Aggressività

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Aggressività

   L’AGGRESSIVITA’
INTRODUZIONE
Con il termine aggressività si indica una “tendenza che può essere presente in ogni comportamento e in ogni fantasia volta all’etero- o all’autodistruzione, oppure all’autoaffermazione”. L’aggressività è costitutiva dell’essere umano, i comportamenti aggressivi fanno parte della natura umana: l’uomo è sopravissuto ad una natura più forte di lui grazie alla sua capacità di ragionamento di fronte ai problemi e alla sua aggressività per riuscire ad imporsi. (Possiamo affermare con sicurezza che l’uomo è aggressivo); L’aggressività diventa così una componente fondamentale e basilare della psicologia umana caratterizzata da notevoli differenze individuali.
Le cose si complicano quando, anche nel linguaggio comune, si cerca di capire meglio che cosa si nasconda dietro il termine aggressività.
A. Storr ha scritto a questo proposito, con un’immagine molto efficace, che l’aggressività può essere considerata una "parola valigia" che scoppia ormai da tutte le giunture, tanto  sono state le “cose”, cioè i comportamenti, nonché i significati che sono stati stipati sotto questa etichetta: un’emozione aggressiva ingiustificata oppure anche giustificata, una competizione legittima nel luogo di lavoro, un atteggiamento mentale, un confitto tra nazioni, e così via. Uno dei problemi nasce dal fatto che il termine aggressività può alludere simultaneamente al correlato comportamentale di un’ emozione (agitazione, tachicardia, rossore in volto, ecc.) e a uno stato psicologico, cioè una qualità astratta, un atteggiamento mentale o una propensione interna che possono anche non manifestarsi a livello comportamentale. Questa differenza tra comportamento e atteggiamento è invece ben specificata nella lingua inglese, dove esistono, rispettivamente per il primo e il secondo significato, i due termini aggression e aggressiveness. Il termine aggressività quindi spesso viene usato in modo equivoco creando confusione nell'abbondante letteratura sull'argomento, poiché può essere applicato indiscriminatamente all'uomo che difende la propria vita in caso di attacco e all'omicida che infierisce sulla sua vittima, andando così a designare una vasta gamma di comportamenti molto diversi tra loro.  Il concetto di emozione aggressiva varia quindi a seconda che questa sia considerata ora un istinto, ora un comportamento, ora una emozione reattiva ad un evento frustrante e/o stressante, e così via. L'etimologia stessa del termine aggressività testimonia in modo efficace la complessità di valori e di  significati che il comportamento aggressivo può assumere per la persona: essa deriva dal vero latino aggredior, composto da ad  che significa  "verso, contro, allo scopo di", e gradior che sta per "vado, procedo, avanzo,cammino". La parola stessa nella sua radice etimologica, ha in sé un’ambiguità di significati, che chiaramente non è causale, ma è invece significativa della complessità del fenomeno aggressività, che può svolgere funzioni diverse nell’adattamento della persona alla realtà.
Considerato quindi che l'aggressiva può avere cause, manifestazioni e conseguenze molto varie, non sorprende che esso sia stato oggetto di studio nei più svariati campi di ricerca: biologico, psicologico, psichiatrico, forense, sociale, etico, con attributi e caratteristiche peculiari per ognuno dei vari approcci.
L’approccio multidisciplinare che la questione dell’aggressività esige, trova un’importante momento di unificazione nell’identità di interrogativi cui sottoponiamo le varie discipline e i vari autori: qual è la sua origine ovvero quali sono le sue cause, quali sono le sue forme, ed inoltre se è sempre dannosa o anche utile e funzionale. Il risultato della ricerca è che si rilevano soluzioni e alternative che ricorrono trasversalmente, sia rispetto alle diverse tradizioni disciplinari e metodologiche sia rispetto ai diversi autori. Schematicamente e agli estremi, ritroviamo chi propende per una sua origine innata, incentrata sulle strutture biologiche o psicologiche di base, e chi propende per soluzioni ambientalistiche (l’ambiente inteso sia in senso sociologico e storicamente determinato, sia in senso ecologico, naturalistico). E quanto alla sua funzionalità, schematicamente e agli estremi, vi è chi la vede utile, anzi indispensabile, allo sviluppo e alla crescita dei singoli come dei gruppi, specialmente quando la considera nelle forme moderate, e a maggior ragione quando la identifica con il desiderio di autoaffermazione, e chi invece, considerandola come la radice delle manifestazioni più distruttive, la vede senz’altro come una perversione, un  male che si vorrebbe ma che non si può eliminare, alla base delle tante patologie dell’individuo e delle tante efferatezze cui ha assistito la storia dell’umanità. Naturalmente tra le soluzioni estreme per ambo le questioni v’è l’offerta di un’ampia gamma di soluzioni intermedie.
I menzionati elementi di convergenze trasversali e di sviluppi entro le singole tradizioni certo portano acqua ad un approccio esplicativo multifattoriale dell’aggressività, il quale ormai nel panorama attuale appare prevalente; a proposito non potremo esimerci dal ricordare la controversa questione delle “basi” biologiche dell’aggressività. Ma, più specificamente, gli stessi elementi ci suggeriscono una concezione che diremo mutisequenziale. Vale a dire, l’aggressività, non identificandosi con una pulsione o un istinto, ma neppure con una data struttura di personalità, con date pressioni ambientali e tanto meno con qualche struttura o funzione biologica, appare come un arco comportamentale composto di più sequenze. Momenti di innesco, momenti di attivazione di preesistenti e latenti strutture di mediazione, momenti di esecuzione (la quale può essere anche solo immaginativa, o dislocativi su altri oggetti o funzioni). Ebbene questa triplice sequenza non solo si sviluppa in serie, ma anche in parallelo: il momento dell’innesco, che può consistere in momenti in fattori sia reattivi a circostanze  esterne sia meramente endogeni, sia psichici sia somatici, è soggetto alle valutazioni cognitivo-emozionali che si costruiscono in base alla pregressa struttura di personalità. Parimenti queste strutture influiscono sulla valutazione che il soggetto dà della convenienza e del modo dell’esecuzione, in funzione dei valori abbracciati, della memoria di precedenti esperienze, ecc. d’altra parte le strutture interne, quali sorte di competenze predisposte, siano esse acquisite, come certi schemi comportamentali, siano innate, come istinti e fantasmi in senso psicoanalitico, si traducono in comportamenti effettivi solo in seguito agli inneschi da una parte e alle circostanze della possibile esecuzione dall’altra. Infine il peso di ciascuna delle sequenze rispetto alle altre può variare anche di molto, così da essere comprensibile  ad esempio come prepotente motivo di attivazione , unito a predisposizione di personalità, possa bruciare la sequenza dell’esecuzione, dando luogo ad immediati e rabbiosi atti aggressivi.
EVOLUZIONE DEL CONCETTO DI AGGRESSIVITA’ IN PSICOLOGIA
Nella ricerca delle ragioni del comportamento aggressivo, in particolare, sono le spiegazioni psicologiche quelle che spesso attirano maggiore interesse per tentare di comprendere fenomeni altrimenti di difficile comprensione, ponendo particolare attenzione all’analisi delle motivazioni psicologiche ad esse sottostanti. Tantissimi sono gli studi sull’ emozione aggressiva, anche se l’ambiguità di definizioni, sopraccennata, che essa cela, rende molto arduo il dibattito sull’argomento ed impedisce spesso di confrontare contributi di scuole e di autori diversi.
La mancanza di chiarezza su questo termine è forse dovuta al fatto che l’interesse degli psicologi è stato all’inizio maggiormente rivolto a discutere ed approfondire “le cause” del comportamento aggressivo. Riuscire a comprendere le motivazioni dell’aggressività umana, in un secolo che ha visto due guerre mondiali e innumerevoli altri conflitti, costituiva una meta che poteva offrire buone speranze per il futuro dell’umanità. Tesi di comprendere perché l’uomo sia aggressivo gli psicologi si sono inizialmente assai meno preoccupati di definire che cosa veramente si nascondesse dietro la parola aggressività, che lentamente si è venuta riempiendo di significati diversi. A ciò si aggiunge la complessità reale dell’aggressività umana, fenomeno che assume non solo facce diverse, ma anche valenze e funzioni differenti, dalle più costruttive alle più distruttive.
Certamente fu Sigmund freud che all’inizio del Novecento nel corso della ricerca clinica individuò, grazie alla tecnica delle associazioni libere, una fenomenologia insospettatamente ampia di desideri aggressivi, anzi desideri di morte. La scoperta risultava tanto più inquietante tanto più questi pensieri si tradivano, oltre che nei sintomi nevrotici, anche nei sogni, lapsus, nelle battute di spirito di persone sane, per altro pacifiche  e amorevoli; per di più tali pensieri erano spesso rivolti a persone della cerchia familiare. Freud nel trovare un’origine alle condotte aggressive individuò, in un primo momento, l’aggressività come componente attiva, di spinta propria di ogni pulsione, capace di dare avvio ad un movimento, come una “reazione primordiale” alla frustrazione sperimentata da una persona durante la ricerca del piacere (ad esempio il neonato cerca il suo piacere nel cibo, che però non sempre gli viene dato al momento in cui lui ne sente il bisogno; da qui la frustrazione e l'aggressività, che rappresenta una strategia comportamentale per allentare lo stato di tensione generato dal mancato soddisfacimento immediato del suo bisogno); in particolare essa, come componente delle pulsioni autoconservative, risultava necessaria alla difesa dell’Io. A partire dal 1920 Freud operò una revisione radicale della teoria delle pulsioni, egli postulò una dicotomia tra pulsioni di vita (Eros) e pulsioni di morte (Thanatos), dicotomia che subentrò a quella precedente tra pulsioni sessuali e pulsioni dell’Io. Le due pulsioni sono in contrasto tra loro:obiettivo dell’istinto di morte era quello di far tornare l’individuo allo stato inorganico di partenza e a questo si opponeva l’amore, o Eros, con la sua forza vitale. In questa concezione quindi il comportamento aggressivo viene considerato la manifestazione di un preciso moto pulsionale che ha come scopo la distruzione. Questa pulsione di morte può essere diretta contro l’organismo stesso, in una pulsione autodistruttiva; oppure può rivolgersi verso l’esterno, nella distruzione della realtà, fisica e sociale, che ci circonda. Freud affermò che il rivolgimento verso l’esterno della pulsione di morte è necessario per impedire che essa distrugga noi stessi: “Trattenersi dall’aggressività è in genere cosa perniciosa, rende malato, affligge”.(Il comportamento aggressivo avrebbe dunque il duplice scopo di portare all’esterno questa forza, altrimenti auto-distruttiva, e di ridurre lo stato di tensione pulsionale). In entrambi i casi però Freud non mise in discussione il concetto per cui l’aggressività era sostanzialmente una caratteristica innata dell’esistenza umana. E la sua visione della vita era, non a caso, molto pessimista.
Tra coloro che accolsero l’ipotesi della pulsione di morte troviamo Melanie Klein, per lei la pulsione aggressiva era innata, primaria, comparendo fin dalla primissima infanzia, originata da un istinto di morte con cui si deve sempre fare i conti. Anche vari autori non kleiniani hanno ritenuto di aderire ad un concetto di pulsione di morte per rendere conto a livello clinico di comportamenti psicopatologici altrimenti non facilmente spiegabili, e tra questi si possono includere, tra i tanti, Alexander (1929), Federn (1932), E. Weiss (1935) e Menninger
L'ipotesi dell'aggressività come reazione alla frustrazione, già avanzata da Freud, fu ripresa successivamente da vari autori della corrente comportamentista tra i quali J.Dollard, L.W.Doob, N.E.Miller, O.H.Mowrer., alla base della loro teoria si propongono di dimostrare l’esistenza di un rapporto di casualità necessaria tra frustrazione e aggressività.
Postulato fondamentale della teoria della frustrazione-aggressività è che un comportamento aggressivo presuppone sempre uno stato di frustrazione e , inversamente, l’esistenza di una frustrazione conduce sempre a qualche forma di aggressività. Il fatto che le reazioni aggressive alla frustrazione non siano sempre apertamente osservabili è causato, secondo gli autori dalle regole del vivere sociale, che costringono l’individuo a inibire le reazioni che non verrebbero impunemente accettate. L’inibizione di tali reazioni non equivale però a una loro eliminazione, in quanto esse possono soltanto venir momentaneamente controllate, ritardate, dislocate o comunque deviate dal loro fine logiche  immediato. Ogni atto Sono possibili, in linea teorica, due tipi di espressione:
- Espressione diretta: Frustrazione > Aggressività rivolta verso la fonte percepita.
- Espressione indiretta
Se l’espressione diretta dell’aggressività è inibita, l’impulso rimane sempre presente e cerca un’altra via di espressione. In questo caso si parla di dislocazione (quando un impulso viene indirizzato verso un capro espiatorio) e di risoluzione catartica (quando sentimenti violenti o di collera trovano la loro espressione in forme socialmente accettate).
Al modello di Dollard e collaboratori sono state mosse tante critiche: di rigidità a causa del collegamento univoco frustrazione-aggressività; di non scientificità; di aver semplicemente registrato l’evidenza, di non essere in grado di esaurire la fenomenologia diversa e complessa dei fenomeni considerati. Alcuni tra gli autori stessi ripresero il discorso avviato e apportarono modifiche alla teoria. Tra i quali Miller sostenne che la reazione alla frustrazione è solo una delle possibili reazioni che possono essere messe in atto dal soggetto frustrato, da lui scelta in una gerarchia di risposte precedentemente apprese. Si può infatti ipotizzare, secondo l’autore, una gerarchia di risposte, per cui, se al livello più alto è situata quella aggressiva, la frustrazione provocherà atti aggressivi; qualora non si vernichi questa condizione, si manifesteranno altri tipi di reazione.
Ipotesi che possiamo ritrovare nell’ottica sociologica (Bandura e Walters 1963; Bandura,1969) secondo la quale i fenomeni aggressivi devono essere considerati come delle risposte apprese e non caratterizzati, dunque, da tratti istintuali. La frustrazione produce uno stato di attivazione (arousal) il cui significato e i cui effetti dipendono dall’interpretazione e dalle aspettative di una certa persona per quella determinata situazione. Se il comportamento aggressivo è premiato, l’individuo può rispondere in modo aggressivo alla frustrazione e ad altre situazioni. Se ci si aspetta conseguenze negative per un comportamento aggressivo, questo sarà allora meno probabile. Diversamente dalla teoria psicodinamica dell’istinto, questa teoria sostiene che tentare di ridurre l’aggressività tramite espressioni dirette o sostitutive non porterà ad alcun risultato. La catarsi, infatti, sembra provocare degli effetti non affidabili e, talvolta, aumenta l’aggressività. L’espressione dei sentimenti negativi riduce l’aggressività solo quando viene abbinata a una reinterpretazione cognitiva dei fatti (Mischel, 1993).  
Gli etologi,con Konrad Lorenz in testa, hanno in qualche modo confermato l’ipotesi di Freud: cosa fanno gli animali a cui non è permesso lottare per il cibo, per l’accoppiamento, per la difesa del territorio, per il rispetto della loro posizione gerarchica all’interno del gruppo? Esprimono aggressività, si cimentano in estenuanti lotte.
Da un punto di vista etologico dunque, l’aggressività è un impulso adattivo, innato e spontaneo, che è utile alla conservazione dell’individuo e della specie, favorisce l’adattamento di quest’ultima, anche di quella umana. Gli esemplari maggiormente aggressivi infatti hanno sempre maggiori possibilità di successo nella sfida per la sopravvivenza e possono riprodursi, trasmettendo le proprie caratteristiche. Senza l’agggressività l’uomo non è tale, non ha fiducia in sè stesso, non ha l’entusiasmo che lo spingeverso le più elevate realizzazioni dell’umanità. L’aggressività non è “odio”, ma pulsione alla lotta; suo scopo non è uccidere, essendo essa dotata di meccanismi frenanti, ma di garantire la sopravvivenza dell’individuo e della specie.
Lorenz, tuttavia, come del resto tutta la corrente etologica ha il merito di aver chiarito che l’aggressività non dipende solo dall’ambiente e che essa non ha carattere distruttivo dal punto di vista biologico e negativo dal punto di vista morale; riconosce una funzione positiva dell’aggressività. E’ un fatto innegabile che l’aggressività svolge un ruolo importante nello spingere l’uomo a raggiungere nuovi traguardi, riconosce d’altra parte l’impossibilità di eliminarla, essa può essere invece, con opportuni provvedimenti a livello di struttura sociale, incanalata per fini socialmente positivi.
Tra i primi seguaci del movimento psicoanalitico dissidenti da Freud la posizione di Alfred Adler è particolarmente interessante, poiché presenta alcune convergenze con le posizioni dell’etologia. Adler fin dal 1908 aveva avanzato l’ipotesi che l’aggressività fosse una pulsione innata e primaria, ma nella sua concezione non si tratta di una pulsione di morte e di distruzione, come sosteneva Freud, bensì di una tendenza volta a dominare la realtà.  Non la sessualità ma la “protesta virile” aggressiva contro i sentimenti di inferiorità costituisce il nucleo dell’attività e dei conflitti nell’uomo: dato che la condizione di dipendenza e di immaturità nell'infanzia appartiene a tutti gli individui, l’iniziale impotenza dell’infante, nonché i sentimenti d'inferiorità ed insicurezza che ne derivano, determina un universale “complesso di inferiorità”, che il bambino e l’adulto tentano, proprio mediante l’energia aggressiva, di supererare.; quest’ultima agirebbe, in termini psicologici, come una motivazione costante che mira a ricercare, nelle parole di Adler, una "compensazione". Adler usa anche i termini di protesta virile, aspirazione alla superiorità, o volontà di potenza, per rappresentare le spinte che premono per un superamento della propria naturale inadeguatezza come molle di ogni comportamento attivo.
Questa concezione adleriana ha trovato in A.Storr una delle più interessanti rielaborazioni. Nella concezione di Storr è presente si riprende il concetto etologico che considera l’aggressività una potenzialità adattiva necessaria alla sopravvivenza dell’individuo e della specie nella quotidiana “lotta” per la vita. Secondo Storr nell’uomo la pulsione aggressiva è necessariamente più forte, poiché egli deve affrontare una lunga dipendenza dai genitori. L’aggressività rappresenta quindi una forza necessaria per conseguire una sufficiente autonomia personale e, per non annullare la propria personalità in quella degli altri, in particolare dei genitori. L’aggressiva è perciò un impulso  positivo, parte integrante del bagaglio pulsionale dell’uomo. L’aggressività diventa distruttiva quando l’impulso dell’attività, all’indipendenza, all’autoaffermazione e alla differenziazione dagli altri viene violentemente impedito e frustrato nel corso dell’età evolutiva. Poiché è il mantenimento stesso dell’identità che richiede la lotta, la precoce frustrazione del comportamento aggressivo porta all’aggressività disadattivo, fine a se stessa, volta alla crudeltà e alla distruttività. E’ il blocco di questa energia positiva che determina la distorsione patologica, in senso distruttivo, dell’aggressività.
