Harakiri

Harakiri

 

 

 

I riassunti , gli appunti i testi contenuti nel nostro sito sono messi a disposizione gratuitamente con finalità illustrative didattiche, scientifiche, a carattere sociale, civile e culturale a tutti i possibili interessati secondo il concetto del fair use e con l' obiettivo del rispetto della direttiva europea 2001/29/CE e dell' art. 70 della legge 633/1941 sul diritto d'autore

 

 

Le informazioni di medicina e salute contenute nel sito sono di natura generale ed a scopo puramente divulgativo e per questo motivo non possono sostituire in alcun caso il consiglio di un medico (ovvero un soggetto abilitato legalmente alla professione).

 

 

 

 

Harakiri

La carne e l’onore

La mattina del 25 novembre 1970,Yukio Mishima si alzò di buonora con molta calma, attese alla cura del suo corpo: preparò la sua borsa di cuoio marrone riponendovi carte, documenti, un pugnale, e, l’appoggiò su una sedia accanto ad una lunga spada da samurai; c’era tutto quanto avrebbe portato con sé. In una grande busta chiuse l’ultima parte della sua opera Il mare della fertilità, le cui pagine conclusive aveva scritto la sera precedente, la lasciò in anticamera indirizzata al suo editore che, come d’accordo, avrebbe mandato qualcuno a ritirarla. Indossò la divisa del tatenokalla, la sua associazione degli scudi, ed attese i giovani amici-discepoli che poco dopo le dieci, passarono a prenderlo in automobile. Mishima prese posto accanto al conducente Chibi-koga, dietro sedevano Ogawa e Furu -Koga, tra loro Masakatsu Morita, il carismatico leader del gruppo ed intimo amico dello scrittore. Come stabilito, si diressero verso la base dello iettai – le forze armate di autodifesa nipponiche – a Ichigaya, nel cuore di Tokio, dove avevano un appuntamento con il generale Kanetoshi Mashita, comandante in capo dell’armata orientale. Il generale ricevette, con molta cordialità il gruppo e fu immediatamente colpito dalla lunga sciabola che pendeva al fianco sinistro di Mishima il quale affrettò a mostrargliela illustrandogli la preziosità dell’arma. Mentre Maschita la esaminava con cura, lo scrittore impartì un tacito ordine a Chibi-Koga, il quale, in un attimo, si portò alle spalle dell’alto ufficiale, lo legò e l’imbavagliò; Morita e gli altri due bloccarono le porte d’accesso all’ufficio, ma, i militari che stavano nel corridoio si accorsero di qualcosa di strano era accaduto, guardando dallo spioncino di una delle porte che provarono a forzare senza successo. Scattò immediatamente l’allarme, davanti all’ufficio di Maschita si radunarono numerosi ufficiali che tentarono di irrompere nella stanza, ma vennero respinti da Mischia che, con un colpo di sciabola, ferì un colonnello. Lo scrittore ordinò a Maschita di disporre che, a Mezzogiorno in punto, i soldati della guarnigione di Ichigaya si radunassero nel piazzale antistante il quartier generale: Mishima avrebbe parlato loro. Dopo ovvie proteste, l’incredule generale, impartì l’ordine mentre venivano informate le forze di polizia ed il governo su quanto stava accadendo nell’ufficio di Mascita; così gli altoparlanti chiamarono a raccolta i soldati. Preceduto da Morita ed Egowa, che si sporsero sul parapetto dell’edificio chiedono che venisse fatto silenzio, a Mezzogiorno in punto, apparve Mishima con la fronte cinta dall’hachimaki recante al centro il simbolo del sol levante. Con le mani ai fianchi, cominciò a parlare, gli insulti su Mischiarono al frastuono degli elicotteri, riuscì, a fatica, a farsi sentire e scampoli di frasi raggiunsero il tumultuoso uditorio…I giapponesi pensano soltanto a far quattrini…Che fine ha fatto il nostro patriottismo…Gli uomini politici se ne infischiano della Nazione, pensano soltanto a conquistare il potere personale…Poi ancora più drammaticamente…Un uomo s’appella a voi!,,, un uomo, si!…E da questo dipende la mia vita…Mi sentite?…Mi seguite?…Se non insorgete e se non vi schierate con me, la costituzione non verrà mai emandata;…Quindi suna sorta di perorazione;…Ho aspettato quattro anni. Voglio che lo Jieitai risorga…Ed ora sono giunto all’ultima mezz’ora di vita…Io aspetto…Io voglio che…Le parole vennero coperte dal rumore assordante degli elicotteri, ma, si salvarono queste: non siete Bushi, forse?…Non siete uomini?…Voi siete soldati: ed allora perché tenete fede alla Costituzione…Voi avallate una Costituzione che nega il vostro diritto di esistere…Infine annunciò: noi testimonieremo, a tutti voi, l’esistenza di un valore più alto del rispetto per la vita…Questo valore non è la libertà, non è la democrazia…E’ il Giappone…Il Paese della nostra amata storia e delle nostre tradizioni:il Giappone…Non c’è nessuno tra voi disposti a scagliarci contro una    Costituzione che disossa la nostra Patria?…Se esiste, che sorga e muoia con noi!…Abbiamo intrapreso quest’azione nell’ardente speranza che noi tutti, a cui è stato donato un animo purissimo, possiate tornare ad essere veri uomini, veri guerrieri…Nel frastuono generale, Mishima: si concedò: io saluto l’Imperatore, Tenno Heika Banzai! Al triplice grido, indirizzato al sovrano, si unirono anche i due leader del Tatenokai che gli erano al fianco, alzando, per tre volte, le braccia al cielo. Mishima, Morita ed Ogawa rientrarono nell’edificio; lo scrittore si sfilò la giacca dell’uniforme, s’inginocchiò e si massaggiò con vigore il lato sinistro dell’addome, quindi, conficcò il pugnale nel punto del corpo che aveva massaggiato; Morita sollevò la spada – Mishima, gridò il suo estremo saluto all’Imperatore e, con tutta la forza, spinse il pugnale nel ventre. Morita calò la sciabola su Mishima una, due volte; l’emozione gli fece sbagliare colpo, tanto che, provocò due profondi squarci alla schiena dell’amico maestro. Furu-Koga, esperto di kendo, si fece, allora, avanti, gli strappò l’arma dalle mani e spiccò la testa dal busto di Mishima. I quattro del Tatenokai s’inginocchiarono e recitarono un preghiera. Venne il turno di Morita; Furu-Koga non fallì neppure la seconda volta. I superstiti si raccolsero nuovamente in preghiera. La polizia fece irruzione, i membri dell’associazione degli scudi si ricomposero e si arresero; il sacrificio era stato compiuto.

