Europa liberale dal 1830 al 1848

Europa liberale dal 1830 al 1848

 

 

 

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Europa liberale dal 1830 al 1848

APPUNTI DI STORIA:  DALLA RESTAURAZIONE AL 1870-1876

LA RESTAURAZIONE
Gli Stati europei riuniti al Congresso di Vienna non vollero soltanto ripristinare l’assetto geo-politico prerivoluzionario: vollero anche “restaurare” gli ordinamenti politici e sociali dell’Ancien Regime: la monarchia assoluta di diritto divino, il ruolo fondamentale della Chiesa (cattolica, ortodossa o protestante, a seconda dei paesi), la prevalenza della nobiltà, l’ “organicismo”.
Assolutismo: in Austria, Russia, Prussia, Spagna e negli stati italiani si ritornò all’assolutismo monarchico con il sovrano detentore di ogni autorità “per grazia di Dio”. In Francia il re Luigi XVIII, succeduto al fratello ghigliottinato Luigi XVI, concesse una costituzione che prevedeva una certa autonomia del potere giudiziario e l’esistenza di un’assemblea rappresentativa eletta con suffragio censitario molto ristretto: ma si trattava di una costituzione “octroyée”, cioé concessa dal re come un dono, non come un diritto del popolo.
L’Inghilterra, il Portogallo, l’Olanda, la Svezia e alcuni stati della Germania meridionale mantennero le vecchie costituzioni o ne adottarono di nuove, allineandosi al modello inglese di monarchia costituzionale.
Alleanza Trono - Altare: l’Assolutismo regio si basava sulla tradizionale dottrina della sovranità di diritto divino: la religione quindi (negli stati assolutistici) fu considerata un sostegno fondamentale del potere politico: per questo alla chiesa fu attribuito nuovamente il ruolo di guida morale e spirituale delle popolazioni (e la gestione di gran parte delle scuole), furono ripristinati privilegi degli ecclesiastici e pratiche di intolleranza religiosa (per esempio discriminazioni civili degli ebrei e dei valdesi). Fu inoltre ripristinata l’autorità assoluta del Papa nello Stato della Chiesa.
Prevalenza della nobiltà: in tutta l’Europa la nobiltà recuperò autorità politica e sociale e privilegi (per esempio posti direttivi nell’amministrazione statale, esenzioni fiscali ecc.). In Francia i nobili emigrati durante la Rivoluzione ritornarono e occuparono nuovamente posizioni di potere (nell’esercito, nella burocrazia ecc.), raramente riuscirono a recuperare le proprietà terriere che erano state espropriate e rivendute durante la rivoluzione, però ottennero sostanziosi risarcimenti dallo Stato. Va anche segnalato il fatto che nell’età della restaurazione l’aristocrazia dovette allargarsi ed accogliere molti altoborghesi che ottenevano (spesso a pagamento) titoli di nobiltà dai sovrani.
Organicismo: era la dottrina, fatta propria dalle corti e dalle élites aristocratiche, per cui «la società politica viene definita come un organismo in cui ogni componente trova la sua compiutezza solo nella partecipazione al tutto, e che funziona solo se ogni parte rispetta il ruolo e il posto che gli sono stati attribuiti. Come ogni organismo, la società politica ha chi comanda e chi obbedisce: un ordine che qualsiasi rivendicazione di autonomia individuale non può che minare»
LA SANTA ALLEANZA:
il principale strumento politico della restaurazione, cioè della difesa dell’equilibrio europeo e della stabilità politica dei singoli stati europei, fu la Santa Alleanza. Nel 1815 lo Zar di Russia Alessandro I propose un’alleanza fra i sovrani europei con lo scopo di salvaguardare e promuovere il Cristianesimo in Europa: questa proposta fu accolta dal Metternich (capo del governo dell’Impero Austriaco) e tradotta concretamente in un impegno dei sovrani alleati a sostenersi vicendevolmente in caso di rivoluzione. Quindi la Santa Alleanza stabiliva che se in uno stato scoppiava una rivoluzione i sovrani alleati avevano il diritto d’intervenire militarmente per aiutare il sovrano  “contestato” a reprimerla.
La Santa Alleanza fu stipulata dapprima tra lo zar di Russia, il re di Prussia e l’imperatore d’Austria, poi vi aderirono la Francia, la Spagna e gli stati italiani (eccetto lo Stato della Chiesa).
Il Papa non aderì considerando improponibile un’alleanza per la difesa del cristianesimo tra sovrani cattolici, protestanti e ortodossi. 
L’Inghilterra inizialmente aderì, ma poi abbandonò la Santa Alleanza: con ciò manifestò di essere interessata al mantenimento dell’equilibrio in Europa ma non alla difesa dell’assolutismo, anzi cominciò a guardare con favore e a sostenere i movimenti liberali che contestavano l’assolutismo e chiedevano una trasformazione politica in senso liberale e costituzionale.
La Santa Alleanza funzionò efficacemente dal 1815 fino al 1849, in quanto riuscì a soffocare la maggior parte dei moti rivoluzionari che scoppiarono in questo periodo. Negli anni Cinquanta il modificarsi dei rapporti tra le potenze europee determinò la crisi della Santa Alleanza e l’inizio di una nuova fase di relazioni internazionali.  

LIMITI DELLA RESTAURAZIONE

«L’ideologia della restaurazione (monarchia assoluta, predominio nobiliare, clericalismo, organicismo) rappresenta, nonostante quanto detto finora, solo una parte della realtà europea successiva al 1815. Operazione formale di ritorno alla situazione prerivoluzionaria, la restaurazione si rivela a volte un’operazione di facciata, che ostacola ma non riesce a soffocare i fermenti emersi alla fine del Settecento.»
Esaminiamo quali sono i principali limiti del progetto restauratore:
La restaurazione vorrebbe ripristinare una società statica, divisa in ordini stabili,con la prevalenza politica economica e sociale dell’aristocrazia. Invece lo sviluppo economico avviato nel Settecento continua, l’industrializzazione avviata in Inghilterra si estende gradualmente al continente, e questa grande crescita economica modifica la società, esaltando in particolare il borghese imprenditore, che diventa la figura preponderante dal punto di vista economico; alla società statica di ordini si viene progressivamente sostituendo una società dinamica di classi, definite dalla funzione e dalla posizione economica.
La restaurazione vorrebbe restaurare l’assolutismo, ma abbiamo già visto che in Europa alcuni Stati adottano invece un sistema politico di monarchia costituzionale.  Inoltre in tutti gli Stati europei sopravvivono nella clandestinità persone, gruppi, movimenti che contestano l’assolutismo monarchico in nome di idee politiche liberali e / o democratiche.
La restaurazione non ripristina la frammentazione e il particolarismo che caratterizzavano le società d’Ancien Regime. Da questo punto di vista le riforme attuate dalle monarchie assolute nel Seicento e nel Settecento (dispotismo illuminato), e le riforme attuate dalla Francia rivoluzionaria e napoleonica individuano un’unica tendenza che continua anche nell’età della restaurazione:   la tendenza all’accentramento del potere e alla burocratizzazione. I governi centrali amministrano tutto il territorio dello Stato per mezzo dei loro dipendenti (burocrazia), esautorano le autorità locali, impongono una legislazione unica, assumono nuove competenze (lavori pubblici, giustizia, scuola ecc.).  La centralizzazione del potere implica la costituzione di grandi apparati burocratici, il cui personale  forma un nuovo ceto medio.

LE SOCIETA’ SEGRETE

Nel periodo 1815-1830 l’opposizione liberale e democratica all’assolutismo (non potendosi esprimere pubblicamente) diede vita a organizzazioni segrete, con lo scopo di promuovere rivolte per ottenere dai sovrani riforme politiche in senso liberale e costituzionale.
La più importante società segreta fu la Carboneria, diffusa soprattutto in Italia, ma con ramificazioni anche in Spagna e in Francia.
La Carboneria era costituita soprattutto da intellettuali, piccoli borghesi e ufficiali dell’esercito che si erano formati nelle armate napoleoniche: il metodo di lotta della Carboneria consisteva nella preparazione clandestina di insurrezioni che, una svolta scatenate da parte di piccoli gruppi di congiurati, avrebbero dovuto provocare più vaste sollevazioni popolari. In realtà i carbonari non riuscirono mai a coinvolgere le masse nei loro progetti, sia per la rigida segretezza delle loro iniziative, sia per il carattere elitario dei loro programmi, che non tenevano conto delle esigenze dei ceti più poveri.  Infatti l’obiettivo principale delle rivolte carbonare era ottenere la Costituzione (cioé il riconoscimento dei diritti civili dei cittadini e l’elezione di assemblee rappresentative).
Inoltre le iniziative della carboneria (e più in generale delle organizzazioni liberali) erano indebolite dalla ontrapposizione interna tra liberali moderati e democratici.

MOTI INSURREZIONALI  1820-1830

1820/21: in Spagna, in Italia (regno delle Due Sicilie e Regno di Sardegna)
ambedue repressi dalla Santa Alleanza

1821: inizia la rivolta della Grecia contro l’Impero Turco-Ottomano

1825:  Russia: fallimento dell’insurrezione dei Decabristi contro lo Zar.

1816/1822: rivoluzione dell’America Latina:
Tutti i paesi dell’America Latina (centro-meridionale) ottengono l’indipendenza  dalla Spagna e dal Portogallo.

1827/29: Francia, Inghilterra e Russia intervengono militarmente contro la Turchia in aiuto dei
Greci: la Turchia riconosce l’indipendenza della Grecia

1830/31  : moti insurrezionali a Modena e nello Stato pontificio: repressi
Insurrezione in Polonia per l’indipendenza dalla Russia: repressa
Insurrezione in Belgio per l’indipendenza dall’Olanda: ha successo
Rivoluzione in Francia: viene deposto il re Carlo X di Borbone, Luigi Filippo d’Orleans
viene proclamato re dei francesi

IL PENSIERO E I MOVIMENTI POLITICI DOPO IL CONGRESSO DI VIENNA

Il fallimento della rivoluzione francese, precipitata nel Terrore, e poi nel dispotismo e nell’imperialismo napoleonico, non aveva però cancellato il valore delle idee e delle esperienze politiche emerse nel corso della rivoluzione.  I principi della rivoluzione francese, e le Costituzioni francesi che li avevano interpretati, rimasero un punto di riferimento molto forte per il pensiero e i movimenti politici dell’Ottocento. Questo resta vero anche se gli intellettuali del XIX secolo (anche liberali e democratici, come il Manzoni e il Mazzini) espressero critiche molto severe sull’esperienza rivoluzionaria francese, e magari guardarono con maggior favore al modello inglese o americano.

I movimenti di opposizione all’assolutismo
Possiamo sommariamente distinguere, nel multiforme movimento politico di opposizione all’assolutismo e alla restaurazione , due tendenze: una tendenza liberale, che ha le sue radici nella filosofia politica di John Locke, di Montesquieu e nella Gloriosa Rivoluzione inglese del 1688, e una tendenza democratica, che trae origine soprattutto dal pensiero di Rousseau e dalla fase giacobina della Rivoluzione Francese.  
Nella tendenza liberale l’accento cade sulla tutela della libertà e dei diritti naturali dell’individuo, e sulle condizioni politiche (prima di tutte la separazione dei poteri) che impediscono il dispotismo e quindi la prevaricazione dei diritti naturali.
Nella seconda tendenza l’accento cade piuttosto sul principio della sovranità popolare, e quindi sulle condizioni che permettono la partecipazione di tutto il  popolo alla vita politica (elezioni a suffragio universale, referendum, associazioni politiche, istruzione, libertà di stampa ecc.) .
Di fatto poi le due tendenze possono convergere, e oggi i sistemi politici di gran parte dell’Europa  e dell’America sono liberal-democratici, ma nell’Ottocento le due tendenze spesso erano distinte: in particolare possiamo evidenziare queste differenze:
LIBERALI MODERATI:  sostengono: la libertà e i diritti individuali, che devono essere garantiti da una carta costituzionale; l’eguaglianza giuridica e fiscale, ma non politica, dei cittadini; la laicità dello Stato;  la necessità di controllare e limitare l’esercizio del potere, per evitare il dispotismo; il principio della separazione dei tre poteri (esecutivo, legislativo, giudiziario); l’attribuzione del potere legislativo a un’assemblea rappresentativa eletta a suffragio censitario (in quanto solo i cittadini benestanti hanno competenze e indipendenza di giudizio che permettano un esercizio responsabile del diritto di voto).
In campo economico generalmente sono liberisti, proprio perché affermano il diritto alla proprietà e la libertà economica dei cittadini e intendono sottrarre tale libertà ai condizionamenti e ai vincoli dell’autorità politica.   Invece non ritengono, per lo più, che i problemi sociali debbano essere risolti con interventi politici.
I modelli politici a cui si riferiscono sono soprattutto la Gloriosa Rivoluzione inglese del 1688 e la Costituzione francese del 1791.
DEMOCRATICI: condividono generalmente le aspirazioni politiche dei liberali esposte sopra, però affermano prioritariamente il principio della sovranità popolare, e quindi l’esigenza che tutto il popolo possa partecipare all’esercizio della sovranità, del potere, attraverso le elezioni a suffragio universale, e attraverso tutti gli strumenti della partecipazione politica: referendum, associazioni politiche, giornali, manifestazioni ecc.
Di solito sono repubblicani, quindi sono contrari alla monarchia, anche alla monarchia costituzionale, perché qualsiasi autorità politica deve essere espressione della sovranità popolare (il monarca invece ottiene la sovranità per successione dinastica, non per designazione popolare).
Sui problemi economici e sociali condividono generalmente le teorie liberiste: sostengono la libertà economica e il diritto alla proprietà, però ammettono che l’autorità politica  possa regolamentare l’esercizio di tali diritti in nome dell’interesse generale e per affrontare le situazioni sociali più gravi.
Il  riferimento politico più importante per i democratici è la Costituzione francese del 1793.

