di questo processo, ma l’esito è sempre lo stesso: un’accresciuta polarizzazione delle condizioni di vita nelle campagne ed una maggiore diseguaglianza all’interno delle classi rurali.
In Inghilterra i protagonisti sono la piccola nobiltà terriera ed i contadini benestanti che si trasformano in capitalisti agrari; questi, a differenza dei signori feudali, hanno tutto l’interesse ad introdurre innovazioni nella coltivazione e nell’allevamento per aumentarne la produttività ed accrescere i profitti: migliorano metodi irrigazione, selezionano le colture, nuove coltivazioni, rete ti telecomunicazioni, ecc, facendo nascere l’agricoltura moderna.

2.3 Il ruolo delle attività mercantili
Il ruolo delle attività mercantili per la creazione del capitalismo industriale a volte è stato determinante per crearne le condizioni, mentre altre volte questo non è avvenuto.
Da un lato vi sono coloro che hanno visto nella formazione di un ricco ceto di grandi mercanti e nella creazione di un mercato di dimensioni mondiali il fattore di dissoluzione dei feudalesimo, dall’altro vi sono coloro che sostengono che le attività mercantili di per sé non sono incompatibili con un’economia feudale e che possono prosperare nei suoi interstizi lasciando sostanzialmente inalterata la struttura feudale stessa.

  • Vediamo il caso italiano: con uno sviluppo mercantile molto precoce supportato dai banchieri e dalla creazione del diritto commerciale e della contabilità. Nonostante queste ottime premesse di sviluppo del capitalismo mercantile, non si è avuto analogo sviluppo nell’ambito della produzione agricola ed industriale. Le merci prodotte ed esportate con notevoli guadagni erano sempre prodotte con metodi tradizionali in un’economia feudale e artigianale: i mercanti ed i banchieri pur con notevoli disponibilità di denaro, non si sono trasformati in imprenditori ed in capitalisti industriali.
  • Ben diverso il caso Inglese e dell’Europa settentrionale: il sistema del lavoro a domicilio è una forma di transizione verso l’impresa capitalistica: il mercante girava per i villaggi di campagna dove, soprattutto nel mesi di stasi delle attività agricole, c’era popolazione eccedente i bisogni di manodopera portando con sé carico di materia prima (lana e qualche attrezzo) e distribuiva il tutto nelle varie case fornendo specifiche tecniche su come lavorare il materiale. Si impegnava a ritirare il prodotto finito ad una certa data pagando un compenso in denaro per l’attività svolta. Successivamente il mercante deciderà di radunare i lavoranti dei vari villaggi sotto uno stesso tetto, fondando la manifattura e pagando i lavoratori con un salario.

 

2.4 La trasformazione dell’artigianato
Il fatto che un mercante possa assoldare famiglie contadine che dedicano al lavoro artigianale il tempo non occupato in agricoltura, è un segno evidente della crisi degli ordinamenti corporativi dell’artigianato. Le corporazioni erano infatti organizzazioni monopolistiche il cui scopo era quello di assicurare l’esercizio esclusivo di un mestiere ai soli associati ed in cui vigeva il divieto di concorrenza tra i membri cui doveva essere garantito un tenore di vita conforme alla dignità del ceto. La stabilità di questo sistema richiedeva una condizione fondamentale: che la domanda dei singoli beni fosse limitata, prevedibile e senza forti oscillazioni.
Quando invece la domanda si fa più viva e in quantità sempre maggiori, alcuni artigiani riescono ad accaparrarsi una quota maggiore di altri di questa domanda aggiuntiva: lo spirito del capitalismo incomincia a far breccia per cui alcuni artigiani riescono ad espandere al propria bottega, mentre altri non approfittano delle nuove condizioni e alla fine saranno costretti ad offrirsi ai primi come salariati. In questo modo alcuni artigiani si sono trasformati in imprenditori industriali.

2.5 La formazione dell’imprenditorialità
La nascita del capitalismo è opera di uomini nuovi che provengono da strati e ceti diversi, accomunati da un particolare orientamento: fare cose nuove in modi nuovi per allargare il giro d’affari ed espandere la propria impresa.
Per Schumpeter (1883-1950) gli imprenditori sono degli innovatori, nei prodotti, nelle tecniche di lavorazione e di gestione, nella raccolta di capitali e per far questo devono affrontare e vincere l’ostilità della cultura dei ceti aristocratici ed ecclesiastici. L’innovazione garantisce a chi l’ha introdotta un vantaggio differenziale rispetto ai propri concorrenti e gode di una temporanea posizione di monopolio e quindi di un profitto maggiore almeno fino a quando i concorrenti non riusciranno ad imitarlo; ogni innovazione è infatti destinata a diffondersi.
Non si deve però pensare che gli imprenditori siano animati esclusivamente da impulso acquisitivo; come dice Weber la più sfrenata bramosia di acquisizione non si identifica per nulla con il capitalismo e con il suo spirito; il capitalismo si identifica con l’aspirazione al guadagno nell’impresa capitalistica razionale e alla redditività.
A differenza dei nobili e ricchi, l’imprenditore razionale invece non è orientato al consumo, all’ozio ed ai piaceri della vita, ma conduce una vita sobria ed il profitto deve essere accumulato per essere reinvestito nell’impresa. La nascita del capitalismo si accompagna ad una critica serrata e polemica contro il lusso e gli stili di vita dispendiosi.

2.6 La tesi dell’origine religiosa dello spirito del capitalismo
Weber ha formulato l’ipotesi che le origini dello spirito capitalistico siano da rintracciare nell’etica delle sette protestanti influenzate dalle dottrine di Calvino, in particolare dal dogma della predestinazione. Questa dottrina afferma che Dio, sulla sua imperscrutabile volontà, ha stabilito dall’eternità chi sarà salvato e chi dannato. Per i calvinisti le azioni dell’uomo non possono influenzarne la volontà, perché altrimenti l’uomo sarebbe sullo stesso piano di dio. Di fronte all’angoscia derivante dall’incertezza in merito al proprio destino eterno, i credenti hanno cercato nel successo terreno un segnale di salvezza.
Quello che è certo è che i primi imprenditori furono portatori di uno spirito nuovo e seppero sfidare il potere dei vecchi ceti nobiliari e vincere l’ostilità della cultura dominante. Tra i primi imprenditori c’era un numero consistente di appartenenti a gruppi minoritari e marginali che proprio per non essere parte integrante dell’ordine sociale costituito, erano meglio di altri in grado di liberarsi dai vincoli della tradizione. Si assiste all’ascesa di una nuova classe sociale la cui ricchezza non dipende più dalla rendite, ma da lavoro e dalla capacità di sfruttare le opportunità di mercato.

 

3    LE TRASFORMAZIONI NELLA SFERA POLITICA: LA NASCITA DELLO STATO MODERNO
3.1 Lo stato moderno nell’epoca dell’assolutismo
Nello stato feudale dominava la dimensione localistica: i sudditi avevano obblighi militari e fiscali nei poteri di ordine più elevato (rapporto di vassallaggio). La relativa debolezza dei poteri centrali incapaci di imporsi ad una moltitudine di poteri locali autonomi, spiega come mai nel mondo feudale dominasse una situazione di guerra; la guerra era l’occupazione principale dei signori feudali il loro potere e ricchezza dipendevano essenzialmente dall’ampiezza dei territori e dal lavoro delle popolazioni che riuscivano a sottomettere. Questo sistema durò per secoli fino a quando dalle guerre e dal gioco diplomatico di alleanze emerse un potere capace di sottomettere, su territori abbastanza vasti, i poteri concorrenti. Si trattò di un processo di pacificazione per cui su un territorio prima conteso ed oggetto di guerre, si venne ad instaurare il monopolio della violenza legittima, cioè il diritto esclusivo di usare la forza da parte del potere sovrano. Questo processo di creazione di vasti regni regolato da leggi dinastiche di successione non avvenne ovunque e con gli stessi tempi e modalità:
Francia Inghilterra Spagna Prussia e Russa hanno una storia statuale molto più lunga di altri paesi; nell’area italiana e tedesca invece dove più forte era la tradizione cittadina, il processo di unificazione statuale si realizzò molto più tardi e per lungo tempo queste aree rimasero divise in una pluralità di piccoli stati in conflitto tra loro: le città potevano trovare risorse di comune difesa stabilendo coalizioni temporanee e trovando anche accordi per impedire che una città acquistasse il predominio sulle altre. Quindi il processo di aggregazione in uno stato moderno si affermò non nelle zone ricche di centri urbani (città stato) dove predominavano gli scambi, ma dove prevalevano agricoltura e servitù della gleba.

Il processo di unificazione/pacificazione fu accompagnato da alcuni fattori:

  • creazione di grandi eserciti per la difesa del territorio e per politiche espansionistiche verso altri stati; l’esercito rappresenta il cuore dello stato moderno infatti le spese militari assorbono fino al 70% del bilancio dello stato.
  • monopolio fiscale: le crescenti spese pubbliche, soprattutto militari, imponevano un cambiamento radicale dei meccanismi di prelievo fiscale: in epoca premoderna il signore stabiliva in base alle proprie esigenze qual era l’ammontare delle imposte da ricavare in un dato territorio e ne affidava la riscossione ad un appaltatore: se questi riusciva a riscuotere una somma maggiore di quella fissata, tratteneva la differenza per far fronte alle spese di esazione delle imposte e per i suoi consumi. L’appaltatore non veniva pagato dall’erario statale per la funzione di esazione, ma gestiva in proprio l’attività fiscale. Con la formazione dello Stato moderno il ruolo del funzionario cambia radicalmente: la sua retribuzione è a carico dell’erario ed il suo operato è sottoposto alla regolamentazione di norme astratte che si applicano indifferentemente a tutti coloro che vivono sul territorio.
  • monopolio monetario: in epoca premoderna in Europa circolavano molte monete diverse perché ogni regno, città commerciale, banca e corporazione potevano battere moneta e ciò non facilitava gli scambi e la regolarità delle entrate statali essendo difficile controllare le contraffazione e pesare l’effettivo contenuto metallico. Lo Stato avocò quindi a sé il diritto di battere moneta ed il monopolio del conio della moneta.
  • monopolio dell’amministrazione della giustizia: non è più legittimo farsi giustizia da sé, ma è lo stato a garantire la protezione giuridica.

Il sovrano concentra quindi su di sé questi poteri e li esercita legittimamente nei confronti dei propri sudditi in virtù del principio dinastico; il fondamento di legittimità del potere si fonda pertanto sulla tradizione.

3.2 Il concetto di “cittadinanza” e la nascita del moderno stato di diritto
L’ascesa della borghesia, la crescita di un apparato di funzionari pubblici dotati di competenze tecniche/giuridiche e la diffusione delle idee portate dalla Riforma e dall’Illuminismo sono tutti fattori che minano il potere assoluto del sovrano.
Le grandi rivoluzioni (inglese, americana e francese) segnalo l’avvento di una nuova concezione dello Stato che vede nell’insieme dei cittadini e non più solo nel sovrano, la fonte della sovranità; è proprio con queste rivoluzioni che si affermano i diritti dei cittadini.

  • Nell’antichità la cittadinanza era una condizione goduta dagli individui in quanto membri di una famiglia e legata in genere alla proprietà della terra.
  • Nel Medioevo era legata all’appartenenza ad uno stato o corporazione.
  • Ora invece diventa prerogativa degli individui in quanto membri del popolo che è il depositario della sovranità dello Stato. Il re non è più sovrano assoluto, il suo potere risulta regolato e limitato da una costituzione che accanto a quello del re sancisce il potere autonomo del parlamento in cui si esprime la volontà popolare. Il rapporto tra governanti e governati viene regolamentato da una legge suprema, la costituzione che vincola entrambi a diritti e doveri: i diritti dei cittadini costituiscono un limite del potere dei governanti che possono perseguire i loro fini solo nelle forme e limiti imposti dalla legge. Nasce così lo stato di diritto, una forma di organizzazione politica in cui tutti gli organi dello stato ed ogni loro atto sono vincolati al rispetto della legge. Anche nello stato di diritto il cittadino deve ubbidire, ma lo fa perché ritiene che chi gli comanda di fare queste cose ha il titolo per farlo in virtù delle leggi con cui ha avuto accesso alle posizioni di potere che occupa ed in virtù del fatto che le sue azioni avvengono nel rispetto della legge fondamentale.

4         LA CULTURA DELLA MODERNITA’
Le trasformazioni economiche e politiche sopra analizzate sono nello stesso tempo causa e conseguenza di altre trasformazioni nella sfera della cultura. L’individualismo ed il razionalismo sono le correnti culturali maggiormente connesse alla formazione della società moderna.

4.1 L’individualismo
Nei precedenti paragrafi si è visto l’emergere di due figure nuove rispetto alle precedenti società: l’imprenditore (nella sfera economica) ed il cittadino (sfera politica).
E’ soltanto con l’avvento della società moderna che il riconoscimento della libertà di autorealizzazione dell’individuo assurge a valore dominante: ciò che viene apprezzato in un uomo non sono solo le caratteristiche che lo rendono uguale agli altri, ma le caratteristiche che lo distinguono. In passato il valore dell’essere umano rifletteva il valore attribuito al suo gruppo di appartenenza (famiglia, clan, casta, gruppo religioso/professionale) e queste caratteristiche venivano acquisite per lo più per nascita e si portavano per tutta la vita, indipendentemente dalle qualità personali del singolo; c’era poco spazio per la volontà individuale.
Nel campo delle credenze religiose bisognava seguire i dogmi, riti prescritti dalla chiesa se non si voleva essere considerati eretici; la chiesa era l’intermediario tra divinità e fedeli.
Con la Riforma protestante, l’avvento del capitalismo esaltano invece l’autonomia e l’indipendenza dell’individuo:

  • In campo religioso, la religiosità individuale prende il sopravvento sulla religiosità di chiesa, perché ciò che conta è il rapporto immediato tra individuo e divinità.
  • In campo economico si ha il pieno diritto di disporre della proprietà individuale in modo che sia il mercato a premiare con il successo individuale chi è dotato di iniziativa e che si assume il rischio d’impresa.
  • In campo politico si ha il riconoscimento del diritto di associarsi, di esprimere le proprie opinioni e di partecipare attraverso i propri rappresentanti al controllo ed all’esercizio del potere di governo.

I valori di uguaglianza e libertà sono alla base dell’affermazione del valore dell’individuo:

  • per uguaglianza si intende che tutti gli uomini hanno alla nascita uguale dignità e diritti a prescindere dalla famiglia, dal ceto e dalla confessione religiosa.
  • per libertà si intende autonomia ed indipendenza nel governare la propria esistenza, avendo come unico vincolo il rispetto della libertà altrui.

L’uomo viene al mondo come soggetto titolare di diritti che non derivano dalla società, ma sono originari, cioè naturali e attribuiti alla specie umana, da cui discende il diritto naturale e l’idea ad esso legata di contratto sociale (patto stabilito tra uomini liberi che consensualmente limitano la propria libertà per dar vita allo stato.

4.2 Il razionalismo
Anche il razionalismo è una componente essenziale della modernità: le sue origini sono da rintracciarsi nell’incontro di due componenti culturali:

  • le religioni monoteiste della tradizione ebraico cristiana che hanno segnalo il distacco della religione dalla magia
  • la cultura filosofica e giuridica greco romana che ha posto le basi di una concezione mondana dello società e dello stato.

Solo con l’avvento della società moderna la ragione e la razionalità diventano valori sociali dominanti.
Alla fede come fonte di verità (verità rivelata) si sostituisce la ragione su cui gli uomini possono fare affidamento per diventare padroni del proprio destino: la ragione diventa capace di liberare gli uomini dall’errore, dalla superstizione e dalla sottomissione ai poteri tradizionali delle chiesa e dell’aristocrazia.
Solo in Occidente il processo di razionalizzazione è progredito a tal punto da investire globalmente i sistemi di credenze, strutture familiari, ordinamenti giuridici, politici economici: solo in Occidente si è sviluppato un sistema di credenze che ponendo il sacro su un piano trascendente rispetto al mondo, ha consentito di guardare alla realtà naturale ed umana come una realtà oggettiva, priva di significati magici.
La razionalità postula infatti che l’uomo sia un essere dotato della capacità di agire in modo coerente rispetto ai valori che ha liberamente scelto (razionalità rispetto al valore) e di agire nel modo più efficiente ed efficace per realizzare i fin che si è prefissato (razionalità rispetto allo scopo).
Tra agire razionale ed ordinamenti razionali non c’è un punto di corrispondenza: l’agire razionale è possibile anche in ordinamenti tradizionali ed analogamente vi può essere agire tradizionale anche nell’ambito di ordinamenti razionali.


La trama del tessuto sociale (cap 3)

 

1 Azione, relazione, interazione sociale
La società è fatta di individui che si influenzano reciprocamente agendo l’uno per l’altro, con l’altro e contro l’altro (Simmel 1908); l’azione sociale è dunque un primo concetto di base della sociologia, in cui il senso, cioè il significato intenzionale che l’attore dà al proprio comportamento, è essenziale.
Con riferimento al senso dell’azione, Weber distingue:

  • azioni razionali rispetto allo scopo: chi agisce valuta razionalmente i mezzi rispetto agli scopi che si propone di raggiungere con l’azione e considera le conseguenze che potrebbero derivarne.
  • azioni razionali rispetto al valore: chi agisce compie ciò che ritiene gli sia comandato dal dovere, da un precetto religioso, da una causa che reputa giusta, senza pensare alle conseguenze.
  • azioni determinate affettivamente: pure manifestazioni di gioia, gratitudine, vendetta o altri stati del sentire, si tratta di esprimere un bisogno interno.
  • azioni tradizionali: espressione di abitudini acquisite, comportamenti che si ripetono senza interrogarsi su possibilità alternative.

Spesso per descrivere un’azione è necessario fare riferimento alla combinazione di tipi diversi di azioni; in linea di massima un attore ha buone ragioni per comportarsi razionalmente per cui è opportuno provare a considerare un’azione come razionale e eventualmente solo dopo classificarla in altro modo. In secondo luogo è importante considerare la situazione in cui l’azione ha luogo (teorema di Thomas: una situazione definita dagli attori come reale, diventa reale nelle sue conseguenze; esempio voci di banca in difficoltà e tutti estinguono depositi, si avrà effettivamente banca in difficoltà).
Se l’attenzione invece che su uno solo è posta contemporaneamente su due o più attori, si individuano altre unità elementari dell’analisi sociologica: le relazioni e l’interazione sociale. Due o più individui che orientano reciprocamente le loro azioni stabiliscono una relazione sociale; queste possono essere stabili e profonde (genitori e figli), o transitorie e superficiali (scambio di mercato). Inoltre possono essere cooperative (orientate a raggiungere fini comuni/compatibili), oppure conflittuali (affermare propria volontà contro la volontà di altri).
L’interazione sociale è il processo secondo il quale due o più persone in relazione tra loro agiscono in sequenza, reagendo alle azioni degli altri; con ‘interazione di realizza, si riproduce e cambia nel tempo il contenuto di una relazione.

2 I gruppi sociali e le loro proprietà
Gruppo sociale è un insieme di persone tra loro in interazione con continuità secondo schemi relativamente stabili, le quali si definiscono membri del gruppo e sono definite come tali da altri (Merton 1949).
I caratteri dei gruppi cambiano con la loro dimensione: l’interazione può essere diretta (faccia a faccia), oppure in parte diretta ed in parte indiretta (azienda in cui ci sono rapporti faccia a faccia e indiretti con altri colleghi). La presenza fisica consente la percezione diretta dell’altro, permettendo di percepire non solo le parole, ma gesti, mimica, ecc. in questo caso il discorso può essere adattato a seconda delle reazioni dell’interlocutore. Con la crescita del gruppo diminuisce la possibilità di questa comunicazione ed aumenta la comunicazione indiretta che è più precisa, ma anche più lenta e rigida.
Un gruppo di due persone costituisce una diade che possiede una caratteristica unica: se un membro decide di uscire dalla relazione, il gruppo scompare. Questa fragilità strutturale e la personalizzazione giocano in direzione di un forte coinvolgimento psicologico ed affettivo nella relazione.
Un gruppo di tre persone costituisce una triade che produce diverse configurazioni:

  • mediatore quando un terzo non direttamente coinvolto in una disputa, dialogando separatamente, in condizioni meno critiche di emotività ed argomenti più razionali, è in grado di convincere gli altri due a trovare un accordo.
  • Tertius gaudens il terzo approfitta per i propri scopi di una divergenza fra gli altri secondo due schemi:
  • due in conflitto cercano l’alleanza del terzo
  • due in conflitto cercano di ottenere il favore del terzo entrando in competizione tra loro
  • divide et impera: un terzo fa sorgere o alimenta intenzionalmente una discordia a proprio vantaggio.

I criteri di appartenenza ad un gruppo
I gruppi formali prevedono regole precise sui requisiti, le procedure per l’ammissione ed i comportamenti da tenere per continuare a far parte del gruppo stesso (es. dipendenti di un’impresa)
Nei gruppi informali invece i criteri sopra esposti sono taciti (gruppo amici)
Gruppo di riferimento per una persona, un gruppo al quale questa persona non partecipa, ma del quale condivide i fini e sente di poter facilmente accettare le regole.
Ruolo: l’insieme dei comportamenti che in gruppo ci si aspetta da una persona che del gruppo fa parte; il contenuto di questi ruoli cambia da cultura a cultura e da un’epoca all’altra, anche se in una famiglia sono comunque individuabili una serie di ruoli tipici comuni.
All’interno del gruppo i ruoli sono differenziati. Specifico è un ruolo che riguarda un insieme di comportamenti limitato e precisato; diffuso un ruolo in cui i comportamenti attesi sono un insieme più ampio e meno definito.
Un individuo ha diversi ruoli (figlio, operaio, iscritto ad un partito, ecc.); se si considerano i gruppi in relazione al fatto che ciascuno ha diversi ruoli, si possono distinguere a seconda che impegnino il comportamento di tutti o quasi i ruoli di un individuo:

  • se impegnano tutti si ha un gruppo totalitario (carcere: in cui tutti i ruoli sono interni al carcere stesso)
  • gruppo segmentale (scuola) in cui si impegnano solo alcuni ruoli: infatti chi frequenta una scuola ha altri ruoli in seno alla famiglia, amici non compagni di scuola, ecc.

