Separazione, divorzio e mantenimento

Separazione, divorzio e mantenimento

 

 

 

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Separazione, divorzio e mantenimento

Separazione, divorzio e mantenimento-Diritto di tutti.it

    Se moglie e marito si separano, alle pressoché immancabili ripercussioni sentimentali e psicologiche,  soprattutto a danno dei figli qualora vi siano, si aggiungono più o meno complessi  e tormentati problemi di natura economica: assegnazione della casa familiare all’uno o all’altro coniuge,  divisione dei beni mobili e immobili,  quantificazione dell’assegno di mantenimento  da porre a carico del coniuge economicamente più forte. Quando poi, trascorso il periodo di legge (tre anni dalla comparizione dei coniugi davanti al Presidente del Tribunale per la procedura di separazione),  si passa dalla separazione al divorzio, si pone anche il problema della fruizione, da parte del coniuge beneficiario dell’assegno di mantenimento,  di una quota del trattamento di fine rapporto (TFR) percepito dall’altro coniuge e dell’eventuale pensione di reversibilità qualora questi dovesse venire a mancare. In questo e in un successivo articolo ci occuperemo, sulla scorta della giurisprudenza formatasi in materia, dell’assegno di mantenimento (per il divorzio il linguaggio corrente parla di assegno divorzile), del TFR e della pensione di reversibilità. Prima, però,  è opportuno chiarire la differenza fra due istituti giuridici fra loro simili ma quantitativamente diversi: quello di alimenti e quello di mantenimento.
Gli alimenti(art. 433 del codice civile) si fondano sul vincolo di solidarietà che lega, o almeno dovrebbe legare, le persone fra le quali corre taluno dei rapporti indicati dalla legge: per esempio coniugio, parentela e affinità entro certi gradi. Qualora si verifichi lo stato di bisogno dell’avente diritto (si deve trattare di persona compresa fra quelle indicate dalla legge e comunque non in grado di provvedere a se stessa), l’obbligato -o, se vi sono più obbligati, ciascuno in proporzione alle proprie sostanze- può scegliere fra il corrispondere all’alimentando un assegno a questo titolo, oppure accoglierlo e mantenerlo nella propria casa. L’obbligo di somministrare gli alimenti viene meno, fra l’altro, se muore l’obbligato o se cessa lo stato di bisogno dell’avente diritto. Il diritto agli alimenti ha natura patrimoniale (ossia ha un contenuto economicamente valutabile), ma a differenza degli altri diritti patrimoniali non è cedibile, essendo intimamente connesso, come già detto, allo stato di bisogno del titolare. Concetto più ampio di alimenti è quello di mantenimento, consistente non nel somministrare all’avente diritto di che vivere, ma nell’assicurargli un tenore di vita proporzionato alla propria condizione economica; rientrano così nel concetto, per esempio, l’abbigliamento, l’istruzione, i mezzi di trasporto e di comunicazione (Cassazione 11/12/2008, n. n. 45809). Di regola in sede di separazione o di divorzio quello che rileva è il mantenimento; al coniuge, però, cui sia addebitabile la separazione e che versi in stato di bisogno, spettano soltanto gli alimenti.

Se la famiglia è di fatto
Il convivente more uxorio non ha diritto agli alimenti, e tantomeno al mantenimento, poiché la convivenza concretizza una situazione di fatto, caratterizzata dalla precarietà e dalla revocabilità unilaterale, cui non si ricollegano diritti e doveri se non di carattere morale (Tribunale di Napoli 8/7/1999); è invece legittimato a chiedere un contributo per il mantenimento di eventuali figli avuti dal convivente, trattandosi di richiesta fondata sull’obbligo dei genitori di mantenere i figli per il solo fatto di averli generati.

L’assegno di mantenimento
Motivo di ulteriore contrasto nelle separazioni giudiziali  (ma anche nei divorzi la cui domanda  non sia stata proposta congiuntamente) è, qualora uno dei coniugi non abbia un reddito tale da assicurargli un tenore di vita pari a quello di cui godeva in costanza di convivenza coniugale,  la quantificazione dell’assegno di mantenimento da porre a carico dell’altro coniuge. Questo importo varia ovviamente da caso a caso, in relazione alla rispettiva disponibilità di reddito dei coniugi, nonché all’età e al numero di eventuali figli, e nel determinarlo il giudice non è tenuto a distinguere quanto spetti al coniuge affidatario e quanto ai figli, poiché tale assegno si ricollega a un credito iure proprio del primo, anche per la parte inerente alle esigenze di vita dei secondi (Cassazione 7/3/1984, n. 1589). L’assegno concesso a un coniuge per il mantenimento dei figli minori non può comunque avere natura forfetaria, nel senso di includere anche le spese straordinarie; alcune di queste, infatti, possono essere non solo imprevedibili ma imponderabili, per cui ricomprenderle forfetariamente nell’assegno potrebbe determinare una compressione delle esigenze del minore, nei casi in cui il loro soddisfacimento richieda un intervento economico straordinario (Corte d’Appello  Napoli 6/6/2008, n. 2201).   L’assegno di mantenimento può  costituire un utile riferimento ai fini della quantificazione dell’assegno divorzile (Cass. 27/8/2004, n. 1718).

A chi spetta
L’assegno di mantenimento   viene disposto dal giudice in favore del coniuge cui non sia addebitabile la separazione  e che non disponga di adeguati redditi propri, in presenza  di una disparità economica fra i due coniugi; ricorrendo queste condizioni il mantenimento spetta a prescindere dal fatto che la separazione sia stata pronunciata con o senza addebito all’altro coniuge (Cass. 5/11/1987, n. 8153); al coniuge, invece, cui sia addebitabile la separazione, l’assegno di mantenimento non spetta neppure se privo di mezzi di sostentamento (Cass. 15/2/2008, n. 3797); egli, pertanto,  avrà diritto soltanto agli alimenti.
Se la separazione è addebitata ad entrambi i coniugi, quello economicamente più debole perde il diritto al mantenimento, anche nel caso in cui abbia inciso con minor rilevanza causale nella crisi dell’unione coniugale (Cass. 24/2/2006, n. 4204). Anche in tale ipotesi è fatto salvo il diritto a percepire gli alimenti.