Una posizione simile è stata assunta dallo psicanalista tedesco Gunter Ammon, autore del libro “La dinamica di gruppo dell’aggressività”. Egli non accetta la concezione freudiana, e distingue anch’egli tra una aggressività adattiva e una distruttiva. Nel primo caso si tratta di un ad-gredi, potenzialità necessaria per uno sviluppo dell’Io, che diventa veicolo per l’attività creativa, al servizio dell’amore per la vita. Quest’aggressività sana che serve all’autoaffermazione si trasforma in distruttività solo quando entra in conflitto con l’atteggiamento repressivo dei genitori. La frustrazione precoce e continua pone le basi per la trasformazione della normale forza dell’ad-gredi nella distruttività.
Anche Otto Fenichel (pure lui - come W. Reich, e come anche A. Adler - appartenente al gruppo di analisti impegnati socialmente, assieme ad Annie Reich, Edith Jacobson, ecc., cioè sensibili ad una potenzialità liberatrice della psicoanalisi in senso politico-sociale) vede l'aggressività come reattiva e non come primaria, e nega l'esistenza di un istinto di morte. Secondo F., naturalmente, non si può negare l'esistenza e l'importanza degli impulsi aggressivi. Ma non possiamo provare che essi sempre e necessariamente appaiono per l'esteriorizzarsi di esigenze autodistruttive ancor più antiche. Forse l'aggressività, in origine, non era uno scopo istintivo in sé, caratterizzante una categoria di istinti, in contraddizione con altri, ma piuttosto un modo di lottare degli scopi istintivi contro disillusioni, o perfino spontaneamente. E' tanto probabile tentare di raggiungere la meta tramite la distruzione quanto più primitivo è il livello di maturazione dell'organismo, forse a causa di una tolleranza delle tensioni insufficientemente sviluppata (Fenichel, 1945, p. 73).
La distruttività quindi per Fenichel non è necessariamente intenzionale e specifica, quanto una reazione che può risultare poi inadeguata. La volontà di distruggere e la sua consapevolezza, cioè la vera aggressività, è una acquisizione secondaria. Con riflessioni cliniche che paiono anticipare le intuizioni di un Kuhut (1971, 1972, 1977), Fenichel mette al centro della motivazione bisogni di sicurezza e di autostima, e certe modalità di rapporto con l'ambiente e di soddisfazione dei propri bisogni che vengono poi consolidate, laddove l'aggressività è sempre il fallimento di un rapporto o di un obiettivo desiderato.
Un importante contributo da parte di uno psicanalista che rifiuta decisamente la concezione dell’istinto di morte viene da Erich Fromm. Nel libro Anatomia della distruttività umana Fromm (1973) sostiene che esiste un'alternativa alla teoria istintivistica e a quella comportamentistica. Fromm distingue nell'uomo due tipi completamente diversi di aggressività. Il primo, che l'uomo ha in comune con gli animali, è l'impulso programmato filogeneticamente di attaccare o di fuggire quando sono minacciati i suoi interessi vitali; questa "aggressività difensiva" o "benigna" è al servizio della sopravvivenza della specie, è biologicamente adattiva, e si disattiva quando viene a mancare l'aggressione, essa consente alla persona di far fronte ai pericoli che minacciano la sua identità individuale e sociale. L'altro tipo, che chiama "aggressività maligna", è invece un’aggressività sostanzialmente disadattivo, che ha come obiettivo la crudeltà e la distruzione, essa si manifesta nella tortura, nel sadismo, nell’uccidere per uccidere; è specifica della specie umana e praticamente assente nella maggior parte dei mammiferi; non è programmata filogeneticamente e non è biologicamente adattiva; non ha alcuno scopo e, se soddisfatta, procura piacere; è interpretata da Fromm come patologia caratteriale. Essa ha la sua radice nella struttura caratteriale dell’individuo e costituisce una delle possibili risposte alle esigenze esistenziali fondamentali dell’uomo, in condizioni culturali sfavorevoli allo sviluppo di risposte positive. Il problema dell’origine dell’aggressività distruttiva rimanda rimanda quindi alla discussione dei valori e dei modelli, al servizio della vita e della morte, che la società propone e che plasmano la struttura caratteriale. Per fromm dunque l’aggressività maligna ha la sua ultima radice nella società, che ostacola la potenzialità al servizio della vita; la società occidentale, dominata dal consumismo e dalla noia esistenziale, favorisce la “necrofilia”, cioè l’amore per la morte che si esprime in una struttura caratteriale patologicamente dominata dal desiderio di distruzione.
L’impostazione di Fromm è importante poiché riconduce l’aggressività ad una problematica esistenziale tipicamente umana, che coinvolge il sistema di valori per cui l’uomo vive. Ma la sua spiegazione sull’aggressività distruttiva come realtà differente e separata dall’aggressività difensiva, di origine quindi unicamente sociale, di fatto sposta soltanto il problema della genesi dell’aggressività dall’individuo alla società, senza però spiegare perché la cultura e la società, prodotti degli uomini, siano state lungo i secoli portatrici più di amore per la morte che non di amore per la vita.
Otto Kernberg  non solo ha studiato a fondo le dinamiche dell'aggressività (Kernberg, 1984, 1992) ma, da una prospettiva classica, ha anche proposto una revisione della teoria psicoanalitica delle pulsioni che si propone di integrare le teorie psicoanalitiche degli affetti e delle relazioni oggettuali. Kernberg (1982, 2001), con la sua revisione teoria, cerca di mantenersi equidistante sia da coloro che propongono di sostituire semplicemente le pulsioni con gli affetti, sia da coloro che scelgono di rimanere ancorati alla teoria tradizionale delle pulsioni. I primi rischiano di "accentuare gli aspetti superficiali del funzionamento inconscio (il ruolo dell'adattamento e la realtà) e di minimizzare la consapevolezza degli aspetti perturbanti dell'odio primitivo e della natura primitiva della precoce fantasia inconscia erotica e sadomasochistica" , mentre i secondi, ignorando la importante influenza delle relazioni oggettuali e degli affetti, impoveriscono la comprensione clinica "relegando le pulsioni a strutture mitiche" (ibid.), ereditate filogeneticamente e responsabili delle fantasie primarie (allo stesso modo con cui Lacan ha paragonato l'inconscio alla struttura di una lingua naturale). Kernberg quindi, con questa posizione di compromesso, se da una parte ribadisce il ruolo delle pulsioni, dall'altra sottolinea la straordinaria importanza degli affetti come modalità comunicativa tra madre e bambino: sono le tonalità emotive, positive e negative, quelle che poi si cristallizzeranno come sistemi motivazionali o "pulsioni" libidiche e aggressive, per cui Kernberg dà al concetto di pulsione un significato diverso da quello dato da Freud. Nella sua "teoria delle relazioni oggettuali" , le tonalità affettive sono quelle che cementano le rapppresentazioni del Sé e dell'oggetto in unità che vanno a costruire il mondo rappresentazionale e poi si consolidano nella struttura tripartita (Io, Es e Super-Io).
Cruciale nella revisione della teoria psicoanalitica della motivazione, e quindi di una teoria della pulsione aggressiva, è stato l'apporto della ricerca in campo infantile, la cosiddetta infant reseach, i cui gli autori più noti sono Stern, Lichtenberg, Emde, Greenspan, Beebe, Lachmann, ecc., in genere tutti nordamericani. I limiti di un modello della mente umana, fondamentalmente monadica e interessata alla mera soddisfazione tramite scarica pulsionale, già evidenziati da vari autori a livello teorico e dietro alla spinta del lavoro clinico, sono diventai ancor più evidenti e supportati dai dati empirici, dove si è dimostrata una progressiva apertura alle spinte motivazionali plurime, con uno spostamento di enfasi sull'importanza dei rapporti interpersonali fin dalle prime fasi dello sviluppo.
Peter Fonagy, uno psicoanalista londinese che ha compiuto importanti studi sulla teoria dell'attaccamento, ha proposto una eziopatogenesi dell'aggressività e della violenza come conseguenza di un mancato sviluppo di quella che lui chiama "funzione riflessiva", detta anche funzione metacognitiva, cioè della capacità del bambino di costruire una "teoria della mente" propria ed altrui. Il bambino svilupperebbe due aspetti del Sé in successione: dapprima si formerebbe un "Sé pre-riflessivo o fisico" che sperimenta il mondo in modo immediato, concreto, e in seguito un "Sé riflessivo o psicologico", capace di vedere sé stesso e il mondo oggettuale alla luce di sentimenti, credenze, intenzioni e desideri, e di riflettere sull'esperienza in termini psicologici. Il Sé pre-riflessivo è presente in una forma primitiva dalla nascita e si sviluppa completamente attorno ai sei mesi (Stern, 1985), mentre il Sé riflessivo (quello che sarà responsabile della funzione riflessiva) evolve lentamente nei primi due anni di vita.
Uno degli aspetti più interessanti delle ricerche di Fonagy è quello di aver mostrato come il Sé riflessivo, e quindi la funzione metacognitiva, sia un importante fattore protettivo nei confronti della comparsa di comportamenti aggressivi (e anche di psicopatologia adulta, soprattutto di tipo borderline. Inoltre Fonagy ha dimostrato che lo sviluppo della funzione riflessiva dipende in modo specifico dalla capacità della madre di riconoscere e comprendere gli stati mentali del bambino, il suo mondo interno, cioè i suoi sentimenti, pensieri, desideri e intenzioni. Il caregiver quindi, affinché si sviluppi appieno questa importante funzione nel bambino, dovrebbe saper fungere da specchio, mostrando di comprendere gli stati intenzionali del bambino: è solo così che il bambino impara a leggere i propri stati mentali e anche quelli degli altri.
Una rivisitazione storica delle ipotesi psicologiche sulla emozione aggressiva è molto difficile perché corre continuamente il rischio di allargarsi e di includere altri importanti aspetti, in primis quello della teoria della motivazione e poi immediatamente quello, ad essa connesso, della teoria della mente. La scelta degli autori selezionati per questa sintetica rassegna, come si è detto, è stata altamente arbitraria, e non è possibile neppure citare coloro che sono stati omessi perché il rischio di trascurarne altri semplicemente aumenterebbe.
Volendo trarre delle conclusioni dopo questa carrellata di ipotesi proposte sulla origine della emozione aggressiva, possiamo inferire che l'esistenza di una autonoma pulsione deputata alla scarica di una aggressività fine a se stessa, e a maggior ragione di una pulsione di morte o di una aggressività auto-diretta (ed eventualmente proiettata all'esterno), pare criticata dalla maggioranza degli autori, se non altro perché difficilmente un tale sistema motivazionale avrebbe potuto selezionarsi su base evoluzionistica. Del resto, nel "Documento di Siviglia sulla Violenza" stilato il 16-5-1986 all'Ottavo Congresso Mondiale della International Society for Research on Aggression dai più eminenti studiosi dell'aggressività (psicologi, etologi, biologi, sociologi, antropologi, zoologi, ecc.), si legge: "Non esistono prove che la guerra, come ogni altro comportamento umano violento, sia frutto di un istinto, di un programma inscritto nella natura umana".
Ben diversa è invece l'emozione aggressiva come reazione adattiva in difesa della sopravvivenza o al servizio di importanti bisogni vitali o di altri sistemi motivazionali innati. Sulla esistenza di questo comportamento non vi sono dubbi, anche se, come si è visto, molti autori hanno preferito sottolineare un aspetto innato di questa reazione, e altri l'importanza della cultura o dell'apprendimento. Ma questa può essere una falsa dicotomia, nel senso che rischia di riproporre l'una o l'altra delle due ipotesi di base nelle quali si possono schematicamente suddividere tutte quelle che abbiamo preso in rassegna, cioè della aggressività come causata da un fattore interno (aggressività innata) o da un fattore esterno (aggressività reattiva). Questa dicotomia è falsa perché presuppone un superata concezione della mente, che invece, ab origine, è sempre costruita da un intreccio tra fattori innati e esperienziali, come la recente ricerca sul cervello, sul rapporto corpo-mente e sulla nascita della coscienza ha ben documentato (tra i tanti autori, basti citare Edelman, 1992). Ci sembrano quindi più convincenti le ipotesi esplicative avanzate dagli ultimi autori della nostra rassegna, se non altro perché, a differenza di Freud e dei primi psicoanalisti, hanno potuto avere a disposizione i dati della recente ricerca scientifica sul cervello e sullo sviluppo infantile.
AGGRESSIVITA’ ADATTIVA E AGGRESSIVITA’ DISTRUTTIVA
La concezione freudiana dell’istinto di morte appare quindi largamente superata poiché fa riferimento a un concetto di “istinto” del tutto avulso dall’influenza ambientale. Coerentemente con questa impostazione della psicologia contemporanea, nella quale i fattori innati e ambientali sono studiati nella loro reciprocità e stretta interazione, possiamo considerare l’aggressività una potenzialità innata, che può evolversi e manifestarsi in modo diversi, in rapporto alle situazioni ambientali e alle influenze socioculturali. Parliamo di potenzialità innate e non di istinto proprio perché non esistono istinti che si traducono direttamente in comportamenti, bensì solo possibilità, la cui realizzazione concreta può essere molto diversa, a seconda delle persone e delle culture. Ciò significa da un lato riconoscere l’esistenza di una potenzialità innata, radicata filogeneticamente, inizialmente però indifferenziata e aspecifica. Le forme che essa assumerà nel corso della sua differenziazione sono evidentemente diversissime in rapporto alla cultura e alla storia personale dell’individuo. L’aggressività umana è un fenomeno complesso, frutto di una rete di stimoli causali di varia natura.
Nella ricerca di una relazione sempre più creativa con la realtà, l’aggressività rappresenta una forza necessaria e una potenzialità adattiva dell’Io nel suo rapporto con il mondo esterno. Si tratta in sostanza di una spinta indispensabile che consente alla persona un atteggiamento attivo di fronte alla realtà
Sussiste una concezione dell’idea di aggressività come potenzialità di adattamento, di creatività, di emancipazione ed evoluzione e non come istintualità di morte, di annientamento e distruzione. L’aggressività adattiva svolge fondamentalmente alcune funzionalità strumentali di tipologia complementare. Da una parte l’aggressività svolge il compito di una forza attiva per il proprio sviluppo e l’affermazione di sé, dall’altra è uno strumento per tutelare la propria identità. Questa potenzialità adattiva comporta due momenti fondamentali, che vanno distinti per chiarezza di analisi, ma che sono strettamente correlati tra loro nella loro funzione e manifestazione: vale a dire l’espansione e la difesa personale. L’aggressività espansiva e l’aggressività difensiva costituiscono non due entità separate, ma due funzioni della stessa potenzialità adattiva al servizio della persona. Esse tendono entrambe, con funzioni diverse, allo stesso scopo, cioè a stabilire un migliore adattamento dell’individuo alla realtà. L’aggressività espansiva costituisce una potenzialità al servizio della persona, cui dà l’energia necessaria per sperimentare se stessa e per superare gli ostacoli che si frappongono alla sua realizzazione. L’aggressività difensiva si configura come una forza utilizzata non più per andare oltre i confini della propria persona, bensì per difendere la propria identità che è minacciata da un pericolo. L’aggressività cos’ esprime soltanto due funzioni che tendono una ad andare oltre se stessi, per rafforzarsi e arricchirsi, l’altra a difendersi e risaldarsi sui propri confini per non perder ciò che si è conquistato. Dunque l’aggressività si delinea come una potenzialità positiva, come strumento necessario alla stabilizzazione del sé indispensabile al fine di consentire una modalità di superamento dello stato di attaccamento e di dipendenza infantile, al fine di favorire l’affermazione e la difesa della propria identità contro gli ostacoli che si frappongono alla realizzazione del sé, per tutelare la propria stabilità fisica e  psichica, per stabilizzare l’assetto della propria personalità da incursioni ed attacchi esterni, da critiche e censure interrelazionali.  Riconoscere l’aggressività come istanza che presenta potenzialità positive non significa legittimare la distruttività e la violenza, perché aggressività e distruttività non si identificano. La distruttività costituisce una degenerazione dell’aggressività ingenerata dalle specifiche e caratteriali varianti biopsicosociali che determinano l’organizzazione psichica, cognitiva, affettiva, relazionale, apprenditiva e socializzante dell’individuo.
L’aggressività difensiva è utile all’individuo in quanto gli permette di difendere le proprie conquiste, siano esse di tipo psichico o fisico, di mantenerle quando queste sono minacciate da un pericolo, di opporsi all’aggressione altrui. Quando però l’individuo ha strutturato un’identità poco salda , è sottoposto ad una notevole quantità di minacce; o meglio egli è portato a vivere come minacce un numero elevato di situazioni ed eventi che in realtà non sono tali e che lo costringono a un’attività aggressiva o difensiva fernetica. Questa non ha però più valore adattivo, in quanto l’individuo non avendo un’identità salda, non riesce a ricomporre e raggiungere un’unità, ma riesce soltanto, nella migliore delle ipotesi, a mantenere il debole livello di integrazione raggiunto. Spesso anzi egli rischia, proprio a causa delle reazioni che il suo immotivato comportamento aggressivo determina nell’ambiente che lo circonda, di distruggere ulteriormente il livello di strutturazione raggiunto, in un circolo chiuso sempre più disgregante. Manca in sostanza a questa reazione aggressiva una valutazione delle caratteristiche della realtà circostante e dei modi quindi di una difesa utile per l’individuo. alcuni autori hanno collegato la genesi dell’aggressività distruttiva , cioè dell’aggressività svincolata dal controllo dell’Io, alla frustrazione precoce dell’attività esplorativa e dell’aggressività espansiva. Secondo Ammon è importante non ostacolare il bambino nel suo primo contatto con l’ambiente. Attualmente cercare di ridurre l’apporto distruttivo e degenerativo dell’aggressività, quindi distogliere l’uomo dall’autodistruzione della conflittualità, anche a livello mondiale che non prevede una fine, né un fine, né un ritorno alla pace, tutto questo non comporterebbe né l’annullamento, né la repressione dell’aggressività, intesa nel significato di espressione positiva per l’affermazione e la difesa di sé. Le più gravi forme di aggressività esplodono nella società, nella famiglia, nella scuola che soffocano l’esigenza dell’affermazione della persona umana. Solo la famiglia, la scuola e la società che consentono il maggior spazio di affermazione personale possono agire in modo pacifico. La psicologia sociale e la psicanalisi sono accomunate da un grande consenso circa la necessità di abolire stili educativi repressivi, in quanto forieri di violenze. La realizzazione di sé si incontra con la presenza e l’esigenza di interagire con l’alterità, di relazionare con gli altri da noi. In questo contesto relazionale si pone il problema di come permettere l’espansione identitaria di ogni soggetto, senza prevaricazione e sopruso. In termini psicologici occorre individuare i meccanismi che possono facilitare e agevolare condizioni di rispetto per la soggettività dell’altro e per il controllo della propria aggressività. L’uomo è l’animale sociale e come è in grado di essere aggressivo e distruttivo è anche capace di collaborazione, altruismo e cooperazione. Dunque è necessario individuare le situazioni che agevolano nel bambino l’emergere di stabili comportamenti collaborativi e cooperativi.

