Fascismo e economia

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Fascismo e economia

Giorgio bocca-Fascismo ed economia

A- le Corporazioni - La dialettica fascista fra demagogia e repressione si istituzionalizza con le Corporazioni, il sistema che nasce con la Carta del lavoro del 1927 e arriva a compimento teorico, se così si può dire, solo nel 1939, quando la camera dei Fasci e delle Corporazioni nomina il Consiglio nazionale delle Corporazioni, chiamato a collaborare con il Consiglio nazionale del Partito Fascista, sintesi fra il potere economico e quello politico. Che cosa siano le Corporazioni è facile dirlo ma meno facile capirlo. Sono il tentativo utopico di mediare, a livello nazionale, i contrasti di classe, di trovare i ragionevoli accordi e i doverosi sacrifici a cui tutti dovrebbero piegarsi per il bene superiore della Nazione. (....) Stando alla Carta del 1927 il libero imprenditore dovrebbe essere ritenuto responsabile dell’ indirizzo della produzione di fronte allo Stato, egli dovrebbe in altre parole accettare una politica di piano, concordata con le autorità politiche, condizionata dagli interessi nazionali. Ma i padroni, ovviamente, non ne vogliono sentir parlare, mantenendo un loro sindacato fuori dalle Corporazioni e svuotandole così di ogni contenuto. Si discute di qualcosa che esiste solo in un documento del Regime, ma che non è legge e non è realtà pratica: al convegno di Ferrara del 1932 la corrente corporativista del sindacalismo fascista, guidata da Spirito e da Ponticelli, tenta invano di battere la dura resistenza degli industriali rappresentati dal segretario generale della Confindustria, Gino Olivetti. La sinistra fascista (siamo nel pieno della crisi economica degli anni ‘ 30) è seriamente preoccupata per la situazione, pensa che la pace sociale sia conservabile solo con una più equa ripartizione dei sacrifici. In quel convegno Spirito arriva a parlare di "Corporazione proprietaria", guadagnandosi l’ accusa di "bolscevico" da parte dello stesso Olivetti.
Mussolini chiamato a decidere se le Corporazioni debbano o meno avere il potere di prendere decisioni vincolanti per gli industriali, sceglie come è sempre a favore di questi ultimi, pagando la cambiale da lui contratta con la Confindustria dai tempi della marcia su Roma. Con un decreto del 1934 Mussolini assegna alle Corporazioni compiti poco incisivi e tutti di natura meramente consultiva. Così stando le cose, la Corporazione, questo istituto super partes, questa pretesa camera di compensazione dei contrasti sociali, diventa l’ ennesimo strumento al servizio del più forte. I capitalisti se ne servono per spostare i conflitti di lavoro e le discussioni salariali dalle fabbriche alle lontane burocrazie romane, dai luoghi di lavoro alle nebbiose stanze della nomenclatura sindacale, sicché i contrasti si risolvono regolarmente a loro favore. Lo sconforto e la rassegnazione si diffondono nei sindacati, anche in quelli più fascisti, anche in coloro che nelle Corporazioni come ‘terza via’ avevano sinceramente creduto. Nei tardi anni 30 nella stessa stampa di Regime sono frequenti le lamentazioni circa il fallimento delle Corporazioni o almeno circa la loro solo parziale realizzazione.

  1. descrivi la teoria che sta alla base del Corporativismo;
  2. come e perché tale teoria NON viene realizzata e le Corporazioni si rivelano un fallimento?
  3. spiega la frase sottolineata

