Crollo del comunismo

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Crollo del comunismo

Il crollo del comunismo
Iniziò dagli Stati satelliti dell’URSS. In Ungheria il 2 maggio 1989 fu presa la decisione di abbattere il filo spinato sul confine austriaco: migliaia di abitanti della Germania dell’est subito lo varcarono per fuggire in Occidente. Nel marzo del 1990, sempre in Ungheria, si affermò al governo un partito di centro, quindi venne ridimensionato lo strapotere del locale partito comunista.
In Polonia nel 1989 si ebbero le prime libere elezioni e in dicembre fu abbandonato ufficialmente il regime comunista, dopo mesi di polemiche sollevate proprio contro tale regime dai sindacati liberi di Solidarnosc capeggiati dall’elettricista Lech Walesa (che divenne presidente polacco nel 1990). Al ribaltamento del regime contribuì anche papa Wojtyla, eletto col nome di Giovanni Paolo II nel 1978.
Nella Germania dell’est le fughe di massa determinarono una crisi politica nell’ottobre del 1989. Alla fine del mese in varie città si ampliarono le proteste popolari con richieste di libertà e democrazia. In novembre il governo di dimise lasciando il posto ad un nuovo governo di indole moderata che non ostacolò l’assalto popolare al muro di Berlino e in seguito il suo abbattimento. Nel marzo del 1990 avvennero le prime libere elezioni e fu presa la decisione di riunire le due Germanie.
Anche in Bulgaria e Cecoslovacchia nel 1989 avvennero proteste popolari contro il comunismo, che portarono nei mesi successivi a libere elezioni e a governi moderati di indole democratica.
Successero fatti analoghi pure in Jugoslavia, che però fu sede di una violenta guerra civile, e Albania, da cui si riversarono in Grecia ed Italia migliaia di fuggitivi in cerca di lavoro e sopravvivenza.
La Romania fu un caso particolare: retta da un dittatore comunista (Ceausescu) ostile alle innovazioni promosse da Gorbaciov, che represse con ferocia le manifestazioni popolari, scoppiate anche qui nel 1989, qui si accese una guerra civile con la costituzione di un Comitato di salvezza nazionale che alla fine dell’anno catturò Ceausescu, lo processò sommariamente insieme alla moglie, e li fece fucilare. La situazione sociale, tuttavia, rimase agitata ancora per parecchi mesi prima di potersi tranquillizzare.
Col crollo del comunismo, che fungeva da collante tra le diverse nazionalità controllate dall’URSS, emersero immediatamente volontà indipendentiste di indole nazionalistica: nel 1993 la Cecoslovacchia si divise in Repubblica Ceca e Repubblica Slovacca; ugualmente la Lituania, l’Estonia e la Lettonia, annesse di forza all’URSS col patto Molotov-Ribbentrop del 1939, dopo mesi di tensioni con la Russia, che non voleva renderle indipendenti, nel settembre del 1991 finalmente ottennero l’autonomia. Ugualmente riuscirono a fare l’Ucraina e la Moldovia nel 1991.
Altri paesi, come la Cecenia, pur reclamando l’indipendenza, non sono ancora riusciti ad ottenerla dalla Russia, che reprime con violenza anche attualmente ogni atto di ribellione e di terrorismo.
Alla fine del 1991 l’URSS, nonostante un fallito tentativo di golpe attuato in agosto da nostalgici comunisti per mantenerla integra, ormai risultava disgregata. Il 21 dicembre 11 delle 15 repubbliche sorte dal crollo dell’URSS firmavano l’atto di nascita della Comunità degli Stati Indipendenti (CSI).
La Jugoslavia ebbe problemi notevoli dalla fine del comunismo, rivelando la natura fittizia dell’unità costruita con il trattato di Versailles del 1919 (all’epoca era stata unita a tavolino in 6 repubbliche autonome e 2 regioni). Le crescenti difficoltà economiche, la scomparsa della figura carismatica di Tito nel 1980, suo capo comunista riconosciuto nonché eroe della resistenza slava, l’indebolirsi dell’ideologia comunista scatenarono tensioni forti che portarono nel 1991 alla guerra civile. La Serbia mirava a creare la “Grande Serbia”, contrastata in questa sua volontà annessionistica ed espansionistica da Croazia e Slovenia, ostili ai serbi anche per motivi etnici e religiosi. La guerra rappresentò la fine della Jugoslavia unita di Tito in quanto tutte le repubbliche che la componevano si dichiararono autonome. La Serbia contestò in particolare l’indipendenza della Bosnia-Erzegovina e alimentò un conflitto che durò per 4 anni, fino al 1995, e che portò al mantenimento dello Stato della Bosnia-Erzegovina con capitale Sarajevo, seppure ripartito in 2 entità autonome, una croata-bosniaca, una serba-bosniaca.
Altro conflitto nell’area fu quello nella regione del Kosovo, abitata per il 90% da etnia albanese e per il 10% da etnia serba. La Serbia scatenò una violenta repressione contro la parte albanese mirando di fatto al loro genocidio (pulizia etnica). Nel 1999 la comunità internazionale, guidata dagli USA, decise d’intervenire per bloccare le stragi che stavano avvenendo. L’operazione riuscì con facilità, la Serbia si dovette arrendere ed accettare sul suo suolo la permanenza di forze militari internazionali per evitare che riemergesssero violenze e conflitti tra le due etnie.

 

Fonte: http://imparoqualcosa.altervista.org/crollocomunismo.doc

Sito web da visitare: http://imparoqualcosa.altervista.org

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