I principali motivi di contrasto fra liberali moderati e democratici nell’Ottocento erano quindi il problema del suffragio (censitario o universale) e il problema della sovranità (regia o popolare, monarchia o repubblica).
Naturalmente esistevano posizioni politiche intermedie:  per esempio quella dei liberali radicali inglesi, liberali per l’affermazione intransigente dei diritti e della libertà individuale, ma fautori del suffragio universale, oppure quella del francese Alexis De Tocqueville, democratico, ma consapevole dei rischi di omologazione e massificazione presenti nelle società democratiche.
Un’altra tendenza politica molto importante nell’Ottocento è quella socialista, che però giunge a esprimersi in concreti programmi e azioni politiche più tardi (negli anni Quaranta) rispetto alle tendenze già esaminate.   I socialisti si propongono di costruire una società egualitaria, in cui siano superate le contraddizioni e le ingiustizie sociali che l’industrializzazione ha accentuato invece di risolvere. Anche i socialisti hanno un riferimento ideale nella rivoluzione francese: la congiura degli Eguali di Gracco Babeuf e Filippo Buonarroti. Tuttavia i socialisti sono anche collegati, più o meno strettamente, al movimento operaio, alle sue rivendicazioni e alle sue lotte. Anche il pensiero socialista presenta una varietà di indirizzi e e di proposte, che esamineremo più avanti.

IL PRINCIPIO DI NAZIONALITA’
Il pensiero politico dell’Ottocento assume i temi dei diritti umani, della libertà e dell’eguaglianza, della democrazia dalle ideologie e dalle esperienze rivoluzionarie del Settecento.  Nel pensiero politico ottocentesco emerge però anche il tema della libertà e dei diritti dei popoli, delle nazioni.  La nazione, vale a dire una popolazione accomunata e contraddistinta da una serie di caratteri nazionali (lingua, religione, caratteri etnici, cultura e tradizioni, interessi economici, collocazione storica su un certo territorio) vien vista come un’entità che, alla pari degli individui, deve realizzarsi anche politicamente.  Una nazione può realizzarsi politicamente quando è unita e libera (indipendente), vale a dire quando costituisce uno Stato.  La consapevolezza della nazionalità esisteva anche nei secoli precedenti, ma l’Ottocento pone il mito e l’esigenza dello Stato-nazione: i grandi Stati plurinazionali (come l’impero austriaco) e e le grandi nazioni frammentate in piccoli Stati (come l’Italia e la Germania) vengono considerati situazioni innaturali, artificiose, ingiuste, da superare con la costruzione di Stati nazionali.
Il tema della nazione e dello Stato nazionale emerge nei primi anni dell’Ottocento per diversi motivi: la Francia, che con la rivoluzione è diventata “il” modello politico per tutti gli avversari dell’Ancien Regime, è uno Stato nazionale con una tradizione secolare di identificazione fra organizzazione statale e comunità nazionale; d’altra parte la dominazione napoleonica in Europa  ha suscitato sentimenti nazionali anche per reazione, così come è avvenuto in Spagna e in Germania;   ma soprattutto il Romanticismo, con la sua polemica antiilluministica e con la sua rivalutazione delle tradizioni, della storia, della religione ecc. pone in particolare risalto l’appartenenza dell’individuo a una comunità nazionale, e giunge perfino a considerare la nazione come un organismo che trascende gli individui che la costituiscono.
L’idea di nazione e di Stato nazionale nell’Ottocento fu il movente principale dell’azione politica in Italia, in Polonia, in Grecia, in Ungheria, in Boemia e in Germania, cioè in quelle situazioni in cui le nazioni erano politicamente divise oppure erano sottomesse a uno Stato straniero.
La lotta per l’unità e l’indipendenza nazionale si saldò con la lotta contro l’assolutismo, per la libertà e i diritti individuali, quindi nella prima metà del secolo l’idea nazionale non servì, quasi mai, a giustificare politiche autoritarie e di potenza.  Solo a partire dalla seconda metà del secolo l’idea nazionale cominciò a trasformarsi in nazionalismo, vale a dire nell’ideologia che propugnava l’affermazione della nazione in termini di potenza, di supremazia e di dominio, e che giustificava l’uso della forza e la prevaricazione dei diritti in nome del “supremo interesse nazionale” o del “sacro egoismo nazionale”.
N.B. “nazione” e “Stato” sono due concetti distinti, con significati diversi: “nazione” indica un popolo (la nazione francese, la nazione italiana, ecc.);  “Stato” indica un’organizzazione politica, con  un potere, un esercito, delle leggi, delle frontiere ecc.; se lo Stato è nazionale, esso comprende una nazione, p.e. la Francia è lo Stato della nazione francese; ma non sempre lo Stato è nazionale (l’impero austriaco era plurinazionale perché comprendeva molte nazioni) e possono anche esserci nazioni che non hanno uno Stato: p.e. il popolo ebraico non ha avuto un proprio Stato per tutto il medioevo e per tutta l’età moderna, solo nel 1948 si è costituito lo Stato d’Israele, che però non comprende tutto il popolo ebraico (molti ebrei vivono in Europa e in America) e che invece comprende una parte del popolo palestinese.

I TEORICI DEL RISORGIMENTO ITALIANO

LA CRISI DELLE SOCIETA' SEGRETE
Dopo il fallimento delle congiure e dei vari tentativi insurrezionali organizzati in Italia  nel decennio 1820-1830 dalle società segrete (Carboneria, Società dei Sublimi Maestri Perfetti e altre), queste ultime entrarono in crisi: divenne chiaro che le società segrete non erano in grado di modificare l'ordinamento politico degli stati italiani e nello stesso tempo gli obiettivi delle società segrete apparvero troppo limitati. Ricordiamo che le società come la Carboneria operavano con la massima segretezza, che investiva non solo i nomi degli affiliati ma anche programmi e obiettivi: in tal modo l'azione politica delle società coinvolgeva solo gruppi molto ristretti di cittadini, e la maggioranza della popolazione rimaneva estranea ai moti rivoluzionari progettati dalle società; in secondo luogo non esisteva un coordinamento efficace fra le società segrete degli stati italiani, per cui risultava impossibile organizzare un moto rivoluzionario che investisse tutta la penisola; infine le società si ponevano l'unico obiettivo di ottenere dai sovrani la concessione di un ordinamento politico costituzionale, si "fidavano" troppo delle promesse dei sovrani e non miravano all'unificazione politica della penisola. Negli anni  Trenta alcuni intellettuali italiani  cominciarono  pertanto  a riflettere sulla situazione politica italiana e sui modi per trasformarla in senso liberale e unitario.

IL PROGRAMMA NEOGUELFO
Il  religioso  piemontese Vincenzo Gioberti pubblicò nel 1843 un  libro  dal titolo "Del primato morale e civile degli italiani", in cui sosteneva che la grandezza  dell'Italia era sempre stata legata alla presenza del Papa  nella penisola  (per  esempio la massima prosperità e potenza politica  era  stata raggiunta  nel  Medioevo  dall’Italia comunale alleata con  il  Papa  contro l’imperatore);  pertanto  per  rinnovare  politicamente  l’Italia  occorreva valorizzare  il ruolo del Papato. Gioberti proponeva pertanto di  costituire uno  Stato  italiano federale di cui fosse presidente il  papa  stesso:  gli  Stati  regionali  (e  i loro sovrani) sarebbero rimasti,  ma  confederati  e sottoposti alla presidenza del papa.
Il  programma  di Gioberti era piuttosto utopistico perché non  era  affatto scontato  che i sovrani italiani fossero disponibili a confederarsi,  e  so­prattutto non era pensabile che l'Austria si ritirasse dall’Italia o  accet­tasse  l’unificazione politica della penisola. Ciò nonostante il  programma di  Gioberti ebbe grandissimo successo presso i "patrioti"  italiani  perché sembrò perfettamente aderente alle tradizioni e alle necessità  italiane, in quanto era rispettoso delle forti differenze esistenti fra le regioni italiane, e valorizzava la religione cattolica che effettivamente costituiva il solo fattore unificante veramente radicato in tutta la popolazione italiana.

IL PROGRAMMA MODERATO
Altri  due piemontesi, Massimo D’Azeglio e Cesare Balbo,  colsero  l’aspetto utopistico del pensiero di Gioberti e sostennero che l’unificazione politica doveva  essere  guidata da un sovrano che disponesse di forza  militare  per opporsi  all'Austria:  secondo  Balbo e D’Azeglio solo i  Savoia  in  Italia avevano sufficienti forze militari per scacciare gli Austriaci dalla peniso­la, e inoltre rientrava nelle tradizioni della dinastia sabauda un atteggiamento antiaustriaco e una propensione ad espandersi nella penisola.  Secondo il  progetto  di  Balbo e D’Azeglio quindi  l’unificazione  poteva  avvenire grazie  all’espansione  politica e militare del Regno di  Sardegna:  era  un progetto certamente più realistico di quello neoguelfo (e fu questo progetto che  infine  ebbe successo), ma era anche un progetto che  faceva  dipendere l’unità italiana dalle armi di un re piuttosto che dall’iniziativa popolare: in questa prospettiva il processo unitario non teneva conto delle differenze regionali e rischiava di esser vissuto da una buona parte della  popolazione italiana come un’imposizione .