B-AUTARCHIA- Verso il 1935 ai paraocchi medievali delle Corporazioni si è aggiunta la pesante bardatura dell’ autarchia, che, aggiungendo Ente ad Ente, Istituto ad Istituto, ha creato un generale soffocamento della libera iniziativa imprenditoriale. Il tentativo autarchico di sostituire le importazioni con prodotti nazionali è tutto segnato da ingenuità tecniche e da volgari imbrogli, ma risulta soprattutto grave nelle sue conseguenze a lungo termine.(....) La scelta autarchica  non è di per sé una deliberata scelta bellica da parte dei gruppi monopolistici, non si può sostenere che in gruppi protetti vogliano esplicitamente la guerra; significa però far parte di un meccanismo di cui sbocco probabile può essere la guerra, significa scivolare dalla paura di essere esclusi dai mercati internazionali, alla avventura coloniale e poi al tentativo di tagliare il nodo con la guerra. La nostra progressione da un’ economia protetta a un’ economia di guerra non è altrettanto premeditata di quella nazista, la politica degli armamenti con cui si dà ossigeno alle industrie belliche è incerta, disorganica, ma pur tuttavia  la direzione generale è la stessa della Germania. (....)
Le conseguenze dell’ autarchia sono per l’ Italia assai pesanti: la corruzione, il sottogoverno, la frode quotidiana sono il meno: il grave è che l’ autarchia esenta i produttori dalle verifiche del mercato e assicura loro l’ acquisto a prezzi antieconomici: si fanno dei contratti di fornitura che equivalgono per lo Stato a delle firme in bianco, con l’ impegno a pagare il prodotto finito qualunque sarà il suo costo. Nelle forniture militari, decise al di fuori di ogni concorrenza, non sono presenti nei contratti neppure delle cifre preventive ma solo delle indicazioni generiche sui futuri costi da sostenere.
Un’ altra conseguenza negativa è che la protezione autarchica crea sovrastrutture burocratiche costose e soffocanti: il già inefficace sistema corporativo viene paralizzato dagli interventi autoritari degli uffici che controllano il commercio con l’ estero e che nascono come funghi: AIPA, ANIC, ACI, AMMI, che vanno ad aggiungersi ai già elefantiaci IRI e IMI. Se si vogliono cercare le origini dell’ asfissiante burocrazia dell’ Italia di oggi si deve andare a quel periodo.
Un terzo effetto è il ridicolo: ogni prodotto deve guadagnarsi la qualifica di "italianissimo", ogni produzione, anche le più normale e prosaica, si trasforma in una eroica battaglia: del grano, delle barbabietole, del cotone, del baco da seta. Si allarga intanto il campionario truffaldino: il cattivo caffè di cicoria venduto con l’ etichetta "miscela italiana", il surrogato di cioccolata spacciato per "cacao delle imperiali colonie", il mediocre tabacco nazionale rozzamente arrotolato nelle sigarette ‘Itala DeLuxe’ e così via, in una lista imbarazzante se non fosse ridicola. Anche la ‘italianissima’ musica leggera di Regime strizza l’ occhio allo swing americano; vige la proibizione ufficiale di ascoltare il jazz definito ‘’pseudo-musica da negri’, ma questo stesso jazz viene imitato (ovviamente male) da musicisti italiani freschi di studi classici. L’ effetto sociale dell’ autarchia è tragicomico: si diffonde tra gli italiani e specie tra i giovani quasi un culto idolatrico dei prodotti stranieri, dalle sigarette alla musica, unito a un senso di sufficienza verso i prodotti italiani, anche verso quelli validi come il tessile o l’  agroalimentare: l’ autarchia finisce col generare esterofilia.

  1. Entro che limiti Bocca accetta il nesso causale tra autarchia ed entrata in guerra dell’ Italia?
  2. Elenca e descrivi brevemente le 3 conseguenze negative dell’ autarchia
  3. Spiega la frase sottolineata

