Filippo ii di spagna riassunto

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Filippo ii di spagna riassunto

L’egemonia spagnola nell’età di Filippo II e della Controriforma

 

1) L’eredità imperiale di Carlo V

Nel 1556, poco dopo la “Pacificazione di Augusta”, l’imperatore Carlo V d’Asburgo abdicava, dividendo i suoi immensi domini tra il figlio Filippo e il fratello Ferdinando. A Filippo II d’Asburgo erano assegnate la Castiglia e le sue colonie d’oltreoceano, l’Aragona, i domini italiani dell’Aragona (Sardegna, Sicilia e Napoli) e le ricche e popolose Fiandre. A Ferdinando I, già arciduca d’Austria, re di Boemia e d’Ungheria, era invece riconosciuta la piena sovranità su questi domini e sulla Germania, della quale Ferdinando sarà presto riconosciuto imperatore.
Le ragioni di questa decisione di Carlo V erano nell’evidente impossibilità di governare un insieme così vasto di paesi e di nazioni diverse, nei quali le tensioni erano state esasperate dalla Riforma protestante, dal continuo stato di guerra con la Francia, dagli insormontabili problemi amministrativi e fiscali provocati dall’eterogeneità di questi territori. In realtà, l’aspirazione di Carlo V alla restaurazione di una monarchia universale europea era fallito in partenza. L’imperatore asburgico dovette via via prenderne atto. Soprattutto rispetto all’impossibilità di legare insieme gli interessi di una Spagna che lo voleva assolutamente - e innanzitutto - “castigliano” alla complicata realtà tedesca, dove ormai l’affermazione della Riforma luterana era un dato di fatto compiuto e irreversibile. Quindi la continua ostilità della Francia, prima con Francesco I, poi con Enrico II di Valois, che ora muoveva guerra contro Carlo alleandosi con gli stessi principi protestanti di Germania. Infine, si aggiungeva al quadro la crescente potenza dell’impero turco, che minacciava direttamente il cuore d’Europa (i turchi occupavano infatti tutta l’Europa balcanica, compresa mezza Ungheria) e il Mediterraneo.
Per affrontare i turchi, Carlo avrebbe avuto bisogno di governare un’Europa pacificata, ma alla base delle tensioni era in effetti il fallimento del suo disegno politico, quasi medioevale, di restaurare la monarchia cristiana universale. 
La soluzione fu pertanto quella di dividere i suoi domini. Ferdinando I d’Asburgo avrebbe quindi governato una Germania “pacificata”. Una Germania in cui l’eresia luterana era stata sì riconosciuta, ma pure arginata, così che Ferdinando e i suoi successori avrebbero potuto occuparsi della difesa dell’Europa centrale dalla minaccia turca.
Filippo II avrebbe invece governato la Spagna e i territori ad essa soggetti, rispondendo così all’esigenza spagnola (ma soprattutto castigliana) di un sovrano autenticamente nazionale. Ed è proprio questo il ruolo che svolse Filippo, il quale si legò così strettamente ai destini della Spagna e della Castiglia (ed alla sua identità religiosa) da poter essere considerato il primo vero e proprio sovrano “spagnolo” dell’epoca moderna. E in quanto la Spagna dell’epoca era senz’altro la nazione più potente d’Europa, che incarnava nelle sue tradizioni e nelle sue istituzioni i valori della restaurazione cattolica e della Controriforma, il secondo Cinquecento merita davvero di essere chiamato “l’epoca di Filippo II”.