GIUSEPPE MAZZINI
Giuseppe  Mazzini,  genovese, affiliato della Carboneria,  fu  arrestato  ed esiliato;  in  esilio  meditò sulla sua esperienza e  si  convinse  che  gli  obiettivi e i metodi delle società segrete erano del tutto inadeguati per la situazione  italiana (per le ragioni su esposte). Decise pertanto di  costituire una nuova associazione patriottica, dai programmi e dai metodi comple­tamente  nuovi:  la  nuova associazione, denominata  Giovine  Italia,  venne fondata a Marsiglia nel 1831. Gli  obiettivi mazziniani, che la Giovine Italia doveva  realizzare,  erano: UNITA', INDIPENDENZA, REPUBBLICA.
Mazzini aveva una concezione romantica della nazione, per lui la nazione era un  organismo vivente, animato da uno spirito divino, portatore di una  mis­sione  storica; era quindi necessario prima di tutto che il popolo  italiano ritrovasse  la sua identità nazionale attraverso l'unificazione politica,  e che  si liberasse dalla dominazione straniera; per  Mazzini  l'unità  della nazione  era  un  valore sacro, e per questo egli non  ammetteva  nulla  che potesse indebolire tale unità: per questo era contrario al federalismo,  per questo,  pur  comprendendo le rivendicazioni dei lavoratori,  era  contrario alla  "lotta di  classe" proposta da Marx, perché temeva  che  i  conflitti sociali incrinassero l’unità  nazionale.
Mazzini  inoltre sosteneva un ordinamento repubblicano e  democratico  dello stato  italiano,  era contrario all’assolutismo, ma  anche  alle  monarchie costituzionali,  perché era convinto che in tutti i casi la monarchia  limi­tasse  la sovranità popolare; voleva che un’assemblea costituente  eletta  a suffragio  universale  decidesse l’assetto istituzionale  dell'Italia.   Per  Mazzini comunque l’unità e l’indipendenza erano obiettivi prioritari rispetto alla repubblica e di fatto egli si dimostrò  poi disponibile a compromessi  sul terzo obiettivo.
Il metodo propugnato da Mazzini per il conseguimento dei suoi obiettivi  era condensato  nello  slogan "Pensiero e azione":  "pensiero"  significava  che bisognava  educare il popolo perchè prendesse coscienza della  sua  identità nazionale, attraverso la propaganda, i giornali clandestini ecc. Per  questo anche  la Giovine Italia non doveva essere coperta da eccessiva  segretezza, anzi doveva diffondere fra i cittadini i suoi programmi e le idee patriotti­che; "azione" significava che la Giovine Italia doveva promuovere rivoluzioni  popolari per abbattere i sovrani e per conseguire  unità,  indipendenza, repubblica  (Mazzini non aveva fiducia nelle riforme attuate dall'alto,  per lui  il  popolo stesso doveva conquistarsi la libertà), le  rivoluzioni  poi avevano un senso anche quando fallivano, perché  il "sacrificio" dei patrioti  insorti  costituiva  un  esempio per tutti i cittadini, e quindi  aveva  un grande valore educativo.
Mazzini  fu sensibile al problema sociale (cioè al problema della povertà  e dello sfruttamento dei contadini e degli operai): propose una riforma  agra­ria  per distribuire le terre dei grandi latifondi ai contadini  e  costituì delle  Società  operaie per educare e aiutare  materialmente  i  lavoratori; però, come abbiamo già detto, fu contrario alla lotta di classe e difese  la proprietà  borghese. Per questo motivo il mazzinianesimo ebbe  scarsa presa nei  ceti  più  bassi della popolazione, nonostante  tutti  i tentativi  di "educazione  popolare";  inoltre  le "masse" erano  generalmente  fedeli  al cattolicesimo e perciò erano diffidenti nei confronti del mazzinianesimo che era  aspramente anticlericale e che propugnava una specie di religione  ”civile”  della patria.
Il pensiero del Mazzini ebbe quindi successo soprattutto fra la borghesia  e  fra gli intellettuali. 
Il  Mazzini  conferì un valore sacro alla patria e all’impegno  politico,  e quindi  determinò,  nei suoi giovani seguaci, un  atteggiamento  di  fervore religioso  e di dedizione ascetica nei confronti della causa nazionale:  non furono  pochi quelli che trovarono la morte (anzi il “martirio”)  in  azioni rivoluzionarie tanto generose quanto insensate.

CARLO CATTANEO
Il milanese Carlo Cattaneo, al contrario di Mazzini, aveva una visione molto “laica”  e pratica della questione italiana; era convinto che le  trasforma­zioni politiche dovevano essere precedute e preparate dal progresso  civile, economico  e  sociale,  e quindi attribuiva grande  importanza  a  questioni pratiche  come  lo  sviluppo scientifico e  tecnologico,  le  trasformazioni economiche e produttive ecc.
Il  programma politico di Cattaneo, che venne elaborato  compiutamente  solo dopo il '48, prevedeva uno Stato nazionale democratico, repubblicano,  fede­rale:  questo  programma nasceva dalla convinzione che  la  storia  italiana  fosse  caratterizzata in positivo dall’esperienza di libertà e di autonomia dei Comuni medievali.
Cattaneo  condivideva il federalismo di Gioberti, ma si distingueva  da  lui perché  respingeva il moderatismo e voleva abbattere le  monarchie:  secondo lui solo la repubblica permetteva la realizzazione dei principi di sovranità popolare e di democrazia.
Del programma mazziniano Cattaneo condivideva, ovviamente, l'idea  repubblicana,  ma  respingeva l’idea di unità indifferenziata e centralistica;  egli riteneva che uno stato federale fosse più adeguato alla situazione  italiana che presentava notevoli differenze regionali.

Schematicamente possiamo così riassumere le posizioni risorgimentali

1) GIOBERTI:  Italia = federazione di monarchie
2) MAZZINI:    Italia = repubblica unitaria
3) BALBO - D’AZEGLIO: Italia = monarchia unitaria
4) CATTANEO: Italia = federazione di repubbliche

 

IL QUARANTOTTO

LA CRISI ECONOMICA DEGLI ANNI QUARANTA
In  Europa  dopo  il Congresso di Vienna avevano  cominciato  a  diffondersi quelle innovazioni produttive (nell’agricoltura e nell’industria) che aveva­no caratterizzato l’economia inglese nel Settecento. In particolare  l’industrializzazione  si era affermata in Francia, in Belgio e in alcune regioni tedesche.   In Italia lo sviluppo industriale era stato minimo, però si  era attuata  una notevole modernizzazione delle tecniche agricole nelle  regioni settentrionali.
Le innovazioni produttive determinavano gravi problemi sociali: la modernizzazione agraria riduceva il numero degli agricoltori e quindi molti contadi­ni perdevano il lavoro; l’industrializzazione assorbiva questa mano d’opera, ma  gli  operai  delle industrie erano costretti a  lavorare  in  condizioni ambientali  pessime,  con orari massacranti e  salari  bassissimi  (venivano inoltre  impiegati nelle fabbriche anche donne e bambini, con  salari  ulte­riormente ridotti). Nasceva così  il proletariato, cioè  la classe dei lavoratori  nullatenenti, che abitavano nelle periferie delle città  industriali  e vivevano  in condizioni penose di povertà, di  asservimento,  di  ignoranza  (ricordiamo  che  la  legislazione del tempo non prevedeva  nessun  tipo  di  assicurazione sociale e di pensione: in caso di malattia, di infortunio,  di  disoccupazione,  di  invalidità  l’operaio poteva contare solo  sui  soccorsi  degli  altri  lavoratori - che ben presto si organizzarono  in  sindacati  e associazioni solidaristiche - e delle organizzazioni religiose). Si  verifi­cava quindi un paradosso: il progresso produttivo incrementava la ricchezza globale e la ricchezza dei proprietari di terreni e di fabbriche, ma  produ­ceva anche un peggioramento delle condizioni di vita di migliaia di  lavora­tori.   Per risolvere questa contraddizione e per costruire una società  più  giusta molti intellettuali proposero il socialismo, cioè una nuova organizzazione  politica ed economica che eliminasse dalla società l’ingiustizia  e lo sfruttamento dei lavoratori da parte dei proprietari (il socialismo  però non  si  presentava  come un’ unica teoria ma come un  insieme  variegato  di teorie  e di ipotesi riformatrici o rivoluzionarie).
Dopo  il 1840 si verificò la prima grave crisi economica  determinata  dallo sviluppo industriale. Infatti lo sviluppo industriale portò a una produzione di  merci eccedenti le possibilità di assorbimento del mercato:  la  maggior  parte della popolazione aveva un reddito molto basso e quindi poteva  acquistare i prodotti industriali in misura molto ridotta, e quando poi si  veri­ficava  un calo della produzione agricola e una crescita di prezzo dei  prodotti agricoli, il reddito della maggior parte delle famiglie veniva  impiegato  quasi esclusivamente nell'acquisto di generi alimentari. Così  i manu­fatti  industriali rimanevano invenduti e gli imprenditori dovevano  ridurre la produzione licenziando una parte degli operai o addirittura chiudendo  le fabbriche.
In tal modo si crearono tensioni sociali: la protesta dei lavoratori  sfruttati  ed esposti al rischio del licenziamento si aggiunse alla  protesta  di quanti  chiedevano una riforma in senso liberale o democratico  dell'ordina­mento  politico e di quanti chiedevano l'unità o  l'indipendenza  nazionale.
Naturalmente il movimento operaio e le prospettive socialiste potevano avere qualche peso solo dove si era già  realizzato un certo sviluppo industriale: così  nella rivoluzione parigina del 1848 proletari e socialisti svolsero un ruolo importante, anche se poi vennero sconfitti;  nelle rivoluzioni  che scoppiarono, sempre nel '48, in Germania,  nell’Impero  au­striaco e in Italia, invece il ruolo dei proletari e della protesta  sociale fu  irrilevante rispetto al ruolo giocato dalla borghesia e  dalla  protesta politica.

IL QUARANTOTTO IN FRANCIA
In Francia nel 1830 una rivoluzione aveva abbattuto la restaurata monarchia borbonica e aveva portato sul trono Luigi Filippo d’Orléans “re per grazia di Dio e per volontà della nazione”. La monarchia liberale di Luigi Filippo era certamente uno dei regimi meno oppressivi in Europa, ma aveva comunque un carattere fortemente moderato e oligarchico, per cui  suscitava l’opposizione di un vasto fronte di forze politiche (liberali progressisti, democratici, bonapartisti, socialisti) che chiedevano il suffragio universale.  A  questa rivendicazione politica si aggiungeva la protesta sociale per la crisi economica che pesava gravemente  (come abbiamo detto sopra) sulle masse popolari.
La rivoluzione scoppiò a Parigi il 22 febbraio 1848: dopo due giorni di barricate e di violenti scontri il re Luigi Filippo fuggì e si costituì un governo provvisorio che proclamò la Repubblica (la cosiddetta Seconda Repubblica, dopo quella del 1792) e promise la convocazione di un’Assemblea Costituente da eleggere a suffragio universale.
Nel governo provvisorio, oltre ai liberali progressisti e ai democratici, erano presenti due socialisti: il governo quindi, per venire incontro alle richieste dei lavoratori parigini che avevano partecipato alla rivoluzione contro Luigi Filippo, fissò la durata massima della gironata lavorativa (11 ore), affermò il principio del diritto al lavoro e istituì gli ateliers nationaux (officine statali, in cui dovevano essere occupati i lavoratori colpiti dalla disoccupazione).  Gli ateliers nationaux costituivano il primo esempio di intervento diretto dello Stato nel mercato della manodopera ed erano osteggiati dai liberali perché considerati incompatibili con i principi del liberismo economico; inoltre dal punto di vista produttivo erano assai poco efficienti, e quindi molto onerosi per le finanze dello Stato.
Nell’aprile vennero fatte le elezioni a suffragio universale, vinte dai repubblicani moderati (grazie al voto delle province, generalmente molto più conservatrici della popolazione di Parigi); i socialisti furono sconfitti  e quindi vennero estromessi dal governo, che poi decise la chiusura degli ateliers nationaux.    I lavoratori di Parigi allora insorsero nuovamente, erigendo barricate nei quartieri popolari.  L’Assemblea Costituente ordinò la repressione, che fu attuata dall’esercito con spietata durezza.
L’Assemblea Costituente approvò in seguito una Costituzione democratica, modellata su quella americana, che prevedeva un Presidente della Repubblica eletto direttamente dal popolo con un mandato di quattro anni e un’assemblea legislativa eletta anch’essa a suffragio universale.
Le successive elezioni presidenziali furono vinte da Luigi Napoleone Bonaparte, nipote dell’imperatore, che attirò su di sè i consensi dei conservatori e moderati, ma anche di strati popolari suggestionati dal mito napoleonico. Luigi Napoleone attuò una politica conservatrice e autoritaria in Francia, e riuscì nel giro di pochi anni a trasformare la carica di Presidente della Repubblica in dittatura personale; al contrario in politica estera cercò di sovvertire l’ordine geo-politico del Congresso di Vienna, cercando di restituire alla Francia un primato continentale e di ridurre l’egemonia austriaca.
Nel 1851 Napoleone sciolse la Camera e modificò la Costituzione, ampliando i poteri e la durata del mandato del Presidente.
Nel 1852 restaurò l’impero, assumendo il titolo di imperatore Napoleone III, con diritto di trasmissione ereditaria.  
Sia il colpo di Stato del 1851, sia la proclamazione dell’Impero furono approvati dall’elettorato francese con plebisciti.   Napoleone quindi istituì una specie di “dittatura democratica”, cercando un consenso popolare che legittimasse un potere accentrato e illimitato.

