Amore e libertà

Amore e libertà

 

 

 

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Amore e libertà

AMORE E LIBERTÀ
Alberto Alberti

       

 

IL MISTERO DELL’UOMO

Mi disse una volta Roberto Assagioli che la cosa più importante della vita è sapere chi siamo, poter cogliere la nostra essenza, l’identità vera e profonda, il Sé, l’anima, e riuscire ad intravederne la direzione e la méta: il progetto-Sé o progetto-anima.
Non possiamo trovare la nostra essenza, cercando di entrare nella testa dell’uomo: li ci possiamo trovare di tutto, una molteplicità di elementi intricati e cervellotici, ma non l’anima. Per trovare il Sé, dobbiamo dirigerci verso il centro dell’uomo, penetrare nella “grotta del cuore”, nelle cui profondità sta veramente custodita l’anima: essa sta lì come una “dolcezza” (come dice la Mere), come un “bambino che nasce” (come ci dicono i sacri testi indiani).  
Ma come fare per entrare nel cuore dell’uomo? Come poter sfiorare la sua anima?

  1. Non possiamo certo farlo con la conoscenza logica e razionale: non possiamo raggiungere l’uomo mediante l’albero della conoscenza. Non è possibile essere allo stesso tempo il soggetto e l’oggetto della conoscenza. Se così facciamo, ci dividiamo in due e perdiamo la totalità dell’esserci: cioè perdiamo di vista l’uomo stesso.
  2. Possiamo però penetrare nel mistero dell’uomo, abbracciando l’albero della vita: e possiamo fare ciò mediante l’intuizione empatica. Il processo dell’intuire (dal lat. = intus-ire) ci permette di “entrare dentro”, cioè direttamente nel cuore di ciò che vogliamo conoscere.
  3. Ma è possibile entrare nel proprio cuore? È possibile un’auto-intuizione, una auto-empatia? È possibile entrare con l’intuizione dentro di sé? Non si corre il rischio di perdersi e naufragare in un’adorazione narcisistica e solitaria di se stessi? Narcisovedeva se stesso nello specchio delle acque, e s’innamorò della sua immagine riflessa (narcisismo); ma non vedeva in realtà se stesso, solo un’immagine rovesciata di sé (come avviene nello specchiarsi). Per raggiungere un’immagine diritta e vera di sé è indispensabile la relazione.
  4. Allora forse l’uomo non è fatto per guardare se stesso, ma per vedere l’altro. Lo scopo dell’uomo non è quello di conoscere se stesso, ma di conoscere e riconoscere ciò che è altro da sé, ciò che gli sta di fronte; e potrà farlo positivamente solo quando l’altro si rivela, si rende visibile nelle sue manifestazioni di anima. E in questo caso potrà servirsi dell’intuizione empatica, ed anche della capacità di unione e comunione. L’altro allora può essere conosciuto e riconosciuto. Come a dire: ecco questo sei Tu! Questo è il tuo corpo, queste le tue emozioni, questi i tuoi pensieri, questa la tua volontà. Ecco la tua anima!
  5. Similmente ogni singolo uomo è fatto per farsi conoscere e riconoscere. L’uomo ha quindi il compito di rivelarsi, manifestarsi, rendersi visibile nella pienezza e completezza della sua umanità. Ciascuno ha dunque il compito ultimo, non di mascherarsi, ma di farsi conoscere e riconoscere nella propria identità e specificità umana.   

 

IL SÉ ATTRAVERSO IL NOI

Ecco, forse, l’unico modo per cogliere l’esperienza dell’anima. Possiamo trovare noi stessi soltanto nella reciprocità del riconoscimento e nell’amore.
Come diceva Martin Buber:

“lo spirito non sta nell’io, ma tra l’io e il tu”,

e come diceva Victor E. Frankl,

“i nostri occhi non sono fatti per guardare dentro di noi,
ma fuori e davanti a noi”.

Victor E. Frankl  ci parla, nei suoi scritti, di quella falsa prospettiva che è l’auto-realizzazione. Essa infatti non si ottiene direttamente “per intentionem”, ma solo indirettamente “per effectum”. L’appagamento non deve essere ricercato come fine in sé: solo andando oltre se stesso verso gli altri e verso il mondo, l’uomo realizzerà come effetto secondario anche se stesso.
Come scrive Frankl “l’uomo è se stesso nella misura in cui si supera e si dimentica”.

