Riassunto Uno nessuno e centomila

Riassunto Uno nessuno e centomila

 

 

 

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Riassunto Uno nessuno e centomila


1. INTRODUZIONE

 

Luigi Pirandello è sicuramente uno degli scrittori italiani più fertili. Le sue novelle e le sue opere teatrali sono famose in tutto il mondo e nonostante che come romanziere non abbia avuto le stesse approvazioni, alcuni dei suoi romanzi meritano attenzione. Tra questi romanzi, oltre alle famose opere come per esempio I vecchi e        i giovani o Il fu Mattia Pascal, appartiene il romanzo Uno, nessuno e centomila il cui protagonista è soggetto della nostra tesi.
Il personaggio Vitangelo Moscarda, l’eroe di questo romanzo, non è affatto una persona comune e, infatti, nel proseguimento ce ne renderemo conto. Moscarda è in fondo una persona che esce “dal gregge dei suoi simili” rinunciando al potere, all’autoaffermazione e questo ne fa uno dei personaggi letterari più sconcertanti e nello stesso tempo più affascinanti dell’intero panorama letterario italiano. Il suo carattere e    i suoi pensieri sono influenzati dalla forma del romanzo psicologico novecentesco che è privo di razionalità. Si parte da un episodio che funziona come “detonatore” e causa una reazione a catena di eventi che renderanno Moscarda completamente diverso da come immaginava di essere all’inizio.
Pirandello si allontana dal Verismo e va verso il Decadentismo, quindi al protagonista viene attribuita piuttosto una caratteristica simbolica che descrittiva, che ci permette di guardare nel suo intimo. Anche la struttura narrativa subisce dei cambiamenti e così l’autore ci fa vedere tutto quello che succede nella mente del protagonista cioè le sue riflessioni, gli stati d’animo, i sentimenti ecc.
Uno, nessuno e centomila è l’ultimo romanzo di Pirandello. È stato elaborato a lungo e proprio in un periodo in cui l’autore si impegna nella scrittura teatrale. Viene definito come il suo romanzo testamentario, una specie di “scomposizione della vita”. Come dice lui stesso: “c’è la sintesi completa di tutto ciò che ho fatto e che farò”. Vitangelo Moscarda assorbe in sé tratti biografici dell’autore stesso tra cui, ad esempio, le riflessioni sulla vita, sugli uomini e sulla società. 
La nostra tesi, come il suo titolo suggerisce, si occuperà dell’analisi della caratterizzazione psicologica e ideologica del protagonista Vitangelo Moscarda. Prima di tutto, però, vedremo i tratti fondamentali della scrittura di Luigi Pirandello che sono importanti per capire la sua opera. Guarderemo i tratti più caratteristici dei suoi romanzi, focalizzando la nostra attenzione in particolare sul romanzo Uno, nessuno e centomila, passeremo poi alle peculiarità dei suoi personaggi di nuovo orientate specialmente verso il  personaggio di Vitangelo Moscarda.
Seguiranno delle informazioni sul romanzo, come una breve introduzione con   le note sulla sua pubblicazione e sulla fonte d’ispirazione, il riassunto degli avvenimenti nel libro e una breve sintesi della struttura narrativa.
La caratterizzazione del protagonista stesso è divisa in varie parti che presentano il suo aspetto fisico, l’ambiente da cui proviene, le sue attività. La più importante caratterizzazione, però, sarà per noi quella psicologica e ideologica sulla quale è basato tutto il romanzo. Analizzeremo successivamente libro dopo libro lo sviluppo dell’atteggiamento di Vitangelo Moscarda verso la gente che gli sta attorno, come per esempio sua moglie Dida, gli amici Firbo e Quantorzo oppure il suo inquilino Marco di Dio, ma anche verso se stesso.
Come risulta dalla filosofia del romanzo: non scegliamo di nascere, non scegliamo come nascere e non possiamo evitare “le trappole tutte della vita”. Basandoci su questo concetto affronteremo tutti i suoi cambiamenti. 

 

 

 

 

2. LUIGI PIRANDELLO

 

Questo grande scrittore nasce il 28 giugno nel 1867 in una città di campagna che si chiama Caos, presso Girgenti (oggi Agrigento). Volendo sottolineare simbolicamente la sua città natale Pirandello dichiara: “Io dunque son figlio del Caos [...]”.La famiglia e l’ambiente siciliano in cui cresce hanno una grande influenza sulla sua infanzia.         

Il padre Stefano Pirandello proviene da una famiglia d’origine ligure e si ricollega alle attività mercantili di suo padre gestendo le miniere di zolfo a Girgenti e Porto Empedocle. Infatti, Luigi passa una parte della sua infanzia tra queste due città.           

La madre Caterina Ricci-Gramitto discende da una famiglia borghese che come  la famiglia di Stefano appartiene al gruppo di antiborbonici e garibaldini. Nelle lotte unitarie Caterina si distingue coraggiosamente e Stefano combatte a fianco di Garibaldi a Palermo. Il forte senso del patriottismo, lo ritroviamo anche nella personalità di Pirandello. Oltre all’attenzione che riguarda l’ambiente siciliano e risorgimentale, comincia ad interessarsi a quello borghese e piccolo-borghese moderno. Nella sua vita così come nella sua opera quindi possiamo vedere il riscontro “tra le origini più arcaiche e la modernità, tra la Sicilia e un mondo dai confini sempre più vasti”. Le esperienze per la sua carriera di scrittore, le acquisisce anche conoscendo altre città, non solo in Italia ma perfino fuori Europa.
Mostrando i suoi interessi per la letteratura e per il teatro, Luigi lascia gli studi tecnici per quelli liceali. A dodici anni scrive la sua prima tragedia Barbaro. Compie      i suoi studi liceali a Palermo e si iscrive all’università alle due facoltà, di Legge e di Lettere. Alla fine sceglie la seconda e decide di frequentare i corsi all’università di Roma. Nel 1889 esce a Palermo la sua prima raccolta di versi Mal giocondo. Il suo soggiorno a Roma non dura molto. A causa di un litigio con il latinista e preside Onorato Occioni deve abbandonnare l’università di Roma e si reca in Germania, a Bonn.