LA RIVOLUZIONE NEL CENTRO-EUROPA
In marzo il moto rivoluzionario si propagò all’Impero asburgico (Austria), agli Stati italiani e alla Confederazione germanica.
IMPERO AUSTRIACO:  in seguito allo scoppio di tumulti a Vienna, Metternich dovette lasciare il potere e venne concesso un parlamento dell’Impero.
In Ungheria la rivoluzione ebbe un accentuato carattere autonomistico: il governo rivoluzionario ungherese proclamò l’indipendenza dall’impero austriaco. Anche a Praga furono avanzate , sia pure in forma meno accentuata, rivendicazioni di autonomia.
La repressione militare della insurrezione di Praga nel giugno 1848 segnò l’inizio della riscossa imperiale. L’imperatrore Ferdinando I abdicò e il nuovo imperatore, Francesco Giuseppe, sciolse il Parlamento e promulgò una costituzione moderata, che prevedeva un parlamento eletto a suffragio ristretto e dotato di poteri limitati.
La rivoluzione indipendentistica ungherese fu repressa nel 1849 con l’intervento degli eserciti austriaco e russo.
GERMANIA: la rivoluzione scoppiò a Berlino, capitale della Prussia, e costrinse il re prussiano Federico Guglielmo IV a fare alcune limitate concessioni al movimento liberale.   Nel frattempo a Francoforte si riunì un’Assemblea Costituente con l’obiettivo di avviare un processo di unificazione nazionale tedesca. L’Assemblea di Francoforte optò per la soluzione “piccolo-tedesca” (che comportava l’esclusione dell’Austria dalla Germania unificata) e offrì la corona imperiale tedesca al re di Prussia Federico Guglielmo IV.  Questi però rifiutò la corona (non  voleva un’investitura “dal basso”) e il suo rifiuto di fatto determinò il fallimento del progetto di unificazione e la fine dell’Assemblea .

 

IL QUARANTOTTO IN ITALIA
In  Italia la situazione politica non era sostanzialmente cambiata dal  Congresso  di Vienna: tutti i tentativi rivoluzionari attuati prima dalla Carboneria e poi dalla Giovine Italia non avevano conseguito nessun risultato, nessuna rifor­ma,  in tutti gli stati italiani vigeva dunque l'assolutismo, non era  stato fatto  nessun  passo avanti verso l'unificazione, gli  Austriaci  dominavano incontrastati  il  Lombardo-Veneto e controllavano tutta  la  penisola,  che anche dal punto di vista economico era molto arretrata.
Dopo  il 1840 però si registrò un certo sviluppo economico,  prevalentemente agrario, in Piemonte: il Regno di Sardegna stipulò anche trattati commerciali  con  Inghilterra  e Francia riducendo invece i  rapporti  economici  con l'Austria.
La  Lombardia  era  la più ricca regione italiana, ma la  sua  economia  non poteva svilupparsi perché era asservita all'economia austriaca ed era imbri­gliata dai vincoli doganali e fiscali imposti dall'Austria.
Nel 1846 divenne papa Pio IX (già noto per le sue idee moderatamente liberali  e nazionali) il quale subito concesse un'amnistia ai detenuti  politici, concesse la libertà di stampa e una consulta, cioè un'assemblea rappresenta­tiva:  questi gesti furono accolti con entusiasmo dai  "patrioti"  italiani, che pensarono che Pio IX potesse diventare la guida del rinnovamento politi­co italiano, secondo la prospettiva neoguelfa.
Il 1848 fu inaugurato in Italia dall’insurrezione di Palermo del 12 gennaio che costrinse il re Ferdinando II Borbone a concedere la Costituzione.  In febbraio e in marzo Costituzioni o Statuti furono concessi anche a Firenze, a Torino e a Roma: si trattava di costituzioni che concedevano ai sudditi limitatissimi diritti civili e politici e che lasciavano ai re poteri molto ampi , ma che comunque rappresentavano, finalmente, il passaggio dalla monarchia assoluta alla monarchia costituzionale.
Esaminiamo  brevemente  lo Statuto albertino, concesso dal  re  di  Sardegna Carlo  Alberto;  tale statuto divenne successivamente (nel  1861)  la  legge fondamentale del Regno d'Italia e rimase in vigore fino al 1946.
Lo  Statuto albertino prevedeva la classica distinzione dei tre  poteri.  Il potere  legislativo era attribuito al parlamento formato dal senato  e  dalla camera  dei  deputati; i senatori erano tutti nominati dal  re,  i deputati erano eletti dai cittadini maschi più  ricchi e ragguardevoli (aveva  diritto di  voto circa il due per cento della popolazione. Il potere  esecutivo  era attribuito  al governo; il capo del governo era nominato dal re e  rispondeva  al  re (non al parlamento), anche se, dal Cavour in poi, i capi del  governo cercarono  sempre  di avere il sostegno della maggioranza  parlamentare.  Il potere esecutivo era demandato ai magistrati, nominati dal re, ma inamovibi­li.  E'  quindi evidente che il re conservava un enorme  potere,  in  quanto nominava  il  capo del governo, la magistratura e metà  del  parlamento,  ed  inoltre poteva opporre il veto agli atti del governo e del  parlamento.

LA PRIMA GUERRA D'INDIPENDENZA
Nel  clima  di entusiasmo patriottico determinato  dalla  concessione  degli Statuti,  Milano e Venezia (seguendo l'esempio di Berlino, Vienna,  Budapest ecc.)  insorsero  contro  l'Austria il 17 e il 18 marzo  1848:  i  cittadini alzarono  le barricate e in pochi giorni riuscirono a cacciare  fuori  dalle città le truppe austriache. Tuttavia era prevedibile che le truppe  austria­che,  ricevuti rinforzi da Vienna, attaccassero le città liberate,  pertanto gli insorti chiesero l'aiuto del Piemonte; l'intervento piemontese era  però sollecitato  anche  per altri motivi: i patrioti  milanesi  liberal-moderati (appartenenti all'alta borghesia o all'aristocrazia) temevano che la rivolu­zione prendesse una piega democratica e repubblicana, e quindi consideravano l'intervento del re di Sardegna necessario anche per indirizzare la  rivolu­zione in senso monarchico e moderato.
Il  23 marzo '48 Carlo Alberto dichiarò guerra all'Austria ed entrò in  Lom­bardia, mentre truppe di volontari venivano mandate anche dallo Stato  della Chiesa,  dalla  Toscana  e da Napoli, sembrava così che  si  realizzasse  la prospettiva federale, cioè tutti gli Stati italiani concorrevano a scacciare gli stranieri dalla penisola.
Tuttavia, dopo alcuni iniziali successi (Carlo Alberto entrò trionfalmente a Milano),  le truppe italiane cominciarono a incontrare serie difficoltà;  il papa  Pio IX, preoccupato per le minacce di scisma religioso provenienti  da Vienna, dichiarava che il capo della Chiesa cattolica non poteva fare guerra a  uno Stato cattolico, e ritirava le truppe pontificie, subito imitato  dal granduca di Toscana e dal re delle Due Sicilie: infatti Carlo Alberto aveva  dimostrato, con le prime annessioni di territori occupati,  di  voler annettere  al  Piemonte tutti i territori liberati  dagli  Austriaci,  senza tener conto della partecipazione degli altri Stati italiani e senza prendere in  considerazione l'ipotesi di una federazione italiana, era  quindi  ovvio che gli altri sovrani italiani non volessero più partecipare a un'impresa di cui si sarebbe avvantaggiato solo il re di Sardegna.
Carlo Alberto proseguì perciò la guerra da solo, ma fu facilmente  sconfitto dall'esercito austriaco che nel frattempo aveva ricevuto i rinforzi  (luglio '48).
Fallito  il  tentativo  regio sabaudo, presero  l'iniziativa  i  democratici mazziniani:  a Roma il papa proseguiva nella politica di  riforme  nominando capo  del governo Pellegrino Rossi, un liberale moderato; i mazziniani  però non  vedevano  di buon occhio l’ammodernamento politico e  il  rafforzamento dello Stato della Chiesa, sia perché erano contrari in linea di principio al potere temporale del papato, sia perché la presenza dello Stato della Chiesa rappresentava un ostacolo forte all'unificazione politica italiana;  inoltre Pio  IX  con il suo voltafaccia nella guerra antiaustriaca  aveva  perso  la simpatia dei "patrioti". Dunque Pellegrino Rossi fu assassinato e all’inizio del  1849 una rivoluzione organizzata dalla Giovine Italia scoppiò a Roma  e costrinse il papa alla fuga: si costituì la Repubblica Romana governata  dai triumviri Mazzini, Saffi e Armellini, il comando dell'esercito della  repub­blica romana fu affidato a Giuseppe Garibaldi.
Anche  il tentativo repubblicano tuttavia fallì: venne in soccorso del  papa il  nuovo presidente francese, Luigi Napoleone, che voleva presentarsi  agli occhi dell'opinione pubblica francese e della diplomazia internazionale come il tutore della Chiesa. Le truppe francesi sconfissero le truppe Garibaldine e restaurarono l'autorità del papa a Roma.

Così  anche in Italia, come in Germania e nell'Impero austriaco, le  rivoluzioni del '48/49 non conseguirono nessun risultato: tutti i sovrani  italia­ni,  eccetto Carlo Alberto, revocarono gli Statuti concessi e attuarono  una politica  di repressione nei confronti dei sudditi che, durante  il  biennio rivoluzionario,  si  erano  segnalati come "patrioti"; il  papa  assunse  un atteggiamento  molto  più  diffidente nei confronti del  liberalismo  e  del movimento  nazionale, in quanto riconobbe in esso tendenze anticlericali  ed estremistiche.

IL PIEMONTE DOPO IL QUARANTOTTO

Carlo Alberto, dopo la sconfitta subita dall'Austria (la pace venne stipula­ta  a Milano nel '49, l'Austria non impose condizioni gravose al  Piemonte), abdicò  a  favore del figlio Vittorio Emanuele II. Il  Piemonte  fu  l'unico stato italiano che mantenne lo Statuto concesso prima della guerra e accolse i "patrioti" perseguitati negli altri Stati italiani.
Il  Piemonte quindi rimase l'unica monarchia costituzionale italiana,  anche se occorre dire che il liberalismo piemontese era molto imperfetto:  innanzitutto il re deteneva ampi poteri e solo una piccolissima parte dei cittadini aveva diritto di voto, e poi il governo agiva spesso in modo autoritario con scarso rispetto dei diritti civili pur garantiti dallo Statuto (la stampa fu più volte censurata, alcune elezioni vennero invalidate perché erano stati eletti deputati sgraditi al governo ecc.).
Il  Piemonte continuò anche la politica di sviluppo economico  già  iniziata negli anni quaranta. In particolare il conte Camillo Benso di Cavour ,  prima come ministro poi come capo del governo, si impegnò a fondo in questo senso: favorì  lo sviluppo dell'agricoltura, creò infrastrutture (ferrovie,  canali di  navigazione e d’irrigazione, porti), favorì  i primi  insediamenti  indu­striali, adottò un indirizzo economico liberista. Per attuare questa politi­ca ricorse a prestiti e finanziamenti francesi e inglesi. Cavour si  premurò anche  di rafforzare e modernizzare l'esercito. Tutto ciò comportava ovviamente un forte indebitamento del Regno di Sardegna.
Cavour adottò anche alcune misure di politica ecclesiastica: eliminò  alcuni privilegi  della Chiesa e soprattutto soppresse gli ordini religiosi contem­plativi incamerando le loro proprietà  (per ridurre il deficit dello  Stato); quest'atto  fu  considerato dai cattolici una grave intrusione  del  governo nella vita della Chiesa, una limitazione della libertà religiosa, un  attentato   alla  proprietà  privata  (che  i  liberali  proclamavano  di   voler difendere);  la  politica piemontese nei confronti  degli  ordini  religiosi (soppressione,  espropriazione dei beni) determinò un  atteggiamento  ostile della  Chiesa  e  del papato nei confronti del Piemonte e  del  processo  di unificazione  nazionale attuato dal Piemonte: si gettavano così le basi  del grave  e duraturo contrasto fra lo Stato italiano (che si costituirà  nel  1861 grazie  all'iniziativa  militare e diplomatica del regno di  Sardegna)  e  i cattolici italiani.
Per quanto riguarda il problema nazionale Cavour aveva idee precise:  l'uni­ficazione politica italiana era una necessità storica, era quindi necessario che  le  forze politiche e sociali moderate e  conservatrici , si  rendessero protagoniste  del  processo di unificazione, per non lasciare la  guida  del processo unitario ai repubblicani democratici o ancor peggio ai  socialisti; c'era  infatti il pericolo che il processo unitario divenisse anche  l'occasione e lo strumento per avviare radicali trasformazioni politiche e  socia­li, sgradite ai ceti di cui Cavour era l’esponente.  Cavour quindi sfruttava lo spauracchio della rivoluzione repubblicana  o socialista per  convincere  i moderati e i conservatori  ad  appoggiare  la politica unitaria del governo piemontese. L’unificazione secondo Cavour  non doveva attuarsi per mezzo di rivolte popolari, ma per mezzo della progressi­va estensione del Regno di Sardegna che (grazie alle conquiste realizzate dall’esercito regio) doveva annettersi, pezzo dopo pezzo, tutta la penisola, fino a trasformarsi in Regno d’Italia. Cavour si  rendeva conto però che il Piemonte non aveva sufficiente forza militare per  battere l’Austria (tanto più che non voleva avvalersi di rivoluzioni popolari);  per questo era necessario che il Piemonte trovasse degli alleati in campo inter­nazionale , e precisamente per questo motivo Cavour entrò in guerra nel  1854 a  fianco della Francia e dell’Inghilterra contro la Russia: era una  guerra che si combatteva in Crimea e che non poteva dare alcun vantaggio al Piemon­te. Però la partecipazione piemontese (i bersaglieri si distinsero  particolarmente  durante la guerra) servì ad attirare sul piccolo stato sabaudo  la simpatia francese ed inglese.
Nel  1858  Cavour  mise a frutto questa simpatia  firmando  un’alleanza  con Napoleone III (cioè Luigi Napoleone): l’alleanza prevedeva che se il Piemon­te fosse stato attaccato dall’Austria la Francia sarebbe entrata in guerra a fianco  del  Piemonte, e prevedeva inoltre una  spartizione  della  penisola italiana  tra Francia e Piemonte: il Piemonte avrebbe avuto tutta l’Italia settentrionale, l’Italia centrale e quella meridionale sarebbero passate sotto il controllo della Francia, che inoltre avrebbe ottenuto dal Piemonte la Savoia e Nizza.
Napoleone III aveva stipulato  questa  al­leanza  perché  voleva emulare le gesta del suo  illustre antenato,  voleva quindi  affermare la supremazia francese in Europa riducendo il ruolo  e  la potenza dell’Austria.