 

L’UMILTÀ

La funzione psichica principale, mediante la quale possiamo cogliere la presenza dell’anima (o essere colti in tale presenza) nel suo rivelarsi in noi o negli altri, è quindi – come detto – l’intuizione. Ma tale funzione, per cogliere il vero, ha bisogno di poggiare le proprie radici in quella che possiamo considerare la funzione umana per eccellenza: l’umiltà.
Essa costituisce la “traccia” della nostra condizione umana, il nostro humus, la nostra terra, che ci permette di riconoscersi allo stesso tempo nei nostri limiti e nelle nostre potenzialità. L’umiltà è il senso delle nostre giuste proporzioni: non siamo né troppo piccoli, né troppo grandi. Siamo quello che siamo. Non siamo Dio (come vorremmo essere), ma neppure delle nullità (come abbiamo paura di essere).
Se ci avviciniamo ad un altro essere umano con sensibilità e rispetto, senza volerlo invadere e possedere, se nello stesso tempo apriamo e riveliamo l’uomo che c’è in noi, lasciando che si renda visibile, possiamo allora veramente riuscire a sfiorare, accarezzare l’esperienza dell’anima.
Si può verificare un contatto intimo e segreto, nel quale può rivelarsi il mistero della natura umana: e – se ciò accade – essa non si rivela tanto come un fatto conoscitivo, come un qualcosa di logico e razionale, ma come  una esperienza esistenziale, diretta, auto-evidente che viene percepita come una semplice realtà di sentimento.

 

NEL CUORE DELL’UOMO

Eccoci così entrati nel cuore dell’uomo (e nel cuore della vita); e cosa c’è nel cuore dell’uomo? C’è il sentimento, che è la voce dell’anima, l’espressione dell’umanità dell’uomo. Cos’è questo sentimento?

  1. È prima di tutto libertà: l’uomo è “libertà di esserci”. L’uomo è libertà di essere se stesso, di essere quello che è. La natura umana poggia le sue radici nel sentimento di libertà.
  2. In secondo luogo è gioia: “gioia di esserci”, gioia di essere se stesso, di essere liberi di essere quello che siamo; è gioia di rivelarsi, di manifestarsi nella pienezza della propria umanità.
  3. In terzo luogo è amore: non siamo delle isole. Da soli siamo incompleti. Siamo interdipendenti in inter-relazione con ogni forma di vita. L’essenza dell’uomo è quindi relazione: abbiamo visto che non possiamo conoscere la nostra anima, ma renderla visibile ad un'altra persona sì che possa dall’altro essere riconosciuta, confermata e condivisa. E similmente possiamo riconoscere ed amare l’anima in manifestazione di un’altra persona che ci sta di fronte.

Ma l’amore – se è autentico – deve potersi conciliare col sentimento di libertà: l’uomo infatti è libertà di esserci insieme alla libertà di esserci degli altri.  L’amore autentico è un amore che riconosce la libertà dell’altro.
Quindi l’essenza dell’uomo non può che essere una sintesi di amore e libertà:

  1. Il cuore dell’uomo è libertà di amare. Ciò vuol dire si tratta di un amore che non è imposto, che non è un obbligo morale, non è un dovere di amare, ma è un amore che nasce dalla libertà: io non amo perché devo amare, ma amo perché in me c’è amore per te.
  2. Il cuore dell’uomo è amore diretto verso la libertà dell’altro. Cioè è un amore che non invade, che non soffoca, che non lega, che non toglie libertà, ma al contrario un amore che libera.
  3. Il cuore dell’uomo allora è libertà di amare e amore dell’altro nella sua libertà di essere se stesso.

