Essere liberi

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Essere liberi

 

La conquista della libertà

 

Una caratteristica della volontà è la libertà - la libertà di scegliere e di agire nella maniera in cui vogliamo. (libertà nell’accettazione).  
Roberto Assagioli

La libertà è un limite.
Simone Weil

 

L’Uno c’è perché è libera attività auto-produttrice, libera causa sui, libertà “auto-causantesi”. L’Uno è libertà nel senso che “è ciò che vuole essere”, o, in altri termini, “vuole essere ciò che è”.   
Giovanni Reale

 

Non c’è assolutamente alcuna distinzione fra il mondo quotidiano (samsara) e la libertà (nirvana). Non c’è nessuna distinzione fra la libertà e il mondo quotidiano. La sfera del mondo quotidiano è la sfera della libertà. Fra di essi non è possibile trovare neppure la differenza più sottile.  
Nagarjuna

 

Acquista la propria libertà e la propria esistenza soltanto colui che ogni giorno di nuovo se le riconquista.  
W. Goethe

 

La libertà deve essere continuamente liberazione.
Aldo Capitini

 

Il distacco va praticato anche dalle cose buone. Nulla deve travolgere l’Io; il Centro Spirituale deve restare al disopra di tutto. (Questo è il principio della libertà interna del volere libero, che è l’essenza della vita spirituale).
Roberto Assagioli


Le mie esperienze più forti di libertà si riconducono entrambe alla Sardegna, dove per due volte mi venni a trovare in situazioni nuove, insolite, impreviste, incontrollabili, e anche un po’ rischiose. Nel primo caso successe che da giovane, a causa del mare grosso rimasi bloccato per 2/3 giorni su una delle più famose spiagge del Golfo di Orosei, ovviamente senza telefono e con pochissimo cibo. La natura bellissima, il clima perfetto, la spontanea solidarietà subito creatasi fra la dozzina di persone rimaste “prigioniere” di quel paradiso, fecero di quell’esperienza un’immersione nella libertà.

Ma libertà da che cosa? mi domando adesso, a distanza di tanti anni. Da dove derivava quel vissuto, così profondo, leggero e vivo?

Probabilmente dall’abbandono quasi totale dei bisogni indotti dalla società moderna, una zavorra che una circostanza insolita e non cercata aveva di colpo fatto cadere; rendendomi così molto più ricettivo all’influsso armonizzante della natura che mi circondava, e ai valori legati all’essenzialità della vita.
Già, perché la soddisfazione dei bisogni indotti, che noi consideriamo per abitudine e per educazione come scontati, come falsamente naturali, richiede in realtà una gran quantità di energia per essere mantenuta. Energia che così di colpo veniva invece disinvestita, ovvero “liberata”, e che si assommava all’altra energia recuperata anch’essa dal fatto di aver perso il controllo della situazione. E che, per un buon ossessivo come ero io allora, non era poca, quand’anche mi trovassi in “vacanza”.

Ora, quali fattori sembrerebbero dunque emergere da questa esperienza di libertà?
La caduta dei bisogni, del superfluo e del controllo; il recupero di energia; l’effetto armonizzante della natura; la caduta del “fare” a favore dello stare, dell’essere, dell’esserci.
In piccolo, è quello che si vive in ogni situazione di benessere tipica delle vacanze (quando riescono), dondolandosi magari sulla classica amaca accarezzati dal vento con in mano la bibita preferita… spensierati e liberi da problemi, da preoccupazioni, da impegni, da responsabilità. Godendosi il presente, possibilmente ogni attimo, a mo’ di brava cicala. Cioè un’immagine di libertà - ma a volte anche un suo vissuto reale - su cui campano le agenzie turistiche, e che potremmo definire all’insegna dell’evasione.

Vissuto questo che ha una sua indubbia realtà, ma che presenta però due grossi svantaggi: uno che è occasionale e sporadico, più o meno secondo il portafoglio e il karma di ciascuno. E l’altro svantaggio, molto più grave, è che dopo un po’… viene a noia. Due o tre giorni di paradiso sono il top, ma 20 o 30? ma 200 o 300? La “libertà da” - perché è di questo che stiamo parlando - presuppone infatti che ci sia qualcosa da liberarsi. Ma dopo un certo periodo di Eden… da che cosa ci si può più liberare? Dall’Eden stesso?