LA SECONDA GUERRA D'INDIPENDENZA

Nel 1859 l’Austria, ripetutamente provocata da movimenti di truppe piemontesi sul confine, dichiarò guerra al Piemonte. Il Piemonte,  con l’aiuto delle truppe francesi, contrattaccò e occupò la  Lom­bardia: si profilava una facile conquista di tutta l’Italia  settentrionale.
Frattanto  la Toscana e l’Emilia insorte contro i vecchi sovrani  chiedevano l’annessione al Piemonte. A questo punto però Napoleone decise di  ritirarsi dalla  guerra:  gran  parte dell'opinione pubblica francese  non  approvava l’intervento militare in Italia, perché comportava il sacrificio di  soldati francesi  per una causa estranea e perché poteva danneggiare lo Stato  della  Chiesa, inoltre  lo stesso Napoleone si rese conto che non era realizzabile il  pro­getto  di  spartizione  dell’Italia fra Piemonte e Francia,  in  quanto  gli Italiani  non  avrebbero accettato una dominazione francese.  Ritiratasi  la Francia, il Piemonte non era in grado di sostenere da solo la guerra  contro l’Austria e dovette chiedere la pace: il  Regno di Sardegna ottenne, anche grazie all’appoggio della  diplomazia inglese,  la Lombardia, la Toscana e l'Emilia, però dovette  concedere  alla Francia, come compenso per il suo aiuto, Nizza e la Savoia.
L’Austria pertanto conservava in Italia il Veneto, il Trentino e il  Friuli; rimanevano inoltre nella penisola lo Stato della Chiesa e il Regno delle Due Sicilie sotto la dinastia dei Borbone.
In definitiva la Seconda guerra d’indipendenza, anche se non aveva conseguito  un  pieno  successo, aveva comunque realizzato un  grande  passo  avanti nell’unificazione  politica della penisola; nello stesso tempo  i  risultati della Seconda guerra d’indipendenza davano ragione al Cavour e a chi sosteneva che l’unificazione poteva avvenire solo grazie all’iniziativa sabauda e come  progressiva estensione del Regno di Sardegna (in effetti  le  regioni “liberate” furono direttamente annesse al Regno di Sardegna, di cui assunsero  leggi,  ordinamenti, istituzioni ecc.); ovviamente i  repubblicani  e i federalisti erano delusi e scontenti di questa soluzione; l’ultimo tentativo di imprimere una direzione diversa al movimento risorgimentale fu attuato da Garibaldi  con  l’ impresa  dei Mille, ma fu, come vedremo,  un  tentativo ambiguo che alla fine avvantaggiò solo il re di Sardegna Vittorio  Emanuele II.

L'IMPRESA DEI MILLE (1860)
 
Mentre  si concludeva la seconda guerra d’indipendenza in Sicilia era  scop­piato un moto antiborbonico; il governo piemontese, impegnato nelle  tratta­tive per la pace con l’Austria, non poteva intervenire nell’Italia  meridio­nale  per  appoggiare  gli insorti. Giuseppe Garibaldi  allora  raccolse  un esercito  di volontari (circa mille) e con due navi partì dalla Liguria  per andare  in  aiuto dei siciliani. Le operazioni di  Garibaldi  (raccolta  dei volontari  e  delle armi, viaggio dalla Liguria alla  Sicilia) non  vennero ostacolate  né  dal governo piemontese né dalle navi della  flotta  militare inglese presenti nel Mediterraneo.
Garibaldi  poté così sbarcare indisturbato a Marsala. In Sicilia  l’esercito dei garibaldini venne rinforzato dai “picciotti” cioè dai giovani  siciliani che  correvano ad arruolarsi: in effetti Garibaldi era considerato un  eroe, un liberatore, un condottiero invincibile. Le plebi meridionali si  aspetta­vano  da lui non solo l’abbattimento del regime borbonico assolutistico,  ma anche una radicale riforma sociale ed agraria che riducesse il divario fra i grandi  proprietari  latifondisti e i miseri “cafoni”.   Garibaldi ottenne importanti  successi militari contro le truppe borboniche, successi che  gli consentirono di conquistare prima Palermo, poi tutta la Sicilia, e poi tutto il  Regno  delle  Due Sicilie, fino a Napoli. Garibaldi però  non  attuò  la riforma  agraria desiderata dalla parte più povera della popolazione, anzi  represse  duramente alcuni tentativi di rivolta sociale sfociati  nell’uccisione dei latifondisti; il fatto è che Garibaldi non voleva alienarsi  l’appoggio  degli  Inglesi (che in Sicilia avevano molte proprietà terriere)  e voleva  guadagnarsi  l’appoggio dei notabili meridionali, in tal  modo  però perse lentamente il grande favore popolare di cui aveva  goduto  all’inizio dell’impresa.
Giunto a Napoli Garibaldi si trovò di fronte a una scelta da fare: consegna­re  tutte  le terre conquistate a Vittorio Emanuele II,  oppure  cercare  di conquistare  anche  lo Stato della Chiesa e costituire  una Repubblica  del centro-sud, inevitabilmente in contrapposizione con il Regno di Sardegna.  A questo punto  Cavour  decise di muovere l’esercito  piemontese  incontro  a Garibaldi:  l’esercito  piemontese, guidato dal re in persona,  entrò  nello Stato  della Chiesa, sconfisse le truppe pontificie e occupò le Marche e l’Umbria: l’incontro  fra  Vittorio Emanuele  II  e  Garibaldi avvenne a Teano il 26 ottobre 1860  e  Garibaldi consegnò al re l’Italia meridionale senza chiedere nulla per sè.
Forse  Garibaldi rinunciò alla Repubblica perché si rese conto di  non  aver sufficiente seguito popolare per opporsi al Regno di Sardegna, o forse volle evitare  una  contrapposizione fra Regno e Repubblica che  avrebbe  lacerato l’Italia e ritardato l’unificazione.
Cavour,  da parte sua, giustificò di fronte alla Francia  l’invasione  dello Stato  della Chiesa con la necessità di bloccare Garibaldi che,  altrimenti, avrebbe tentato di conquistare Roma mettendo in pericolo la sovranità stessa del papa.
L'ex-regno  delle Due Sicilie (cioè tutto il Meridione) e le  regioni  dello Stato della Chiesa occupate dalle truppe piemontesi vennero annessi al Regno di  Sardegna  dopo l’esito favorevole dei plebisciti (referendum in  cui  si votava  per o contro l’annessione); così nel 1861 tutta l’Italia si  trovava unificata politicamente sotto il Re di Sardegna, eccetto il Lazio, il  Vene­to, il Trentino e il Friuli.
Il    Regno di Sardegna si trasformò ufficialmente in Regno d’Italia  il  17 marzo 1861.

I PROBLEMI DELL'ITALIA UNITA

Pochi mesi dopo la proclamazione del Regno d’Italia il suo principale  arte­fice,  Camillo Benso di Cavour, morì: l’aneddotica gli attribuisce  la  nota frase: «L’Italia è fatta, ora restano da fare gli Italiani». In effetti  una gran parte della popolazione, generalmente analfabeta e molto povera,  rima­neva indifferente di fronte alle trasformazioni politiche e istituzionali; i governanti che succedettero a Cavour adottarono poi una politica che colpiva duramente  gli  strati  più bassi della popolazione e  che  quindi,  anziché favorire una crescita della coscienza civile, generava malcontento e ostili­tà nei confronti del nuovo Stato italiano.
Il  nuovo  Regno d’Italia era nato dall’iniziativa del Regno di  Sardegna  e assunse dal Regno di Sardegna tutte le leggi e tutte le istituzioni a parti­re  dallo Statuto albertino. Nel Parlamento furono immessi i rappresentanti di tutte le regioni annesse, eletti a suffragio molto ristretto. I  deputati si divisero in due schieramenti: la Destra storica che tenne  il governo del Regno fino al 1876, e la Sinistra storica che tenne il governo dal 1876 alla Prima  guerra  mondiale. La Destra storica e la Sinistra  storica  non  sono equivalenti alla “destra” e alla “sinistra” attuali;  la Destra storica e la Sinistra storica sono invece due  espressioni, due tendenze  del  liberalismo moderato: i deputati del  Regno,  anche  per effetto della ristrettezza del suffragio, erano tutti esponenti delle classi più  alte  (proprietari, imprenditori, professionisti,  intellettuali...)  e condividevano  la  stessa ideologia liberale. I deputati della  Destra  però erano più preoccupati di rafforzare lo Stato (all’interno e all’esterno) che di  favorire un progresso politico e sociale della popolazione,  i deputati della  Sinistra  invece erano più sensibili ai problemi sociali  e  volevano attuare un cauto progresso politico (allargamento del suffragio e  decentra­mento).
I  governi  della Destra storica cercarono di consolidare  l’unità  politica appena  conseguita attraverso un forte accentramento amministrativo (non  fu concessa nessuna forma di autonomia locale) e attraverso la creazione di una rete  ferroviaria  nazionale. Un problema del nuovo Stato  fu  la  cosidetta piemontesizzazione, cioè il fatto che tutti gli alti gradi della  burocrazia e dell’esercito furono occupati dai piemontesi: in tal modo tutte le regioni furono  amministrate dai piemontesi, che spesso non potevano o non volevano capire persone e situazioni tanto diverse; in tal modo gli abitanti di molte regioni furono indotti a guardare il nuovo Stato come una realtà lontana  ed estranea, se non addirittura ostile.  Infatti l’unificazione comportò anche, per molti italiani, un aumento delle tasse e l'obbligo del servizio militare (che negli stati preunitari non c’era); nel Meridione molti, soprattutto per sfuggire  alla  leva, si fecero fuorilegge, formando bande di  briganti  che costituivano un serio problema. Il governo inviò contro le bande  l’esercito e  attuò una spietata repressione (5000 fuorilegge furono uccisi,  ma  anche molti  soldati  morirono) che pose fine al brigantaggio, ma non  pose  certo fine al malcontento e al disagio sociale che l’avevano generato.
Un altro grave problema era costituito dal deficit finanziario dello  Stato: le  guerre d’indipendenza e la costruzione delle ferrovie avevano  costretto lo  Stato a indebitarsi. I governi della Destra si proposero di raggiungere rapidamente il pareggio  del bilancio ricorrendo a due misure: 1) la vendita all’asta di beni demaniali  ed ecclesiastici, che diede la possibilità ai latifondisti di incrementare le  loro proprietà , ma naturalmente suscitò le proteste della Chiesa, nuovamente espro­priata (i beni ecclesiastici erano per lo più terreni, incolti o affittati ai contadini, di proprietà delle diocesi e dei monasteri); 2) l’imposizione di una tassa sul macinato, cioè sulle farine, era una tassa che colpiva soprattutto i più poveri che vivevano di pane e polenta. Anche questi provvedimenti incrementarono il malcontento e l’ostilità dei ceti  popolari nei confronti dello Stato italiano.

