Felicità

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Felicità

LA FELICITA`: CAUSA O EFFETTO?

Si dice che viviamo nell'epoca del narcisismo. Alcuni parlano di cultura dell'immediato. Altri di mentalità della sopravvivenza. C'è anche chi afferma che l'uomo contemporaneo si costruisce su un io minimo.
Queste constatazioni di sociologi e psicologi concordano su un fatto: sembra che per l'uomo d'oggi  sia molto importante l'affermazione di sè. "Sii te stesso", "conservati bene", "realizzati", "abbi cura di te", "cerca la tua felicità".... sem­brano essere la nuova regola di vita.
Narcisista è appunto colui che si è talmente conservato e curato da finire con l'innamorarsi solo di se stesso. La sua ricetta è costituita da questi verbi: apparire, stupire, affascinare, fare colpo, avere in mano la situazione, sbarazzarsi di situazioni im­barazzanti, vincere, e soprattutto, cercare la felicità.

Simboli narcisisti
Che questa sia la cultura corrente basta guardare ai tanti simboli narcisisti che ci circondano. I piú comuni: la moda, la pubbli­cità, lo status sociale.
La moda. Perchè non possiamo portare le scarpe dell'anno scorso ma dobbiamo comperare quelle di moda oggi? non certo per necessità, ma perchè quelle scarpe sono da noi considerate il biglietto di ingresso nel mondo altrui. Sono un mezzo di accettazione sociale. Non averle, crea la sgradevole sensazione di essere diversi, quindi non accettati.
La pubblicità è ancora piú chiara. Per invogliarci a comperare il nuovo prodotto, non ne elenca le caratteristiche tecniche ma ci fa balenare la stuzzicante idea che con quel prodotto la nostra imma­gine sarà vincente. Il profumo ci dà amore, la bottiglia di spu­mante calore e intimità familiare, la bella automobile garanzia di prestigio...(è interessante vedere circolare tanti fuoristrada che purtroppo non hanno mai battuto una strada che non sia asfal­tata!).
Lo status sociale. La riuscita nel mondo non sta nell'aver esple­tato un compito o nell'aver seguito i propri desideri  ma nell'aver vinto e fatto breccia sugli altri. L'aspirazione mag­giore non è quella di essere stimati e imitati, ma ammirati e invi­diati, con la paradossale conclusione che chi fa il suo dovere e basta, perchè ci crede, rischia di passare per un ingenuo e un an­tiquato che non sa stare a questo mondo.

UN IO GRANDE MA INFRANTO
Forse ho usato tinte un po' forti. L'ho fatto per evidenziare il nucleo della cultura narcisista: un progetto di vita fondamental­mente auto-centrato. L'io personale viene messo al centro dell'universo e la realtà che lo circonda ha valore se è funzio­nale a quell'io, cioè se gli da rinforzo, sostegno, luce.
E il risultato...?
Da tanta cura di sè, ci dovremmo attendere l'esito di una vita re­alizzata. Finalmente felici: alla vista del nostro io riconosciuto da noi e dagli altri. Tanta cura per se stessi dovrebbe logica­mente portare alla felicità.
E invece no. L'esito è il fallimento dell'io, descritto dagli esperti della psiche in modi diversi: vuoto di significato, alie­nazione, noia, apatia, insoddisfazione circa il proprio ruolo, smania per qualcosa che non si sa bene cosa sia, paura della morte e della vecchiaia... Sono stati proprio questi "sintomi" così mo­derni e diffusi a spingere gli studiosi alla ricerca delle cause, ritrovate appunto nella cultura del narcisismo.