Qui frequenta tre corsi semestrali e, nel 1891, si laurea scrivendo una tesi in tedesco di fonetica e morfologia siciliana, Laute und Lautentwickelung der Mundart von Girgenti (Suoni e sviluppo della parlata di Girgenti).
Il suo soggiorno a Bonn è stato importante per la conoscenza della cultura tedesca e proprio là nasce la sua passione per i narratori romantici. Questo fatto, poi, influenza notevolmente la sua carriera da scrittore. A Bonn si innamora di una ragazza tedesca, Jenny Schulz-Lander, e le dedica la sua seconda raccolta di versi Pasqua di Gea uscita nel 1891.
Nel 1892 decide di stabilirsi a Roma e dedicarsi alla letteratura. Conosce gli autori siciliani, Ugo Fleres e Luigi Capuana, quest’ultimo segue Pirandello nel suo lavoro. Comincia ad interessarsi del genere narrativo e nel 1893 scrive il suo primo romanzo, Marta Ajala, che esce solo nel 1901 con il titolo L’esclusa. Scrive anche novelle.           La prima raccolta, pubblicata nel 1894, si chiama Amori senza amore.
Nel gennaio del 1894 Luigi sposa a Girgenti Maria Antonietta Portulano, figlia di un socio in affari del padre. I coniugi si trasferiscono a Roma dove nascono i loro tre figli, Stefano (1895), Rosalia, detta Lietta (1897) e Fausto (1899). Nel 1897 Pirandello comincia la sua carriera di professore di lingua italiana, stilistica e precettistica nell’Istituto Superiore di Magistero di Roma. Nel 1908 ottiene la supplenza alla catedra e nel 1922 lascia volontariamente l’insegnamento. La sua produzione narrativa che appare su giornali e riviste trova l’interesse del pubblico ma non della critica.
Nel 1903 la famiglia Pirandello deve affrontare una crisi economica. Una frana ha allagato una miniera di zolfo. Il padre Stefano perde, così come la moglie Antonietta, tutto il capitale investito. Antonietta subisce un attaco di paralisi e gravi problemi psichici. Non avendo più il sostegno economico dal padre, Pirandello deve lavorare di più. Dà lezioni private e cerca di collaborare di più con giornali e riviste. Scrive varie novelle e soprattutto i romanzi come Il fu Mattia Pascal che esce nel 1904 e subito, l’anno dopo, è tradotto in tedesco. Escono I vecchi e i giovani, pubblicato in volume nel 1913, Suo marito, uscito nel 1911. Nel 1908 escono due suoi saggi,  Arte e scienza e L’umorismo

 

Il primo contatto con il teatro avviene nel 1910 quando la compagnia teatrale di Nino Martoglio rappresenta due atti unici di Pirandello. Lavora anche per il cinema.
Di questa attività nasce nel 1914 il romanzo Si gira..., pubblicato poi nel 1915 sulla Nuova Antologia. Pirandello comincia ad occuparsi a tempo pieno delle opere teatrali solo quando dal 1915, al teatro Manzoni di Milano la compagnia di Marco di Praga rappresenta la sua prima commedia in tre atti Se non così....
I testi teatrali che seguono sono scritti sia in italiano che in dialetto siciliano e alcuni vengono scritti proprio negli anni della Grande Guerra come Pensaci Giacomino!, Liolà (1916), Così è (se vi pare), Il beretto a sonagli, Il piacere dell’onestà (1917),         Il giuoco delle parti (1918).
Questo periodo è intenso anche per la vita privata di Pirandello. I due figli Stefano e Fausto partono per il fronte. Stefano viene catturato dagli Austriaci e Fausto si ammala ai polmoni. Si aggravano i problemi psichici della moglie che poi viene ricoverata in una clinica romana dove restarà fino alla morte (1959). 
Il vero successo delle opere teatrali arriva nel 1920 con Tutto per bene e Come prima, meglio di prima e soprattutto con il capolavoro Sei personaggi in cerca d’autore che dal 1921 ha un  grande successo anche fuori dall’Italia. A partire dal 1922 Pirandello gira con la sua opera per tutto il mondo e inizia l’attività di regista. Si interessa anche al cinema che attinge soggetti dalle sue opere.
Nel 1918 esce il primo volume della raccolta di testi teatrali Maschere nude e nel 1922 quella delle novelle Novelle per un anno. Intanto escono le opere come Enrico IV e Vestire gli ignudi (1922), Ciascuno a suo modo (1924), Questa sera si recita a soggetto.
Contemporaneamente ricomincia a scrivere novelle e romanzi. Nel 1926 pubblica Uno, nessuno e centomila.
Nel 1924 viene iscritto al partito fascista e grazie ai buoni rapporti con Mussolini Pirandello ha potuto fondare nel 1925 il Teatro d’Arte a Roma dove ingaggia l’attrice Marta Abba che diventa la sua grande ispiratrice. Nel 1928, però, per gli altri impegni di Pirandello, il gruppo teatrale finisce la sua attività. Nel 1929 entra nell’Accademia d’Italia e nel 1934 riceve a Stoccolma il Premio Nobel per la letteratura.

Provando a scrivere un dramma diverso dai suoi soliti, scrive I giganti della montagna che resterà incompiuto. Il terzo atto che manca, lo racconta però prima di morire al figlio Stefano.
Pirandello muore di polmonite nella sua casa a Roma il 10 dicembre 1936.


3. IL ROMANZO PIRANDELLIANO

 

In genere possiamo dire che tutte le opere di Pirandello sono legate l’una all’altra. Anche se nei suoi scritti si trovano temi simili l’autore li presenta sempre in maniera diversa. Per questo motivo, ogni personaggio pirandelliano potrebbe appartenere a qualunque dei suoi romanzi. Così certi tratti di Vitangelo Moscarda li possiamo trovare, ad esempio, nel personaggio di Enrico IV.
I romanzi contengono riflessioni molto personali sulla esistenza umana e sulla crisi della società borghese dell’Otto-Novecento, che causa un malessere nel modo di vivere di quei tempi. Nella sua opera Pirandello si identifica col suo mondo poetico. Anche se si tratta di storie umane raccontate in un contesto romanzato, attraverso vari elementi della vita vissuta da personaggi sembrano reali. Pirandello, infatti, nel suo personale modo di scrivere, si identifica con la vicenda narrata a tal punto da guardarsi profondamente dentro, riuscendo così a creare personaggi a lui simili e quasi autobiografici.

 

4. IL PERSONAGGIO E LA MASCHERA

 
Il pensiero di Pirandello si racchiude in due parole: relativismo pirandelliano, cioè la differenza tra l’essere e l’apparire.
Pirandello ritiene che ogni persona si mostri agli altri in maniera diversa. Ognuno di noi, cioè, indossa una maschera per ogni circostanza e per ogni altra persona. Per questo motivo la vera natura di tutti noi è nascosta da comportamenti e da atteggiamenti che non fanno parte del nostro modo di essere.

Pirandello quindi, nella sua opera, fa vivere ai suoi personaggi realtà quasi irreali, e tali personaggi, rendendosi conto di indossare tante maschere non riescono più a definire quale sia il loro vero volto. Infatti, i protagonisti di Pirandello, andando alla ricerca della propria identità, finiscono per vivere situazioni surreali. I personaggi soprafatti dalle maschere vivono diverse realtà che gli fanno perdere il senso dei valori ed il proprio io, lasciando il posto ogni volta ad identità astratte.
Il senso del pensiero di Pirandello, cioè lo scontro tra i tanti modi di essere che ognuno di noi presenta, è quello di cercare di apparire migliori e di voler ingannare mediante una maschera sia chi ci sta di fronte, sia la realtà.
I personaggi di Pirandello provengono dalla classe medio borghese. Sono di solito in lotta con la società, sono oppressi dall’ambiente famigliare e sono prigionieri di un lavoro monotono e frustrante.        