L’uomo dunque – nella sua essenza profonda – è sentimento: ed è sentimento libero. È sentimento libero che cerca conferma, relazione e condivisione. L’uomo allora è sentimento libero condiviso.
L’anima allora non sta nell’Io, ma nel “Noi”: l’anima sta nel punto di relazione e di commozione dell’incontro tra due (o più) anime. L’anima è il filo che attraversa e collega due o più anime, le quali si vedono, si riconoscono, si amano e gioiscono insieme. L’anima è incontro di due o più anime che si sciolgono nella vita entrando in relazione. Sta nel riconoscimento delle identità e nella reciprocità dell’amore.

 

LIBERTÀ E VINCOLO: IL PROGETTO-ANIMA

È opportuno un chiarimento sulla libertà. La libertà non è licenza, non è svincolo da ogni legame, non è un dare il via ad ogni impulso, ogni desiderio, ogni passione. La libertà è al contrario un adeguarsi-conformarsi al legame profondo con la nostra essenza, la cui espressione (e solo tale espressione) ci fa sentire liberi. Il sentimento di libertà allora coincide con l’esperienza della possibilità di esprimere il proprio vincolo, cioè le proprie radici, che sono anche la propria mèta, insomma il proprio obbligo e progetto genetico-spirituale.
Ogni essere umano si muove verso l’espressione e la realizzazione del proprio progetto-Sé o progetto-anima. Si tratta di un movimento che deriva dalla soddisfazione e contentezza di sé, e consiste nel dispiegarsi e manifestarsi della propria essenza nel modo più pieno e maturo. In altre parole, una ghianda non potrà che diventare una quercia: questo è un vincolo, ma anche la sua libertà. Perchè solo diventando quello che è nella sua essenza, potrà sentirsi libera.
Viceversa l’insoddisfazione per quello che siamo può spingerci a desiderare di essere diversi da quello che si è, e quindi a cercare di stravolgere, alterare e distorcere il proprio vincolo naturale e la propria via di auto-realizzazione. Questa è una forzatura, che però può essere vissuta apparentemente come una forma di libertà. Si pensa di sentirci liberi, deviando dalla propria natura. Si tratta di una libertà falsa e illusoria, che è invece una gabbia, una forma di imprigionamento della nostra essenza.
Tale prigione possiamo costruircela da noi stessi (desiderio di essere diversi da quello che siamo) oppure essere costruita forzatamente su di noi dagli altri (desiderio che tu sia diverso da quello che sei).
Dobbiamo cominciare a pensare che ogni progetto-anima è buono. L’uomo – ma direi ogni forma vivente – nella sua essenza profonda è buona. È necessario compiere un atto di fiducia nell’uomo e nella vita.
Bisogna allora liberare il nostro vincolo, l’unico vincolo che ci libera: i progetti degli altri su di noi non ci interessano; i progetti nostri su di noi, che non tengono conto delle nostre radici e della nostra natura profonda, non ci interessano; solo il progetto della nostra anima ci interessa; vogliamo essere liberi di essere quello che siamo.

 

IL SENTIMENTO LIBERO È RIVOLUZIONARIO

Il sentimento di libertà ed i sentimenti liberi di amore costituiscono l’elemento propulsivo per il superamento di ogni barriera di razza, cultura, religione, classe sociale.
Chi ama liberamente può amare chiunque e qualunque cosa.
Chi ama liberamente non ama ciò che gli viene detto che deve amare, ma ciò verso cui sente spontaneamente e liberamente amore.
Al contrario l’amore non libero, ma impedito o forzato o distorto o anche semplicemente incanalato è costretto a restringere il suo campo di azione nell’ambito di ciò che viene predeterminato dalle istituzioni sociali e religiose come giusto, o comunque lecito.
Il sentimento libero si muove al di là delle limitazioni sociali, e può assumere un vero e proprio carattere rivoluzionario. Il sentimento libero è rivoluzionario, non nel senso che combatte direttamente le barriere umane e le regole sociali, ma nel senso più profondo del termine, in quanto si muove direttamente nella verità della dimensione umana, insomma nel cuore dell’uomo, nella sua specifica umanità, nella autenticità dei rapporti umani. Il sentimento libero rivela i moti sottili dell’anima, apre i cuori degli uomini ed unisce spontaneamente le persone tra loro.
Il sentimento libero è rivoluzionario senza distruggere le barriere umane: filtra tranquillamente attraverso di esse, noncurante di esse, si muove indipendentemente da esse, e mette in relazione le anime.
Ogni vera ed autentica rivoluzione, in questo come in altri casi, non è tanto una lotta contro ciò che opprime, quanto l’affermazione e la manifestazione diretta di una verità dell’anima, una verità di sentimento, che indirettamente fa crollare ogni realtà costruita, artificiosa e falsificata.