 La quantificazione
Ai fini della quantificazione dell’assegno di mantenimento si deve tener conto (Cass. 19/10/1981, n. 5446) non solo degli utili in denaro, ma anche delle utilità suscettibili di valutazione economica; così, se il coniuge tenuto a corrispondere l’assegno concede all’altro l’uso di una casa di abitazione, questa utilità è valutabile in misura pari al risparmio della spesa che occorrerebbe sostenere per godere dello stesso immobile a titolo di locazione. L'acquisto di una barca di maggior pregio e valore della precedente è stato ritenuto (Cass. 25/9/2003, n. 14252) elemento utile ai fini della valutazione dell’adeguatezza dei redditi per determinare l'assegno di mantenimento in favore del coniuge cui non era stata addebitata la separazione. In caso di contestazione il giudice può incaricare la polizia tributaria di svolgere le opportune indagini; fra l’altro il contenuto della dichiarazione dei redditi può essere documentalmente smentito: per es. attraverso una visura camerale o ipotecaria  (App. Roma 16/7/2008, n. 3077).
Dal punto di vista del coniuge destinatario dell’assegno, il tenore di vita che questi ha il diritto di mantenere non è quello di fatto consentitogli dall’altro coniuge prima della separazione, ma quello che l’altro coniuge avrebbe dovuto consentirgli in base alle sue sostanze; pertanto, se uno dei coniugi, sottraendosi all’obbligo di contribuire, in proporzione ai propri mezzi economici, alle esigenze  della famiglia, fa vivere l’altro coniuge in ristrettezze, o comunque non gli assicura un tenore di vita corrispondente a quello che ragionevolmente potrebbe permettere a sé e alla sua famiglia, l’altro coniuge, una volta separatosi, può pretendere per il proprio mantenimento un assegno proporzionato alla posizione economica del consorte, indipendentemente dal tenore di vita tollerato prima della separazione (Cass. 18/8/1994, n. 7437). Può però accadere che le condizioni economiche del coniuge tenuto al pagamento dell’assegno di mantenimento non consentano al coniuge destinatario dello stesso di conservare lo stesso tenore di vita goduto durante il matrimonio, per cui sarà il giudice a quantificare il dovuto in relazione alle condizioni economiche dell’obbligato e alle altre circostanze richiamate nel secondo comma dell’art. 156 c.c. (Cass. 28/4/2006, n. 9878). Se poi, prima della separazione, i coniugi avevano concordato, o quanto meno accettato, che uno dei due non lavorasse, ciò vale anche per dopo la separazione;  questa, infatti, tende a conservare il più possibile gli effetti del matrimonio compatibili con la cessazione della convivenza, e quindi anche il tenore e il tipo di vita di ciascun coniuge, a differenza di quanto previsto in materia di divorzio dal sesto comma dell’art. 5 L. 1/12/1970, n. 898, e successive modificazioni,  che subordina  il diritto al mantenimento al fatto che chi lo pretende non possa procurarsi, per ragioni, oggettive, mezzi di sostentamento, (Cass. 19/3/2004, n. 5555). In mancanza di un accordo del genere, l’attitudine al lavoro in capo al coniuge destinatario dell’assegno, come potenziale capacità di guadagno, è un elemento valutabile dal giudice per definire la misura dell'assegno stesso, ma il suo mancato sfruttamento  non equivale ad un reddito attuale, né lascia presumere il rifiuto di propizie occasioni di reddito (Cass. 2/7/2004, n. 12121);  l'inattività lavorativa, quindi, non è necessariamente indice di scarsa diligenza nella ricerca di un lavoro, almeno finché non sia provato il rifiuto di una concreta opportunità di occupazione: solo in tal caso, quindi, lo stato di disoccupazione potrebbe essere interpretato come rifiuto o non avvertita necessità di un reddito, che condurrebbe ad escludere il diritto di ricevere dal coniuge, a titolo di mantenimento, le somme che il richiedente avrebbe potuto ottenere quale retribuzione per l'attività lavorativa rifiutata o cessata senza giusto motivo.
       Non ha invece alcuna rilevanza il fatto che il coniuge richiedente l’assegno sia titolare di un patrimonio in nuda proprietà, trattandosi di cespiti per lui non produttivi di reddito (Cass. 27/8/2004, n. 1718).
Tornando alla quantificazione dell’assegno, si deve tener conto, oltre che della durata dell’unione coniugale, dell’eventuale apporto fornito dal coniuge richiedente al miglioramento delle condizioni familiari: sia in termini di conservazione o incremento dei mezzi a disposizione del nucleo familiare, sia in termini di rinuncia ad una propria affermazione socio-economica (App. Roma 16/7/2004, n. 3350). In particolare, se la durata del matrimonio è stata breve (ma nel periodo  dev’essere compreso anche quello di separazione), questa circostanza non preclude, ricorrendone i presupposti, il diritto all’assegno di mantenimento, ma può semmai incidere, come appena detto, ai fini della sua quantificazione (Cass. 16/12/2004, n. 23378).