 

5. UNO, NESSUNO E CENTOMILA

5. 1.      Introduzione

Il romanzo uscì a puntate su La Fiera letteraria (dicembre 1925 – giugno 1926) sotto il nome Considerazioni di Vitangelo Moscarda, generali sulla vita degli uomini e particolari sulla propria, in otto libri.
La prefazione della prima puntata del romanzo, sottotitolata “Prefazione all’opera di mio padre”, fu scritta dal figlio Stefano. La prima edizione in volume uscì nel 1926 senza sottotitolo presso l’editore Bemporad di Firenze. In seguito, sono uscite altre edizioni tra le quali anche quella di Mondadori del 1932.
Pirandello scrisse questo romanzo in quindici anni. L’idea che ha fatto nascere     il libro viene dalla novella: Stefano Giogli, uno e due. Il rapporto tra i due principali personaggi Moscarda e Dida è simile a quello di Stefano e sua moglie. Anche Stefano scopre in sé un’altra persona nata dalla scomposizione dell’io.

Tutta la storia del romanzo nasce da un futile discorso tra la moglie Dida e           il personaggio principale Vitangelo Moscarda, nel quale lei gli fa notare alcune sue piccole imperfezioni fisiche. Da questo momento in poi Moscarda si rende conto di essere per gli altri diverso da come è per sé stesso. È incredibile come Pirandello riesca a scrivere un intero romanzo partendo da una situazione apparentemente quotidiana e banale. Davanti ad uno specchio nascono le insicurezze che porteranno Moscarda a vivere momenti quasi grotteschi. Questa banalità rende la tragedia del protagonista quasi comica e il romanzo stesso è considerato probabilmente il più amaro tra le opere di Pirandello.

 

5. 2.      La trama

Uno specchio. Comincia così la serie di avventure del nostro protagonista Vitangelo Moscarda. Si consuma davanti a questo specchio la vicenda di un uomo, convinto di essere senza difetti. In un confronto con la moglie Dida che gli fa notare alcune sue imperfezioni fisiche come il naso che gli “pende verso destra” oppure  le sopracciglia che paiono sugli occhi “due accenti circonflessi”, Moscarda perde la convinzione di essere privo di difetti. Il protagonista ritorna allo specchio e comincia a vedersi in maniera diversa rendendosi conto che gli altri, non solo sua moglie, lo vedono ognuno a modo proprio. Non riesce a trovare un momento per restare solo e contemplare la propria immagine ma un giorno gli capita una buona occasione. Dida, la moglie, vorrebbe andare a trovare una sua amica malata ma è indecisa, Moscarda allora, prende l’occasione al volo e cosciente del fatto che la moglie fa sempre il contrario di quello che lui le dice, le consiglia di non andare. Naturalmente con sua enorme gioia Dida corre dalla sua amica. Rimasto solo si guarda finalmente allo specchio e scopre di avere antipatia nei confronti di questo nuovo Moscarda. “Chi era colui? Nessuno. Un povero corpo, senza nome, in attesa che qualcuno se lo prendesse.”

 

Alla morte del padre, Vitangelo eredita la banca dove lavorano i suoi due amici Firbo, il consulente legale, e Quantorzo, il direttore. Oltre ad essere il proprietario della banca è anche proprietario di alcuni appartamenti. In uno di questi vive un suo conoscente, Marco di Dio, al quale non fa pagare l’affitto. Nonostante questo sa che       la gente, incluso Marco di Dio, lo considera un usuraio. Dopo averci pensato a lungo escogita un piano per dimostrare come un solo evento possa cambiarlo agli occhi di tante persone. Presi i documenti di questo appartamento fa arrivare a Marco di Dio lo sfratto.     Il giorno dello sfratto si presenta anche lui per il solo gusto di osservare il cambiamento del pensiero della folla. Mentre tutti gli urlavano “usuraio, usuraio” il ragazzo del notaio annuncia a tutti la donazione, da parte di Moscarda, di una casa a favore di Marco di Dio. Tutti rimangono sorpresi di questo fatto. Moscarda va nella nuova casa di Marco di Dio per vederne la reazione e da “usuraio” il grido si è trasformato in “pazzo”. Tutto questo per dimostrare agli altri che è diverso da come viene considerato.
Per la stessa ragione decide di chiudere la banca. Non vuole essere più preso per l’usuraio. La sua decisione, però, non piace a quelli che hanno dedicato alla banca tutta   la loro vita. La discussione nasce a casa di Moscarda che poi in un momento di rabbia spinge la moglie facendola cadere sulla poltrona. A questo punto si sente libero sia dall’essere usuraio sia dall’essere chiamato Gengè dalla moglie. Dida l’abbandona.
Anna Rosa, un’amica della moglie, lo invita in un monastero per parlare. Quando si incontrano lei lo avverte di alcuni pericoli che sta correndo e gli dice di incontrarsi con il Monsignor Portanna. Mentre parlano ad Anna Rosa cade la pistola e parte un colpo improvviso che la colpisce alla gamba. Il Monsignor Portanna presenta a Vitangelo Don Antonio Sclepsis che dovrebbe aiutarlo a non farsi interdire. Moscarda passa molto tempo con Anna Rosa e le racconta tutto quello che gli è capitato. Anna Rosa colpita dai suoi racconti lo ferisce con un colpo di pistola.
Quando Moscarda sta meglio dice che lo sparo è partito accidentalmente, mentre Anna Rosa aveva detto precedentemente di aver sparato consapevolmente. Il giudice, però, non soddisfatto va a trovare Moscarda per saperne di più. Moscarda, però, sembra ormai rassegnato e vinto dagli eventi. Non dà alcuna risposta per assolvere Anna Rosa.

 

Si presenta in tribunale vestito da malato con la barba e i capelli lunghi perché non ha più nessuna intenzione di guardarsi allo specchio. Finisce in ospizio, lontano dalla città, ma tutto sommato questa nuova calma gli sta bene. Come lui stesso dice: “Non più in me ma in ogni cosa fuori.”