Infine  i governi della Destra storica completarono  (quasi)  l’unificazione italiana annettendo al Regno il Veneto e il Lazio (con Roma).
La  conquista del Veneto avvenne nel 1866 in concomitanza della  guerra  fra Prussia  e  Austria:  l’Italia si alleò alla Prussia  contro  l’Austria;  le vicende militari andarono male per l’esercito italiano (la flotta da guerra italiana  fu affondata da quella austriaca a Lissa) però l’Austria fu  scon­fitta dalla Prussia e quindi l’Italia ottenne il Veneto.
Ciò che restava dello Stato della Chiesa (Roma e il Lazio) venne conquistato nel  1870. Il papa Pio IX non intendeva rinunciare alla sovranità di  questo piccolo  Stato  perché  riteneva che essa garantisse al papa  la libertà e l’indipendenza  di cui aveva bisogno per esercitare la sua funzione di  capo della Chiesa “al di sopra delle parti”; certo i governanti del Regno  d’Ita­lia  garantivano al papa libertà e indipendenza e dicevano di voler  seguire il  principio “Libera Chiesa in libero Stato”, ma il papa non si  fidava  di queste  promesse perché il Regno di Sardegna e poi quello  d’Italia  avevano già  dato prova di scarso rispetto della libertà della Chiesa (non solo  erano stati  soppressi  molti  ordini religiosi ed erano  stati  espropriati  beni ecclesiastici, ma lo Stato pretendeva anche di intervenire nella nomina  dei vescovi); per questo nel 1864 Pio IX emanò un documento, il Sillabo, in  cui condannava il liberalismo e le pretese dello Stato italiano su Roma.   D’altra parte  i governanti italiani volevano assolutamente Roma per  farne  la capitale del Regno, perché erano fortemente condizionati dal mito dell’anti­ca  Roma; l’importanza assunta dal mito della romanità è  sintomatica  anche del  desiderio di potenza e di dominio dei politici italiani,  un  desiderio velleitario  nel 1870, ma persistente e destinato a produrre effetti  (nefasti) in seguito.
Fino al 1870 lo Stato della Chiesa fu militarmente protetto da Napoleone III di  Francia,  nel  1870 la Prussia entrò in guerra contro la  Francia  e  la sconfisse  rovinosamente:  Napoleone III abdicò (in Francia si  costituì la Terza Repubblica),  e lo Stato della Chiesa si trovò senza protezioni.  Immediatamente il governo italiano attaccò Roma: i bersaglieri aprirono una breccia a Porta  Pia  e occuparono la città. Il papa si ritirò  nei palazzi vaticani dichiarandosi prigioniero, e vietò ai cattolici italiani di partecipare alle elezioni e di collaborare con lo Stato italiano usurpatore dei diritti della Chiesa.

LE  TAPPE DELL’UNIFICAZIONE ITALIANA IN SINTESI
1848/49 : PRIMA GUERRA D’INDIPENDENZA =  Milano e Venezia insorgono contro gli Austriaci, Carlo Alberto re di Sardegna dichiara guerra all’Austria. Inizialmente le truppe piemontesi avanzano in Lombardia, ma poi non resistono alla controffensiva austriaca e il regno di Sardegna viene sconfitto.
Il re Carlo Alberto abdica e gli succede Vittorio Emanuele II.  Il Regno di Sardegna è l’unica monarchia costituzionale italiana.
1850/58: Camillo Benso di Cavour diventa capo del governo del Regno di Sardegna; attua interventi di modernizzazione economica e civile; stringe un’alleanza militare con la Francia.
1859 : SECONDA GUERRA D’INDIPENDENZA  = il Piemonte provoca una guerra con l’Austria, e con l’aiuto della Francia, la sconfigge: ottiene in tal modo la Lombardia.  Contemporaneamente la Toscana e l’Emilia Romagna scacciano le vecchie autorità per mezzo di insurrezioni popolari, e si uniscono al Piemonte.
1860 : IMPRESA DEI MILLE = Garibaldi, alla testa di mille volontari, conquista l’Italia meridionale e quindi la cede al Regno di Sardegna.  Il Regno di Sardegna conquista le regioni dello Stato della Chiesa eccetto il Lazio.
1861 : Viene proclamato il Regno d’Italia.
1866: TERZA GUERRA D’INDIPENDENZA (GUERRA AUSTRO-PRUSSIANA). La Prussia attacca e sconfigge l’Austria; l’Italia, alleata della Prussia, ottiene il Veneto.
1870: CONQUISTA DI ROMA: la Francia viene sconfitta dalla Prussia, Napoleone III abdica e lo Stato della Chiesa perde la protezione internazionale. Il Regno di Italia conquista Roma che diventa la capitale del Regno.

 

L'EUROPA DAL 1850 AL 1870

L'UNIFICAZIONE DELLA GERMANIA
Contemporaneamente  all’unificazione  italiana  si  realizzava  quella tedesca:  anche  in  Germania  l’unificazione  si  realizzava   grazie  all’iniziativa dello Stato tedesco militarmente ed economicamente  più forte, la Prussia.  L’unificazione tedesca però non avveniva all’insegna del liberalismo (molto “moderato”) come quella italiana, ma all’insegna della  potenza. In altri termini possiamo dire che mentre il Piemonte giustificava il suo ruolo e il suo primato sugli altri stati italiani proclamando e realizzando i principi del liberalismo, la Prussia giustificava il suo ruolo e il suo primato per mezzo della sua enorme superiorità economica e militare.
In effetti la Prussia aveva una costituzione e un parlamento, ma tutto il  potere  era concentrato nelle mani del re e  del  cancelliere,  il quale poteva governare senza tenere in alcuna considerazione il parlamento.
Dal  punto  di  vista economico la Prussia  era  caratterizzata  dalla presenza  di  grandi proprietà terriere: i  proprietari  (gli  Junker) costituivano il ceto preminente e privilegiato della società  prussiana, mentre i contadini erano in condizioni di soggezione assoluta. Nelle regioni della Ruhr e della Slesia, ricche di giacimenti minerari, però si era anche realizzato un grande sviluppo industriale.
Nel 1861divenne re Guglielmo I il quale nominò cancelliere Ottone di Bismark e avviò l’ammoder-namento e  il  rafforzamento  dell’esercito prussiano.  L’obiettivo di Guglielmo I e di Bismark era  unificare  la Germania  in  un Reich (impero) di cui Guglielmo  I  sarebbe  divenuto imperatore.
Per conseguire tale obiettivo la Prussia nel 1864 attaccò e  sconfisse la  Danimarca (che dovette cedere alcuni ducati), poi attaccò e  sconfisse l’Austria (1866) per costringerla a lasciare la presidenza della Confederazione del Reno, infine nel 1870 attaccò e sconfisse la  Francia, la quale dovette  cedere  le  regioni  renane dell’Alsazia  e  della Lorena. Nel 1871 venne  proclamato  il  Secondo Reich tedesco.

LA FRANCIA
Luigi Napoleone era stato eletto presidente della Repubblica  francese nel 1848, poi era riuscito a trasformare la repubblica in impero (come il suo illustre antenato) e aveva preso il nome di Napoleone III.
Napoleone  III aveva regnato in modo autoritario, riducendo i  diritti civili  e i poteri del Parlamento, però aveva sottoposto i  suoi  atti più  importanti a referendum popolari e quindi si era  preoccupato  di ottenere il consenso della maggioranza dei francesi. Anche l’atteggiamento di protezione assunto da Napoleone III nei confronti dello Stato della Chiesa nasce dall’intento di conquistare il favore dei cattolici francesi.
Gli anni dal 1850 al 1870 in Francia furono caratterizzati da un’accelerazione  dello  sviluppo industriale, sviluppo che  determinò  anche accesi  contrasti sociali.  Di fronte alle richieste sempre più  pressanti  delle masse Napoleone dovette allentare il suo autoritarismo  e concedere libertà di sciopero (1867) e libertà di stampa (1868).
In questi anni la Francia attuò anche una politica estera di  potenza: Napoleone  III voleva dare alla Francia una  posizione  internazionale più  importante;  per questo si impegnò a fianco del  Piemonte  contro l’Austria e avviò una politica coloniale che portò alla conquista  del Senegal,  dell’Algeria  e dell’Indocina. Anche il canale  di  Suez  in Egitto fu costruito dai francesi.
La politica di potenza francese entrò però in collisione con la  politica  di potenza della Prussia (tutti e due gli Stati pretendevano  di avere un primato in Europa) e dallo scontro la Francia uscì  sconfitta nel 1870; Napoleone abdicò e si ricostituì la Repubblica.
La COMUNE di Parigi (1871): all’inizio del 1871 le elezioni della nuova assemblea nazionale videro la vittoria dei moderati e dei conservatori, sostenuti dal voto delle province e delle campagne, favorevoli alla conclusione rapida della pace con la Germania.   Il nuovo governo repubblicano fu guidato da Thiers, che era stato già ministro durante il regno di Luigi Filippo.  La maggior parte della cittadinanza parigina invece era favorevole a soluzioni politiche più avanzate e intendeva continuare a combattere contro i tedeschi (che avevano posto condizioni molto pesanti per la pace).
Pertanto Parigi insorse contro il governo di Thiers e costituì la Comune, alla cui guida furono eletti repubblicani radicali, socialisti e anarchici.   La Comune realizzò un’esperienza di democrazia diretta e sociale: furono resi elettivi e continuamente revocabili tutti i funzionari pubblici;  l’esercito fu sostituito da milizie popolari; fu fissato il limite massimo di 10 ore per la giornata lavorativa, furono assegnate alla gestione degli operai le fabbriche abbandonate dai proprietari; non si procedette però alla collettivizzazione di tutte le proprietà.
La Comune parigina venne stroncata sanguinosamente dall’esercito del governo repubblicano: durante la “settimana di sangue” (21 maggio-28 maggio 1871) circa 20.000 difensori della Comune furono uccisi nei combattimenti o fucilati senza processo; alle esecuzioni sommarie i Comunardi risposero con feroci rappresaglie, che diffusero nell’opinione pubblica moderata un senso di paura e di odio per i rivoluzionari.
Dopo la repressione 36.000 rivoluzionari furono arrestati, ci furono molte condanne a morte e alla deportazione nelle colonie: il movimento rivoluzionario francese si trovò sconfitto e “decapitato” (privato dei suoi leaders).

L'INGHILTERRA
Dal  1837 al 1901 durò  il regno della regina Vittoria, un regno  tanto lungo e tanto importante che segnò un’epoca, denominata appunto “epoca vittoriana”.
Durante quest’epoca l’Inghilterra accentuò la sua supremazia economica che si basava  sullo sviluppo industriale e sul commercio  internazionale: la flotta inglese, sia mercantile che militare, aveva una  superiorità  indiscussa e le permetteva di controllare tutte le rotte.
L’Inghilterra non intervenne direttamente nelle lotte che travagliavano l’Europa continentale e si limitò a dare un appoggio diplomatico al Regno  di Sardegna e ai movimenti liberali: in  effetti  l’Inghilterra non  aveva  interessi in Europa e mirava unicamente a  mantenervi  una situazione di equilibrio, affinché nessuno Stato acquistasse un’eccessiva potenza e mettesse in discussione la supremazia marittima  inglese.
Al  di fuori d’Europa, invece, l’Inghilterra attuò una politica  coloniale:  iniziò  la conquista dell’ India e costrinse la Cina,  con  le guerre  dell’oppio (1839-42 e 1856-60), ad accogliere i mercanti inglesi che  vendevano l’oppio prodotto in India, una droga micidiale.
Per  quanto  riguarda la situazione interna  l’Inghilterra  conobbe  i problemi  sociali  legati allo sviluppo industriale:  il  proletariato inglese era il più  numeroso e organizzato d’Europa, ma le sue organizzazioni  sindacali,  le TRADE UNIONS, preferirono battere   la  strada della  contrattazione  più che quella della rivolta,  puntarono  a  un miglioramento  graduale  delle condizioni degli operai più che  a  una radicale  trasformazione  sociale. Questo è il motivo per cui  non  si verificano in Inghilterra violente rivoluzioni e violente  repressioni come invece si verificano in Francia e nel resto d’Europa.
Sul piano politico l’epoca vittoriana fu caratterizzata dall’alternarsi  al  governo  di due partiti, il liberale e  il  conservatore,  che attuarono cautamente una politica di riforme tra le quali va ricordata la riforma elettorale del 1867 che estese il diritto di voto (non  era ancora  il  suffragio universale, però un terzo degli  elettori  erano operai) e la legalizzazione dei sindacati.