 

LA PAURA DEL SENTIMENTO LIBERO

        Pare che il sentimento libero eserciti su di noi fascino, ma allo stesso tempo ci incuta anche una sorta di paura: insomma ce ne sentiamo attratti, ma anche in qualche modo intimoriti.
Questa ambivalenza emotiva pare avere, se analizzata in profondità, la stessa origine: il sentimento libero ci attrae, perché è la voce di noi stessi, insomma siamo noi, e ci fa paura proprio per lo stesso motivo.
Ma analizziamo alcuni aspetti di questa paura:

  1. Il sentimento libero rivoluziona la nostra vita. Se infatti ci apriamo ai sentimenti veri e autentici dell’anima, non possiamo evitare di stravolgere la nostra esistenza. Se infatti avevamo costruito una vita inautentica, non corrispondente ai sentimenti dell’anima, se ora intravediamo la possibilità di un vivere autentico, non possiamo evitare di cambiare  completamente la nostra esistenza. Il sentimento libero è rivoluzionario, perché si muove nella verità.
  2. Il sentimento libero ci espone nella nostra fragilità. È come se avessimo paura della nostra stessa umanità. La nostra umanità costituisce infatti la nostra bellezza interiore, ma è anche allo stesso tempo la nostra vulnerabilità. Abbiamo paura come di denudarci, di rendere visibile la nostra umanità, che è sì forza e bellezza, ma anche espressione dei nostri limiti, esposizione della nostra feribilità.
  3. Il sentimento libero è definitivo. La nostra piena umanità, una volta sfiorata diventa definitiva. Assagioli nei suoi appunti manoscritti affermava che “il vero piano di vita è quello dell’Anima”. Allora se tocchiamo anche solo leggermente questo piano animico, se sfioriamo appena la verità dei sentimenti spirituali, che – come accennato – sono per loro natura liberi, non possiamo più tornare indietro. Perché una volta che abbiamo guardato in faccia la verità dei nostri sentimenti, non possiamo più negarli, per cui siamo come costretti a seguirli. L’unica alternativa sarebbe la negazione della verità: cioè la costruzione di una patologia della verità, ovvero un delirio, in altre parole la follia.

La verità del sentimento mette in luce e smaschera tutto ciò che prima era falso e inautentico. Ci accorgiamo di esserci ingannati ed anche di aver ingannato. Ma abbiamo un’attenuante: siamo stati anche ingannati. Ci hanno insegnato ad ovattare, mortificare, e falsificare i nostri sentimenti più veri.
D’altra parte Firman e Gila ci hanno ben spiegato che è necessario anche sopravvivere: vivere pienamente nella verità dei sentimenti non è facile e non sempre tollerabile. Sembra che le organizzazioni sociali in generale non siano in grado di accogliere (senza sgretolarsi esse stesse) la purezza dei sentimenti.  
Pertanto, per sopravvivere socialmente, siamo costretti, almeno in parte, a falsificare la realtà interiore: affermare come veri sentimenti non veri, ovattare quelli autentici, fino anche ad alterarli, negarli, disconfermarli.  Se ammettere i sentimenti nella loro pura verità risulta per noi troppo sradicante e disgregante, non resta che la creazione di una realtà artificiosa, ma utile per la sopravvivenza.  
C’è insomma la paura di cambiare, di entrare nel flusso dinamico della vita, di diventare autentici, di trasformarci definitivamente in quello che vera,mente e profondamente siamo. Restiamo attaccati alla vecchia personalità, anche se statica, ferma, cristallizzata, devitalizzata. Difendiamo come una sorta di morte psichica come se fosse fonte di sicurezza: paradossalmente si preferisce una morte, ma sicura, anziché una vita, in quanto a rischio.  Meglio insomma una parvenza di anima, un Sé inautentico, che un Sé vero e autentico, ma che ci de-struttura e ci fa paura.  