2) Filippo II di Spagna

La divisione dei domini di Carlo V nel 1556 non arrestò il conflitto che era in corso tra la Spagna e la Francia. Nei successivi quattro anni toccò infatti a Filippo II il compito di arginare la minaccia francese. A quell’epoca Filippo risiedeva ancora in Fiandra, a Bruxelles, da dove muoveva guerra contro i francesi con l’aiuto inglese (egli aveva infatti sposato, nel 1554 in seconde nozze, la regina Maria Tudor). E fu in Fiandra, a S. Quintino, che venne combattuta la battaglia risolutiva della guerra (1556). La pace tra la Francia e la Spagna, frutto di complicate e laboriose trattative,  seguì pochi anni dopo, e venne siglata a Cateau Cambresìs nel 1559.
L’effetto della pace di Cateau Cambresìs fu quello di sancire definitivamente il predominio spagnolo in Italia, facendo della Spagna il paese più potente del continente, tanto più che negli anni successivi la Francia rimarrà praticamente paralizzata dai conflitti religiosi tra ugonotti e cattolici.
Per Filippo si trattava ora di governare da questa posizione di predominio, al fine di realizzare quella compiuta unificazione dei suoi domini che a Carlo V era stata impossibile. E nella mente di Filippo, il più potente sovrano cattolico della Controriforma, in un’Europa sempre più dilaniata dai conflitti di religione e dalla diffusione del protestantesimo, le sorti della monarchia spagnola erano tutt’uno con la lotta all’eresia e con il trionfo della tradizione cattolica. Innanzitutto, si trattava di salvaguardare in modo intransigente l’unità religiosa dei suoi domini. In effetti, in Spagna ed in Italia il problema era risolto dalla inesistente diffusione della Riforma (anche grazie al controllo esercitato dall’inquisizione), ma, a livello europeo, la situazione era certo molto più complicata.
Per intanto, dopo la pace di Cateau Cambresis, Filippo si trasferì definitivamente in Spagna, dove elesse la città di Madrid come sua capitale. Il re tuttavia preferì non risiedere a Madrid, ma si fece costruire un’immensa reggia ad una quarantina di chilometri di distanza dalla capitale. Il colossale edificio fu chiamato San Lorenzo dell’Escorial, perché la famosa battaglia di S. Quintino si era svolta il 10 agosto, il giorno dedicato a S. Lorenzo (anche per questo, l’edificio fu  costruito a forma di graticola, e più che ad una reggia somigliava ad una specie di gigantesco monastero, dal quale il cupo e ombroso Filippo governava i suoi sudditi).
Dominato da una religiosità intransigente ed intollerante, convinto del proprio assoluto diritto divino, il sovrano spagnolo fu veramente una figura singolare ed enigmatica, capace di incarnare tutte le ambiguità dello spirito controriformistico. Profondamente religioso e devoto, ligio sino all’eccesso ai suoi doveri di sovrano, era tuttavia pronto ad usare spregiudicatamente tutti i mezzi della ragion di Stato, compreso l’assassinio politico, pur di stroncare ogni resistenza ed ogni ribellione. Ciononostante Filippo sapeva essere cauto, ed era perciò sempre lento nelle sue risoluzioni, tanto da passare alla storia con il nomignolo di “rey prudente”.  