In effetti è proprio quello che archetipicamente hanno fatto i nostri progenitori, Adamo ed Eva, che evidentemente non ne potevano più del Paradiso Terrestre e della sua noia mortale. Lo stesso allegoricamente ha fatto il Buddha, quando fuggì dalla reggia di suo padre, in cui era totalmente libero ed esteriormente soddisfatto, ma in cui non aveva nulla di cui liberarsi. E allora lasciò la reggia/prigione del padre per entrare da eremita nella sua reggia/prigione interiore, in cui lavorò per anni a liberare se stesso e il mondo dall’Ego, dall’ignoranza, ecc.

Tutto questo ci dimostra che la “libertà da…”, la libertà dell’evasione, ovvero della ricerca di un eden all’insegna del disimpegno, è in realtà una libertà decisamente relativa. Spesso è un motore per l’uomo, ma è anche un valore? E se sì, di che livello?

*        *        *

 

Ritorniamo però adesso all’altra mia esperienza di libertà, che fu molto più significativa della prima. Merita di farlo, perché su questi temi così profondi la guida dell’esperienza personale si rivela un indispensabile e impareggiabile substrato all’elaborazione teorica.

La seconda esperienza mi capitò sempre in Sardegna, una decina di anni più tardi. Questa volta ero ospite al mare nella bella villa di un amico, con la prospettiva allettante di un paio di settimane di vacanze estive, anche lì su una costa magnifica. Solo che dopo appena un paio di giorni mi capitò di cadere all’esterno della villa fratturandomi una tibia, e dopo un fortunoso recupero in ambulanza (ero solo, il mio amico sarebbe arrivato dopo 2/3 giorni, e lì non conoscevo nessuno), mi ritrovai ricoverato all’Ospedale di Olbia, in camera a 4 letti, essendomi portato dietro giusto forse il portafoglio.

Beh, l’esperienza di libertà che provai in quei primi 2/3 giorni (finché appunto non ritornò il mio amico), completamente solo, senza niente di mio, senza contatti, senza niente da fare o da poter fare, protetto però dall’ambiente e soddisfatto nelle necessità essenziali, questa esperienza di libertà fu per me assolutamente impareggiabile, e molto più intensa della precedente. Ancor oggi la ricordo con grande piacere e - sembra assurdo dirlo - quasi con nostalgia. Anche perché, purtroppo (?!), non si è mai più ripetuta.

Ricordo la mia assoluta meraviglia di allora. Ma come? Isolato in una stanza d’ospedale, mi stavo godendo quell’inopinato “soggiorno” in totale benessere, serenità, pienezza, centramento, presenza e naturalezza, totalmente indifferente, anzi come divertito alla prospettiva dei dieci giorni di mare svaniti. Ero sempre al mare, ma… piacevolmente in ospedale! Quell’imprevista forma che la vacanza aveva assunto mi si stava esattamente rivelando quello di cui avevo bisogno in quel momento, e molto più soddisfacente di quella programmata. Ero totalmente “a mio agio”, felice, e in pace assoluta con me stesso, come mai più in seguito lo sono stato. C’ero, c’ero tutto, e stavo.

Allora intuivo soltanto le ragioni di questo mio straordinario vissuto, di questa mia strana peak-experience, ragioni che adesso distinguo molto meglio, e che giustificano questo mio insolito indulgere nel resoconto di esperienze personali. Il fatto è che proprio queste sono la chiave di volta delle riflessioni che andrò a svolgere sulla libertà.

Quello che già allora mi colpiva era il fatto che in entrambe le esperienze occorsemi mi trovavo in effetti “prigioniero”, vuoi su una spiaggia, vuoi in una camera d’ospedale. Eppure proprio lì, proprio in quelle condizioni di “prigionia”, non mi ero mai sentito così libero. Che cosa stava a dire questo? Come si spiegava?