Gruppi primari sono di piccole dimensioni a ruoli diffusi con contenuti affettivi e molto personalizzati (famiglia).
Gruppi secondari sono di maggiori dimensioni, con ruoli specifici, relazioni più fredde e spersonalizzate (azienda).
Il ruolo è uno schema di comportamento che si impara e poi si tende a seguire, ma un ruolo è sempre interpretato da chi agisce. Qualsiasi regolamento che preveda in modo formale un sistema di ruoli lascia spazio a comportamenti non previsti, ovvero informali, con la conseguenza che all’interno dei gruppi formali normalmente si formano gruppi informali.

3 Norme, valori, istituzioni
La possibilità di un’interazione sistematica e duratura all’interno di un gruppo, piccolo o grande che sia, dipende dall’esistenza di norme di comportamento dalle quali i suoi membri si sentano impegnati. Norme, valori e istituzioni sono i 3 concetti chiave per definire il sistema normativo.
Le norme sociali sono regole di comportamento che ci si aspetta vengano seguite in determinate situazioni; esistono diversi tipi di norme:

  • Le leggi valgono nell’ambito territoriale entro cui esercita la sua sovranità l’autorità che le ha emesse.
  • le leggi che non esauriscono però l’insieme delle norme sociali: nei comportamenti quotidiani si seguono spesso delle regole senza esserne consapevoli.
  • Codici deontologici degli ordini professionali che stabiliscono principi e modalità a cui si devono attenere gli appartenenti nell’esercizio delle loro attività e che prevedono sanzioni in caso di violazioni.
  • Norme tecniche: procedure per eseguire determinate operazioni (quadro alla parete): se non vengono seguite semplicemente non si esegue un lavoro a regola d’arte.

I valori indicano orientamenti più astratti da cui discendono le norme stesse e riguardano in fini ultimi dell’azione. I valori sono delle guide capaci di orientare i comportamenti nell’ambito consentito dalle norme. Nella nostra società moderna esiste un pluralismo di valori anche se c’è una base comune data dai valori universali (rispetto della vita, libertà, uguaglianza, ecc.); ovviamente sulla loro interpretazione nascono conflitti anche se la loro violazione comporta reazioni decise: infatti quando un valore diventa universale, di tutti, aumenta la sensibilità degli esseri umani alle situazioni in cui viene negato.
Valori e norme rappresentano dei vincoli all’azione, ma definiscono il campo delle opzioni tra le quali gli individui sono liberi di scegliere. L’assenza di norme definita da Durkheim come anomia, priva gli individui di punti di riferimento scatenando comportamenti sregolati e portando alla disgregazione della società.
Per istituzioni si intendono i modelli di comportamento che in una determinata società sono dotati di cogenza normativa (non solo apparati di interesse pubblico, ma anche fidanzamento, linguaggio, matrimonio, ecc sono visti dai sociologi come istituzioni).
Norme, valori ed istituzioni costituiscono il nucleo centrale di una cultura: questa comprende gli artefatti, i beni, processi tecnici, idee, abitudini ed i valori che vengono trasmessi socialmente Malinowski (1884-1942).

4 Potere e conflitto
Il potere è una sorta di energia sociale di cui un attore dispone nel condizionare l’azione di un altro: si ha potere nei confronti di un altro a cui si è legati da una relazione ed in determinate situazioni.
Secondo Weber potere è la possibilità di trovare obbedienza ad un comando che abbia un determinato contenuto; ad ogni rapporto di potere corrisponde anche un interesse all’obbedienza da parte del soggetto più debole, non fosse altro perché comportarsi in modo diverso sarebbe troppo oneroso; è quindi importante considerare anche le reazioni e strategie del soggetto più debole.
Un tipo particolare di potere è quello legittimo o autorità che riguarda relazioni nelle quali sono previsti diritti di dare ordini e doveri di ubbidire, considerati legittimi da entrambe gli attori. Relazioni di autorità sono previste in tutti i gruppi secondari e anche in gruppi primari come la famiglia: i genitori esercitano autorità sui figli in modo diffuso, mentre un capoufficio esercita autorità su un impiegato in modo specifico e non su aspetti della vita privata (se chiede favori personali non esercita autorità, ma potere).
Ulteriore proprietà dei gruppi è data dal fatto che per quanto siano previste regole precise e puntuali non è ma possibile una relazione completamente regolata e controllata; ne deriva che se ogni regola di autorità lascia margine di incertezza, si apre un campo di conflitti, adattamenti e contrattazioni fra i soggetti che rappresentano una parte normale dell’interazione all’interno di ogni gruppo. A seconda delle circostanze, il conflitto può distruggere una relazione sociale, oppure essere funzionale al suo mantenimento:

  • il conflitto contribuisce a stabilire e mantenere i confini del gruppo: attraverso il conflitto i soggetti di un gruppo acquistano o conservano facilmente la consapevolezza della loro identità, mentre in assenza di conflitto ciò potrebbe anche non verificarsi. (esempio relazione tra gruppi etnici, politici, religiosi). Collegato c’è il concetto di ingroup, gruppo di appartenenza caratterizzato da coesione interna ed ostilità verso altri gruppi (outgroup).
  • I gruppi che richiedono un impegno totale della personalità sono capaci di limitare i conflitti, ma se questi esplodono, tendono ad essere di particolare intensità e anche distruttivi delle relazioni di gruppo: relazioni intense sono tipiche delle diadi e dei gruppi primari quali la famiglia. Il forte investimento affettivo caratterizza queste relazioni e controlla la possibilità di conflitto; se però questo si innesca, tocca una pluralità di contenuti in quanto i ruoli sono di tipo diffuso.
  • Il conflitto con altri gruppi normalmente aumenta la coesione interna: il nemico alle porte fa dimenticare i dissidi interni; se però nel gruppo esisteva inizialmente una scarsa solidarietà sociale, la spinta all’unità per fronteggiare il nemico esterno, può non essere sufficiente e portare alla disgregazione del gruppo. A volte il nemico per ottenere coesione all’interno del gruppo, può essere inventato, come nel caso del capro espiatorio: si tratta di un membro del gruppo a cui si dà sempre la colpa se qualcosa non funziona.
  • Il conflitto può generare nuovi tipi di interazione tra gli antagonisti: un conflitto è il modo in cui due gruppi o persone entrano in contatto, conoscendosi e mettendosi alla prova: le restrizioni che si pongono nell’interazione, possono essere una prima base per lo sviluppo di regole e rapporti più cooperativi. Se un gruppo non reprime ed invece tollera i conflitti al suo interno, prevedendo regole/procedure per la loro espressione, allora è probabile che i conflitti diano luogo a adattamenti progressivi della struttura assicurandone la persistenza mediante una continua modifica delle forme di interazione.

5 Il comportamento collettivo
Si distingue del gruppo il comportamento collettivo secondo cui un insieme di individui sottoposti allo stesso stimolo, reagiscono ed interagiscono tra loro in situazioni senza sicuro riferimento a ruoli definiti e stabilizzati. Si tratta di un campo eterogeneo difficile da studiare per cui vengono considerate due tra i più importanti tipi di comportamento collettivo:
Panico: è una reazione collettiva spontanea che si manifesta con la fuga oppure con l’immobilità di fronte ad un rischio di subire gravi danni da un evento in corso oppure annunciato; l’incertezza,  l’aspettativa del danno conducono alla perdita di controllo sulle proprie reazioni. In questi casi l’individuo tende a reagire guardando solo se stesso e vedendo gli altri come avversari piuttosto che come possibili amici.
Folla: è un insieme di persone riunite in un luogo che reagiscono ad uno stimolo sviluppando umori ed atteggiamenti comuni, a cui possono seguire forme di azione collettiva. I primi studiosi che hanno analizzato il problema hanno posto l’attenzione sul carattere irrazionale dei comportamenti,mentre possono essere posti in essere anche comportamenti pacifici e gioiosi.
Mentre il panico esprime orientamenti individualistici, la folla esprime atteggiamenti e comportamenti solidaristici, nella folla le persone si rafforzano in un atteggiamento comune ricevendo in risposta dagli altri lo steso stimolo che avevano manifestato (reazione circolare). Si distingue la folla espressiva (raduno di reduci con sfogo di tensioni sociali e psicologiche con comportamenti inconsueti) dalla folla attiva (l’attenzione ed i sentimenti degli individui sono orientati all’esterno su persone o cose definite che diventano l’obiettivo di azioni in genere conflittuali e a volta violente.
Nel comportamento collettivo troviamo una maggiore fluidità nei rapporti tra le persone, più spontaneità ed un maggior coinvolgimento emotivo rispetto al solito: la personalità sociale del singolo individuo costituita dall’insieme dei suoi ruoli, tende ad essere sospesa e da ciò può derivare il carattere imprevedibile d imitativo che si riscontra in molte manifestazioni di comportamento collettivo.

6 Le reti
Ogni persona conosce un cero numero di persone che a loro volta queste persone possono conoscersi o meno ed hanno ulteriori relazioni con altre persone: si parla di reti di relazioni.
Le reti possono essere a maglia larga o stretta (alta o bassa intensità): è a maglia tanto più stretta quanto più le persone che un individuo conosce si conoscono tra loro.
I legami fra le persone collegate nelle reti variano per intensità, durata, frequenza, contenuto (persona frequentata per un solo carattere amicizia o per più caratteri lavoro e amicizia).
Una situazione particolare è quella di chi appartiene a due reti collegate fra loro solo attraverso la sua persona (immigrato che mantiene contatto con società d’origine e che in città ha rapporti con altre persone; oppure i ragazzi che crescendo separano la rete familiare densa e la rete delle nuove esperienze). Il concetto di rete non coincide con quello di gruppo: ke persone che fanno parte di una rete possono non conoscersi e non sapere di farne parte.
7 I gruppi organizzati
Nella società moderna c’è forte diffusione di associazione ed organizzazioni, cioè di gruppi progettati per raggiungere alcuni limitati scopi basati su regolamenti chiaramente stabiliti. Per distinguere le associazioni dalle organizzazioni bisogna considerare il motivo per cui le persone partecipano al gruppo:

  • nelle associazioni questo avviene perché se ne condividono i fini che corrispondono a propri ideali od interessi.
  • nelle organizzazioni invece partecipare è un lavoro remunerato di solito in denaro: il motivo della partecipazione è strumentale e solo in certi casi ci può essere un’identificazione con i fini dell’organizzazione.

Associazioni ed organizzazioni hanno in comune di essere attori artificiali, costituiti per raggiungere obiettivi che le persone reali da sole non potrebbero raggiungere; questi attori artificiali una volta costituiti, vivono di vita propria e prendono attraverso i suoi membri decisioni.

7.1 Le associazioni
Lo studio delle associazioni è collegato all’opera di Alexis de Tocqueville (1805-1859) in cui durante un viaggio in America notò la diffusa presenza di associazioni volontarie. Egli cerca di individuare uno spazio che le associazioni volontarie occupano facendosi largo tra le istituzioni portanti della società: lo stato e la famiglia. Per indicare questo spazio si usa spesso il termine società civile. L’adesione ad associazioni tende ad aumentare all’aumentare del reddito e dell’istruzione.

7.2 Le organizzazioni
Il termine moderno che si usa per definire la forma moderna di organizzazione è burocrazia che richiama alla mente organizzazioni pubbliche, ma secondo Weber non ci differenze con l’organizzazione di un’impresa. Per Weber il motivo della diffusione della burocrazia è la superiore efficienza rispetto ad altre forme di organizzazione.
Per Weber i principali caratteri distintivi della burocrazia sono:

  • la divisione stabile e specializzata dei compiti: ogni problema simile viene trattato allo stesso modo per cui le soluzioni previste dalle regole non devono essere reinventate ogni volta.
  • Una struttura gerarchica: chi occupa una posizione ha i poteri per compiere gli atti che a quella posizione competono; è previsto anche il tipo di ordini che si possono dare o ricevere, oltre i quali non si può andare.
  • Competenza specializzata per ogni posizione che richiede una preparazione adeguata di chi occupa la posizione, l’assegnazione ad una posizione per mezzo di un meccanismo di concorso come garanzia di competenza.
  • Remunerazione in denaro pagata dall’organizzazione e mai dai clienti di questa; nessuna possibilità di appropriarsi del posto definitivamente, di cederlo ad altri o passarlo in eredità.

Nella burocrazia potere e controllo sono esercitati sulla base della conoscenza e della competenza, in questo senso si tratta di un’organizzazione razionale. Il modello non si presta però ad un’analisi ravvicinata della struttura interna di un’organizzazione che permette di capire il reale funzionamento di tipi diversi di organizzazioni moderne. Le organizzazioni che oggi che più si avvicinano al modello di Weber spesso non sono affatto più efficienti di altre che ne discostano, per cui spesso la burocrazia non è efficace (capacità di un’azione di raggiungere i risultati che si propone) e neppure efficiente (dispendio di risorse impiegate per ottenere i risultati).
Crozier (1963) ha suggerito di osservare le relazioni di potere, vale a dire la possibilità di interferire sul comportamento di altri al di là degli ambiti di autorità previsti dall’organizzazione:in un’organizzazione perfettamente razionale questo potere residuo non potrebbe sussister perché il comportamento di tutti i membri sarebbe perfettamente previsto e visibile. Ma un’organizzazione del genere è impossibile perché non c’è mai un soluzione unica e perfetta per ogni problema:ogni incertezza nella regolamentazione di un ruolo organizzativo comporta l’esistenza di un certo potere discrezionale nelle mani chi svolge quel ruolo che può essere utilizzato per contrattare la propria partecipazione nell’organizzazione. Da un lato i privilegiati devono cercare di conservare le fonti di incertezza alla base del loro privilegio, mentre gli altri cercheranno di eliminare questi privilegi cercando di far sottomettere a maggiore controllo i ruoli. In questo caso la direzione deve gestire i conflitti, dando molta importanza ai problemi interni di salvaguardia dell’equilibrio tra le diverse parti dell’organizzazione a scapito anche della propria efficienza.
La burocrazia di Weber si basa su un principio fondamentale:la prevedibilità dei comportamenti ottenuta attraverso la loro standardizzazione; questo principio si scontra con due difficoltà come evidenziato anche dal modello di Crozier:

  • gli individui non si comportano come macchine, ma interagiscono con l’organizzazione mettendo in gioco anche propri fini in concorrenza con quelli dell’organizzazione
  • è possibile progettare uno schema di comportamenti standardizzati se i problemi che si devono affrontare sono semplici e senza grandi variazioni.

Nella teoria delle configurazione organizzative di Mintzberg (1983) lo schema interpretativo si basa sulle differenze nel modo in cui le diverse attività sono coordinate tra loro: per ottenere maggiore efficienza, il modo di coordinamento cambia a seconda delle dimensioni dell’organizzazione, del tipo di tecnologia impiegata, della prevedibilità dell’ambiente. Si hanno 5 configurazioni tipo:

    • struttura semplice dove il controllo è esercitato direttamente dal vertice che accentra tutte le funzioni di direzione (azienda artigiana)
    • burocrazia meccanica coordinata attraverso la standardizzazione ei compiti e la gerarchia (burocrazia di Weber che è efficiente se l’ambiente è stabile , se si produce in serie, con tecnologia che permette di standardizzare attività come la catena di montaggio)
    • burocrazia professionale coordina i dipendenti con un lungo tirocinio di formazione esterno all’organizzazione: una volta assunte, le persona hanno un’ampia discrezionalità nello svolgimento del loro lavoro, sono poco controllati (es. insegnanti di scuola)
    • struttura divisionale il coordinamento si ottiene fissando obiettivi generali e compatibili tr loro a settori con funzioni diverse (le divisioni) che sono poi indipendenti nelle loro scelte sul come raggiungere gli obiettivi.
    • adhocrazia: costituzione di gruppi di lavoro con compiti specifici formati da persone che lavorano insieme fidandosi delle rispettive competenze,senza vincoli di gerarchia e regole prefissate (gruppo di scienziati)

I tipi di Mintzberg mostrano forme diverse di organizzazione relativamente più efficienti a seconda dell’ambiente; non esiste un unico modo migliore (une best way) per progettare un’organizzazione a anche all’interno di un’organizzazione parti diverse tendono ad organizzarsi in modo diverso.

8 La razionalità organizzativa ed i suoi limiti
Punto di partenza è stata l’affermazione di Weber secondo cui l’organizzazione moderna – la burocrazia – è razionale; un’azione è razionale se chi agisce valuta razionalmente i mezzi rispetto agli scopi che si propone, considera gli scopi in rapporto alle conseguenze che potrebbero derivarne, paragona i diversi scopi possibili ed i loro rapporti.
Simon non contraddice in astratto l’idea di Weber, ma sostiene  che è necessario prendere sul serio l’affermazione che il comportamento reale non raggiunge praticamente mai la razionalità: è infatti impossibile avere in mente tutte le possibili alternative: la razionalità è sempre limitata e mira ad ottenere non i massimi risultati possibili in astratto, ma risultati soddisfacenti e lo fa semplificando la realtà in modelli che trascurano la catena delle cause e degli effetti oltre un certo orizzonte. Solo selezionando un numero ragionevole di alternative e preoccupandosi solo di un certo numero di conseguenze più dirette delle scelta, è possibile per un’organizzazione calcolare con sufficiente precisione i mezzi rispetto agli obiettivi.
Uno sviluppo del concetto di razionalità limitata è la distinzione tra:
razionalità sinottica quella che ha in mente Weber in astratto che consiste nel poter fare inizialmente delle scelte che tengano conto di tutti i dati rilevanti.
Razionalità incrementale sconta il caso normale dell’incertezza ambientale e si riferisce ad attori che non hanno all’inizio idee assolutamente chiare ed esattamente coincidenti; definiti alcuni obiettivi di massima, sono necessari aggiustamenti progressivi e di cambiare anche in corso d’opera gli obiettivi: quanto più l’ambiente è instabile, tanto più è necessaria una razionalità incrementale per poter ottenere dei risultati.
La razionalità limitata no lascia guardare troppo lontano, per cui diventa utile la distinzione concettuale di Mannheim (1893-1947) tra

  • Razionalità funzionale chi si adatta ad orini ricevuti eseguendoli senza errori, oppure a procedure ed obiettivi stabiliti senza discuterli
  • Razionalità sostanziale è quella di chi cerca di comprendere come diversi aspetti di una situazione siano collegati tra loroe valutano in base ai propri criteri di giudizio anche rispetto ad altre possibilità.

Cultura linguaggio e comunicazione (cap 4)

 

1 Il concetto di cultura e il problema delle origini del linguaggio
L’uomo sapiens sapiens è apparso in Europa circa 42.000 anni fa nel Paleolitico superiore e si distingue dalle altre specie per la capacità di produrre ed usare strumenti, il fuoco ed il linguaggio. I linguaggi umani presentano una varietà e complessità per cui gli studiosi si sono posti il problema se le tante lingue che si parlano ora sulla terra (circa 5.000) non derivino tutte da una stessa lingua originaria. Due sono le ipotesi opposte tra loro:

  • ipotesi monogenetica: lingue attuali sono prodotte per differenza da un’unica lingua
  • ipotesi poligenetica sostiene la pluralità dei ceppi linguistici originari.

In ogni caso le lingue attualmente parlata sono il risultato di un processo di differenziazione linguistica avvenuto nel corso degli ultimi millenni; l’evoluzione di una lingua è molto più rapida di quella genetica per cui basta che due popolazioni un tempo unite e parlanti la stesa lingua si separino e dopo anche meno di 1.000 anni non sono più in gradoni intendersi tra loro,L’ipotesi quindi di un’unica origine appare almeno plausibile.
Se sosteniamo come almeno plausibile l’ipotesi unitaria, si rafforza anche la tesi di coloro che sostengono che il linguaggio è innato nella specie umana. Chomsky (1968) le analogie strutturali che si riscontrano in tutte le lingue fanno ritenere che vi sia una grammatica universale innata, fatta di regole che permettono di collegare un numero limitato di fonemi; sulla base poi di questa sintassi sui svilupperebbero poi per differenziazione, le grammatiche delle singole lingue.

2 Le funzioni e le forme del linguaggio
Il linguaggio svolge sia una funzione cognitiva, sia una funzione comunicativa: pensare qualcosa vuol dire nominarla verbalmente o mentalmente, cioè stabilire un rapporto tra un significante ed un significato, classificare le cose, cioè stabilire tra loro rapporti di uguaglianza o diversità, vuol dire raggruppare i significanti.
Il linguaggio però non serve solo a pensare il mondo, ma anche a comunicare agli altri il nostro pensiero: per poter comunicare dobbiamo avere qualcosa da comunicare (idea, sentimento, ecc.) che abbiamo dovuto pensare prima e non possiamo pensare se non con gli strumenti che si sono forniti dal linguaggio. Perché abbia luogo un atto comunicativo devono essere presenti un emittente, un ricevente, un canale, un codice ed un messaggio. L’emittente deve tradurre quello che vuole comunicare un una serie di segni (scritto) o suoni (parlato) seguendo prescrizioni del codice del canale utilizzato e confezionare il messaggio; il ricevente deve utilizzare un codice analogo per decifrare il messaggio e questo codice deve essere condiviso tra emittente e ricevente.
Il concetto di condivisione del codice indica che:

  • il linguaggio è una convenzione sociale
  • che il linguaggio ha carattere normativo, cioè è formato da un insieme di norme (regole) che definiscono quali sono i modi ammissibili di confezionare messaggi che possono essere recepite con successo dal ricevente.

Ogni uomo in pratica nasce in un mondo già strutturato dal gruppo a cui appartengono i suoi genitori ed il linguaggio è una di queste istituzioni; il suo apprendimento avviene in modo naturale anche se questa predisposizione è una potenzialità che ha bisogno di essere attivata mediante il processo di socializzazione; l’acquisizione delle competenza linguistiche inizia molto presto e richiede un’assidua ,prolungata e costante interazione sociale,prima con la madre e poi con cerchie sempre più ampie di parlanti.