Pedante, minuzioso, ossessionato dalla segretezza, Filippo esaminava con grande cura tutti gli incartamenti di Stato che venivano predisposti dai vari consigli della corona (esisteva un Consejo de Castilla, un Consejo de las Indias, un Consejo de Aragona ecc.). Ma il Consiglio più importante era la famosa “Junta de nocte” (Giunta notturna), con la quale il re discuteva gli affari di Stato più segreti e scottanti. Un vero re burocrate, che passò quasi l’intera sua vita sommerso dalle carte e dalle petizioni, capace di intervenire personalmente anche solo per rimediare ad una punizione ingiustamente inflitta ad un soldato di una lontana guarnigione (il fatto è documentato). Manifestazioni del suo singolare carattere sono anche altri episodi, come quello famosissimo e assai torbido relativo al figlio del re, Don Carlos di Spagna. Quando Filippo era già avanti negli anni, su ordine del padre, il principe ereditario Don Carlos d’Austria fu improvvisamente incarcerato, e morì misteriosamente nel buio della segreta in cui era stato gettato. Non è ben chiaro cosa accadde, ma pare che il giovane principe, dal carattere piuttosto irrequieto, avesse offeso il padre mettendo gli occhi sulla terza moglie di Filippo, la giovanissima Elisabetta di Valois. Si mormorò pertanto di una spietata reazione del re nei confronti dello sciagurato figlio.
Ma a parte queste oscure vicende familiari, conta soprattutto il tentativo evidente, da parte di Filippo II, di realizzare compiutamente gli obiettivi della monarchia assolutistica di tipo moderno. Filippo cercava insomma di creare attorno a sé un’amministrazione ed una burocrazia stabili, un fermo sistema di leggi e di governo, capace di superare la frammentazione politica e giuridica dei suoi dominii. Castiglia e Aragona, le Fiandre e l’Italia, la Sicilia, la Sardegna, Napoli ecc. erano territori diversi, con leggi e sistemi amministrativi distinti e completamente differenti, che ora Filippo tentava lentamente di piegare del tutto alla sua autorità. E in questo obiettivo gli era utile soprattutto la legittimazione religiosa di difensore della cattolicità. Altresì gli era utile il tribunale dell’Inquisizione, che Filippo usò con spregiudicatezza anche per abbattere ogni resistenza locale (ad esempio in Aragona, dove Filippo fece arrestare dagli inquisitori i “Justicia”, gli speciali magistrati delle “Corts” catalane che sorvegliavano il rispetto delle leggi e delle prerogative tradizionali del parlamento (e questi magistrati godevano di una speciale immunità che non valse davanti all’Inquisizione).
Persino la Chiesa non sfuggì a questo progetto autoritario, perché Filippo, anche se profondamente cattolico e acceso sostenitore della Controriforma, ribadì con fermezza la necessità del “placet” del sovrano a tutte le disposizioni pontificie (cioè, le disposizioni del papa valevano solo se il re dava il permesso). Egli abolì inoltre tutti i diritti degli Ordini religiosi che non fossero confermati da patenti e da permessi reali, e non consentì mai alla Chiesa di Roma di sindacare alcunché sull’organizzazione del clero delle Americhe, che dipendeva solo dal re di Spagna. Il controllo esercitato da Filippo sulla Chiesa era perciò pressoché assoluto, tanto che il re arrivò persino a sindacare alcuni dei provvedimenti ecclesiastici disposti dal Concilio di Trento.
Viceversa, Filippo si mostrò pervicace persecutore di ogni forma di eresia o di dissenso religioso, e in Spagna ne fecero le spese soprattutto i “moriscos”, che erano ancora presenti nell’antico regno di Granada e che furono protagonisti di una violenta ribellione dei territori andalusi da loro abitati (la rivolta fu sedata con energia, e circa 50.000 moriscos furono deportati in altre regioni della Spagna). Egualmente, ne fecero le spese anche i molti “marranos” (ebrei convertiti) presenti in tutta la penisola iberica, che furono nuovamente colpiti da una nuova ondata di persecuzioni (con tanto di esecuzioni al rogo  o “Autos de fé” - “atti di fede” - che seguivano inesorabilmente le sentenze dell’Inquisizione).