LA SCARPETTA DI CENERENTOLA

La paura del sentimento è la paura della nostra stessa anima. Il sentimento libero è intimamente unito all’anima. È la sua espressione e la sua voce: è la sua nota, il suo profumo, la sua danza, il suo canto. Per questo l’uomo ne è attratto, ma ne ha anche paura. Lo ricerca, ma anche lo respinge, lo riconosce, ma anche lo nega e lo disconferma, lo invoca ma anche lo calpesta, ne gioisce e lo deride.
È un po’ come se l’uomo girovagasse nel corso della sia esistenza con in mano la scarpetta di Cenerentola, provandola al piede di tutte le fanciulle, e stranamente dimenticandosi o esitando o quasi facendo attenzione a non provarla al piede di quella fanciulla, verso cui ha il presentimento che sia proprio quella giusta: fa così, perché egli in cuor suo egli sa che, se compie l’atto, questo atto sarà definitivo.   
Il sentimento libero è dunque la Cenerentola della vita, che tutti abbiamo, ma che fingiamo di non avere, che ricerchiamo, e che poi respingiamo.  È come se avessimo paura di rientrare in contatto con la nostra innocenza e bontà originaria.      

 

LA NATURA UMANA È BUONA O CATTIVA?

Insomma noi siamo la nostra anima e la nostra anima è sentimento. È come se avessimo paura della nostra stessa bellezza interiore. È forse troppo bello essere un’anima?
È questa forse la vera Sindrome di Stendhal: un turbamento, una specie di titubanza, una sorta di imbarazzo ed allo stesso tempo di commozione prof0nda, la sensazione come della possibilità di compiere il passo definitivo verso la nostra essenza, ed allo stesso tempo la paura di poterlo compiere davvero, la sensazione di sfiorare l’anima ed allo stesso tempo  l’impulso a fuggirla.
È quel misto di attrazione-paura della nostra bellezza interiore, della nostra innocenza, della nostra bontà originaria, della nostra ingenuità positiva, del bimbo interiore buono e innocente che c’è in noi, della nostra essenza angelica (Hilmann).
Occorre allora un atto di coraggio: il coraggio di confessare non il male che c’è in noi, non le nostre colpe, non i nostri peccati, ma la nostra innocenza originaria, che nascondiamo e mascheriamo con l’artificiosità dei nostri errori e delle nostre colpe. Noi non siamo dei “mostri”, anche se spesso facciamo di tutto per  mostrarci tali, come per nascondere una bontà interiore, di cui quasi ci vergogniamo. 
La nostra realtà profonda è che siamo angeli, e siamo angeli buoni.
Ed il turbamento che proviamo, se ci apriamo alla nostra innocenza e bellezza interiore non è allora l’inizio di una patologia, ma al contrario è il principio di un’opera di autentico risanamento, un tentativo di recupero della nostra piena umanità: la guarigione dell’anima.

 

LE ISTITUZIONI

Le varie istituzioni(familiari, sociali, culturali, morali, religiose, ecc.) danno spesso l’impressione di fondarsi su di un’immagine negativa dell’uomo, e di compiere un atto di sfiducia sulla natura umana. 
Ciò avviene perché, non essendo generalmente libere in se stesse, ma come “mummificate” al loro interno, invece di riconoscere ed educare i sentimenti liberi, si sforzano di incanalarli e controllarli dall’esterno.
È come se tali istituzioni avessero perduto la fiducia nell’uomo e nella bontà originaria della sua natura e delle sue potenzialità. Esse in realtà diffidano dell’uomo, non credono che un uomo libero non può che amare, e guardano con sospetto alla sua libertà.
In pratica gli insinuano il dubbio su se stesso, sul suo diritto a vivere in libertà, quasi suggerendogli che la sua natura non è buona ma malvagia, e che quindi deve guardarsi da se stesso.
È così che si realizza il controllo sociale, che ha le sue basi non solo nella sfiducia nell’uomo, ma anche e non ultima nella volontà di potere, esercitata da chi, non essendo interiormente libero toglie libertà agli altri, e non avendo potere su di sé, ricerca il potere sugli altri.
Il sentimento libero viene sostituito dall’obbligo del sentimento, al fine di inserirlo in una regola e di poterlo controllare, e necessariamente anche dall’obbligo del non-sentimento (l’obbligo cioè di vietarsi di sentire ciò che liberamente si sente), ogni volta che il libero sentimento sconfina dalle regole e turba l’ordine sociale, morale e religioso.
Così muore l’uomo e nasce il servo. Il servo infatti non è più un uomo. L’uomo privato della libertà è privo di se stesso. È una mancanza di se stesso: è diventato un non-uomo. È diventato appunto un servo. Il compito del servo non è quello di esprimere i suoi sentimenti, egli deve solo obbedire. Egli deve solo “mostrare” di sentire ciò che gli viene richiesto, e compiere gli atti corrispondenti. Non ha importanza ciò che egli sente dentro di sé.
La sua anima non è importante.