 

Mishima poco prima del sacrificio

 

Un gesto necessario

L’opinione pubblica rimase sconcertata dal gesto dello scrittore, e, più volte, dopo la sua morte, ci si è chiesto che cosa abbia realmente spinto Mishima, giovane ed all’apogeo della sua fama artistica, a mettere la parola fine alla propria esistenza, ma realmente, non si può spiegare nulla. Se tutto ciò che ha detto ed ha scritto, per la contemporaneità, non ha alcun senso è evidente che neppure l’estremo suo gesto può averne uno. Ma se lo considera come una conseguenza ultima di un’anima al compimento della sua realizzazione, allora, il seppuku di Mishima, non solo ha un significato ma deve pur essere riguardato come l’atto necessario di una vita consacrata ad un destino semplicemente accettato. Il 26 novembre si svolse il funerale di Mishima, in forma strettamente privata, seguito dalla cremazione. Nel gennaio 1971 venne celebrato quello pubblico, nel Tsukiji Honganji, al quale presero parte circa diecimila persone: la più imponente manifestazione del genere che abbia avuto luogo nel Giappone moderno. La cerimonia si concluse con elevato discorso dello scrittore Yasunari Kawabata, premio nobel per la letteratura nel 1968, conservatore come Mishima del quale era fervente ammiratore, tributario, per la sua stessa ammissione, delle idee politiche del più giovane collega, come lui, suicida il 17 aprile 1972. Nel marzo 1971, presso la corte distrettuale di Tokio, si aprì un processo ai tre superstiti dell’irruzione di Ichigaya che si concluse, dopo un mese, con la condanna a quattro mesi di reclusione. Il Tatenokai si sciolse.

 

Mishima il Samurai

 

 

Il crisantemo e la spada

La vita di Mishima ha inciso, straordinariamente, con l’essenza della stessa cultura giapponese, infatti, si può dire che in questa cultura lo scrittore è stato la manifestazione più evidente. In Giappone, come Mishima stesso aveva fatto notare all’amico e biografo Henry Scotti Stokes, vi era la tendenza di dar maggior peso alle arti, racchiuse nell’immagine del crisantemo, piuttosto che agli aspetti guerrieri e marziali, simboleggiati dalla spada. Questa era una dissociazione che, non solo gli occidentali ma, anche i giapponesi, erano, e sono, portati a compiere. La più autentica tradizione nipponica è invece fondata sulla miracolosa convivenza dei due momenti, e l’opera stessa di Mishima ne è l’esempio più riuscito. Nato il 14 gennaio 1925 a Tokio, Kimitake Hiraoka (solo nel 1941, sull’onda dei primi successi letterari assumerlo pseudonimo di Yukio Mishima, che letteralmente vuol dire tre fiumi), ebbe un’educazione nel segno della tradizione religiosa, culturale e civile del suo Paese, frequentando fin dal 1931 l’esclusivo gakuscuin, la scuola di pari, presso la quale venivano allevati i rampolli dell’aristocrazia giapponese. Già negli anni 40 si distinse per la pubblicazione di poesie patriottiche. Nel maggio del 1944, sottoposto alla visita di leva, non venne fatto abile per gracilità della costituzione fisica, ma l’anno dopo la nuova chiamata alle armi si rivelò ancora una delusione, erroneamente, gli diagnosticarono un principio di tubercolosi. In tale periodo, Mishima entrò a far parte del cenacolo intellettuale bungei bunka, dov’erano state apprezzate le sue prime prive letterarie. Si trattava di un circolo di ispirazione patriottica nel quale era diffusa la convinzione che la guerra che si stava combattendo era una sorta di guerra santa e che non d’era sacrificio più grande che dare la vita per l’Imperatore. Il giovane Mishima, appena ventenne, subì l’influsso decisivo di tali idee propagandate soprattutto dal leader del gruppo Hasuda, un fervente nazionalista, insegnante di professione, raffinato interprete della tradizione letteraria giapponese. Tra la fine della guerra e gli inizi degli anni 50 avvenne la consacrazione letteraria di Mishima con la pubblicazione di vari racconti e brevi romanzi su confessioni di una maschera, nel 1949, che lo fece apparire come l’astro nascente della letteratura giapponese. Capolavoro dell’angoscia ed al tempo stesso, dell’atonia, come lo definì Marguerite Yourcenar, confessioni è l’autobiografia dello stato d’animo di una generazione pervasa da uno struggente bisogno di morte, di annullamento ed insieme di erotismo inappagato sospeso tra la passione omosessuale del protagonista per il suo coetaneo e l’innamoramento dello stesso per un’amica d’infanzia, sposata con un altro. La sintesi della sua stessa natura, che Mishima, senza sottorifugi, visse solarmente, in aderenza al suo bisogno professato: far combaciare l’amore e la morte in un quadro di bellezza personale, inaccettabile a chiunque. Si spiga così la relazione con Morita, il solo autorizzato a seguire nella morte privilegio mobilissimo e raffinato, secondo l’antica etica Bushi, accordato all’essere che si è amato. Vennero, poi, altri lavori maturi come, sete d’amore (1950), nei quali è evidente l’influenza occidentale filtrata soprattutto attraverso la lettura di Wilde, Produst, D’Annunzio, Thomas Mann, Cocteau, Radiguet. Generalmente, si è portati a vedere, in questo periodo della produzione di Mishima un’eccessiva concessione, al romanticismo decadente, ad un estetismo fine, a se stesso; ed è un errore. Mishima mostrava piuttosto di reagire differentemente, al, disagio spirituale che avvertiva dolorosamente e ciò ha potuto essere scambiato per disimpegno. Lo scrittore stesso, nei giusti termini, l’interpretazione di quel momento tracciando un bilancio dei suoi ultimi venticinque anni, scrisse: dal ’45 al ’57 si è pensato che io fossi un tranquillo sostenitore dell’ “arte per l’arte”. Mi limitavo a sorridere con disprezzo giovane, per alcuni versi fragile, come io ero, non conosceva altro mezzo per opporsi che sorridere con disprezzo – poi ho cominciato a sentire che dovevo combattere proprio contro i miei sorrisi ironici, contro il mio cinismo……non ho sofferto prigionia, non ho sparso il mio sangue per conservarmi fedele alle mie idee……d’altronde il rifiuto a tradirle può essere, da parte mia, la prova di una testardagine un po’ ottusa , piuttosto che una duttile, sottile sensibilità…Anche il critico giapponese Isoda Koichi, in L’estetica del martirio, constatato, a proposito della coerenza dello scrittore, che l’attività letteraria e il pensiero di Mishima, durante i ventiquattro anni del dopoguerra, è stata tutta una sfida paradossale al progressismo del dopoguerra, una profezia di quello che verrà dopo. I primi anni Cinquanta furono improntati alla formidabile emozione che Mishima riportò da un viaggio in Grecia. In preda ad un sentimento di ebbrezza che si protraeva per l’intera giornata, fu conquistato dal mirabile equilibrio tra spirito e corpo, promanante dell’antichità classica, un ideale di bellezza atto a recare bellezza anche a me stesso. Scoprì gli dei dell’arte, della salute e del sole, fu aggiogato dall’auspicio di Nietzsche secondo cui siamo fantasmi grecizzati con la speranza di diventare “fisicamente” dei greci. Sulle rive del mediterraneo, riconosciuto culla di civiltà da lui estraneo eppure tanto vicino, si impegnò a realizzare il voto nietzscheano, e, tornato in Giappone, palestra, kendo e karate trasformarono il suo fragile corpo. Come ha osservato Maurice Pinguet in La morte volontaria in Giappone, eccolo uscire dalla sua crisalide e liberarsi contemporaneamente della sua magrezza, dal suo pallore, dalle sue paure, dalle vergogne, dei suoi rancori, delle sue crudeltà di bambino malaticcio. Mishima racconterà la sua trasformazione greca In sole e acciaio (1965), il libro del corpo e dello spirito dell’equilibrio sublime della spada e del crisantemo.