Intanto, cominciamo subito a dire che sulla realtà e consistenza del mio vissuto non ho mai avuto il minimo dubbio, né allora né in seguito, proprio perché il bello dei vissuti psicologici è appunto quello che non si prestano a discussioni: se mi sentivo libero, vuol dire che lo ero.

Così come ricordo con pari chiarezza come poi sopravvenne la rapida perdita di quella condizione idilliaca. Man mano che il mio amico - fra l’altro su mia stessa richiesta - cominciò a portarmi premurosamente il … pigiama, i … fazzolettini, i … gettoni del telefono, il … giornale, e tutto il solito corollario ridiventato fatalmente “necessario”, con sgomento constatavo che di pari passo la gabbia inesorabilmente si richiudeva su di me. E mi ritrovavo di nuovo in prigione, nella normale, adusa prigione, da cui per un attimo ero evaso.

E allora? Come si spiegava la cosa? Ricordo che già allora riflettevo sull’ovvia e un po’ shoccante evidenza: se mi sentivo così straordinariamente libero in una stanza d’ospedale, con niente a disposizione, vuol dire che fuori non lo ero, nonostante le apparenze contrarie. E allora - proseguendo adesso la riflessione - vuoi vedere che non sono le condizioni esterne che ci limitano o imprigionano, ma piuttosto le nostre gabbie e orpelli psicologici che ci portiamo dentro? E che quindi la libertà consiste in un vissuto soggettivo, e non in una condizione esterna, oggettiva?

Questa è l’unica risposta che sono riuscito a dare al mio vissuto di allora, risposta che per altro ho scoperto in seguito essere già stata ampiamente condivisa e suffragata da molti grandi pensatori e filosofi, a partire dagli antichi greci e romani (vedi Epitteto: “Gli uomini sono agitati e turbati non dalle cose, ma dalle opinioni ch’essi hanno delle cose”; oppure Marco Aurelio: “Ricordati che tutto è opinione”), fino allo stesso Assagioli, che non a caso ne ha dato testimonianza proprio nel suo scritto Libertà in prigione. Un titolo così significativo, da dirci forse già tutto. Ma esattamente che cosa?

In primo luogo, ci dice appunto che è possibile mantenere la propria libertà interiore anche in uno stato esterno di restrizione, concetto questo però già ormai abbastanza acquisito, pur se di ardua realizzazione. Tante infatti sono le testimonianze che nella storia lo hanno avvalorato, non ultime quelle recenti nei lager nazisti.

Ma proprio grazie alla mia esperienza, credo che dietro a quel titolo ci sia dell’altro, e molto di più. Credo che sottilmente ci stia addirittura a dire che - per paradosso - la libertà si può conseguire solo in prigione, e grazie alla prigione, di qualsiasi tipo di prigione si tratti.
Ora, che cosa intendo dire con questo?

Per capirlo, bisogna rifarsi al significato più profondo ed essenziale del termine libertà, che è quello di “svincolato da”, di “sciolto da”, e quindi senza condizionamenti, senza limiti, se vogliamo indipendente.

Ma allora, se questo è il suo significato originario, significa anche ipso facto che la libertà è una condizione che in manifestazione non può sussistere, dato che tutto ciò che esiste sul piano fenomenico esiste sempre e solo necessariamente in relazione ad un contesto che comunque lo contiene, lo limita, e anche lo definisce e lo determina.

In quest’ottica, la libertà si ha allora soltanto nell’Assoluto, che etimologicamente vuol dire appunto “sciolto da”, “svincolato da”. Ma l’Assoluto per definizione non è manifesto; e quindi la libertà, se è attributo dell’Assoluto, evidentemente nel manifesto - e quindi anche nello psicologico - non può esserci, o meglio esistere.

