Prima guerra d’indipendenza

Prima guerra d’indipendenza

 

 

 

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Prima guerra d’indipendenza

  1. Il biennio 1848-49 e la prima guerra d’indipendenza

 

La concessione degli statuti

La rivolta nel regno delle due Sicilie

Nel 1848 scoppiano in Italia vari moti popolari, in cui convivono le motivazioni sociali delle classi più umili e le motivazioni nazionali della borghesia liberale moderata. Il primo moto è a Palermo, che chiede la costituzione del 1812 e l’indipendenza della Sicilia. Ferdinando II concede uno statuto, respinto dagli insorti (che emanano un loro costituzione), ma imitato in Toscana, regno di Sardegna e stato della chiesa. Ne restano privi invece il lombardo-veneto, Parma, Piacenza e Modena (sotto controllo o influenza austriaca)

 

Lo statuto albertino

Lo statuto albertino è quello concesso da Carlo Alberto in Piemonte (e passerà poi al regno d’Italia, fino al 1948). Il re decide sulla guerra, nomina e revoca i ministri. C’è un parlamento bicamerale: il senato lo nomina il re, la camera è eletta dai soli uomini, su base censitaria. Sono generici e incerti i diritti dei cittadini, e resta preminente il ruolo della chiesa cattolica.

 

La prima guerra d’indipendenza: la fase federale

L’insurrezione di Venezia e Milano

I moti liberali di Vienna del 1848 si estendono a Venezia e a Milano, dove trovano l’appoggio sia degli amministratori aristocratici ed altoborghesi, sia dei ceti popolari (colpiti dalla crisi economica). A Venezia Daniele Manin proclama la repubblica di S.Marco. Milano caccia gli Austriaci nelle cinque giornate, ma gli insorti sono divisi tra democratici federalisti (Cattaneo) e moderati (Casati). Cacciato l’austriaco Radetzky, prevalgono i moderati, che attendono l’arrivo di Carlo Alberto.

 

La difficile conduzione della guerra

Carlo Alberto entra in guerra esitando: teme possibili sviluppi democratici od ostili alla sua politica espansionistica e dinastica nell’alta Italia. Entra a Milano,vince a Pastrengo (con l’appoggio dei contingenti di altri stati italiani e di volontari), ma poi temporeggia, e presto l’esercito federale si sfalda: Pio IX, Ferdinando II e il granduca di Toscana ritirano le loro truppe. Restano i volontari, coi quali si hanno vittorie a Vicenza, Curtatone, Montanara, Goito, Peschiera. Ma la controffensiva di Radetzky sconfigge duramente Carlo Alberto a Custoza, obbligandolo all’armistizio (armistizio Salasco)

 

Le repubbliche. La fine della prima guerra d’indipendenza

La repubblica toscana

Dopo quella di Venezia, si formano altre due repubbliche democratiche, a Firenze e a Roma, sostenute dai ceti urbani (artigiani, operai, studenti, intellettuali) che vivono una dura crisi economica. A Firenze il governo discorde di Guerrazzi, Montanelli e Mazzoni viene presto abbattuto dagli Austriaci

 

La repubblica romana

A Roma, dopo l’assassinio di Pellegrino Rossi (ministro papale e moderato riformista), Pio IX fugge, ed un’assemblea costituente proclama la repubblica. La guidano Mazzini, Saffi ed Armellini, che annunciano radicali riforme agrarie ed aboliscono il potere temporale dei papi. Ma la repubblica è politicamente isolata.