La quota per i figli
Va premesso che, qualora vi siano dei figli (legittimi o naturali non fa differenza), l’obbligo di corrispondere l’assegno di mantenimento al coniuge col quale essi convivono prescinde  dal fatto che il Tribunale abbia disposto l’affidamento condiviso o ad uno dei genitori (App. Ancona 22/11/2006). Inoltre, a differenza di quanto previsto per i figli minorenni, l’assegno di mantenimento in favore dei figli maggiorenni economicamente non autosufficienti e conviventi con il coniuge destinatario dell’assegno, presuppone che questi ne faccia espressa richiesta (Cass. 18/2/2009, n. 3908).
Ai fini della quantificazione dell’assegno di mantenimento dovuto dai genitori in favore dei figli minori o comunque non economicamente autosufficienti ancorché maggiorenni, la capacità economica di ciascun genitore va determinata con riferimento al rispettivo complesso patrimoniale, costituito, oltre che dai redditi di lavoro subordinato o autonomo, da ogni altra forma di reddito o utilità, quali il valore dei beni mobili o immobili posseduti, le quote di partecipazione societaria, i proventi di qualsiasi natura percepiti (Cass. 3/7/1999, n. 6872).  Circa la ripartizione tra i figli dell’assegno di mantenimento loro dovuto dal genitore  non affidatario, per il Tribunale di Torino (sentenza del 16/6/1986) essa va operata non  in misura uguale per ciascun figlio, ma in misura congruamente maggiore per il figlio più giovane ed in misura decrescente per gli altri figli, in proporzione inversa alla loro età.
Il genitore obbligato alla corresponsione dell’assegno per il mantenimento dei figli non può invocare una riduzione dell’ importo eccependo di aver effettuato in favore dei figli medesimi ulteriori elargizioni, se queste  sono state erogate per soddisfare esigenze diverse da quelle poste alla base del predetto assegno e quindi riconducibili a un titolo diverso (Cass. 29/12/1990, n. 12212). Né può pretendere di sospendere il pagamentodell’assegno nei periodi in cui i figli, in attuazione delle modalità di visita disposte dal giudice, si trovano presso di lui ed egli provvede pertanto in modo esclusivo al loro mantenimento; è stato infatti ritenuto (Cass. 17/1/2001, n. 566) che, in mancanza di diverse disposizioni, il contributo per il mantenimento dei figli minori, determinato in una somma fissa mensile in favore del genitore affidatario, non costituisce il mero rimborso delle spese da questi sostenute  nel mese corrispondente, ma rata mensile di un assegno annuale determinato, tenendo conto di ogni altra circostanza emergente dal contesto, in funzione delle esigenze della prole rapportata all’anno. Con una precedente decisione (la n. 11138 del 13/12/1996) la Cassazione aveva considerato ammissibile, per i periodi in cui i figli vivono con il genitore non affidatario, una riduzione  proporzionale dell’assegno,  avuto riguardo ai maggiori oneri da lui sostenuti e alle corrispondenti minori spese (specialmente per vitto e per cure quotidiane) sostenute negli stessi periodi dal genitore affidatario. Sempre in materia di affidamento, il fatto che questo sia congiunto non esclude l’obbligo del versamento di un contributo qualora sussistano i presupposti a favore del genitore col quale i figli convivono: dall’affidamento congiunto, infatti, non deriva, automaticamente, il principio per il quale ciascun genitore provvede direttamente e autonomamente alle esigenze dei figli (Cass. 27/2/2006, n. 18187).
L’obbligo di mantenimento dei figli minorenni, o maggiorenni non autosufficienti, può essere adempiuto dai genitori in sede di separazione o di divorzio, mediante un accordo che preveda, in luogo di una prestazione patrimoniale periodica, o in concorso con questa, l’attribuzione ai figli della proprietà di beni mobili o immobili (Cass. 21/2/2006, n. 3747).

Se il figlio è maggiorenne
Il raggiungimento della maggiore età da parte dei figli, senza l’acquisizione di indipendenza economica, non estingue il diritto del genitore convivente a pretendere l’assegno di mantenimento in concorso con essi (Cass. 8/9/1998, n. 8868). Se però il figlio maggiorenne, già beneficiario di assegno di mantenimento in sede di separazione fra i genitori, raggiunge l’indipendenza economica, ciò fa venir meno l’obbligo, in capo al genitore, di continuare a corrispondergli l’assegno; se poi successivamente il figlio  abbandona volontariamente il lavoro, non può pretendere il ripristino dell’assegno, dovendosi accontentare dei soli alimenti (Trib. Torino 16/9/2004, n. 34569). La sospensione dell’assegno nei confronti del figlio maggiorenne che lavori non può però essere disposta unilateralmente dal genitore obbligato, me necessita di un provvedimento del giudice (Trib. Bologna, ordinanza 4/6/2007).

Il pagamento “Una tantum”
I coniugi potrebbero, in sede di separazione, accordarsi nel senso che il coniuge economicamente più forte versi all’altro, in luogo dell’assegno mensile, una somma una tantum. Un accordo del genere, però, non mette il coniuge onerato al riparo da future richieste da parte dell’altro: il Tribunale di Piacenza, infatti (sentenza del 6/2/2003), ha sancito la nullità di un accordo del genere per contrasto  con l’art. 160 c.c., per il quale gli sposi non possono derogare né ai diritti né ai doveri previsti dalla legge per effetto del matrimonio. Qualora, poi, in una precedente separazione cui abbia fatto seguito la riconciliazione, un coniuge abbia ricevuto una somma una tantum per il soddisfacimento dei suoi diritti, il giudice della successiva  separazione, investito di una domanda di assegno di mantenimento, dovrà esaminare nuovamente il punto, tenendo tuttavia conto dell’effettiva consistenza delle situazioni economico-patrimoniali dei coniugi, e - quindi - anche delle disponibilità esistenti che siano state acquisite per effetto della precedente separazione (Cass. 13/5/1999, n. 4748). La circostanza, infine, che in  sede di separazione i coniugi si siano accordati per il pagamento di un importo una tantum, non esclude che, ricorrendone le condizioni, il coniuge beneficiario possa chiedere l’assegno in sede di divorzio (Cass. 21/02/2008, n. 4424)

Decorrenza e prescrizione del diritto
   Il diritto all’assegno di mantenimento decorre dalla data della domanda, in applicazione del principio per il quale un diritto non può essere pregiudicato dal tempo necessario per farlo valere in giudizio (Cass. 22/9/2008, n. 23938), ed è dovuto fino al passaggio in giudicato della sentenza che pronuncia il divorzio (Cass. 15/1/2009, n. 813).
Per quanto riguarda, invece, la decorrenza del termine di prescrizione (cinque anni) del diritto a ricevere l’assegno, la Cassazione (sentenza n. 6975 del 4/4/2005) ha precisato che, avendo l’assegno di mantenimento  per oggetto prestazioni autonome, distinte e periodiche, il diritto a percepirlo non si prescrive a decorrere da un unico termine, rappresentato dalla data della pronuncia della sentenza di separazione, ma dalle singole scadenze delle prestazioni dovute, in relazione alle quali sorge di volta in volta il diritto all’adempimento.