Mi rendo conto che si tratta di un ragionamento un po’ filosofico, ma nello stesso tempo è anche così intuitivo che molto difficilmente lo ritengo contestabile. Se risulta in un primo momento un po’ ostico da cogliere, è perché ci suona insolito, strano, e magari anche un po’ sgradito nella sua verità.
Sgradito perché ci costringe a prendere atto del fatto che sul piano della manifestazione - in cui ci troviamo e in cui si svolge la nostra vita e il nostro cammino evolutivo - la libertà semplicemente non esiste. Non esiste proprio.

E qui intendo la libertà finale, assoluta, definitiva, che nel processo evolutivo si rivela appunto essere un mito, cioè un qualcosa che si insegue senza raggiungere mai. Un mito però prezioso, oltre che vero, perché sospingendo l’uomo verso qualcosa di irraggiungibile (come meta finale), lo induce a conseguire stati o livelli sempre maggiori di libertà relativa, cioè stati intermedi e progressivi di maggior libertà, che questi sì sono del tutto reali.

Insomma, la scala della libertà è come quella della sintesi. Non c’è in realtà un punto d’arrivo, ma c’è un percorso, una via, una direzione evolutiva e progressiva fatta in un caso di sintesi parziali, nell’altro di libertà parziali. Nella progressione da un gradino all’altro, ci si libera da certi condizionamenti per acquisirne altri di natura superiore.

Nello svezzamento, ad esempio, il neonato si libera dalla dipendenza dal seno materno, per assumere la nuova dipendenza dalla pappa. E così via. All’estremo opposto dell’esempio scelto, abbiamo il caso della mistica Teresa Neumann, che si è liberata totalmente dalla necessità di un nutrimento fisico, spostando questa necessità su un nutrimento più sottile. Ma sempre comunque restando in una condizione di dipendenza.

Questa condizione intrinseca alla vita manifesta è stata invero chiamata con molti nomi: interdipendenza, codipendenza, interconnessione, comunione, e tanti altri, ma se vogliamo usare il termine un po’ melodrammatico e teatrale - ma in certi casi azzeccatissimo - di “prigione”, allora dobbiamo renderci conto che noi uomini siamo sempre in prigione, e che la conquista della libertà per noi si può tradurre solo nella conquista di una prigione migliore.

In altri termini, l’unica libertà che l’uomo ha è di:

1) Scegliersi la prigione. Ovvero scegliere quali condizionamenti adottare, scegliere liberamente in quale “cella” andare a stare, fra quelle possibili alla sua portata, su quale gradino della scala posizionarsi.
E qui si potrebbe forse parafrasare la tecnica del “modello ideale”, per parlare della tecnica della “prigione ideale”, ovvero di come costruirsi la propria prigione ideale. Cioè su misura, che ci calzi, ci corrisponda. Perché qualsiasi modello ci si proponga di adottare, o anche si realizzi realmente, può essere infatti visto benissimo come un condizionamento, una maschera più evoluta della precedente, e quindi anche come una prigione più evoluta.

2) Scegliere la prigione in cui si trova, qualunque essa sia. Sceglierla nel senso di accettarla, di farla propria, e di volerla; anziché di subirla.

Ora, tutto questo da un lato può sembrare una libertà da poco, una ben misera opzione, perché comunque sempre in prigione si rimane, sempre “non liberi”.
Ma da un altro lato, a ben vedere, è invece moltissimo, perché quanti uomini sono in grado di conquistarsi questa unica libertà che hanno, sia pure “da poco”? quanti sono in grado di attualizzare questa piccola/grande loro potenzialità, che pure è di tutti?

E ancora, quanti sono in grado di scegliersi la loro prigione? Quanti sono liberi di farlo? Di scegliersi cioè i loro condizionamenti? in base ai quali farsi da questi cambiare, e migliorare? così che la nuova miglior prigione vada a far migliorare (e crescere) a sua volta il prigioniero?

 

*        *        *

 

E qui si torna al tema della libertà come vissuto soggettivo, come condizione interiore psicologica. Se infatti questa libertà è possibile trovarla solo dentro di sé, e non nelle circostanze esterne, allora si apre anche una prospettiva molto, molto interessante, ancorché impegnativa.