 

L’intervento francese a Roma e la caduta di Venezia

È la Francia di Luigi Napoleone a far cadere la repubblica romana, per avere il consenso dei cattolici francesi. Garibaldi, sconfitto, fugge verso Venezia (ma presso Ravenna muore Anita, sua compagna). Anche Venezia, assediata e colpita dal colera, si arrende nell’agosto 1849, mentre un ultimo tentativo di Carlo Alberto si chiude con una rapida e definitiva sconfitta

 

La sconfitta piemontese di Novara

Carlo Alberto abdica. L’armistizio lo firma Vittorio Emanuele II

 

La ribellione di Brescia

La ribellione di Brescia, guidata da Tito Speri, dura dieci giornate

 


2. Il  decennio di preparazione

La nuova politica del regno di Sardegna

Vittorio Emanuele II

Per Vittorio Emanuele II la situazione è difficile: il Piemonte ha perso la guerra, ha uno statuto che l’Austria non gradisce (e pure il re ne farebbe a meno…); ha speso molto per la guerra; ha tensioni politiche. Tuttavia il sovrano, col ministro Massimo D’Azeglio, attua una politica non assolutistica.

 

Il mantenimento della costituzione e la pace con l’Austria

Francia, Inghilterra e i patrioti italiani appoggiano lo statuto albertino, e Vittorio Emanuele II, rispettandolo, chiede al parlamento di accettare la pace con l’Austria. Ma il parlamento è ostile: il re lo scioglie, e col proclama di Moncalieri invita gli elettori ad un voto moderato a lui favorevole. Lo ottiene, e firma la pace.

 

Le leggi Siccardi

Il governo piemontese nel 1850 vara provvedimenti di laicizzazione dello stato (le leggi Siccardi: abolizione del foro ecclesiastico e del diritto d’asilo; riduzione delle feste religiose; controllo statale sulle donazioni alla chiesa), che vanno oltre la volontà del re, ma formano alla camera una maggioranza costituzionalista, lontana dalle ali estreme.

 

L’ingresso di Cavour nel governo

La scelta per il rafforzamento economico del regno

Nel ’50 entra, nel governo D’Azeglio, Cavour: illuminista, viaggiatore, è convinto che non la rivoluzione, ma solo una seria politica di riforme può portare ad uno sviluppo economico e sociale. Il suo progetto unitario mira solo all’Italia del nord.

 

Le riforme e l’avvicinamento alla sinistra moderata

Il progetto di Cavour inizia col graduale abbandono del protezionismo, con la costruzione di ferrovie e lo scavo di canali navigabili, con la creazione della banca nazionale, il risanamento del deficit statale, l’apertura del credito interno e un maggior prelievo fiscale. Appoggia tale programma un connubio (=matrimonio) politico di liberali e sinistra moderata (Rattazzi). Ma il re non gradisce, e Cavour si dimette. Di lì a poco però il governo D’Azeglio cade, e Cavour ritorna: è primo ministro.

 

Cavour primo ministro: la politica estera del regno di Sardegna e la guerra di Crimea

La centralità del parlamento

Con Cavour primo ministro il regime costituzionale si rafforza. Con l’appoggio delle forze liberali progressiste, Cavour contrasta il re e sposta gradualmente le competenze decisionali alla camera dei deputati.

 

La riapertura della questione d’oriente

Cavour cerca alleanze con Francia e Inghilterra per sostenere l’espansionismo piemontese. Una guerra russo–turca nel mar Nero vede nel 1853 Francia e Inghilterra alleate dei Turchi. Vittorio Emanuele II vuole affiancarsi, sperando che l’Austria stia coi Russi. Ma l’Austria resta neutrale.

 

L’intervento piemontese in Crimea

La situazione è ambigua: Cavour esita. Ma il re vuole la guerra, e Cavour, costretto, pone la questione al parlamento, che approva l’intervento. Nel 1855 un corpo di bersaglieri va in Crimea. I russi perdono: cedono la foce del Danubio e smilitarizzano il mar Nero.

 

Il congresso di Parigi

Il Piemonte è ammesso al congresso di pace di Parigi (1856), dove Cavour ottiene che la questione italiana sia posta in discussione. È un successo diplomatico.