 

 

 

Oltre il dopoguerra

I motivi occidentali, mediterranei si fondono nelle opere letterarie degli anni Cinquanta con quelli più tipici ed ancestrali della tradizione nipponica. Tanto che nella voce delle onde quanto nel padiglione d’oro, per esempio, nichilismo e religiosità buddista, sentimento tragico della vita e i segreti zen, esaltazione del bello, perfino nelle fiamme devastatrici e purificatrici e nella fragilità mite della cerimonia del thè, sono motivi che non si rincorrono prima che nelle pagine dei romanzi, nelle pieghe di un’anima che sta precisando la sua vocazione nel consacrarsi al proprio destino. Ed è mirabile come Mishima riesca ad unire, una grande opera letteraria, tutti questi elementi. La tradizione, ancorché disconosciuta, può restare perennemente racchiusa nella memoria estetica di un popolo, di uno scrittore o di un guerriero? L’interrogativo al quale non si può che rispondere negativamente, sorge davanti al punto di svolta della vita di Mishima. Fino al 1960 egli aveva rappresentato il disagio dei valori, nel bel mezzo della società giapponese che si stava americanizzando, condanna a vivere eternamente il suo dopoguerra. Il tempo di tale rappresentazione si era ormai esaurito; il Giappone non riconosceva più se stesso, l’abbandono sembrava totale, la corruzione avveniva fatto breccia ovunque e più alcun principio veniva salvato. Nacque in questo clima il romanzo dopo il banchetto che segnò l’ingresso, vibrante ed a tratti perfino violente, di Mischia nella politica. Con questo libro lo scrittore stigmatizzò duramente il mercanteggiamento elettorale a cui erano dediti i politici ed i costumi dell’alta borghesia. Dimostrando di conoscere assai bene i meccanismi dei partiti e gli interessi che li nutrono. Il successo che questo romanzo ottenne salvò, parzialmente Mishima dal fiasco del precedente Kyoko- noile, che lo convinse del tutto, che qualcosa era mutato. Fu anche grazie a tale negativa esperienza che Mishima cominciò a guardare, con maggiore attenzione, fuori di se scoprendo un mondo infebbribile e tumultuosa agitazione, percorso da fermenti che indicavano la volontà di superare, una volta per tutte, il dopoguerra. Con suo immenso stupore, Mishima, constatò che, nel Paese, si andavano formando sacche di resistenza all’imposizione del famigerato articolo 9 della Costituzione che imponeva al Giappone la rinuncia alle sue prerogative militari. Resistenza che sfiorò la rivolta – a dimostrazione di una cospicua capacità relativa da parte dei “vinti” – quando nel maggio 1960 venne concluso il trattato di sicurezza Nippo-Americano con il quale si sancì, non tanto una collaborazione militare tra i due Paesi ma, una sorta di sudditanza del Giappone all’America dal momento che il primo era costretto ad offrire basi militari agli USA ed a confermare la rinuncia ad ogni intervento bellico. In cambio, se così si può dire, gli USA si impegnavano a garantire al Giappone la loro protezione militare. Era troppo anche per un Paese prostrato. All’Ampo - questa la sigla del trattato – i giapponesi, feriti ancora una volta nel loro orgoglio, reagirono violentemente: disordini si registrarono in tutto il Paese. Mishima si schierò, immediatamente, con i rivoltosi. Le sommosse stimolarono la sua fantasia e lo spinsero a scrivere Patriottismo, racconto chiave della sua vicenda letteraria e civile che lo impose all’attenzione, come scrittore inequivocabilmente impegnato, all’estrema destra. Patriottismo si ispira all’incidente DI. NI NI. Roku del 26 febbraio 1936, quando il movimento dei giovani preparò l’insurrezione, di una parte dell’esercito, contro il sistema asservito agli interessi dell’alta finanza; insurrezione tesa a promuovere l’autentica restaurazione imperiale, una sorta di Rivoluzione conservatrice. Una ventina di giovani ufficiali occuparono la zona dei ministri adiacente il palazzo imperiale riuscendo, nello stesso tempo, ad assassinare delle personalità del mondo politico finanziario che comparivano sulla loro lista nera. Dopo chiesero le dimissioni del governo, considerato traditore, l’avocazione di tutti i poteri militari da parte dell’Imperatore, una grande restaurazione Dhwa. Il proclama venne, inaspettatamente respinto da Hiro Hito, influenzato, soprattutto, dagli ambienti finanziari contro cui insorsero i giovani ufficiali presi dal loro viscerale amor di Patria. L’Imperatore, inoltre, ordinò all’esercito, di reprimere la sedizione e dichiarò gli insorti “traditori”. Gli ufficiali si arresero senza opporre resistenza. Due di loro fecero seppuku; sedici vennero condannati a morte nel nome di quell’Imperatore che voleva sottrarre al condizionamento dell’alta finanza. Mishima fu affascinato dall’incidente DI. NI. NI. Roku sul cui sfondo situò la vicenda del protagonista di patriottismo, un giovane tenente della guardia imperiale tenuto all’oscuro, dai colleghi, dell’insurrezione che stava preparando perché sposo, da pochi mesi, di una giovane donna di rara bellezza. Allo scoppio della rivolta venne convocato d’urgenza dal suo comando, ma, preferì disertare ed uccidersi piuttosto che sparare i suoi camerati che si erano “ammutinati” per la Patria e per l’Imperatore. La moglie ottenne di accompagnarlo nella morte. Dopo un amplesso appassionato i due si tolsero a vita: l’ufficiale seguendo l’antico rito dei samurai, la donna conficcandosi un pugnale in gola. Eroismo e morte eroica ricorrevano ancora una volta anticipando, in qualche modo lo scenario della fine stessa dello scrittore. Dal racconto, lo stessi Mishima, cinque anni dopo, trasse un film che diresse ed interpretò. Sempre ispirato all’incidente di NI.NI. Roku  sono ancora il dramma il crisantemo del decimo giorno (1960) e soprattutto l’elegia le voci degli spiriti degli eroi (1966) nella quale il motivo conduttore è perché l’Imperatore è dovuto diventare un comune mortale? In essa Mishima descrive una cerimonia Shintosta imma-ginaria nella quale vengono richiamate le anime dei giovani ufficiali e dei kamikaze. Gli uni rimproverano all’Imperatore il rifiuto di sanzionare la loro insurrezione del febbraio 1936, gli altri di aver tradito la loro fede ed il loro sacrificio quando ha accettato il nungen sengen, la dichiarazione di rinuncia alla sua natura divina imposta dagli americani. Con queste tre opere, raccolte in unico volume nel 1970, Mishima mosse una dura critica, all’Imperatore e si guadagnò l’antipatia di una certa destra, oltre che l’amicizia scontata dell’estrema sinistra. Ma non si scoraggiò per questo. In un’intervista pubblicata dal Sunday Mainichi, del marzo 1968, ribadì le proprie convinzioni riguardo all’Imperatore. Il kokutai, il sistema nazionale – si disse – ha cessato di esistere in conseguenza del nungen sengen dell’Imperatore. Da ciò consegue il marasma morale postbellico. Perché mai l’Imperatore dovrebbe essere un qualsiasi essere umano? Ancora più semplicemente si espresse nella prostrazione alla trilogia: sicuramente, quando l’incidente di NI.NI. Roku è fallito, un grande Dio è morto…A quell’epoca  avevo soltanto undici anni e, non potevo provare particolari emozioni al riguardo, alla fine della guerra, quando avevo ormai raggiunto i vent’anni, un’età che ci ritrova dotati di un particolare sensibilità, ho cominciato a rendermi conto della crudeltà insita nella morte di quel Dio, e, ciò si ricollegava, in un certo qual modo, alle intuizioni, in merito all’accaduto, che avevo avuto da bambino….Per lungo tempo ero stato incapace di comprendere quel legame, ma, quando ho scritto Toka ne Kiku e Patriottismo, nella mia coscienza è apparsa un’ombra scura….L’avvertivo mentre scrivevo, ma, poi si è dissolta senza avere assunto una forma definitiva…Questa è stata l’immagine in negativo dell’incidente di NI.NI. Roku…Quella positiva è l’impressione, riportata al tempo della mia infanzia, che gli ufficiali ribelli fossero altrettanti eroi….La loro purezza, il loro ardimento, la loro morte, la loro gioventù ne facevano degli eroi mitici….E la loro sconfitta, la loro morte, ne faceva degli autentici eroi su questa terra…Ho sempre avvertito grande intensità, il desiderio di recare conforto allo spirito dei puri eroi che, a lungo, hanno esplicato il loro influsso su di me, di riabilitarli e di riaffermare la nobiltà ed il valore….Ma…Non appena mi sforzo di approfondire la questione, mi trovo interdetto al cospetto del nungen sengen dell’Imperatore. La sconfitta riportata in guerra divide in due il periodo Showa – il regno di Hiro-Hito e chi abbia vissuto nell’uno come nell’altro – ed è il caso di Mishima – non può non provare il desiderio di trovare una continuità reale ed una teoretica. Ciò appare del tutto naturale per un uomo….Il nungen sengen dell’Imperatore ha rivestito maggiore importanza della nuova Costituzione che sanciva la funzione meramente simbolica di sua maestà imperiale…Sono arrivato al punto di non potermi esumere dal descrivere l’ombra dell’incedente di NI.NI. Roku, pertanto, ho cominciato a scrivere Eirei no Koe (La voce degli spiriti degli eroi). Può stupire che io usi la parola estetica di questo contesto, ma ho finalmente compreso che alla base della mia estetica si situa un’immensa, saldissima roccia, ossia L’Istituzione Monarchico-Imperiale.