 

6. NARRAZIONE

 
La storia è narrata in prima persona. È una specie di monologo interiore del protagonista Vitangelo Moscarda che racconta solo quello che lui stesso può vedere o sapere, quindi la focalizzazione è interna. Esistono due tipi di narratori: il narratore interno e quello esterno.
Il narratore esterno parla in terza persona, dall’esterno e quello che racconta è oggettivo. In questo caso, invece, c’è un narratore interno che parla in prima persona ed ha quindi una visione soggettiva della vicenda.
Gli avvenimenti del libro vengono raccontati in ordine cronologico proprio così come seguono uno dopo l’altro. Appaiono, però, anche vari flashback in cui Moscarda torna con i ricordi alla sua infanzia e gioventù.
In genere possiamo dire che prevalgono le sequenze statiche, cioè quelle in cui Moscarda riflette su sé stesso, sui suoi diversi volti e sul mondo che gli sta attorno.          

Il protagonista lega liberamente le sue idee ed intreccia il passato e il presente.

Il ritmo della narrazione è quindi piuttosto rallentato.
Le altre modalità narrative che possiamo trovare nel romanzo sono il discorso diretto e il discorso diretto libero. Una parte dei dialoghi sono come una rappresentazione teatrale nel senso che verbi come “dire” o “rispondere” o “pensare” non ci sono. Nel libro troviamo anche numerose frasi interrogative con cui il protagonista si rivolge spesso direttamente al lettore.

L’opera è divisa in otto libri e ogni libro in vari capitoletti dei quali il titolo serve come un disegno a sintetizzare il contenuto. Il romanzo è scritto in forma scomposta. Scomponendo la forma realistica è diverso dai romanzi naturalistici o storici dell’Ottocento. La doppia personalità del protagonista causa una moltiplicazione di generi e stili dell’opera che spazia dalla forma del non-romanzo al romanzo totale.
Nel romanzo Uno, nessuno e centomila di Pirandello ci sono tutti i cambiamenti che la narrativa in quel momento subisce. Ad esempio il filosofo francese Henry Bergson distinse il tempo esteriore ed il tempo interiore dove il tempo esteriore è formato da una successione di istanti che si misurano con l’orologio ed il tempo interiore è un insieme di istanti che la coscienza vive come “durata” in presente sotto l’influenza del passato e del futuro. Bergson chiama questo concetto “flusso indistinto”. Questa teoria è chiaramente visibile in Moscarda che nel tentativo di bloccare questo flusso finisce per staccarsi dalla realtà.

 

7. IL PROTAGONISTA

 

Pirandello descrive i suoi personaggi tramite la presentazione mista quindi           le caratteristiche del protagonista veniamo a saperle sia dalla sua stessa voce sia dalla voce di altri personaggi del romanzo.

  Possiamo distinguere diverse caratterizzazioni del protagonista:

  • fisica
  • sociale
  • culturale
  • psicologica e ideologica

 

7. 1.      Caratterizzazione fisica

Vitangelo Moscarda è un cittadino di Richieri dell’età di 28 anni. È sposato ma non ha figli. È alto 168 centimetri, i suoi capelli danno sul rosso, gli occhi sono verdastri e dallo sguardo spento. Le sopracciglia sono arcuate, il naso gli pende verso destra ma è di un bel taglio, i baffi sono rossicci e lunghi a tal punto da coprire la bocca e infine        il mento è un pò rilevato.

 

7. 2.      Caratterizzazione sociale

Il protagonista proviene dalla classe medio borghese. Era figlio unico e la sua famiglia era ricca. Avevano addirittura dei servitori. Il padre, uomo alto, corpulento e con pochi capelli, è fondatore della banca di famiglia. Ha fatto costruire una casa dove si sono trasferiti dopo la morte della madre ma che ancora non è ultimata.
Nel libro appaiono vari flashback in cui Moscarda ricorda con malinconia           la infanzia ed il suo rapporto con il padre.

 

7. 3.      Caratterizzazione culturale

Dopo la morte della madre Moscarda fu mandato in tre collegi diversi. Passò 6 anni in università ma visti gli scarsi profitti dovette ritornare a Richieri dove si sposò a 23 anni con Dida dalla quale il padre avrebbe desiderato un nipote che non assomigliasse troppo a suo figlio. Quando due anni dopo morì suo padre Moscarda diventò  il proprietario della banca. Bisogna dire, però, che non lavorò mai. Essendo ricco e avendo due amici che si prendevano cura della banca Moscarda passava il suo tempo riflettendo su ogni piccola cosa, come ad esempio sulle sedie in banca, e badando poco al lavoro:

 

 

E la malinconia disperata di quelle poche seggiole d’antica foggia, presso i tavolini, su cui nessuno sedeva, che tutti scostavano e lasciavano lì, fuori di posto, dove e come per quelle povere seggiole inutili era certo un’offesa e una pena esser lasciate.
Tante volte, entrando, m’era venuto di far notare:
« Ma perché queste seggiole? Che condanna è la loro, di stare qua, se nessuno se ne serve? »

 

7. 4.      Caraterizzazzione psicologica e ideologica

Come tutti i personaggi di Pirandello anche Vitangelo Moscarda ha un profilo psicologico complesso. Come vedremo, la sua dinamicità psicologica lo farà cambiare nel corso del romanzo.
In quanto alla tipologia di personaggi, esistono il personaggio “tipo” o “piatto” e il personaggio “individuo” o “a tutto tondo” al quale sicuramente appartiene il nostro protagonista. Moscarda esprime appieno il concetto di “vita” e “forma” che contraddistingue l’intera opera pirandelliana, la vita intesa come essere e la forma intesa come apparire.

Nel primo libro Moscarda, che si considera un uomo normale, scopre dalle parole della moglie di avere qualche piccolo difetto fisico. Sentendosi offeso, comincia a pensare che il suo modo di vedersi sia diverso da quello degli altri. Da questo momento inizia a tormentarsi ed a non riconoscersi più. Addirittura cerca, parlando con le altre persone di capire se i suoi difetti siano veramente visibili, ed è talmente scosso da questa scoperta che cerca difetti anche negli altri comunicandoglieli immediatamente. Forse non lo fa per cattiveria perché, a questo punto del libro, non si sa ancora fino a che punto arriverà la sua follia, sembra piuttosto che lo faccia solo per ripicca, per dare agli altri la stessa angoscia che ha lui. Questo nuovo modo di vedersi lo porta lentamente a fare cose un po' da matto, come voler restare a tutti i costi solo per potersi finalmente confrontare con l’altro sé o addirittura sentirsi il nuovo Moscarda senza il vecchio.