 

Gli accordi di Plombières

L’avvicinamento piemontese a Napoleone III

Dopo la guerra di Crimea, si riavvicinano le diplomazie di Francia e Russia; altrettanto fanno Inghilterra ed Austria. Napoleone III cresce d’importanza, e a lui guarda Cavour, sorretto dall’opinione pubblica liberale italiana.

 

L’ulteriore crisi dell’ipotesi repubblicana per l’Italia

L’obiettivo dell’unificazione sotto l’egemonia piemontese conquista progressivamente anche settori democratici, visto il fallimento del ’48 e l’esito disastroso del mazziniano Pisacane a Sapri (dove voleva suscitare una rivolta contadina antiborbonica). Perfino i repubblicani Manin e Mazzini accettano una transitoria guida sabauda. Cavour quindi prosegue nell’alleanza con la Francia.

 

L’attentato di Orsini

Il mazziniano Felice Orsini vuol far saltare l’alleanza franco-piemontese, e attenta, invano, alla vita di Napoleone III. Orsini è ghigliottinato, ma Cavour usa l’attentato per convincere Napoleone III che la questione italiana è esplosiva e va risolta.

 

Il programma di Plombières

Si arriva così agli accordi segreti di Plombières tra Francia e Piemonte (1858): se l’Austria attaccherà il Piemonte, interverrà la Francia. In cambio avrà Nizza, la Savoia, un Murat (francese) sul trono di Napoli. Il Piemonte avrà il lombardo-veneto; il papa presiederà una federazione italiana.

 



3. Le vicende del biennio 1859-1860

La seconda guerra d’indipendenza

L’ultimatum austriaco e lo scoppio del conflitto

La causa italiana ha la simpatia dell’opinione pubblica inglese, ma non quella di tutti i Francesi (contrari i cattolici, ma anche i borghesi che temono un’alleanza austro-prussiana). È l’Austria che nel 1859 fa la prima mossa, intimando al Piemonte, che ostenta intenzioni aggressive, il disarmo e lo scioglimento dei corpi volontari. Il Piemonte rifiuta. È la guerra; scattano gli accordi: i franco-piemontesi vincono (Montebello, Palestro, Solferino, S.Martino), e vince anche Garibaldi, coi cacciatori delle Alpi. Intanto insorgono Toscana, Modena, Parma.

 

L’armistizio di Villafranca

L’opinione pubblica francese è però scossa dalle gravi perdite, e Napoleone III firma a Villafranca l’armistizio, senza informare Vittorio Emanuele II. Ciò crea tensione in Piemonte: Cavour si dimette. All’armistizio si arriva perché Napoleone III si è reso conto che il processo unitario è troppo avanti per poterlo controllare; e perché Francesco Giuseppe, imperatore d’Austria, temeva il costo umano ed economico di una lunga guerra. L’armistizio dà: la Lombardia alla Francia (che la cede al Piemonte); le terre insorte ai legittimi sovrani; Venezia all’Austria (ma con più autonomia). Tali accordi saranno però disattesi…

 

I plebisciti

Le insurrezioni in Emilia e in Toscana

In realtà la guerra d’indipendenza si trasforma in una sollevazione nazionale. In Emilia e Toscana vengono instaurati governi provvisori filopiemontesi.

 

L’annessione al regno di Sardegna dell’Italia centrale

Gli inglesi sono favorevoli a un’Italia autonoma (dall’Austria, ma anche dalla Francia) e così Cavour (di nuovo al governo nel ’60) cede alla Francia Nizza e Savoia, ma ottiene in cambio l’Italia centrale. Dei plebisciti ne sanciscono l’annessione; alle elezioni del 25 marzo si affermano i moderati.

 

La spedizione dei Mille

Il successo garibaldino

Il 5 maggio 1860 mille volontari di varia estrazione sociale e geografica partono da Quarto (Genova) per portare aiuto alle insurrezioni scoppiate in Sicilia. Li guida Garibaldi. La spedizione non è appoggiata dal governo piemontese, che teme sviluppi democratici e l’influenza di Mazzini sui volontari. Ma la spedizione sbarca a Marsala e conquista rapidamente la Sicilia e l’intero Mezzogiorno, con l’aiuto dei picciotti (volontari siciliani antiborbonici).