L’adeguamento e la revisione
In mancanza di altro parametro indicato dalle parti o dal giudice, l’assegno di mantenimento relativo ai figli  è adeguato automaticamente agli indici ISTAT.
Se, in epoca successiva a quella in cui l’assegno per il mantenimento dei figli è stato quantificato dal giudice o concordato fra le parti, si verificano mutamenti nella situazione economica dei coniugi tali da suggerire la revisione dell’assegno, ciascuno di questi può prendere l’iniziativa per adeguare l’importo alla mutata condizione (Cass. 3/5/1989, n. 2054).   Il Tribunale di Napoli  (sentenza del 21/11/1980) ha ritenuto applicabile il settimo comma dell’art. 156 c.c., che prevede la revisione dell’assegno solo  nei casi  di separazione con addebito e non anche in quelli di separazione consensuale, nelle quali i coniugi, liberamente ed in piena autonomia, regolano i loro rapporti patrimoniali, con la conseguenza che ogni successiva variazione dei rispettivi redditi non spiega, ad eccezione dello stato di bisogno, alcuna influenza; qualora vi siano figli, hanno precisato i giudici partenopei, l’incremento dei redditi del genitore non affidatario consente una revisione dell’assegno limitatamente al mantenimento dei figli medesimi. Se i coniugi hanno raggiunto un accordo sull’entità dell’assegno da corrispondere per il mantenimento dei figli, l’intervenuto stato di disoccupazione dell’obbligato non lo esonera  dal corrispondere le mensilità già maturate, mentre  può giustificare un’istanza di sospensione o di riduzione dell’efficacia di tali accordi con effetto dal momento dell’istanza (Trib. Monza, 22/6/1990). La Cassazione, modificando un precedente orientamento, scolpito nella sentenza n. 1689 dell’8/3/1983, con pronuncia n. 996 del 4/2/1987 ha stabilito che il coniuge affidatario dei figli, che chieda la revisione dell’assegno di mantenimento o di divorzio  divenuto insufficiente, non è tenuto a provare l’aumento dei redditi dell’obbligato, ma è questi che deve provare una diminuzione delle sue entrate, tale da rendere impossibile l’adeguamento.
Il coniuge nei cui confronti venga presentata domanda di revisione dell’assegno non può sostenere, per sottrarsi al pagamento dell’aumento, che il coniuge richiedente è tenuto ad impegnarsi in una qualche attività lavorativa, pur se privo di qualificazione professionale specifica,  se nel periodo di convivenza  il suo impegno era limitato, con il più ampio consenso dell’altro coniuge, all’attività di lavoro casalingo (Trib. Monza, 4/7/1984).   E a proposito di lavoro, il coniuge tenuto alla corresponsione dell’assegno può chiederne la riduzione dimostrando che l’altro  lavora in nero (Cass. 12/12/2003, n. 19042).
   Qualora intervenga una sentenza che, in seguito alle mutate condizioni economiche dei coniugi, disponga l’esclusione o la riduzione dell’assegno di mantenimento definito in sede di separazione, il coniuge non può essere costretto a restituire le somme percepite fino al momento in cui il provvedimento passa in giudicato; per altro verso, il coniuge che non abbia ancora versato le somme dovute, non può essere costretto a farlo (Cass. 10/12/2008, n. 28987).

La rinuncia
   La rinuncia al pagamento dell’assegno fissato per la moglie ed i figli in sede di separazione consensuale omologata, sia pure limitata agli arretrati, è nulla qualora l’assegno medesimo abbia natura alimentare, e tale nullità può essere fatta valere dalla madre affidataria della prole anche per la quota di spettanza dei figli nel frattempo diventati maggiorenni (Cass. 21/5/1984, n. 3115). In ogni caso la rinuncia all’assegno di mantenimento fatta in sede di separazione non comporta anche la rinuncia all’assegno divorzile (Cass. 21/2/2008, n. 4424).