 

Cerca, cioè, di stabilire come veramente viene visto dagli altri provando ad estraniarsi da se stesso. Come se lui fosse “gli altri”. Scopre così una verità per lui sorprendente e nello stesso tempo inquietante: non c’è solo un altro Moscarda ma ce ne sono 100 000, uno per ogni altra persona. Da questo momento studia i comportamenti e  gli atteggiamenti della sua propria “ombra”, davanti allo specchio, parlando con gli altri continua a studiarsi in modo quasi ossessivo. Prova addirittura antipatia per l’estraneo che vede allo specchio.
Lui stesso dice:
« Il mio sforzo supremo deve consistere in questo: di non vedermi in me, ma d’essere veduto da me, con gli occhi miei stessi ma come se fossi un altro: quell’altro che tutti vedono e io no. »

Alla fine del primo libro Moscarda potrebbe sembrare, con le sue riflessioni e conclusioni filosofiche, come un semplice pazzo ma nel proseguimento del libro vedremo invece che è cosciente.
Moscarda suppone che tutti osservino i suoi difetti fisici, la gente invece non li nota, anzi, addirittura non li considera importanti. Dida, infatti, gli ha parlato dei suoi difetti soltanto per burlarlo e sicuramente non poteva immaginare conseguenze del genere.

Nel secondo libro lo sdoppiamento del protagonista che parla fra sé e sé è ancora più evidente. Cerca dei motivi per spiegare perché sia arrivato a fare simili pazzie. Nelle sue riflessioni fugge in un posto nella campagna dove si rifugerà, poi, nell’ottavo libro. È un simbolo di tranquillità dove l’uomo non è oppresso da pensieri complicati.            

La natura è un posto dove le cose sono come appaiono e quindi tutti le vedono nella stessa maniera. Moscarda pensa di non riuscire a vedersi vivere, teme che gli altri non lo vedano per come è realmente e viceversa lui non vede gli altri per come sono. Incolpa questi pensieri che lo opprimono troppo.

Ahimè, caro, per quanto facciate, voi mi darete sempre una realtà a modo vostro, anche credendo in buona fede che sia a modo mio; e sarà, non dico; magari sarà; ma a un «modo mio» che io non so né potrò mai sapere; che sapete soltanto voi che mi vedete da fuori: dunque un «modo mio» per voi, non un «modo mio» per me.
Se per gli altri Vitangelo è tante persone insieme, per se stesso non è nessuno. Per la moglie Dida, ad esempio, Vitangelo crede di rappresentare un buonuomo che lei chiama Gengè. È una persona creata da Dida stessa in cui Moscarda non si riconosce affatto. Non crede di avere qualcosa in comune con lui, anzi ha dei gusti e dei pensieri completamente diversi. Moscarda ritiene Gengè una creatura stupida e vorrebbe far capire a Dida che lui stesso non ha niente a che vedere con il suo Gengè, ma sa che diventerebbe ai suoi occhi un estraneo a cui Dida potrebbe non volere più bene.
Finora non ha mai fatto niente che mostrasse un segno di protesta. Nei conflitti si è sempre arretrato davanti agli altri per evitare i problemi che ne potevano nascere, e così in questa parte del romanzo cerca ancora di accettare il Gengè di sua moglie. Cerca di sopportarlo anche se è molto geloso di lui. E tutto questo solo per la paura di perdere Dida. 
Dida non sa che cosa succede nell’intimo di Vitangelo. Il suo pensiero è spesso in contrasto con quello di Moscarda. Lei ritiene di conoscere i gusti del marito e invece dai loro discorsi si capisce che non è così. Dida crede di conoscerlo meglio di chiunque altro, ma precisamente non si riesce a comprendere cosa pensi di lui. Lei lo chiama Gengè non per farlo sembrare stupido, ma per esprimere il suo affetto. Dida continua a vivere la sua vita normalmente, non ha ancora nessun dubbio su suo marito. Non si rende conto che è lei la miccia della bomba che sta per esplodere. Parla con lui normalmente e si comporta come se tutto fosse come sempre

 

 

Il terzo libro potrebbe caratterizzarsi con le parole di Moscarda stesso: “Pensarci e sentire un impeto di feroce ribellione fu tutt’uno.”
In questo libro nasce un evidente cambiamento nella psicologia del protagonista perché invece di essere piuttosto rassegnato come nel secondo libro, decide di ribellarsi. Vuole scoprire tutti gli altri Mostarda e ucciderli facendo gesti assurdi come vedremo in seguito.
Moscarda si sente estraneo a tutto quello che gli viene attribuito dagli altri e non si immedesima perfino neanche con il suo cognome, come dice lui stesso, “brutto fino alla crudeltà” che rappresenta per lui: “la mosca, e il dispetto del suo aspro fastidio ronzante”. Il nome Moscarda rappresenta per gli altri l’immagine e la voce di Vitangelo che lui stesso non riconosce e perciò non ha nessun nome per se stesso.
Finora non aveva mai pensato che qualcuno potesse influenzare la sua vita ma una persona invece è stata incisiva per lui, suo padre. A un certo punto, Moscarda torna con il pensiero all’infanzia e si immerge nel ricordo del rapporto con il padre. Lo vede in modo diverso da come lo conosceva. Gli appare come una persona nemica e carica d’oro. Dal padre Moscarda eredita dei tratti fisici simili e poi anche il mestiere che diventa una delle ragioni della sua rivolta.
Anche se non ha mai lavorato ha adesso la stessa reputazione di suo padre, che era considerato dalla gente un usuraio, e della quale si vergogna. Vuole sbarazzarsene e mostrare così agli altri che non è come loro pensano, che quella è solo una apparenza. Sostiene che non si giudica un uomo da un singolo fatto, perché è troppo poco per poter esprimere un giusto giudizio.
Dida conosce la fama di suo marito ma non gli dà molta importanza. Infatti, quando Moscarda comincia a parlarne preferisce fare finta di niente. Anche se Moscarda non s’intende del lavoro che si svolge in banca viene rispettato. Possiamo dire che per     i dipendenti e per i soci è meglio che lui non si intrometta, almeno non c’è nessuno che faccia confusione negli affari. Sia Dida che Firbo e Quantorzo prendono il nostro protagonista per come si è sempre mostrato. Nessuno tra loro, comunque, lo reputa un imbecille, anche se dice cose insensate, come lui spesso pensa.
Infatti per chi ritiene di conoscerlo lui è semplicemente fatto così: “[...] per gli altri era naturale ch’io fossi così; mi conoscevano così; non potevano pensarmi altrimenti [...]”.