CAUSE DELL’AGGRESSIVITA’
Le teorie monocasuali dell’aggressività, prevalse in certi correnti o momenti storici (spiegazioni biologico-genetiche, spiegazioni psicologico-caratteriali, spiegazioni sociologico-ambientali), sembra stiano lasciando il campo a un genetale accordo sul carattere multiffattoriale dei fenomeni aggressivi., la discussione negli ultimi decenni verte per lo più sul rispettivo peso delle tre famiglie di fattori (biologici, psicologici e sociologici), sulle loro interazioni e inoltre su una più dettagliata articolazione delle componenti interne a ciascuna delle suddette famiglie.
FATTORI INTERNI DELL’AGGRESSIVITA’
Frustrazione ed aggressività
Alcuni studi effettuati da Miller, Mowrer e Seans, portarono all’affermazione che ogni qual volta l’individuo si trova in uno stato di frustrazione, manifesta alcune tendenze aggressive. L’aggressività, in questi casi, non è sempre diretta verso il responsabile della frustrazione, ma preferibilmente verso soggetti più deboli. Quest’affermazione, pur essendo logica, è tuttavia semplicistica, poiché si è notato che non sempre la frustrazione produce aggressività, ma questo stato può causarla soltanto in alcune occasioni e può anche generare altre reazioni; inoltre si può avere aggressività senza un precedente stato di frustrazione. Quindi l’ipotesi del rapporto tra frustrazione ed aggressività deve essere riformulato come segue: la frustrazione può stare alla base di talune forme di aggressività e, a volte, l’aggressività può avere come causa la frustrazione.
Nel cercare di in capire quali particolari condizioni la frustrazione può provocare aggressività, alcune ricerche americane hanno messo in luce che una delle situazioni che induce l’individuo a tenere comportamenti aggressivi è l’aumento del livello di frustrazione, una seconda condizione è l’arbitrarietà della frustrazione stessa.
Si sono infine analizzate quelle situazioni, quelle condizioni, quegli eventi che causano stress e frustrazione, in maniera più o meno evidente. I ricercatori si sono soffermati in particolare sulle fonti della frustrazione normalmente accettate come parte della vita quotidiana, i fattori che possono aumentare l’incidenza dei comportamenti aggressivi sono il rumore, il calore, l’inquinamento ed il fumo di sigarette.
Nel corso degli studi si è tuttavia rilevato che, al di là delle frustrazioni, ogni forte emozione può far scaturire l’aggressività.

Eccitazione ed aggressività
In conformità con questa teoria, i ricercatori hanno dimostrato che, per aumentare le potenzialità aggressive degli individui basta impegnarli in rudi esercizi fisici, attività competitive, oppure somministrare loro degli stimolanti.
Si è scoperto inoltre, che l’attivazione emotiva provocata da una certa attività, può essere trasferita su di un bersaglio completamente diverso.
L’eccitazione emotiva che determinatasi in un particolare circostanza, attiva una reazione in una situazione completamente diversa, è chiamata dislocazione d’emozione. A causa di questo precedente troviamo spesso una forte correlazione tra amore ed aggressività.. naturalmente, non tutti gli stati emotivi producono reazioni aggressive:le emozioni, infatti, scatenano reazioni violente quando l’aggressività tende ad essere la risposta dominante, ovvero un aumento dell’eccitazione rende addirittura certo il verificarsi di un comportamento aggressivo che prima era solo probabile.
Un secondo fattore utile a determinare se uno stato emotivo condurrà o no ad una risposta aggressiva, è la definizione che gli si assegna. Quando gli individui sono alle prese con un’accesa discussione, chiamano i propri sentimenti con il termine rabbia. Utilizzando questa definizione, è probabile che l’eccitazione dia luogo ad un comportamento aggressivo.
Il fattore chiave dell’aggressività può esser dunque considerata l’ativazione emotiva di cui la frustrazione è uno dei fattori scatenanti.gli individui soggetti ad una spinta emotiva possono diventare particolarmente attivi; se l’aggressività è la risposta dominante nella situazione in cui si trovano ed essi definiscono le proprie reazioni come rabbia, frustrazione e irritazione, allora la spinta emotiva sfocerà in un comportamento aggressivo.

FATTORI ESTERNI DELL’AGGRESSIVITA’
L’aggressività è una spinta interna fortissima che ci induce a distruggere l’altro, quando questa si scatena lo fa violentissimamente con atti di crudeltà realmente disumani. Tuttavia ci sono delle situazioni esterne che possono influenzare e sollecitare il nostro impulso distruttivo, indirizzandoci verso un tipo particolare di violenza oppure disattivando i naturali freni inibitori.
Sesso, pornografia ed aggressività
Non c’è necessariamente un legame tra l’eccitazione sessuale e l’aggressività, ma si è notato che l’eccitazione sessuale provoca, in genere, un abbassamento delle tendenze aggressive. Tra l’altro il materiale pornografico può provocare uno spostamento dell’attenzione dall’aggressività alla sessualità, evitandone la manifestazione. Esiste quindi una relazione complessa tra aggressività ed eccitazione, ma molto dipende da come è definito lo stato di eccitazione; se questo è ben visto e considerato piacevole, l’aggressività è improbabile, se invece ci si sente in colpa perché la sessualità è considerata “sporca, colpevole e disgustosa” il comportamento aggressivo non è da escludere.
Recentemente ci si è interessati soprattutto all’influenza della pornografia violenta, spesso rivolta contro le donne, le conclusioni sono sconcertanti: anche se la pornografia in genere non ha conseguenze nocive, quella violenta è un pericolo sociale reale e dovrebbe essere disciplinata. Questa tendenza alla violenza sessuale che si accresce in seguito alla visione di materiale pornografico violento, fortunatamente rimane latente  solo in alcuni casi è messa in pratica.
Droga  e aggressività
Dai risultati di numerose ricerche volte a comprendere se esistesse un’effettiva connessione tra l’uso di droghe e alcool e la violenza, possiamo asserire che sia l’alcool che la marijuana influiscono sull’aggressività, l’alcool ha però un effetto eccitante e la fa accrescere, mentre grosse dosi di droga producono un affievolimento sia dell’eccitazione sia dell’aggressività. Tuttavia, anche se le droghe influiscono sul livello di eccitazione psichica, è il modo in cui sono socialmente definite ad avere un effetto determinante sul comportamento. La gente è convinta che l’alcool rende aggressivi, pertanto trova nell’ubriacarsi la scusa buona per aggredire in quanto, attribuendo al consumo di alcool il proprio comportamento, riesce a scaricare ogni responsabilità.

 

AGGRESSIVITA’ E SOCIETA’
Il bambino, sin dalle prime esperienze è costretto a prendere coscienza che le sue possibilità di realizzazione non sono illimitate; le prime esperienze di frustrazione, i primi ostacoli gli fanno comprendere che non tutto dipende da lui, che il suo desiderio di espandersi non può essere incondizionato, in quanto trova un limite nella corrispettiva esigenza di chi gli sta di fronte. L’inibizione dell’aggressività costituisce una regolazione senza la quale non sarebbe possibile la convivenza sociale: un autocontrollo a livello comportamentale è sempre necessario. Frenare l’aggressività favorisce la società.
Il vivere sociale, di fatto, permette una convivenza meno pericolosa e problematica per tutti, favorisce l’emergere di una etica di specie alla quale si ispira il genere umano (i sentimenti di umanità, di universalità, di appartenenza..), l’elaborazione di alcuni valori generali condivisi (i diritti umani, la cooperazione e solidarietà internazionale..), lo sviluppo delle scienze del pensiero e della creatività scientifica ed artistica come massime espressione della propria specificità. La persona sviluppa legami ed identificazioni anche a livello sociale, che vengono per lui a costituire un importante punto di riferimento, una vera e propria identità. La mancanza di questa o la sua perdita improvvisa, quale ad esempio l’immigrazione o l’urbanizzazione forzate, l’imposizione di certi modelli di comportamento diffusi dai mezzi di comunicazione di massa provocano, con lo stesso meccanismo che si applica per l’identità individuale, reazioni aggressive anche fortemente distruttive, che non hanno più per l’individuo alcun valore adattivo.
Le modificazioni psichiche che intervengono con l’incivilimento sono invece vistose e per nulla equivoche. Esse consistono in uno spostamento progressivo delle mete pulsionali e in una restrizione dei moti pulsionali. Sensazioni che per i nostri progenitori erano cariche di piacere, sono diventate per noi indifferenti o addirittura intollerabili; esistono fondamenti organici del fatto che le nostre esigenze ideali, sia etiche che estetiche, sono mutate. Dei caratteri psicologici della civiltà, due sembrano i più importanti: il rafforzamento dell’intelletto, che comincia a dominare la vita pulsionale, e l’interiorizzazione dell’aggressività, con tutti i vantaggi e i pericoli che ne conseguono.
Lo sviluppo della società e della convivenza civile hanno infatti, portato l’uomo a controllare le parti più estreme ed impulsive della propria aggressività, che è servita d’altro canto a conquistare e a difendere quelle finalità che gli sono connaturate e delle quali non può fare a meno.
Spetta a Fromm il merito di aver individuato e posto in risalto l’importanza che la società riveste nell’aiutare l’uomo nel suo amore per la vita, oppure nello stimolare la sua necrofilia. La società attuale secondo Fromm, ha proprio le caratteristiche di stimolare le tendenze necrofile dell’uomo. I valori che propone, la sempre maggior importanza attribuita agli aspetti tecnici e meccanici piuttosto che agli aspetti viventi, la difficoltà posta ai rapporti interpersonali, l’uso del linguaggio, in particolare attraverso i mass-media, per manipolare e non per comunicare, stimolano le tendenza distruttive dell’uomo. Molto interessanti sono poi le considerazioni che Fromm fa sulle caratteristiche della guerra moderna ed in particolare per ciò che concerne lo sviluppo delle armi in seguito al progressivo aumento di tecnicizzazione della società e quindi di estraniamento affettivo dell’uomo dalle proprie azioni. Esse, infatti, permettono di combattere anche senza un contatto diretto con l’aggredito in tal modo la nostra aggressività è incentivata e non viene posto alcun limite alla distruttività umana, in quanto manca l’inibizione che ci verrebbe dal lottare contro una persona a noi vicina, nessuno così più avverte il danno e la distruttività delle proprie azioni; poiché esse rientrano nella produttività della “macchina” di cui ognuno fa parte e sono per ciò stesso razionali.
Più pericolosa ancora dell’invenzioni delle armi è la capacità che l’uomo da di degradare” l’avversario e vedere la sua eventuale uccisione non solo come riprovevole e malvagia, ma addirittura doverosa, in quanto si tratterebbe di eliminare un mostro nocivo all’interno della società
Ammon afferma che l’aggressività distruttiva si può spiegare come una patologia psichica, ma anche sociale, e sostiene che il gruppo se si emancipa dalla aggressività distruttiva, può offrire al singolo la possibilità di liberarsi, di crescere e di comunicare in modo sano e maturo con altri individui e in una società così trasformabile.
La guerra può essere visto come un meccanismo difensivo collettivo, fondato su angosce individuali di tipo psicotico. Non condividendo, sulla base dell’evidenza delle ricerche psicologiche più recenti, l’esistenza di un istinto di morte vissuto come terrificante interno, non possiamo accettare l’ipotesi di Freud secondo la quale per sfuggire alla depressione l’uomo nega e proietta sulla realtà questo nemico interno ed assoluto. La potenzialità aggressive, come precedentemente illustrato è fondamentale per la vita e non per la morte, né per gli altri né tanto meno di sè E’ l’insicurezza di base che fa diventare l’aggressività patologica. Solo nel caso di una scarsa identità, frutto di frustrazioni precoci ed eccessive e di gravi limitazioni allo sviluppo, l’aggressività diventa inutile e dannosa violenza. Essa viene allora certamente negata, per i sensi di colpa e la paura che genera, e proiettata su altri; ma si tratta di meccanismi psicotici che a livello adulto sono utilizzati solo quando il senso della propria identità è inesistente o vacillante.
Alcuni fattori psicologici che favoriscono la corsa agli armamenti nucleari
Alcuni psicologi, che hanno lavorato sugli aspetti psichiatrici della prevenzione dei conflitti atomici, hanno individuato i seguenti pericoli:
1) gli effetti della paura.
Tra gli effetti della paura i più importanti sono:

  • effetto primitivizzante: le reazioni di persone in preda alla paura possono regredire a stadi più primitivi e irrazionali (es. incendio in un teatro: tutti si precipitano verso le uscite principali, trascurando quelle di sicurezza);
  • distruzione della capacità di discriminazione adattiva: per effetto della paura si cade più facilmente in reazioni convenzionali non adeguate alla situazione;
  • paralisi funzionale: provoca un "congelamento" dell’organismo, che rallenta l’attività motoria e rende sempre più difficile il ragionamento;
  • diminuzione del senso della prospettiva temporale: la persona che ha paura può essere tanto preoccupata di evitare un pericolo immediato da non preoccuparsi delle conseguenze a lungo termine del suo comportamento. Anche le politiche nazionali possono presentare questa caratteristica.