 

IN FAMIGLIA

“Fin dal momento della nascita […] il bambino
È sottoposto a quelle costrizioni esercitate
con violenza, che vengono chiamate amore,
così come lo erano stati sua madre e suo padre,
e i loro genitori, e i genitori dei genitori”.
R. D. Laing

Così avviene anche in famiglia: il bambino ha una fiducia istintiva nel mondo, si sente libero, spontaneamente ama e gioisce. Egli ha però la necessità di sentirsi rassicurato e confermato nei suoi sentimenti liberi (questa è la vera risposta al suo bisogno di sicurezza).
Ma se i suoi genitori non sono essi stessi liberi e non hanno fiducia nell’uomo e nella vita, guardano con sospetto alla libertà di espressione di sé del bambino, per cui tendono a togliergli la fiducia nella libertà e nella positività dei suoi sentimenti.
Viene messo in atto un particolare processo educativo: l’insegnamento della fiducia nei sentimenti controllati: il bambino, che istintivamente credeva, amava e gioiva, apprende ora a controllare la spontaneità dei propri sentimenti.
Egli deve apprendere a fingere di sentire ciò che spontaneamente e liberamente sente (o più precisamente avrebbe sentito), trasformando così un sentimento libero in un sentimento controllato. Potremmo dire che impara a recitare la sua libertà. Ma anche gli viene insegnato a fingere di sentire ciò che non sente e a fingere di non sentire ciò che invece sente.
Questo insegnamento di soffocamento della propria natura e di apprendimento a vivere (o meglio a sopravvivere) senza libertà viene per lo più chiamato amore e protezione.
Un uccello in gabbia può essere protetto dal mondo esterno, ma non può volare. Togliendogli la libertà di volare, gli viene a mancare la sua stessa essenza e identità. Non è più in soggetto, diventa una “cosa”. Chi lo tiene in gabbia può anche apparentemente “amarlo”, cioè accudirlo con un misto di affetto e di possesso, ma non lo ama veramente, perché non ama la sua libertà. 
È questo un esempio di un amore senza libertà, di un amore cioè che origina da una persona non libera. Chi non è libero trova molta difficoltà ad amare veramente un’altra persona, perché è molto difficile per lui poter amare la libertà dell’altro.
Chi non è libero infatti non può interessarsi più di tanto dell’altra persona e della sua libertà di esserci, perché la sua prima preoccupazione è quella di rispondere a chi o a ciò che lo tiene prigioniero. Di conseguenza i suoi primi atti non potranno che essere (avendoli appresi e subiti su di sé) quelli diretti a togliere la libertà.
L’amore vero nasce dalla libertà: è libertà di amare e amore per la libertà dell’altro.

ESISTE LA LIBERTÀ DI ODIARE?

 

Abbiamo affermato che l’essenza dell’uomo è costituita dalla libertà di essere se stesso, la quale si identifica con la libertà di esprimere i sentimenti c. d. positivi, come la libertà di amare e di gioire.
Pare legittima, a questo punto, una domanda:

“Può esistere anche una libertà negativa?
Può esistere la libertà di odiare e di esprimere i sentimenti negativi?
È lecito pertanto dare libera espressione a tutto ciò che si sente?”