LE REGOLE DEL GIOCO
C'è qualche cosa che non va. Ritorna prezioso l'insegnamento della parabola del ricco stolto. Era ricco, pensava  di essersi assicu­rato un avvenire felice, contro ogni evenienza. E invece, all'apice della sua conquista, si ritrova perduto: "stolto, oggi stesso morirai". Si illudeva di poter vivere in un eterno e beato presente e invece, nel momento del successo, si ritrova che il tempo è scaduto.
La lezione del narcisismo mi sembra a questo punto chiara: c'è un ordine oggettivo che si impone come garante del successo della vita e che nessun uomo può cambiare, pena il suo fallimento. C'è una metodo oggettivo per la ricerca della felicità. Un metodo che la persona non può inventare o modificare ma può solo accettare, se lo vuole. Ognuno di noi rimane libero di ricercare o no la pro­pria felicità, ma la strada per essere felici è una sola. C'è una libertà che nessuno di noi può prendersi: definire soggettivamente cosa vuol dire essere felici. Per la felicità è come per l'amore: io rimango libero di amare o non amare, ma se decido di amare non posso definire l'amore. Esso contiene delle caratteristiche oggettive che io non ho creato, ma che trovo già definite, anche se poi mi ri­marrà il compito di soggettivarle, cioè di trovare il mio modo originale di amare. Però rimane il fatto, che posso considerarmi un vero amante solo se mi adeguo a quei criteri pre-definiti. Sono libero di amare o non amare, ma non sono libero di chiamare amore la gelosia e lo sfruttamento dell'altro.
Così per la felicità: c'è un manuale d'uso da rispettare.

DUE INDICAZIONI....
Come non si fa ad essere felici lo abbiamo visto: ricercare se stessi o mettersi al centro dell'universo. La vera strada della felicità è Il suo esatto contrario. Se vuoi essere felice perdi te stesso. Solo nella misura in cui tu ti de-centri, potrai ritro­varti. La porta della felicità si apre sempre verso l'esterno. La felicità è la conseguenza non intenzionale della trascendenza di sè.
Due indicazioni quindi, per essere felici:
- la felicità è una conseguenza: richiede un valore previo da per­seguire. Potrò sentirmi felice nella misura in cui avrò davanti a me un ideale liberamente scelto, sperimentato come attraente e sul quale investire le mie energie. La felicità viene dopo. Prima ri­cerca il bene, il buono e il bello e dopo ti sentirai felice.
- la felicità è una conseguenza non intenzionale. E` una espe­rienza ricevuta come dono. L'oggetto diretto della nostra ricerca è un altro: vivere per qualcosa che è degno e vale la pena. In queste condizioni, la felicità è un sovrappiú ricevuto in omaggio.
Provare per credere. Proviamo ad alzarci alla mattina con il pro­posito: "oggi voglio essere felice". State sicuri che alla sera ci ritroveremo annoiati. Bisogna alzarsi con un altro proposito: "oggi, voglio fare ciò che mi sta a cuore, che vale, è impor­tante": state sicuri che alla sera saremo contenti. La consapevo­lezza di avere fatto ciò che giova, di aver vissuto "per" qual­cosa, ci darà l'effetto non intenzionale della felicità.

.....PIU`` UNA
Queste due "regole di istruzione" ne sottendono un'altra: per es­sere felici dobbiamo concepire la nostra vita come relazione. La persona umana è un essere in relazione (anche se decide di fare il trappista). Qui è un'altra causa del fallimento del narcisismo. Il narcisista che segue il mito del "abbi cura di te" è una persona innaturale che vive secondo una logica di solitudine. Il nostro io ha bisogno di un riferente, un partner, che sia un non-io: una re­altà esterna alla quale sentirsi vincolati, ad essa rispondere e con quella vivere in relazione. L'uomo non è fatto per vivere da solo.
Questo "oggetto" verso il quale trascendersi non è qualcosa di esterno ma è costitutivo del nostro io: attra­verso la relazione con quell'oggetto costruiamo il nostro essere e dover essere. Questa relazione servirà da metro di misura e bus­sola di orientamento per la vita concreta.
Di nuovo, la vita pratica ne è la prova. Se il mio obiettivo è solo il mantenimento-ingrandimento del mio io, con il mondo stabi­lirò un rapporto intermittente e arbitrario: sto con gli altri nella misura e finchè serve a me, mi interessano le informazione che la vita mi dà nella misura che confermano il mio io altrimenti le ignoro, le traviso o le mistifico, mi accetto solo se il mio io riceve conferme e gratificazioni. Quando invece mi sono definito in base ad una relazione, nasce un rapporto piú sereno con la re­altà: fra le varie sue proposte so scegliere ciò che esprime o ac­cresce la mia relazione di vita, so discernere ciò vale e non vale, so reggere alle ferite del mio io perchè libero dalla con­danna al successo forzato. Pensiamo ad esempio alla scelta di spo­sarsi. In termini narcisisti significa: sto con te perchè "mi fai sentire, essere, stare...bene". In termini di relazione significa: "sto con te perchè insieme realizziamo una vita piú significa­tiva".
In breve: per essere felici occorre perdersi verso un ideale di vita che ci trascende, e farlo con la consapevolezza che è la re­lazione con questa "perla preziosa" a determinare la qualità della nostra esistenza.
Come si vede, qui c'è un accordo perfetto fra l'insegnamento del vangelo e le indicazioni desunte dalla analisi della natura umana. Natura e rivelazione qui si confermano a vicenda. Le richieste evangeliche del donarsi e della vita come alleanza non sono un "optional" cristiano ma una condizione naturale per vivere la vita beata. E` la stessa natura umana che suggerisce quei criteri di vita che la rivelazione conferma e approfondisce di nuovo signifi­cato.