C- BORGHESIA E FASCISMO - L’ alta borghesia monopolistica ha un concetto strumentale ed egoistico del Fascismo. Fra l’ essere buttata a mare dal socialismo ed il navigare da sola nelle acque tempestose del mercato ha scelto una terza via: lasciare ai ceti medi il potere politico, tenersi per sé quello economico. I padroni del vapore di regola non vengono alla ribalta politica, stanno nelle direzioni delle sedi finanziarie, nelle ville dove muri di cinta e parchi li separano anche fisicamente dei comuni mortali. Il Fascismo, lo si è detto, ha pagato tutte le sue cambiali, prima assecondando il liberismo con Di Stefano, poi introducendo via via elementi di protezionismo, poi accordando alla grande industria il completo monopolio sulle commesse statali e sulle spese militari. Ma questo non accade secondo il rigido determinismo immaginato dalla interpretazione marxista ortodossa (per es. Togliatti), con i padroni che manovrano a piacimento le marionette fasciste; il rapporto è più articolato e complesso, il grande capitale non è un tutto organico capace di svolgere una politica programmata: c’ è lotta tra i piccoli industriali e i grandi trusts che li soffocano, e fra questi ultimi ed alcuni settori del Regime stesso. Gli interessi dell’ industria meccanica, che ha bisogno di abbondante manodopera a basso costo, possono contrastare con quelli tipicamente finanziari dei monopoli. In questa situazione il Regime non può evidentemente accontentare tutti: da qui l’ impressione illusoria che esso sia anti-capitalista, che sappia " mettere a posto i padroni". In realtà la risultante della spesso oscillante politica economica del Fascismo è la solita: favorire la grande industria e proteggere il monopolio talvolta a dànno della piccola borghesia, sempre e comunque a dànno dei consumatori e delle classi popolari. (…..) In tutte le grandi battaglie ed operazioni economiche del Regime la ridistribuzione del reddito fa regolarmente a favore del grande capitale. Il Regime cerca di salvare le apparenze, nel suo drenaggio del risparmio si atteggia ad amministratore imparziale che impone tributi senza guardare in faccia nessuno, ma ogni volta che colpisce il padroni del vapore lo fa con tante attenzioni e tante ricompense da rendere loro un favore. Nell’ ottobre del 1937 si decide, per esempio, una imposta una tantum del 10% sul patrimonio azionario; la ricompensa è di poter fare degli aumenti di capitale a condizioni vantaggiose stime, trasferendo le riserve capitale in esenzione d’ imposta.(....)
In tali condizioni l’ imprenditore non sente il bisogno di aggiornarsi; il modello americano gli è sconosciuto: capitalista, egli ignora i modi di produrre della maggiore potenza capitalistica del mondo; e ciò accade, pare incredibile, mentre la riscoperta dell’ America tiene fatta dagli intellettuali antifascisti, mentre Vittorini e Pavese traducono Hemingway, Steibeck e Dos Passos, facendo conoscere a tutti il mondo americano. Il modello mitico del nostro imprenditore è semmai quello tedesco, ma più per i suoi aspetti autoritari e conservatori che per quelli tecnici, e del resto in Italia fin dai tempi di Crispi il mito di Bismarck, l’  imprenditore-guerriero, è duro a morire.

  1. Perché Bocca dissente dalla interpretazione marxista e togliattiana del Fascismo?
  2. Spiega le 2 frasi sottolineate
  3. Spiega i rapporti (in questo caso culturali) tra imprenditori italiani, Stati Uniti e Germania