 
Il mancato pagamento
Il mancato versamento dell’assegno da parte del coniuge obbligato, stando a Cass. 10/4/2001, non configura senz’altro il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare (punito con la reclusione fino a un anno o con la multa d 103 a 1.032 euro)  nella versione di cui all’art. 570, secondo comma, n. 2, del codice penale (far mancare i mezzi di sussistenza ai familiari in esso indicati), la cui sfera di operatività è appunto circoscritta alla sola mancata corresponsione, da parte dell’obbligato, dei mezzi di sussistenza ai soggetti menzionati nella norma incriminatrice, i quali si trovino in oggettivo stato di bisogno; in base a questo principio i giudici della Suprema Corte non hanno ritenuto penalmente perseguibile  il coniuge che, tenuto  a  versare mensilmente alla moglie separata, a titolo di assegno di mantenimento della stessa e di tre figli minori, la somma di lire dieci milioni, aveva  versato somme largamente inferiori, consentendo però nel contempo, ai suddetti familiari, l’uso gratuito di una lussuosa abitazione. La Corte d’Appello di Bologna, con sentenza n. 920 del 5/4/2004, non ha ritenuto compreso nel concetto di mezzi di sussistenza, e quindi penalmente rilevante, l’omesso versamento, da parte del marito, del contributo alla spesa sostenuta dalla moglie separata per l’acquisto di una carrozzina ortopedica, ritenendolo  azionabile soltanto in sede civile ai fini del rimborso. La Cassazione (sentenza n. 22703 del 27/4/2007) ha successivamente statuito che, il genitore  che ometta di versare all’altro coniuge l’assegno stabilito in sede di separazione giudiziale per il mantenimento del figlio minore, risponde del reato  indipendentemente dal fatto che al mantenimento abbia fatto fronte l’altro coniuge con l’aiuto di altri congiunti; ciò, infatti, non elimina lo stato di bisogno in cui versa il soggetto passivo, ma ne costituisce la prova. Con una successiva decisione (n. 25591 del 23/6/2008) la Suprema Corte ha stabilito che il reato si configura per la semplice omissione della corresponsione dell'assegno nella misura disposta dal giudice, indipendentemente dalla condizione di bisogno del beneficiario. Il GUP presso il Tribunale di Crotone (sentenza n. 118 dell’8/8/2008) ha escluso il reato nel caso di ritardo, nell’erogazione dell’assegno al coniuge in favore della figlia minore, circoscritto a sole tre mensilità, in un contesto in cui l’obbligato, invalido al 100%, aveva sempre pagato puntualmente.
Sempre a proposito di violazione degli obblighi di assistenza familiare, il coniuge separato che eccepisca il proprio stato di disoccupazione a giustificazione della mancata corresponsione dell’assegno di mantenimento deve provare che questa condizione non è dipesa da sua volontà; pertanto, se egli si licenzia senza ricercare un nuovo lavoro, e non sussiste uno stato patologico di malattia accertato, è imputabile del reato (Trib. Genova 20/2/2004, n. 509). In questa ottica, le difficoltà economiche in cui versi l’obbligato non escludono la sussistenza del reato, qualora non risulti provato che dette difficoltà si sono tradotte in una vera e propria indigenza e nella conseguente impossibilità di adempiere, sia pure parzialmente, all’obbligazione (Trib. Roma  4/6/2004, n. 13466): l’incapacità economica dell’obbligato, in altri termini, dev’essere assoluta e incolpevole, e da questi rigorosamente provata (Cass. 19/5/2005, n. 32540. Il fallimento dell’obbligato non è sufficiente ad escludere il reato, dovendo egli dimostrare di essere stato privato di tutti i suoi mezzi economici e di non essere in grado di sopperire alla privazione con una diversa attività. (Cass. 8/7/2004, n. 37137).  Sempre la Suprema Corte, con sentenza n. 30586 dell’8/4/2003, ha precisato che chi fa mancare i mezzi di sussistenza a più congiunti (per es. coniuge e figli minori), omettendo di corrispondere a ciascuno di essi l’importo mensile stabilito dal giudice, commette un unico reato e non una pluralità di reati in concorso formale o in continuazione fra loro.
Se  la mancata corresponsione riguarda l’assegno per il mantenimento dei figli, soltanto questi, se maggiorenni e privi di autonomia economica, e non più il loro genitore affidatario, sono legittimati ad agire per il pagamento dell’assegno loro destinato (Trib. Palermo, 13/4/1985).
Se il coniuge non adempie all’obbligo di versare l’assegno, l’avente diritto può, a norma dell’art. 156 c.c., chiedere al giudice di ordinare che il dovuto gli sia versato direttamente dai terzi (per es. datore di lavoro, ente erogatore del trattamento pensionistico) che siano tenuti a versare, anche periodicamente, somme di denaro al coniuge obbligato alla corresponsione dell’assegno (Cass. 4/5/1982, n. 2758).
Concludiamo, sul punto, con una sentenza del Tribunale di Genova (n. 2859 del 7/11/2003) in materia di rapporti fra coniugi di diversa nazionalità: il fatto che il diritto islamico consenta al marito di ripudiare la moglie e di sottrarsi agli obblighi nascenti dal matrimonio non ha alcun rilievo ai fini della configurabilità del reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare commesso in Italia, di cui sia accertata la sussistenza.
L’assegno di mantenimento in favore del coniuge separato, avendo natura di credito pecuniario, dal momento in cui è esigibile produce interessi ai sensi dell’art. 1282 c.c., salvo che il titolo disponga altrimenti (Cass. 14/2/2007, n. 3336).

L’assegno divorzile
L’assegno divorzile viene stabilito dal Tribunale nella stessa sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi,  valutati tutti questi elementi anche in relazione alla durata del matrimonio, e sempre che il coniuge destinatario non abbia mezzi economici adeguati o non possa procurarseli per ragioni oggettive (l’onere di provare l’impossibilità oggettiva di procurarsi mezzi adeguati spetta a questi, Cass. 8/8/2003, n. 11975). Il fatto che in sede di separazione personale il coniuge non abbia beneficiato di alcun contributo non significa che egli, a fronte di un peggioramento delle proprie condizioni economiche, tale da far venir meno la preesistente autosufficienza,  non possa, in sede di divorzio, chiedere e ottenere la corresponsione del relativo assegno (App. Firenze 27/6/2008, n. 1056).