 

La discesa nel sud dei piemontesi

Chiesta autorizzazione alla Francia, Cavuor invia una spedizione militare che attraversa lo stato della chiesa (le cui truppe sono sconfitte a Castelfidardo), per poi riportare l’ordine nel Mezzogiorno. Il regno delle Due Sicilie, conquistato da Garibaldi, viene annesso al Piemonte con un plebiscito. Garibaldi incontra Vittorio Emanuele II a Teano, gli consegna i territori e si fa da parte.

 

Le contraddizioni dei Mille nei confronti dei contadini meridionali

Le preoccupazioni di Cavour sono eccessive. Garibaldi ha suscitato l’unico vero movimento popolare dopo il ’48, facendo leva soprattutto sui contadini affamati di terre e insofferenti di un ordinamento sociale ancora feudale. Garibaldi aveva abolito il dazio sulle farine e sospeso le imposte. Aveva poi decretato la divisione delle terre demaniali, ma poi si era limitato a consentirvi l’uso gratuito di semina e pascolo. Così i contadini delusi reagiscono occupando le terre e ribellandosi: ma scatta la repressione (famosa quella di Bixio, vice di Garibaldi, a Bronte)

 

Lo scioglimento dei garibaldini

Nonostante la repressione dei moti contadini, il timore che Garibaldi crei una repubblica e arrivi a Roma spinge Cavour a liquidarlo. Ma Garibaldi lo precede, e si ritira a Caprera; gli ufficiali garibaldini vengono umiliati, e si dimettono; i soldati vanno allo sbando.

 

La proclamazione del Regno d’Italia

I plebisciti nel mezzogiorno

L’esito dei plebisciti nel sud pone termine al dibattito sulle modalità dell’unificazione. Prevalgono infatti le posizioni moderate e cavouriane (annettere gli ex stati italiani al Piemonte, creare un forte regno unitario con Roma capitale).

 

Il Regno d’Italia

L’obiettivo dell’unità a tutti i costi ha sacrificato altre finalità, democratiche e sociali. Il 17 marzo 1861 il parlamento nazionale proclama il Regno d’Italia. Il re è Vittorio Emanuele (che resta “secondo”). Intanto, il 6 giugno Cavour muore.

 


4. Le condizioni economiche e sociali al momento dell’unità.

Un’industria quasi tutta da fare

La debolezza della borghesia

Il Regno d’Italia ha condizioni economiche e sociali fortemente squilibrate. C’è povertà. Solo l’1,92% degli Italiani ha diritto di voto. La classe dirigente (liberista e moderata) rappresenta solo i proprietari terrieri piemontesi e toscani. Manca una borghesia sviluppata (in Italia non c’è stata una rivoluzione agraria); nemmeno la borghesia mercantile tiene il passo di quella del nord Europa. In molte regioni domina il latifondo; tariffe doganali altissime hanno impedito lo sviluppo commerciale. Le industrie sono piccole, leggere, con macchinari vecchi.

 

Il carattere tradizionale della manifattura italiana

C’è una discreta industria tessile in Piemonte e Lombardia (dove però scarseggiano i telai a motore). In Toscana sono sviluppate varie lavorazioni artigianali; nel sud vi sono piccole industrie tessili, già sostenute dal protezionismo borbonico. Ma è grave l’arretratezza delle industrie meccanica, estrattiva e metallurgica, dovuta sia alla mancanza di capitali da investire, sia ai bassi salari della mano d’opera (=meglio avere molti operai sottopagati che investire in macchinari).