3 La variabilità dei linguaggi umani
Tutte le lingue presentano caratteristiche strutturali comuni; la loro diffusione è il prodotto di fattori storici che hanno messo in contatto popolazioni parlanti lingue diverse come conseguenza di movimenti migratori e di fenomeni di conquista e sottomissione. Si osservano fenomeni di contaminazione linguistica per cui nella lingua che avrà il sopravvento resteranno tracce consistenti della lingua caduta in disuso.
Ogni lingua è sottoposta a pressione sia per effetto dell’influenza esercitata dalle culture delle popolazioni con cui una popolazione entra in contatto,si per effetto della costante necessità di modificarsi per poter esprimere in modo adeguato le trasformazioni subite dalle comunità parlanti.
Molte di quelle che oggi chiamiamo dialetti un tempo erano delle vere e proprie lingue.
Le lingue sono fenomeni sociali dinamici che variano nello spazio e nel tempo: anche nello stesso momento e nella stessa popolazione, le lingue variano a seconda della collocazione dei parlanti nello spazio sociale.: vi sono differenze significative nei modi di esprimersi degli appartenenti alle diverse classi sociali (stratificazione sociale a cura del linguaggio): la ricchezza lessicale aumenta molto nettamente salendo la scala sociale, come varia la frequenza d’uso di forme grammaticali e sintattiche più elaborate. Le varie classi usano codici comunicativi diversi, acquisiti spontaneamente nell’interazione familiare nei primi stadi della socializzazione e riconducibili al contesto delle relazioni sociali connesse alla posizione occupata dalla famiglia nella divisione sociale del lavoro.
La scuola di fatto favorisce i bambini per i quali vi è congruenza tra codice comunicativo acquisito spontaneamente e codice comunicativo trasmesso dalla scuola stessa.
Qualsiasi forma di differenziazione sociale che porti alla formazione di gruppi, si riflette in altrettante varianti linguistiche: a d esempio il rapporto tra linguaggio e genere, cioè alla diversità dei linguaggi maschili e femminili; altra variante è tra linguaggio urbano e contadino, i varianti legate ai gruppi professionali (avvocati, medici che usano linguaggi tecnici per la sempre crescente specializzazione del sapere e e della conoscenza). Il modo migliore per monopolizzare qualche forma di sapere è di formularlo in un linguaggio inaccessibile ai più, anzi accessibile sonlo acoloro che sono stati opportunamente addestrati.

4 Tipi di linguaggio: privato,pubblico,orale e scritto
Il linguaggio oltre che a variare a seconda della collocazione sociale, varia anche in relazione alla situazione sociale in cui avviene la comunicazione: ognuno di noi cambia registro a seconda dell’interlocutore, del mezzo che utilizza e della specificità del contesto; la capacità di fare un uso flessibile del proprio repertorio adattandolo di volta in volta alla situazione comunicativa, dipende sia dalle competenza, sia dalla personalità del parlante.
Una prima distinzione è tra

  • linguaggio privato: la conversazione interpersonale è calata nella dimensione del qui ed ora e si fa molta attenzione ai segnali non verbali da parte degli interlocutori, ciò che conta è farsi capire dalle persone con cui si sta parlando.
  • linguaggio pubblico è molto più formale ed impersonale ed il grado di controllo sulla correttezza formale nella formulazione del messaggio è molto più accentato sia per le scelte lessicali, si le forme grammaticali e sintattiche.
  • Comunicazione in forma orale:si aggiungono elementi metacomunciativi che sono invece assenti nella comunicazione scritta, quali il tono della voce, il dosaggio delle pause ed il linguaggio non verbale.
  • Comunicazione in forma scritta: usa un registro assai più rigido del parlato (in passato la scrittura era prerogativa del ceto sacerdotale per cui mettere qualcosa per iscritto significava attribuirgli un significato rituale); la comunicazione scritta riflette, più di quella orale, la distanza sociale tra coloro che comunicano:quando scriviamo abbiamo il tempo per scegliere le parole e le espressioni adatte; nella comunicazione scritta mancano tutti quegli aspetti metacomunicativi tipici del linguaggio orale che aiutano gli interlocutori a capire meglio il significato del messaggio.

5 Linguaggio, comunicazione e interazione sociale
Il linguaggio è uno strumento estremamente flessibile per cui uno stesso messaggio può essere veicolato in modo molto diversi, pur nel rispetto delle regole e significati condivisi tra gli interlocutori (esempio frase di prof. Allo studente non preparato: ironia, burocratica, incoraggiante,autoritaria, scambio di ruoli, giudizio).
La stessa frase può inoltre assumere significati diversi a seconda del modo in cui viene pronunciata, della collocazione delle pause e dell’enfasi che viene posa su certe parlo piuttosto che su altre.
La comunicazione verbale segue sempre determinate regole che dipendono dal contesto in cui avviene l’interazione e dalla posizione sociale relativa degli interlocutori: in contesti altamente formalizzati vigono regole molto precise su chi ha il diritto di iniziare, interrompere, concludere l’interazione.
Si hanno situazioni asimmetriche (aula di tribunale in cui l’imputato parla solo se interrogato – oppure persona importante con sconosciuto) le regole della cortesia suggeriscono che chi è in posizione dominante abbassi il proprio status e/o innalzi quello dell’interlocutore, evitando di esagerare.
Il linguaggio utilizzato varia molto se si ritiene che colui al quale è rivolto si colloca in una posizione superiore, inferiore o alla pari.
Altro aspetto della comunicazione interpersonale è il turno di parola: quando qualcuno sta parlando, una norma di cortesia dice di non interromperlo e lasciargli almeno finire la frase; per ridurre le possibilità di essere interrotto, chi parla può adottare diverse strategie, dichiarando ad esempio che ha tre cose da dire, evitare di interrompersi; se seguono le regole della cortesia, chi vuole intervenire sarà molto attento ai segnali linguistici che indicano la conclusione di un intervento; chi parla può assumersi il potere di dare la parola, concludendo l’intervento con una domanda rivolta ad uno specifico interlocutore. D’altro canto chi vuole intervenire può mandare segnali (vocali o gestuali) per indicare la propria intenzione di prendere la parola.
L’analisi dell’interazione verbale all’interno di un gruppo, detta analisi conversazionale, è in grado di mettere in luce la struttura dei rapporti sociali tra i membri del gruppo, i rapporti di potere,l’esistenza di regole più o meno implicite, al loro violazione. In contesti informali le regole sono per lo più implicite e dipendono dalle buone maniere dei partecipanti, mentre in situazioni più formalizzate c’è in genere un presidente che dà e toglie la parola.

6 Le comunicazioni di massa
La comunicazioni di massa raggiunge per definizione in modo rapido e simultaneo una pluralità di individui che generalmente vivono in luoghi diversi distanti tra loro.
Le masse solo eccezionalmente possono diventare protagoniste e quando accade sono guidate da qualcuno che è in gradoni influenzarle: il concetto di massa si presenta in concomitanza da un lato con i grandi regimi totalitari del XX secolo (comunismo, nazismo) e dall’altro con l’avvento del mercato di massa di beni standardizzati di largo consumo.
In sociologia c’è orientamento critico verso la cultura di massa e dei mezzi di comunicazione che la veicolano: questi sono visti come strumenti di manipolazione in mano ad interessi economici e politici che se ne servono per fini di profitto, creando falsi bisogni, o di controllo politico creando un consenso fondato sulla passività. Per gli esponenti di questa scuola (teoria critica della società) Horkheimer, Adorno Marcuse) le società moderne sono inevitabilmente destinate all’appiattimento ed all’omologazione in quanto la società di massa è capace di assopire tensioni e conflitti.
Queste interpretazioni sono state criticate per la loro unilateralità in quanto non terrebbero conto che la massa è un’entità internamente differenziata: in primo luogo si è abbandonato il concetto di massa carico di connotati negativi per adottare quello neutro di pubblico: questo tipo di comunicazione è rivolto da parte di un numero ristretto di emittenti ad un numero molto vasto di riceventi che restano anonimi nella maggior parte dei casi. Nelle varie fasi attraverso cui passa (produzione, trasmissione, ricezione), il messaggio subisce tali e tanti processi di trasformazione da creare una situazione complessa in cui operano molteplici fattori di condizionamento.
Esempio settore informazione: sola una parte minima dei fatti cha accadono arrivano alle redazioni dei giornali perché qualcuno si è preoccupato di trasmetterli oppure perché i giornalisti sono andati a scovarli. In questa fase avviene una prima selezione; tra i fatti che arrivano in redazione solo alcuni risultano degni di essere trasmessi: i criteri di selezione possono essere molto diversi: interesse per qualche tipo di pubblico, rilevanti perché riguardano persone importanti,rilevanti perché a qualcuno di importante interessa che circolino date informazioni, ecc.
Una volta scelti i fatti da trasformare in notizia,inizi la fase vera e propria di confezione del messaggio:i fatti devono essere ricostruiti ricorrendo alle fonti più attendibili e scegliendo quegli aspetti che sembrano più rilevanti; una buona regola del giornalismo è quella di separare i fatti dalle interpretazioni. Alla fine di questa fase il messaggio è pronto per essere trasmesso. A questo punto inizia una serie di selezioni: ci sono infatti una pluralità di testate tra cui scegliere  ed il destinatario può scegliere a quale mezzo esporsi; inoltre il ricevente può troncare la comunicazione non comprando lo stesso giornale o cambiando canale. Infine l’attenzione durante la lettura o l’ascolto sono selettivi (non si legge tutto il giornale) e quello che viene letto/ascoltato subisce un processo di decodifica che può adottare criteri suggeriti o propri.
Da questo esempio si vede come la massa non è una spugna che assorbe l’intero flusso delle notizie propinate, ma un tessuto con trame molto differenziate che filtrano i messaggi in modi e misure diverse.

7.1 L’influenza dei media
La presenza di questi filtri selettivi ci dice che bisogna abbandonare l’idea che i messaggi dei media vengono ricevuti in modo uniforme da ogni individuo e quindi producono mediante un semplice meccanismo stimolo/risposta, degli effetti uniformi sul suo comportamento.
Per studiare quindi i media ed i loro effetti, bisogna coglierne le forni di variabilità: un modo efficace è quello di Lasswell (1948) secondo cui per descrivere e spiegare un atto comunicativo è necessario rispondere alle seguenti domande:

  • chi? (si riferisce all’emittente, un’organizzazione complessa che opera in un dato contesto, con una propria gerarchia e divisione dei compiti all’interno di cui si sviluppa un processo decisionale su che cosa, quando e come trasmettere)
  • Dice cosa? (riguarda i contenuto dei messaggi trasmessi)
  • Attraverso quale canale? (riguarda il tipo di mezzo utilizzato ed il tipo di linguaggio)
  • A chi? (riguarda la definizione dei destinatari e loro caratteristiche)
  • Con quale effetto? (le risposte comportamentali dei destinatari)

LA ricerca sociologica sulle comunicazioni di massa ha sfrontato tutte e 5 le domande, soffermandosi sulle ultime 2: gli effetti delle comunicazioni non variano soltanto a seconda della segmentazione del pubblico lungo le dimensioni socio-demografiche (età, sesso, classe sociale, livello istruzione, condizione professionale), ma anche a seconda delle reti di relazione in cui gli individui sono inseriti. In molti casi i messaggi non arrivano direttamente ai destinatari, ma arrivano mediante la mediazione di amici, parenti a cui viene attribuita maggiore o minore credibilità. Le comunicazioni quindi circolano attraverso reti sociali ed in questa circolazione i contenuti dei messaggi possono risultare rafforzati o indeboliti a seconda del tipo di rapporti tra le persone.
Katz e Lazarfeld (1955) parlano di un flusso di comunicazione a due stadi per indicare il fatto che tra emittente e ricevente vi è spesso un elemento intermedio costituito dalle relazioni di gruppo:le persone ben informate sono coloro che ricevono e trasmettono ad altri le informazioni, ma non le trasmettono così come le hanno ricevute, bensì integrandole con i loro schemi interpretativi. Ruolo degli opinon leader
Studio sugli effetti dei media esteso alla politica (regole per garantire a tutte le forze politiche parità di accesso all’uso della comunicazione televisiva) e alla pubblicità. Questa esercita influenza importante sulle decisioni di acquisto da parte dei consumatori; le decisioni di acquisto sono però processi complessi e l’esposizione ai messaggi dei media è solo uno dei fattori che le condizionano. I bisogni dei consumatori e le loro preferenze sono in certa misura manipolabili, ma l’operazione riesce solo se prima i prodotti sono stati adattati ai gusti dei consumatori. La pubblicità non è solo uno strumento di marketing, infatti gli introiti pubblicitari costituiscono un delle maggiori fonti di reddito per molti mezzi di comunicazione di massa.

7.2 La rivoluzione telematica
Due sono le grandi rivoluzione nella storia dei mezzi di comunicazione: il passaggio dall’oralità alla scrittura avvenuto circa 5.000 anni fa e l’invenzione della stampa circa 500 anni fa. La terza rivoluzione – odierna – è quella dei nuovi media, la rivoluzione telematica consiste nella creazione e diffusione di reti di calcolatori che dialogano tra loro. Internet offre a tutti gli utenti una gamma infinita di informazioni tra cui si è liberi di scegliere. Le caratteristiche fondamentali dei nuovi media sono l’accresciuta possibilità per l’utente di selezionare le informazioni cui vuole accedere,la possibilità non solo di ricevere, ma anche di inviare comunicazioni, la possibilità di combinare sia in entrata sia in uscita vari tipi di messaggi (testi suoni immagini), a cui si può aggiungere la virtualità, la possibilità di creare mondi artificiali con cui entrare in rapporto ed interagire.
Gli effetti di questa rivoluzione sono pervasivi e si insinuano in ogni ambito della quotidianità.
Telelavoro e teledemocrazia.


Controllo sociale, devianza e criminalità (cap 5)

 

1 Socializzazione e controllo sociale
In tutte le società viene fatto ogni sforzo per assicurare la conformità alle norme: si parla di controllo sociale per definire i metodi utilizzati per far in modo che i membri di un gruppo rispettino le norme e le aspettative di questo gruppo. Gli agenti del controllo sociale sono numerosi (madre, padre, sacerdote, vigile, magistrato, ecc.). In ogni società il controllo sociale si realizza attraverso due processi:

  • interno opera attraverso la socializzazione, processo attraverso cui ogni società per assicurare la propria continuità, cerca di strasmettere a coloro che vi entrano per la prima volta,la sua cultura, valori, norme atteggiamenti aspettative e conoscenze. Si distingue poi tra la:
  • socializzazione primaria che avviene nei primi anni di vita del bambino e che è rivolta alla formazioni delle competenze di base; la famiglia è la principale agenzia della socializzazione primaria
  • socializzazione secondaria che inizia quando una persona entra nella scuola e mira ala formazione delle competenze specifiche necessarie per lo svolgimento dei vari ruoli sociali. La scuola, le organizzazioni formali ed i mass media sono le agenzie della socializzazione secondaria.

La socializzazione è un mezzo di straordinaria efficacia per assicurare un buon grado di conformità alle norme, in quanto una persona non solo apprende il contenuto delle innumerevoli norme della società di cui fa parte, ma le interiorizza.

  • Esterno: se per qualche motivo il processo di socializzazione fallisce o non è sufficiente, entra in azione il processo esterno di controllo sociale con il ricorso alle punizioni ed alle ricompense.

2 Il concetto di devianza
Si definisce devianza ogni atto o comportamento anche solo verbale di una persona di un gruppo che viola le norme di una collettività e che di conseguenza va incontro a qualche forma di sanzione.
Poiché le risposte della collettività variano considerevolmente nello spazio e nel tempo,un atto può essere considerato deviante solo in riferimento al contesto socioculturale in cui ha luogo: un comportamento considerato deviante in un paese può essere accettato o addirittura considerato molto positivamente in un altro (più mogli OK, rispetto all’Italia in cui è un reato). Inoltre un comportamento deviante in una data situazione ma non in un’altra (sesso in casa o in piazza).
Questa concezione relativistica della devianza era già stata sostenuta da Pascal (1669): “nulla si vede di giusto o ingiusto che non muti qualità col mutar del clima”. Concezione ripresa dai teorici del positivismo che hanno sostenuto che non esistono mala in se, cioè azioni intrinsecamente cattiva e meritevoli di punizione, ma solo mala quia proibita, cioè atti che sono illeciti perché proibiti.: questa concezione relativistica non vale nella stessa misura per tutte le forme di devianza: infatti ci sono atti senza vittime (stupefacenti, azzardo, prostituzione) che sono stati percepiti in modo molto differente nel tempo e nello spazio, ma ci sono atti condannati in molte società ed epoche (incesto, furto, stupro, omicidio).
Viene definito reato un comportamento che viola una norma del codice penale che comporta una sanzione penale: la multa, l’arresto, la reclusione. Solo una piccola parte degli atti devianti costituisce un reato.

3 Lo studio della devianza
Notevoli sono i problemi che si hanno nello studio dei reati: i sociologi si basano spesso su statistiche giudiziarie, ma il numero dei reati ufficiali rappresenta solo una piccola parte di quelle effettivamente compiuti. Le ricerche condotte in molte paesi mostrano che per alcuni reati (omicidi, rapine, furti d’auto) vi è una coincidenza quasi completa tra quelli registrati e quelli effettivamente compiuti; il numero oscuro è invece assai elevato nel caso del taccheggio, abusi sessuali, ecc.
Perché un reato entri a far parte delle statistiche non basta infatti che sia stato commesso: è necessario anche che qualcuno se ne accorga e lo faccia sapere ad un organo del sistema penale.
Per i reati senza vittime (prostituzione, stupefacenti, azzardo) e per quelli contro l’intera collettività, la loro scoperta dipende dalla capacità della polizie di scoprire gli eventi ed i loro autori.
Per i reati che invece colpiscono una persona (scippo, furto in appartamento) le forze dell’ordine possono venirne a conoscenza solo grazie alla denuncia della vittima o di un testimone.
Infine si sporge molto più frequentemente denuncia se il reato è consumato, piuttosto che solo tentato.
Negli ultimi anni i ricercatori di vari paesi hanno ovviato al problema dei reati sommersi conducendo indagini periodiche per interviste su grandi campioni della popolazione (inchieste di vittimizzazione): i reati che si possono studiare con queste inchieste sono solo quelli di cui l’individuo ha conoscenza diretta.

4 Le teorie della criminalità
Da molto tempo ci si interroga sul perché alcune persone in date fasi della loro vita, compiono reati; si sono formulate molte teorie, ne analizziamo sei.

4.1 Le spiegazioni biologiche
Teorie che riconducono i comportamenti devianti alle caratteristiche fisiche e biologiche degli individui; mentre un tempo chi proponeva queste teorie era determinista, oggi si ritiene che la presenza di certi fattori biologici faccia solo aumentare la probabilità che una persona commetta dei reati.
Uno dei primi studiosi che ha dato una veste scientifica a questa tesi è stato Lombroso (1835-1909) che considerò la sostituzione fisica cometa maggior causa di criminalità, attribuendo particolare importanza al cranio.
Negli ultimi anni la teoria biologica stata ripresa e riformulata riconducendo la tendenza degli individui ad infrangere le norma ad alcune forme di anormalità genetica (sindrome XYY):gli esseri umani hanno normalmente 46 cromosomi, alcune persone ne hanno 47: se il cromosoma che hanno in più è un X ereditato dalla madre, non succede nulla di rilevante; se invece è un Y ereditato dal padre, allora è assai probabile che queste persone commettano reati di vario tipo.
Ad ogi la teoria biologica non ha trovato molte conferme dalle ricerche e non è riuscita ad affermarsi tra gli studiosi della criminalità.

4.2 La teoria della tensione
Durkheim pensava che date forme di devianza fossero in parte dovute all’anomia, cioè alla mancanza delle norme sociali che regolano e limitano i comportamenti individuali: quando questo avviene, non si sa più ciò che è possibile e ciò che non lo è.
Negli anni quaranta Merton ha ripreso e riadattato questa idea, sostenendo che la devianza provocata dalle situazioni di anomia che a loro volta nascono da una tensione tra la struttura culturale (definisce le mete verso cui tendere ed i mezzi con cui raggiungerle) e la struttura sociale (distribuzione effettiva delle opportunità necessarie per arrivare a tali mete con quei mezzi).
Questo contrasto si verifica nella società USA che prescrive a tutti il raggiungimento del successo economico (meta culturale) attraverso il lavoro, risparmio istruzione e onestà (mezzi approvati): di fatto le persone delle classi sociali svantaggiate non ci riescono per cui per adattarsi ai valori culturali proposti nel contrasto tra le mete ed i mezzi per raggiungerle, gli individui possono sceglier 5 diverse forme di comportamento:

  • conformità: accettazione sia delle mete culturali sia dei mezzi previsti per raggiungerle (unico comportamento non deviante)
  • innovazione: imbrogliare o ingannare gli altri aderendo alle mete, ma rifiutando i mezzi prescritti dalle norme
  • ritualismo abbandona le mete, ma resta attaccato alle norme sui mezzi (mi accontento di quello che ho, non faccio il passo più lungo delle gamba).
  • rinuncia sia ai fini sia ai mezzi: mendicanti, etilisti, ecc.
  • ribellione: rifiuto sia delle mete sia dei mezzi e della loro sostituzione con altre mete ed altri mezzi.

4.3 La teoria del controllo sociale
la teoria della tensione (paragrafo precedente) Si basa sul presupposto che l’individuo sia un animale morale che fa proprie le norme della società in cui vive e che è naturalmente portato a seguirle: si rispetta la legge perché ci si sente moralmente obbligati a farlo, per cui solo una forte pressione derivante dalla tensione tra struttura culturale e struttura sociale, può spingere un individuo a violare le norme.
La teoria del controllo sociale invece si basa su una concezione più pessimistica della natura umana, considerata moralmente debole:l’uomo è naturalmente portato più a violare che a rispettare le leggi, per cu ciò che occorre spiegare è la conformità più che la devianza (perché la maggior parte delle persone non commette reati?).
I controlli sociali che impediscono di violare le norme sono di vario tipo:

  • esterni varie forme di sorveglianza esercitata dagli altri per scoraggiare ed impedire i comportamenti devianti
  • interni diretti dati dai sentimenti di imbarazzo, colpa vergogna nel trasgredire
  • interni indiretti: attaccamento psicologico ed emotivo sentito per gli altri ed il desiderio di non perdere la loro stima ed affetto

4.4 La teoria della subcultura
Una persona commette un reato perché si è formata in una subcultura criminale che ha valori e norme diverse da quelli della società generale e che vengono trasmessi da una generazioni all’altra.
L’idea che la devianza si apprende dall’ambiente sociale in cui ci si forma e si vive è stata presentata per la prima volta nel 1929 da Shaw e McKay della scuola di Chicago: su quella città essi condussero un’importante ricerca calcolando il tasso di delinquenza, cioè il rapporto tra il numero degli autori di rato residenti in un’area ed il totale della popolazione di quell’area e videro che il valore di tale tasso diminuiva man mano che ci si allontanava dal centro della città abitato per lo più da immigrati e si passa ai quartieri degli operai ed a quelli residenziali dei ceti medi; essi scoprirono inoltre che dal 1900 al 1920 le differenze nel tasso di delinquenza tra i quartieri erano rimaste immutate, nonostante che la popolazione si fosse rinnovata e la composizione per gruppi etnici fosse profondamente cambiata. Per spiegare questo fenomeno essi sostennero allora che i alcuni quartieri vi erano norme e valori favorevoli a certe forme di devianza e questo patrimonio culturale veniva trasmesso ai nuovi arrivati nell’interazione che aveva luogo nei piccoli gruppi e nelle bande di ragazzi.
Questa teoria è stata ripresa ed articolata da Sutherland: il comportamento deviante non è ereditario né inventato dall’attore, ma appreso attraverso la comunicazione con altre persone. Il processo di apprendimento avviene di solito all’interno di piccoli gruppi e riguarda sia le motivazioni per commettere un reato, sia le tecniche per farlo.
Secondo Sutherland chi commette un reato lo fa perché si conforma alle aspettative del suo ambiente: ad essere deviante non è infatti l’individuo, ma il gruppo a cui egli appartiene; gli individui non violano le norme del proprio gruppo, ma solo quelle della società generale.