DUE TIPI DI FELICITA`....
Cosa significa allora felicità? Il termine ha due significati ben diversi l'uno dall'altro.
A differenza dell'animale, a noi è dato di sperimentare due tipi di felicità, perchè noi abbiamo due diversi modi di affrontare la realtà, o se vogliamo, due logiche di vita.
Prima logica di vita: volere ciò che piace. Ho dei bisogni (mangiare, bere, dormire, successo nel lavoro, stima sociale....) e ,quindi, agisco per soddisfarli. Il criterio di scelta è: lo faccio perchè mi piace, mi soddisfa. Un oggetto diventa desidera­bile perchè piacevole e soddisfacente per me. Una volta soddi­sfatto il bisogno e ottenuto ciò che piace, sono contento. Ecco il primo tipo di felicità.
Seconda logica di vita: volere ciò che giova. A differenza degli animali, l'uomo può andare al di là della soddisfazione immediata e scegliere ciò che vale in se stesso, perchè è bello, è un valore e questo lo può fare anche a scapito della soddisfazione perso­nale. Per amore della carità posso rinunciare ad essere ricono­sciuto; per testimoniare posso accettare di non piacere; per aiu­tare gli altri posso mettere in pericolo la mia sopravvivenza. Una volta realizzato ciò che vale, sono contento. Ecco il secondo tipo di felicità.

.....fra lori differenti
La prima è una felicità emotiva che deriva dall'appagamento dei propri bisogni e si sperimenta come mancanza di tensione. La se­conda è una felicità piú razionale, che all'animale non è con­cessa. La prima, è la felicità per aver ottenuto ciò che piace. La seconda, per aver realizzato ciò che giova, vale la pena, sta a cuore.
Quest'ultima è la vera felicità. Non sarà la gaiezza chiassosa, nè il ridere a crepapelle, ma qualcosa di piú profondo e duraturo: una pace e libertà interiore che nascono dalla consapevolezza di aver fatto ciò che giova. Direbbe S.Paolo: nonostante le tribola­zioni, le difficoltà e la fatica, noi ci sentiamo piú che vinci­tori. E` una felicità che deriva dall'aver realizzato dei valori e dall'aver vissuto la propria vita come relazione con qualcosa che conta e che dura. E` a questo secondo tipo di felicità che mira la proposta cristiana nonchè il cuore dell'uomo. E` la ricompensa non intenzionale per  essersi consegnati a qualcosa che vale.
E il cammino evolutivo del nostro io lo conferma: crescendo, il bambino incomincia a riflettere sui suoi desideri istintivi e può determinare se sono realistici o no, può anche rinunciarvi e so­stituirli con desideri piú razionali, che nascono dalla volontà di volersi elevare verso qualche bene. Grazie alla possibilità di sperimentare queste emozioni razionali, il bambino imparerà ad astrarre: non rimarrà chiuso solo a ciò di cui ha bisogno qui e ora, risponderà anche ad ideali apprezzati come intrinsecamente importanti fino ad arrivare -da uomo- a desiderare valori unica­mente razionali che non potremmo mai desiderare con le sole emo­zioni sensibili. Ad esempio, la croce: istintivamente è repel­lente, ma possiamo apprezzarla come valore importante e necessario fino a desiderarla per essere "come" il Signore. La persona umana può passare da una affettività emo­tiva a una affettività libera, voluta e cosi' può raggiungere una felicità razionale, non nel senso che è ragionamento ma nel senso che è il frutto della attività libera e responsabile dell'uomo.
Si apre così una pista educativa molto interessante. Per educare alla felicità dobbiamo, prima, educare ad un corretto e maturo rapporto con la realtà.
In base a che cosa possiamo concludere: questo è importante e que­sto no, questo ha senso e questo no? In base a che cosa educhiamo i nostri desideri? Un oggetto (persone, cose, valori...) è deside­rabile perchè piacevole e soddisfacente per me oppure, perchè vale in se stesso, intrinsecamente, indipendentemente dall'effetto che può produrre in me. E` la differenza che passa fra l'amore posses­sivo e l'amore oblativo, fra il vivere per non morire e il vivere per un senso, fra lo sposarsi per un sollievo temporaneo e il farlo per realizzare qualcosa che vale la pena. L'educazione alla felicità richiede la capacità di apprezzare il bello e il buono.
Come esercizio per affinare il gusto del bello proporrei di veri­ficare ogni tanto la qualità dei nostri desideri secondo gli schemi qui acclusi.