 

La Tradizione dell’onore

 

 

Un’etica della tradizione

La ricerca iniziata da Mishima, nel 1960, sui caratteri della giapponesità da contrapporre strumentalmente finalisticamente, alla decadenza del Giappone ed al suo snaturamento culturale, condussero la scrittore ad enfatizzare il valore fondante, l’etica della tradizione, che voleva ridestare: il bushido. Lo fece riproponendo, nel 1967, un testo nel quale è racchiusa l’essenza del buschido: lo hagakure (sull’ombra delle foglie) di Jamanoto, vissuto tra il XVII ed il XVIII secolo, samurai del signore di Saga. Nell’introduzione a quest’opera, Mishima confessò che fin dagli anni della guerra aveva tenuto l’hagakure a portata di mano, sul comodino, e da esso aveva appreso la retta via per saper morire come samurai. I riferimenti al glorioso passato del Giappone, sono innumerevoli, nella vasta opera di Mishima (ben trentacinque volumi). Quello della lega del vento divino, per esempio, è tra le più importanti per comprendere il Tatenokai, l’associazione degli scudi a cui lo scrittore diede vita nel 1968. Come la “lega”, costituita da guerrieri operanti negli anni immediatamente successivi alla restaurazione Meiji nel 1968, era un’organizzazione. Violentemente antimodernista, così il tatenokai, ispirato sostanzialmente agli stessi principi, doveva diventare un gruppo esemplare, vivendo la tradizione giapponese, coerentemente, un ogni suo aspetto. La filosofia dell’associazione si riassumeva in tre punti: incompatibilità del comunismo con il sistema giapponese perché ostile al sistema monarchico-imperiale; riconoscimento dell’Imperatore come unico simbolo della comunità storico - culturale e dell’identità razziale giapponese; giustificazione del ricorso alla violenza di fronte alla minaccia del comunismo. Il pensiero politico di Mishima e l’azione che, coerentemente, ne discende sono, chiaramente, nel segno della restaurazione del principio della cultura giapponese. L’esaltazione della forza, della bellezza fisica, del culto del corpo, dello eroismo e del trascendente convergono nella concezione imperiale o tennocentrica di Mishima, per il quale non esiste, alcuna frattura tra dimensione politica e dimensione temporale, entrambe incarnate nella figura umana e divina, del tenno. E’ stato osservato da Giuseppe fino, acuto studioso dell’opera mischiana, che quest’idea si concreta di unione mistica fra Imperatore e popolo, una sorta di comunità culturale. Di conseguenza, il patriottismo di Mishima può essere considerato una specie di tennoismo estetico, che lo porta a difendere l’Imperatore come la fonte ed il garante della cultura giapponese. Tra il 1966 ed il 1970 la rappresentazione dell’equilibrio tra il crisantemo e la spada, Mishima la diede nel suo capolavoro letterario Il mare della fertilità, tetralogia sulla società nipponica del XX secolo nella quale, per quanto devastati, affiorano elementi su cui fondare il rinnovamento nel segno della restaurazione culturale. I quattro romanzi del ciclo – Neve di primavera, Cavalli in fuga, Il tempio dell’alba, L’angelo di decomposizione – sottintendono la nozione di reincarnazione che attraverso tutto il Novecento nella vicenda dei protagonisti che riassumano le tensioni e le contraddizioni del Giappone contemporaneo, per costruire i paradigmi più eloquenti. Ma è nel secondo volume della tetralogia, Cavalli in fuga, che Mishima racchiude le sue idee politiche e religiose ponendole, ancora una volta, sullo sfondo dei violenti contrasti che caratterizzano il Giappone degli anni Trenta. Tesi a precisare il suo pensiero politico furono due libretti che Mishima pubblicò tra il 1968 ed il 1970, destinati, in particolare ai suoi discepoli del tatenokai: “Lezioni spirituali per i giovani samurai ed introduzione alla filosofia dell’azione” nei quali, oltretutto, riproponeva e sintetizzava gli elementi della sua complessa visione del mondo e della vita. Quindici giorni prima che Mishima si togliesse la vita, i magazzini tobu di Tokio allestirono una mostra retrospettiva sulla sua carriera letteraria. Lo scrittore volle che la rassegna fosse divisa in quattro fiumi - prosa, teatro, corpo ed azione – che, alla fine, confluiscono nel mare della fertilità. Nella prefazione del catalogo della mostra, Mishima spiegò partitamen-te il significato dei quattro fiumi. Il primo mi aiutava a coltivare i miei campi: mi accorda il necessario per vivere e, talvolta, mi sommerge, e quasi mi affoga, nella sua corrente feconda a (…), eppure se voglio continuare a vivere non ho altra scelta se non quella di scrivere una riga, un’altra riga, ancora….Nel fiume del teatro coglieva coglieva la bellezza nella sua struttura teoretica ed astratta, e questa bellezza non ha mai cessato di essere l’immagine stessa di ciò che nel mio cuore ho sempre considerato il mio ideale di arte. Il fiume del corpo aveva cominciato a scorrere a metà della sia vita: da gran tempo ormai mi dolevo del fatto che solamente il mio spirito invisibile fosse in grado di dar vita a tangibili visioni di bellezza. Perché io non potevo diventare qualcosa di bello a vedersi, come tale, meritevole di essere guardato? A tale scopo non mi restava che rendere bello il mio corpo. Al fiume dell’azione, infine, Mishima doveva le lacrime, il sangue, il sudore che non sono mai riuscito a trovare nel fiume della prosa. In questo nuovo fiume, un’anima s’incontra con un’anima senza doversi curare delle parole. Questo è anche il più distruttivo dei fiumi, e, non stento a comprendere perché ben pochi vi si accostino; questo fiume è ingeneroso nei confronti del cittadino, non accorda pace, ne reliquie, ne ricchezza. Concedetemi, peraltro, di dire una cosa: io sono nato uomo e vivo da uomo, non potrò mai vincere la tentazione di seguire il corso di questo fiume. Alla fine della sua navigazione, Mishima trovò il grande mare che avrebbe solcato, non da solo, in compagnia delle tante anime del Giappone che, in venticinque anni, aveva fatto rivivere.

 