Ai timori di un pericolo esterno si sovrappongono spesso ansie di origine interna e irrazionale, nascoste dietro discorsi che sembrano perfettamente plausibili.
2) De-umanizzazione.
Esiste poi un altro meccanismo di difesa molto vario e complesso, che essi propongono di chiamare "de-umanizzazione" e che ha una grande importanza nell’indurre la gente ad accettare le conseguenze di una guerra nucleare, anche se questo significa distruzione totale. Il termine de-umanizzazione comprende due fenomeni distinti ma correlati tra loro:

  • la de-umanizzazione orientata sull’oggetto;
  • la de-umanizzazione orientata su di sé.

a) de-umanizzazione orientata sull’oggetto: intendiamo per questo la tendenza a rappresentarci gli altri individui o gli altri gruppi come se non appartenessero veramente alla "razza umana" e a negare loro alcune delle caratteristiche considerate più "umane". Questo tipo di de-umanizzazione, nella sua forma più crudele, porta a percepire le vittime della discriminazione come sub-umani, cioè come persone che non hanno ancora completata la transizione dall’animale all’uomo.
In un’altra forma avremo persone o gruppi che, pur essendo percepiti come appartenenti alla razza umana, saranno considerati disumani e pertanto indegni di essere trattati come uomini.
Il negare l’umanità dell’altro fa sì che l’aggressione nei confronti di quello non sia avvertita come una colpa; inoltre l’aspetto più importante di tale processo è quello che potremmo definire “congelamento affettivo”: si elimina cioè ogni legame affettivo con l’altro, in modo tale che lentamente egli non è più avvertito come persona, ma come una cosa, così da permettere la caduta di ogni inibizione dell’aggressività, che può giungere anche alle forme più crudeli di distruttività.
A tali strategie hanno fatto ricorso i regimi totalitari.
b) de-umanizzazione orientata su se stessi
Quando un individuo si difende contro dei sentimenti o degli stati d’animo tipicamente umani - come la paura, la compassione, il rimorso o la vergogna — modifica contemporaneamente l’immagine di se stesso. Il meccanismo di difesa della de-umanizzazione lo porterà a suddividere le sue emozioni in compartimenti stagni, impoverendo così la sua capacità di sentire e di agire come un essere umano.
I due aspetti della de-umanizzazione, quella orientata sull’oggetto, e quella orientata verso se stessi, si rafforzano a vicenda. Quanto più infatti la gente tenderà a considerare gli altri come dei sub-umani, degli inumani, per cercare di liberarsi dalla paura, dal rimorso e dall’inquietudine, tanto più rischierà di perdere qualcuna delle qualità umane che le sono proprie.
Tra gli effetti della de-umanizzazione i più importanti sono:

  • maggior distacco emotivo dagli altri esseri umani;
  • minor senso di responsabilità personale per le conseguenze delle proprie azioni;
  • interesse esclusivo per il lato procedurale trascurando il lato umano delle questioni;
  • conformismo e incapacità a resistere ad atteggiamenti e pressioni dominanti nel gruppo;
  • senso di impotenza personale.

Infine la de-umanizzazione sembra sempre più diffusa come conseguenza, "effetto collaterale" strettamente legato alle caratteristiche della società industriale contemporanea. 

CANALIZZAZIONE DELL’AGGRESSIVITA’
Contrariamente a quanto si pensa, molto raramente gli animali giungono nelle loro lotte all’uccisione dell’avversario. Una delle caratteristiche dell’aggressività animale è infatti la ritualizzazione, vale a dire quell’insieme di atti che permettono di segnalare le intenzioni aggressive e di scaricare la tensione senza arrivare all’attacco e alla distruzione. La ritualizzazione può essere definita come una atto simbolico che esprime e segnala un’emozione aggressiva. Il comportamento ritualizzato permette di ostacolare gli effetti dannosi e distruttivi dell’aggressività intraspecifica, senza però impedire la funzione adattiva e positiva dell’aggressività al servizio della vita.
Esso nasce dal conflitto tra la necessità da un lato di vivere pacificamente con i congeniti, dall’atro di combatterli in alcune occasioni. L’aggressività non deve perciò venire cancellata, ma semplicemente ritualizzata. L'aggressività è uno dei nostri istinti senza il quale non potremmo sopravvivere. Quindi, non si può eliminare l'aggressività. Purtroppo quando la rabbia non viene mai espressa ( sto parlando di esprimere la rabbia in modi accettabili) diventa un rancore cronico, insidioso e gigantesco che rovina rapporti e relazioni. Chi accumula rabbia, prima o poi esplode. I serial killer, spesso descritti come persone miti e inoffensive, sono un buon esempio di questo meccanismo. Ovviamente sono casi eccezionali, ma chi non si arrabbia mai, esprime ugualmente la propria aggressività solo che lo fa in modo indiretto e  poco efficace.
Anche gli uomini, come gli animali dispongono di un ricco repertorio di segnali di acquetamento, in gran parte innati (sorriso, atteggiamento infantile, sottomissione). Nonostante ciò questi elementi non sono sufficienti nell’uomo a impedire l’uccisione dei congeneri; paradossalmente l’animale ha a disposizione strumenti più immediati e automatici per limitare il proprio comportamento aggressivo.
Possiamo ricercare nella plasticità tipica dell’uomo che alla base del prodigioso sviluppo e della stupefacente complessità del suo comportamento, capace di far fronte alle situazioni più nuove e inaspettate, una delle ragioni basilari per cui il comportamento dell’uomo è scarsamente ritualizzato.
Inoltre mentre nell’animale l’attacco ed la lotta sono limitati all’incontro con il nemico, l’uomo può nutrire sentimenti aggressivi verso una persona che non ha mai visto. Così pure egli può continuare a “coltivare” nel tempo questi sentimenti aggressivi, anche quando non è più faccia a faccia con il suo nemico: l’emozione e la rabbia sono svincolati dalla presenza dell’altro.
Il linguaggio, infine consente all’uomo, unico tra le altre specie animali, di superare la messa in atto (acting-out); esso è uno strumento prezioso di manifestazione dell’aggressività su un piano non più unicamente motorio, esso permette di risolvere l’attacco aggressivo non con la lotta fisica, ma in modo incruento, con la disputa verbale. La parola svolge però anche una funzione contraria, vale a dire essa può contribuire notevolmente alla diffusione e all’incitamento all’aggressività, con essa l’uomo può inculcare in altri sentimenti aggressivi, indipendentemente da qualsiasi coinvolgimento precedente.
E’ stato spesso notato che l’uomo, di fronte ad un segnale di acquetamento e di sottomissione, anziché placare la propria aggressività a volte l’aumenta; le manifestazioni di aggressività contro i deboli (animali, bambini) sono numerose e spesso incontrollate. La capacità di identificarsi con l’altro apre anche in questo caso all’uomo possibilità sia distruttive che altruistiche. La possibilità di immedesimarsi nelle sofferenze altrui consente alla persona di “compatire” e di essere caritatevole. Ma questa capacità, quando si accompagna all’insicurezza e al bisogno di supremazia, apre al via alla più efferata crudeltà, riaccesa proprio dagli atteggiamenti di sottomissione dell’avversario. L’identificazione consente infatti all’uomo di rendersi conto del dolore dell’altro; questa consapevolezza fa sentire la persona insicura, forte e potente: se esso può far soffrire e implorare qualcuno significa che vale e che può qualcosa sugli altri.
Come dosare l’aggressività? L’aggressività non è un impulso incontrollabile. Lo sviluppo di alcune parti e funzioni cerebrali (lobi frontali, amigdala), l’allenamento comportamentale possono aiutare ad incanalarla. Inoltre, il processo di socializzazione umano ha progressivamente introdotto dei meccanismi di canalizzazione delle spinte aggressive in modalità condivise e accettate e generalmente non-violente, regolate da leggi codificate e consuetudini, in tale fase vengono valutate le conseguenze negative e i vantaggi collegati ad una possibile azione violenta. In maniera semplicistica dipende da quanto la lasciamo fuoriuscire da quel contenitore immaginario nel quale è riposta.
E’ una questione che dipende molto dalla nostra capacità di autocontrollo e dalla valutazione, quasi in termini percentuali, di quanto sia necessaria per affrontare le diverse situazioni di vita. Sta a noi dosarla in maniera adeguata, per favorire i nostri bisogni senza metterli troppo in conflitto con la necessità di adattamento, e quindi di rinuncia dall’essere aggressivi o assertivi, alla situazione stessa. La capacità di autocontrollo e i limiti sociali aiutano quindi a guidare in maniera costruttiva la nostra naturale aggressività. Se non c’è l’uno e non ci sono gli altri l’aggressività è destinata a scatenarsi nelle sue forme più distruttive e violente. Probabilmente una parte di aggressività violenta ma latente è presente a livello individuale in ognuno di noi, influenza comportamenti e modi di pensare. Autocontrollo e regole sociali hanno il compito di arginarla ed eventualmente guidarla verso usi più costruttivi. Nell’adolescenza e nell’età adulta la capacità tipicamente umana di rimandare nel tempo l’aggressione si accompagna alla possibilità sempre maggiore di trovare un obiettivo sostitutivo, ma soprattutto la sublimazione aprono nuove possibilità di manifestazione dell’aggressività difensiva ed espansiva entro forme non solo non distruttive ma anche socialmente utili. La canalizzazione o sublimazione dell’aggressività, è una soluzione che orienta la forza istintuale verso mete socialmente accettabili (il lavoro, l’ambizione, la giusta competitività, ecc.).
Canalizzazione dell’aggressività umana e arte
Parlando di canalizzazione dell’aggressività umana in forme accettabili vogliamo considerare un aspetto spesso trascurato e non considerato sotto questa luce, vale a dire l’arte. Nel simbolismo frutto della creatività artistica si fondono processi e meccanismi consci e inconsci; nel simbolo l’artista esprime il proprio rapporto con il mondo ikn modo immaginativo e immediato. La creatività artistica, in quanto capace di risonanza personale e universale, costituisce un importante canale di manifestazione dell’aggressività in forma ritualizzata attraverso il simbolo, che fa appello direttamente all’emotività e all’affettività della persona.
Canalizzazione dell’aggressività umana e sport
Anche la pratica sportiva può connotarsi come una vera e propria catarsi.
Esso possa “assolvere, a livello psicologico, sociale ed educativo l’importante compito di:

  • integrare l’aggressività nel sistema dell’Io in maniera produttiva, creativa, adattativa e autorealizzativa;
  • utilizzare la carica aggressiva entro modelli agonistici capaci di riattualizzarla (attitudine innata, che nell’uomo è venuta meno con l’evoluzione culturale).

Lo sport si rivela, quindi, una delle poche attività umane in cui la pulsione aggressiva può essere liberata completamente e può manifestarsi in maniera non repressa né deformata. Infatti l’agonismo non richiede quella repressione che è tipica allorché l’aggressività viene controllata attraverso censure morali e normative, forma di rimozione che si ripercuote negativamente sull’equilibrio, non solo della personalità individuale, ma anche dell’intera collettività” (Antonelli, Salvini, 1987).
Vivere implica l’affermazione di se stessi e in questo senso lo sport può favorire l’espressione delle tendenze attive dell’uomo: la volontà per raggiungere mete di tipo sportivo; diventare un campione e/o il campione di noi stessi

TIPOLOGIE DI AGGRESSIVITA’
DOVE E COME SI ESPRIME L’AGGRESSIVITA’
L’aggressività si può esprimere:
1) Nel corpo: tramite le malattie psicosomatiche (aggressività repressa), ad esempio: aggressività non elaborata che passa attraverso il corpo. Esse rappresentano una forma di autoaggressività, altro tipo di comportamento aggressivo che non svolge più alcuna funzione adattiva, ma che anzi è di grave danno per la persona. In essa la limitazione e l’irrigidamento tipici della difesa raggiungono il massimo; non solo: l’energia che naturalmente è volta verso l’esterno a scopo difensivo subisce un cambiamento di direzione e viene rivolta contro l’Io stesso. L’aspetto difensivo perde così la sua stessa validità e positività, la persona infatti non interviene più con la violenza che la minaccia richiede sulla realtà, ma rivolge la carica aggressiva contro se stessa.
La causa ultima di questo comportamento si deve ricercare nell’ impossibilità, presunta o reale, di attuare una difesa mediante l’intervento sulla realtà; la persona nell’impossibilità reale o psicologica di una difesa adattiva sulla realtà, ricorre all’estrema soluzione di aggredire se stessa. L’Io infatti non può rimanere inattivo e passivo di fronte all’impossibilità di agire sulla realtà al di fuori di sé, per la sua natura attiva egli ricerca ugualmente un intervento, attuato però non più sulla realtà, ma su di sé.
Ma più ancora della semplice costruzione esterna, è l’interiorizzazioni di queste proibizioni a determinare molti comportamenti autoaggressivi. La persona ritiene proibito ogni minimo comportamento aggressivo e si sente in colpa ogni qualvolta manifesta aggressività. Il divieto di esprimere aggressività può essere talmente interiorizzato da rendere la persona incapace di ogni manifestazione aggressiva anche quando la costrizione esterna viene a cadere.
Più spesso ancora l’impossibilità di un intervento sul reale risiede nella persona stessa, che ritiene di non essere in grado di affrontare aggressivamente la realtà, nella convinzione, fondata sulla propria insicurezza, che sia impossibile e inutile  combattere contro glia ltri e la realtà circostante. L’individuo insicuro teme al tal punto un insuccesso da rinunciare in partenza ad ogni attacco aggressivo della realtà, egli tende inoltre a ricercare solo in sé stesso la causa delle minacce alla sua realizzazione.
2) Nel luogo di lavoro attraverso il Mobbing (viene trattato in dettaglio nella seconda dispensa).
3)A scuola: la forma di espressione di violenza più frequente in tale ambito è rappresentata dal Bullismo. il bullo e' un ragazzo o una ragazza che compie degli atti di prepotenza verso un proprio pari sfruttando il fatto di essergli in qualche modo superiore, queste prepotenze non sono occasionali, ma si ripetono nel tempo, configurandosi come una vera e propria persecuzione. Fare il bullo significa dominare i piu' deboli con atteggiamenti aggressivi e prepotenti, sottoporre a continue angherie e soprusi i compagni di classe o di giochi fisicamente e caratterialmente piu' indifesi.
Citiamo la definizione di Dan Olweus: "uno studente e' oggetto di azioni di bullismo, ovvero e' prevaricato o vittimizzato, quando viene esposto, ripetutamente nel corso del tempo, alle azioni offensive messe in atto da parte di uno o di piu' compagni”. (Olweus, 1996).
Il bullismo puo' essere considerato una sottocategoria del comportamento aggressivo, con alcune caratteristiche distintive: l'intenzionalita' (mira deliberatamente a ferire, offendere, arrecare danno o disagio); la persistenza nel tempo, l'asimmetria di potere (nella relazione, il bullo e' piu' forte e la vittima e' piu' debole e spesso incapace di difendersi).
Il bullismo puo' assumere forme differenti:

  • fisiche: colpire con pugni o calci, appropriarsi, o rovinare, gli effetti personali di qualcuno;
  • verbali: deridere, insultare, offendere, minacciare, prendere in giro ripetutamente, fare affermazioni discriminanti;
  • indirette: diffondere pettegolezzi e calunnie, diffamare, escludere qualcuno dal gruppo di aggregazione.

4) Tramite lo stupro e la pedofilia sottoforma di violenza sessuale
L'abuso sessuale è un problema diffuso del quale si sta parlando sempre più spesso negli ultimi anni. In realtà, è un fenomeno sempre esistito e non è confinato a particolari strati sociali o culture, coinvolgente le femmine molto più frequentemente dei maschi. Per definizione l'abuso sessuale può coinvolgere altre forme di abuso, come quello fisico o psicologico.
Devono essere definiti violenti tutti gli atti sessuali compiuti da una o più persone su un’altra persona, contro la sua volontà o in tutti i casi in cui la persona abusata non è consapevole di quanto stia avvenendo. Il codice penale Italiano distingue tra Violenza carnale e Atti di libidine violenti. La violenza carnale avviene quando la vittima subisce una penetrazione anale o vaginale. Gli atti di libidine sono tutti quegli atti orientati a produrre eccitamento sessuale nel loro esecutore, mediante contatto fisico con parti del corpo della vittima.
Si deve considerare abuso un atto sessuale delle due categorie sopra riportate quando venga compiuto:

  • usando la violenza
  • usando la minaccia
  • su persone di meno di 14 anni
  • su un minore di 16 anni affidato a chi compie l’atto
  • su una persona incapace di capire cosa stia succedendo a causa di problemi fisici o psicologici
  • su una persona tratta in inganno

L’abuso sessuale costituisce una grave violazione dei diritti e della dignità di una persona, e crea gravissimi problemi a chi la subisce. Nei casi di abuso, non ci troviamo mai di fronte a qualcosa che abbia a che vedere con la sfera della sessualità. Infatti la sessualità è un momento di incontro piacevole tra due individui che provano reciproca attrazione. L’abuso è solo una manifestazione di forza con cui l’aggressore cerca di dimostrare a sé stesso o agli altri il proprio potere.