 

Il dualismo nord-sud

I fattori dell’arretratezza agricola

L’agricoltura italiana è arretrata: esistono aree dinamiche, ma in molte regioni prevale una organizzazione semifeudale, di latifondo e manomorta (=beni ecclesiastici né vendibili né tassabili). Sono scarse le colture specializzate: si coltiva soprattutto grano, e con rese assai basse. A ciò si deve aggiungere la montuosità di molte regioni (ostacolo all’agricoltura), le piogge irregolari, l’irrigazione inadeguata, le bonifiche insufficienti.

 

La politica economica del nuovo Stato

La popolazione italiana è povera, e lo Stato unitario ha un forte debito pubblico (si è accollato i debiti  degli stati pre-unitari). Lo Stato unitario mira allo sviluppo della borghesia e di un mercato nazionale, che richiede sia il potenziamento dell’iniziativa privata (coi soldi pubblici) sia la costruzione di strade e ferrovie. Questa politica,  però, favorisce il nord: al sud è ostacolata dall’arretratezza economica e sociale. Occorrerebbe una radicale riforma agraria che distruggesse il latifondo (creando così contadini proprietari, produttori e…consumatori). Ma c’è paura nella classe dirigente, e la questione meridionale non viene percepita nella sua gravità.

 

L’imposizione del modello sabaudo

Viene così imposto il modello sabaudo, ed è abolita ogni barriera doganale (e ciò travolge la debole industria meridionale). Alcune decisioni unificatrici sono inevitabili, altre invece assai criticabili (ad es. quella per cui lo statuto albertino diventa costituzione dell’intera Italia). L’accentramento amministrativo produrrà troppa rigidità, mentre il servizio militare obbligatorio darà origine a ribellioni nei ceti più umili.

 


5. La destra storica e i conflitti degli anni sessanta

Lo Stato unitario ignora le masse popolari

Un processo unitario d’élite

I gruppi progressisti avevano insistito per avere una partecipazione popolare al Risorgimento. Sapevano che bisognava poi ricompensare le classi più arretrate. Sapevano che una politica liberista sulla testa delle masse avrebbe suscitato rivolte. Ma né moderati né democratici mettevano in discussione il ruolo dirigente della borghesia. Inoltre, non avevano piena conoscenza della realtà delle classi sociali urbane e rurali (alcune proposte politiche erano a tal riguardo utopistiche).

 

Il moderatismo della borghesia e la questione sociale

I liberali invece volevano sì unire risorgimento politico e risorgimento economico, ma senza mutamenti sociali. Il nuovo Stato finì così per sostenere lo sviluppo là dove già ne esistevano le condizioni (al nord e al centro), abbandonando il sud alla sua questione meridionale. Mancò inoltre la volontà o la possibilità di creare uno stato liberale realmente borghese: si creò invece un equilibrio conservatore di forze al potere, che a livello politico si tradusse nella cosiddetta destra storica (=maggioranza parlamentare formata da cavouriani: liberali moderati, liberisti in economia, conservatori, timidi nelle riforme sociali).

 

Il brigantaggio

La rivolta contadina nel mezzogiorno

Dalla discrepanza tra le attese dei contadini meridionali e il ripristino dell’ordine operato dal governo italiano nasce il brigantaggio. Si tratta di contadini in bande, che colpiscono tutti i proprietari. Sono anche strumentalizzati da lealisti borbonici e clericali sanfedisti.

 

Crisi economica e renitenza alla leva

Inverno 1860, clima rigido, crisi alimentare: lo Stato acquista grano all’estero a prezzi bassi, ma così la pur insufficiente produzione interna resta invenduta. Chiudono le industrie locali, c’è disoccupazione: contadini senza terra, disoccupati di città e renitenti alla leva si danno al brigantaggio.

 

Brigantaggio politico e brigantaggio sociale

All’inizio i Borboni finanziano le bande. Ma presto il brigantaggio politico si affievolisce: dal 1862 esso si trasforma in lotta sociale.