La quantificazione
Va premesso che, in sede di quantificazionedell’assegno di divorzio,  è irrilevante la misura dell’assegno di mantenimento attribuito, o concordato, in sede di separazione, il quale ha presupposti e funzione diversi (Cass. 9/5/2002, n. 6641); esso può semmai costituire un elemento di valutazione ad opera del giudice (Cass. 6/11/2006, n. 23671), dovendo questi prendere in considerazione l’eventuale mutamento del quadro economico intervenuto nel frattempo: l’avere, per esempio, il coniuge che reclama l’assegno di divorzio iniziato un’attività lavorativa (Cass. 21/5/2008, n. 13058). Neppure la rinuncia, in sede di separazione consensuale, a percepire l’assegno di mantenimento, è di ostacolo alla corresponsione dell’assegno di divorzio, essendo questo indipendente dagli accordi intervenuti in sede di separazione, ma conseguenza diretta del divorzio (Cass. 15/9/2008, n. 23690).   Per il Tribunale di  Parma (sentenza del 12/11/1998) l’assegno di divorzio ha natura esclusivamente assistenziale, per cui l’avente diritto a riceverlo non può pretendere di mantenere lo stesso tenore di vita goduto prima dello scioglimento del matrimonio, dovendo l’assegno garantire soltanto un’esistenza libera e dignitosa. Di diverso avviso la Cassazione (sentenza n. 11021 del 15/7/2003), per la quale i “mezzi adeguati” di cui al sesto comma dell’art. 5 L. n. 898/1970 coincidono con il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, compatibilmente con le attuali condizioni economiche dei coniugi. Ancora più favorevoli al coniuge avente diritto all’assegno  tre successive  sentenze, sempre della Cassazione: la n. 13169, del 16/7/2004, che ha stabilito doversi avere riguardo anche al tenore di vita che sarebbe stato presumibilmente mantenuto in caso di continuazione del rapporto, dovendosi quindi tener conto anche degli incrementi di reddito facenti capo al coniuge tenuto alla corresponsione (per es. semplice ricercatore universitario durante il matrimonio e titolare di cattedra all’atto del divorzio, Cass. 15/9/2008, n. 23690), e la n. 10210 del 16/5/2005, per la quale il tenore di vita cui rapportare il giudizio di adeguatezza dei mezzi a disposizione del coniuge richiedente l’assegno di divorzio è quello offerto dalle potenzialità economiche dei coniugi (ossia dall’ammontare complessivo dei loro redditi e delle loro disponibilità patrimoniali) e non quello tollerato, o subìto, o anche concordato con l’adozione di particolari criteri di suddivisione delle spese familiari e di disposizione dei redditi personali residui.
Anche se sta al coniuge avente diritto all’assegno provare quale fosse il tenore di vita della coppia durante il   matrimonio, nonché la situazione economica al momento della domanda, il giudice può far riferimento, quale parametro di valutazione del pregresso stile di vita, alla documentazione attestante i redditi dell’onerato (Cass. 16/7/2004, n. 13169); documentazione che la stessa Cassazione (sentenza n. 12763 del 31/5/2007) non ha comunque considerato vincolante per il giudice, potendo questi fondare il suo convincimento su altre risultanze probatorie.   Sempre in tema di quantificazione dell’assegno di divorzio, non assumono rilievo i redditi del convivente dell’ex coniuge tenuto al pagamento (Cass. 24/11/1999, n. 13053).
Circa il momento da prendere in considerazione ai fini della quantificazione dell’assegno, si deve avere riguardo alla condizione delle parti quale risulta al momento della pronuncia di divorzio e non riferita ad epoche precedenti eventualmente caratterizzate da una diversa capacità di reddito (Cass. 4/9/2004, n. 17901). Se però il reddito futuro dell’obbligato è prevedibile in quanto prevalentemente legato all’anzianità di servizio, nel quantificare l’assegno il giudice può tener conto di questo elemento (Cass. 27/8/2004, n. 17128). In caso di contestazione il giudice non è tenuto ad attenersi alle dichiarazioni dei redditi prodotte dai coniugi, potendo fondare il suo convincimento su altre risultanze probatorie (App. Roma 18/4/2007, n. 1779), e, analogamente a quanto previsto per l’assegno di mantenimento,   può avvalersi anche della polizia tributaria (Cass. 17/5/2005, n. 10344).
Sempre ai fini della quantificazione dell’assegno di divorzio, dev’essere considerata anche l’indennità di servizio all’estero attribuita ai diplomatici ai sensi dell’art. 171 D.P.R. 5/1/1967 (Cass. 19/12/2003, n. 19527).

Il pagamento “Una tantum”
Nell’ipotesi in cui all’atto del divorzio i coniugi si siano accordati per la corresponsione di una somma una tantum in luogo dell’assegno mensile (l’importo corrisposto in unica soluzione non è deducibile ai fini IRPEF, Cass. 6/11/2006, n. 23659), per la Corte d’Appello di Torino (sentenza del 15/1/1998) resta preclusa ogni ulteriore rivendicazione economica successiva, ivi compresa la pretesa della quota di trattamento di fine rapporto  percepita dal coniuge cessato dal rapporto di lavoro dopo la pronunzia del divorzio, giacché anche il diritto a percepire detta quota già sussisteva in capo all’altro coniuge, ancorché non fosse azionabile al momento del divorzio. Questa stessa pronuncia ha stabilito che, anche se la corresponsione dell’importo una tantum avviene in forma rateizzata anziché in unica soluzione, non può essere accolta la domanda di revisione, neppure se avanzata prima che venga completato il pagamento rateizzato, poiché il versamento della somma una tantum si ricollega a una transazione novativa d’ogni precedente pretesa, e a transazione adempiuta il titolo azionabile dal creditore è esclusivamente detta transazione.

Decorrenza e prescrizione del diritto
Per quanto riguarda la decorrenza della corresponsione, l'assegno di divorzio, trovando la propria fonte nel nuovo status delle parti, dev’essere erogato a far data dal passaggio in giudicato della sentenza di scioglimento del vincolo coniugale, con il temperamento previsto dal decimo comma dell'art. 4 l. 1/12/1970, n. 898, che conferisce al Tribunale il potere di disporre, in relazione alle circostanze del caso concreto, ed anche in assenza di specifica richiesta, la decorrenza del pagamento dalla data della domanda (Cass. 25/6/2004, n. 11863).
Circa la prescrizione del diritto a esigere l’assegno, il termine (cinque anni) decorre dalla scadenza di ogni singola prestazione (Cass. 14/1/2004, n. 336).

