Essere felici

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Essere felici

 

… e vissero per sempre felici e contenti

 

 

“… e vissero per sempre felici e contenti”. Nella celebre formula conclusiva delle fiabe si ritrovano alcuni elementi che aiutano a far luce sul concetto, o meglio sull’esperienza della felicità. A parte quel “per sempre” di sapore un po’ magico od onirico, che rimanda a dimensioni fuori dello spazio-tempo, e che meriterebbe una riflessione tutta per sé, è nell’aggettivo “contento” che si trova l’indicazione di una via per giungere al segreto della felicità. Una via che, come tutte le cose ovvie ma non evidenti, si rivela solo dopo averla riconosciuta, e soprattutto compresa.
La felicità, questo eterno mito dell’uomo, che lo scuote, lo agita, lo motiva, lo illude, lo fa soffrire, lo fa sperare, e tutto questo per farsi raggiungere, per farsi a volte toccare, ma mai conquistare, mai possedere definitivamente. Così come è difficile da conquistarsi, così la felicità è facile da perdersi, e la ricerca riprende.
La felicità, questo falso mito dell’uomo, che non riconosce questa esca che lui stesso usa per soddisfare in realtà quell’altro suo grande e misconosciuto bisogno o compito, che è quello di comprendere, di scoprire, di creare, di cambiare, di evolvere, e che nulla ha a che vedere con il valore “felicità”. All’uomo manca però la chiarezza, o forse l’onestà, o il coraggio di riconoscersi questo suo secondo bisogno, che è intrinseco alla sua natura, e che ne è forse il motore più possente, e allora ricorre all’alibi della felicità per giustificare la sua fisiologica insoddisfazione.

La felicità come tale può essere definita come uno stato di appagamento, come una condizione in cui ogni bisogno o desiderio è appagato. La felicità rappresenta altresì uno stato di benessere, di equilibrio. In sintesi, si può dire che in essa i bisogni della sfera dell’avere sono appagati, e quelli della sfera dell’essere sono soddisfatti. Con il risultato paradossale che l’uomo felice è anche un uomo fermo, fermo perché non ha ragione di cambiare, di aspirare, di conseguire. Ma l’uomo fermo non può a sua volta essere felice, o totalmente felice, perché non soddisfa appunto l’altro suo bisogno, nascosto ma irresistibile, di cambiare e di evolvere.

È un circolo chiuso, da cui però si esce facilmente se si ammette che l’uomo in realtà non cerca tanto la felicità, quanto piuttosto il suo perseguimento. E queste sono due cose assolutamente diverse tra loro, per non dire antitetiche. Così come la perfezione esclude a rigor di logica il perfezionamento, e viceversa, e la libertà esclude la liberazione, e viceversa, lo stesso accade infatti anche per la felicità, almeno nel caso dell’uomo, che è condizionato dal suo intrinseco dinamismo.

In una visione mitica (ma anche infantile) della felicità e della vita, l’uomo sembrerebbe allora condannato, o se preferiamo limitato, a vivere una felicità sincopata, a singhiozzo, che appena trovata si perde, per poi essere ritrovata di nuovo. Al contrario, per l’uomo maturo e completo è proprio questa perdita continua della felicità che permette un continuo, rinnovato raggiungimento di questa condizione. Se non può “essere” felice, l’uomo può però “diventare” - continuamente - felice. Sostituire l’immagine della felicità da una “condizione dell’essere”, e quindi da non perdere mai, ad un “processo del divenire”, e quindi da riconquistare di continuo, significa a livello psicoesistenziale diventare adulti.
Se l’uomo ha mai avuto una possibilità di “essere” felice, essere stabilmente, invariabilmente, irrevocabilmente, eternamente felice, questa se l’è giocata quando si è fatto cacciare dal Paradiso Terrestre. Era in effetti la sua unica possibilità, e ad essa occhieggiano inconsciamente i nostalgici, gli stanchi o i depressi, coloro che vivono insomma la vita guardandosi un po’ indietro, che non avrebbero mai fatto la scelta del Figliol Prodigo, che per intendersi non disdegnerebbero di trovare una felicità statica e sicura, legata al passato, al passato ancestrale dell’uomo, dell’umanità, della coscienza.
Ma il fatto che questa cacciata dall’Eden - o forse più significativamente dal Limbo - abbia effettivamente rappresentato una disgrazia per l’uomo, questo è tutt’ora oggetto di una discussione assolutamente aperta. La felicità del divenire, la felicità del futuro, la felicità dell’evolvere, la felicità dinamica è infatti figlia diretta di questa cacciata, una cacciata che forse allora era una nascita. La felicità del ritorno attraverso il futuro.

Fatta questa doverosa e sostanziale premessa, viene però da chiedersi se, nell’amplissimo ventaglio di possibilità che la vita offre, non vi sia comunque per l’uomo anche quella di poter accedere a un’esperienza statica della felicità, pur essendo egli imprescindibilmente inserito nel processo dinamico della vita. E a ben vedere anche questa possibilità c’è, a patto però di cercarla non nel passato, ma nella dimensione del presente, del qui e ora. Se alla idealizzazione, al rimpianto, alla vaga malinconia si sostituiscono l’attenzione, la consapevolezza, la vigilanza e l’ascolto, allora il tempo e lo spazio del presente si rivelano magicamente per quello che sono, cioè una miniera di felicità. Solo che la magia in questo caso perde ogni natura fiabesca e onirica, per assumerne una occulta, estremamente reale.