 

La repressione militare nel sud

Sul brigantaggio il governo è inizialmente incerto, ma nel 1861 il ministro Ricasoli invia al sud Cialdini con 50.000 uomini. Ancora però non si riconosce la portata sociale del brigantaggio. Accusato di debolezza, Cialdini è sostituito da La Marmora, che accentua la repressione: quando nel 1862 Garibaldi tenta una spedizione su Roma, La Marmora ottiene lo stato d’assedio ed instaura una dittatura militare.

 

La relazione Massari

La situazione però non migliora: un nuovo governo forma una commissione parlamentare d’inchiesta (la commissione Massari) che nel 1863 produce una relazione che accenna alle cause sociali del brigantaggio, ma reclama un provvedimento eccezionale che ne legalizzi la repressione. Il dibattito è molto acceso, ma presto soffocato dalla legge Pica, che dà competenza sul brigantaggio ai tribunali militari. Si avvia così una repressione che durerà fino al 1866 e verrà chiusa nel 1870. Le cifre della repressione: 5000 briganti uccisi (e 600 soldati), 9000 arrestati.

 

La questione romana

L’irrigidimento di Pio IX

Pio IX è fortemente ostile allo Stato unitario italiano: finanzia il brigantaggio, sostiene i cattolici reazionari, scomunica i rappresentanti dello Stato italiano

 

Dai tentativi di Garibaldi a Firenze capitale

Garibaldi prova a portare avanti il processo di unificazione e indipendenza (mancano Roma e Venezia). Nel 1862 prova in Trentino: il governo lo ferma. Sempre nel ’62 riprova dalla Calabria verso Roma: è ferito ed arrestato dall’esercito italiano sull’Aspromonte. Il governo è così costretto a riesaminare la questione romana per vie diplomatiche. Una prima soluzione di compromesso è la convenzione di settembre del 1864 con la Francia di Napoleone III (la Francia ritirerà i soldati da Roma, ma l’Italia non la occuperà: capitale sarà Firenze).

 

Il Sillabo

Nel 1864 Pio IX emana il Sillabo, documento in cui condanna 80 errori filosofici ed etici del liberalismo, e in cui invita alla ribellione contro lo Stato italiano.

 

Il conflitto austro-prussiano e l’acquisizione del Veneto

La guerra tra Austria e Prussia

La terza guerra d’indipendenza è la fase italiana di una guerra tra Prussia ed Austra, nata da contrasti sorti nel corso del processo di unificazione tedesca. Il ministro prussiano Bismarck stringe un’alleanza con l’Italia, quindi attacca e sconfigge l’Austria nel 1866.

 

Le sconfitte degli Italiani

L’esercito italiano è però sconfitto dagli Austriaci (a Custoza e a Lissa). Solo Garibaldi vince sulle Alpi, e conquista il Trentino. La pace tra Austria e Prussia vedrà la cessione alla Francia (e solo poi all’Italia sconfitta) del Veneto, ma imporrà il ritiro di Garibaldi dal Trentino. La guerra ha evidenziato l’arretratezza e l’impreparazione dell’esercito italiano.

 

Roma capitale

L’ennesimo tentativo di Garibaldi

All’Italia manca ora solo lo stato pontificio e Roma capitale. Garibaldi ci riprova: una prima volta nel 1867, ma viene arrestato a Sinalunga, in Toscana; fuggito, ritenta, ma i garibaldini sono sconfitti a Villa Glori. Un ultimo tentativo si conclude con l’intervento dei Francesi, che lo sconfiggono a Mentana.

 

L’ingresso in Roma delle truppe italiane

La questione romana si risolve nel 1870: una guerra contro la Prussia, rovinosa per i Francesi, duramente sconfitti, li obbliga a ritirarsi dal Lazio. Il governo italiano decide allora l’occupazione di Roma il 20 settembre 1870. Pio IX si ritira in Vaticano, dichiarandosi prigioniero.

 

 

Fonte: http://gritti.provincia.venezia.it/sintesidistoria/unita_italia.doc

Sito web da visitare: http://gritti.provincia.venezia.it

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