L’immortale teatro di Mishima

Il Giappone dei letterati suicidi

Esistono canali di comunicazione segreta tra le diverse letterature del mondo, Borgers l’aveva capito. In un oscuro disegno universale Yokio Miscima sta accanto a Nietzsche e D’Annunzio, Akutagawa e Pirandello, Kawabata Yasunari e Joice, Dazai Osamu e Baudekaire. Quali sono i tratti essenziali che uniscono questo Giappone letterario all’Europa. Questi tratti sono la dissoluzione dei valori tradizionali, la ricerca affannosa di un’identità al di là del conservatorismo tetragono e del progressismo xenofilo, il nichilismo, la morte, ma, soprattutto la rivolta contro un ordine mondiale disgregante: l’occidentalizzazione e l’american wai of life che ne deriva. Uno stile di vita che garantisce, si, libertà, democrazia e progresso, ma, può, al contempo, scatenare oscuri complessi al limite del solipsismo e del suicidio. Il Giappone è stato, forse il Paese che più al mondo ha vissuto questa lacerazione. Dominato dai samurai con la spada e chiuso il rigoroso isolamento per 250 anni, il Paese del sol levante ha dovuto, nel 1868, rinunciare all’etica del buschido – la via del guerriero del periodo Tokugawa – per trasformarsi in uno Stato moderno ed evitare di perdere l’indipendenza. Il costo di questa metamorfosi strutturale fu altissimo. All’inizio del XX secolo, il Giappone aveva costruito un nuova immagine ed essenza d se, ma cominciava a perdere altre, quelle legate alle sue tradizioni, al suo passato. Ed il letterato che registrava i segni del mutamento, non poteva che prenderne atto o, altrimenti, resistere ed impersonare, in tal modo, il ribelle jùngheriano che tenta pervicacemente di tradurre un realtà la sua simbologia opposizione al nuovismo. Un’opposizione che, in Giappone, è molto spesso l’anticamera dell’autodistruzione. Il seppuku, o, più volgarmente, kiri, è, infatti, il segno peculiare nella sua letteratura e della sua storia, disseminate come sono da un’infinita quantità di letterati guerrieri e guerrieri letterati. Esaltati, rassegnati, rabbiosi, depressi, raramente normali, gli scrittori giapponesi hanno sempre voluto combattere contro un grande-disordine. Molti, durante questo secolo, hanno voluto resistere al tramonto degli dei imperiali. Yukio Mishima rappresenta l’apogeo di questo tramonto, l’ultimo raggio di un sole calante: il Dio del cielo giapponese, il tenno celeste detronizzato dal suo scranno imperiale dalle macerie radioattive di un Giappone distrutto, occupato e ricostruito dagli americani. Mishima è, per l’Occidente, l’antesignano di un certo tipo di opposizione. Militarista, imperialista, barocco, d’annunziano, nicciano, reazionario, retrofilo, per la critica, egli ha sempre rappresentato il rigurgito di una storia indigestpma, per colui che sta dall’altra parte, Mishima è soprattutto la voce scomoda e stridente di chi ha il coraggio delle proprie idee ed ha il coraggio di difenderle a spada tratta: questo è proprio il caso di dirlo. Ma cos’ha di inquietante e di attuale, oggi il messaggio dello scrittore nipponico? Forse l’intuizione che la tra svalutazione dei valori annunciata da Nietzsche venne compiuta dai giapponesi in maniera eterodiretta e sotto la urgenza di un’era inaugurata tutta per loro, quella atomica. Ciò che fino ad allora era stato considerato grande, nobile e sacro venne improvvisamente disprezzato e screditato. La grande ansia orientale contrapposta all’ordine mondiale. Anglosassone, il continente etico, il principio di solidarietà soprannazionale e razziale contro lo strapotere dei bianchi in Oriente, tutti questi ed altri furono i valori estirpati con l’occupazione americana. Pacifismo, uguaglianza, democrazia, libertà e tolleranza internazionale erano i nuovi ideali imposti dal vincitore. A questi principi spettava il compito di ricostruire il nuovo Giappone, mentre a Mishima, spettava quello di custodire la tradizione. Una tradizione che si trasformò in suicidio il 25 novembre 1970. Paradossalmente, la fine violente e, come tutti i seppuki, spettacolare radio, televisione e giornalisti stranieri parteciparono al rituale – fu l’epilogo di una parabola iniziata il 1 gennaio 1946. In quel giorno, l’Imperatore, annunciò per via radio, la negazione della sua origine divina e la rinuncia alla sua sovranità assoluta. Se, in Occidente, la morte di Dio impiegò 250 anni per essere celebrata, in Giappone furono sufficienti soltanto poche settimane e con la solerzia che è tipica dello spirito nipponico. Mishima, con il suo seppuki, tentò di vendicare quella generazione declinata ed immolata all’impero, poi, tradita dall’Imperatore quando rinunciò alla propria sovranità, per finire dimenticata, come sostiene Marcel Pinguet nel suo libro La morte volontaria in Giappone, nella presente prosperità. Molle, invereconda prosperità, immemore dell’asprezza nobilitante dello antico samurai. Le grandi divinità, quelle incarnate negli uomini, non possono accettare compromessi se non a costo di perdere l’identità. Dal sangue della katana che squarciò il ventre di Mishima germinò un frutto. Quello del dubbio, sul valore della vita sradicata dalla tradizione; un seme che fruttificò in Kawabata Yasunari, premio nobel 1968, padrino del giovane Mishima e suo intimo amico. Kawabata fu il messaggero più autentico e raffinato della sensibilità letteraria giapponese, un tipo di letteratura che percorre i secoli sul filo delle sensazioni e delle immagini svincolate dagli intellettualismi occidentali. I suoi romanzi più famosi Il Paese delle nevi e Il suono della montagna, si erano fatti notare per l’atmosfera rarefatta e per la fluidità delle immagini, quasi cinematografiche. Sin da quando era giovane ed aderiva alla scuola delle nuove sensazioni ebbe una chiara visione del romanzo. Esso doveva diventare un riflesso dello stato mentale, dell’esperienza sensoriale, un’unica anima tra le cose, in un immanentismo. Pluralistico, questa era la sua concezione dell’arte. Joice, Proust, Valerye e Gide divennero echi lontani in un Occidente, assurto a conferma dell’essenza precorritrice della letteratura giapponese. Proprio per il suo carattere a logico, intuitivo ed evocativo, molto simile al sentire contemporaneo. E’ per questo che leggendo le opere del premi nobel, bisogna saper rinunciare al razionalismo e lasciarsi trasportare dal flusso della coscienza di una realtà destrutturata di una miriade di insignificanze. Nulla è più vicino alla poesia dei suoi racconti; il suo stile, senza prospettive uniche, esprime il profondo stato di comunicazione tra il conscio e l’inconscio, il visibile e l’invisibile, il sensoriale e l’extrasensoriale. Profondamente malinconico, ligio al principio del mono no aware – empatia tra l’io e le cose – Kawabata intuì che l’unica legge eterna è quella che detta il cambiamento. “Oggi è sbocciato, domani i suoi petali saranno dispersi dal vento; così è il fiore della nostra vita”. Come potrebbe durare in eterno? Questo cantava un kamikaze prima d’immolarsi per l’Imperatore. Come resistere al suicidio quando tutto ciò che veniva considerato eterno viene costretto alla fine? Nel corso della cerimonia per l’assegnazione del premio nobel, Kawabata fece un discorso di ringraziamento nel quale stigmatizzava chiunque arrivasse al gesto estremo per quanto possa essere ammirevole, l’uomo che commette suicidio è lontano dal regno della santità, poiché esso non è una forma d’illuminazione. Quando egli si tolse la vita, nessuno credette alla versione dell’incidente poteva la tradizione, il silente volto del contemplativo, sopravvivere alla negazione di se, al chiasso dell’imperante modernità? L’assoluto silenzio aveva caratterizzato i suoi libri. In assoluto silenzio volle morire, perché esso ha la sua grandezza e necessità in un’era dominata dal frastuono. In una casa presso Kamakura, l’antica capitale del Giappone Shogunale venne trovato morto, asfissiato dal gas. Ne un biglietto ai suoi cari, ne un addio o un testamento vennero trovati, sicché si poté parlare di incidente. Illusione che il suicida, forse, aveva intenzione di creare; Kawabata lo evanescente, aveva dimenticato di accendere il fiammifero sotto la tisana.