  • Lo stupro

Una ricerca ISTAT pubblicata alla fine del 2004 attesta che ogni giorno in Italia sette donne in media subiscono una violenza sessuale. I dati si riferiscono ovviamente ai casi che vengono denunciati alle autorità; alcuni studi stabiliscono che questi rappresentano soltanto l’8% degli episodi effettivi di violenza sessuale. Il restante 92% delle vittime, dunque, decide per motivi diversi (vergogna o “copertura” del molestatore, soprattutto se all’interno del contesto familiare) di non denunciare la violenza subita alla polizia o ai carabinieri. La violenza carnale sulle donne delle popolazioni sconfitte in guerra era largamente praticata nel passato e, sebbene gli eserciti moderni la vietino, sia durante la seconda guerra mondiale, sia nelle guerre contemporanee che continuano a insanguinare il mondo odierno, è stata e viene utilizzata come strumento per umiliare e annientare psicologicamente l’avversario. In ambienti criminali viene usata come punizione e minaccia, così come viene praticata nelle istituzioni carcerarie come affermazione di potere della banda dominante.
Associare la violenza sessuale alla forza e al potere è una tradizione presente in molte culture umane primitive. Gli atti sessuali vengono, infatti, considerati una manifestazione di energia vitale e l’erezione maschile il simbolo della potenza. Ovviamente si tratta di una confusione simbolica dovuta a semplificazione, ignoranza e percezione distorta. C’è da ritenere che in coloro che compiono abusi sessuali, l’eccitazione sessuale e l’aggressività non vengano ben distinte l’una dall’altra. Questo dipende sia dalle convinzioni presenti nell’ambiente culturale di provenienza (ad es. nelle fasce sociali più emarginate gli episodi di violenza sono frequenti e tollerati), sia da convinzioni elaborate a livello personale. In genere l’abusatore è una persona ostile che si sente sessualmente rifiutato e che manifesta odio e disprezzo verso le sue vittime. Compiendo l’abuso prova l’eccitazione della vendetta e della sua affermazione personale verso un ‘nemico’ creato dalla sua mente. Non è un caso che molti mariti pratichino gli abusi sessuali verso le loro mogli ritenute ‘colpevoli’ di mancanze nel rapporto coniugale. In Italia l’abuso sessuale è stato tollerato sino a pochissimo tempo fa e i processi per stupro venivano condotti all’insegna del più marcato disprezzo verso la vittima, verso la quale veniva scaricata la responsabilità di aver, in qualche modo, attivato la "naturale eccitazione" del colpevole.

Perché agisce lo stupratore
Le motivazioni psicologiche che sono alla base delle azioni degli stupratori possono essere diverse, pur conducendo tutte a manifestazioni di violenza che possono avere esiti drammatici.
Uno stupratore può agire:
-per rabbia:Nell’atto dello stupro, l’agente manifesta e scarica impulsivamente sensazioni di rabbia e frustrazione che possono avere origine da rapporti problematici con donne diverse da quelle della vittima effettiva (la madre, la moglie, la compagna). In questi casi, difficilmente lo stupratore prova un vero e proprio piacere sessuale compiendo lo stupro, ma riesce a liberare la rabbia repressa attraverso un atto di violenza la cui intensità può essere persino superiore al necessario
-per dominazione:I sentimenti di vulnerabilità e di impotenza dello stupratore vengono compensati da un atto di sottomissione della vittima, che viene messa in condizione di essere totalmente alla sua mercé, senza alcuna possibilità di ribellarsi. Al contrario di quanto accade nello stupro motivato da sentimenti di rabbia, in questi casi gli stupri sono perlopiù premeditati dall’aggressore
-per sadismo:Sia la rabbia che la dominazione vengono ”liberati” attraverso il piacere sessuale che prova l’aggressore nel brutalizzare, quasi sempre premeditatamente, la sua vittima.
-per opportunità:L’aggressore, che in ogni caso cova uno dei sentimenti sopradescritti, agisce in conseguenza delle opportunità che gli vengono profilate, ad esempio durante una rapina o un furto.

 

  • La pedofilia

Come abbiamo visto, il Codice Penale Italiano punisce chi compie atti di natura sessuale su minori di 14 anni o su minori di 16 quando essi siano sotto la tutela di chi compie gli atti.
Gli atti sessuali compiuti verso un bambino, a prescindere che ci sia violenza o meno, rappresentano un grave crimine che segna pesantemente l’esistenza futura di chi ne sia vittima. Nei primi anni di vita e durante l’adolescenza, le esperienze si fissano stabilmente nella nostra identità, condizionando tutto il suo futuro affettivo e sessuale. Va inoltre sottolineato che, se l’abuso sessuale verso persone adulte può essere visto con maggior indulgenza in alcune culture primitive e maschiliste, l’abuso di bambini è universalmente condannato, il che mette l’abusatore in una condizione di perfetta e totale consapevolezza rispetto al crimine che sta compiendo. Molti pedofili si giustificano definendo la loro condizione ‘una malattia’. Questo è sicuramente vero, ed è provato che la maggior parte di loro sono persone che da bambini hanno subito le stesse violenze che infliggono alle loro vittime. Tuttavia c’è da chiedersi come mai, invece di curarsi spontaneamente, sino a che restano impuniti continuano le loro azioni. Anche nel caso dei pedofili ci troviamo di fronte ad una confusione tra delirio di potere ed eccitazione sessuale, ma in maniera molto più grave di quanto avviene nei violentatori di adulti: non è un caso che le rare volte in cui i bambini tentino di sottrarsi alle sevizie, vengano quasi sempre uccisi. La pedofilia è, al tempo stesso, un crimine ed una grave malattia sociale. Chi se ne rende colpevole deve essere isolato e messo in condizione di non nuocere. La società deve reagire a questo male che si porta dietro sviluppando tutte le misure educative e preventive verso le famiglie e l’ambiente scolastico. Va ricordato che l’80% dei casi di violenza sessuale su minori avviene tra le mura domestiche, da parte di genitori, zii, amici di famiglia e simili, mentre non sono pochi i casi in cui il crimine viene commesso da educatori, insegnanti, personale di collegi e istituti, ecc. Le grida allarmistiche lanciate nell’ultimo anno in Italia con toni esaltati e intenti criminalizzatori di qualsiasi manifestazione di sessualità, di fatto servono solo a creare il mito dei ‘mostri’, lasciando credere che essi si annidino nei giardini pubblici o su Internet mentre si stia al sicuro solo in famiglia. In realtà le campagne sessuofobiche di ispirazione clericale, servono solo ad intorbidire le acque e bloccare qualsiasi analisi consapevole dei problemi della sessualità, ed è proprio in queste torbide acque che il crimine sessuale si nasconde meglio e può colpire indisturbato.

5) In famiglia e nel rapporto di coppia sottoforma di Violenza familiare.  Le formi più comuni di violenza familiare sono la violenza agita all’interno del rapporto di coppia e l’abuso sessuale intrafamiliare sui minori.
Mentre le informazioni fornite dai media insistono soprattutto sui casi di violenza extrafamigliare, in realtà il problema più grave e più frequente è rappresentato dalla violenza sessuale intrafamiliare. Si tratta dell'aspetto più importante per diversi motivi:
- E’ quello meno denunciato alle autorità giudiziarie;riguarda prevalentemente i bambini;
- Coinvolge molte donne che vengono abusate dai loro partners;
- La violenza sessuale intrafamilare è quella che può provocare i danni psicologici più seri e duraturi.
Il maltrattamento familiare è la causa che il codice penale individua come insieme di atti lesivi protratti nel tempo " Il delitto di maltrattamenti in famiglia è costituito da una condotta abituale che si estrinseca in più atti lesivi realizzati in tempi successivi ma collegati da vincoli di abitualità e da una unica intenzione criminosa di ledere in modo sistematico l'integrità fisica ed il patrimonio morale  della vittima"ART. 570 C.P.
Con "violenza familiare" s'intendono quelle violenze che accadono generalmente all'interno della casa e vengono agite da persone con cui normalmente si convive; queste, nella grande maggioranza dei casi, sono uomini: padri, mariti, fidanzati, conviventi, ex partner, fratelli, figli.
La violenza domestica si presenta generalmente come una combinazione di violenza fisica, sessuale,psicologica,economica e a volte spirituale.
La violenza agita dal partner all'interno della famiglia si presenta come l'insieme di comportamenti che tendono a stabilire e a mantenere il controllo sulla donna e a volte sulle/i figlie/i. Si tratta di vere e proprie strategie finalizzate ad esercitare potere sull'altra persona, utilizzando modalità di comportamento diverse come ad esempio l'uso di violenza fisica, oppure le minacce, gli insulti, la svalorizzazione, la denigrazione. Il potere e il controllo può essere esercitato anche attraverso la costrizione all'isolamento, il divieto di disporre di risorse economiche,l'obbligo a rapporti sessuali non voluti.
Tutte queste, sono forme di violenza diverse ma fra loro strettamente connesse e vengono usate per controllare e condizionare le azioni della donna con il risultato dell'instaurarsi di un clima costante di tensione, di paura e di minaccia.
In genere la violenza si insedia all'interno della coppia in una maniera progressiva ma la crescita della violenza stessa non viene vista dall'interno; infatti spesso è col tempo che la donna si accorge che questa crescita esiste. All'inizio spera che le minacce, le aggressioni e le violenze costituiscano un fatto isolato, inoltre l 'autore di violenza, se da una parte cerca di convincere la donna che la colpa è sua dall'altra fa continue promesse di cambiare. A questo punto la donna si sente responsabile del comportamento del suo convivente, sporgere denuncia equivarrebbe a tradirlo e ciò la induce a mantenere il segreto. Molte donne picchiate infatti continuano a sostenere il loro aggressore e questo indica legami affettivi di dipendenza, di introiezione di modelli gerarchici e tradizionali fortemente assimilati.
Ma in genere la violenza si aggrava e la sua frequenza tende ad aumentare col tempo.
La donna, così, perde sempre più fiducia e stima in se stessa; credere infatti che la situazione non possa cambiare porta la donna a vivere sentimenti di umiliazione, perdita di identità e la sensazione di non potersi sottrarre al potere dell'altro.
Subire violenza è quindi un'esperienza traumatica che produce effetti diversi a seconda delle persone che ne sono vittima. Ciascuna donna reagisce ad essa in modo diverso, ma tutte soffrono della situazione di isolamento e indifferenza sociale. Conoscerne le conseguenze può aiutare a capire perché una donna si comporta o reagisce in un certo modo.
La violenza domestica produce, come ogni evento traumatico, cambiamenti profondi e a lungo termine che portano al venir meno dell'equilibrio interiore. L'immagine di sé è caratterizzata da un senso di impotenza ed incompetenza, dal considerarsi non meritevoli dell'affetto producendo così un basso livello di autostima e molta insicurezza. Il desiderio più grande è che la violenza finisca ma questo si accompagna spesso a sentimenti molto ambivalenti.
Gli effetti della violenza domestica sulle donne
La donna che subisce violenze domestiche richiede interventi sanitari in misura molto maggiore delle altre donne; spesso è costretta a recarsi dal medico o al Pronto Soccorso perché é stata ferita o ustionata, perché ha lividi, fratture, lesioni, perché ha contratto dal partner, marito o compagno, malattie veneree o per abortire, a seguito di violente aggressioni fisiche.
Vive nella paura continua di sbagliare, di dire o fare qualcosa che possa scatenare la reazione violenta del maltrattatore; si sente insicura e indifesa.
nella propria casa; é perennemente in ansia per sé e per i propri figli; ha disturbi del sonno e della digestione.
Gli insulti, le offese, le umiliazioni, le minacce, che spesso precedono o accompagnano la violenza fisica, intaccano giorno dopo giorno la stima di sé, la portano a essere passiva, incapace di prendere decisioni, a cadere nella depressione o a pensare al suicidio; anche queste sono “ferite” che devono essere curate e che richiedono interventi specialistici e tempi lunghi per essere rimarginate.
Alcune cercano di minimizzare o negare il problema; altre ricorrono all’uso di alcool o droghe per tentare di sopravvivere alla sofferenza e al dolore di una vita personale e familiare distrutta.
A tutto questo si sommano spesso danni materiali: molte donne hanno rinunciato ad un’occupazione fuori casa per accudire ai figli, altre devono
frequentemente assentarsi dal lavoro o addirittura lasciarlo - a seguito di attacchi particolarmente violenti o perché insultate e minacciate anche di fronte a colleghi o datori di lavoro - e si ritrovano così totalmente dipendenti dal partner, escluse, limitate o controllate nell’uso del denaro a disposizione in famiglia.
Se poi decidono di separarsi, alla sofferenza e al dolore per una relazione fallita e finita, si aggiungono le difficoltà materiali per pagare le spese di una separazione (che in una situazione di violenza può essere lunga e difficile), per far fronte a impegni economici non voluti, spesso assunti sotto minacce o costrizioni, per trovare o ri-trovare lavoro, con la prospettiva reale di perdere il tenore di vita precedente.
Ciascuna donna reagisce in modo diverso, ma tutte soffrono della solitudine e dell’indifferenza sociale: spesso non vengono credute, perché il loro partner, fuori della famiglia, è una persona “normale”, insospettabile, perdono le loro amicizie, si sentono sole, piene di dubbi, di vergogna e di sensi di colpa.
Gli effetti della violenza domestica sui figli
Assistere a episodi di violenza del padre contro la madre è per un/a bambino/a un’esperienza traumatica, da cui viene segnato/a profondamente. Può essere ferito/a nel tentativo di proteggere la madre o può essere vittima diretta della violenza.
Ma anche quando non viene coinvolto/a direttamente, vive nell’incertezza, nella tensione, nella paura; non capisce che cosa stia accadendo, si sente impotente e spesso pensa di essere la causa della violenza. Anche se non è detto che diventerà un/a adulto/a che esercita o subisce violenza, è dai genitori che impara come muoversi nel mondo
come comportarsi con gli altri: a volte si identifica col padre maltrattante, perché percepito più forte e tende a disprezzare la madre; a volte si assume responsabilità da adulto/a, cercando di proteggere la madre o i fratelli dalle aggressioni.
Ciascuno/a reagisce in modo diverso, a seconda della frequenza e dell’intensità degli attacchi, della sua età e del suo sesso, ma l’aver assistito, magari nella stessa stanza, alla violenza del padre contro la madre, avrà gravi, indelebili conseguenze sul suo sviluppo emotivo e cognitivo.
Alcuni esprimono rabbia e aggressività: è così che hanno imparato a reagire
ai conflitti. Altri si chiudono in se stessi, si isolano e diventano eccessivamente passivi: è così che hanno imparato a evitare le esplosioni di violenza. Hanno problemi di sonno, disturbi dell’alimentazione, difficoltà a scuola.
Per gli adolescenti, poi, la conquista dell’autonomia e la capacità di controllare le proprie emozioni diventano estremamente difficili in un contesto di violenza familiare: i ragazzi e le ragazze possono cercare di fuggire dalla situazione e dai problemi con l’uso di alcol e droghe o con matrimoni e gravidanze precoci, o rifiutare la scuola, o comportarsi in modo aggressivo fino alla delinquenza; possono soffrire di ansia e depressione ed arrivare a pensare al suicidio.
La violenza domestica, insomma, priva i figli di un ambiente sicuro in cui giocare, crescere e vivere serenamente la propria infanzia e la propria adolescenza.

ABUSO SESSUALE INTRAFAMILIARE SUI MINORI La maggior parte di questi abusi sono effettuati dai padri, seguiti dai parenti conviventi nel nucleo famigliare, ed infine - anche se raramente se ne parla - il 7% dei casi è rappresentato dalle madri.
Un abuso sessuale, che sia avvenuto nella famiglia oppure causato da sconosciuti, è una ferita intima che può dare origine a molti problemi. La ricerca sostiene che le situazioni che possono causare i maggiori disturbi sono caratterizzate dalle seguenti caratteristiche: un legame intenso con l'abusatore; una lunga durata dell'abuso (per esempio, molti anni); l'abuso resta nascosto o non viene riconosciuto dall'ambiente familiare; la persona abusata non ha occasione di potere parlare dell'accaduto; la persona abusata è ancora un bambino.

  • Quali problemi può generare

Le risorse dell'individuo, unitamente al sostegno delle persone care e ad opportune condizioni di vita possono, come per ogni trauma, condurre al superamento graduale della ferita subita. In una percentuale significativa di casi, molto difficile da stimare con precisione, l'abuso sessuale genera però problemi di lunga durata o cronici.
L'abuso sessuale è un trauma, e come tale può dare origine ad un serio problema come il Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD). I ricordi, sotto forma di immagini, sensazioni, parole, odori, sapori, incubi notturni possono ritornare frequentemente alla mente della persona abusata, con emozioni fortemente disturbanti come angoscia, panico, depressione o rabbia. Nella maggior parte dei casi la persona abusata cerca di tenere a distanza i ricordi fonte del dolore. Non è raro che, almeno in alcuni periodi della vita, la persona abusata abbia amnesie complete o parziali per i fatti avvenuti. È come se una persona avesse a che fare con ricordi "indigesti", che continuano a ritornare e con i quali bisogna lottare.