D- FINANZA E GUERRA- dopo la guerra di Etiopia l’ Italia fascista tenta una stabilizzazione delle sue finanze: nel 1936 Mussolini accetta una politica più realistica per la lira, rinuncia alla difesa della quota 90 fissata nel 1927, accetta una svalutazione di circa il 40%. Il tasso di scambio per la sterlina è fissato a 123. Le esportazioni reagiscono in modo positivo, ma è un recupero di breve respiro: le spese per il riarmo ingoiano le risorse finanziarie né serve falsificare bilanci, vantare addirittura il pareggio per l’ anno 1935. In realtà il deficit cresce di anno in anno e assomma nei sei anni fa il 1934 il 1939 a 81,3 miliardi. In che modo venga coperto questo disavanzo lo spiegano queste cifre: il debito pubblico sale da 102,2 miliardi 1934 a 145,8 miliardi del 1939, secondo le cifre ufficiali, a 170 secondo valutazioni più attendibili. Il gettito fiscale sale da 18 miliardi del 1934 a 30 del 1939, mentre si registra una forte riduzione della riserva aurea e il ministro per gli scambi e valute è costretto liquidare titoli all’ estero per 34 miliardi. Il criterio degli inasprimenti fiscali è quello del capitalismo monopolistico: allargare la platea dei contribuenti, colpire i redditi minori, scovare il sommerso, inventarsi nuove imposte indirette, ma non elevare le imposte dirette per non penalizzare i redditi più alti. In questa situazione l’ economia italiana finisce in una impasse insolubile: da un lato la nostra industria di guerra deve acquistare all’ estero le materie prime di cui il Paese manca, dall’ altra i venditori di materie prime chiedono all’ Italia priva di valuta pregiata i pagamenti tramite i beni più ricercati alla vigilia di un conflitto, le armi, i mezzi bellici. Sì che si assiste a questo assurdo giro: l’ Italia che deve affrettare il riarmo per pagarsi le materie prime è costretta a cedere ai fornitori esteri, anche se probabili futuri nemici, una parte delle armi prodotte con quelle stesse materie prime. Si vendono alla Francia motori di aviazione e altro materiale, traffico che durerà fino all’ ultimo giorno di pace.
Citiamo un episodio che sul fronte italiano circolava come barzelletta pur essendo probabilmente autentico: durante una tregua nella campagna di Francia due ufficiali, uno italiano e uno francese, fraternizzano nella terra di nessuno- e si scoprono ad avere in dotazione esattamente la stessa arma, una Berretta calibro 45 terza serie. I loro discorsi iniziali vertono sulla storia dell’ arte, ed entrambi si dichiarano ammirati dalla Gioconda di Leonardo; l’ italiano si rammarica che il massimo capolavoro dell’ arte italiana non stia in Italia ma bensì in Francia; il francese annuisce comprensivo. Finisce in bisboccia con due belle ragazze piemontesi procacciate dall’ ufficiale italiano. Intanto si è fatto buio e la tregua sta per finire; nel rimettersi le uniformi i due ufficiali si scambiano le pistole per sbaglio; se ne accorgono solo quando sono già tornati nei rispettivi campi. Il giorno dopo i due si scontrano in combattimento e l’ italiano colpisce il francese mirando alla gamba mentre l’ arma di quest’ ultimo (cioé dell' italiano) fa cilecca. L’ ufficiale francese fatto prigioniero rivolge al collega italiano una domanda scherzosa dal doppio (anzi triplo) senso: perché voi italiani date sempre le vostre cose migliori ai nemici? 
L’ interrogativo principale è se l’ economia di guerra, installandosi su quella di pace, ha saputo piegarla alle sue esigenze, come evidentemente sta accadendo in Germania. La risposta è no. Il rifiuto della pianificazione è il prezzo pagato dal Fascismo ad una industria privata anarchica ed egoista; e sarà la base del gioco di scaricabarile tra industriali e generali nell’ ora della sconfitta.
(G. Bocca, Storia dell’  Italia nella guerra fascista, Milano 1996, pp.34-46)
Il blocco D si può scomporre in 6 sottoblocchi; per ognuno fai un brevissimo sunto:

  1. svalutazione della lira sulla sterlina e sue conseguenze;
  2. esplosione del deficit pubblico e sue cause;
  3. la politica fiscale del regime, cause e caratteristiche;
  4. gli espedienti e l’ “assurdo giro” del commercio internazionale di materie prime;
  5. l’ episodio dei 2 ufficiali e il suo significato;
  6. conclusioni generali

 

 

Fonte: http://www.evan60.net/uploads/6/3/2/5/6325749/giorgio_bocca_e_la_guerra_fascista.doc

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