4.5 La teoria dell’etichettamento
Tutte le teorie che abbiamo finora ricordato concentrano la loro attenzione sul comportamento criminale e deviante e cercano di individuarne le cause (biologiche, psicologiche o sociali).
Diversa è l’impostazione della teoria dell’etichettamento: per capire la devianza è necessario tenere conto non solo della violazione, ma anche della creazione e dell’applicazione delle norme. Il reato e più in generale la devianza, non è altro che il ridotto dell’interazione tra coloro che creano e fanno applicare le norme e coloro che invece le infrangono.
Secondo i sostenitori di questa teoria, tra coloro che commettono atti devianti e gli altri non vi sono differenze profonde né dl punto di vista dei bisogni, né da quello dei valori: prova ne è il fatto che nella nostra società ad un altissimo numero di persone succede almeno una volta di violare una norma più o meno grave. Molto importante è la reazione sociale:un conto è commettere un atto deviante ed un conto suscitare una reazione sociale; in  questo secondo caso un individuo viene bollato con un marchio ed i suoi comportamenti passati vengono riesaminati e reinterpretati alla luce di quelli presenti e si comincia a pensare che si sia sempre comportato così.
Cruciale è la distinzione introdotta da Lemert tra

  • Devianza primaria: violazione delle norme che hanno agli occhi di colui che le compie un rilievo marginale e che vengono di conseguenza presto dimenticate: chi compie queste azioni non si considera un deviane, né viene percepito dagli altri come tale.
  • Devianza secondaria quando l’atto di una persona suscita una reazione di condanna da parte degli altri che lo considerano un deviante e questa persona riorganizza la sua identità ed i suoi comportamenti sulla base delle conseguenze prodotte dal suo atto. Ulteriori sue infrazioni delle norme provocheranno reazioni sociali sempre più forti che lo indurranno a proseguire la carriera di deviante.

4.6 La teoria della scelta razionale
Per le teorie sinora ricordate, una persona viola le norme perché è spinta a farlo da fattori biologici, psicologici o sociali.
I sostenitori della teoria razionale considerano invece i reati come il risultato non di influenze esterne, ma di un’azione intenzionale adottata attivamente dagli individui. Essi sono convinti che l’individuo sia un essere razionale che agisce seguendo i propri interessi e che è capace di scegliere liberamente se violare i meno una norma.
Se decide di compiere un reato è di solito perché si attende di ricavarne u beneficio maggiore di quelli che avrebbe investendo tempo e risorse in attività lecite. Coloro che si dedicano ad un’attività illecita non sono diversi dagli altri; i motivi che portano ad un’attività illecita sono gli stessi che spingono a quella lecita: la ricerca del guadagno, potere, prestigio, piacere.
Gli economisti hanno rielaborato questa teoria sostenendo che colui che trasgredisce la legge va incontro a vari tipi di costo:

  • esterni pubblici dati dalle sanzioni legali inflitte dallo stato e dalle conseguenze negative sulla reputazione sociale
  • esterni privati (costi di attaccamento) che derivano dalle sanzioni informali degli altri significativi
  • interni nascono dalla coscienza e dalle norme interiorizzate che fanno provare al trasgressore sensi di colpa e vergogna.

5 Forme di criminalità
Molti sono i reati previsti dai codici penali dei vari paesi e molti i modi che sono stati escogitati per compierli, ci occuperemo solo dei principali.

5.1 L’attività predatoria comune
Con attività predatoria comune ci si riferisce a quell’insieme di azioni illecite condotte con la forza o con l’inganno per impadronirsi dei beni mobili altrui, azioni che comportano un contatto fisico diretto tra almeno uno di coloro che compiono l’azione ed una persona o un oggetto: ne fanno quindi parte due grandi gruppi, i reati compiuti di nascosto e quelli commessi con la violenza.
Negli anni sessanta in tutti i paesi occidentali si è avuto un forte aumento di questi reati.
5.2 Gli omicidi
La più importante distinzione da fare è tra omicidio:

  • colposo non voluto dall’agente e che si verifica a causa delle negligenza, imprudenza, imperizia o inosservanza delle leggi, regolamenti,ordini.
  • doloso chi agisce con la volontà di uccidere.

Numerosi studi quantitativi hanno dimostrato che in Europa vi è stata una tendenza plurisecolare alla diminuzione del tasso di omicidio; questo processo è iniziato nel 1600 ed è continuato quasi ininterrottamente fin al 1960/70; tale processo è avvenuto con ritmi diversi nei vari paesi europei.
IN questa tendenza vi sono però forti oscillazioni: in Italia ad esempio alla fine della prima guerra mondiale questo tasso è fortemente aumentato raggiungendo nel 1922 un valore doppio di quello del periodo prebellico; un’oscillazione ancora più marcata si è avuta nel 1945-47. Nel periodo seguente alle guerre del nostro secolo vi è stato un aumento degli omicidi nei paesi che vi hanno partecipato.
La teoria che appare maggiormente in grado di spiegare la tendenza secolare alla diminuzione degli omicidi è quella del processo di civilizzazione proposta da Elias (1897 -1994): nel medioevo la vita quotidiana era caratterizzata da sopruso e violenza ed in Europa c’era una pluralità di sovrani in lotta tra loro; la situazione iniziò a cambiare quando un potere territoriale più forte trionfò su quelli più deboli e si instaurò il monopolio delle violenza legale da parte dello stato: essendo riservata a corpi specializzati, la violenza venne esclusa dalla vita degli altri e si formarono zone pacificate in cui si poterono sviluppare le “buone maniere”.
Dei bruschi aumenti di omicidi che si verificano dopo il periodi postbellici, sono state fornite almeno tre spiegazioni
disorganizzazione sociale tipica di questi periodi
fattori di natura economica quali la scarsità di beni e la disoccupazione
legittimazione della violenza fornita dal governo durante la guerra: lo stato in guerra oltre ad ordinare ai cittadini di uccidere i soldati nemici, presenta queste azioni non some una deplorevole necessità, ma come un comportamento meritorio o eroico; questa spiegazione è quella che ha trovato maggiore sostegno nei risultati delle ricerche condotte.

5.3 I reati dei colletti bianchi
I sociologi chiamano reati dei colletti bianchi molti dei reati scoperti dalla magistratura tipo tangentopoli, mentre tradizionalmente i criminologi avevano concentrato il loro interesse solo sulle violazioni delle norme penali ritenute tipiche delle classi inferiori. Sutherland rimette in discussione questa impostazione, richiamando l’attenzione sui reati dei colletti bianchi., commessi cioè da una persona rispettabile e di elevata condizione sociale nel corso della sua attività professionale. In questa categoria rientrano due diversi gruppi di reati:

  • i reati nell’occupazione commessi da individui nello svolgimento del loro lavoro per ricavarne un vantaggio personale; ne fanno parte l’appropriazione indebita (appropriazione di denaro o cose altrui di cui si ha il possesso), l’insider trading (speculazione sui titoli di una società da chi dispone di informazioni riservate), la corruzione (di un pubblico ufficiale che in cambio di una somma di denaro compie un atto contrario ai doveri d’ufficio)e la concussione (quando un pubblico ufficiale abusando dei suoi poteri, indice qualcuno a dare indebitamente denaro a lui o ad altra persona).
  • i reati di organizzazione compiuti in nome e per conto di un’organizzazione pubblica o privata. Ne fanno parte le frodi di vario tipo commesse da aziende private o pubbliche quando riportano fatti non rispondenti al vero sulla costituzione e/o sulle condizioni economiche della società stessa.

5.4 La criminalità organizzata
Con criminalità organizzata molti studiosi intendono un insieme di imprese che forniscono beni e servizi illeciti e che si infiltrano nelle attività economiche lecite. L’infiltrazione nelle attività legittime avviene costringendo con la forza le imprese ad azioni che altrimenti non compirebbero. (esempio mafioso che si è arricchito fornendo beni e servizi illeciti e che entra nel mercato legale diventando un imprenditore di merci la cui produzione e vendita è consentita dalla legge). Le imprese criminali hanno carattere polivalente mirando sia all’acquisizione di profitti finanziari, sia del potere politico e sono in gradoni spostarsi dal settore economico a quello politico; devono inoltre disporre di un apparato militare in grado di eliminare i nemici.

6 Gli autori dei reati e le loro caratteristiche
Per capire perché ogni giorno in tutto il mondo vengono commessi reati, i sociologi hanno studiato le caratteristiche sociodemografiche di chi li compie, concentrando la loro attenzione sulla classe di appartenenza e più recentemente sull’analisi dell’età e del genere.

6.1 La classe sociale
L’idea che vi sia una relazione inversa tra la classe sociale e la disponibilità a commettere reati è stata a lungo condivisa dai sostenitori di teorie diverse come quella della tensione, della subcultura e dell’etichettamento. Negli ultimi anni molti studiosi hanno sostenuto invece che tra classe sociale e criminalità non vi è alcuna relazione o è molto debole.
In Italia le ricerche hanno mostrato che la relazione tra classe sociale e tendenza a violare una norma è tanto più forte quanto più grave è il reato (rapine commesse soprattutto da classi sociali più svantaggiate, i furti più lievi compiuti dagli appartenenti a tutte le classi)

6.2 Il genere
Il genere è una della variabili più importanti per predire la criminalità:in tutti i paesi del mondo è più probabile che sia un maschio piuttosto che una femmina a violare una norma penale, ma vi sono importanti differenza a seconda del tipo di reato. Quando questo è più grave, tanto più è facile che a compierlo sia un uomo e dunque tanto maggiori sono le differenze di genere.

6.3 L’età
Quetelet (1796-1874) sostenne di essere riuscito a ricavare dai suoi dati una vera e propria legge di sviluppo della tendenza al crimine: questa cresce molto più rapidamente verso l’età adulta, raggiunge un massimo ed in seguito decresce lentamente fino agli ultimi anni di vita.
Per molti reati la relazione individuata da Quetelet non è molto diversa da quella esistenze oggi: le curve dei tassi di età dei condannati per furto e rapina sono assai simili, entrambe salgono molto rapidamente durante la preadolescenza e l’adolescenza, raggiungono il punto più alto dopo la maggiore età scendono dopo.
Diverso è l’andamento della curva dei condannati per emissione di assegni a vuoto perché raggiunge un picco molto più tardi e una volta raggiunto il punto più alto non scende tanto rapidamente.

7 Devianza e sanzioni
In ogni società la conformità alle norme viene mantenuta attraverso l’uso o la minaccia di sanzioni che possono essere negative,positive, formali, informali,severe o lievi.
Sono dette formali quelle comminate da gruppi o organi specializzati a cui è stato affidato il compito di assicurare il rispetto delle norme
Informali sono invece quelle spontanee o poco organizzate provenienti dai familiari,amici,colleghi di lavoro,vicini.
La severità delle sanzioni dipende tra l’altro dalla gravità dell’infrazione commessa (infrangere norme di buona educazione è diverso da infrangere la legge)
Se una persona viola il diritto penale si dice che commette un reato, se invece non rispetta le altre leggi si parla di illecito civile o amministrativo. Per il reato è prevista una pena, cioè una sanzione che può limitare la libertà personale dell’individuo; nel caso degli altri illeciti giuridici, la sanzione incide prevalentemente sul patrimonio di chi li ha commessi.

Grandi differenze ci sono state tra le varie società riguardo al tipo di sanzioni usati dai trasgressori delle norme: in alcune comunità vigeva il sistema della faida, cioè della vendetta da parte della vittima del reato o della sua famiglia nei confronti del reo.
Nel diritto romano si è seguito il principio del taglione.
Grandi mutamenti sono avvenuti nel corso del tempo: il numero dei mezzi per uccidere un condannato si è ridotto ed in molti paesi la pena di morte è stata abrogata.
Di origine molto più recente è il carcere come strumento per colpire i trasgressori introdotto in Europa nella seconda metà del settecento e affermato nel 1800; prima di allora non esisteva se non come luogo per custodire i colpevoli in attesa di giudizio. La privazione della libertà personale è diventata da allora in tutto ilmondo la più importante pena contro i trasgressori delle leggi penali.


La religione (cap 6)

 

1         UNA PREMESSA DI METODO
Gli uomini organizzati in società sviluppano credenze e istituzioni e mettono in atto comportamenti che chiamano religiosi; le religioni che conservano forti componenti magiche hanno più probabilità di diffondersi in società contadine.
Il sociologo che si occupa di religione dovrebbe essere in grado di evitare che il suo ruolo di credente interferisca con il suo ruolo di studioso, anche se una separazione assoluta non è possibile né auspicabile: l’importante è mantenere una certa distanza dall’oggetto di studio.

2         SACRO E PROFANO
La religione in forme elementari o complesse è un fenomeno universale delle società umane, per cui è necessario riflettere sul perché dell’universalità del fenomeno: non tutti gli uomini sono religiosi,ma non esistono società umane che non abbiano sviluppato una qualche forma di religione.

La religione è una credenza o un insieme di credenze relative all’esistenza di una realtà ultrasensibile, ultraterrena e sovrannaturale.

  • è una credenza in quanto è un giudizio su una realtà che si fonda su un atto di fede, per cui la certezza dell’esistenza di Dio è raggiunta essenzialmente attraverso un atto di fede e non mediante un’operazione conoscitiva,
  • riguarda l’esistenza di una realtà al di là di ciò che è percepibile con i sensi e accumulabile come conoscenza empirica: l’uomo riconosce che al di là del mondo che gli è familiare ed accessibile, c’è un mondo misterioso; per l’uomo primitivo dietro i fenomeni naturali ci devono essere delle forze oscure. Le credenze religiose postulano l’esistenza di una sfera della realtà trascendente rispetto alla sfera della realtà percepibile: la stessa idea che l’uomo ha di sé è di un’entità che va oltre ciò che immediatamente percepibile:questa capacità consente all’uomo di concepire l’esistenza di una realtà trascendente.

Nella magia che possiamo considerare una forma primitiva di religione, il mondo ultrasensibile è popolato da spiriti la cui volontà può essere influenzata dagli uomini mediante pratiche rituali propiziatorie (danza della pioggia); la stessa funzione hanno i doni e/o i sacrifici offerti alle divinità per accattivarsi la loro benevolenza o placare la loro ira.

La magia si differenzia dalla religione per il diverso rapporto che si instaura tra sacro e profano:

  • nella magia le pratiche rituali messe in atto da specialisti chiamati maghi, servono ad influenzare gli spiriti e le forze occulte che si ritiene stiano dietro le cose ed i fenomeni al fine di produrre effetti pratici nella vita terrena.
  • Nella religione il fine è quello di consentire agli uomini di elevarsi al di sopra e al di là della loro esistenza terrena e di accedere alla sfera del sacro attraverso pratiche ascetiche o attraverso una condotta esemplare che verrà ricompensata nella vita ultraterrena.

3         L’ESPERIENZA RELIGIOSA
E’ importante chiedersi come e perché gli esseri umani sviluppano la credenza dell’esistenza del sacro, riflettendo su due esperienze tipiche della condizione umana:

  • esperienza del limite: gli esseri umani sanno di dover morire; l’idea stessa di limite è inconcepibile senza l’idea opposta di assenza di limite: da un lato ci sono le cose mortali e dall’altro quelle immortali. Viene quindi spontaneo domandarsi che senso ha la vita al di là delle esperienze immediate di tutti i giorni? Le religioni in genere aiutano a dare una risposta a questo interrogativo e quindi a mantenere l’angoscia entro limiti tollerabili per il semplice fatto che postulano l’esistenza di un altro mondo che non conosce questi limiti. Inoltre gli uomini vivono nella consapevolezza di essere in balia di forze più grandi di loro che sfuggono in gran parte al loro controllo, per cui esiste un divario incolmabile tra ciò che un uomo vuole e ciò che realmente può fare.
  • esperienza del caso: nella vita pratica di tutti i giorni possiamo fare affidamento sul sapere accumulato dall’umanità nel corso dei millenni, anche se le nostre spiegazioni rimangono parziali e provvisorie, non essendo in grado di risalire alle cause ultime. Il divenire ci riserva di continuo sorprese, eventi rispetto ai quali la nostra capacità di previsione è limitata: ci rendiamo conto che il caos ed il disordine dominano parte della realtà in cui si svolge la nostra esistenza. La consapevolezza del limite posto alla capacità di conoscere, rende possibile concepire un ente onnisciente a cui ricondurre in modo unitario l’ordine delle cose naturali ed umane. Il disordine trova una sua collocazione e giustificazione in un ordine che rimane misterioso, ma di cui la mente umana è in grado di postulare l’esistenza.

Vi è inoltre un altro aspetto intrinsecamente legato all’esperienza religiosa: il problema dell’ordine morale: sia nella vita di tutti i giorni sia in momenti cruciali, gli esseri umani sono posti di fronte alla necessità di scegliere; molte scelte vengono fatte in base a criteri utilitaristici, mentre in altri casi alla base ci sono dei codici morali che consentono di distinguere tra ciò che è bene e ciò che è male; di fatto nella storia dell’umanità i codici morali hanno quasi sempre trovato nella religione il loro fondamento.
Ogni comandamento diventa tanto più vincolante se colui al quale è destinato è animato dalla credenza che non sia qualche autorità terrena, ma un potere sovrannaturale a prescrivergli come deve comportarsi.
Le religioni soddisfano quindi sia bisogni degli individui, sia bisogni delle collettività.

4         TIPI DI RELIGIONE
Ci sono molti criteri in base a cui è possibile classificare le religioni da un punto di vista sociologico

Un primo criterio riguarda la natura delle credenze intorno al mondo e all’aldilà:

  • vi sono religioni che postulano semplicemente l’esistenza di forze sovrannaturali impersonali che influenzano positivamente o negativamente le vicende umane (totemismo per cui i credenti riconoscono in un oggetto (animale o pianta) l’antenato comune che ha dato origine al loro clan.
  • Altre religioni chiamate animistiche credono che dietro gli uomini ed i fenomeni vi siano degli spiriti che intervengono attivamente influenzandone il comportamento; altre religioni credono nella presenza delle anime dei morti. Tutte queste religioni contengono forti elementi di magia e riguardano in genere società semplici: l’estrema variabilità di queste credenze dipende proprio dal fatto che si tratta di piccole società che vivono isolate le une dalle altre, sviluppando culti locali.
  • Le grandi religioni universali che unificano mediante credenze comuni, masse enormi di uomini spesso appartenenti ad una pluralità di società; tra queste si collocano sia le religioni monoteiste, sia politeiste in cui la divinità è oggetto di adorazione da parte dei fedeli che riconoscono in essa tutti gli attributi di cui sono privi (perfezione, onnipotenza, onniscienza).
  • Nelle religioni politeiste il mondo degli dei è anch’esso differenziato e gerarchizzato: c’è un Dio superiore (es Giove nella mitologia greca classica) la cui superiorità non è garantita, ma deve essere continuamente riaffermata; in queste religioni gli dei vengono concepiti come eternamente in  lotta tra loro ed in concorrenza per la devozione da parte degli uomini; anche agli dei vengono attribuiti sentimenti ed aspirazioni quasi umane per cui tra i due mondi – divino ed umano – vi sono analogie e corrispondenze. Assai spesso le singole divinità presiedono alle varie attività umane: c’è il dio della semina e del raccolto, della guerra, ecc. Tra le grandi religioni del mondo attuale, l’induismo è quella che più si avvicina al modello di una religione politeistica.
  • Nelle religioni monoteistiche (ebraismo cristianesimo ed islamismo) l’eterogeneità tra divino ed umano raggiunge invece il grado più elevato: Dio è unico, onnipotente, creatore di tutte le cose,la causa prima e l’origine di tutte le cose. Anche in queste religioni tuttavia il carattere unitario della divinità può essere più o meno accentuato: nel cristianesimo il dogma della Trinità afferma che Dio è uno e trino e nella variante cattolica accanto al culto della divinità ci sono altri culti (Madonna e santi).
  • Vi sono poi religioni tipo il buddismo, che non postulano l’esistenza di vere e proprie divinità collocate nell’aldilà, ma di una sfera dove regna quiete ed armonia verso la quale è possibile elevarsi mediante la contemplazione; queste religioni sono anche dette cosmocentriche fondate cioè sulla credenza di un’armonia universale ultraterrena, contrapposte alle religioni teocentriche fondate invece sulla credenza di un aldilà dominato dalla presenza della divinità.

Ci sono anche altri criteri in base a cui classificare le religioni da un punto di vista sociologico: secondo Weber (1920) altri due criteri sono rilevanti:

  • il tipo di promessa e di premio che viene riservato ai fedeli: si hanno religioni la cui promessa consiste nella possibilità di raggiungere uno stato di beatitudine e di pienezza durante la vita o, come l’induismo, mediante successive incarnazioni, oppure religioni che promettono il riscatto e la redenzione delle pene terrene soltanto nell’aldilà.
  • tipo di metodica di comportamento che garantisce la salvezza: ci sono religioni che prescrivono pratiche mistiche e contemplative di distacco dal mondo, poiché solo staccandosi dalla corruttibilità e caducità delle cose terrene, l’uomo può essere in grado di ricevere la grazia. Altre religioni invece prescrivono una condotta ascetica di vita al di fuori oppure all’interno del mondo: in questo caso c’è un atteggiamento attivo in cui l’uomo si fa strumento della volontà divina.

