Rivoluzione Messicana

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Rivoluzione Messicana

LA RIFORMA AGRARIA 

DEFINIZIONE
La riforma agraria è una ristrutturazione dei mezzi di produzione agricola, in particolare del suolo. Spesso, con questa definizione, si intende una redistribuzione della proprietà delle terre coltivabili attraverso un'espropriazione forzata, indennizzata o no, che l'amministrazione compie nei confronti dei beni posseduti da grandi proprietari, per una successiva redistribuzione gratuita, o a prezzo agevolato, in favore dei coltivatori privi di proprietà. Nella storia ci sono state numerose riforme agrarie, spesso dovute a rivoluzioni o rivendicazioni violente da parte della classe contadina dato che per queste persone terra è sinonimo di reddito.
Ha la duplice finalità di redistribuire più equamente la terra, migliorandone al tempo stesso la produttività. Nel redistribuire la terra dai grandi proprietari - tra i quali vi può anche essere  lo Stato - verso i piccoli proprietari, si favorisce una più equa distribuzione del reddito. Inoltre, eliminando le zone scarsamente produttive del latifondo, si cerca di aumentare la produttività della terra delle zone riformate. Allo stesso tempo, è possibile modificarne i prodotti o le tecniche, se le terre espropriate sono sì produttive ma utilizzate male. Perciò, agli obiettivi di equità si è soliti associare obiettivi di miglioramento qualitativo e quantitativo nello sfruttamento della terra.

CONTESTUALIZZAZIONE
Il tema della riforma agraria, cioè di un intervento radicale posto in atto dal potere statale per introdurre modifiche sostanziali nella struttura del mondo rurale, e in primo luogo nella distribuzione della proprietà fondiaria, è stato patrimonio comune di quasi tutti i movimenti rivoluzionari di ispirazione socialista in senso lato che si sono affermati nel corso del XIX secolo.
Conseguentemente nei migliori studi dedicati alla storia di questi movimenti hanno trovato ampio spazio le analisi delle varie prospettive e dei diversi progetti da essi avanzati in tema di riforma agraria. È il caso, per esempio, della monumentale Storia del pensiero socialista di G.D.H. Cole (1953, ed. it. 1967) o della storia del populismo russo di F. Venturi (1952), nella quale l'autore ha accennato anche al dibattito svoltosi fra i decabristi sull'abolizione della servitù e sulla trasformazione della proprietà terriera nella Russia zarista. 


IL PENSIERO MARXISTA
Oggetto di vivaci polemiche è stata l'interpretazione dell'atteggiamento assunto da Karl Marx sulla questione agraria e contadina fin dal 1848. Partendo dal presupposto che fosse necessario giungere anche in agricoltura a una concentrazione del capitale, Marx, in contrasto con i proudhoniani, che difendevano la proprietà privata dei poderi contadini, sostenne l'esigenza di misure che conducessero alla nazionalizzazione della terra e alla formazione di grandi unità produttive.
Studiosi come D. Mitrany (Marx Against the Peasant, 1951) hanno visto in questa strategia una sostanziale avversione da parte di Marx per la realtà contadina. Altri, come A. Hegedüs (La questione agraria, in Storia del marxismo, Einaudi, vol. II, 1979), pur riconoscendo la subalternità nel pensiero marxiano della questione contadina rispetto a quella operaia, hanno invece dato delle soluzioni indicate da Marx una valutazione positiva. Certo è che le tesi di Marx divennero un elemento costitutivo fondamentale dei primi partiti socialisti e socialdemocratici europei, e solo verso la fine del XIX secolo esse furono sottoposte a revisione critica da parte di esponenti socialisti come il tedesco E. Bernstein e i francesi P. Lafargue e J. Guesde. 