L’adeguamento e la revisione
L’art. 6, undicesimo comma, L. n. 898/1970, come sostituito dall’art. 11 L. n. 74/1987, prevede che il Tribunale che pronuncia  lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, nel fissare la misura dell’assegno di mantenimento relativo ai figli, determini anche un criterio diadeguamento automatico dello stesso, almeno con riferimento agli indici di svalutazione monetaria.
   Per la Corte d’Appello di Brescia (sentenza del 20/1/1990) l’adeguamento automatico dell’assegno per il mantenimento dei figli non può essere escluso neppure in caso di palese iniquità.   A riguardo, la circostanza che il reddito dell’obbligato consista in una retribuzione periodica il cui aumento nel tempo è inferiore a quello dell’assegno indicizzato alla svalutazione monetaria, non è stata ritenuta presupposto sufficiente ad escludere l’adeguamento automatico dello stesso, potendo semmai giustificarne la revisione (Cass. 21/12/1995, n. 13039). Sempre con riferimento ai figli, ai fini della quantificazione (o dell’eventuale esonero dalla corresponsione) della quota dovuta dalla madre con la quale essi vivono, si deve tener conto del lavoro domestico dalla stessa svolto nel loro interesse (Cass. 22/5/2009, n. 11903 ).
Circa la revisione dell’assegno di divorzio divenuto insufficiente, come già visto a proposito dell’assegno di mantenimento, il coniuge affidatario dei figli non è tenuto a provare l’aumento dei redditi dell’obbligato, ma è questi che deve provare una diminuzione delle sue entrate, tale da rendere impossibile l’adeguamento. A giustificare la richiesta, da parte del coniuge debole, dell’adeguamento dell’assegno, non è però sufficiente il mutamento delle sue condizioni economiche, ma è necessario che il mutamento sia di entità tale da modificare sostanzialmente le condizioni valutate dal giudice all’atto della pronuncia del divorzio (Cass. 16/12/2004, n. 23359).        La norma di cui all’art. 9 l. 1/12/1970, n. 898, che consente la revisione dell’assegno divorziale per sopravvenienza di giustificati motivi, è applicabile anche al caso in cui l’assegno sia stato originariamente negato o non abbia costituito oggetto di richiesta al momento della pronuncia di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, per cui è consentito al coniuge divorziato di richiedere, successivamente a tale pronuncia e in relazione alla citata norma, la determinazione dell’assegno precedentemente non fissato (Cass. 21/5/2008, n. 13059). Può anche verificarsi il caso inverso, vale a dire che si faccia luogo ad una riduzione dell’assegno: per es. perché  il coniuge tenuto al pagamento ha optato per il part time, con conseguente diminuzione del reddito; la Cassazione, infatti (sentenza dell’11/3/2006, n.  5378), ha ritenuto pienamente legittimo questo tipo di scelta, ammettendo che alla diminuzione del reddito che comportava facesse seguito  la  riduzione dell’assegno divorzile.
La Cassazione (sentenza n. 6773 del 2/7/1990) ha precisato che la facoltà di chiedere la revisione dell’assegno di mantenimento, qualora sopravvengano giustificati motivi, è accordata direttamente dalla legge, né può essere oggetto di rinuncia in via preventiva, e, pertanto, non trova ostacolo, nel caso di separazione consensuale, nella clausola di questa che la escluda o la limiti.
L’eredità ricevuta dopo il divorzio dal soggetto tenuto al pagamento dell’assegno divorzile, in mancanza di un peggioramento della situazione economica del soggetto beneficiario dell'assegno, non è idonea a giustificare l'aumento dell'importo, concorrendo il relativo incremento patrimoniale unicamente nella valutazione della capacità economica dell'obbligato a pagare l'assegno già in atto (Cass. 30/5/2007, n. 12687). Per converso, il semplice acquisto, iure hereditatis, della proprietà o della comproprietà di un immobile da parte del coniuge destinatario dell’assegno non è sufficiente a porre fine all’obbligo del versamento da parte dell’altro coniuge: si deve infatti accertare se il miglioramento economico sia tale da assicurare al beneficiario lo stesso tenore di vita che aveva durante il matrimonio (Cass. 19/6/2006, n. 18367).  Questa stessa sentenza ha stabilito che il coniuge tenuto al versamento dell’assegno può chiederne la riduzione se la nascita di uno o più figli avuti da una successiva relazione è tale da determinare un effettivo depauperamento del suo patrimonio. Sempre a proposito di figli, se il figlio maggiorenne, convivente con la madre divorziata, rifiuta ingiustificatamente la proposta di lavoro formulata dal padre, questi è legittimato a sospendere l’erogazione della quota di assegno che lo riguarda (Cass. 3/10/2006, n. 23673. La variazione dell’ammontare dell’assegno di divorzio decorre dalla data in cui viene stabilita dal Tribunale (Cass. 5/9/2006, n. 19057).
Come anche ribadito dal Tribunale di Taranto con sentenza del 9/5/2000, se  si verifica la necessità di far fronte abisogni che superino le normali esigenze di vita dei figli, le relative spese vanno sostenute da entrambi i coniugi.   Se però si tratta d’iscrivere un figlio ad una scuola privata particolarmente costosa rispetto al reddito dei genitori, anche in considerazione della presenza di uno o più altri figli, la relativa decisione dev’essere presa d’accordo fra i coniugi, trattandosi di spesa di carattere straordinario (Trib. Torino 4/2/2004, n. 655).

Il mancato pagamento
  Poiché la sentenza di divorzio porta alla cessazione dello status di coniuge, e non è più configurabile una “famiglia”, il coniuge divorziato che si sottrae all’obbligo di corresponsione dell’assegno dovuto a norma degli artt. 5 e 6 L. 898/1970 non risponde di violazione degli obblighi di assistenza familiare ma del reato previsto dall’art. 12-sexies L. n. 898/1970, introdotto dall’art. 21 L. 74/1987, il quale richiama l’art. 570 c.p. ma solo ai fini della pena (Cass. 25/9/2003). Dalla natura della sanzione si evince che trattasi pur sempre di  reato, per cui l’avente diritto a percepirlo può chiedere, oltre al dovuto,  anche il risarcimento del danno morale (Trib. Bassano del Grappa 27/1/2005, n. 31).
In caso di mancato pagamento dell’assegno di divorzio, a differenza di quanto visto  a proposito dell’assegno di mantenimento,  il coniuge avente diritto può, dopo aver messo in mora l’altro che sia inadempiente da almeno trenta giorni, mediante l’invio di una raccomandata con avviso di ricevimento, notificare direttamente al datore di lavoro dell’obbligato o ad altro soggetto che sia debitore nei suoi confronti, il provvedimento in cui è stabilita la misura dell’assegno, invitandolo a versargli direttamente il relativo importo, dandone nel contempo comunicazione al coniuge inadempiente. Se il terzo non dovesse pagare, l’avente diritto può  esperire azione esecutiva nei suoi confronti (art. 8, commi terzo e quarto, L. n. 898/1970).
Secondo il più recente indirizzo della Cassazione (sentenza del 2/3/2004), il richiamo fatto dal citato art. 12-sexies L. 898/1970 all’art. 570 c.p. si riferisce anche alle regole di procedibilità ivi contenute, per cui la violazione dell’obbligo di corrispondere l’assegno divorzile è punibile a querela della persona offesa, salvo non vi siano figli minori, poiché in tal caso si procede d’ufficio.