5         MOVIMENTI ED ISTITUZIONI RELIGIOSE
Anche nelle religioni delle società più semplici compare quasi sempre una figura (mago, stregone, sacerdote) che si pone su un piano diverso da quello del resto dei credenti ed a cui è affidato professionalmente il compito di fare da intermediario tra gli uomini e le potenze sovrannaturali.
Si ha una forma di divisione del lavoro: data l’importanza sociale della funzione svolta, il ministro del culto è esonerato dal provvedere direttamente ai suoi bisogni materiali e vive per lo più delle offerte dei fedeli.

La storia delle religioni può essere scritta come storia delle organizzazioni religiose: ci si soffermerà solo su alcune forme tipiche più rilevanti nell’ambito della tradizione giudaico-cristiana

  • MOVIMENTO RELIGIOSO: è la forma più fluida di organizzazione religiosa alla cui origine vi è quasi sempre una profezia ed un profeta che rivela agli uomini la parola e la volontà di Dio: il profeta è quindi uno strumento mediante il quale di fa sentire la sua voce agli uomini. Intorno al profeta si raccoglie un seguito, una comunità di fedeli che crede nelle virtù eccezionali del proprio capo. Un movimento religioso nasce e si diffonde perché i suoi membri passano attraverso un’esperienza fondamentale, l’esperienza della conversione che rappresenta una svolta nella vita di un individuo: dalla conversione nasce infatti un uomo nuovo che ha abbandonato le credenze precedenti. Il movimento religioso è una forma di organizzazione incentrata sul rapporto carismatico tra il capo ed i suoi seguaci e proprio per questo è una forma instabile, legata alla natura personale del vincolo che unisce il capo religioso ai suoi seguaci.

Per poter sopravvivere alle persone che gli hanno dato vita, un movimento religioso deve affrontare una serie di problemi: successione del capo, diffusione della fede, definizione di regole di organizzazione slegate dalle persone, trasmissione del credo a nuove generazioni. Il problema della successione è forse il più difficile in quanto la fedeltà e fiducia che i seguaci riponevano nel loro capo, devono essere trasferite ai successori e perché ciò avvenga il rapporto deve diventare impersonale:non è più la persona del capo che deve generare fedeltà, ma le sue idee e la sua dottrina di cui i suoi successori devono diventare interpreti fedeli. Il gruppo poi deve essere in grado di allargarsi dalla prima ristretta cerchia di seguaci per cui è necessario diventare predicatori per provocare in altri la stessa esperienza di conversione. E’ inoltre necessario che si formi un’organizzazione permanente, con incontri periodici e che si stabilisca una gerarchia capace di tenere le fila di una gruppo più ampio; infine è necessario trasmettere il proprio credo anche alle generazioni future.

  • Quanto sopra porta alla formazione di una CHIESA attraverso un processo di istituzionalizzazione delle credenze e delle pratiche religiose che devono venir sistematizzate e consolidate in una dottrina e codificate in un testo scritto. In quasi tutte le religioni vi sono dei testi sacri in cui sono fissate le credenze e le prescrizioni di condotta fondamentali, la cui interpretazione autentica è demandata ad un gruppo di specialisti (teologi). Le pratiche rituali costituiscono la liturgia a cui presiede un corpo di specialisti (clero) organizzato in un ordine gerarchico.

Mentre un movimento religioso si sviluppa sempre in un rapporto di tensione con le idee ed i poteri dominanti del mondo esterno, una chiesa per poter sussistere, deve trovare una qualche forma di accomodamento con il contesto economico, sociale e politico in cui opera: una chiesa infatti deve reperire ed amministrare risorse economiche assicurandosi che i propri ministri possano celebrare liberamente il culto.
Chiesa e Stato sono due istituzioni che avanzano pretese di fedeltà da parte della stessa massa di persone che in un caso si presentano come fedeli e nell’altro come sudditi: il rapporto tra chiesa e stato può quindi svilupparsi in termini di aperto conflitto oppure di sostegno reciproco. Non è infrequente che nell’ambito di una chiesa si sviluppino movimenti religiosi che si oppongono in modo latente o manifesto all’ordinamento religioso rappresentato dalla gerarchia ecclesiastica: questi movimenti possono condurre a fratture scismatiche che portano alla separazione dalla chiesa ed alla creazione di nuove chiese separate. La storia della chiesa cattolica è costellata dalla comparsa di movimenti religiosi dichiarati eretici e quindi duramente combattuti.

  • Non sempre però la risposta della chiesa alla comparsa di movimenti religiosi è stata una risposta repressiva: gli ORDINI MONASTICI, pur contenendo una forte carica critica nei confronti dell’ortodossia ufficiale, non sono stati combattuti, ma è stata riconosciuta la loro legittimità nell’ambito di una struttura ecclesiastica più differenziata e flessibile
  • L’esito di un movimento religioso può anche spesso sfociare in una SETTA che si differenzia dalla chiesa perché a questa si appartiene per nascita, mentre l’appartenenza ad una setta presuppone un atto di adesione individuale. La setta è una comunità religiosa tendenzialmente chiusa tra i cui membri si stabiliscono legami forti di fratellanza e fiducia: per i membri conta di più la qualità e la forza della convinzione che non l’espansione quantitativa del gruppo; i nuovi adepti infatti devono dare soprattutto prova dell’autenticità delle loro fede prima di essere accolti.
  • Anche le sette passano attraverso un processo di istituzionalizzazione e si trasformano in DENOMINAZIONI a cui si appartiene, come per le chiese, per nascita.

La differenza sostanziale tra chiesa e denominazione: la chiesa tende ad essere l’organizzazione dominante nell’ambito di singole società, le denominazioni invece rispecchiano una situazione di pluralismo religioso: il caso tipico degli USA dove un numero assai elevato di chiese e di denominazioni convivono le une accanto alle altre in un rapporto di moderata concorrenza ed in un clima di tolleranza.

Mai una guerra è esclusivamente di religione: infatti interessi politici, economici, sociali o miliari si intrecciano e si nascondono dietro gli interessi religiosi.

6         RELIGIONE E STRUTTURA SOCIALE
La religione è parte della società e ne riflette le caratteristiche e viene influenzata dalle sue dinamiche e a sua volta le influenza. L’esperienza religiosa nasce dal bisogno di dare un senso al mondo ed alla propria esistenza; questo bisogno è diverso a seconda della posizione che un individuo o un gruppo occupa nella società: i potenti ed i ricchi hanno necessità di dar un senso al mondo ed alla loro esistenza che giustifichi ai loro occhi ed agli occhi degli altri la loro posizione di dominio. E’ innegabile che i poteri costituiti ricevano un formidabile sostegno quando la loro posizione è sanzionata dall’autorità religiosa; le religioni quando diventano religioni ufficiali di uno stato o di un regime politico, hanno spesso svolto la funzione di legittimazione del potere.
Le religioni profetiche, tra cui il cristianesimo, annunciano in genere il riscatto degli umili e degli oppressi per cui il messaggio religioso contiene un messaggio sovversivo che difficilmente può essere ben accolto dai potenti.
In alcune società (tipo USA), la confessione religiosa diventa uno degli aspetti mediante cui si definisce l’identità sociale e la coesione di un gruppo: alle varie chiese e denominazioni corrispondono gruppi sociali ben definiti a seconda della loro collocazione sociale ed origine etnica.
La chiesa cattolica è un buon esempio di organizzazione differenziata e flessibile: le sue organizzazioni periferiche sono prossime alla realtà sociali del quartiere e riflettono quindi la cultura locale dei fedeli e spesso vi è inoltre omogeneità sociale tra i rappresentanti del clero ed i fedeli in una parrocchia.

7         IL PROCESSO DI SECOLARIZZAZIONE
Il posto della religione nelle società europee attuali risulta ridotto rispetto al passato per il processo di secolarizzazione; alle origini di questo processo vi sono le stesse religioni che come il cristianesimo, collocano il sacro ed il divino su un piano trascendente, in una sfera diversa rispetto al mondo ed alle cose terrene e ciò consente di sviluppare un orientamento laico nei confronti della realtà terrena. Una religione razionalizzata è però solo una precondizione del processo di secolarizzazione: per molti secoli la vita sociale e politica è rimasta intrisa di elementi religiosi: uomini e donne comuni scandivano le attività quotidiane con momenti di preghiera; non solo i momenti salienti della vita (nascita, matrimoni, morti) erano segnati da cerimonie religiose, ma anche quando ci si metteva a tavola si rivolgeva una preghiera di ringraziamento a Dio. Oggi queste pratiche sono diventate meno frequenti anche se  livello europeo c’è una grande variabilità.
Coloro che frequentano regolarmente una chiesa sono meno numerosi di un tempo e le stesse festività religiose tendono ad assumere sempre più connotati mondani.

  • Altro esempio illuminante del processo di secolarizzazione lo si trova nel significato del lavoro: nella tradizione ebraico-cristiana il lavoro era visto come una pena ed una fatica, mentre nella concezione protestante c’è la valorizzazione del lavoro come strumento di realizzazione della volontà divina; oggi gli uomini lavorano per guadagnarsi da vivere o per autorealizzarsi.
  • Anche la sfera della attività ed istituzione politiche si è resa con il tempo autonoma dalla religione: prima i re venivano incoronati dal papa e la nomina dei vescovi doveva ottenere il consenso politico. Oggi in molti stati vige il principio di libera chiesa in libero stato e la religiosità tende sempre più a diventare una questione privata dei credenti; non così nell’ambito dell’islam dove vi è ancora una forte compenetrazione tra religione e politica.
  • Lo sviluppo della scienza ha alimentato l’idea illuministica che la ragione e la scienza avrebbero alla fine svelato tutti i misteri dell’universo o relegato la religione nell’ambito della superstizione. Oggi non c’è una fiducia assoluta nella scienza e nei suoi poteri e sembra che scienza e religione convivano pacificamente
  • In certe fasi della storia le religioni sono state sostituite da altre fedi (marxismo) che hanno dato luogo alla formazione di sette, movimenti, partiti, ecc.

Al declino della religione di chiesa, corrisponde la diffusione di forme di religiosità individuali e comunitarie: non sembra che il processo di secolarizzazione sia lineare ed irreversibile rispetto al processo di modernizzazione: la società nord americana infatti pur essendo la più moderna, è senz’altro meno secolarizzata rispetto alle società europee.

8         LE INTERPRETAZIONI SOCIOLOGICHE DELLA RELIGIONE
Le principali interpretazioni sociologiche della religione si possono raggruppare in cinque tipi:

  • interpretazioni in chiave evoluzionista della sociologia positiva dell’ottocento: la religione occupa uno stadio primitivo nell’evoluzione delle società umane. Per Comte (1830-42) la religione domina il primo stadio dove gli uomini sono ancora preda di una concezione che vede le divinità come entità con caratteristiche simili a quelle umane, ma potenziate al massimo grado, cui segue uno stadio metafisico per giungere ad uno stadio positivo dell’epoca moderna.

Anche per Spencer (1820-1903) la religione è un fenomeno che compare nelle società più arcaiche definite come militari in quanto vige un rigido spirito gerarchico; nella società industriale che succede a quella militare, vige invece un principio democratico fondato sulle capacità e prestazioni individuali per cui si riduce di molo l’esigenza di credenze e norme religiose. L’idea comune dei vari studiosi è che la religione è destinata ad essere sostituita dalla scienza come criterio fondamentale di orientamento delle azioni e della società umana.

  • la religione come ideologia delle classi dominanti anche questa corrente risale al pensiero degli illuministi per i quali la religione è un fenomeno che oscura le menti ed impedisce di vedere la luce della ragione.

Per Voltaire la religione da un lato inganna i poveri facendo accettare supinamente la loro condizione, ma inganna anche i ricchi ai cui la chiesa estorce elemosine promettendo perdono per i loro peccati.
Per Marx la storia è storia di lotta di classe e la religione, spostando all’aldilà il momento del riscatto dalle sofferenze terrene, ostacola il processo mediante cui gli oppressi prendono coscienza dei rapporti sociali di dominio di cui sono vittime. La religione è l’oppio dei popoli, la cui funzione sarebbe esclusivamente quella di occultare i rapporti di dominio, anche se questa funzione non è sufficiente a spiegare la presenza e la persistenza del fenomeno religioso nelle società umane.

  • per l’interpretazione funzionalistica la religione svolge una funzione sociale fondamentale in ogni tipo di società: non è possibile pensare alla società se non ad un’unità le cui varie parti sono tenute insieme da una qualche credenza comune. La religione svolge questa fondamentale funzione di integrazione; se nelle società moderne la religione sembra in declino, è perché altre forme hanno peso il suo posto, come il culto per la patria.

Durkheim studiando i culti aborigeni australiani ha voluto dimostrare come nella religione i membri di una società vogliano rappresentare su un piano trascendente, il vincolo che li unisce: ogni atto di culto diventa occasione per ribadire e rafforzare l’identità collettiva ed il sentimento di appartenenza.

  • la religione come fattore di mutamento: risale principalmente a Weber che non vede la religione come un fenomeno esclusivamente dipendente dai rapporti di dominio (Marx) o dalle esigenze di integrazione della società (Durkheim), ma come un fenomeno dotato di una sua autonomia specifica: in particolare le religioni profetiche (ebraismo, cristianesimo, protestantesimo, islamismo) si sono sviluppate in forte tensione con il mondo circostante  e sono state un fattore di rottura della tradizione e di mutamento sociale.
  • la concezione fenomenologica: l’elemento costitutivo ed universale delle religione è l’esperienza del sacro; si pone l’accento sulla relazione tra il soggetto credente e l’oggetto di venerazione che si colloca su un piano trascendente rispetto alla realtà terrena. Il sacro è circondato da un’aurea di mistero e di inaccessibilità che produce un’emozione profonda, infatti in ogni esperienza religiosa è sempre presente una componente emozionale.

Stratificazione, classi sociali e mobilità (cap 7)

La stratificazione sociale è il sistema di disuguaglianze strutturali di una società nei due suoi principali aspetti:

  • distributivo riguardante l’ammontare delle ricompense materiali e simboliche ottenute dagli individui
  • relazionale ha a che fare con i rapporti di potere esistenti tra gli individui.

Si definisce perciò strato un insieme di individui che godono della stessa quantità di risorse (ricchezza prestigio) o che occupano la stessa posizione nei rapporti di potere.

1         UNIVERSALITA’ DELLA STRATIFICAZIONE SOCIALE
Anche nelle società più semplici esistono disuguaglianze strutturate basate sul genere o sull’età: gli uomini hanno più prestigio e potere delle donne, le persone anziane più di quelle giovani.
Ci sono tuttavia delle società che pur presentando queste disuguaglianze di genere ed età, sono tendenzialmente egualitarie dal punto di vista delle risorse materiali e simboliche di cui dispongono le famiglie: nelle società di caccia o di raccolta, ogni famiglia condivide con tute le altre il cibo disponibile, mentre ciascun adulto si fabbrica gli strumenti di lavoro di cui ha bisogno e questi restano in suo possesso finché li adopera.

Due sono i motivi principali della natura egualitaria delle società di caccia e raccolta:

  • nomadismo che ostacola l’accumulazione di grandi quantità di risorse
  • principio della reciprocità che porta a condividere con gli altri le scarse risorse disponibili e che consente di massimizzare le possibilità di sopravvivenza; infatti un una società priva delle tecniche per la conservazione del cibo, a chi uccide un animale di grandi dimensioni, conviene darne parte agli altri nella speranza che essi si comportino allo stesso modo in futuro.

Il sociologo americano Lenski ha tentato di individuare le condizioni che favoriscono le disuguaglianze sociali, mettendo a confronto società diverse lungo l’arco di tempo della storia umana: le società industriali hanno un grado di disuguaglianza maggiore di quelle di caccia e raccolta, ma minore di quelle agricole che le hanno precedute.
La forma a campana della curva della disuguaglianza dipende da due diversi fattori:

  • a parità di altre condizioni, le disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza crescono all’aumentare del surplus: è infatti necessario che si superi la fase dell’economia di sussistenza. Con l’avvento delle società agricole si ebbe un forte aumento della produttività iniziando a produrre un surplus economico, ovvero una quantità di risorse superiore a quelle necessarie a mantenere in vita i produttori diretti e le loro famiglie.
  • La disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza cresce anche al crescere della concentrazione del potere politico che ha anche essa una forma a campana la cui concentrazione raggiunge il massimo nelle società agricole e diminuisce in quelle industriali; questo perché le società agricole presentano un considerevole surplus economico di cui si appropria quasi esclusivamente l’aristocrazia militare. Se nella società industriale la distribuzione della ricchezza diventa più equa è perché si verifica una rivoluzione politica che attribuisce maggior potere ad una parte consistente della popolazione.

 

 

 

2         TEORIE DELLA STRATIFICAZIONE
I problemi della stratificazione hanno sempre avuto un posto di particolare rilievo; di seguito sono ricordate le più importanti teorie formulate dai sociologi

2.1 La teoria funzionalista della stratificazione sociale.
Il padre spirituale è Durkheim, ma la teoria funzionalista è stata formulata in modo articolato e rigoroso dopo la seconda guerra mondiale : i sostenitori di questa teoria hanno cercato di spiegare non le variazioni nel tempo e nello spazio della stratificazione sociale (come ha fatto invece Lenski), ma le sue caratteristiche universali: Davis e Moore (1945) hanno sostenuto che la stratificazione è un’esigenza sentita da ogni società di collocare e motivare gli individui nella struttura sociale; l’esistenza delle disuguaglianze sociali è un fatto non solo inevitabile, ma anche necessario al buon funzionamento della società.

Le argomentazioni principali dei funzionalisti sono sintetizzate in quattro punti:

  • in ogni società non tutte le posizioni e mansioni hanno la stessa importanza funzionale, ma alcune sono più importanti di altre e richiedono capacità speciali.
  • in ogni società il numero di persone dotate di quelle capacità è limitato e scarso.
  • la conversione delle capacità in competenze implica un periodo di addestramento in cui vengono sostenuti dei sacrifici di varie natura (spese per istruzione)
  • per indurre le persone capaci a sottoporsi a questi sacrifici, è necessario dar loro delle ricompense materiali e morali.

2.2 Le teorie del conflitto
I teorici del conflitto negano che la stratificazione sociale svolga una funzione vitale indispensabile per la sopravvivenza del sistema sociale; ritengono invece che le disuguaglianze esistano perché i gruppi sociali che se ne avvantaggiano sono in grado di difenderle dagli attacchi degli altri in un conflitto continuo.
Esistono due impostazioni diverse,

  • una che si richiama a Marx: il concetto di classe sociale fece la sua comparsa nel 1848 con Marx (oppressori ed oppressi sono sempre stati in reciproco contrasto).Marx però non ha lasciato né una trattazione organica né una definizione formale del concetto di classe sociale. La base delle classi è nella sfera economica, ma ciò non significa che le differenze di classe vadano ricercate nel livello di reddito e che tutto si riduca alla contrapposizione tra ricchi e poveri. L’asse portante delle classi è nei rapporti di produzione e nelle relazioni di proprietà: un piccolo numero di persone ha la proprietà dei mezzi di produzione(terra, macchine, fabbriche, materie prime), mentre la grande maggioranza della popolazione ne è esclusa.

Forma di produzione e proprietà sono variante nel corso dei secoli: antica Roma la produzione basata sugli schiavi, nella società antica la produzione basata sulla proprietà della terra e degli strumenti di lavoro, nella società borghese la forma più importante di proprietà è costituita dal capitale.
Secondo la teoria di Marx, le classi sono dei raggruppamenti omogenei di persone che hanno lo stesso livello di istruzione, lo stesso livello di consumo, le stesse abitudini sociali, gli stessi valori e le stesse credenze, la stessa concezione di vita e del mondo.
Le classi però erano degli attori sociali solo potenzialmente: egli infatti distingueva tra:

    • classe in sé: un insieme di individui che si trovano nella stessa posizione rispetto alla proprietà dei mezzi di produzione
    • classe per sé: quando gli individui prendevano coscienza di avere degli interessi comuni e di appartenere alla stessa classe.
  • la seconda che fa capo a Weber che ha elaborato una teoria della stratificazione sociale a più dimensioni. Le fonti della disuguaglianza per Weber non sono in una sfera(come per Marx), ma in tre diverse sfere:
    • economica per cui gli individui si uniscono sulla base di interessi materiali comuni
    • culturale per cui gli individui si uniscono sulla base di interessi ideali e dando origine a ceti (vedi dopo)
    • politica per cui gli individui si uniscono in partiti o gruppi di potere per il controllo della società.

Se per Marx il criterio di fondo dell’appartenenza ad una classe era la proprietà o meno dei mezzi di produzione, per Weber era la situazione di mercato.
I mercati erano tre:

      1. mercato del lavoro in cui si contrapponeva la classe operaia e gli imprenditori
      2. mercato del credito con contrapposizione tra debitori e creditori
      3. mercato delle merci contrapposizione tra consumatori e venditori

Weber nell’ambito della sfera economica distingue tra

        • Classi possidenti privilegiate in senso positivo costituite da redditieri che ricavano il loro reddito da schiavi, terre, impianti di lavori, ecc.
        • Classi possidenti privilegiate in senso negativo formate da coloro che no possiedono nulla
        • Classi acquisitive privilegiate in senso positivo composte da imprenditori e professionisti
        • Classi acquisitive privilegiate in senso negativo in cui rientrano i lavoratori.

Nella sfera delle cultura ci sono invece i ceti, costituiti da comunità di persone con uno stesso stile di vita ed un forte senso di appartenenza; ci si sposa e si siede a tavola preferibilmente o esclusivamente solo con persone dello stesso ceto.

Tra distribuzione della ricchezza e quella del prestigio vi è una relazione, anche se non sempre vi è una coincidenza tra la distribuzione delle risorse economiche e quelle del prestigio: i nuovi ricchi venivano disprezzati e derisi dai nobili, mentre nella società capitalistica il rapporto tra ricchezza e prestigio è cambiato in quanto il mercato ignora ogni considerazione della persona.
Per migliorare la loro situazione i ceti seguono la strategia della chiusura sociale, restringendo cioè gli accessi alle risorse ed alle opportunità ad uno strato limitato di persone dotate di certi requisiti.

Secondo Lenski (9154) esiste una concezione pluridimensionale della stratificazione sociale: in ogni società vi è una pluralità di gerarchie (di reddito, di potere, di istruzione, di prestigio) e ciascun individuo occupa una posizione in ognuna di queste gerarchie:

  • si ha equilibrio di status quando una persona si trova in ranghi equivalenti nelle diverse gerarchie (industriale con laurea e master, ricco e con forte influenza politica, oppure bracciante, analfabeta, disoccupato che sopravvive con assistenza sociale)
  • si ha squilibrio si status invece quando un individuo non si trova alla stesso livello in tutte le gerarchie (posizione alta in una gerarchia e bassa in altra come il nobile decaduto o industriale analfabeta).