E cioè che - proprio in virtù della straordinaria e preziosa proprietà che il vissuto psicologico ha di non essere un qualcosa di dato e di definitivo, ma di poter essere gestito, modificato e plasmato, così come la psicosintesi insegna - se il sentirsi liberi (non l’esserlo) dipende dal proprio atteggiamento psicologico interiore, e non da condizionamenti esterni, allora la possibilità di viversi liberi diventa alla portata di chiunque. Chiunque beninteso sappia farlo.

È questa la nuova prospettiva letteralmente rivoluzionaria, una vera e propria rivoluzione copernicana. Perché in tal modo quella della libertà cessa finalmente di essere un’esperienza sporadica che può capitare solo per caso, in momenti culmine della vita, e cioè in particolari e rare situazioni esterne, per diventare qualcosa che è possibile costruire deliberatamente, ovvero conquistare, giorno per giorno, momento per momento, addirittura nella propria ordinaria quotidianità. In quest’ottica ciascuno - se vuole - può cioè diventare l’artefice della sua libertà.

Ma in che modo? La risposta più ovvia, almeno per me, sarebbe: con l’uso della psicosintesi, e di tutti gli strumenti che essa fornisce. Dico ovvia per me perché è bene ricordarsi che oltre alla psicosintesi ci sono moltissime altre vie e scuole di crescita che propugnano lo stesso percorso di liberazione interiore, ciascuna con la sua modalità.

Ma prima di prendere in considerazione la proposta specifica della psicosintesi, trovo opportuno aprire una parentesi per una necessaria premessa di carattere più generale.

Partiamo cioè dalla constatazione che, nella nostra società attuale, il 99% delle persone ha passato la vita a costruirsi un benessere (fatto di soldi, lavoro, casa, auto, famiglia, amicizie, studi, salute, cultura, ecc.), un benessere che rappresenta in assoluto il valore della sua vita. E che della libertà non gli può interessare di meno. Anche perché costoro non hanno nessuna intenzione né disponibilità a “liberarsi” di ciò che hanno più o meno faticosamente accumulato, e a cui restano attaccati come cozze. Con buona pace della parabola evangelica del “giovane ricco”.

Al contrario, è importante notare che per costoro la libertà consiste piuttosto nel poter conservare il possesso di tutto ciò che garantisce il loro benessere. È quindi una libertà di poter trattenere, o di perpetuare, che li vincola a ciò che trattengono, di cui paradossalmente diventano così schiavi o dipendenti. Quindi una libertà che non ha niente a che fare con la libertà di conquistare.

Questa osservazione è importante per inquadrare il fatto che l’argomento della libertà è in realtà un argomento assolutamente di nicchia, che può interessare al massimo l’un per cento, o per mille della popolazione, cioè quella piccolissima parte di individui che invece vogliono essere liberi, o almeno provare a diventarlo, vuoi perché sono così strani da aver assaggiato già il gusto della libertà - che compensa ampiamente dell’impegno che questa comporta; vuoi perché hanno capito che la libertà del trattenere, la libertà del possesso e della conservazione, è assolutamente effimera, precaria e aleatoria.

Basta infatti un piccolo tsunami, o terremoto, per toglierci di colpo tutti i nostri beni, il lavoro e magari i nostri cari. Basta un lutto per toglierci la fede, ma anche più banalmente basta uno sguardo storto per metterci di malumore, un ritardo di pochi minuti per metterci in ansia. E quindi star male, o comunque a disagio.

A questa piccola minoranza la libertà che interessa non è tanto quella di avere un benessere esterno, attraverso il controllo e la manipolazione delle circostanze, quanto quella di star bene dentro, di essere liberi dentro, liberi nei propri vissuti interiori. Si tratta cioè di un ribaltamento di prospettiva, di un passare dalla libertà di avere alla libertà di essere.

Per descrivere questo percorso di liberazione interiore così come lo propone la psicosintesi - percorso che è fattibilissimo e ovviamente imperniato sulla volontà - bisognerebbe però fare di questa un’esposizione sistematica. Mi limiterò quindi a indicare solo schematicamente quali sono le principali libertà che si acquisiscono progressivamente nel percorso di autopsicosintesi.