IL PENSIERO DEL RISORGIMENTO
In Italia il tema della riforma agraria venne introdotto nel dibattito politico da G. Ferrari e C. Pisacane, che dalla riflessione sulle cause del fallimento dei moti del 1848-1849 trassero la conclusione che la rivoluzione fosse possibile soltanto facendo leva sulle masse contadine, sulla base di un programma che prevedesse la profonda trasformazione del mondo rurale e dell'assetto della proprietà terriera.
Gli storici che ricostruirono il pensiero e l'attività di questi personaggi (A. Romano, F. Della Peruta, L. L.Bulferetti, S. Rota Ghibaudi, L. Russi, C. Vetter), posero nel giusto rilievo il contributo da essi dato alla prima diffusione delle idee socialiste; ma evidenziarono anche gli elementi di debolezza contenuti nella loro analisi della realtà sociale italiana e specialmente la sottovalutazione del forte grado di arretratezza delle campagne. 


IL PENSIERO LIBERALE
Intorno alla metà del secolo XIX, con l'emergere della questione agraria come problema centrale nella vita dei vari paesi europei, il tema della riforma agraria entrò in una certa misura a far parte anche dei programmi e dell'azione di governo delle forze liberali e conservatrici.
Così, per esempio, in Gran Bretagna il partito liberale pose la questione della nazionalizzazione del suolo, mentre prima in Ungheria (1848), poi in Russia (1858-1861), per favorire la formazione di una classe contadina proprietaria, fu decretata la liberazione dei servi e la suddivisione del latifondo: con risultati tuttavia, come si è rilevato in sede storiografica (H. Seton Watson, Storia dell'impero russo, 1801-1917, 1967, ed. it. 1971), assai inferiori alle attese.

I primi radicali interventi di riforma agraria si ebbero comunque solo nel XX secolo e soprattutto in quegli stati dove avevano avuto luogo rivoluzioni di matrice socialista (Russia, Cina, Cuba) o che avevano visto l'introduzione del modello economico sovietico, come i paesi dell'Europa orientale nel secondo dopoguerra.
Fra il 1928 e il 1940 in URSS  venne infatti  imposta una collettivizzazione autoritaria incentrata su grandi aziende agricole, i kolchoz(cooperative) e i sovchoz (aziende di stato), poi riformati dagli anni sessanta. Il sistema della collettivizzazione socialista venne applicato nelle democrazie popolari dell'Europa centrale dopo la Seconda guerra mondiale.
La Repubblica Popolare Cinese, con la legge di riforma del 28 giugno 1950, abolì il sistema feudale, salvaguardò il contadino ricco diretto coltivatore, promosse la redistribuzione di terra ai contadini poveri (50 milioni di ettari a 70 milioni di famiglie). Fra il 1951 e il 1958 in Cina avanzarono forme progressive di collettivizzazione e cooperazione fino alla costituzione, nel 1958, delle Comuni popolari, cellule base di una società socialista.
Il terzo esempio di riforma agraria in economia socialista è quello di Cuba, un paese coloniale a monocoltura di piantagione saccarifera. La legge del 17 maggio 1959 era moderata (esproprio con indennizzo e nazionalizzazione al di sopra dei 405 ettari, divieto di frazionamento al di sotto di 27 ettari); nel 1963 l'esproprio fu applicato al di sopra di 67 ettari. 
Il drastico mutamento della struttura agraria di questi paesi, rappresentando uno degli obiettivi fondamentali perseguito dalle forze rivoluzionarie, fu ovviamente oggetto di analisi in tutte le maggiori opere storiografiche dedicate a queste vicende (come gli studi di A. Gerschenkron, E.H. Carr, M. Dobb, e M. Lewin sulla Russia o quelli di W. Hinton e D.H. Perkins sulla Cina).
Esse in genere evidenziarono, pur muovendo da diverse prospettive, le difficoltà incontrate dal processo di collettivizzazione delle terre e il fatto che l'agricoltura, rispetto all'industria, è risultata essere un elemento ritardante nelle economie a sviluppo pianificato.
Un'altra area geografica ove nel corso del XX secolo si è avuta una vasta applicazione della riforma agraria è l'America Latina. Alla nazionalizzazione delle terre decretata dalla nuova costituzione messicana del 1917 fece seguito una lunga serie di provvedimenti, originati sia da eventi rivoluzionari che da spinte riformiste sorte in seno alla classe dirigente, che interessò con risultati più o meno incisivi quasi tutti gli stati sudamericani. Ne derivò un forte interesse storiografico che, prendendo le mosse dall'analisi di casi locali, portò all'inizio degli anni Settanta a una riflessione sulle caratteristiche salienti delle esperienze di riforma agraria storicamente realizzatesi e all'individuazione di due distinti modelli: uno di stampo riformista, finalizzato ad aumentare la produzione agricola, a ridistribuire il reddito e a impedire che un sollevamento rivoluzionario provocasse l'abbattimento dell'economia capitalistica; e uno di stampo radicale, volto invece a distruggere proprio il rapporto di produzione capitalistico e a instaurare il socialismo, contraddistinto dalla massiccia espropriazione di terre, spesso senza alcun indennizzo per i vecchi proprietari, e dalla loro collettivizzazione.
In proposito sono particolarmente significativi gli studi di S. Barraclough, D. Lehmann, M. Gutelman, R.J. Alexander, E. Feder. Alcuni autori, come R.M. Marini (La riforma agraria in America latina, in Transizione al socialismo ed esperienza cilena, 1972) e G. Huizer (Peasant Rebellion in latin America, 1973), individuarono uno stretto nesso fra la decisione di attuare la riforma agraria e la presenza di forti agitazioni contadine culminate nell'occupazione di terre. Altri, come T.L. Smith e N. Whetten, accennarono all'importante condizionamento venuto dagli Stati uniti affinché il varo di riforme agrarie prevenisse la diffusione del comunismo. Molti infine posero l'accento sulla scarsa efficacia dei provvedimenti attuati, ri-velatisi nella maggior parte dei casi incapaci di modificare radicalmente il preesistente assetto latifondistico e di imprimere una sensibile accelerazione alla produzione agricola latino-americana. 