3) La Spagna e l’Europa

Se in Spagna Filippo II tentava di realizzare, anche attraverso la riaffermazione dell’unità religiosa, quell’accentramento del potere che era il suo vero obiettivo politico, più complicata era la situazione che egli doveva affrontare sul versante generale europeo. Qui l’azione di Filippo doveva essere molto più cauta. Ad esempio in Fiandra, un territorio che Filippo aveva ricevuto in governo dal padre sin dal 1551: non era certo possibile imporre di colpo l’autorità assoluta del re. Le Fiandre erano infatti abituate da secoli alle loro prerogative di autonomia, ed in più le città fiamminghe erano piene di dissidenti religiosi luterani e calvinisti. Per questo, almeno sino al 1559, sinché ci fu la guerra con la Francia, Filippo si guardò bene dall’affrontare la questione, e rimandò la cosa a tempi futuri (ma quando più tardi ci provò, le Fiandre insorsero, e dopo anni di guerra Filippo perse le provincie del Nord).
Per quanto riguarda invece i rapporti con la Francia, Filippo si era impegnato (con la pace di Cateau Cambresis) a non intervenire nelle vicende interne francesi. Quindi, per lungo tempo si limitò ad assistere passivamente alla lunga guerra civile tra ugonotti e cattolici, intervenendovi solo sporadicamente e in gran segreto, almeno sino all’assassinio di Enrico III di Valois. In più, Filippo non desiderava certo che la vittoria del fronte cattolico ricompattasse l’unità dello Stato francese, e non gradiva certo un’eventuale eccessiva fortuna del clan dei Guisa.
I problemi francesi si legarono infatti ben presto con la questione dei rapporti con l’Inghilterra. Perché, sinché fu viva Maria Tudor, Filippo aveva avuto l’appoggio degli inglesi, ed ora, morta la sua seconda moglie, egli rischiava di perdere questa alleanza. Tanto più che la nuova regina d’Inghilterra era quella Elisabetta I Tudor, figlia di Enrico VIII e di Ann Boleyn, che l’opinione cattolica considerava una bastarda indegna di governare. Ma se Elisabetta avesse perso il trono, l’unico erede dei Tudor sarebbe stata Mary Stuart di Scozia, ovvero una principessa mezzo francese, della casa di Guisa per parte di madre, e che era stata per breve periodo regina di Francia.
Fu lo spettro di una regina francese sul trono di Londra a convincere il re di Spagna della necessità di passare in second’ordine le qualità religiose e la legittimità dei diritti ereditari di Elisabetta: Filippo finì infatti per chiederla in moglie, ed era pronto a sposarla  purché si salvaguardasse l’alleanza e si scongiurasse il riavvicinamento della Francia con l’Inghilterra.
Ma il matrimonio non si concluse affatto: Elisabetta fu abile a trattenere in prigionia la Stuart per più di vent’anni a Londra, in modo tale che per tutto questo periodo Filippo non osò mai congiurare o ordire guerra contro la regina inglese. Solo dopo il 1587, dopo che Mary Stuart fu mandata a morte, Filippo si decise ad attaccare le isole britanniche con la “Invincibile Armada” (1588). Fu un fallimento di dimensioni epocali, di un costo tale che paralizzò la Spagna, perché il sovrano spagnolo fu costretto alla bancarotta per l’impossibilità di rendere le somme imprestategli per l’impresa dalle banche di mezza Europa.