L’avventura di un romanzo “imperfetto”

Nel corso di questi anni non si è mai smesso di pubblicare o ripubblicare i romanzi di Yukio Mishima; uno scrittore dentro la nostra storia ed un scrittore che è anche la nostra storia. Con Mishima, la vita si racconta ed ogni racconto è una recita. Altra versata dal tempo dell’attesa ma, soprattutto, dal tempo dell’imprevedibilità. I suoi romanzi sono una lunga recita, Mishima dava alla parola il valore della trasmissione, della certezza, dell’identità, e, sul filo di questa certezza si è incamminato, e, la vita e la morte non costituiscono la partenza e l’arrivo, ma, un unico riferimento. La sua morte, d’altronde, tra lo spettacolare e la tragedia, resta la testimonianza più emblematica di un percorso basato sull’affermazione del ripristino di una fede. Un romanzo che è un’avventura, perché l’avventura stessa incontra il destino del personaggio. Avventura e destino sono un’unica dimensione, e la storia non è più del destino, ma, il personaggio, con il, suo mistero, va al di là della storia stessa. L’età verde è l racconto di Makoto ma è anche uno spaccato di quel Giappone del dopoguerra. Il romanzo, definito da Mishima, imperfetto e, forse, incompiuto – come incompiuti sono i grandi romanzi – si realizza nel travaglio-fallimento del personaggio. Scritto nel 1950, L’età verde rappresenta la definizione di un passaggio d’età grazie, al passaggio degli anni che occupano lo scenario della vita. Nei tempi antichi si credeva che cultura e virtù, necessariamente, coesistessero in una stessa persona.E’ possibile costatare come una simile credenza sia ancora viva, ai nostri giorni, in provincia. E’ una sottolineatura che si trova gia nel primo capitolo. Ma, ci sono altre motivazioni che spingono Mishima in quest’avventura. Ecco….Io intendo scrivere un falso romanzo d’azione; un racconto di gesta eroiche, autenticamente falso…Se si ammette che gli uomini vanno giudicati per come agiscono, e che non sono invece costretti ad agire per come giudicano, allora il mio protagonista è un figlio naturale del giudizio. Le metafore, che navigano nel romanzo, giocano con le parole, e, le parole stesse inventano lo scenario. Ma la realtà è ben altra cosa, non se ne può fare a meno ma il romanzo resta un’avventura, un, avventura cucita sul filo della disarmonia-armonia del tempo-vita. Tutti i suoi romanzi – La foresta in fiore – La voce delle onde,  - Il padiglione d’oro, - Lo specchio degli inganni – vivono nel cerchio magico del risveglio. Il risveglio delle coscienze di un nuovo progetto di vita in cui la civiltà doveva avere un senso attraverso la conoscenza della verità e non del gioco infinito delle funzioni. In confessioni di una maschera il labirinto del gioco funzione-verità è un ritornare dalla fuga recuperando il sogno della maschera. Una morte che seppellisce definitivamente il desiderio di fuga ma ritrova la consapevolezza di un tempo-avventura. Nel 1971, ad un anno dalla morte, Yasunari Kawabata scrisse: La morte di Mishima mi ha rievocato Yokomitsu, non perché i tragici destini e le concezioni di questi due geniali autori si somigliano, ma, perché Yokomitsu fu, per me, un incomparabile amico ed un maestro della mia età; Mishima fu, ugualmente, un grande amico ed un maestro più giovane. Potrò mai trovare altri amici come loro? Una morte annunciata; certamente una morte che preannuncia il dolore di un’epoca e la perdita di quei riferimenti che sono certamente, riferimenti unici che hanno guidato l’evolversi delle generazioni. L’età verde è, infatti, il travaglio o l’inquietudine di un passaggio generazionale. I personaggi che vi campeggiano vivono dentro questo passaggio e sono il tratto d’unione tra il tempo e la maschera ed il tempio che raccoglie le confessioni. Ma tutto il viaggio di Mishima è una confessione.