LA QUESTIONE SOCIALE, IL MOVIMENTO OPERAIO, LE TEORIE SOCIALISTE

Abbiamo  già  preso  in esame le conseguenze  sociali  dello  sviluppo industriale  (nascita del proletariato, ingiustizie sociali,  sfruttamento ecc. ecc.); abbiamo visto come il proletariato reagì alla nuova organizzazione del lavoro, dandosi strutture associative di mutuo soccorso e di difesa.
Le prime forme di associazioni operaie che avevano cominciato a svilupparsi in Europa già prima del ’48 si rivolgevano soprattutto ai lavoratori più evoluti e meglio pagati, si collegavano spesso anche alla tradizione delle antiche corporazioni artigiane e si dedicavano più alla cooperazione e al mutuo soccorso fra i soci  che non alle lotte rivendicative contro i datori di lavoro.    Dopo le repressioni del ’48-49 il movimento associativo fra i lavoratori appariva ovunque indebolito e per lo più lontano da nuove iniziative rivoluzionarie.
Accanto all’organizzazione autonoma del movimento operaio la questione sociale sollecitò la riflessione di intellettuali che, ricollegandosi alle teorie socialiste del Settecento, prospettarono soluzioni per i  problemi  sociali fondate su una trasformazione radicale della società.
Il nucleo centrale del pensiero socialista stava nella convinzione che, per superare i mali e le ingiustizie del capitalismo industriale (in particolare quelli inerenti alla condizione operaia) non era sufficiente la pratica delle riforme dall’alto, né tantomeno il ricorso alla carità e alle iniziative filantropiche.  Era invece necessario colpire alla radice i principi informatori della società capitalista (l’individualismo, la concorrenza, il profitto) e sostituirli con i valori della solidarietà e dell’uguaglianza, mettere sotto controllo i processi produttivi in modo da orientarli verso il soddisfacimento dei bisogni dell’intera collettività: costruire insomma una società nuova, non solo nelle istituzioni politiche, ma anche e soprattutto nelle strutture economiche.
Il pensiero socialista dell’Ottocento si collegava a teorie, progetti ed esperienze dei secoli passati (l’Utopia di Tommaso Moro, il comunismo di alcuni Illuministi, la congiura di Gracco Babeuf), ma si distingueva da essi per il suo costante riferimento alla nuova realtà dell’industrialismo.
Il francese Claude-Henri de Saint-Simon  fu uno dei primi a capire la novità dell’industrialismo e ad esaltarne le potenzialità di progresso. Egli  teorizzò l’avvento di una nuova società liberata da ogni forma di parassitismo e governata dai tecnici e dai produttori  (termine con cui erano accomunati industriali e operai), nell’interesse dell’intera collettività.   Le teorie di Saint-Simon non erano propriamente socialiste, ma esercitarono una notevole influenza sul pensiero socialista successivo.
Charles Fourier (francese) fu  il rappresentante di un socialismo utopistico e anti-industriale (dunque lontano dalle idee di Saint-Simon), che mirava non solo a un’equa distribuzione delle risorse, ma anche a risolvere il problema della felicità individuale attraverso una nuova concezione del lavoro. Egli proponeva una società organizzata in tante piccole comunità (i falansteri) autosufficienti dal punto di vista economico; comunità i cui componenti si sarebbero alternati nelle diverse attività lavorative in base alle loro inclinazioni.
Auguste Blanqui (francese) si dedicò non tanto a descrivere la futura società socialista, quanto a studiare i mezzi per abbattere il sistema borghese tramite l’insurrezione che avrebbe consegnato il potere nelle mani del popolo: fu lui a elaborare per primo il concetto di “dittatura del proletariato”, che sarebbe poi stato ripreso da Marx ed Engels.
Un altro francese, Louis Blanc, può essere considerato il capostipite del socialismo riformista. Blanc era infatti convinto che la soluzione dei mali del capitalismo poteva venire solo da un intervento dello Stato come regolatore, e al limite come gestore, dei processi produttivi.  Per questo proponeva che lo Stato istituisse degli ateliers sociaux (officine sociali)  per combattere la disoccupazione e ridurre progressivamente il ruolo delle imprese private.
Infine Pierre Proudhon (francese anche lui!) propose un socialismo libertario, basato sulla creazione “dal basso” di cooperative di produzione, e duramente polemico nei confronti del socialismo “statalista” di Blanc e di Marx.  Il socialismo di Proudhon ebbe una certa diffusione in Europa, soprattutto nelle situazioni in cui l’industrializzazione era ancora ai primi passi e la struttura sociale era costituita da piccoli coltivatori e artigiani.   Anche in Italia le teorie di Proudhon influenzarono i primi socialisti italiani, Pisacane e Ferrari, due mazziniani che giunsero alla convinzione che la questione nazionale italiana non poteva essere disgiunta dalla questione sociale e che non si poteva risolvere il problema dell’unità e indipendenza nazionale senza affrontare, prioritariamente, il problema dei contadini “senza terra” e del latifondismo presente soprattutto nel Meridione.
In Germania invece la rapida e intensa industrializzazione aveva determinato la formazione di una forte classe operaia.  Un esponente autorevole del movimento socialista tedesco fu Ferdinand Lassalle: alla fine degli anni ’50 egli elaborò una teoria dello sfruttamento capitalistico molto simile a quella di Marx; ma, diversamente da Marx, sostenne la possibilità per i lavoratori di conquistare lo Stato borghese e di trasformarlo dall’interno attraverso il suffragio universale.
Il pensatore  che condusse la critica più serrata al sistema capitalistico, che immaginò un  sistema sociale di assoluta eguaglianza e che fondò  un  movimento politico destinato ad avere un enorme peso nella storia fu il  tedesco Karl  Marx (nato a Treviri nel 1818, morto in Inghilterra  nel  1883). Egli  unì  alla riflessione teorica l’attività  di  organizzatore  dei lavoratori; scrisse decine di opere (la maggior parte in collaborazione  con  l’amico  Engels) ma quelle più universalmente  note  sono  il “Manifesto  del  partito comunista” scritto nel 1848 e  il  “Capitale” scritto dal 1867 alla morte.
La riflessione marxista parte da una concezione materialista  dell’uomo: il dato fondamentale da cui bisogna partire per capire l’uomo,  la società e la storia è il lavoro, cioè il modo in cui l’uomo si rapporta  alla  natura  e trae da essa il necessario per  vivere;  in  altri termini  possiamo dire che l’economia costituisce la struttura  fondamentale della società, e che tutte le altre espressioni umane (politica, leggi, religioni, arte, morale ecc.) sono conseguenze della struttura  economica. Per esempio nell'antichità l’economia era basata  sul lavoro  schiavile e quindi le società antiche avevano una certa  organizzazione politica, sociale, culturale ecc. che dipendeva dal modo di produzione schiavistico. Nel Medioevo l’economia chiusa, fondata sulla servitù della  gleba, determinò un caratteristico  sistema  politico-culturale:  il  feudalesimo;  infine il  liberalismo  è  l’espressione politico-culturale del sistema economico capitalistico. La tesi  della preminenza  del fattore economico induce Marx a considerare  tutta  la storia  come storia di lotta di classi: ogni epoca produce una  classe dominante che vive sfruttando il lavoro di una classe subalterna e  lo sviluppo storico è il risultato del conflitto fra sfruttati e sfruttatori. In epoca moderna la borghesia è riuscita a liberarsi dal dominio della nobiltà e con ciò ha determinato il superamento del  feudalesimo e ha prodotto un grande progresso: nascita dell’industria,  intensificazione e planetarizzazione degli scambi commerciali ecc.  Con l’industrializzazione nasce però una nuova classe che è dominata e sfruttata dalla borghesia: il proletariato.
Secondo  Marx nel capitalismo avanzato (cioé nell'Ottocento)  si  crea una  situazione  paradossale:  lavoro e  capitale  sono  completamente separati, nel senso che i proletari posseggono la forza-lavoro ma  non hanno nessun capitale, mentre i borghesi imprenditori non lavorano  ma posseggono tutto il capitale. Il lavoro non è considerato  un’attività umana da rispettare e valorizzare, ma una semplice merce soggetta alle leggi  del mercato: il proletario è  costretto a vendere il suo  lavoro all’imprenditore  e  non viene pagato con un compenso  equivalente  al valore della merce prodotta, ma molto inferiore (quel tanto che  basta per  mantenere  in vita il lavoratore). La differenza  fra  il  valore della  merce prodotta e il salario dell’operaio vien chiamata da  Marx plus-valore,  e  questo  plusvalore,  “intascato”   dall’imprenditore, incrementa  sempre di più il suo capitale.  A questa situazione non  è possibile apportare dei correttivi, perché  inevitabilmente il  sistema produce lo sfruttamento dei lavoratori e l’arricchimento dei capitalisti,  l’unico modo per ristabilire l’eguaglianza fra gli uomini e  per eliminare  lo sfruttamento è abolire la proprietà privata,  instaurare il  comunismo,  cioè la proprietà collettiva dei mezzi  di  produzione (fabbriche, terreni agricoli, miniere ecc.)
Come si arriva all’abolizione della proprietà  privata e al  comunismo? Secondo Marx il comunismo è una conseguenza necessaria dello  sviluppo del  capitalismo,  il capitalismo ha in sé una contraddizione  che  lo farà  necessariamente esplodere. Il progetto marxista, secondo Marx,  è scientifico  e non utopistico perché si fonda sull’analisi  di  questa contraddizione interna al capitalismo.
Questa contraddizione consiste nel fatto che lo sviluppo del capitalismo e dell’industrializzazione porta a una concentrazione dei capitali e  delle  forze produttive: per effetto della concorrenza  le  piccole imprese falliscono o vengono assorbite da quelle più grandi, quindi un numero  sempre  minore  di proprietari possiede  capitali  e  apparati produttivi sempre più ingenti.
Nello  stesso tempo la crescita degli apparati produttivi  produce  un numero  sempre maggiore di proletari, concentrati nei grandi  impianti industriali  e nei quartieri poveri delle grandi città. Il  fatto  che gli  operai siano tantissimi, che siano concentrati,  che  condividano tutti  la  stessa condizione,  produce  naturalmente  l’organizzazione degli operai, e conferisce loro una grandissima forza rivoluzionaria.
Infine la condizione di povertà  e di sfruttamento degli operai non può attenuarsi  perché gli imprenditori, per far fronte alla  concorrenza, devono realizzare il massimo profitto dal capitale investito, e quindi devono sfruttare il lavoro al limite massimo.
Questi  3 fattori: riduzione del numero dei capitalisti ed  incremento del  loro capitale, incremento numerico e organizzazione politica  dei proletari,  sfruttamento e povertà dei proletari, portano  inevitabilmente alla rivoluzione vittoriosa del proletariato contro la borghesia capitalista.
Nel pensiero di Marx quindi la rivoluzione proletaria può scoppiare  e avere successo solo in una situazione di capitalismo “maturo”, vale a dire in una situazione di capitalismo industriale avanzato.
L'obiettivo della rivoluzione proletaria è l’abolizione della proprietà privata e la realizzazione del comunismo (vale a dire un’organizzazione sociale in cui tutto è in comune e quindi non esistono  diseguaglianze).  La realizzazione del comunismo passa attraverso  due  fasi: una fase transitoria e una fase definitiva. Nella fase transitoria  il proletariato prende il potere, istituisce una “dittatura del  proletariato”  e  statalizza tutti i mezzi di produzione  (fabbriche,  terreni, immobili, banche ecc. diventano proprietà dello Stato).
Questa  fase  transitoria realizza con  la  forza l’eguaglianza sociale.  Ma  quando nella società si sarà consolidata l’eguaglianza  e  tutti ne avranno sperimentato i vantaggi (eliminazione della povertà, condizioni  di lavoro umane e gratificanti per tutti), allora non ci sarà  più bisogno  dell’uso della forza, non ci sarà più bisogno della  dittatura  del proletariato  e  dello Stato con le sue istituzioni. A   questo  punto sarà  realizzata  la  fase definitiva del  Comunismo,  in  cui  ognuno “produrrà secondo le sue possibilità, e riceverà secondo le sue necessità”. Spariranno la criminalità e le guerre, perché in una situazione di perfetta eguaglianza vengon meno i motivi  di rivalità, e quindi non ci sarà più bisogno di polizia e di eserciti;  non  ci  sarà  più bisogno di istituzioni statali e  di  leggi  perché spontaneamente la società perseguirà il giusto e l'utile.
Risulta evidente da quanto detto che il Marxismo parte  da una pretesa analisi scientifica della storia, del capitalismo e  delle sue contraddizioni; la meta finale (il comunismo perfetto) però ha  un carattere fortemente utopico. C’è da dire che il marxismo ebbe  grande successo tra i lavoratori non tanto per le analisi economiche e sociali (spesso molto acute, anche se poi molte delle previsioni di Marx fondate su tali analisi si rivelarono inesatte), quanto per la speranza di giustizia e di vera eguaglianza che seppe accendere.
Nella seconda metà dell’Ottocento ebbero larga diffusione nel movimento operaio anche le tesi del russo Michail Bakunin, massimo teorico dell’anarchismo .
Per Bakunin, l’ostacolo principale che impediva all’uomo il conseguimento della piena libertà era costituito non tanto dai rapporti di produzione, quanto dall’esistenza stessa dello Stato. Lo Stato era, assieme alla religione, lo strumento di cui si servivano le classi dominanti per mantenere la stragrande maggioranza della poplazione in condizioni di inferiorità economica e intellettuale.  Abbattuto il potere statale, il sistema di sfruttamento economico basato sulla proprietà privata sarebbe inevitabilmente caduto. Il comunismo si sarebbe instaurato spontaneamente come l’ordine più naturale per le masse, senza che allo Stato dovesse sostituirsi nessuna organizzazione di tipo centralizzato e coercitivo.
E’ evidente quanto queste concezioni fossero distanti da quelle di Marx: per quest’ultimo lo Stato e la religione erano prodotti della struttura economica capitalista e solo la distruzione della struttura capitalista avrebbe reso possibile la distruzione dello Stato borghese.  Anche per Marx l’avvento del comunismo avrebbe portato con sé l’ “estinzione dello Stato”; ma questo stadio finale sarebbe stato raggiunto solo dopo la fase transitoria della “dittatura del proletariato”.   Per Marx, inoltre, il protagonista del processo rivoluzionario non poteva essere che il proletariato industriale dei paesi più avanzati. Per Bakunin, invece, il vero soggetto della rivoluzione erano le masse diseredate in quanto tali, senza distinzione fra operai, contadini e sottoproletari.