4) Il problema delle finanze

Quando si verificò il disastro dell’Armada (oltre 150 vascelli da guerra, la metà dei quali persi nelle tempeste dei mari del Nord con un’incalcolabile perdita umana; più circa 30.000 soldati armati e mobilitati per l’impresa) Filippo era già in una situazione di difficoltà finanziaria. Da circa vent’anni era infatti iniziata la rivolta delle provincie fiamminghe, e da molto tempo ciò comportava il mantenimento in quelle provincie di un’armata di circa 60.000 soldati. Ciò comportava spese colossali, e Filippo aveva già avuto problemi e difficoltà per il regolare pagamento dell’armata dei Paesi Bassi (tanto che i soldati avevano finito per saccheggiare Anversa e Bruxelles). In più, il re doveva mantenere guarnigioni e soldati in Italia, nelle colonie americane, nella stessa Spagna. Doveva altresì provvedere alla difesa delle coste mediterranee minacciate dai pirati barbareschi e dalle flotte turche, doveva armare le flotte atlantiche ecc. Insomma, alla vastità dei dominii di Filippo corrispondeva un’impegno economico di dimensioni spaventose. Ed il re aveva iniziato il suo regno con le casse pressoché vuote, perché il governo di Carlo V aveva lasciato soprattutto debiti, ed impegni contratti con tutti i più importanti banchieri d’Europa. Per fortuna, attorno al 1560 in Spagna iniziarono ad arrivare con regolarità i metalli preziosi delle Americhe, soprattutto l’argento estratto dalle miniere del Potosì (Perù). Il metallo prezioso sbarcava a Siviglia, e le casse reali lo incameravano immediatamente, consentendo così al sovrano di far fronte ai suoi gigantesci impegni finanziari. Tuttavia, se l’afflusso del metallo prezioso consentì a Filippo di riparare alle voragini del debito, esso non risolse affatto il problema. Difatti, l’aumentata circolazione del denaro d’argento spingeva in alto i prezzi, ed esasperava quei processi inflattivi che caratterizzano tutta l’economia europea del Cinquecento. Insomma, i prezzi, in tutto il continente, tendevano ad aumentare, e la maggiore circolazione di denaro peggiorava la tendenza. Soprattutto in Spagna, dove l’eccessiva disponibilità di moneta spinse talmente in alto i prezzi da danneggiare fortemente le manifatture locali. Le merci spagnole non erano più competitive, e a caro costo in Spagna si iniziò ad importare di tutto. Perciò, se pure gli orgogliosi hidalgos di Castilla avevano le tasche piene di dobloni d’argento, questi valevano sempre meno. E tanto più in un paese dove il lavoro era disprezzato come cosa da servi, dove contava realmente solo chi aveva uno straccio di privilegio, nobiliare o religioso che fosse. In effetti, l’argento americano dava solo l’illusione della ricchezza e della prosperità, perché l’economia spagnola (e quella castigliana in particolare) regredivano. E tutto ciò mentre il metallo prezioso giunto a Siviglia passava di mano e finiva rapidamente all’estero (e specialmente nelle casse dei banchieri genovesi che vantavano enormi crediti sul governo spagnolo).
Tutto questo può spiegare facilmente come mai l’argento americano non risolse mai i problemi finanziari di Filippo, e produsse piuttosto una situazione per cui, più denari aveva il re, ancora di più si moltiplicavano le sue spese e i suoi debiti (tanto per fare un esempio: nel 1596 un ufficiale spagnolo faceva notare al re che, a parità di effettivi, l’esercito di Fiandra costava tre volte di più che ai tempi di Carlo V). 

  1. I Turchi e la situazione nel Mediterraneo: lo scontro di Lepanto

 