Accenno alla Rivoluzione Messicana

Anni (1910-1917). Sollevazione borghese e contadina contro l'oligarchia latifondista e il regime dittatoriale e clericale. Il Messico dei primi anni del XX secolo viveva un processo d'integrazione dipendente nel quadro mondiale dell'imperialismo. Sotto il governo dittatoriale di Porfirio Diaz si ebbe una forte concentrazione della proprietà fondiaria. Poche famiglie si impossessarono con la forza delle terre comuni indigene, gettando nella miseria milioni di contadini. I capitali stranieri, soprattutto inglesi e statunitensi, in conflitto tra di loro, acquisirono il controllo delle miniere e delle riserve petrolifere. In questo clima crebbero le rivendicazioni di trasformazioni politico-sociali di indirizzo agrario, democratico e nazionale.
La scintilla fu l'appello di Francisco Madero, dirigente liberale, contro la rielezione presidenziale dell'anziano P. Diaz nel 1910. Noto come il Piano di San Luigi di Potosí, esso incitava all'insurrezione e alla conquista del voto libero e segreto, e chiedeva una moderata riforma agraria e benefici per la classe operaia in formazione.   La rivoluzione, che cominciò in diverse parti delle campagne, giunse alla capitale nel maggio del 1911 determinando la fuga di Diaz e il successivo insediamento di Madero. Il suo governo liberale si rivelò incapace di muoversi fra le contraddizioni e rimase paralizzato. Nel novembre 1911 il dirigente contadino del sud del paese, Emiliano Zapata, ruppe con il governo e lanciò il Piano di Ayala, manifesto per la riforma agraria, che divenne simbolo della lotta per la terra in tutta l'America latina. Nel nord del paese l'opposizione armata era condotta da Pascal Orozco. Il generale Victoriano Huerta, con l'appoggio dei grandi proprietari e la simpatia della Gran Bretagna e della Francia, scatenò allora un colpo di stato militare (febbraio 1913) che portò all'assassinio di Madera e a un bagno di sangue a Città del Messico. Il conflitto accese l'intero paese. Nel nordest comandava il rivoluzionario Pancho Villa, mentre nel nordovest si distingueva Alvaro Obregón e nel sud Zapata continuava la guerriglia con i suoi contadini. L'opposizione era egemonizzata dai settori borghesi nazionali che avevano il loro leader in Venustiano Carranza, autonominatosi primo capo dell'esercito rivoluzionario. Nell'agosto 1914 i contadini di Zapata e Villa entrarono nella capitale, Huerta fuggì all'estero e Carranza fu designato presidente della repubblica. Egli si appoggiava ai settori più avanzati della borghesia urbana e al proletariato. Villa e Zapata, ritenendo che le rivendicazioni dei contadini fossero disattese, continuarono i combattimenti. Nel 1917 entrò in vigore la nuova costituzione, di carattere anticlericale, fortemente nazionalista, con ampie concessioni ai lavoratori urbani e una riforma agraria, anche se non così radicale come voleva Zapata. Con la promulgazione della costituzione, sebbene i combattimenti per la terra continuassero, si chiuse il ciclo rivoluzionario che era costato oltre un milione di morti.