Perché si abbia squilibrio di status non è sufficiente una differenza nelle posizioni occupate, ma è necessario anche che questa sia in contrasto con le aspettative della società (esempio campione di calcio ricco, ma basso livello istruzione non è in situazione di squilibrio di status perché nessun nella nostra società si attende un atleta colto).

3         LE CLASSI NELLE SOCIETA’ MODERNE
La società moderna è caratterizzata dall’uguaglianza di diritto di tutti i suoi membri, anche se di fatto poi i cittadini non sono affatto uguali ed esistono differenze sociali durature.

Di seguito verranno analizzati i due schemi di classificazione maggiormente usati in sociologia:

  • il primo schema è stato proposto da Sylos Labini ed è basato sul tipo di reddito percepito da un individuo: ci sono 3 grandi categorie di reddito:
    1. la rendita dei proprietari fondiari
    2. profitto dei capitalisti
    3. salario degli operai

Oltre a queste tre vi sono altre importanti categorie di reddito

    1. i redditi misti da lavoro e da capitale tipici dei lavoratori autonomi
    2. gi stipendi degli impiegati
    3. i redditi di coloro che hanno occupazioni precarie e saltuarie

Sulla base di queste categorie di reddito Sylos Labini ha distinto 5 grandi classi sociali:

  • borghesia formata da proprietari di grandi fondi, imprenditori, alti dirigenti e professionisti
  • piccola borghesia relativamente autonoma composta da lavoratori autonomi dei 3 principali settori di attività:coltivatori diretti, artigiani e commercianti (redditi misti)
  • classe media impiegatizia
  • classe operaia
  • sottoproletariato composto da coloro che restano per lunghi periodi di tempo fuori dalla sfera produttiva perché disoccupati
  • il secondo schema di classificazione utilizzato da molti studiosi europei è stato proposto dal sociologo Goldthorpe e si base su due criteri:

 

  • la situazione di lavoro relativa alla posizione nella gerarchia organizzativa assunta dagli individui in quanto occupanti una data posizione occupazionale. In base alle relazioni di lavoro, gli occupati possono essere distinti in tre grandi categorie:
      • imprenditori cha acquistano il lavoro altrui ed esercitano controllo ed autorità su di esso
      • i lavoratori autonomi senza dipendenti che non usano il lavoro altrui, né vendono il proprio
      • lavoratori dipendenti che vendono il proprio lavoro
  • la situazione di mercato indica il complesso di vantaggi e svantaggi materiali e simbolici di cui godono i titolari dei vari ruoli lavorativi.

Tenendo conto delle 3 grandi classi (imprenditori, lavoratori autonomi e dipendenti), nonché della situazione di mercato e del settore di attività economica,si giunge ad uno schema a 7 classi:

  • Classe I formata da grandi imprenditori,professionisti e alti dirigenti che svolgono occupazione ad alto reddito, sicura con forti possibilità di carriera e che comporta l’esercizio di autorità. Hanno notevole autonomia di decisione.
  • Classe II formata da professionisti e dirigenti di livello inferiore
  • Classe III costituita da impiegati di livello superiore e addetti vendita
  • Classe IV piccola borghesia urbana (artigiani e commercianti) e agricola: godono di notevole autonomia nel lavoro ed è presente forte eterogeneità e livello di reddito
  • Classe V tecnici di livello più basso con livello di reddito abbastanza  buono e discreta sicurezza d’impiego,ma con modeste possibilità di carriera
  • Classe VI operai specializzati
  • Classe VII operai non qualificati

Tra i due schemi presentati ci sono notevoli somiglianze: alla borghesia di Sylos Labini corrisponde classe 1 e parte della classe 2; alla classe media impiegatizia, corrisponde la classe3; alla piccola borghesia urbana la classe 4; alla classe operaia le classi 5 6 7. Goldthorpe non prevede il sottoproletariato.

4         Proletarizzazione, deproletarizzazione e sviluppo della classe media impiegatizia
Spostamento della popolazione attiva dall’agricoltura all’industria e poi da questa al terziario ed ai servizi, il processo di industrializzazione ha determinato il declino delle classi dei braccianti e dei coltivatori proprietari, facendo nascere la classe operaia di fabbrica: le dimensioni del proletariato industriale sono gradualmente aumentate fino a diventare la quota più ampia della popolazione. D’un tratto però questa tendenza ha subito un’inversione di tendenza ed il peso quantitativo di questa classe ha cominciato a diminuire ed ha iniziato a svilupparsi il settore dei servizi.
Questi processi sono avvenuti in tutti i paesi occidentali ma in tempi diversi, iniziando prima in GB ed in altri paesi dell’Europa settentrionale.
Diverso è stato l’andamento della classe media impiegatizia: di dimensioni minuscole alla fine dell’ottocento ha avuto in tutti i paesi occidentali un rapido e continuo sviluppo riconducibile a molti fattori: la crescente divisione del lavoro, l’estendersi delle funzioni dello stato,lo sviluppo del sistema scolastico e del welfare state.
Né gli operai né gli impiegati possiedono i mezzi di produzione e per vivere entrambi devono vendere la loro forza lavoro sul mercato, ma la loro condizione di lavoro è diversa: i colletti blu hanno rapporti con le cose e necessitano di un periodo di addestramento, mentre i colletti bianchi hanno rapporti con le persone ed i simboli che richiedono un buon livello di qualificazione.
Negli ultimi anni queste differenze nelle condizioni di lavoro sono diminuite.
Altri importanti mutamenti nella stratificazione sociale hanno a che fare con i processi di proletarizzazione: passaggio dalla piccola borghesia (condizione di lavoro autonomo proprietario dei mezzi di produzione) a quella di lavoratore salariato, dipendente da un imprenditore. Tale processo è diverso dalla pauperizzazione cioè dalla caduta del livello di vita al di sotto della sussistenza.
I processi di proletarizzazione hanno avuto luogo molte volte nel 19 e 20 secolo e hanno riguardato la popolazione agricola o gli artigiani che hanno perso il controllo della bottega diventando operai.
Non sono mancati anche processi di de-proletarizzazione di passaggio cioè dalla condizione di bracciante o operaio a quella di lavoratore autonomo.

4.1 La borghesia ed il proletariato nei servizi
Ormai da molti anni nei paesi occidentali, la maggioranza della popolazione attiva è occupata nel settore dei servizi e si va accentuando la tendenza alla divaricazione sociale: da un lato i dirigenti e professionisti che fanno parte della borghesia per Sylos Labini e Classe 1 per Goldthope, dall’altro persone che svolgono lavori a bassissimo livello di qualificazione, i cosiddetti Macjobs (lavor tipo McDonald’s). L’aumento di questi posti di lavoro a bassa qualificazione non è avvenuto in ugual misura in tutti i paesi e nei tre settori dei servizi: è stato maggior nei servizi al consumatore, mentre non si è verificato affatto nei servizi alle imprese (consulenza manageriale, servizi legali, commerciali e finanziari)

 

4.2 La sottoclasse
Gli schemi di classificazione illustrati per analizzare i mutamenti nella stratificazione sociale prendono in considerazione solo le persone occupate; solo la classificazione di Sylos Labini considera il sottoproletariato, costituito in gran parte da disoccupati.
Alcuni sociologi hanno osservato che in USA ed Europa occidentale si è formata una nuova classe definita sottoclasse costituita da persone che si trovano in uno stato permanente di povertà e che non essendo in grado di procurarsi da vivere con attività economica legale, dipendono dall’assistenza pubblica.
Esistono due concezioni riguardo alle caratteristiche di fondo della sottoclasse:

  • culturalista per cui la sottoclasse è costituita da tre gruppi: ragazze madri, persone espulse dalla forza lavoro e delinquenti.

Secondo i sostenitori di questa tesi donne di colore con basso livello di istruzione non si sposano per non perdere il diritto al sostegno economico; analogamente i giovani americani di colore non cercano lavoro è perché quello dequalificato che riuscirebbero a trovare non darebbe loro un reddito maggiore di quello che ricevono dall’assistenza pubblica. Ben lungi dall’aiutare la popolazione povera a darsi da fare epr uscire dal suo stato, le riforme sociali hanno favorito il formarsi nella sottoclasse di atteggiamenti  di rassegnazione, demoralizzazione e cinismo.

  • Strutturalista: la sottoclasse è il frutto non della dipendenza dal welfare state, ma di una debolezza di fondo dell’economia; il problema della povertà è quello della mancanza di posti di lavoro che diano un reddito sufficiente per vivere.

5         L’IMPORTANZA DELLE CLASSI SOCIALI
Per alcuni sociologi il concetto di classe sociale può essere utile anche per l’analisi delle società contemporanee, pur essendo consapevoli dei grandi cambiamenti avvenuto negli ultimi decenni; secondo questi studiosi la classe sociale resta un criterio significativo di strutturazione delle disuguaglianze e che anche oggi l’appartenenza ad una classe sociale influisca su molti aspetti della vita di un individuo.
Verranno analizzati nei prossimi due sottoparagrafi i mutamenti nella distribuzione delle risorse economiche e la relazione esistente tra appartenenza ad una classe sociale e durata della vita.

5.1 La distribuzione dei redditi
Se la divisione in classi avesse perso gran parte della sua importanza, non vi sarebbe una forte disuguaglianza nella distribuzione delle risorse economiche.
E’ importante distinguere tra 

  • Reddito: è quello che gli individui ricavano dalle più varie fonti: salari, profitti e rendite.
  • Patrimonio è costituito da tutti i beni mobili ed immobili posseduti dagli individui

Le ricerche riguardano di solito più il reddito: uno dei metodi utilizzati per misurare le disuguaglianze nella distribuzione delle risorse economiche consiste nel calcolo del coefficiente di Gini su una scala che va da 0 (perfetta uguaglianza) a 10 (massima disuguaglianza).
Ad esempio negli USA negli anni 90, il 20% delle famigli e a maggior reddito ne riceveva 11volte di più del 20% delle famiglie a minor redito. La disuguaglianza è maggiore nella distribuzione del patrimonio che in quella del reddito.
Il grado di disuguaglianza nella distribuzione del reddito varia nello spazio: dal confronto tra 12 paesi sviluppati è emerso che il Giappone è quello con la distribuzione più egualitaria, mentre quello con la maggiore differenza sono gli USA; l’Italia ha un grado di disuguaglianza al di sopra della media europea.

 

 

5.2 La durata della vita
Alcune ricerche condotte in GB negli anni 20 e 30 mostrarono che c’era una relazione inversa tra classe sociale di appartenenza e tasso di mortalità: I mutamenti intervenuto da allora farebbero pensare che questa relazione sia scomparsa.

  • In effetti c’è stato n notevole miglioramento nelle condizioni abitative e nell’alimentazione di tutti gli strati della popolazione dei paesi occidentali
  • Le malattie infettive non uccidono più come un tempo
  • L’estendersi del welfare state, l’assistenza sanitaria è stata generalizzata a tutti

Le numerose ricerche svolte negli ultimi anni hanno invece dimostrato che la relazione tra classe sociale e durata della vita è ancora oggi molto forte: gli operai hanno una probabilità di morte quasi doppia rispetto agli impiegati.
Alter ricerche mostrano che negli ultimi decenni le differenze tra classi sociali nella durata della vita, ben lungi dal ridursi, o sono rimaste costanti o sono addirittura aumentate.
Non è quindi possibile attribuire alla malnutrizione la minor durata della vita delle persone delle classi sociali più basse, ma devono essere considerate altre variabili:

  • le condizioni di lavoro e di vita: le persone delle classi sociali più basse muoiono prima perché passano il tempo in ambienti più nocivi in cui è più facile che avvengano incidenti.
  • Lo stile di vita: quanto più bassa è la classe sociale di appartenenza, tanto più è probabile che una persona abbia abitudini dannose per la salute, fumi,beva alcun mangi troppo e sia obeso.
  • Minor accesso ai servizi sanitari di alta qualità per le persone con basso reddito.

6         LA MOBILITA’ SOCIALE
Si definisce mobilità sociale ogni passaggio di un individuo da uno strato, un ceto, una classe sociale ad un altro.
A questo proposito si può distinguere tra:

  • mobilità orizzontale e verticale
  • mobilità ascendente e discendente,
  • mobilità intergerazionale e intragenerazionale
  • mobilità di breve e di lungo raggio,
  • mobilità assoluta e relativa
  • mobilità individuale e di gruppo.

Per mobilità sociale orizzontale si intende il passaggio di un individuo d una posizione sociale ad un'altra dello stesso livello (famiglia origine artigiani, lavoro del figlio impiegato).
Mobilità sociale verticale per indicare lo spostamento ad una posizione più alta (ascendente) o più bassa (discendente) nel sistema di stratificazione sociale. Esempio figlio operaio che si laurea e fa il dirigente (ascendente); figlio di imprenditori che non è in grado di studiare e fa il commesso i supermarket (discendente): entrambi gli esempi sono inoltre esempi di mobilità a lungo raggio avvenuta cioè tra strati o classi molto lontane tra loro.
Quando invece gli strati o classi sono contigue, si parla di mobilità a breve raggio.
Mobilità sociale intergenerazionale quando si mettono a confronto la posizione della famiglia di origine di un individuo con quella che egli ha raggiunto in un determinato momento della sua vita.
Il confronto può essere fatto anche tra le posizioni che una persona ha occupato nel corso della sua esistenza e viene definita mobilità intragenerazionale o di carriera.
La mobilità assoluta è data dal numero complessivo di persone che si spostano da una classe all’altra
Per mobilità relativa si intende il grado di eguaglianza delle possibilità di mobilità dei membri delle varie classi.: in una società vi è completa uguaglianza nelle chance di mobilità quando la classe di origine degli individui non esercita alcuna influenza sui loro destini sociale e tutti hanno le stesse possibilità di salire o di scendere lungo la scala della stratificazione
Mobilità sociale collettiva si intendono i movimenti verso l’alto o verso il basso non di una persona (mobilità individuale), ma di un intero gruppo rispetto a tutti gli altri gruppi sociali.

7         LA MOBILITA’ SOCIALE ASSOLUTA IN ITALIA
Negli ultimi decenni in Italia c’è stata una forte mobilità assoluta grazie all’espansione della classe media impiegatizia e alla contrazione di quella agricola.
Tabella su cui sia sulle colonne sia sulle rughe ci sono le classi sociali delle persone occupate: coloro che si trovano sulla diagonale sono gli immobili, mentre gli altri hanno sperimentato una qualche forma di mobilità sociale , ascendente o discendente (59% del totale);per molti di questi si è trattato di una mobilità a breve raggio, tra classi contigue.

8         TENDENZE NEI PAESI OCCIDENTALI
Grazie a molti studi, siamo in grado di confrontare l’andamento della mobilità assoluta in Italia con altri nove paesi occidentali: una prima importante differenza è data dal fatto che il processo di industrializzazione ha avuto tempi e ritmi assai diversi; si possono distinguere tre gruppi

  • Industrializzazione precoce GB, Galles e Scozia in cui la percentuale di occupati fuori dal settore agricolo ha raggiunto il 90% già all’inizio del novecento.
  • Industrializzazione successiva: Francia, Germania, Irlanda del Nord e Svezia
  • Industrializzazione tardiva: Ungheria Repubblica d’Irlanda sono rimasti paesi agricoli fino alla seconda guerra mondiale.
  • L’Italia occupa una posizione intermedia tra i paesi del secondo e del terzo gruppo.

Le curve relative al tasso di mobilità intergenerazionale sono in netto contrasto con la teoria liberale dell’industrialismo secondo cui il tasso di mobilità sociale continua ad aumentare parallelamente allo sviluppo economico di queste società. Le curve infatti mostrano che né in GB, F e D la percentuale degli uomini che fanno parte di una classe sociale diversa da quella del padre, sale passando dalle generazioni più vecchie a quelle più giovani:in quasi tutti i Paesi gli uomini che sono entrati nel mondo del lavoro dopo la seconda guerra mondiale non sono vissuti in società più mobili degli uomini che sono entrati nel mondo del lavoro nel 1920.
Dunque la teoria che trova maggior conferma riguardo alla mobilità assoluta è quella di Sorokin per cui non vi è alcuna tendenza costante al suo aumento o alla sua diminuzione.

La mobilità relativa
Una quota molto alta di coloro che vivono in Europa e USA fa parte di una classe sociale diversa da quella del padre: nei paesi occidentali vi è un forte mobilità assoluta intergenerazionale, ma ciò non significa che la società sia aperta o fluida.
Tutte le ricerche mostrano che il regime di mobilità relativa di queste nazioni è viscoso e che vi sono forti disuguaglianze nelle chance di mobilità tra persone provenienti da diverse classi. Se in questi paesi il tasso di mobilità assoluta è alto dipende dalle trasformazioni avvenute nella struttura occupazionale che ha fatto sì che un numero rilevante di persone passasse da una classe ad una diversa.
Una ricerca condotta in Italia ha dimostrato che negli ultimi 40 anni la fluidità sociale non ha subito cambiamenti:l’influenza che la classe di origine esercita su quella di arrivo è rimasta immutata.
La mobilità relativa dei paesi sviluppati è se non identica per lo meno simile negli ultimi venti anni: le differenze di fluidità sociale tra le varie nazioni sono in parte dovute alla loro specifica storia ed in parte riconducibili agli sforzi fatti dai governi per cercare di rendere più fluida la società.
Ipotesi di Featherman, Jones e Hauser: vi è una somiglianza di fondo in merito alla fluidità sociale tra tutti i paesi con un economia di mercato ed un sistema familiare nucleare, quando non sia stato utilizzato il potere dello stato per modificare i processi attraverso cui le disuguaglianze di classe sono prodotte e riprodotte da una generazione all’altra.


Razze, etnie e nazioni (cap 9)

1         IL CONCETTO DI RAZZA
Se classifichiamo gli esseri umani in base ad un certo numero di caratteristiche somatiche (colore pelle, forma cranio, degli occhi, tipo di capigliatura) classifichiamo in razze la specie umana.
La razza è un insieme di esseri umani che condividono alcune caratteristiche somatiche.
I tratti che vengono presi in considerazione per la classificazione delle razze sono caratteristiche ereditate non acquisite dall’individuo nel corso della sua esistenza e che non è possibile modificare.
Dal punto di vista sociologico il concetto assume rilevanza in quanto le differenze somatiche sono state assunte negli ultimi due secoli per significare altre differenze di ordine morale, intellettuale e comportamentale non riconducibili a differenze biologiche e quindi per giustificare forme di disuguaglianza, oppressione e dominio.

2         IL RAZZISMO: DOTTRINE ATTEGGIAMENTI E COMPORTAMENTI
Verso l’inizio del 19 secolo iniziano a circolare dottrine che attribuiscono alla razza tratti del carattere e del comportamento che nulla hanno a che vedere con le differenze somatiche; queste dottrine si fondano su una serie di credenze:

  • che vi si una corrispondenza tra caratteristiche somatiche e tratti mentali e morali e che quindi anche questi ultimi siano trasmessi per via ereditaria.
  • Che vi sia una gerarchia naturale tra le razze e che questo giustifichi il dominio e lo sfruttamento da parte delle razze che si autodefiniscono come superiori rispetto alle razze definite inferiori.

La tendenza ad attribuire alla natura il fondamento delle differenze e delle disuguaglianze sociali non è nuova nella storia dell’uomo (gli schiavi specie intermedia tra l’uomo e gli animali) e ha il suo fondamento nel fatto che non si può mettere in discussone ciò che dipende dalla natura, ma si deve necessariamente riconoscerlo come dato di fatto. Le dottrine della razza si fondano su un forte determinismo biologico in base al quale il comportamento di individui gruppi o civiltà risulta determinato dall’appartenenza razziale.
Già molti sociologi tra cui Weber e Durkheim avevano sostenuto più di un secolo fa che queste dottrine non si fondano su alcun solido sapere scientifico.
Recentemente alcuni studiosi hanno riproposto teorie per spiegare le differenze di potenziale intellettuale tra bianchi e neri: gli studi sul quoziente di intelligenza (QI) in popolazioni appartenenti a razze diverse hanno tentato di provare l’esistenza di differenze mentali e comportamentali associate alle differenze somatiche. In primo luogo non si sa ancora bene cosa sia l’intelligenza e soprattutto che cosa misurino i test di intelligenza: probabilmente misurano le capacità di risolvere i problemi che, per la posizione sociale privilegiata, sono più familiari alla maggioranza delle popolazione bianca; inoltre il QI dipende dall’efficacia dei processi di allevamento, apprendimento ed istruzione che dipendono a loro volta dall’ambiente sociale di crescita (es: due semi della stessa pianta uno piantato in terreno fertile e ben curato, l’altro in terreno arido e lasciato a se stesso avremo una pianta rigogliosa in un caso e un arbusto fragile nell’altro).
Altre ricerche hanno confrontato i coefficienti di correlazione tra i QI di fratelli gemelli mono ed eterozigoti, notando che i monozigoti hanno una correlazione più alta.
Popolazioni che vivono geograficamente isolate ed i cui membri si accoppiano esclusivamente tra di loro tendono a diventare anche geneticamente omogenee per un processo chiamato di deriva genetica.
Talvolta le barriere sociali sono anche più efficaci delle barriere fisiche e geografiche: la divisione della società in caste che pure vivono nello stesso territorio è in grado di ostacolare gli incroci generici in modo molto maggiore, questo processo prende il nome di selezione sessuale.
Le dottrine razziste sono quegli atteggiamenti e pratiche che discriminano sulla base dell’appartenenza razziale, l’accesso all’esercizio di diritti e a determinate opportunità e posizioni sociali; naturalmente perché questi comportamenti possano svilupparsi è necessario che popolazioni appartenenti a razze diverse entrino in contatto.
La varietà di forme che la discriminazione razziale può assumere è molto grande: si va da forme legali (generalmente abolite nelle nazioni moderne) a discriminazioni di fatto quali ad esempio impossibilità di diventare proprietari terrieri, di accedere a determinate professioni; tutti questi divieti od impedimenti di fatto creano attorno al gruppo oggetto di discriminazione delle barriere che producono isolamento e segregazione sia fisica sia sociale.
Per Taguieff (1987) bisogna distinguere diversi tipi di dottrine e di atteggiamenti e comportamenti razzisti:

  • concetto di razza applicato al proprio gruppo (auto-razzizzazione) per affermarne la superiorità e garantirne la purezza: coloro che non appartengono alla razza sono percepiti come un pericolo alla sua sicurezza e la loro presenza non è compatibile con la comune convivenza, scatenando reazioni di rigetto (olocausto)
  • razza come sinonimo di civiltà inferiore ed arretrata (etero-razzizzazione): in questo caso le razza considerate inferiori diventano oggetto di sfruttamento e segregazione (apartheid)

3         ESEMPI DI DISCRIMINAZIONE RAZZIALE
3.1      L’antisemitismo
Il termine antisemitismo è improprio perché anche gli arabi sono una popolazione semita, e recente perché fu adottato alla fine del 19 secolo dai circoli nazionalisti che si opponevano al riconoscimento di uguali diritti Di cittadinanza per gli ebrei.
Il fenomeno a cui ci si riferisce è molto più antico e risale all’avvento del cristianesimo: originariamente gli ebrei erano il popolo di beduini che si trasformò in agricoltori e poi nel primo e per molto tempo unico popolo urbano e letterato della storia umana: gli ebrei erano infatti il popolo del libro e della scrittura che si trovò a vivere dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme nel 70 d.C. tra popolazioni agricole per lo più analfabete verso cui svilupparono un sentimento di superiorità.
Questa posizione sociale economica e culturale privilegiata trovava sostegno anche nella religione che fu la prima religione monoteista fondata sulla credenza di un unico Dio che aveva riservato al popolo ebraico la posizione di popolo eletto. Le religioni monoteiste inoltre tendono ad alimentare forte intolleranza religiosa.
Popolo senza territorio e quindi senza stato, minoranza tra popolazioni di religione diversa, sottoposti alla pressione delle autorità politico religiose che mal ne tolleravano la presenza, gli ebrei hanno mantenuto per secoli una loro identità collettiva per effetto di un duplice processo di autoesclusione nei confronti delle società che li ospitavano:

  • tendenza al rafforzamento della propria identità attraverso la difesa dell’ortodossia religiosa ed il divieto di sposarsi al di fuori della comunità (endogamia)
  • tendenza all’assimilazione attraverso l’occultamento della propria identità.