Mishima un teatro che fa ancora paura

A torto, considerato un’appendice della sua imponente opera omnia il teatro di Mishima, è una sorprendente miniera di scoperte. In genere, si tende a considerare la drammaturgia di Mishima non la punta di un iceberg e neppure la base oscura e sottoterra nella sua prodigiosa fertilità. Il teatro – con l’eccezione di madame De Sade – non gode, in Occidente di larga popolarità, anzi, nessuno l’ha mai considerato. Eppure, non solo Yukio Mishima, tra il ’39, ha scritto Trentatré drammi, un corpus di poco inferiore al lascito scespiriano (che ne annovera trentasei, ma ha scelto il teatro come veicolo di massima diffusione del suo pensiero intervenendo, dalla scena, sulla realtà di un modo. Sconcertante, balzando dal Settecento francese al nazismo, dalla meditazione sulla politica nipponica di fine Settecento all’indagine religioso sul mistero fino alla riscrittura della tragedia greca ambientata in un Paese immaginario che, tra pampes e la desolata vastità dell’oceano, fa pensare all’Argentina. Ed allora come mai, sul suo teatro, si stende il velo preoccupante, del silenzio? La risposta è una sola: Perché mai nel dialogo, del monologo, nella nuda parola pronunciata, con febbrile esaltazione, sulla scena, concetti tabù come sadismo e, per i marxisti, il fascismo sono, orgogliosamente, portati avanti fino alle estreme conseguenze. L’Occidente, e noi in particolare, abbiamo purtroppo, ancora molta paura delle parole e, quel che è peggio, analizziamo certe espressioni col metro della nostra esperienza. Se solo prospettassimo a noi stessi l’ipotesi che, nell’isola del determinismo e del culto massimo della forma, parole come sadismo e fascismo vanno spogliate la prima dall’ossessione freudiana e la seconda di ogni riferimento estraneo all’aristocrazia chiusa della casta militare, le cose potrebbero – dico potrebbero – funzionare diversamente. Perché Mishima, come sappiamo, ha dedicato la vita ad un sogno impossibile quanto affascinante: Essere l’uno e l’altro, Castore e pollice, il sole e la terra, l’uguale ed il contrario. Contempla la virilità dei corpi e precipita nell’estatica adorazione delle forme forse femminile, viaggia alla scoperta dell’Occidente, incontra i più discussi esponenti della società letteraria del suo tempo, da Jean Cocteau a Tennesse Wiliams, frequenta le palestre e riesce, in breve tempo, a tramutare il proprio corpo esile in una perfetta macchina d’addestramento con muscoli guizzanti a fior di pelle ed i pugni tesi verso l’obiettivo incapace si direbbe, di contenere una simile esplosione di selvaggia gioia di vivere. Un gioia che deriva dalla morte, una gioia ch’è materiata di morte, al punto che, nella sua vita e nella sua opera e, la maggior ragione, nel suo teatro, la vita è solo un tappa intermediatrale due cruente esplosioni che condizionano l’esistenza: la nascita del corpo e la sua dissoluzione. Freud ci ha ammonito, a suo tempo, sulla malattia e, quindi, sulla depravazione insita nelle categorie del sadismo e del masochismo e, da allora, nessuna pietà oggettiva, nessuna considerazione morale, nessuna analisi libera condotta da uno spirito libero, ha osato contraddire il suo ferreo postulato. Mentre Mishima drammaturgo sposta più in là i termini della questione. Come? Vediamo di scoprirlo insieme. Dapprima lo scrittore cerca una definizione del sadismo attraverso l’evocazione del suo desolato cantore: Il divin marchese. Lo fa in un dramma, madame De Sade (1965), dove l’eroe è assente ma viene incessantemente consegnato all’applicabile vivisezione del pubblico, attraverso le donne della sua vita: la moglie fedele, la cognata ammorale e viziosa, la suocera implacabile e vendicativa, a,cui si aggiungono – come in un politico – le figure complementari di due personaggi come la baronessa Di Simiane, immagine della fede cattolica, e la contessa Di Saint-Found, immagine della libertà della carne. Chi è il sadico per Mishima? Una persona che cerca l’assoluto, ossia, la risposta all’atroce brevità della vita e, s’illude di trovarla attraverso il dolore fisico. Solo umiliando il corpo, trapassandolo di spine (occorre ricordare che Mishima tradusse in giapponese Le martyre De Saint Sèbastien di D’Annunzio) vagliandone la resistenza fino all’ambiguo spartiacque che separa la vita dalla morte, Mishima intravede i lineamenti del futuro. Mishima non è, infatti, un trasgressivo, come potrebbe sembrare, ma, un moralista. Se fosse nato in Occidente, ed in altra epoca storica, con estrema facilità, avrebbe abbracciato una causa assoluta come il giansenismo, l’unica forma di fede, estranea alla sua educazione, di cui il suo teatro è pervaso da cima a fondo. Solo un