Mi sento di rispondere, affermando che non esiste la libertà di odiare.
Infatti chi è libero e si sente libero non può che amare, così come chi ama non può che sentirsi libero. L’odio non può nascere dalla libertà, ma al contrario: l’odio origina da una privazione della libertà.
L’odio e tutti i sentimenti c. d. negativi (paura, rabbia, tristezza, invidia, ecc.) sono l’effetto e la reazione ad un lungo periodo di prigionia. Essi originano da uno stato di privazione: dalla mancanza o perdita della libertà dell’uomo di essere se stesso, di dispiegare la propria essenza, e di esprimere i propri sentimenti liberi (che in quanto tali non possono essere che positivi).
La libertà può avere aspetti di pericolosità solo quando è liberazione-evasione da una lunga prigionia. In tal caso essa (come se portasse ancora dentro di sé le sbarre della segregazione) è accompagnata dai risentimenti secondari alla situazione di privazione, e spesso da intensi impulsi distruttivi.
Da questo punto di vista, i meccanismi di controllo e di oppressione non possono essere giustificati come mezzi di prevenzione della pericolosità della libertà, in quanto sono essi stessi che la rendono pericolosa. Il che non è molto diverso da quando i pazienti psichiatrici erano reclusi nelle istituzioni totali manicomiali. La loro reazione aggressiva alla reclusione era poi utilizzata come spiegazione-conferma della necessità della reclusione stessa. 

 

LA COSCIENZA DELLA LIBERTÀ

La libertà ha una necessità intrinseca di essere riconosciuta ed amata. Per riconoscere ed amare (in modo autentico) la libertà è però necessario essere liberi.
Ogni uomo nasce libero e liberamente ama. Ma se viene gettato in un mondo di persone non libere, la sua libertà non sarà amata, e forse anche lui cesserà di amare e di essere libero.
Chi non è libero, quando incontra una persona libera (o che sta vivendo un momento di libertà), vede riflesso in lei ciò che gli manca o che ha perduto o che gli è stato tolto. Prende così coscienza della propria condizione di prigionia. Nella maggior parte dei casi egli non è in grado di tollerare ciò, per cui cercherà di comprimere la libertà dell’altro, facendo all’altro ciò che è stato fatto a lui.
Ma non è sempre così: talvolta può accadere che l’esempio vivente di una persona libera o che si libera o che sta vivendo un momento di libertà o di liberazione (in cui può liberamente sentire, amare e gioire), attraversi la corazza di chi è (o si sente) imprigionato, ed arrivi a sfiorare leggermente la sua anima, provocando in essa un piccolo turbamento. 
L’anima, così toccata, può accorgersi di se stessa, e ricordarsi di essere libera, e anziché opprimere la libertà dell’altro, cogliere l’occasione per liberarsi essa stessa. Dunque il contatto vivente con una persona libera viene a rappresentare un autentico invito alla libertà.    

 

DA UNA CULTURA DEL DOVERE A UNA CULTURA DELLA LIBERTÀ

Non si dirà più devo amare,
ma sono libero di amare
e, poiché in me c’è amore e soltanto amore,
allora io amo e voglio amare.
E voglio amare non perché devo amare,
ma semplicemente perché amo,
perché in me c’è amore.

 