Penso sia utile farlo proprio perché la gradualità stessa della loro conquista tende alla fine a farle passare inosservate, se non peggio scontate, ai propri occhi.

Allora abbiamo la:

LIBERTÀ DA:

  • SENSI DI COLPA - BISOGNO DI [ETERO]APPROVAZIONE
  • BISOGNO DI RASSICURAZIONE E CONFERMA [ESTERIORI]
  • PAURA [DEL GIUDIZIO] - [DEL RIFIUTO]
  • CONFRONTO - PERFEZIONISMO
  • DISISTIMA - SENSO DI INADEGUATEZZA - AUTOSVALUTAZIONE
  • PRECONCETTI - PREGIUDIZI - OPINIONI - ABITUDINI - CRITICISMO - IDEALIZZAZIONI - PRETESE - ASPETTATIVE
  • DIPENDENZA - ATTACCAMENTO - AVVERSIONE

 

LIBERTÀ DI:

  • SBAGLIARE
  • ESSERE SÉ STESSI [ANCHE SBAGLIATI] - LASCIARSI ESSERE - ACCETTARSI - VOLERSI BENE - ACCOGLIERSI
  • DESIDERARE - PROVARE PIACERE - SENTIRE
  • PERDONARE - PERDONARSI - LASCIAR ANDARE
  • ACCONTENTARSI - APPREZZARE - GODERE - GUSTARE
  • ESPRIMERSI - AFFERMARE SE STESSI - REALIZZARSI
  • PENSARE - IMMAGINARE
  • VOLERE [VOLER VOLERE] - SCEGLIERE E DECIDERE - DIRE DI NO - RISCHIARE - GIOCARE

 

In estrema sintesi e da un altro punto di vista, potremmo anche dire che la libertà di avere si articola nella duplice libertà di prendere e di lasciare, realizzando in tal modo anche nella propria vita psichica quella stessa fondamentale capacità di respiro vitale che è già propria della vita fisica.

Mentre la libertà di essere direi che si articoli già perfettamente in quello che è il motto stesso della psicosintesi, ovvero:

  • Libertà di conoscersi
  • Libertà di possedersi/gestirsi
  • Libertà di divenire ciò che si è in potenza, di realizzarsi

 

*        *        *

L’argomento però di questo scritto non è propriamente “la libertà”, bensì “la conquista della libertà”, ed è quindi venuto il momento di prendere in esame questo specifico tema della conquista. E intendo farlo non tanto sotto l’aspetto di come la si realizza, che è più scontato, ma piuttosto di come poi la si gestisce.

Per farlo, il modo migliore mi sembra essere quello di far ricorso ad un’analogia che è forse la più appropriata in assoluto, ovvero l’analogia con la scalata di una montagna. Metafora questa che fra l’altro era molto cara anche ad Assagioli.
Allora, chiediamoci, che cosa fa l’alpinista quando è arrivato in cima, e ha così realizzato la “conquista” della vetta? O meglio, la sua conquista della vetta? Che fa? Avendola “conquistata”, se la mette forse in tasca, o nello zaino? E se la riporta a casa?
No, evidentemente no. Dopo essersi fermato un po’ sulla cima (e di solito più la conquista è stata impegnativa e difficile, meno è il tempo che ci si può fermare sulla vetta per godersela), abbandona, lascia la vetta appena conquistata, e si accinge alla discesa. La quale a sua volta può diventare una nuova conquista, perché a volte la discesa si può rivelare più impegnativa della salita. Come dire che la conquista del ritorno a valle è più prestigiosa (perché più completa) di quella dell’arrivo in vetta. Lo testimonia appunto la storia dei tanti alpinisti caduti sulla via del ritorno.

Questa metafora della scalata, che cosa ci fa capire? Che la conquista consiste evidentemente sì nel riuscire ad ottenere qualcosa, ma subito dopo - ed è questo il punto molto più elusivo - anche nel lasciarla andare, nell’abbandonarla, nel distaccarsene, per poter conquistare qualcos’altro, o riconquistare semmai di nuovo lo stesso obiettivo.