 

Nel quarto libro Moscarda, oppresso dalla reputazione che ha, decide di uccidere una delle sue 100 000 ombre. Il suo comportamento comincia ad avvicinarsi alla pazzia.
Escogita un esperimento che sia completamente incompatibile con il suo          io-usuraio, credendo di potere rovinare la persona che Moscarda rappresenta per gli altri e così farsi benvolere. Decide in pratica di sfrattare Marco di Dio che da anni viveva gratuitamente in una delle sue proprietà. A questo punto, però, l’esperimento non è più mostrato come uno scherzo ma piuttosto come un dramma che potrebbe causare            la pazzia e la morte di Moscarda rovinando non solo i rapporti con la gente che gli sta attorno ma anche se stesso.
Preparandosi per questo esperimento, infatti, fa delle cose stranissime che fanno pensare agli altri che sia impazzito. Dal notaio dice cose insensate, in banca pronuncia discorsi come se parlasse tra sé e sé e finisce per rubare dei documenti dalla propria banca. Cercando un contratto nell’armadio si alternano nella sua anima sentimenti di rabbia e di disperazione, come se nella sicurezza di fare una cosa giusta sentisse l’incertezza. Trovare questi documenti era per Moscarda una questione di vita o di morte. Era l’unico modo per liberarsi dalla parola “usuraio” e dal modo in cui veniva giudicato dalla gente.
Proprio nella banca, assistendo a una scena drammatica tra Firbo e Turolla, un uomo che voleva chiedere un prestito alla banca, Moscarda si rende conto che ognuno forza gli altri affinchè vedano una realtà nello stesso modo in cui la vede lui anche se loro non la pensano così. L’imbecille di Moscarda è, così come Turolla, vittima dello scherno degli altri. Per vendicarsi ride degli altri e fa il pazzo.
Poi, durante lo sfratto di Marco di Dio era presente solo per ascoltare le offese della gente e soprattutto per vedere la  trasformazione che avrebbe subito quella folla di persone quando lui avrebbe concluso il piano che aveva escogitato.
Aveva cacciato di casa Marco di Dio per aumentare la rabbia e il disprezzo degli altri nei propri confronti per poi improvvisamente donargli una casa ancora più bella e godere del nuovo giudizio che gli avrebbero dato le persone presenti.
Tutto questo, solo per dare una nuova immagine di sé e provare un forte piacere nel vedere lo stupore della gente, nel vedere il cambiamento che avrebbe subito quella folla, un Moscarda che da usuraio sarebbe diventato eroe.
Ero, non saprei dir come, tutto in fremito, in attesa del miracolo: la mia trasfigurazione, da un istante all’altro, agli occhi di tutti. Ma all’improvviso quel mio fremito fu come tagliuzzato in mille parti e tutto il mio essere come scaraventato e disperso di qua e di là a un’esplosione di fischi acutissimi, misti a urla incomposte e a ingiurie di tutta quella folla al mio nome, non potendosi capire che la donazione l’avessi fatta io, dopo la feroce crudeltà dello sgombero forzato. 
Le conseguenze di questo fatto, però, sono state diverse da quelle che Moscarda aveva immaginato. È rimasto deluso perché nessuno dei presenti riusciva a sentire della donazione che aveva fatto ed è andato via tra i fischi e gli insulti. La folla non riesce a capire il lato possitivo di quello che succede.
Marco di Dio è una delle persone che chiama Moscarda usuraio. Questo è un po’ paradossale, perché, come abbiamo già detto prima, Moscarda lo fa vivere in una delle sue case senza fargli pagare l’affitto. L’atteggiamento di Marco di Dio fa capire che lui prova invidia nei confronti del ricco Moscarda. Si sente probabilmente inferiore e usa come arma parole false contro Vitangelo. Anche se per poco tempo, Marco di Dio è un personaggio chiave. Un uomo comune, come la folla che chiama usuraio Moscarda senza neanche conoscerlo. Per loro lui è così solo perché è ricco ed è più fortunato. Se finora nessuno ha registrato niente di strano nel comportamento di Moscarda, in questo libro la gente, incluso Firbo e Quantorzo, rimane stupita davanti alle sue reazioni e comincia a pensare che dia qualche segno di pazzia.

 

 

Vedendo che il suo gesto da pazzo non ha registrato nessun successo, Moscarda cerca di dare la colpa a quello “imbecille di Gengè”, una delle sue maschere vista dalla moglie Dida. Vitangelo sente l’ansia di tutte le personalità che vivono dentro di lui. Si è allontanato non solo da sé stesso ma anche da Dida. Si accorge di non conoscere Dida stessa, conosce solo la Dida che lui stesso ha creato così come lei conosce soltanto il suo Gengè e non il vero Vitangelo Moscarda. Moscarda si sente incompreso ed addirittura completamente estraneo a se stesso. Non riesce più a darsi una propria forma.
Ormai sono soltanto gli occhi degli altri che gli possono dare una forma. Non sopporta più gli sguardi di tutte le persone che vivono, secondo, lui nell’oscurità, credendo che vengano viste dagli altri così come si vedono loro stesse. Si rifugia, quindi, per un momento in posti isolati per riflettere sulla sua situazione. Si sente solo. Ad un certo punto gli viene in mente perfino l’idea della morte che, secondo lui, forse darebbe conferma della sua pazzia. Riflette anche sulle reazioni che potrebbero avere sua moglie e i suoi conoscenti.
Moscarda a questo punto del romanzo sviluppa una teoria sul vedersi. Il fatto che ognuno vede Moscarda a modo proprio lo rende “nessuno” non solo per gli altri ma anche per lui stesso. Non riesce a trovare una sua identità. Durante un litigio riguardante il lavoro della banca, a casa sua, fa notare a Quantorzo che basta un minimo effetto e l’uomo comincia a dubitare di se stesso e degli altri. Moscarda con tutta la rabbia che ha dentro di sé rivela il vero motivo del suo gesto assurdo. Vedendo poi Dida che scoppia a ridere, si sente ferito. Sa che la moglie ride della stupidità del suo Gengè.
Volendo rovinare completamente il Moscarda-usuraio, decide di fare un altro gesto assurdo, chiudere la banca. È un fatto inspiegabile perché la banca gli assicura una vita senza il bisogno di lavorare. Tutto questo, però, gli è indifferente. Ritiene più importante non essere considerato usuraio. Si rende conto che per gli altri lui è nato usuraio, che qualunque cosa faccia non riuscirà mai a togliersi quel “titolo”. Proprio questo però lo spinge ancora di più. Lui non si sentiva usuraio e non doveva esserlo per nessuno, a costo di rovinare la sua stessa vita.
Questa decisione e fermezza lo porta a litigare con Dida e, di conseguenza, Moscarda allontana anche Gengè che non accetta più.

 

Dida non aveva mai pensato che lo sfratto di Marco di Dio fosse qualcosa di serio, ma lo considerava soltanto un cattivo scherzo di Gengè. Anche in questa parte del libro Dida considera il suo Gengè come uno “scioccone” per quello che ha fatto e non uno stupido. In questo libro, l’incontro a casa tra Moscarda, Dida e Quantorzo è quasi paradossale. Si capisce infatti, che mentre Vitangelo continua con i suoi pensieri a scavarsi dentro e a vedere gli altri con occhi diversi, gli altri continuano a ritenere il suo comportamento strano come se fosse normale, non rendendosi conto di niente. Quando però Moscarda comincia a discutere con rabbia, come non aveva mai fatto, sia Dida che Quantorzo iniziano ad avere dubbi sulla sua situazione mentale. Il fatto di voler chiudere la banca, infatti, li manda in crisi. Quantorzo sente la paura di perdere il proprio lavoro per colpa di un capriccio e cerca di far ritornare in sé Moscarda ma senza successo.  Resta ovviamente esterrefatto da questo comportamento e quasi non sa come comportarsi, vuole difendere il proprio lavoro e la stessa banca ma non capisce il motivo di questa assurda decisione e quindi neanche lui sa cosa fare.