Uno dei magici effetti della consapevolezza è infatti quello di riuscire a far vedere il vecchio con occhi nuovi, con uno sguardo nuovo, e questo sguardo permette di riconoscere tutti gli innumerevoli bisogni e desideri che nella propria vita sono già esauditi, e che in questa condizione accompagnano l’uomo nello scorrere del tempo, senza venire di solito riconosciuti perché dati per scontati, per ovvi, per già acquisiti, e quindi in un certo senso per dovuti, senza rendersi conto che la vita potrebbe riprendersi indietro in ogni momento questi appagamenti, lasciando l’uomo con bisogni e desideri, già precedentemente soddisfatti, nuovamente scoperti. Gli esempi in questo campo si sprecano, essendo la vita dell’uomo occidentale letteralmente satura di desideri/bisogni appagati e inavvertiti. Avere una casa in cui abitare, l’illuminazione, il riscaldamento, la possibilità di ascoltare musica, ma anche di avere indumenti con cui coprirsi, o una sedia su cui sedersi, o un banale – chissà poi perché – ombrello; e così via, all’infinito. Sono tutti bisogni/desideri più o meno fondamentali, l’assuefazione ai quali spegne l’apprezzamento. Ma basta appena perderli – e la TV ogni giorno ci mostra quanto poco ci voglia – per riapprezzare istantaneamente tutta la felicità che essi davano quando li si aveva, e non li si apprezzava per nulla.
Inevitabilmente, la vittima di turno di quella “disgrazia” subito si lancia a testa bassa per recuperare, magari con anni di fatiche, il benessere perduto e la relativa felicità, salvo poi perderla nuovamente di vista non appena riconquistata, con quell’inevitabile meccanismo che ormai è chiaro. E la giostra continua. Un altro esempio classico è quello della salute, che non c’è modo di apprezzare se non perdendola.

La vita è alterna, dà e toglie, e non sembrerebbe molto intelligente far dipendere la propria felicità da quel poco che le circostanze potrebbero darci in più o in meno rispetto a quel tanto che già si ha. E invece è proprio questo che l’uomo medio fa, affidandosi alle circostanze della vita, quindi al destino, al karma, alla fortuna o alla sfortuna, alla schedina, alla iella o allo “stellone”, cose tutte che gli possono dire più o meno bene, ma comunque lo condizionano a una felicità casuale, e in ogni caso sincopata, zoppicante.
La consapevolezza e la presenza a se stessi sottraggono invece l’uomo a questo meccanismo limitante e tutto sommato povero, facendogli riscoprire l’apprezzamento di tutti i bisogni/desideri che nella sua vita rimangono e sono appagati, costantemente appagati. Questo apprezzamento è la sorgente inesauribile di una felicità che, alimentandosi dell’attimo presente, non ha inizio né fine, ma diventa una nota costante della propria vita. Uno stato d’animo, una qualità di fondo del proprio vissuto, che può essere intensificato o rarefatto a piacere dosando l’intensità della consapevolezza. Con l’uso di un’immagine, l’attenzione/consapevolezza potrebbe essere vista come una lente d’ingrandimento che depura gli aspetti della microquotidianità dalla patina del déjà-vu, e li restituisce alla loro originale freschezza, giorno per giorno, attimo per attimo.

Ma apprezzare ciò che già si ha, o ciò che già si è, significa in definitiva essere contenti, essere contenti di sé, contenti della vita. E proprio in questo termine “contento”, che è il più vicino sinonimo di felicità, come già accennato prima si celano alcuni ulteriori, profondi significati. Appare intanto immediato l’accostamento tra la contentezza e l’accontentarsi. “Piccolo è bello”, è il titolo di un libro a suo tempo famoso. È un’indicazione e una conferma di come la felicità derivi più facilmente dalle piccole cose. E la vita di ciascuno è piena di piccole cose, che proprio essendo piccole, sono per questo anche alla sua portata. Al contrario di grandi felicità, di cose grandi o grandiose, che sono presenti quasi solo nel regno della fantasia, del futuribile, e quindi fuori della propria portata attuale, fuori della propria vita reale, che si svolge unicamente nell’attimo presente. Per inseguire queste chimere, c’è anche chi si accontenta della pseudofelicità dell’appagamento virtuale indotto dalla droga o dall’alcool; ma che bisogno c’è di attingere a una miniera virtuale, quando ce n’è una reale a disposizione? Forse perché quest’ultima è o sembra essere più modesta, più ordinaria, più umile? O forse perché il saper vedere con occhi nuovi è un’arte che va appresa, e che richiede un investimento di energia?