Figura 1 - Le riforme agrarie in alcuni paesi

                                                                           IL CASO
Notevole interesse suscitò, prima nel dibattito politico e quindi in sede di interpretazione storica, anche la riforma agraria varata in Italia nel 1950. Intervento di matrice riformista, in quanto volto a migliorare la produttività agricola senza sconvolgere   eccessivamente l'assetto vigente piuttosto che a favorire una più equa ripartizione delle terre, la riforma fu subito oggetto di forti critiche da parte sia delle forze di sinistra che di quelle azioniste e meridionaliste.                                                                              
Queste ultime, soprattutto attraverso gli scritti di Manlio Rossi Doria che pure fu un convinto sostenitore di quell'iniziativa, contestarono l'eccessivo frazionamento fondiario introdotto dalla legge e la sua sostanziale incapacità di promuovere un energico sviluppo capitalistico dell'agricoltura.
D'altro canto esponenti comunisti, come E. Sereni e R. Grieco, posero l'accento sul fatto che la legge rispondeva a un disegno politico conservatore, investiva un'area troppo limitata, imponeva ai contadini il pagamento di indennizzi troppo elevati e, attraverso il rigido controllo esercitato dagli enti di riforma, non scalfiva di fatto l'egemonia del capitale monopolistico nelle campagne.
Queste critiche furono riprese e variamente articolate anche nel dibattito. La storiografia di ispirazione marxista evidenziò in genere la contraddizione di fondo insita nella legge, quella cioè di voler promuovere nello stesso tempo la diffusione della piccola proprietà contadina e lo sviluppo della grande azienda capitalistica (C. Daneo, G. Bolaffi, A. Varotti), e la sua funzionalità come elemento determinante della strategia del consenso della Democrazia cristiana (F. Renda, R. Zangheri, R. Villari, P. Ginsborg). Tuttavia, pur denunciando alcuni evidenti limiti della legge (per esempio il fatto che fu sicuramente più incisiva l'opera di trasformazione agraria e infrastrutturale connessa alla riforma che non quella di redistribuzione fondiaria), la maggior parte degli studiosi (E. Marciani, P. Pezzino, A. Parisella, G. Massullo) è abbastanza concorde nel riconoscere sia l'entità che la qualità delle innovazioni prodotte nei comprensori di riforma da quello che C. Barberis ha definito «forse l'atto legislativo più importante dell'intero dopoguerra».
Finita la guerra con il ritorno dei combattenti, la fine delle grandi opere pubbliche e il  ridimensionamento drastico delle attività boschive divenne drammatico il secolare problema  dell'occupazione.
Iniziarono le lotte dei braccianti, dei mezzadri e dei contadini che spinti dalla fame arrivarono ad occupare molti terreni dei latifondisti. Le rivendicazioni, fortissime in Sila e nel Marchesato, culminarono, nel 1949, con l'eccidio di Melissa ad opera della celere del ministro dell'Interno Mario Scelba.
Mentre l'Italia si avviava verso l'industrializzazione e quindi verso un sistema economico dove la forza lavoro, impiegata nell'agricoltura, si sarebbe notevolmente ridotta, la sinistra italiana, e in modo particolare i comunisti, guidarono  le lotte contadine che avrebbero permesso loro di raggiungere una posizione politica egemone nelle zone del  Marchesato e in quelle interne della Sila. Posizione egemone che tuttora, in parte, possiedono.
La riforma fondiaria fu approvata in tre tempi successivi.
I primi provvedimenti, riguardanti la Calabria, furono emanati nel maggio del 1950 (Legge Sila).
Seguì la “legge stralcio” n.841 del 21 Ottobre che estese la riforma ai territori del Delta padano, della Maremma toscana, del bacino del Fucino (Abruzzo), di alcune zone della Campania e della Puglia, del bacino del Flumendosa (Sardegna) ed ad altre zone dell’ isola.
Il provvedimento, finanziato in parte dai fondi del Piano Marshall, ma anche ostacolato da settori dell’amministrazione americana, fu secondo alcuni studiosi la più importante dell’intero dopoguerra.
Nel dicembre dello stesso anno, la Regione Sicilia emanò una “legge di riforma”, relativa al territorio dell’isola e avente caratteri suoi particolari.
La Riforma Fondiaria fu affidata all'O.V.S. (Opera Valorizzazione Sila) un Ente costituito nel 1947. L'O.V.S. espropriò 75.000 ettari di terreno e ne acquistò altri fino a raggiungerne un totale di 86.000 ha.
Furono formati 11.557 poderi (terreni unitari) e 6.705 quote (terreni parcellizzati, frammentati) che vennero assegnati ad altrettanti capofamiglia. L’estensione dei poderi risultò assai piccola: in media 6 ettari con un massimo di 30 ha in alcune aziende pastorali sarde.
La Cassa per il Mezzogiorno si assunse l’onore di realizzare investimenti per i miglioramenti fondiari, nonché per l’istituzione di nuclei di assistenza tecnica, per indirizzare gli agricoltori nella gestione delle nuove aziende.
Una manovra altrettanto massiccia di trasferimento pacifico venne realizzata mediante la “legge per la piccola proprietà coltivatrice”. Questa legge, approvata nel 1949, prevedeva sovvenzioni creditizie alle famiglie contadine che si rendevano acquirenti di terra per assoggettarla a conduzione diretta.
Questa manovra portò a creare una vasta rete di aziende familiari, che,  per la loro stessa piccolezza, dovevano presto rivelarsi inefficienti.
Dove fu possibile attuare trasformazioni fondiarie profonde e introdurre colture irrigue ad alto reddito, i risultati furono decisamente favorevoli;  in altre parti la situazione non generò grandi cambiamenti.
I risultati conseguiti, infatti, furono assai diversi a seconda delle zone:
nelle zone costiere pianeggianti, dove l’esproprio fu accompagnato da intense opere di trasformazione, dove vennero realizzati sistemi di irrigazioni con conseguente passaggio a colture ricche, sorsero aziende agricole prosperose, è un esempio la Piana di Metaponto (Basilicata tra i fiumi Bradano e Basento);
nelle zone interne le produzioni rimasero basate su un’agricoltura arida, non eliminando le condizioni di miseria.