COME VALUTARE I NOSTRI DESIDERI
Sono desideri fiacchi, immediati, spontanei? Riguar­dano obiettivi terra-terra che in fondo non aggiun­gono niente a ciò che già sono e conosco, oppure in­dicano un'aspirazione a diventare ciò che ancora non sono, ad andare di là dell'immediato?
Chi è il padre dei miei desideri?
I miei desideri sono capaci di dare senso pieno e du­raturo a ciò che faccio?
Delle mie azioni e idee posso dire: le ho volute io?

PER LA VERA FELICITA` OCCORRE IL CORAGGIO DI PASSARE:
dalla logica dei premi e punizioni alla logica del regalo; dal "lo faccio perchè mi piace", al "lo faccio perchè è bello, mi sta a cuore";
dalla logica dello scambio di favori a quella della prodiga­lità: fare qualcosa all'insegna dell' "omaggio" alla vita", del "lo dedico a te", senza avere la mira del ricevere come condi­zione del regalare;
dalle aspettative reciproche alla bellezza dell'essere di­versi: "io devo essere come tu mi vuoi? no, grazie!". Non per spirito di contraddizione ma per la gioia irrinunciabile di se­guire un senso trovato;- dall'ordine costituito alla riflessione critica: "ma chi l'ha detto che si deve sempre fare cosi?". Non è necessario diventare dei sovversivi: basta nutrire la consuetudine di convinzioni personali;
dalla logica del "piacere agli altri" alla libertà di mo­strarsi nella propria verità, anche nei suoi aspetti deficitari;
dalla dipendenza alla scelta: provare a relativizzare certi beni della nostra vita ai quali abbiamo attribuito una indebita assolutizzazione. Rimanere fedeli alla complessità della vita contro ogni riduzionismo.

TRE CONVINZIONI PREVIE ALLA FELICITA`:

  1. Dio mi ha scelto in modo personale per un rapporto di alle­anza con lui. Mi ha scelto con il mio inestricabile groviglio di bene e male, di desideri e paure
  2. Gli avvenimenti della mia vita si svolgono sotto lo sguardo di Dio provvidenza. Il Dio che mi ha chiamato è il Dio della mia storia: attraverso ciò che mi capita, è la sua presenza e il suo richiamo che si manifesta
  3. Mi permetto di dare a Dio la licenza di usarmi perchè attra­verso di me Lui possa raggiungere anche gli altri.  Infatti la nostra feli­cità è proporzionale alla nostra disponibilità.

 

pubblicato nella rivista VIA VERITA' E VITA n.135
Alessandro Manenti insegna psicologia all'Istituto Teologico Interdiocesano di Reggio Emilia
e dirige un corso triennale per educatori.
E' operatore al consultorio familiare e psicoterapeuta.
Ha pubblicato numerosi articoli e studi, fra i quali,
Vivere gli ideali, fra paura e desiderio, EDB, 1991

 

 

Fonte: http://web.tiscali.it/andelisio/SITOPF/Sulla%20felicit%E0%20-%20Manenti.rtf

Sito web da visitare: http://web.tiscali.it

Autore del testo: Alessandro Manenti

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