 

Ripensando al suo comportamento aggressivo verso Dida, se ne pente. Nello stesso tempo, però, si rende conto che con questo modo di fare gli è tornato  un sentimento e una volontà che finalmente lo rendono “uno”. Non si sente essere più né l’usuraio né quell’imbecille di Gengè. È uno ancora sconosciuto perfino per sé stesso, uno che ancora deve scoprire.
Come lui stesso dice:
 « Ma io, uno, chi? chi? »
Se non avevo più occhi per vedermi da me come uno anche per me? Gli occhi, gli occhi di tutti gli altri seguitavo a vedermeli addosso, ma ugualmente senza poter sapere come ora m’avrebbero veduto in questa mia neonata volontà, se io stesso non sapevo ancora come sarei consistito per me.
Non più Gengè.
Un altro.
Avevo proprio voluto questo.
Ma che altro avevo io dentro, se non questo tormento che mi scopriva nessuno e centomila?
Uno per se stesso quindi, ma la gente gli continua ad attribuire forme con          le quali non riesce ad identificarsi.
Quando il suocero di Moscarda interviene nel tentativo di fargli cambiare opinione così da non chiudere la banca, Moscarda conferma ancora il suo comportamento da pazzo. Capisce da solo che quello che sta facendo è assurdo, ma nello stesso tempo non può più tornare indietro. Prendendo i soldi ottenuti dopo            la liquidazione della banca non cancellerebbe la sua reputazione di usuraio e buttandoli via non avrebbe di che campare. Inoltre se facesse un altro mestiere non cambierebbe niente. Ognuno continuerebbe a vederlo sempre a modo proprio e lui continuerebbe ad essere per sé stesso nessuno.
Il rapporto con Dida è rotto ormai e per lui è un peso visto che ancora è innamorato di lei, ma sa che con questo comportamento da pazzo mette a rischio anche la tranquillità della vita della moglie, soprattutto dopo che il suocero lo ha definitivamente considerato impazzito avverte la difficoltà di tornare il Gengè di sempre.

 

Nel settimo libro è importante la figura di Anna Rosa, amica della moglie di Moscarda, che lo aiuta contro chi vorrebbe dichiararlo pazzo e mandarlo in manicomio.
In uno dei suoi tanti discorsi con se stesso, Moscarda parla della propria pazzia riferendola a un Dio interiore. Una coscienza che racchiude i sentimenti dentro di sé e che lui chiama il “Dio di dentro”. L’uomo ha bisogno invece, per il nostro protagonista, di un Dio di fuori, cioè di chiese e di istituzioni che lo rendano più reale, più vero. Il suo Dio di dentro ferito da chi lo voleva interdire era ora costretto a chiedere aiuto al Dio di fuori, molto più potente di quello interiore, al quale nessuno avrebbe potuto dare del pazzo.
Anna Rosa infatti per aiutarlo lo manda da alcuni personaggi ecclesiastici che costituiscono appunto il “Dio di fuori”.

Intanto tra Anna Rosa e Moscarda  nasce una attrazione reciproca. Lui si invaghisce delle giovani forme del suo corpo e probabilmente avverte il piacere nel parlarle di lasciarsi andare:
[...] parlavo quasi senza pensare; o piuttosto, il mio pensiero parlava da sé, come per un bisogno di rilasciare la sua spasimosa tensione.
Lei lo ascolta attratta dai suoi pensieri e nello stesso tempo spaventata dalla realtà che lui le racconta. Le parole di Anna Rosa colpiscono Moscarda, perché  gli danno una nuova immagine di Dida, la moglie. Si rende conto, in quel momento che Dida era una persona con lui e un’altra persona con gli altri e che così era per tutti.        

Le rivelazioni di Anna Rosa lo costringono, quasi, a rivelare tutto quello che fino a quel momento aveva scoperto:
«Lei non può conoscersi che atteggiata: statua: non viva. Quando uno vive, vive e non si vede. Conoscersi è morire.»
L’uomo vive per vedersi e non riesce a conoscersi per come gli altri lo vedono. Questo distacco dagli altri è solitudine. Anna Rosa, scossa e affascinata da questi discorsi, forse per paura di farsi trascinare troppo, gli spara un colpo per ucciderlo.
La comparsa di Anna Rosa è improvvisa. Vuole aiutarlo come ha sempre fatto, anche quando discuteva con Dida cercando di farle capire che lui non è uno stupido. Probabilmente ha sempre avuto un debole per Moscarda, infatti lo considerava:          “un infelicissimo Signor Gengè che doveva soffrire chi sa che strazii in corpo a essere stimato e amato così dalla propria moglie”. A questo punto, il cambiamento così radicale di Moscarda , gli mette tutti contro. La moglie Dida, Marco di Dio, il suocero,    i suoi dipendenti, tutti sono insieme nel tentativo di rovinarlo. È come se tutti avessero paura delle conseguenze che il nuovo Moscarda potrebbe causare.

 

Durante la convalescenza, sdraiato sotto una coperta verde, Moscarda fantastica. I suoi pensieri fuggono in un posto lontano, vagano in un posto della campagna che     

gli dà una sensazione di pace e tranquillità. Si è staccato dal resto del mondo, come se fosse diventato una creatura senza logica, senza memoria, ma costretto, per vivere, a nascere e morire continuamente.
Vive in un posto dove non ha bisogno di documenti, di identità, di ricordi. Vive da anonimo in un posto dal quale non può più ritornare da protagonista. Lo dimostra nella sua ultima apparizione in pubblico, vestito come quando è in ospizio e senza interessarsi del suo aspetto. Costretto a girarsi, forse per l’ultima volta, nel sentirsi chiamare Moscarda, quel nome che sente ormai lontano e che lo lega ancora alla società. Chiede di scriverlo sulla tomba perché come dice lui stesso:
Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita.
Vive in un ospizio quindi, lascia fuori la propria identità, la propria storia, tutto ciò che riguarda la società esterna e diventa “nessuno”. 
Ritrova così la sua identità, come nessuno e senza nessuno.