Siamo forse giunti oggi ad un punto di svolta nell’evoluzione della coscienza umana.
La cultura del dovere trae le sue origini da un atteggiamento di sfiducia nell’uomo e nella bontà e positività originaria della sua natura. Si fa riferimento ad una visione negativa della vita, per cui non si ha fiducia che l’uomo, se viene lasciato libero di essere se stesso, possa scegliere il bene suo e degli altri. Diffidando dell’uomo, si ritiene che debba essere controllato. Si cerca così di imporgli cosa deve fare e volere ed anche cosa deve sentire.
Ma chi, secondo tale cultura, dovrebbe avere il compito di esercitare il controllo? Di chi ci potremo fidare del tutto, se diffidiamo per principio della natura umana? Chi controllerà coloro che avranno il compito di controllarci? La cultura del dovere non è forse quella che ci ha portato ad atteggiamenti di obbedienza cieca, all’esecuzione senza alcuna coscienza critica di ordini provenienti dall’alto? Non è forse la stessa cultura che ha portato agli orrendi crimini della seconda guerra mondiale?
È necessario oggi, a mio avviso, passare da una cultura del dovere ad una “cultura della libertà”. Non si può più obbedire ciecamente alle coercizioni sia interne (super-egoiche) che esterne (imposizioni e oppressioni esterne). È necessario compiere un atto di fiducia nell’uomo: dobbiamo riuscire a pensare che se l’uomo è lasciato libero di essere se stesso, di essere quello che è, non potrà che scegliere il bene suo ed allo stesso tempo anche quello degli altri.
È scritto nella Genesi che, quando Dio fece l’uomo, lo guardò e vide che era “buono”. Se dunque Dio stesso era contento della sua opera, e come un artista soddisfatto della sua creazione, l’ha riconosciuta come “propria” e come “buona”, cioè conforme al suo progetto (e per così dire, come farebbe un artista, vi ha apposto la sua firma), perché noi dovremmo dubitare, essere scontenti e diffidare della natura umana?
È necessario compiere un atto di coraggio e di fede nell’uomo. Allora l’amore non coinciderà più con un dovere, e potrà essere liberato.
LA LIBERAZIONE DELL’AMORE

Voglio concludere, proponendo un esercizio, che può facilitare una liberazione del sentimento dell’amore.
L’amore non è una fusione o confusione delle identità, ma un sentimento che pone in relazione ed unisce due (o più) identità esistenti, due presenze, che – se l’amore è autentico – non cessano di esserci, ma al contrario si approfondiscono e si ampliano.
Possiamo immaginare di avere di fronte a noi una persona, con la quale abbiamo un importante legame affettivo, (o anche porci veramente di fronte all’altro/a) ed affermare interiormente:

Io non sono te e tu non sei me.
Io sono io e tu sei tu.
Io ho il mio corpo e tu hai il tuo corpo.
Io ho le mie emozioni e tu hai le tue emozioni.
Io ho i miei pensieri e tu hai i tuoi pensieri.
Io ho i miei sogni tu hai i tuoi sogni.
Io ho la mia volontà e tu hai la tua volontà.
Siamo liberi.

Ecco!
Ora possiamo cominciare ad amarci.

Il mio corpo s’incontra col tuo corpo.
Le mie emozioni s’incontrano con le tue emozioni.
I miei pensieri s’incontrano con i tuoi pensieri.
I miei sogni s’incontrano con i tuoi sogni.
La mia volontà s’incontra con la tua volontà.
La mia libertà s’incontra con la tua libertà.
La mia anima s’incontra con la tua anima.

Allora io amo te e tu ami me.
Io non ti amo perché devo amarti:
ti amo perché in me c’è amore per te.
Tu non mi ami perché devi amarmi:
mi ami perché in te c’è amore per me.

 

 

BIBLIOGRAFIA

Alberti A., Il bimbo interiore. La riscoperta del sentimento (2000), II ed. riveduta e ampliata, ed. L’UOMO, Firenze 2010.
Alberti A., Intervista a Roberto Assagioli (1973), in “Psicosintesi e oltre”, ed. L’UOMO, Firenze 2007.  
Assagioli R., Principi e Metodi della Psicosintesi Terapeutica (1965), ed. Astrolabio, Roma 1973.
Buber M., Io e tu, in “Il principio dialogico”, ed. San Paolo, Milano 1993.
Firman J., Gila A., La ferita primaria (1997), II ed. it., ed. L’UOMO, Firenze 2009.
Frankl V. E., Alla ricerca di un significato della vita (1972), ed. Mursia, Milano 1974.   
Maeterlink M., Il tesoro degli umili (1930), ed. Enrico Voghera, Roma.
Satprem, Sri Aurobindo o l’avventura della coscienza (1970), ed. Galeati, Imola 1976, ed. Mediterranee, Roma 1991.

 

Fonte: http://www.psicosintesi.it/sites/default/files/AMORE%20E%20LIBERTA.doc

Sito web da visitare: http://www.psicosintesi.it

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