Tra i gravosi impegni militari e finanziari a cui Filippo non si poteva sottrarre, la sicurezza del Mediterraneo non figurava certo all’ultimo posto. Difatti, tra i motivi che avevano spinto la Francia e la Spagna a concludere la pace di Cateau Cambresis vi era certo anche la preoccupazione dell’avanzata della potenza turca in Europa orientale e nel Mediterraneo.
Come si ricorderà, già ai primi del Cinquecento i turchi avevano conquistato pressoché l’intera Europa Balcanica. Nel 1526 avevano travolto a Mohacs i cavalieri del re d’Ungheria Luigi II Jagellone ed avevano occupato gran parte di questo paese. Nel 1529 avevano quindi assediato Vienna, minacciando direttamente il cuore dei dominii germanici degli Asburgo. Contemporaneamente, le flotte ottomane (ma soprattutto i pirati barbareschi del Nord Africa, vassalli del sultano turco) avevano reso insicure le acque del Mediterraneo. Perciò, Carlo V era stato costretto ad impegnarsi in due grosse spedizioni militari contro Tunisi (1535) e contro le coste algerine. Ma negli anni seguenti la situazione non migliorò, perché il flagello della pirateria musulmana continuò ad incombere su tutte le coste mediterranee. Peraltro, la stessa Venezia fu duramente sconfitta dai turchi nella battaglia navale della Prevesa (1538) ed aveva dovuto stipulare una pace separata, cedendo molti dei suoi possedimenti in oriente.
Infine, dopo un periodo di una trentina d’anni di relativa tranquillità, l’impero turco iniziò nuovamente a minacciare direttamente i territori cristiani, iniziando da Malta e dai possedimenti veneziani in oriente. Malta (dove, sin dal 1522 si erano trasferiti i cavalieri Ospitalieri, che già erano stati a Rodi dopo le crociate) venne assediata nel 1565. Quindi vennero attaccati i possedimenti veneziani in Morea e nell’Egeo. In particolare, i turchi sbarcarono a Cipro (1570), dove i veneziani furono costretti ad asserragliarsi nella principale fortezza dell’isola, Famagosta, difesa eroicamente dal comandante veneziano Marcantonio Bragadin.    
La difficile situazione di Cipro provocò allora una mobilitazione promossa dal pontefice Pio V, che tentava di convincere i vari regnanti cristiani ad una nuova crociata contro il pericolo musulmano. Si formò così una lega militare, composta dalla Spagna, da Genova, Venezia, il papa e il duca di Savoia. La coalizione riunì nel porto di Messina un’imponente flotta di circa duecento galee da guerra (per la maggior parte spagnole e veneziane) che avrebbero dovuto liberare Cipro. Tuttavia, il contingente, posto sotto gli ordini di Don Giovanni d’Austria (fratellastro di Filippo II) non riuscì a partire in tempo. Famagosta, dopo quasi un anno di assedio, cadde improvvisamente, ed i suoi difensori furono massacrati dai turchi (lo stesso Bragadin fu scuoiato vivo ed orrendamente torturato).
L’enorme flotta cristiana prese il largo poco dopo la caduta di Famagosta, e si pose dunque alla ricerca della flotta turca. Il nemico fu infine intercettato il 7 ottobre 1571 a Lepanto, in acque greche (nel golfo di Patrasso). Qui le unità cristiane sorpresero una gigantesca formazione navale turca, composta da quasi trecento galee. Lo scontro fu violentissimo, e le navi musulmane furono quasi tutte affondate dopo sanguinosi arrembaggi e combattimenti corpo a corpo. Tra i turchi vi furono quasi 20.000 morti, mentre le perdite cristiane ammontarono a circa 8.000. Lo scontro fu in gran parte risolto non solo dal valore dei combattenti, ma anche dal fuoco micidiale delle poderose galeazze veneziane (specie di fortezze galleggianti irte di cannoni, così pesanti da dover essere trainate in mezzo alla battaglia da altre navi più piccole).
Come solitamente si dice, la vittoria di Lepanto bloccò l’espansione turca nel Mediterraneo per almeno un secolo. O meglio, la rallentò, perché se è vero che i turchi compresero di non poter spadroneggiare per mare, essi si tennero Cipro, e continuarono ad incombere sui possedimenti di Venezia, che poi rimase a difendere i resti del suo dominio marittimo praticamente da sola. 
Ad ogni modo, l’episodio di Lepanto fu possibile soprattutto per la mobilitazione di Filippo II, che fu costretto ad assumersi un notevolissimo impegno militare e finanziario proprio negli anni in cui infuriava la rivolta nei Paesi Bassi. D’altra parte, proprio per questo a Filippo non fu più possibile continuare un’attiva politica mediterranea antiturca, perché le poche risorse disponibili servivano piuttosto per provvedere alla sicurezza delle coste di Spagna e dei dominii spagnoli (risale a Filippo II la costruzione delle torri litoranee di difesa in Sardegna; sistemi simili di presidio fortificato delle coste diventarono infatti indispensabili in tutti i paesi mediterranei).   

 

Fonte: http://lnx.liceicarbonia.it/j7250/images/Arangino%20dati/Let%C3%A0%20di%20Filippo%20II_2012.doc

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