Nel tardo medioevo gli ebrei esclusi dal diritto di possedere terre e dall’esercizio di professioni in corporazioni, si specializzarono nell’unico mestiere interdetto ai cristiani: il prestito ad interesse (usura) che li poneva in una posizione centrale perché permetteva loro di avere rapporti con le coorti ed i ceti dominanti, e allo stesso tempo marginale perché li escludeva dalle più importanti attività produttive.
La tendenza alla concentrazione abitativa degli ebrei in vie e quartieri particolari all’interno delle città si manifesta in Europa già all’inizio del medioevo (es. a Venezia il quartiere della Giudecca): questo fenomeno era prodotto dalle scelte volontarie delle comunità ebraiche che trovavano nella vicinanza spaziale un fattore di solidarietà e protezione. In seguito soprattutto all’epoca della riforma e della controriforma, la segregazione spaziale divenne sempre più frequente oggetto di misure legislative: nel 1516 a Venezia il primo ghetto ebraico: la segregazione spaziale da fenomeno difensivo di autoseparazione assume il significato di strumento di reclusione volto ad evitare il contagio e ad impedire l’integrazione sociale. La reclusione e la segregazione operate dal ghetto sono stati strumenti di perpetuazione di una tradizione e di rafforzamento di una solidarietà ed identità collettive che altrimenti si sarebbero estinte o fortemente indebolite.
L’affermazione dei diritti umani e civili a valle della rivoluzione francese significò per gli ebrei l’emancipazione sul piano giuridico aprendo nuove opportunità di integrazione; le nuove ideologie nazionaliste dell’Europa del 19 secolo alimentarono nuove forme di ostilità nei confronti di una comunità che, accanto all’identità nazionale, manteneva un’altra identità collettiva.
Tentativo di sterminio sistematico durante la seconda guerra mondiale dai nazisti: la persecuzione subita rafforzò il movimento sionista nato alla fine dell’ottocento per dare al popolo ebraico un territorio ed uno stato: nel 1948 si arrivò alla fondazione in Palestina dello stato di Israele che aprì un nuovo fronte di lotta tra Israele ed il mondo islamico.

3.2 Il dilemma americano
Ricerca sul problema dei neri d’America: Myrdal (1898-1987) svolse un’analisi per individuare gli ostacoli che si frapponevano all’integrazione della popolazione di colore nella società americana. Tra i valori egualitari del ceto medio americano e le pratiche discriminatorie cui veniva sottoposta la popolazione di colore, continuava ad esserci un profondo contrasto; inoltre la stessa minoranza nera finiva per ritenersi e comportarsi come inferiore: si trattava di un circolo vizioso in cui la discriminazione ed il pregiudizio creano in chi ne è vittima un’autoimmagine di inferiorità.
L’abolizione della schiavitù nel 1863 dopo la guerra civile pur segnando una tappa importante nel processo di emancipazione, non aveva modificato la condizione della popolazione nera negli USA.
Gli USA sono una società di immigrati, prima provenienti dall’Europa e dall’America latina, e dall’Asia tutte popolazioni che si sono gradualmente integrate nella società americana favorite dalle immense opportunità. Se non fosse per la discriminazione razziale, non si spiegherebbe come mai la minoranza nera, che è la minoranza di più antica immigrazione (17-19 secolo) sia rimasta costantemente ad occupare gli strati più bassi della scala sociale.
Il pregiudizio nei confronti dei neri cresce quanto più basso è il livello di istruzione e quindi quanto minore è la capacità di sviluppare una rappresentazione articolata della realtà sociale.
Le spinte al cambiamento sono venute sia dal basso per effetto dei movimenti collettivi che hanno lottato per pari diritti, sia dall’altro per effetto di una legislazione volta a rimuovere ostacoli all’integrazione; una prima breccia si ebbe con la seconda guerra mondiale con l’abolizione della segregazione nell’esercito e con la messa fuori legge delle pratiche discriminatorie sul mercato del lavoro.
Nel 1964 grazie al movimento non violento di Martin Luthr King, il Congresso passò il Civil Rights Act che poneva fine, almeno formalmente, ad ogni forma di discriminazione su base razziale.
Permanevano però forti discriminazioni di fatto per cui nel corso degli anni settanta/ottanta furono adottate misure per riequilibrare lo svantaggio iniziale dovuto all’appartenenza ad una minoranza discriminata: misure note come azioni positive che consistono nel riservare agli esponenti delle minoranze una quota di posti di lavoro.

3.3 L’Europa come ara di immigrazione: tensioni e conflitti
Con la fine delle ondate migratorie dei primi decenni del novecento e con la conclusione del processo di decolonizzazione negli anni sessanta, l’Europa ha cessato di essere area di emigrazione, trasformandosi in area di immigrazione; in un primo tempo i flussi migratori si sono diretti soprattutto dalle ex colonie verso le ex potenze coloniali, e solo a metà degli anni ottanta i flussi si sono rivolti anche verso paesi come Germania ed Italia senza connessione con il loro passato coloniale.
Due sono i fattori di ordine strutturale all’origine di questa corrente migratoria:

  • l’esplosione demografica in molti paesi del terzo mondo che ha rotto il precario equilibrio tra popolazione e risorse.
  • straordinario periodo di sviluppo dell’economie dei paesi dell’Europa occidentale che hanno esercitato una forte attrazione.

Ogni paese dell’Europa occidentale ha oggi una popolazione composita in cui coloro che lavorano e vivono in un paese diverso da quello in cui sono nati sono diventati una cospicua minoranza; si dovrà sempre più convivere con persone che hanno storie diverse che parlano lingue diverse e con abitudini di vita differenti. Questi fenomeni migratori portano e porteranno tensioni e conflitti. I paesi europei hanno adottato negli ultimi anni politiche di contenimento e di controllo tendenti a porre un freno all’immigrazione:

  • In Francia le politiche nei confronti degli immigrati hanno puntato alla loro assimilazione alla cultura francese: gli immigrati dovevano diventare dei francesi a tutti gli effetti e far propria la cultura dominante.
  • In Inghilterra al riconoscimento dei diritti politici si è accompagnata una segmentazione subculturale che ha garantito la sopravvivenza di molti tratti delle culture di origine.
  • In Germania l’immigrato è stato prevalentemente trattato come lavoratore ospite a cui garantire un lavoro senza intenzione di integrarlo in modo permanente nella società tedesca.

Una distinzione importante è tra migrazioni temporanee e permanenti: spesso gli immigrati partono dal loro paese con un progetto temporaneo, pensando di ritornare non appena guadagnata una somma sufficiente per poter vivere dignitosamente nel paese d’origine; con il tempo l’iniziale progetto temporaneo si trasforma in una permanenza stabile, soprattutto se i figli degli immigrati si sono integrati nella nuova società.

  • In Italia il fenomeno dell’immigrazione è stato inatteso ed ha colto di sorpresa sia autorità sia opinione pubblica. Anche in questo caso all’insieme di immigrati vengono applicati gli stereotipi costruiti in riferimento alla sottoclasse di immigrati con maggiore visibilità (negativa) e ci si dimentica che molti hanno un lavoro regolare e vivono onestamente.

La forza lavoro immigrata è solo marginalmente concorrenziale con la forza lavoro disoccupata locale: gli immigrati occupano posti di lavoro per i quali l’offerta di lavoro di lavoratori italiani è carente.

4         ETNIE E NAZIONI
Il concetto di RAZZA fa riferimento a differenze somatiche che si trasmettono geneticamente.
Il concetto di ETNIA invece rimanda a differenze di ordine culturale che si trasmettono anch’esse di generazione in generazione attraverso però i meccanismi della trasmissione culturale; al centro del concetto di etnia vi sono i miti, i simboli che identificano una popolazione e la differenziano dalle altre.
C’è un etnia quando:

  • i membri di un gruppo designano se stessi e sono designati da altri mediante un nome che li contraddistingue
  • si è prodotto il mito di una comune origine o discendenza
  • si è creata una comunità che condivide certe memorie comuni e che c’è chi si preoccupa di trasmetterle alle generazioni future
  • vi è una cultura condivisa fatta di linguaggio, credenze religiose, costumi, alimentazione, ecc che presenta caratteri distintivi rispetto alle popolazioni geograficamente vicine
  • c’è un territorio che i membri del gruppo considerano proprio
  • si sviluppa un sentimento di solidarietà che non si estende ai membri di altri gruppi

Un’etnia può o meno avere una propria organizzazione politica corrispondente.
Gli elementi che costituiscono un’etnia si modificano nel tempo per effetto di fattori

  • Endogeni quali la presenza o meno di una elite letterata che cura la conservazione e la trasmissione delle tradizioni etniche.
  • Esogeni il contatto con culture etniche vicine dalle quali ci si riesce a differenziare oppure da cui ci si lascia assimilare.

 

Si hanno due significati diversi a seconda del rapporto che si instaura tra etnia nazione e stato:

  • Il concetto di nazione designa una collettività che si richiama a una discendenza comune ai vincoli creati dalla lingua, dai costumi e dalle tradizioni comuni che rivendica il diritto di organizzarsi su un dato territorio in forma di stato sovrano: la nazione nasce attraverso la mobilitazione dei sentimenti di appartenenza etnica
  • Il concetto di nazione designa una collettività di cittadini che hanno comuni diritti e doveri nell’ambito di uno stato territoriale: in questo caso lo stato precede la formazione della nazione e questa può essere composta anche da etnie differenti.

Questi due concetti di nazione rimandano ai diversi processi di formazione degli stati nazionali:

  • Alcuni stati nazionali si sono formati o perché un’etnia è diventata dominante o perché si è formata una coscienza nazionale che ha messo in secondo piano le varie etnie o nazionalità preesistenti sul territorio (bretoni in Francia, scozzesi e gallesi in GB, catalani e baschi in Spagna)
  • Altri stati nazionali sono nati dalla disgregazione di stati dinastici,imperi attraverso la rivendicazione di gruppi etnici di darsi un’organizzazione statuale. (disgregazione dell’USSR, della Cecoslovacchia e della Jugoslavia).
  • La Germani e l’Italia infine rappresentano dei casi particolari di formazione dello stato nazionale che risulta dall’unificazione di una pluralità di stati regionali sotto la spinta egemonica di uno di essi (Piemonte per l’Italia e la Prussia per la Germania); anche in questo caso la nazione preesiste allo stato, m è molto debole in quanto frammentata in una pluralità di culture regionali che possono essere considerate micronazionalità. La formazione di una coscienza nazionale capace di superare i particolarismi regionali ha richiesto un’intensa opera da parte dello stato. (D’Azeglio: fatta l’Italia bisogna fare gli italiani).

5         VERSO SOCIETA’ E STATI MULTIETNICI E MULTINAZIONALI?
Prendiamo l’esempio degli USA in cui tutti i paesi del mondo hanno contribuito a creare la sua popolazione, eppure la maggior parte degli abitanti si sente di appartenere alla nazione americana nonostante le diverse origini. Altri casi simili in Australia, Canada e India.
Anche altri stati tipo Spagna, Belgio e Canada sono multietnici multinazionali in cui si sono sviluppati movimenti separatisti che intendono rompere il patto di convivenza che li lega ad un’entità statale comune.


Politica e amministrazione (cap 14)

 

1         LO SPAZIO DELLA POLITICA
Nel linguaggio corrente il termine politica è usato in senso molto ampio: si riferisce ai fini, obiettivi e scelte di un’organizzazione o associazione. L’azione in politica tende a governare e regolare non una singola associazione o organizzazione, ma la vita in società.

Chi fa politica cerca il potere e la politica stessa è l’esercizio del potere; è necessario distingue tre tipi di potere con riferimento alle risorse di cui un’organizzazione o attore dispone:

  • economico per cui chi possiede certi beni materiali o risorse finanziarie può indurre chi non li possiede ad accettare una determinata condotta
  • ideologico la capacità di influenzare i comportamenti di altri che hanno le idee espresse da persone alle quali è riconosciuta un’autorità al riguardo (predicatore, intellettuale)
  • politico che può utilizzare una risorsa soltanto sua.

Weber diceva che lo stato – la fondamentale istituzione politica – ha il monopolio dell’uso legittimo della forza per cui chi detiene il potere politico ottiene il controllo sulla forza dei cui potrà disporre per fini e con motivazioni diverse. Il monopolio dell’uso legittimo della forza significa che lo stato sottrae a qualsiasi altro gruppo l’uso della forza e che lo stato solo può utilizzare la forza per ottenere obbedienza.
In teoria si distingue tra politica e società civile: è la stessa politica con le sue leggi a fissare i propri confini, anche se c’è la tendenza della politica ad essere invadente nei confronti della società civile.
La pretesa politica di dettare le regole per tutte le attività sociali rilevanti è molto estesa: la politica di totale controllo della cultura e della vita privata da parte di stati nazisti e comunisti sono esempi.
Il problema principale per filosofi e teorici è stato quello dei limiti della politica e della disciplina dell’accesso al potere politico e del suo uso. Impedire l’accumulazione nelle stesse mani di potere politico, economico e culturale e differenziare all’interno dello stato diversi poteri e funzioni sono criteri fondamentali del buon governo.

Alla visione realistica della politica come esercizio del potere di comando, si contrappone l’idea della politica come esercizio della libertà: sono stai i Greci a svilupparla per primi. Nella città stato (Polis) la produzione economica era organizzata su basi familiari; questa sfera privata cominciò ad essere distinta dalla vita pubblica. Nella vita pubblica si decideva con la persuasione e la parola, non con la forza o la violenza; comandare e costringere apparteneva al mondo della famiglia dove il capofamiglia esercitava un potere assoluto.
La politica allora è la sfera in cui si accede alla libertà perché non si è sottomessi e perché se la famiglia e l’economia sono il regno della necessità, in politica ci si può sentire se stessi interagendo con gli altri per azioni liberamente scelte.
Nella polis infine si è tra eguali, mentre i rapporti in famiglia e nell’economia sono tra ineguali
Va detto poi che liberi ed eguali nella polis erano solo pochi capifamiglia.

La natura della politica può quindi essere vista da due punti di vista differenti che non si auto escludono: una verticale relativa al potere ed al controllo, l’altra orizzontale delle scelte liberamente  prese discutendo e convincendo. Istituzioni ed interazioni politiche devono essere individuate in riferimento a queste due dimensioni.

2         LO STATO
Lo stato è un’organizzazione politica particolarmente complessa che governa, organizza e controlla nel suo insieme una società stabilita in un certo territorio.
Lo stato moderno ha preso forma in Europa in un lungo arco di tempo e si è diffuso poi altrove; di seguito le sue caratteristiche:

  • Differenziazione: lo stato regola in generale ed in astratto i comportamenti dei cittadini, ma riconosce e tutela il loro diritto a perseguire fini privati e di interesse generale, associandosi liberamente in ambiti e per attività non politiche. La differenziazione dello stato dalla società civile può essere più o meno accentuata, ovvero lo stato può regolare più o meno in dettaglio l’attività libera ed il mondo privato dei cittadini, esercitando potere politico, ma eventualmente cumulando anche potere economico ed ideologico
  • Sovranità: uno stato che ha il controllo politico di una società, cioè la facoltà di governarla ed organizzarla, è uno stato sovrano; il carattere della sovranità attiene al fatto che lo stato non deriva d nessun altro ente o organizzazione la facoltà di governare e controllare una società. La minaccia di limitare la sovranità di uno stato da parte di un altro conduce alla guerra.
  • Centralizzazione: il consolidamento dello stato comportò ovunque una progressiva omogeneizzazione di regole ed una forte centralizzazione del potere politico.
  • Nazionalità e cittadinanza: popolo è qualcosa di più di un semplice aggregato di persone, questo di più ha una dimensione:
      • politica: le persone sono cittadini di uno stesso stato e godono di cittadinanza, cioè l’insieme di diritti e doveri che definiscono la condizione di appartenenza ad uno stato. La trasformazione dei sudditi in cittadini è un passo fondamentale verso lo stato moderno; si hanno tre fasi di sviluppo della cittadinanza
  • Cittadinanza civile che riguarda i diritti necessari alle libertà individuale, libertà personali, di parola, di pensiero, di fede, di possesso.
  • Cittadinanza politica riguarda il diritto di eleggere ed essere eletti
  • Cittadinanza sociale che stabilisce diritti ad accedere a certi standard di consumi, salute, istruzione.
      • culturale riguarda comuni radici storiche, religiose di costumi di lingua, definite radici etniche. Una nazione è allora una comunità di appartenenza alla quale si sente legato un popolo che ha comuni radici etniche.

I due termini, politico e culturale, della nazionalità possono essere considerati come i poli estremi di differenti modi di espressione di questa in diversi stati: un’identità nazionale può basarsi prevalentemente su forti radici etniche, oppure all’opposto sull’idea di nazione costruita come libero contatto politico tra cittadini: in quest’ultimo caso esistono differenze etniche, spesso tutelate, tra i cittadini.

  • Legittimazione democratica: come recita la ns. costituzione, “la sovranità appartiene al popolo che la esercita sulla base dei diritti politici riconosciuti ad ogni cittadino”. Democrazia  è in sostanza un regime politico basato sul consenso popolare, sul controllo dei governanti da parte dei governati.

I criteri che distinguono uno stato realmente democratico sono stati evidenziati da Dahl: si può parlare di democrazia se le istituzioni politiche sono congegnate in modo da garantire:

  • libertà di associazione
  • libertà di espressione
  • diritto di voto
  • eleggibilità alle cariche pubbliche
  • diritto di competere per il sostegno elettorale
  • fonti alternative di informazione
  • elezioni libere e corrette
  • esistenza di istituzioni che rendono le scelte del governo dipendenti dal voto e da altre espressioni di preferenza

 

3         PERCHE’ SI OBBEDISCE? IL PROBLEMA DELLA LEGITTIMAZIONE
Una prima risposta alla domanda è perché si temono le conseguenze della disobbedienza.
Ogni potere deve essere legittimato e solo in quanto tale si trasforma in autorità.
Si possono distinguere tre tipi di potere legittimo:

  • potere tradizionale si basa sulla credenza del carattere sacro delle tradizioni che valgono da tempo immemorabile e che sanciscono il diritto ad esercitare il potere da parte di un signore.
  • potere carismatico si basa sulla credenza del carattere straordinario di un capo, considerato dotato di virtù o capacità esemplari.
  • potere razionale si basa sulla credenza che un certo sistema di norme statuite è valido: si obbedisce all’ordinamento impersonale, riconoscendo che chi occupa una posizione di potere ne ha il diritto perché correttamente nominato od eletto e perché i suoi comandi sono emessi nei limiti e nelle forme previste dalle norme.

La distinzione di cui sopra individua delle tipologie di potere puri: nella realtà bisogna immaginare delle combinazioni. Per esempio Weber pensava che le moderne democrazie (inglese ed americana) fossero basate su forme razionali di potere ma che lasciassero spazio all’emergere di figure carismatiche, capaci di suscitare adesione emotiva. La questione è quella di distinguere il potere carismatico all’interno di istituzione democratiche (De Gaulle, Kennedy) dal potere carismatico individuale (Hitler, Stalin).

4         PERCHE’ SI PRENDE PARTE AD UN’AZIONE COLLETTIVA?
Una persona inserita in una relazione che avverte delle difficoltà, ha due possibilità di reazione: interrompere la sua relazione oppure far valere il suo punto di vista. Hirschman chiama queste due opzioni EXIT e VOICE.
A volte sia exit che voice sono escluse come nel caso di un regime totalitario dove non si può far sentire la propria voce e dove non si può fuggire (URSS).
Exit e voice non sono solo due opzioni di comportamento personale, ma anche due meccanismi di regolazione dei sistemi di relazione. Un’organizzazione che assiste all’uscita dei suoi membri, riceve una sollecitazione a considerare che cosa non va nella gestione e a tenerne conto per correggersi.

  • Exit è un meccanismo più tipico dell’economia: un compratore infatti si sposta immediatamente da un venditore all’altro a seconda del prezzo del prodotto richiesto, anche se non sempre l’exit è la strategia più efficace (fidelizzazione, localizzazione, costi assembramento, ecc.)
  • Voice è più tipica delle relazioni politiche e consiste nel discutere e cercare di convincere piuttosto che costringere mettendo gli altri davanti a fatti compiuti.