  • Altri problemi associati al disturbo sessuale

 L'abuso sessuale è un trauma particolare perché, oltre ai sintomi più tipici che nascono in seguito ad un trauma (vedi la scheda sul PTSD presente in questo sito), può causare problemi in altre aree della vita di una persona. Si dice, infatti, che sia un fattore di rischio "non specifico", e cioè un evento che aumenta la probabilità che una persona possa incorrere in molti disturbi psicologici, senza che nessun disturbo in particolare sia però associato all'abuso sessuale.
Alcuni dei problemi più tipici associati all'abuso sessuale sono i seguenti:
- Tradimento: se l'abuso sessuale è avvenuto all'interno dei muri di casa, specialmente se si era bambini, le persone abusate portano spesso con sé un senso di profondo tradimento arrecato loro dalla persona che si sarebbe dovuta occupare di loro; questo può comportare un profondo senso di sfiducia e di diffidenza nei confronti delle persone.
- Autostima: la persona che ha subito un abuso sessuale può avere un senso di autostima cronicamente basso, a dispetto delle sue reali capacità e caratteristiche. È come se si sentisse "marchiata" da un'esperienza della quale non ci si può liberare e che difficilmente si può condividere con qualcuno. Questo genera profondi sentimenti di impotenza. Quando l'abuso è stato intrafamiliare e non c'è stata violenza fisica, la persona abusata può avere anche fortissimi sensi di colpa e di indegnità a causa della convinzione, errata, che, poiché nessuno l'ha costretta fisicamente, allora lei era pienamente consenziente. Ma un bambino non è responsabile di qualcosa che non è in grado di valutare nel suo reale significato e nelle sue reali conseguenze.
- Problemi sessuali: nell'abuso sessuale intrafamiliare l'iniziazione alla vita sessuale esordisce all'interno di un clima insano, all'interno di rapporti inadeguati, con violenza psicologica. Questo può generare molti problemi, come l'evitamento della vita sessuale, una vita sessuale caratterizzata da problemi e disturbi (difficoltà o impossibilità di raggiungere l'orgasmo, assenza di sensazioni piacevoli, presenza di sensazioni dolorose durante i rapporti, una vita sessuale permeata da sensi di colpa, di sporcizia, angoscia e paura, ma anche una sessualità promiscua fonte di insoddisfazione e conflitti), una difficoltà ad identificarsi con un genere sessuale ben preciso, un comportamento omosessuale di ripiego a causa della paura nei confronti delle persone dello stesso sesso dell'abusante. Possono essere presenti gli stessi problemi anche se l'abuso sessuale è avvenuto in età adulta e per causa di estranei.
- Depressione, ansia e panico: sono un sintomo frequente. Quando l'abuso è stato vissuto in tenera età, questi sintomi possono diventare cronici, quasi come una seconda natura della persona abusata, che si abitua a sentirsi in questo modo.
Le persone che hanno subito abusi sessuali hanno, più frequentemente della media, sintomi psicosomatici, disturbi del comportamento alimentare come anoressia e bulimia, abuso di sostanze (alcol, farmaci, stupefacenti), una ridotta capacità nel controllo della rabbia e dell'aggressività, difficoltà significative nei rapporti interpersonali
6) Nelle guerre ,comeviolenza negli stadi, ecc; sottoforma di  Violenza distruttiva.
7) Negli sport come Violenza ludica: Questo tipo di violenza viene esercitata dall’uomo non per distruggere, bensì per dimostrare nelle competizioni sportive, abilità, forza muscolare e destrezza, come già avveniva nei giochi guerreschi dai quali in effetti alcuni sport di “combattimento” oggi derivano.
Nello zen buddista, ad esempio, era importante ed educativo l’insegnamento all’agilità nei movimenti del corpo e a non rimanere nel punto sbagliato per evitare così di essere colpito o ucciso dalla spada dell’avversario.
Negli sport odierni che prevedono il combattimento sportivo, l’obiettivo non è certo quello di uccidere, ma di colpire l’antagonista,  ad esempio con i pugni nel pugilato,  nel rispetto delle regole sportive (categorie, gesti tecnici, uso di guantoni, etc.) e quindi impegnarsi e concentrarsi per vincere l’incontro agonistico. Comunque, dietro la logica del gioco sportivo che insegna anche a gestire l’aggressività, si potrebbero nascondere sia nell’uomo sia nella donna, inconsce tendenze distruttive.
Tuttavia si ritiene che la pratica dell’attività motoria e sportiva potrebbe avere, oltre l’aspetto tecnico e formativo, anche quello di valvola di sfogo da eventuali tensioni psicofisiche provocate dallo stress a seguito di frustrazioni vissute in famiglia, nel lavoro, o nella vita di ogni giorno; pertanto allo sport va riconosciuta un’importante funzione ed occasione liberatoria sia per chi lo pratica in modo attivo sia per coloro che come spettatori, assistendo agli incontri sportivi, possono vivere emozioni ed esprimere così, gioia, dispiacere, rabbia… “tifando” a favore o contro atleti, giocatori, arbitri e squadre. 
Nella violenza ludica prevale quindi una forma di aggressività positiva ed accettabile rispetto a quella negativa presente allo stadio nel “braccio armato” della tifoseria, rappresentato dagli ultras. 

 

 

IL MOBBING

 

 INTRODUZIONE
Lo stress è una condizione di adattamento dell'individuo agli stimoli di diversa natura provenienti dall'ambiente esterno (stressor) che, se protratta nel tempo, può evolvere in malattia. Infatti, l'esposizione cronica ad agenti di natura chimica, fisica e psicosociale è in grado di agire sull'organismo umano con effetti sia diretti su un singolo organo bersaglio, sia indiretti attraverso l’attivazione cronica di circuiti neuro-endocrini e la successiva dis-regolazione che può influire su diverse funzioni o apparati come il metabolismo, l'apparato cardiocircolatorio, l'apparato gastroenterico, il SNC, il sistema immunitario, la psiche, ecc.
La cattiva organizzazione del lavoro rappresenta uno dei principali fattori di origine lavorativa causa di patologie stress-correlate, con costi elevati in termini salute dei lavoratori, di giornate lavorative perse e quindi di produttività.
Nell'elenco aggiornato delle malattie professionali per le quali vige l'obbligo di denuncia (1) sono state inserite per la prima volta, tra quelle a probabile origine lavorativa, le malattie psichiche e psicosomatiche da disfunzioni dell'organizzazione del lavoro o «costrittività organizzative». Tra i fattori di origine organizzativo identificati come un rischio per la salute dei lavoratori figurano, tra gli altri: l'emarginazione dalle attività lavorative, il demansionamento e l'inattività forzata (ma anche l'eccessivo carico di lavoro), le forme di controllo esasperato, i trasferimenti ripetuti e ingiustificati. Tutte queste condizioni ben si adattano ad un fenomeno in continua crescita nei paesi industrializzati, noto con il termine di mobbing. Pertanto, occorre ribadire che il mobbing non è una malattia, ma l'insieme di stressor di natura psicosociale e di origine lavorativa che se perduranti nel tempo sono in grado di portare ad una malattia da stress. Considerato che, alla luce del Decreto del Ministero del Lavoro 27 aprile 2004, qualunque medico che faccia diagnosi di malattia correlata al mobbing, anche se solo sospetta, oggi è obbligato a fare le denunce obbligatorie per legge tra cui quella all'INAIL, appare evidente l'importanza di una definizione e classificazione chiara del fenomeno al fine di una corretta prevenzione ed eventualmente del riconoscimento del nesso lavorativo in caso di danno accertato.
 
DEFINIZIONE
Si deve a due psicologi (psicologi dell’organizzazione aziendale) Heins Leymann svedese e Harald Ege tedesco la diffusione del concetto di Mobbing rispettivamente in Svezia e  Germania sin dal 1984 ed in Italia nel 1995.
Il termine Mobbing deriva da quello inglese “to mob”, che vuol dire aggredire, accerchiare, assalire in massa, malmenare; ed è stato usato da K. Lorenz proprio per descrivere il comportamento di alcuni animali che si coalizzano contro un membro del gruppo, lo attaccano, lo isolano, lo escludono dal gruppo, lo malmenano fino a portarlo anche alla morte. In pratica è la condizione in cui vengono a trovarsi gli esseri umani sofferenti per Mobbing o come  Leymann ed Hege riportano per "terrore o violenza psicologica sul luogo di lavoro”. Ossia una modalità di comportamento volta al malessere della vittima designata, finalizzata a destabilizzarla, a farle perdere l’autocontrollo, ed il benessere psicofisico, con conseguente allontanamento / dequalificazione dal/nel posto di lavoro
Il mobbing viene spesso descritto come un fenomeno di dimensioni crescenti in tutta Europa e anche in Italia, pur non avendo ancora una chiara definizione comune in tutti i Paesi. Proprio per questo motivo, nel nostro Paese, il Dipartimento della Funzione Pubblica ha istituito una Commissione, che ha completato i lavori, di analisi e studio delle cause e delle conseguenze dei comportamenti vessatori nei confronti dei lavoratori  con il compito di dare una definizione precisa del fenomeno e di individuare i principali provvedimenti e le proposte da attuare per migliorare l'ambiente di lavoro e le condizioni di salute psico-fisica del lavoratore.
Il fenomeno della violenza morale o psichica in occasione di lavoro viene descritto dalla Commissione come segue: «Atti, atteggiamenti o comportamenti di violenza morale o psichica, in occasione di lavoro, ripetuti nel tempo in modo sistematico o abituale, che portano a un degrado delle condizioni di lavoro, idoneo a compromettere la salute o la professionalità o la dignità del lavoratore». Questa definizione contiene alcuni parametri necessari per attribuire ad azioni vessatorie in ambito lavorativo la definizione di mobbing, come la durata e la frequenza dei soprusi che non devono essere isolati ma «ripetuti nel tempo, sistematici e abituali». Nella «violenza morale o psichica» è insito l'intento persecutorio o la volontà di ledere.
La definizione formulata da Heinz Leymann , lo psicologo svedese che si può considerare a tutti gli effetti lo «scopritore» del mobbing, per averlo fatto emergere a livello internazionale e avergli dato rilevanza sociale, è la seguente: «Una forma di terrorismo psicologico che implica un atteggiamento ostile e non etico posto in essere in forma sistematica  - e non occasionale ed episodica - da una o più persone, nei confronti di un solo individuo il quale viene a trovarsi in una condizione indifesa e fatto oggetto di una serie di iniziative vessatorie e persecutorie. Queste iniziative debbono ricorrere con una determinata frequenza (statisticamente almeno una volta alla settimana) e nell'arco di un lungo periodo di tempo (per almeno sei mesi di durata). A causa dell'alta frequenza e della lunga durata del comportamento ostile, questa forma di maltrattamento determina considerevoli sofferenze mentali, psicosomatiche e sociali».
Per Leymann nel processo  Mobbing devono essere studiati sei fattori: 1) organizzazione del lavoro, 2) direzione del lavoro, 3) mansioni sul lavoro, 4) dinamica sociale del gruppo, 5) teorie di personalità, 6) eccessiva psicologizzazione. Inoltre vanno studiati i fattori  attivati dallo stesso processo, come a) Comunicazione, b) Reputazione, c) Prestazioni; e le quattro fasi con cui il Mobbing si manifesta, permettendo lo sviluppo di evidenze comportamentali, cliniche e sociali.
1° fase: inizio del conflitto e dell’attacco; la vittima prova disagio.
2°fase: aumenta il conflitto, le ostilità diventano più frequenti e più gravi, subentra il “terrore psicologico”: se le aggressioni perdurano per più di un anno lo stato d’ansia può cronicizzare.
3°fase: la gestione del personale commette errori ed irregolarità con negazione dei diritti della vittima; i superiori addossano la colpa alla vittima che si sente sempre più male.
4°fase: dequalificazione delle mansioni, trasferimenti, cui consegue malattia anche di lunga durata, per cui il mobbizzato viene escluso dal mondo del lavoro e dopo un certo periodo di tempo o dà le dimissioni o viene licenziato.
Leymann ha anche elaborato un Questionario composto da 45 items  in 5 sezioni: 1) attacchi alla possibilità di comunicare, 2) attacchi alle relazioni sociali, 3) attacchi alla immagine sociale, 4) attacchi alla qualità della condizione professionale e privata, 5) attacchi alla salute; in cui si evidenziano le principali caratteristiche del Mobbing:
-         stillicidio lento di persecuzioni, attacchi, umiliazioni;
-         continuità delle aggressioni che perdurano nel tempo;
-         intensificazione progressiva degli attacchi;
-         forza devastante rappresentata dalla lunga durata;
-         esito in isolamento, emarginazione, disagio ed infine malattia.
 
Inoltre secondo Leymann per parlare di Mobbing “il processo del terrore” deve verificarsi almeno una volta la settimana per un minimo di sei mesi, ciò in quanto, in genere, l’evoluzione del Mobbing é estesa nel tempo, lenta ma inesorabile; inoltre sostiene sempre Leymann dovrà anche essere ben studiata la personalità ed il temperamento sia del mobber, colui che attua il Mobbing, sia quella della vittima, ossia del mobbizzato, anche per comprendere meglio la scelta della vittima e le diverse strategie provocatorie.
Ancora proseguendo le sue ricerche Leymann ha potuto  differenziare il Mobbing dai  problemi di lavoro, che possono comportare stress, senza che questo sia riconducibile a Mobbing; ed ha messo in  evidenza che per parlare di Mobbing devono verificarsi alcune delle seguenti condizioni:
-    all’improvviso spariscono o si rompono, senza che siano sostituiti, strumenti di lavoro come telefoni, computer, lampadine, ecc. ;
-   i litigi o dissidi con i colleghi sono sempre più frequenti;
-   gli viene messo vicino un accanito fumatore, pur sapendo che il soggetto detesta il fumo;
-   la conversazione generale si interrompe bruscamente quando entra in una stanza;
-  viene escluso da notizie ed informazioni utili per il suo lavoro;
-  apprende che girano pettegolezzi infondati sul suo conto;
-   gli vengono affidati da un giorno all’altro incarichi inferiori alla sua qualifica o estranei alle sue competenze;
-  viene sorvegliato ogni giorno di più nei minimi dettagli ( come orari di entrata ed uscita, telefonate, tempo trascorso per il caffè);
-    riceve rimproveri eccessivi per piccolezze;
-    le sue richieste verbali e scritte non ottengono alcuna risposta;
-    i superiori o i colleghi lo provocano per indurlo a reagire in modo incontrollato;
-    risulta escluso da feste aziendali o da altre attività sociali;
-    viene preso in giro per l’aspetto fisico o l’abbigliamento;
-   tutte le sue proposte sono rifiutate senza valide motivazioni;
-  è retribuito meno di altri colleghi che hanno incarichi di importanza minore;
e cosi’ via altre innumeri azioni di questo tipo. 

 
LE DIMENSIONI DEL FENOMENO
Secondo una recente indagine della Fondazione di Dublino per il Miglioramento delle Condizioni di Vita e di Lavoro condotta per conto dell'Unione Europea (4), l’ 8% dei lavoratori della Comunità, corrispondente a 12 milioni di casi, riferisce di essere stato vittima del mobbing sul posto di lavoro. L'analisi dei risultati sulla base delle risposte soggettive, condotta paese per paese, evidenzia le percentuali più elevate nel Regno Unito (16,3%), in Svezia (10,2%), in Francia (9,9%), in Irlanda (9,4%) e in Germania (7,3%); l'Italia con il 6,0% precede Spagna, Belgio e Grecia.
In Italia il fenomeno del mobbing, in gran parte ancora sommerso, coinvolge direttamente oltre un milione di lavoratori, su oltre 21 milioni di occupati (il 4% della forza lavoro), è più diffuso nelle regioni del Nord (65%), con prevalenza tra i quadri e i dirigenti, con età media di 43 anni, in particolare nel settore pubblico ed in quello dei servizi. Tra le tipologie di lavoro più colpite, in testa risulta il settore dei servizi (38%) seguito dalla Pubblica amministrazione (22%), quindi da scuola ed università (12%), ospedali (8%), commercio (3%) e agricoltura (2%) (5).
 