Insomma, la conquista termina nello stesso preciso istante in cui si realizza, ovvero si è raggiunta la meta od ottenuto il risultato. Da quel momento in poi subentra il possesso, il controllo, l’attaccamento a ciò che “era” stato conquistato, ma che non lo si può più conquistare perché lo si ha già. Questo vale per le vette, ma anche per tutti gli altri tipi di conquiste, comprese quelle galanti. È la stessa cosa.

Mi rendo conto che questo modo di vedere può lasciare molti un po’ sconcertati, abituati come siamo a considerare invece la conquista come sinonimo di bottino, da tenersi ben stretto, e non come un processo. Ma non è questa l’ottica del vero “conquistatore”, e ci sono altri due esempi che ce lo confermano chiaramente.

Uno è quello dello scalatore in parete, che “conquista” un appiglio, o un chiodo, ma subito dopo lo deve lasciare per proseguire con la conquista dell’appiglio successivo. E di conquista in conquista sale lungo la parete, e progredisce. Ora, figuriamoci per un attimo che cosa succederebbe se un rocciatore si affezionasse ad un certo appiglio, ad un certo chiodo, e non lo volesse più lasciare! Se non volesse più lasciare la sua conquista temporanea, e volesse tenersela solo per sé!

Un altro esempio, forse ancora più significativo, è poi rappresentato proprio dai classici conquistatori storici, tipo Alessandro Magno, Gengis Kahn, Giulio Cesare o Napoleone. Questi conquistavano, e poi… se ne andavano. L’enorme impero di Alessandro Magno è durato infatti pochissimo, ma ciononostante ha lasciato un segno profondo nella storia e nella civiltà di quei popoli.
Le stesse famose “campagne” di Giulio Cesare ci devono far riflettere. Giulio Cesare andava con le sue legioni ai confini dell’impero, conquistava nuovi paesi, e poi… non si fermava lì a fare la guardia, ma ritornava a Roma, vale a dire al centro dell’impero, per… farsi celebrare! Salvo poi ripartire nuovamente a riconquistare quei paesi che magari venivano persi di nuovo.

Questo ci fa capire che tutto il valore della conquista risiede nella capacità di realizzarla, non in ciò che si è realizzato. Il valore non sta nella meta stessa, ma sta nella capacità di ottenerla e quindi - con altre parole - possiamo dire che sta nel conquistatore, in chi realizza la conquista, e non nell’oggetto conquistato. Tant’è vero che ancor oggi tutti sanno chi è Giulio Cesare, ma ben pochi si ricordano di quali sono state le sue conquiste.

Questo ce lo ricorda anche il suo famoso motto: “Veni, vidi, vici”. Ma “vidi” che cosa? “vici” che cosa? Qualunque cosa, non ha importanza. Perché l’importanza si è spostata sul soggetto dell’azione, non sul complemento oggetto. È come se il verbo conquistare diventasse così intransitivo.

Per inciso, chi conosce un po’ di psicosintesi si sarà a questo punto accorto che la stessa precisa dinamica che abbiamo riconosciuto essere sottesa al processo della conquista va a coincidere esattamente con quello che in psicosintesi viene chiamato il processo di identificazione-disidentificazione. La capacità cioè di entrare in relazione sì con le proprie parti e con gli altri, di calarsi quindi nella vita, ma poi però di lasciarle andare, di lasciarle libere… distaccandosene. Liberandosi e liberandole. Come dire che la disidentificazione è liberatoria sia per chi la opera, sia per chi ne è operato. In questo caso il “conquistatore” è evidentemente l’Io.

Ora, perché è tanto importante riuscire a conseguire questo nuovo modo di concepire la conquista, ovvero acquisire la mentalità autentica del conquistatore?
Perché se la conquista è un processo e non un risultato, se è rappresentata dalla scalata e non dalla vetta, allora questo ci dà l’impagabile libertà di poter rinunciare ad ogni conseguimento e ad ogni successo nell’istante stesso in cui lo si è ottenuto. Perché si è sicuri di poterlo riconquistare quando si vuole. Ecco da dove viene la vera sicurezza: dalla propria capacità di saper conquistare, e non dal possesso della conquista. Con un’altra immagine, non dai soldi che abbiamo accumulato, ma dalla nostra capacità di guadagnarne.