Etimologicamente, un’altra interessante accezione di “contento” è “contenuto”, cioè capace di stare con se stesso. Questo ci rimanda ulteriormente alla felicità come a una modalità tutta interiore di vivere la vita, che prescinde appunto dalle circostanze esterne. Felice è colui che non solo sa apprezzare quello che ha, e sa accontentarsi di quello che ha, ma anche che sa apprezzare e sa accontentarsi di quello che è. Vale a dire che sta bene con se stesso, che si piace (non in senso narcisistico, naturalmente), che si accetta in ogni sua parte e modo di essere, considerando i propri limiti nell’accezione letterale e morfologica di delimitazioni naturali della propria conformazione psicofisica, e non di difettualità o carenze.
Essere contenti di sé non vuol dire ritenersi perfetti, o non volersi migliorare, ma esprime il riconoscimento e l’apprezzamento delle proprie risorse, dei propri aspetti, qualità e strumenti. Anche qui, questa volta a livello interiore, significa non dare per scontato alcun aspetto o parte di sé, ma psicologicamente riappropriarsi di tutti generando così un senso di autoappartenenza, di completezza, di integrità. Quando ci si arriva, la felicità più profonda è anche quella più semplice: la felicità di essere quello che si è, come si è, la felicità di esserci, di esistere.
È la felicità dell’Io e dell’autocoscienza, la più essenziale, la più contenuta, la più grande contentezza di sé che si possa sviluppare. È un’altra miniera di felicità, questa volta collocata all’interno di sé, ma sempre nell’attimo presente, cioè nella dimensione della centralità.

Vi è infine un’ultima fonte di felicità, che potenzialmente risiede anch’essa nell’atteggiamento con cui si guarda la vita. Se si riconosce nella vita l’esistenza di un vettore o gradiente evolutivo – e questo è il punto fondamentale e dirimente – allora più o meno implicitamente non si può non assumere verso di essa un particolare e conseguente atteggiamento che, da originariamente esistenziale, può o dovrebbe diventare addirittura psicologico. Quello di evoluzione è un concetto che se da un lato può sembrare un po’ generico e ampio, e quindi distante, dall’altro si presta benissimo a essere declinato anche in termini ed espressioni molto più precise, tangibili e vicine. L’evoluzione comporta infatti e si esprime nei vari concetti di direzione, obiettivo, scopo, piano, programma, crescita, sviluppo, freccia del tempo, obiettivi parziali, sintesi, potenzialità, trascendenza. Tutto questo, e molto altro, implica l’evoluzione! Ma non solo, essa comporta anche i fondamentali valori del significato e del senso, valori che sono gli unici a rendere la vita interessante da vivere, e degna di essere vissuta.

Ora, acquisire un atteggiamento psicologico “evolutivo” significa adottare questa “prospettiva evolutiva” come filtro o lente privilegiati attraverso cui guardare la vita, a cominciare dalla propria, dalla sua dimensione più ampia a quella più ordinaria. Significa adottare come naturale un atteggiamento positivo, che in tutte le circostanze vede il bicchiere mezzo pieno e non mezzo vuoto; un atteggiamento supervertito, interessato cioè più a ciò che sta nel proprio futuro che a ciò che sta nel proprio passato; significa sentirsi parte di un processo collettivo, o addirittura di un progetto collettivo, di portata amplissima, che però trova la sua articolazione anche nella propria, parcellare esistenza.

Questo atteggiamento psicologico - fiducioso costruttivo ottimista - ha come suo preziosissimo corollario la felicità. Una felicità continua e sommessa, che deriva dal fatto di proiettare ogni proprio atto e vissuto semplicemente in una… prospettiva, vale a dire in una direzione, vale a dire nel futuro. Una felicità che deriva dal fatto di vivere alla luce di-. In funzione di-. In prospettiva di-. Avere una direzione, un orientamento di fondo nella propria esistenza dà felicità, perché conferisce senso e significato alla propria più ordinaria quotidianità, arricchendola. È una felicità che chiaramente non si lega al risultato immediato delle azioni, o al proprio vissuto o stato d’animo del momento: questo caso mai rientra nel tipo di felicità descritto in precedenza. È invece una felicità che si lega alla consapevolezza del significato più ampio e della più vasta prospettiva in cui si colloca il proprio vissuto contingente. E una felicità profondamente legata al senso e al valore profondo della vita sarà anch’essa una felicità profonda, solidamente ancorata nell’inconscio, e quindi relativamente immune dalle oscillazioni delle circostanze, esterne e interne.

Credere nella vita, nel processo della vita.
Credervi al punto da sapersi affidare ad essa anche quando non la si comprende. Da saper soffrire per essa, per il maggior bene proprio e collettivo. Tutto questo dà felicità. Una felicità che nulla e nessuno può togliere. Una felicità fuori dal tempo e dalle circostanze, che può trasformare il “… e vissero per sempre felici e contenti” dalla fine di una fiaba nell’inizio di una nuova, straordinaria realtà.

 

Fonte: http://www.psicoenergetica.it/scritti/e%20vissero%20per%20sempre%20felici%20e%20contenti.doc

Sito web da visitare: http://www.psicoenergetica.it

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

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