LE TIPOLOGIE DI MOBBING
Le diverse tipologie di mobbing sono: il Bossing, il Mobbing orizzontale, verticale o trasversale. Esse possono essere classificate, a seconda delle motivazioni che spingono gli aggressori, nella forma relazionale e in quella strategica.
Il Mobbing relazionale è relativo ai rapporti interpersonali, e può essere di tipo cognitivo quando è in prevalenza inerente alle strategie di potere, dove il “divide et impera” (dividere per imporre meglio il proprio potere) diventa governo abituale adatto ad aizzare le persone le une contro le altre, provocando invidie e gelosie, per poi squalificarne alcune o destabilizzarle altre rifiutando o travisando la comunicazione diretta, mentendo ed inviando “doppi messaggi” (in modo che la vittima qualsiasi cosa fa sbaglia). Oppure di tipo emozionale quando è in prevalenza legato ai tratti di personalità. Il conflitto iniziale può nascere anche da banali divergenze di opinione, da gelosie, rivalse, competizione, preferenze e favoritismi del capo, ma anche da differenze di razza, religione o cultura o, più semplicemente, da diversi stili e condotta di vita (per esempio, abbigliamento, acconciatura, ecc) ed è indirizzato ad estromettere il soggetto dal processo lavorativo, per bloccargli la carriera, toglierli potere; renderlo  impotente ed inaffidabile. Nella forma emozionale le caratteristiche di personalità del mobber e della vittima giocano un ruolo senz'altro importante, in questi casi il Mobber può essere affetto da Disturbo Narcisistico di Personalità “Narcisismo maligno o perverso” o da Disturbo Paranoie di Personalità.
Il mobbing di tipo emozionale può avvenire tra singole persone a causa di relazioni interpersonali conflittuali; può avvenire tra colleghi di pari grado ed in tal caso prende il nome di mobbing orizzontale ma più frequentemente si verifica tra capo e sottoposto/i, mobbing verticale, sia dall'alto, ossia da un superiore verso i sottoposti, che dal basso, quando l'autorità di un capo viene messa in discussione dai sottoposti.. I Co-mobber sono coloro che affiancano il Mobber o partecipano senza intervenire personalmente, ma solo acconsentendo e godendo tacitamente, (soggetti anche loro perseguibili giuridicamente). Il Mobbing trasversale riguarda anche persone al di fuori del luogo di lavoro, che in sintonia con il Mobber, che ha messo il veto sul nome del dipendente, possono creare ulteriore emarginazione e discriminazione , quando questi cerca appoggio o cerca di farsi apprezzare in altri luoghi si vede, invece, togliere il saluto ed altrettante porte sbattute in faccia.
Il Mobbing strategico può essere presente nelle Imprese, Industrie, Aziende, Enti, dove esistono condizioni di instabilità e/o cambiamenti con riduzione e/o riqualificazione di personale, o troppi dirigenti in posizione intermedia che devono avanzare di grado, ed è attuato intenzionalmente (VOLUTO E PILOTATO)come strategia aziendale per allontanare definitivamente dal mondo del lavoro dipendenti considerati scomodi o non più necessari all’azienda: dipendenti appartenenti ad altre gestioni, o che lavorano in reparti da dismettere, o soggetti da riqualificare o ritenuti costosi per la nuova organizzazione, o solo indesiderati perché nella strategia prefissata altri devono fare carriera.
Sebbene gli atti di violenza fìsica e le molestie sessuali non costituiscano mobbing, possono, però, rappresentarne la fase preparatoria: le «attenzioni» da parte di un dirigente verso una dipendente, se rifiutate, possono innescare reazioni vessatorie di tipo morale a sfondo sessuale rappresentate da calunnie, voci, battute, apprezzamenti, allusioni e diffamazioni sulle abitudini sessuali della vittima
Se il Mobbing viene attuato dal diretto superiore o dai vertici dell’Ente, viene detto Bossing, ed il dipendente viene deliberatamente allontanato dal posto di lavoro mediante una precisa strategia; oppure il dipendente  viene man mano estromesso da ogni possibilità di crescita nel lavoro, potendo anche rimanere in servizio per tutta la sua vita lavorativa, in quanto l’importante è averlo reso impotente, in modo tale che altri possano andare avanti.  
Il mobbing spesso viene confuso con un altro fenomeno dalle caratteristiche simili ma con peculiarità specifiche: il bullismo. Si tratta di un fenomeno che si manifesta tra i giovani a partire già dall'infanzia, definito come una forma deliberata di prepotenza o arroganza portata avanti da una o più persone con l'intento di provocare danno alla vittima, che si manifesta con comportamenti di terrorismo psicologico come l'uso di appellativi ingiuriosi, il mettere in giro calunnie finalizzate all'esclusione sociale, costantemente associati ad aggressioni fisiche come calci, pugni, estorsione di denaro, ecc.
 

 
LE CAUSE DEL MOBBING
Profilo psicologico delle persone coinvolte
A partire dalla seconda metà degli anni '70, sono stati condotti numerosi studi finalizzati a trovare una correlazione tra la personalità delle persone coinvolte (aggressore/vittima/spettatori) e il rischio di mobbing. Sebbene alcuni tratti di personalità sembrano ricorrere con maggiore frequenza soprattutto tra le vittime, non sempre è facile capire se questi siano antecedenti o piuttosto la conseguenza delle violenze subite. Inoltre, considerato che in molti casi alla base del fenomeno c'è una precisa strategia aziendale, ad esempio di esubero o ringiovanimento del personale, la personalità della vittima perde di importanza. Quindi è corretto affermare che chiunque, in qualsiasi organizzazione e situazione lavorativa può essere vittima del mobbing, anche se alcune caratteristiche psicologiche individuali sembrano favorire la comparsa e l'andamento del mobbing.
Il mobbizzato
La vittima designata può essere una persona con buone capacita’ innovative e creative, che si dedica molto e con passione al lavoro, che vorrebbe un ottimale gestione delle risorse umane ed una migliore organizzazione del lavoro; oppure persona con scarse capacita’ lavorative o portatore di handicap o soggetti particolari per tratti socio culturali, abitudini di vita, preferenze sessuali, o persone che rimangono estranee a traffici illeciti dell’Ente o dei colleghi. O semplicemente persona che viene considerata più debole, rispetto ai colleghi che devono fare carriera, magari perché è donna senza appoggi politici o sponsor di famiglia o di economia. Oppure perché presenta tratti di personalità che pur essendo normali non sono sufficienti in un ambiente eccessivamente competitivo e/o con clima malato, come ad esempio scarsa aggressività o assertività o comportamenti di evitamento o di fuga, o di scarsa flessibilità ed agilità.
La vittima può essere una persona assolutamente equilibrata e sana o portatore di disturbi compensati, o di pregressa psicopatologia o di disturbi conclamati. In questi casi occorre verificare il nesso di  causalità tra l’ambiente lavorativo e la slatentizzazione o la riacutizzazione o il peggioramento dei disturbi attuali per evidenziare se i fattori disfunzionali al lavoro possono essere concause o fattori etiopatogenetici.
La sofferenza  del mobbizzato è, comunque, in ogni caso, sempre grande perché riguarda non solo le perdite materiali e contingenti, ma quelle interiori alla persona come la stima di se stesso ed il valore della propria persona e della sua immagine sociale, che costituiscono il complesso  dell’Identità personale e sociale della persona umana. Per cui il Mobbizzato al di là di tutti i danni soffre perché è colpito nella sua interiorità più profonda. La maggior sofferenza è data dalla mancanza di futuro, mentre la vita stessa è movimento, evoluzione, progressione, il mobbizzato non ha prospettive, non può proiettarsi nel futuro, è bloccato in un lunghissimo momento di impotenza, intrappolato e rattrappito nel presente in una condizione di svilimento in cui  non si può più sperare: sono i prodomi della Depressione, il Disturbo che più frequentemente si manifesta nei mobbizzati, e che a volte può rimanere “sottosoglia” (piccoli sintomi che inficiano il quotidiano, pur senza costituire una patologia conclamata) secondo le possibilità di “compensazione” del malcapitato; per poi, eventualmente, sfociare in seguito in patologie ancora più gravi.

Le vittime di mobbing sono state descritte come ansiose, insicure e con una bassa autostima; sono viste dagli altri come ipersensibili, prudenti, mansueti e non in grado di reagire alle provocazioni; ma anche scrupolosi e puntigliosi sul lavoro; inoltre, le persone che annoiano gli altri, che deludono   le   aspettative, poco competenti o che violano le norme di buona educazione e amicizia possono provocare comportamenti aggressivi negli altri.
Il mobber
La personalità del  Mobber risulta spesso improntata a  narcisismo maligno ed  egocentrismo perverso, o tratti paranoici con senso di grandiosità e connotazioni - risposte vendicative per ogni “saluto” che non ha gradito; gode del male degli altri e lo giustifica con la giusta umiliazione per la presunta superbia o incompetenza della vittima. Soffre della sindrome incontestata da onnipotenza “Io-Dio” con tratti persecutori e sadici ben stratificati e solidi. Per cui necessita  di essere attorniato da persone che lui sente inferiori che non gli pongono problemi e riflessioni, anche quando si tratta di illeciti amministrativi o pecuniari, che lo ammirano e lo assecondano pedissequamente, per confermare la sua convinzione  che a lui è permesso tutto, lui può tutto e tutto gli è dovuto. E spesso non si rende nemmeno conto delle conseguenze nefaste del suo operato anche sul piano  giuridico: civile, penale, amministrativo. Spesso poco creativo e conformista, arrogante, invidioso e geloso dei colleghi di lavoro, che utilizza e sfrutta a suo piacimento senza alcun scrupolo. Può essere di intelligenza media, raramente anche elevata  e nel qual caso l’abilita’ alle strategie perverse ed ai più raffinati giochi di violenza possono portare non solo allo stillicidio lento  e progressivo di persecuzioni ma anche all’omicidio o tentato omicidio.In tutti i casi il Mobber non riesce a vedere mai l’altro come persona distinta da sé, né mai può accettare una relazione autentica, ma solo una parvenza di relazione  fondata solo sul potere,  sul dominio e sul condizionamento e controllo che schiaccia, umilia e degrada l’altro, e lo rende assolutamente dipendente e passivo, distorcendone le qualità personali, solo per il suo piacere, ed il gusto di rovinare  e distruggere l’altro.
In sintesi frequentemente la Personalità del  Mobber risulta relativa ad un Disturbo di Personalità, più spesso di tipo Narcisista, o Paranoie; alle volte con psicosi compensata, alle volte con struttura nevrotica tendente all’aggressività, manipolazione,  dissimulazione e grandiosità.
Gli spettatori
Il terzo attore di questo scenario è costituito dagli «spettatori» che pur non partecipando direttamente al conflitto, attraverso la loro indifferenza lo accettano e contribuiscono ad aggravarne le conseguenze. In genere prendono le distanze dal malcapitato, nel timore di compromettere i loro rapporti col capo che potrebbe attivare forme di rappresaglia contro di loro e privarli dei piccoli benefici di cui possono godere, o, nel caso di mobbing strategico, assistono silenti e distanziati, fortemente in ansia per le loro sorti future. Non sempre si tratta di semplice indifferenza, in alcuni casi, infatti, gli spettatori partecipano attivamente alle persecuzioni sulla vittima diventando dei fiancheggiatori del mobber («side-mobber»).    

Caratteristiche delle relazioni interpersonali in ambiente di lavoro
I conflitti interpersonali fanno parte della vita quotidiana in tutte le organizzazioni e gruppi di lavoro. In alcuni casi, però, il clima sociale sul luogo di lavoro si guasta fino a creare conflitti che possono trasformarsi in violenti scontri tra due o più persone, fino a divenire vere e proprie guerre di fazioni in ufficio, dove la distruzione totale dell'avversario è vista come fine ultimo per guadagnarsi la stima e la fiducia di una parte o di un capo. In questi conflitti di gravità crescente le parti spesso negano il valore umano dell'oppositore, aprendo così la strada ai sabotaggi, alle ritorsioni, fino all'eliminazione e distruzione dell'avversario. Se una delle parti si pone in posizione svantaggiata in questo conflitto, può diventare la vittima delle vessazioni. Sia Leymann  che Einarsen  hanno ipotizzato che i conflitti interpersonali irrisolti possano aggravarsi in mobbing qualora non vengano messi in atto interventi appropriati e strategie di gestione dei conflitti.
Secondo una vasta letteratura di studi, invece, le vessazioni e le aggressioni morali sul più debole sono un meccanismo insito in tutti i tipi di relazione sociale umana, quindi possono essere considerate una caratteristica innata al genere umano. All'origine della cultura umana, all'origine del nostro linguaggio, delle nostre pratiche quotidiane, sta un unico principio, quello del capro espiatorio. La vittima è l'innocente che catalizza l'odio, l'invidia e i risentimenti della comunità e catalizza lo sfogo e le proiezioni di impulsi inaccettabili, di conflitti e di colpe, rivestendo, in questo modo, un ruolo sociale necessario nelle organizzazioni e nei gruppi di lavoro. L'accentramento dell'aggressione sul capro espiatorio, infatti, alleggerisce la tensione e il conflitto all'interno del gruppo di lavoro. Si tratta di una vittima sacrificale, vittima di una comunità in crisi che non sa riconciliarsi se non a spese del terzo. Questa teoria antropologica considerando il mobbing come il risultato inevitabile di conflitti insiti nei gruppi di lavoro offre un punto di vista pessimistico sulla possibilità di eliminare il mobbing nelle organizzazioni umane.
Lo psicologo tedesco Harald Ege , che da circa dieci anni fa ricerche sul fenomeno del mobbing in Italia, ha elaborato un modello a sei stadi, tenendo conto delle peculiarità del mondo del lavoro nel nostro paese. La «Condizione Zero» è la fase da cui origina il mobbing conclamato. Si tratta di una condizione di conflittualità generalizzata all'interno dell'azienda o di qualsiasi altro luogo di lavoro, ma senza che vi sia ancora una vittima definita. È una condizione che può trovarsi più o meno frequentemente nella realtà lavorativa italiana, dove un certo livello di ostilità nei rapporti interpersonali è considerato fisiologico e tollerato. Il mobbing vero e proprio inizia quando si stabilisce un conflitto mirato in cui si individua una vittima e verso di essa converge la conflittualità generale. Iniziano gli attacchi e i comportamenti persecutori che aumentano di frequenza fino a diventare continui. La vittima può manifestare i primi sintomi psico-somatici: cefalea, vertigini, tachicardia, gastralgia, tremori, dermatosi, disturbi del sonno, ecc. A questo punto il caso diventa pubblico anche perché la vittima richiede diversi permessi per malattia o consulti medici; è facile valutare erroneamente la situazione e giudicare colpevole dello stato dei fatti chi in realtà è vittima. Rapidamente compaiono gli effetti sulla salute psico-fisica della vittima con gravi forme depressive, dell'adattamento cronico e disturbo post-traumatico cronico da stress (come sarà successivamente esposto). L'esito del mobbing è l'eliminazione del lavoratore dal posto di lavoro che può avvenire con le dimissioni volontarie, con il licenziamento e nei casi estremi anche con il suicidio.
 
Fattori legati all'organizzazione e alle condizioni del lavoro
Secondo Leymann  le caratteristiche della personalità della vittima e/o dell'aggressore sono ininfluenti nella determinazione del mobbing rispetto alle disfunzioni organizzative del lavoro che rappresentano, quindi, la causa principale delle vessazioni sul lavoro.
I fattori organizzativi sono legati soprattutto alla qualità delle relazioni sociali e dei contenuti del lavoro. I numerosi studi effettuati in materia presentano una gamma di situazioni, che possono favorire o provocare il mobbing, molto vasta ma proprio per questo spesso in contraddizione tra di loro, per cui non è facile attribuire il giusto peso alle singole situazioni. C'è uniformità di giudizi nel considerare come fattori di rischio uno scorretto esercizio della leadership basata sull'eccessivo autoritarismo, la mancanza di discussione e programmazione dei tempi e degli obiettivi del lavoro, il basso flusso di informazioni, il difetto di autonomia nella gestione del lavoro, l’ ambiguità degli obiettivi da raggiungere, il controllo esasperato dei tempi di lavoro e le eccessive richieste in termini di performance e carichi di lavoro; ma vengono anche riportate come situazioni a rischio il lavoro monotono e i bassi obiettivi da raggiungere. L'origine del mobbing si può pertanto definire come multifattoriale, derivando dalla combinazione e dalla presenza contemporanea di fattori organizzativi, personali e relazionali, insieme ad un certo livello di conflittualità considerato da alcuni insito nelle relazioni umane.
 