LA PRIMA INTERNAZIONALE
Nonostante la varietà delle ideologie e delle forme organizzative in cui si articolava nei vari paesi, il movimento operaio avvertì presto l’esigenza di dar vita a un’organizzazione internazionale di coordinamento, che fu fondata a Londra nel 1864 col nome di Associazione internazionale dei lavoratori  (denominata poi comunemente Prima Internazionale).  Vi presero parte rappresentanti delle organizzazioni operaie inglesi e francesi. Un emissario di Mazzini rappresentava le società operaie italiane.  Altri partecipanti erano stati invitati a titolo personale: tra essi, Karl Marx.
Marx riuscì a far inserire nello statuto dell’Internazionale alcuni punti che la qualificavano in senso classista, nonostante l’opposizione dei mazziniani italiani (che poi uscirono dall’Internazionale): si affermava l’autonomia del proletariato e la priorità della lotta di classe contro lo sfruttamento.
La fondazione della Prima Internazionale fu un evento capitale nella storia del movimento operaio, ma il suo funzionamento fu gravemente compromesso dall’eterogeneità delle sue componenti e dalle aspre rivalità che dividevano i suoi capi.  Negli anni ’60 il contrasto più forte ai vertici dell’Internazionale fu quello tra marxisti e proudhoniani, negli anni ‘’70 invece l’Internazionale fu messa in crisi dall’aspra rivalità fra marxisti e anarchici bakuniniani.  Anche il tragico esito della Comune di Parigi determinò un ripensamento sugli obiettivi e i metodi (rivoluzionari) del movimento socialista, e contribuì al dissolvimento della Prima Internazionale, che fu ufficialmente sciolta nel 1876.
Pertanto negli anni successivi (dopo il 1876) nel movimento operaio e socialista prevalse la tendenza riformista, che puntava all’organizzazione (in ogni paese industrializzato) di forti partiti socialisti, capaci di riformare la società attraverso gli strumenti legali della lotta politica (elezioni, attività legislatrice dei Parlamenti ecc.): si diede quindi la priorità alla realizzazione di un programma “minimo” (graduale miglioramento, per via riformista, delle condizioni dei lavoratori), rinviando a una successiva fase storica la realizzazione del programma “massimo” (realizzazione, per via rivoluzionaria, di una società egualitaria) . Minimalisti e massimalisti furono definiti i fautori, rispettivamente, del primo e del secondo programma.

I PARTITI SOCIALISTI E LA SECONDA INTERNAZIONALE
Nell’ultimo quarto di secolo il numero dei lavoratori salariati crebbe vistosamente in tutti i paesi industrializzati. In questo periodo apparvero i primi partiti socialisti, che si affiancarono, con rapporti non sempre facili, alle associazioni operaie e ai primi sindacati.  I partiti socialisti furono, tra l’altro, i primi partiti nel senso moderno della parola, con un programma preciso e un apparato organizzativo permanente.
La crescita dei partiti socialisti andò di pari passo, negli anni Ottanta, con una ripresa dell’Internazionalismo: infatti nel 1889 a Parigi, durante un congresso dei partiti socialisti marxisti, convocato per la celebrazione del centenario della rivoluzione francese, si giunse alla decisione di fondare la Seconda Internazionale dei Lavoratori, per potenziare e coordinare l’azione politica dei partiti socialisti nazionali; una delle prime decisioni della Seconda Internazionale fu l’istituzione del 1° maggio come giornata di festa e di mobilitazione a favore dei lavoratori e in particolare a sostegno della rivendicazione della giornata lavorativa di 8 ore.
Il movimento operaio in Inghilterra: Del tutto sui generis era la situazione in Inghilterra. Qui la classe operaia, che dimostrava grande combattività nelle lotte sul lavoro, restava legata alla tradizione delle Trade Unions e non era incline ad accogliere le prospettive rivoluzionarie del marxismo; infatti in Inghilterra non riuscirono mai ad affermarsi partiti socialisti d’ispirazione marxista.
Uno sviluppo importante ebbe invece la Società Fabiana, fondata nel 1884 da alcuni intellettuali (fra i quali George Bernard Shaw). Il nome della società richiamava quello del console romano Fabio Massimo il Temporeggiatore e quindi indicava la scelta del gradualismo e del riformismo. Secondo i Fabiani il liberismo  non aveva mantenuto le sue “promesse”, in quanto aveva prodotto una classe di ricchi rentiers, oziosi e improduttivi, e aveva lasciato nella miseria molti strati della popolazione. I Fabiani proposero una serie di riforme sociali, tra cui la tassazione delle ricchezze superflue e l’estensione della partecipazione politica delle classi lavoratrici;  il loro obiettivo ultimo era la realizzazione di un socialismo democratico, che intendeva valorizzare il lavoro, diffondere l’istruzione, promuovere l’emancipazione femminile, garantire a tutti un sistema di protezione sociale.
Nel 1893 varie associazioni del movimento operaio, d’intesa con la Società Fabiana, diedero vita al Labour Party (Partito Laburista), che già alle elezioni del 1906  ottenne risultati apprezzabili, e che in seguito sarebbe diventato il principale antagonista del partito conservatore, soppiantando il partito liberale.
Il Partito Socialdemocratico Tedesco:  Tra i partiti socialisti d’ispirazione marxista il più forte, organizzato e prestigioso fu senz’altro il Partito Socialdemocratico Tedesco (SPD) nato, al congresso di Gotha del 1875, da un accordo tra marxisti e  lassalliani. 
Il partito, guidato da Liebknecht, Bebel e, a livello teorico, da Karl Kautsky, resistette alla politica repressiva antisocialista attuata dal cancelliere Bismarck fino al 1890 e aumentò costantemente i suoi consensi elettorali (493.000 voti nel 1877, 4.250.000 voti nel 1912). Il suo programma si ispirò alle analisi di Marx sul crollo del capitalismo: il carattere di necessità del processo di superamento del capitalismo portava al rifiuto del volontarismo rivoluzionario e indirizzava il partito verso la conquista delle libertà civili e del potere politico.
In Francia il movimento socialista, dopo la sconfitta della Comune, restò polverizzato in una quantità di gruppi spesso in polemica tra loro. Solo nel 1905 fu costituito un partito socialista unificato (SFIO) sotto la guida di Jean Jaurès, fautore di una politica riformista. Tuttavia il movimento socialista francese fu indebolito dalle divisioni interne. Inoltre in Francia la prospettiva rivoluzionaria rimase molto forte nei sindacati.
In Italia   il ritardo e i limiti del processo di industrializzazione in Italia determinarono i caratteri, e i limiti, del movimento operaio e socialista in Italia.  Fino al 1870 in Italia il proletariato urbano si organizzò nelle società operaie egemonizzate dai mazziniani, che puntarono più sull’emancipazione civile e politica dei lavoratori che sulla lotta di classe.  Dopo il 1870 si diffuse in Italia la dottrina anarchica di Bakunin, recepita soprattutto dal bracciantato agricolo (in Italia la grande questione sociale non era quella degli operai di fabbrica, ancora poco numerosi, ma quella dei contadini senza terra, dei braccianti impiegati nella coltivazione dei latifondi); negli anni ‘70 si verificarono alcuni tentativi insurrezionali anarchici a Imola e Bologna e nel Beneventano.   Il fallimento di questi tentativi, piuttosto velleitari, determinò la crisi dell’anarchismo italiano e la “conversione” di alcuni leaders anarchici al socialismo riformista .   Così negli anni Ottanta nacquero il Partito Operaio e i primi sindacati, e nel 1892 fu fondato a Genova il Partito Socialista (nel quale confluì il Partito Operaio), guidato da Andrea Costa e Filippo Turati, affiliato alla Seconda Internazionale, con programma gradualista e riformista.

Anche negli altri paesi europei, dal 1875 al 1900, furono fondati Partiti socialisti o socialdemocratici, generalmente collegati alla Seconda Internazionale: tra questi segnaliamo il Partito Socialdemocratico Russo, fondato nel   1898 da Plechanov.

  

Il conte Camillo Benso di Cavour, membro dell’altà nobiltà e grande proprietario terriero, in giovinezza aveva viaggiato in Europa e aveva particolarmente ammirato il sistema politico ed economico inglese: era quindi diventato liberale (e liberista) e inoltre aveva acquisito la tipica mentalità imprenditoriale dei proprietari e dei borghesi inglesi.

Vale a dire: i liberali moderati monarchici, i grandi proprietari nobili e borghesi, l’alta borghesia imprenditoriale e mercantile;

Questa strategia delle alleanze è stata definita dagli storici “diplomatizzazione del Risorgimento”.

Infatti i beni venduti all’asta non furono frazionati in piccoli lotti e non furono concesse dilazioni e rateizzazioni nei pagamenti: se ciò fosse avvenuto, anche i lavoratori e i piccoli proprietari avrebbero potuto comprare questi beni, ma il governo italiano voleva ottenere grandi introiti finanziari in tempi brevi, e quindi favorì gli acquirenti già provvisti di consistenti ricchezze.

 

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