Ora, dopo che ci siamo chiariti le idee sul processo della conquista, per concludere non ci resta che andare a vedere come questo si applica al tema della libertà.
E allora scopriremo che paradossalmente è libero interiormente chi… è pronto a rinunciare alla sua libertà. E direi anche con il sorriso sulle labbra.

Come dire che se abbiamo magari lavorato per anni a liberarci ad esempio della permalosità, e ci siamo riusciti, se ci ricapita un altro attacco di permalosità, diciamo una ricaduta, non battiamo ciglio, perché sappiamo che i problemi, o i complessi psicologici interni sono come i barbari di Giulio Cesare, tornano continuamente all’attacco, e così deve essere perché così è la vita. Le conquiste psichiche non le si difende con le barricate, ma con il contrattacco. E se abbiamo già sviluppato la capacità di liberarci della permalosità, una ricaduta può anzi farci piacere, perché ci dà la possibilità di liberarci di nuovo, di esercitare la nostra capacità o il nostro potere di liberazione.

La libertà interiore quindi non la si possiede, ma la si riafferma.
Sui propri conseguimenti, quali che siano, non è che ci si possa fare un rogito, o che ci si stia seduti sopra a presidiarli, come uno stilita sulla sua colonna. Ma si è pronti a saltar giù dalla colonna e a risalirci quando si vuole, perché alla conquista ci si allena, e diventa così sempre più facile ripeterla.
E quindi quello che invece sì si possiede, e aumenta anche, è appunto la propria capacità di “liberarsi”, cioè di autoliberazione.

Questo è il senso più vero del “possiedi te stesso”, del “sii padrone di te stesso”: il potere crescente di restituirsi ogni volta alla libertà, quando la si riperde. Scopriamo infine - al termine di queste riflessioni - che il loro titolo più appropriato sarebbe in vero “La conquista della liberazione”, cioè della capacità e del potere di liberarsi.

A questo proposito c’è infine un bel foglietto di Assagioli che è assolutamente illuminante. Dice semplicemente: “Liberazione del nuovo dal vecchio”.

Che può essere inteso sì come il nuovo che si libera dal vecchio, ma anche come il vecchio che “libera” il nuovo, che gli dà spazio, che lo lascia andare. Con il suo viatico. La liberazione insomma vista come rinnovamento, non necessariamente come rottura o “rivoluzione”.

Ci sta cioè saggiamente a ricordare che il nuovo non emerge dal nulla, ma sempre dalla vecchia radice. Come i nuovi anelli del tronco che si aggiungono ai precedenti, inglobandoli. O la nuova pelle del serpente, che è generata sempre dallo stesso corpo.

Certamente, a volte per il “vecchio” - ma anche per il “nuovo” - questo processo di liberazione o di rinnovamento può risultare un po’ sovversivo, un po’ scomodo, destabilizzante e ansiogeno; tanto quanto d’altronde è necessario e risolutivo.

Quel che è certo è che facendoci noi parte attiva di questo processo - e cioè diventando conquistatori della nostra libertà, agenti della nostra liberazione, e cocreatori del nostro futuro, anziché soggetti passivi dell’inevitabile - non faremo altro che facilitarlo, rendendo più armoniosa, sciolta e bella la nostra salita della scala della libertà. Che verrà a coincidere con quella del nostro sviluppo.

E in cui ogni gradino salito - ovvero conquistato, e per ciò stesso vecchio, in quanto fruito - una volta ben calcato sarà subito lasciato libero dalla e per la conquista del gradino successivo.
In una continua conquista di… conseguimento/liberazione.

 

Fonte: http://www.psicoenergetica.it/scritti/La%20conquista%20della%20libert%C3%A0.doc

Sito web da visitare: http://www.psicoenergetica.it

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

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