I COMPORTAMENTI
È opinione condivisa che gli atti di violenza morale sul luogo di lavoro per essere considerati mobbing devono essere ripetuti nel tempo, un unico episodio seppur grave non è sufficiente a determinare il fenomeno. Nel corso degli anni, quindi, numerosi e importanti studiosi hanno cercato di individuare e classificare i comportamenti che se reiterati possano configurare l'ipotesi di mobbing. Ma è Leymann  che definisce le azioni tipiche di terrore psicologico sul luogo di lavoro, classificandole secondo diverse forme di manipolazione: della reputazione della vittima; della sua possibilità di svolgere il lavoro assegnato, delle possibilità di comunicazione della vittima con i colleghi e delle sue relazioni sociali; inoltre sono inclusi comportamenti di aggressione e coercizione fìsica o di minacce. Dalle osservazioni effettuate nel corso degli anni, a partire dai risultati di Leymann, oggi è possibile descrivere le azioni «mobbizzanti» in cinque tipologie a seconda delle diverse modalità di condotta degli aggressori, come segue:
1)  attacchi alla possibilità di comunicare: la vittima subisce una forte e costante limitazione alle possibilità di comunicare con i colleghi oltre ad impedimento sistematico e strutturale all'accesso a notizie riguardo ad informazioni inerenti al lavoro, attraverso una privazione dei mezzi di comunicazione (telefono, computer, ecc.), il blocco del flusso di informazioni necessarie al lavoro, l'estromissione dalle decisioni, l'esclusione reiterata del lavoratore rispetto ad iniziative formative, di riqualificazione e aggiornamento professionale ;
2)  attacchi alle relazioni sociali con un vero e proprio isolamento fisico della vittima, che viene trasferita in luoghi isolati affinché sia costantemente escluso da ogni dialogo e forma di comunicazione all'interno del gruppo di lavoro, e impedendo così che gli altri lavoratori gli rivolgano la parola, negando in definitiva la sua presenza;
3)  attacchi all'immagine sociale e reputazione del lavoratore che diviene bersaglio di offese e insulti sul piano personale, professionale (ad esempio gli vengono impartiti ordini contraddittori per indurlo in errore e discreditarne le capacità lavorative), convinzioni religiose, sessuali, morali, ecc.;
4)  attacchi alla qualità professionale caratterizzati da veri e pro-pri «sabotaggi» (sparizione di strumenti necessari per eseguire il lavoro, assenza di manutenzione di dispositivi e apparecchi); incarichi umilianti, senza senso o comunque non confacenti alle competenze del lavoratore, fino al progressivo demansionamento che porta ad un crollo dell'autostima; spostamenti immotivati di sede; ossessivo controllo su orari di lavoro, telefonate, tempo passato a fare fotocopie o alla macchina del ristoro, ecc.;
5)  attacchi alla salute come l'affidamento di mansioni gravose o pericolose, il confinamento in luoghi insalubri (es. stanza della fotocopiatrice), la nega­zione di periodi di ferie o di congedo
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 CONSEGUENZE DEL MOBBING

Le conseguenze del Mobbing  si mostrano sulla salute psicofisica, professionalità e dignità del lavoratore e  sulla produttività e qualità del lavoro personale e dell’Ente di lavoro, sulla famiglia e sulle relazioni interpersonali del mobbizzato e sono rappresentate dal: danno biologico e danno sociale.
Dalle violenze morali e dalle persecuzioni sul posto di lavoro possono derivare malattie organiche, psicosomatiche e psichiatriche di rilevanza medico legale, nonché conseguenze letali come il suicidio, nella percentuale del 15% secondo studi condotti in Svezia , ed eventuali tentati omicidi sui mobbizzati resistenti  o per vendetta, sui Mobber.
Inoltre il mobbizzato subisce conseguenze rilevanti di varia natura: perdita dei benefici derivanti dal normale rapporto di lavoro, perdita di chance anche al di fuori dell’ Ente di lavoro, perdita di prospettive di maggior guadagno o dei guadagni abitualmente conseguiti, perdita della progressione nella carriera, perdita della mobilità di missione, perdita delle consulenze relative ai rapporti di lavoro, perdita del posto di lavoro per prepensionamento, dimissioni provocate, licenziamento, pensionamento.
La grave pressione psicologica e la carica intensiva di Distress che caratterizza le azioni mobbizzanti è destinata ad alterare comunque l’equilibrio nervoso della persona con conseguenze variabili che non cessano neppure con il venir meno della condotta persecutoria e possono perdurare anche per 12/24/48 mesi ed anche di più, secondo l’intensità, la durata e complessivamente del danno da Mobbing.
Ancora il danno da Mobbing può riguardare non solo la persona che lo subisce ma anche la famiglia della vittima, l’Ente in cui viene attuato e l’intera comunità sociale. Ciò sia per quanto riguarda l’ indennità da malattia e/o da risarcimento, sia per i prepensionamenti forzosi; sia, se si tratta di soggetti particolarmente dediti al lavoro con alte capacità e creatività, come spesso accade, sia l’Ente di lavoro che la Comunità sociale verrà privata di un lavoro qualitativamente e quantitativamente migliore rispetto a  quello dei colleghi mobbizzatori e/o sarà   privata di validi ricercatori, che com’è noto, in Italia, sono molto spesso costretti ad andare all’estero.

IL MOBBING COME FATTORE DI STRESS (STRESSOR)
Gli stimoli sensoriali, vale a dire tutti quegli stimoli di diversa natura provenienti dall'ambiente esterno, vengono recepiti ed interpretati dal Sistema Nervoso Centrale (SNC) attraverso le informazioni raccolte dai cinque organi di senso. Uno stimolo esterno, quando applicato cronicamente (mobbing), si comporta da stressor in grado di alterare in maniera permanente la complessa rete di connessioni esistenti tra SNC, sistema neuroendocrino, sistema immunitario e altri organi e apparati provocando la comparsa di manifestazioni cliniche. I principali stressor di natura psico-sociale connessi con l'organizzazione lavorativa sono correlati, tra l'altro, al carico di lavoro (eccessivo o irrisorio), ai ritmi e agli orari di lavoro, alle competenze richieste, al grado di incertezza, al livello di partecipazione e decisione e alle relazioni interpersonali sul posto di lavoro. Le modalità di risposta agli stressor oppure gli atteggiamenti che si utilizzano per fronteggiare un determinato problema («coping») non dipendono però solo dalla natura e dall'organizzazione del lavoro, sono influenzate anche dalla componente individuale che ha un ruolo fondamentale nel diverso adattamento del singolo lavoratore a situazioni potenzialmente lesive: l'età, la personalità, lo stile di vita, la formazione professionale, lo stato di salute fisico e mentale, ma anche lo stato delle relazioni e il supporto a livello familiare (12).
Il centro di questa rete di adattamento comportamentale e neuroendocrino agli stressor è rappresentato da particolari aree del cervello costituite da una componente più vecchia (ippocampo e amigdala), strettamente connessa a zone più recenti (talamo e ipotalamo).
La risposta a stressor di natura psicosociale (come ad esempio la paura, il confinamento, l'esposizione ad un ambiente nuovo od ostile) viene prima elaborata all'interno delle zone del cervello suddette attraverso un meccanismo di processazione dell'informazione che dipende fortemente dalle esperienze passate e quindi dalla memoria cosciente o inconscia dello stressor stesso, quindi viene attivata la vera e propria risposta agli stressor. Esistono due principali sistemi di risposta agli stressor: il primo è costituito dall'asse degli ormoni (ipotalamo-ipofisi-corticosurrenale) (13); il secondo è rappresentato dall'adrenalina del surrene, dalla noradrenalina liberata dalle terminazioni nervose del sistema nervoso simpatico, ma anche da alcuni neurotrasmettitori che operano all'interno del cervello come la serotonina e la dopamina (14).
Le strutture del cervello sopra elencate con il sistema ormonale si bilanciano a vicenda in modo da mantenere l'organismo in situazione di equilibrio (omeostasi) (15).
Si riporta come esempio che l'aumentata concentrazione plasmatica di cortisolo (che è il corrispettivo del farmaco cortisone) è responsabile di effetti sul metabolismo, sul trofismo muscolare, sul rimodellamento osseo, sull'attività cardiocircolatoria e sul sistema immunitario (in particolare modificando i livelli di citochine), determina la comparsa di iperglicemia, ipercolesterolemia, iperlipidemia, ipertiricemia, atrofia muscolare, osteoporosi, arteriosclerosi ed immunosoppressione. Mentre l’attivazione dell’asse degli ormoni (ipotalamo-ipofisi-corticosurrenale) è essenziale per le funzioni vitali, una stimolazione persistente, ripetitiva e a lungo termine, conduce all'esaurimento e alla possibile comparsa di patologie psichiche, psicosomatiche e anche organiche. Elevati livelli cronici di cortisolo (cortisone), infatti, sono stati dimostrati con certezza nella depressione, mentre una riduzione dello stesso da esaurimento del sistema si osserva frequentemente nel disturbo post-traumatico da stress. L'iperincrezione delle adrenaline influenza l'apparato cardiovascolare inducendp un aumento della pressione arteriosa e della frequenza cardiaca, e altri organi bersaglio.
 
MALATTIE CORRELATE, MALATTIE PSICHICHE E PSICOSOMATICHE RICONOSCIUTE DAL D.M. 27 APRILE 2004
Disturbo dell'adattamento cronico
Il disturbo dell'adattamento cro­nico, la forma più frequente di malattia psico-somatica correlata al mobbing, si manifesta con sintomi emotivi e comportamentali clinicamente significativi, in risposta ad uno o a più stressor identificabili.
Per definizione, i sintomi devono comparire entro 3 mesi dall'insorgenza di un fattore stressante, e non durare oltre 6 mesi dopo la cessazione del fattore stressante o delle sue conseguenze perché non si instauri la malattia. Se il fattore stressante è un evento acuto (licenziamento dal lavoro), l'insorgenza dell'anomalia è di solito immediata (o entro pochi giorni), e la durata è relativamente breve (non più di pochi mesi). Se il fattore stressante o le sue conseguenze persistono, anche il disturbo dell'adattamento persiste. In base alla durata dei sintomi si definisce cronico quando perdura per oltre sei mesi.
I disturbi dell'adattamento si possono presentare sotto varie forme a seconda dei sintomi predominanti: ansia, depressione, reazione mista, alterazione della condotta e/o della emotività, non specificato.
Si definisce disturbo dell'adattamento cronico con ansia, quando le manifestazioni cliniche predominanti sono costituite da sintomi come irritabilità, preoccupazione, o irrequietezza; con umore depresso quando le manifestazioni predominanti sono costituite da sintomi come tristezza profonda, facilità al pianto, o sentimenti di perdita di speranza; con ansia e umore depresso misti, questo sottotipo dovrebbe essere usato quando la manifestazione predominante è una combinazione di depressione e di ansia; con alterazione della condotta quando la manifestazione predominante è un'alterazione comportamentale caratterizzata da violazione dei diritti degli altri o delle norme o regole della società appropriate per l'età adulta (assenze ingiustificate dal lavoro, vandalismo, guida spericolata, risse, inadempienza verso le responsabilità legali). Un altro sottotipo è quello con alterazione mista dell'emotività e della condotta in cui le manifestazioni predominanti sono sia sintomi emotivi (depressione, ansia) che un'anomalia della condotta. Infine, il sottotipo «non specificato» si verifica quando le reazioni maladattative agli stressor non sono classificabili come uno dei sottotipi specifici sopra citati. Tale descrizione in ambito medico è stata catalogata con il trattato: Manuale Diagnostico Statistico (DSM) IV - Text Revision.
 
DISTURBO POST-TRAUMATICO DA STRESS
Disturbo in cui un evento traumatico opprimente viene rivissuto, causando paura intensa, senso di impotenza e di orrore ed evitamento degli stimoli associati al trauma. Gli eventi traumatici comprendono eventi che hanno implicato morte o minaccia di morte, gravi lesioni o altre minacce all'integrità fìsica propria o di altri. L'evento traumatico viene rivissuto più volte con ricordi spiacevoli dell'evento, sogni spiacevoli ricorrenti dell'evento; sensazioni di rivivere l'esperienza con illusioni, allucinazioni, ed episodi dissociativi di flashback. La reazione di evitamento degli stimoli associati con il trauma e l'attenuazione della reattività generale rappresentano i meccanismi per controllare i sintomi di una reazione d'allarme crescente. La vittima presenta sintomi persistenti di ansia non presenti prima del trauma che possono essere rappresentati da: difficoltà ad addormentarsi o a mantenere il sonno; irritabilità o scoppi di collera; difficoltà a concentrarsi; ipervigilanza; esagerate risposte di allarme. Il disturbo post-traumatico da stress si definisce cronico se la durata dei sintomi è presente per almeno 3 mesi. A volte l'esordio dei sintomi è ritardato (se avviene almeno 6 mesi dopo l'evento stressante).
Tale descrizione in ambito medico è stata catalogata con il trattato: Manuale Diagnostico Statistico (DSM) IV-Text Revision.
 
RAPPORTO DI CAUSALITÀ TRA LE AZIONI MOBBIZZANTI E LE MANIFESTAZIONI
L'accertamento del mobbing deve avvenire attraverso un metodo rigoroso e scientificamente validato (16) di valutazione dei comportamenti a rischio che devono soddisfare obbligatoriamente alcuni parametri riportati qui di seguito (nel caso in cui anche uno solo dei parametri non è rispettato non si può parlare scientificamente di mobbing).
La frequenza degli attacchi e dei comportamenti ostili deve essere di almeno alcune volte al mese (almeno una volta a settimana, secondo la definizione di Leymann (3). La durata del conflitto deve pro-trarsi per almeno sei mesi, sì può considerare anche un limite di soli tre mesi nel caso in cui la frequenza degli attacchi sia quotidiana e le azioni siano dotate di particolare forza conflittuale e carica persecutoria: in questo caso viene denominato Quick Mobbing. Le azioni condotte dagli aggressori devono essere riconducibili ad almeno due delle cinque tipologie di comportamenti «mobbizzanti» (almeno tre su cinque nel caso del Quick Mobbing): attacchi alle relazioni sociali ed alla possibilità di comunicare; isolamento sistematico; cambiamenti in senso peggiorativo nelle mansioni lavorative; attacchi alla reputazione ed all'immagine sociale; violenze e/o minacce di violenza. L'andamento del fenomeno procede secondo fasi di crescente gravità a partire da una «condizione zero» di conflitto generalizzato, fino ad una fase terminale in cui la vittima viene «eliminata» dal mondo del lavoro (dimissioni, prepensionamento, licenziamento, suicidio). La volontà di danneggiare la vittima, può essere motivata da uno scopo politico e di strategia aziendale ma anche da fattori emozionali inconsci come sentimenti di rivalsa e invidia, o fattori caratteriali favoriti da alcuni tratti di personalità. Il riconoscimento e la valutazione dei suddetti parametri può avvalersi di questionari di diagnosi del mobbing elaborati sulla base del Leymann Inventory of Psychological Terror (LIPT). Esistono vari questionari per la diagnosi del mobbing da parte del medico, tra cui quello realizzato dal nostro gruppo di lavoro; per tali questionari si rimanda a trattazioni specifiche.
A completamento e conclusione di quanto sopra esposto si ritiene che per confermare il rapporto di causa/effetto sia necessario valutare i seguenti punti:
1) l'attestazione dello stato di salute anteriore all'eventuale azione mobbizzanti;
2) che la malattia riferita sia documentata in maniera chiara e non contraddittoria;
3) che il rapporto tra azione mobbizzante e malattia sia chiaro e con ragionevole certezza almeno probabile;
4)  che la documentazione e le prove testimoniali attestino un'oggettiva situazione lavorativa problematica e frustrante;
5)  che la presunta somatizzazione sia  documentata  anche  dal punto di vista causale;
6)  che le azioni riferite come mobbizzanti siano dovute a un'effettiva «forma di terrorismo psicologico che implica un atteggiamento ostile e non etico posto in essere in forma sistematica — e non occasionale ed episodica - da una o più persone, nei confronti di un solo individuo il quale viene a trovarsi in una condizione indifesa e fatto oggetto di una serie di iniziative vessatorie e persecutorie» (3). Non rientrano, invece, i comportamenti chiaramente riconducibili a una necessaria riorganizzazione dell'intero assetto lavorativo, legato a nuove esigenze di gestione, che comportano modifiche dei ruoli e delle competenze di tutti i dipendenti e nelle quali non si ravvisa quanto sopra esposto.
 
PREVENZIONE
Il Medico del Lavoro collabora con il Datore di Lavoro e con il Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione alla valutazione dei rischi e alla predisposizione delle misure di prevenzione a tutela della salute e dell'integrità psico-fisica dei lavoratori; quindi, deve portare il proprio contributo nel riconoscere precocemente e nel contrastare i comportamenti persecutori sul luogo di lavoro.
Le misure di prevenzione hanno come scopo principale quello di instaurare una cultura aziendale caratterizzata da una linea di condotta dei dirigenti e dei dipendenti basata sul reciproco rispetto, sulla promozione di un ambiente socievole e sull'interesse comune, requisiti indispensabili per prevenire la comparsa di comportamenti vessatori e di terrorismo psicologico e anche per garantire il successo economico dell'azienda stessa. Le più importanti misure di prevenzione sono quelle di tipo organizzativo, che potrebbero comprendere ad esempio: il diritto di reclamo della vittima a soggetti o organi aziendali preposti che possano essere di aiuto nel chiarire e documentare i fatti e nel proporre contromisure da adottare; il diritto alla riservatezza nei confronti di terzi in merito alle informazioni, ai fatti avvenuti e ai dati personali dei soggetti coinvolti; provvedimenti disciplinari per gli aggressori di severità proporzionata alla gravita delle azioni, ad esempio: ammonimento e avvertimento, multa, assegnazione ad altro posto di lavoro, licenziamento. Inoltre, è da ricordare l'obbligo del Datore di Lavoro di informare ed educare i lavoratori sui rischi connessi all'attività dell'impresa; nel caso specifico del mobbing, una corretta informazione dovrebbe riguardare le caratteristiche del fenomeno e le conseguenze (mediche, economiche, professionali e legali) per le vittime e i responsabili.
Uno strumento utile per individuare precocemente il rischio di mobbing in un ambiente di lavoro potrebbe essere rappresentato da questionari clinico-anamnestici mirati alla tipologia del rischio e all'organo bersaglio da somministrare ai lavoratori. I questionari di prevenzione del mobbing nei luoghi di lavoro sono di non facile applicazione; il nostro gruppo (17) ne ha realizzato uno semplice con 20 items che si allega in APPENDICE.
Il questionario da noi elaborato permette una valutazione qualitativa (stima) del rischio di mobbing in un determinato ambiente di lavoro, fornendo informazioni con validità per il gruppo e non per il singolo lavoratore, allo scopo di identificare se sussiste, e a che livello di gravità, la possibilità che si verifìchino azioni mobbizzanti in un luogo di lavoro, in modo che il datore di lavoro possa intervenire prima dell'aggravamento dei comportamenti vessatori e prima della comparsa degli effetti sulla salute della vittima. Infatti, il questionario potrebbe anche essere utile per verifìcare l'adeguatezza delle misure di prevenzione adottate, soprattutto a livello di organizzazione aziendale, monitorando nel tempo il rischio attraverso somministrazioni periodiche.
 

 

Fonte: http://www.formazioneesicurezza.it/aa_specialistica/dispense/D2%20-%20Scienze%20della%20prevenzione%20applicate%20alla%20sociologia%20e%20alla%20didattica/03%20-%20Psicologia%20dello%20sviluppo%20e%20psicologia%20dell'educazione/Castro%20-%20Dispense%20agg[1].e%20mobing%20.doc

Sito web da visitare: http://www.formazioneesicurezza.it

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