giapponese colto, appartenente all’elìte, poteva, dopo De Sade, abbordare il personaggio come Nerone riscrivendo nel ’57 Il britannicus di racine. Solo dopo aver analizzato il fatalismo del personaggio, portare a termine l’analisi di quel comportamento ricreando, nel 4968, l’immagine del Fùhrer, ad un passo della liquidazione delle camicie brune di Ròhn nel mio amico Hitler. Mishima, dunque, nel suo teatro, parte da Sade, attraversa Nerone, simbolo della ferocia dell’antichità classica ed approda ad Hitler, ma, non stabilisce in questa triade, anomala ed inquietante, nessun rapporto di causa ed effetto. Sade è uno scrittore, malato d’amore per il mondo, che, rinchiuso in una fortezza, è appassionatamente tenuto in vita dalla moglie, orgogliosa portavoce delle sue istanze, finché un decreto, liberandolo dalla pastiglia, scioglierà il vincolo di sudditanza che la lega al consorte. Nerone è un giovane che desidera la madre e, per troncare la volontà di dominio che Agrippina esercita su di lui, distrusse le fondamenta del suo potere isolandola, come una reclusa, all’interno della sua stessa corte. Hitler, che Mishima definisce un genio politico, ma, non un eroe, reprime l’opposizione di destra in una sola notte come, a suo tempo, fece Caterina De Medici nella notte di San Bartolomeo cantata dal Balzac come la massima espressione del legittimismo. Il sadico, potenzialmente vittima di se stesso, rivolse le sue armi d’offesa contro gli amici e, non contro  nemici, perché si può solo distruggere, chi si ama, percorrendo la via solitaria che conduce al narcisismo. Ed il Fascismo nipponico? Mischia è un samurai disincantato, è l’ultmo romantico del nostro secolo che muore e,come tutti i romantici, sa che nessun gesto salverà il suo Paese dallo schiavismo americano, dallo spettro de consumismo, dalla rinuncia alla propria identità. Per bocca di Hisac, il giovane congiurato che volle penetrare el palazzo delle feste per uccidere il padre,, capo dell’opposzione, venuto meno agli ideali professati in gioventù, Mishima afferma di detestare le bandiere che oscillano al vento e la retorica delle nobili frasi che si perdono nel nulla, ma, con vrle fermezza dichiara di voler morire anche se la sua prematura scomparsa sarà sol un macchia insignificante della storia sarà pur sempre la testimonianza di un disagio, la traccia di uno scompenso, la denuncia della colpevole indifferenza di un popolo teso a cancellare il passato. Nell’ Albero dei tropici (1960), la più spaventosa variazione sull ‘ Orestea scritta da un contemporaneo,la tragedia assume i connotati vistosi e contraffatti della maschera. Siamo ben lontani dalle atmosfere di “forse che sì , forse che no”. Il fratello e la sorella dell’ Albero dei tropici tentano, con il loro amore di isolarsi dal mondo circostante ma vengono travolti:Il giardino dell’Eden è incendiato, i Samurai sono morti ed il Giappone è una desolata prateria battuta dal vento: Il teatro è un grido lanciato  nel vuoto.             

Il Libeccio  

 

Fonte: http://www.thule-italia.net/Storia/0042%20Yukio%20Mishima%20-%20La%20carne%20e%20l'onore.doc

Sito web da visitare: http://www.thule-italia.net

Autore del testo: sopra indicato nel documento di origine

Il testo è di proprietà dei rispettivi autori che ringraziamo per l'opportunità che ci danno di far conoscere gratuitamente i loro testi per finalità illustrative e didattiche. Se siete gli autori del testo e siete interessati a richiedere la rimozione del testo o l'inserimento di altre informazioni inviateci un e-mail dopo le opportune verifiche soddisferemo la vostra richiesta nel più breve tempo possibile.

 

Harakiri

 

 

I riassunti , gli appunti i testi contenuti nel nostro sito sono messi a disposizione gratuitamente con finalità illustrative didattiche, scientifiche, a carattere sociale, civile e culturale a tutti i possibili interessati secondo il concetto del fair use e con l' obiettivo del rispetto della direttiva europea 2001/29/CE e dell' art. 70 della legge 633/1941 sul diritto d'autore

Le informazioni di medicina e salute contenute nel sito sono di natura generale ed a scopo puramente divulgativo e per questo motivo non possono sostituire in alcun caso il consiglio di un medico (ovvero un soggetto abilitato legalmente alla professione).

 

Harakiri

 

"Ciò che sappiamo è una goccia, ciò che ignoriamo un oceano!" Isaac Newton. Essendo impossibile tenere a mente l'enorme quantità di informazioni, l'importante è sapere dove ritrovare l'informazione quando questa serve. U. Eco

www.riassuntini.com dove ritrovare l'informazione quando questa serve

 

Argomenti

Termini d' uso, cookies e privacy

Contatti

Cerca nel sito

 

 

Harakiri