Casi particolari
Il diritto a percepire l’assegno divorzile si estingue se il beneficiario passa a nuove nozze. Se però dal matrimonio sono nati (o sono stati adottati) dei figli, i genitori hanno l’obbligo di continuare a mantenerli, educarli ed istruirli, anche se uno o entrambi dovessero passare a nuove nozze. Il diritto a percepire l’assegno si estingue anche se viene meno lo stato di bisogno del beneficiario; se però lo stato di bisogno si ripresenta, l’assegno può essere nuovamente attribuito.
Se il rapporto matrimoniale, per fatto e colpa del richiedente l’assegno, è stato instaurato solo formalmente, senza dar luogo alla formazione di alcuna comunione materiale e spirituale tra i coniugi, sfociando dopo breve tempo (nel caso di specie tre mesi) in una domanda di divorzio senza che fosse stato consumato per volontà della moglie, questa non ha diritto all’assegno di divorzio (Cass. 16/6/2000, n. 8233).
In caso di morte del coniuge tenuto a corrispondere l’assegno periodico (non anche, quindi, nel caso di assegno corrisposto in unica soluzione), l’avente diritto può chiedere al Tribunale l’attribuzione di un assegno periodico a carico dell’eredità, da quantificarsi tenendo conto dell’assegno fino allora percepito, dell’entità del bisogno, dell’eventuale pensione di reversibilità, della consistenza dell’eredità e del numero, della qualità e delle condizioni economiche degli eredi.
In virtù del principio di cristallizzazione del patrimonio del fallito al momento della dichiarazione di fallimento, il provvedimento col quale viene attribuito l’assegno di mantenimento a carico del coniuge fallito, se emesso dopo la dichiarazione del fallimento, non è opponibile alla procedura (Trib. Milano 5/2/2008).

Mantenimento e convivenza more uxorio
Accade spesso che il coniuge separato o divorziato, tenuto alla corresponsione dell’assegno, costituisca un nuovo nucleo familiare, andando a convivere con un’altra persona more uxorio (ossia come se fossero marito e moglie). Questa circostanze  non legittima di per sé una diminuzione del contributo per il mantenimento dei figli nati in precedenza, poiché è l’espressione di una scelta e non di una necessità, e lascia inalterata la consistenza degli obblighi nei confronti della prole (Cass. 22/11/2000, n. 15065). Sempre la Cassazione (sentenza del 24/4/2001, n. 12212) ha successivamente precisato che si deve considerare l’onere economico, gravante sul coniuge obbligato, derivante dal mantenimento di figli nati da una relazione extraconiugale, ma non il preteso onere di mantenimento della convivente more uxorio (Cass. 24/4/2001, n. 6017).
Se a convivere more uxorio è l’avente diritto all’assegno, si tratta di vedere se la convivenza acquista carattere di stabilità e affidabilità, e incide positivamente sulla sua situazione economica, annullandone o riducendone lo stato di bisogno, e risolvendosi quindi in una fonte effettiva e costante di reddito, anche se non comporta per i conviventi alcun diritto al mantenimento reciproco (Cass. 8/7/2004, n. 12557). Nel qual caso la situazione può incidere sull’ammontare dell’assegno fissato in sede di separazione o di divorzio, legittimando la parte obbligata a  corrisponderlo a chiederne, a seconda delle circostanze, la riduzione (Cass. 22/4/1993, n. 4761) o la sospensione (Trib. Genova, 2/6/1990, Cass. 4/4/1998, n. 3503).
La prova della convivenza e, soprattutto, del miglioramento delle condizioni economiche dell’avente diritto all’assegno, è ovviamente a carico del coniuge tenuto alla sua corresponsione  e dev’essere inequivocabile: i giudici, per esempio (Cass. 2/9/2004, n. 17684), hanno stabilito che la targhetta sull'ingresso di casa, con i nomi dell’ex moglie e del nuovo compagno, le foto attestanti il parcheggio dell'auto della stessa presso l'abitazione del compagno, e la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà attestante la collaborazione lavorativa con il convivente, non costituiscono circostanze tali da poter essere  considerate, da sole, prova sufficiente a dimostrare la stabile convivenza more uxorio dell’ex moglie ed il connesso miglioramento delle condizioni economiche della stessa, con conseguente giustificazione della richiesta di riduzione dell’assegno di mantenimento in capo all’ex marito; la convivenza more uxorio, infatti, ha natura intrinsecamente precaria, non determina obblighi di mantenimento e non ha quella stabilità giuridica, propria del matrimonio, che giustifica la definitiva cessazione dell’obbligo di corrispondere l’assegno divorzile (Cass. 26/1/2006, n. 1546). Questa stessa sentenza ha però escluso che l’obbligo di corrispondere l’assegno divorzile possa risorgere in caso di cessazione della convivenza, poiché la legge prevede la cessazione e non anche la sospensione dell’obbligo di corrispondere l’assegno divorzile; il coniuge tornato single avrà comunque diritto agli alimenti. Neppure la nascita di un figlio è stata ritenuta sufficiente a provare che la convivenza more uxorio  del destinatario dell’assegno con un terzo avesse  caratteri di stabilità e continuità tali da far presumere che il beneficiario dell’assegno tragga da tale convivenza vantaggi economici che giustifichino la revisione dell’assegno medesimo (Cass. 4/2/2009, n. 2709).

 

 

Fonte: http://www.paolonesta.it/dottrina_sentenze_archivio/Documenti/2010/luglio%202010/6-7-2010/Separazione,%20divorzio%20e%20mantenimento-Diritto%20di%20tutti.it.doc

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