VOICE, rispetto all’EXIT, ha tre caratteristiche importanti:

    • trasmette un maggiore contenuto di informazioni su cosa funziona e cosa non funziona in una relazione.
    • insieme di decisioni di exit risente spesso del fatto che si tratta di decisioni che le singole persone prendono separatamente le une dalle altre sulla base di calcoli a breve termine. La voice invece ha di mira i vantaggi che si possono ottenere senza traumi, correggendo la situazione e investendo di più sul lungo periodo.
    • perché la voice sia efficace deve essere espressa da un certo numero di persone che si uniscono, concordando i loro comportamenti; dipende quindi dall’azione collettiva.

A questo punto incontriamo un paradosso: si suppone che gli attori che scelgono una strategia di exit o di voice siano attori razionali: se consideriamo la partecipazione ad uno sciopero perché devo pagare i costi dell’azione collettiva (giornata di salario) se comunque i vantaggi saranno per tutti? E’ il problema del cosiddetto free rider.
Altro esempio quello del votante: perché devo andare a votare se il mio voto non sposta di un millimetro l’esito elettorale? La risposta di buon senso è che se tutti facessero così…Un individuo può fare i suoi calcoli e prevedere gli effetti di una scelta con una certa previsione, solo se i costi ed i benefici riguardano una questione specifica e si misurano sul breve termine. Sul lungo periodo invece le cose sono più indistinte e confuse e la stessa definizione di quelli che ritiene i suoi interessi sul lungo periodo è in realtà un processo sociale al quale l’individuo partecipa sempre con altri in modo più o meno attivo e consapevole.
Questo significa che la politica produce programmi ed idee che definiscono e giustificano fini ed interessi collettivi di lungo periodo: partecipare non è semplicemente un costo da pagare per l’azione collettiva, ma è un valore in sé perché sancisce l’appartenenza ad un gruppo. Senza una qualche forma di partecipazione non può esservi identificazione.
Un’identità politica ha anche l’effetto di produrre lealtà nei confronti della linea scelta per l’azione collettiva e più in generale lealtà al gruppo; la lealtà di norma contrasta con l’exit e favorisce la pratica della voice.

5         LA PARTECIPAZIONE POLITICA
5.1 La scala della partecipazione
Nei sistemi democratici la partecipazione politica è il coinvolgimento dell’individuo nel sistema politico a vari livelli di attività, dal disinteresse totale alla titolarità di una carica politica (Rush 1992).
Per ognuno dei gradini l’analisi sociologica si chiede non solo quanti partecipano, ma anche chi, per quali ragioni, utilizzando quali risorse: in questo modo si identificano le variabili che influenzano la partecipazione a diversi livelli: età, sesso, professione, religione, reddito, ecc.

  • Votare è la forma di partecipazione politica più diffusa, influenzata però da molte condizioni: in alcune nazione votare è obbligatorio.
  • Ai gradini successivi compaiono le forme associative e le organizzazioni politiche: i partiti sono associazioni di cittadini dotate anche di organizzazioni con funzionari stipendiati. I partiti competono tra loro per sostenere candidati alle cariche pubbliche e per promuovere determinate idee ed interessi; le associazioni e organizzazioni invece hanno invece un’attività politica occasionale o parziale; si parla allora di gruppi di interesse o gruppi di pressione (sindacato, unione industriale)
  • In cima alla scala c’è il gradino che raggiungono coloro che ricoprono una carica politica; in linea di principio tutti sono eleggibili alle cariche politiche con il solo vincolo di un limite minimo di età e a meno che non abbiano commesso gravi reati.

5.2 Tipi di voto
Se ci si chiede per che cosa vota chi vota, si può costruire una tipologia del voto sulla base delle caratteristiche formali della relazione che lega votante e votato. 3 tipologie

  • Voto d’opinione viene chiesto un voto ragionato sulla base di un programma, anche se in realtà pochi elettori conoscono bene un programma; si ha comunque voto di opinione se questo è orientato fondamentalmente da una scelta tra programmi diversi. Chi ha questo comportamento di voto è esposto ai mezzi di comunicazione di massa, si tratta cioè di un voto incerto che può con relativa facilità trasferirsi da un partito all’altro
  • Voto di appartenenza testimonia una identità: si vota per un certo partito perché è considerato il partito degli appartenenti ad una classe o confessione religiosa e lo si vota anche a prescindere dal programma, accettando in blocco senza discutere gli obiettivi proposti. Si tratta di un voto altamente stabile.
  • Voto di scambio è una specie di transazione in cui si ha un votante che avanza una richiesta personale da soddisfare e per cui è pronto a barattare il voto ed un candidato che ha la possibilità una volta eletto di soddisfare la richiesta. Chi lo offre non pensa all’interesse collettivo.

Negli USA coloro che non si identificano con nessuno dei due partiti e che votano valutando il programma e candidati sono passati dal 24 al 40% dell’elettorato tra il ‘64 ed il ‘74.

5.3 Cleavages sociali e partiti politici
Possiamo distinguere due principali attività dei partiti che riguardano il rapporto politica-società:

  • formazione, aggregazione e trasmissione della domanda politica per cui i partiti raccolgono e definiscono in modi diversi i problemi di una società
  • delega politica: processo per cui i membri di una stessa società si identificano con determinati partiti, considerandoli loro rappresentanti sulla scena politica

Aggregando e rappresentando nelle istituzioni i valori e gli interessi di differenti gruppi sociali, i partiti svolgono una funzione di integrazione in società attraversate da molte linee di frattura o CLEAVAGES. Esistono quattro  linee di frattura:

    • centro-periferia
    • stato-chiesa
    • città-campagna
    • capitale-lavoro

Queste linee di frattura sono state più o meno importanti a seconda dei Paesi per la formazione e l’azione di partiti: questi ultimi a volte sono nati per trasmettere la domanda politica che si formava su una delle sponde di un cleavage particolare (socialisti come partito del lavoro). In genere però i partiti fanno riferimento a più cleavages combinati tra loro rappresentando piuttosto interessi di un fronte o di un altro. Il conflitto socioeconomico è la linea di frattura più importante che costituisce il tradizionale asse sinistra-destra.

  • I partiti compaiono nella prima metà dell’ottocento in GB con l’allargamento del suffragio universale che estende l partecipazione attivi ai ceti commerciali ed industriali.
  • Nasce quindi il partito dei notabili costituiti su base locale senza organizzazione stabile per l’elezione di un rappresentante che poteva permettersi per le sue condizioni economiche, di svolgere attività politica senza vivere di politica.
  • Successivamente a cavallo del secolo grazie al movimento operaio, nasce il partito di massa con i partiti socialisti; per agire con continuità il partito costruisce un vasto apparato burocratico con cui mantiene il coordinamento con gli iscritti ed i potenziali votanti
  • Un tipo emergente è il partito elettorale che non ha grandi strutture burocratiche, ma ricorre a professionisti di vari campi e si mobilita per particolari scopi elettorali: fa appello ad un voto di opinione senza riferimento esplicito ad una classe specifica, contando sul carisma del leader e concentrando l’attenzione su particolari problemi da risolvere.

6         I MOVIMENTI SOCIALI
Il teorico funzionamento dei sistemi democratici assicura che le domande espresse nelle forme legittime possano incontrarsi con risposte nell’azione di governo. Se questo non succede entra in gioco il non riconoscersi più in valori/norme che la politica esprime, ovvero accorgersi di bisogni che la politica non sembra in grado di soddisfare e fare proprio, oppure che persegue con troppa lentezza. Di solito quando ciò accade si stabiliscono sollecitazioni molto forti dirette alla società politica.
I movimenti sociali sono forme di azione collettiva non istituzionalizzata che propongono cambiamenti delle regole, valori, ruoli, obiettivi sociali e allocazione di risorse; si tratta di attivatori di cambiamento; un movimento sociale non è comunque necessariamente associato al mutamento, infatti esistono movimenti che sono orientati alla conservazione di un certo ordine sociale.
Un movimento deve darsi presto un’organizzazione con ruoli e strutture di autorità: la spontaneità iniziale e fluidità si combinano con la comparsa di figure carismatiche che esprimono sentimenti comuni.
Un movimento di restaurazione è anche una reazione a uno precedente orientato al cambiamento sociale.
I cambiamenti perseguiti possono essere

  • Riformatori se sono relativi all’allocazione delle risorse ed a regole all’interno di un sistema di valori non messo in discussione.
  • Rivoluzionari se sono relativi proprio ai valori sociali.

Alcuni movimenti hanno breve durata, coinvolgendo poche persone e riguardando temi specifici in uno spazio limitato; altri invece come il femminismo ed il movimento operaio si sono estesi su scala mondiale coinvolgendo molta gente.
I movimenti possono fallire per debolezza inconsistenza, confusione della loro proposta oppure essere repressi; il successo di contro consiste in qualche forma di istituzionalizzazione.

7         L’ATTIVITA’ AMMINISTRATIVA
La pubblica amministrazione (burocrazia) è una complessa organizzazione che attraverso attività specifiche ha il compito di dare esecuzione alle decisioni politiche di governo.
In Italia la parte più importante è quella statale che fa capo al governo a sua volta organizzato in ministeri  con a capo un ministro da cui dipende un direttore generale che coordina diverse divisioni con a capo dei responsabili da cui dipendono altri uffici e funzionari secondo un principio gerarchico.

Accanto alla burocrazia statale troviamo poi le burocrazie degli altri enti territoriali: regioni, province, comuni; esistono poi le burocrazie di altri enti (INPS, ecc)

La definizione iniziale data stabilisce una separazione tra

  • Attività politiche riguardano le scelte discrezionali tra possibili alternative.
  • Attività amministrative sono le attività cha fanno applicare quella legge senza discrezionalità circa la sua applicazione.

In pratica gli obiettivi sono fissati in modo generale dalla legge (attività politica), mentre l’attività amministrativa è attività tecnica che coordina ed applica mezzi per ottenere un certo fine nel modo più efficiente possibile ma che non mette in discussione i fini ai quali l’azione tecnica sii applica.
In realtà le cose sono più complicate: anzitutto i burocrati mantengono margini di discrezionalità nell’eseguire i loro compiti: non solo eseguono decisioni, ma preparano la formazione di decisioni e norme, influenzando la formazione delle stesse decisioni politiche. Non esiste dunque una completa separazione e distinzione tra attività amministrativa e politica.
La questione dell’indipendenza reciproca di amministrazione e politica deve essere vista nelle due direzioni: esiste la possibilità che il governo sottragga ai funzionari il proprio spazio d’azione (buona soluzione tecnica accantonata da un politico che vuole favorire il gruppo di interesse che lo sostiene elettoralmente).

8         LE POLITICHE SOCIALI ED I SISTEMI DI WLEFARE STATE
Un politica pubblica è un programma di azione attuato da un’autorità pubblica

  • Politiche istituzionali (estera, militare, giustizia)
  • Politiche economiche (monetaria, fiscale)
  • Politiche territoriali (urbanistica, ambientale)

Con l’espressione politiche sociali si intendono la politica previdenziale, sanitaria ed assistenziale.
L’idea che lo Stato debba proteggere certi standard di reddito, alimentazione, salute, scurezza, istruzione costituisce l’essenza del welfare state: si tratta di un sistema di politiche sociali che predispongono interventi ed introducono diritti nel caso di eventi prestabiliti, imponendo anche specifici doveri di contribuzione finanziaria.
Il welfare state è un’invenzione europea che si sviluppa nel XX secolo a seguito dei problemi sociali sollevati dell’industrializzazione e dall’inurbamento di grandi masse di popolazione.
Dopo la seconda guerra mondiale in GB si inizia a progettare un piano di sicurezza sociale per combattere i 5 giganti: indigenza, ignoranza, squallore morale, indolenza malattia. Nel dopoguerra le politiche sociali si espandono fino alla metà degli anni settanta, poi per la fine della crescita economica ed i problemi finanziari collegati si è imposto un contenimento delle spese.
I modelli di solidarietà che si sono evoluti in Europa sono riconducibili a due famiglie:

  • universalistico minimo dignitoso di condizioni di vita a tutti i cittadini
  • occupazionale assicurazioni obbligatorie per creare protezione a chi lavora.

LA PREVIDENZA SOCIALE è un insieme di disposizioni protettive nei confronti della vecchiaia, invalidità infortuni, disoccupazione, malattia. In Italia si basa su un sistema pubblico obbligatorio e riguarda i lavoratori; sono forme di assicurazione obbligatorie finanziate dai lavoratori stessi con trattenute sui salari e dai datori di lavoro. La parte più importante è costituita dalle PENSIONI che si distinguono in:

    • invalidità
    • vecchiaia (raggiungimento limite di età se si è raggiunto un periodo minimo di contribuzione)
    • anzianità che dipende da un periodo minimo di contribuzioni
    • reversibilità a familiari superstiti.

Il finanziamento delle pensioni ha due possibilità:

  • a ripartizione se i contributi versati dai lavoratori oggi servono a pagare i pensionati di oggi
  • a capitalizzazione se un pensionato riceve gli interessi dei capitali che ha progressivamente accantonato durante la sua vita lavorativa.

In Italia si è seguito il primo modello anche se il sistema è in evoluzione per l’invecchiamento della popolazione e la crescita del rapporto tra pensionati e lavoratori.

LE POLITICHE SANITARIE seguono tre possibili modelli:

  • sistema sanitario nazionale introdotto in GB nel dopoguerra che garantisce uguali diritti di cura a tutti i cittadini con prestazioni dei servizi organizzati dallo stato stesso. (Italia uguale)
  • sistemi di assicurazione sociale con l’obbligo per i datori di lavoro ed i lavoratori di assicurarsi con un mutua (ente di interesse pubblico) facendosi lo stato carico di chi non può accedere ad una mutua perché non lavora o non è familiare di un lavoratore (adottato da Europa continentale)
  • sistema sanitario privatistico in cui esistono solo ristretti programmi per anziani e per i poveri.

Esistono problemi di efficienza e di spese crescenti a causa dell’invecchiamento della popolazione e di una crescente sensibilità per la salute.

LE POLITICHE ASSISTENZIALI sono le più antiche politiche sociali.
In Italia è un settore disordinato: le pensioni sociali di chi è privo di reddito, integrazione con il minimo di pensione


Popolazione e organizzazione sociale nello spazio: verso la globalizzazione (cap 15)

1         LO SVILUPPO DELLA POPOLAZIONE NEI SECOLI
L’incremento demografico è avvenuto in un periodo relativamente breve: a partire dal 1750 vi è stata una forte accelerazione: il tasso di incremento medio annuo che era dello 0,06% negli ultimi due millenni, sarebbe aumentato di dieci volte nei successivi duecento anni.
Malthus (1766-1834) affermava che lo sviluppo della popolazione avveniva con un ritmo più rapido (progressione geometrica) di quello dei mezzi di sussistenza (progressione aritmetica). Per mantenere l’equilibrio c’erano due tipi di strade:

  • freni repressivi: ovvero l’aumento della mortalità per epidemie, guerre e carestie; i freni repressivi  hanno indubbiamente influito sull’andamento della popolazione europea prima della metà del settecento. Alla metà del settecento la peste scomparve e le crisi demografiche divennero meno frequenti  ed intense: iniziò il periodo delle epidemie sociali quali il tifo, la malaria, il vaiolo ed il colera che sarebbero terminate a metà del secolo scorso. Dagli anni settanta ha iniziato a propagarsi l’aids.
  • freni preventivi ovvero la riduzione della nuzialità e della natalità. L’età al matrimonio delle donne è stata un potente sistema di regolazione della fecondità in molti paesi dell’Europa preindustriale. Il caso della GB è esemplare: lo squilibrio tra popolazione e risorse provocava una diminuzione dei salario reali ed un peggioramento delle condizioni di vita: questo squilibrio veniva corretto dalla nuzialità. Infatti in GB coloro che si sposavano dovevano procurarsi da soli i mezzi necessari al sostentamento per cui quando la situazione economica peggiorava, si tendeva a rinviare il matrimonio e di conseguenza ad avere meno figli. Quando invece la situazione economica migliorava, i matrimoni avvenivano prima ed erano più fecondi.

2         LA TRANSIZIONE DEMOGRAFICA IN EUROPA
Per descrivere e spiegare il forte incremento della popolazione in Europa dopo la metà del settecento,si fa ricorso alla teoria della transizione demografica per cui la popolazione europea è passata da un equilibrio basato su livelli relativamente alti di fecondità e mortalità ad uno fondato su tassi di fecondità e mortalità molto bassi.
La descrizione di questo grande passaggio può essere fatta distinguendo quattro diversi periodi:

  1. società a regime demografico primitivo: è il periodo più lungo dei tre successivi ed è durato migliaia di anni caratterizzato da un alto tasso di fecondità ed un altrettanto alto tasso di mortalità: la differenza tra i due tassi (fecondità e mortalità) era assai modesta per cui lo sviluppo della popolazione è stato molto lento.
  2. Il secondo periodo è quello in cui è iniziata la transizione demografica ed in cui è avvenuta un’esplosione demografica è caratterizzato dal declino della mortalità dovuta alla diminuzione delle crisi demografiche e alla riduzione dei rischi di morte, e da una maggior cura dell’infanzia, mentre il livello di fecondità è rimasto invariato per tutto il periodo. Inizio in Francia nel 1750 e diffuso poi negli altri Paesi europei.
  3. Nel terzo periodo ha inizio il declino della fecondità per cui le due curve di mortalità e natalità si sono avvicinate e l’incremento demografico si è ridotto. In Francia questo periodo iniziato nel 1827, in Italia nel 1913. Questo declino della fecondità fu causato dalle diffusione del controllo volontario delle nascite.
  4. Il quarto periodo è quello della stagnazione demografica: mortalità e fecondità cessano di essere due variabili incontrollabili e raggiungono livelli molto bassi ed assai simili.

La transazione h avuto luogo in tutti i Paesi d’Europa, ma nel dopoguerra si è avuto un baby-boom; nel 1975 però la fecondità riprendeva a diminuire ed era ormai sotto la soglia critica di 2 figli per donna, cioè del livello di rimpiazzo delle generazioni che assicura l’equilibrio tra nascite e morti  la crescita zero della popolazione.

3         I PAESI IN VIA DI SVILUPPO
Lo schema della transizione è applicabile anche ai Paesi invia di sviluppo, anche se questo processo presenta caratteristiche diverse da quelle che ha avuto in Europa:

  • la transizione è iniziata più tardi, in genere dopo il 1920-30
  • la caduta del tasso di mortalità è stata più brusca e rapida: in Europa la riduzione della mortalità era stata graduale a seguito della lenta acquisizione di nuove conoscenze mediche; questo complesso di conoscenze è invece arrivato improvvisamente provocando un’immediata flessione della mortalità.

Nel periodo compreso tra le due guerre mondiali, la differenza tra i Paesi industrializzati e quelli in via di sviluppo è diminuita: la speranza di vita dei primi alla nascita era superiore di 25 anni a quelli dei secondi; questa distanza si è progressivamente ridotta a meno di 15 anni.
Molto raramente la caduta della mortalità è stata accompagnata da una diminuzione altrettanto pronunciata della natalità, con l’eccezione della Cina. Di solito il declino della fecondità è iniziato molto tempo dopo quello della mortalità ed è stato molto meno rapido.

4    DECLINO DELLA FECONDITA’, COMPORTAMENTO RIPRODUTTIVO NEL TERZO MONDO; INVECCHIAMNETO DELLA POPOLAZIONE
I sociologi si sono concentrati u due grandi interrogativi:

  • Perché tra il 1890 ed il 1920 in Europa è iniziato il declino della fecondità? Quattro cause:
  • Il declino della fecondità è stato ricondotto alla diminuzione della mortalità iniziata nella seconda metà del 18 secolo che, provocando un incremento della popolazione più rapido di quello delle risorse disponibili, ha messo in moto meccanismi riequilibratori quali la riduzione del tasso di nuzialità e la diffusione della contraccezione.
  • Il declino delle fecondità è stato ricondotto all’aumento del costo relativo di allevamento dei figli. Secondo Caldwell (1982) il livello di fecondità dipende dalla direzione e dall’ampiezza dei flussi di ricchezza (denaro, beni, servizi e garanzie): quando questi flussi sono diretti prevalentemente verso i genitori perché l’allevamento dei figli è poco oneroso e questi una volta diventati adulti accresceranno la forza della famiglia,, allora a questi conviene che vi sia un’alta fecondità; quando invece i flussi vanno in direzione opposta, perché l’allevamento dei figli è costoso per la diffusione dell’istruzione ed i figli una volta cresciuti non forniscono denaro, beni e servizi ai genitori, allora è meglio per loro ridurre le nascite.
  • Il declino delle fecondità è stato favorito anche dal processo di secolarizzazione e dal lento indebolimento delle norme che regolavano i rapporti sessuali
  • diminuzione della distanza sociale tra marito e moglie: l’uso della contraccezione poteva iniziare solo quando gli uomini fossero stati più sensibili alle esigenze delle donne su cui gravavano le continue gravidanze.
  • Perché in molti paesi in via di sviluppo il numero di figli per donna resti molto alto, nonostante vi sia una forte diminuzione della mortalità?

L’idea molto diffusa in Europa che il comportamento riproduttivo delle coppi del terzo mondo dipenda dall’ignoranza non ha alcun fondamento: in realtà in questi Paesi avere molti figli può essere vantaggioso per i genitori anche se svantaggioso per la società nel suo complesso; infatti il costo di allevamento dei figli è molto basso e da essi i genitori si aspettano in futuro un aiuto economico ed assistenza.

L’invecchiamento della popolazione
L’invecchiamento è un cambiamento nella struttura per età della popolazione che porta all’aumento della quota delle persone che oltre 60 o 65 anni di età. Questo processo è dovuto non tanto alla diminuzione della mortalità e all’allungamento della vita media, quanto piuttosto al calo della natalità.
L’invecchiamento della popolazione nei Paesi occidentali è iniziato nei primi anni del novecento: allora la popolazione anziana era circa il 5%, oggi in Europa è del 15% circa. Nel 2010 il numero delle persone con oltre 60 anni supererà quello con meno di 20 ed il primo Paese in cui avverrà sarà l’Italia; crescerà inoltre anche il peso della popolazione molto vecchia (oltre 75 anni) bisognisi si servizi sanitari. L’indice di dipendenza (peso della  popolazione inattiva su quella attiva) aumenterà fortemente.

 

Fonte: http://azpsicologia.altervista.org/Appunti/Sociologia%20generale/Appunti%20di%20Sociologia%20generale.doc

Sito web da visitare: http://azpsicologia.altervista.org/

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