8. CONCLUSIONE

 

Uno, nessuno e centomila è una specie di conclusione del precedente romanzo   Il Fu Mattia Pascal. Pirandello infatti, termina con Moscarda le proprie riflessioni sul consumarsi del protagonista cominciate con Mattia Pascal. L’autore costruisce           una rappresentazione perfetta ed efficace sulle stranezze dell’uomo moderno e della società nella quale viviamo.
Nella pazzia di Vitangelo Moscarda troviamo dei momenti di lucidità  e di autocritica che lo fanno sembrare assolutamente normale. Il fatto che lui esca fuori dalle regole lo rende agli occhi degli altri come un folle, lui stesso si rende conto che quello che fa è assurdo. Le stranezze dei suoi pensieri e l’incredibile modo in cui compie delle azioni fuori dal comune rendono questo romanzo drammatico e contemporaneamente comico. L’epilogo stesso dell’opera lascia capire che Moscarda decide volontariamente di essere pazzo. È lui che decide di finire i suoi giorni in un manicomio per la sola voglia di allontanarsi dalle sue tante maschere e dalle maschere degli altri, staccarsi da tutto e diventare “nessuno”.
Probabilmente, essendo questo un romanzo con molte note autobiografiche, Pirandello vorrebbe allontanarsi dalla società, come il suo eroe. L’autore quindi vorrebbe sgretolare la propria vita per cercare una nuova e migliore vita. Moscarda infatti trova nel manicomio e nella solitudine la propria identità e la propria rinnovata coscienza, dopo aver fatto a pezzi tutto il suo passato. Forse Pirandello vede in Moscarda un uomo che non ha paura di approfondire i segnali di disagio che ognuno di noi ha durante la propria vita. Il suo protagonista ha il coraggio di mettere tutto in discussione e ricominciare da zero, a costo di essere ritenuto dal mondo che lo circonda un pazzo.
Uno, nessuno e centomila è un concentrato di paradossi, di pensieri interiori profondi ed autocritici, una incessante ispezione della vita che conduce Moscarda ad     un finale altrettanto paradossale: “Io sono vivo e non concludo”.

9. BIBLIOGRAFIA

 

  • R. Bodei, Uscite di insicurezza, in Uno, nessuno e centomila, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 2007
  • N. Borsellino, Introduzione, in Uno, nessuno e centomila, Garzanti Editore s.p.a., Milano 1993

 

  • E.Cecchi, N.Sapegno, Storia della letteratura italiana: Il Novecento:Luigi Pirandello, a cura di G.Macchia, Garzanti Editore s.p.a., Milano 1987
  • G. Ferroni, Storia della letteratura italiana: Il Novecento, Einaudi scuola, Milano 1991

 

  • P. Milone, Prefazione, in Uno, nessuno e centomila, Garzanti Editore s.p.a., Milano 1993
  • B. Panebianco, A.Varani, Orizzonti Narrativa Cinema, Zanichelli, Bologna 2004

 

  • L. Pirandello, Uno, nessuno e centomila, Garzanti Editore s.p.a., Milano 1993

 

  • F.Virdia, Invito alla lettura di Pirandello, Mursia, Milano 1975

 

 

R. Bodei, Uscite di insicurezza, in Uno, nessuno e centomila, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 2007,     p. XXV.

Cfr. B. Panebianco, A.Varani, Orizzonti Narrativa Cinema, Zanichelli, Bologna 2004, pp. D34-D36.

Cfr. G. Ferroni, Storia della letteratura italiana: Il Novecento, Einaudi scuola, Milano 1991, p. 165.

P. Milone, Prefazione, in Uno, nessuno e centomila, Garzanti Editore s.p.a., Milano 1993, p. LVII.

N. Borsellino, Introduzione, in Uno nessuno e centomila, ed. cit., p. XXVIII.

Cfr. F. Virdia, Invito alla lettura di Pirandello, Mursia, Milano 1975, p. 109.

L. Pirandello, Libro Terzo, in Uno, nessuno e centomila, Garzanti Editore s.p.a., Milano 1993, pp.59-60.

Cfr. N. Borsellino, Introduzione, in Uno, nessuno e centomila, pp. XI-XXII, G. Ferroni, Storia della letteratura italiana: Il Novecento, Einaudi scuola, Milano 1991, pp. 125-131.

N. Borsellino, op. cit., ed. cit., p. XI.

G. Ferroni, op. cit., ed. cit., p. 125.

Cfr. F.Virdia, Invito alla lettura di Pirandello, Mursia, Milano 1975, pp. 85-86, E.Cecchi, N.Sapegno, Storia della letteratura italiana: Il Novecento:Luigi Pirandello, a cura di G.Macchia, Garzanti Editore s.p.a., Milano 1987, p. 481, B. Panebianco, A.Varani, Orizzonti Narrativa Cinema, Zanichelli, Bologna 2004, p. C.66.                                    

Cfr. P. Milone, Prefazione, in Uno, nessuno e centomila, Garzanti Editore s.p.a., Milano 1993, p. 64,              G. Ferroni,  Storia della letteratura italiana: Il Novecento, Einaudi scuola, Milano 1991, pp. 134-136,                          B. Panebianco, A.Varani, Orizzonti Narrativa Cinema, Zanichelli, Bologna 2004, p. C66.

P. Milone, Prefazione, in Uno, nessuno e centomila, Garzanti Editore s.p.a., Milano 1993, pp. LXXXIX-XC.  

E.Cecchi, N.Sapegno, Storia della letteratura italiana: Il Novecento:Luigi Pirandello, a cura di G.Macchia, Garzanti Editore s.p.a., Milano 1987, p. 502.

L. Pirandello, Libro primo, in Uno, nessuno e centomila, Garzanti Editore s.p.a., Milano 1993, p. 3.

Ivi, p. 4.

Ivi, p. 23.

L. Pirandello, Libro ottavo, in op. cit., ed. cit., p. 162.

Cfr. B. Panebianco, A.Varani, op. cit., ed. cit., p. D36.

Cfr. P. Milone, op. cit., ed. cit., p. LXXVIII.

Cfr. B. Panebianco, A.Varani, op. cit., ed. cit., p. C59.

Ivi, pp. A.33-A.37.

L. Pirandello, Libro quarto, in op. cit., ed. cit., p. 82.

L. Pirandello, Libro Primo, in op. cit., ed. cit., p. 19.

L. Pirandello, Libro secondo, in op. cit., ed. cit., p. 34.

L. Pirandello, Libro terzo, in op. cit., ed. cit., p. 49.

Ivi, p. 49.

L. Pirandello, Libro terzo, in op. cit., ed. cit., p. 58.

L. Pirandello, Libro quarto, in op. cit., ed. cit., p. 93.

L. Pirandello, Libro sesto, in op. cit., ed. cit., p. 119.

L. Pirandello, Libro settimo, in op. cit., ed. cit. p.149.

Ivi, p. 148.

Ivi, p. 134.

L. Pirandello, Libro ottavo, in op. cit., ed. cit., p. 160.

L. Pirandello, Libro Ottavo, in op. cit., ed. cit., p. 160.

 

Fonte: http://is.muni.cz/th/145165/ff_b/bakalarska_prace.doc

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