La Cassa per il Mezzogiorno  era un Ente pubblico istituito nel 1950, con un capitale iniziale di 1000 miliardi di lire, allo scopo di programmare, finanziare ed eseguire opere straordinarie, funzionali alla formazione di un tessuto infrastrutturale che favorisse l’insediamento dell’industria e lo sviluppo dell’agricoltura e della commercializzazione dei prodotti agricoli nell’Italia meridionale. Inizialmente per la Cassa per il Mezzogiorno (la cui esatta denominazione era “Cassa per le opere straordinarie di pubblico interesse nell’Italia meridionale”) venne prevista un durata di dieci anni, ma una serie di proroghe ne prolungarono la vita fino al 1984.
Durante il periodo della sua attività la Cassa concesse contributi a fondo perduto e finanziamenti a tassi agevolati per il miglioramento e l’attuazione di iniziative pubbliche e private nei settori industriale, agricolo, artigianale, turistico. Alle aziende pubbliche e a partecipazione statale veniva contemporaneamente fatto obbligo di localizzare almeno il 60% dei nuovi investimenti nel Mezzogiorno. Altra funzione della Cassa era quella di individuare delle aree che, opportunamente attrezzate, potessero diventare i centri propulsori dello sviluppo industriale del Mezzogiorno.
I sostenitori del nuovo organismo ritenevano che un intervento pubblico fosse necessario per spezzare il cerchio dell’arretratezza nel Mezzogiorno.
Sulla sponda opposta, il Partito Comunista, fedele all’interpretazione gramsciana  della questione meridionale, sosteneva che il problema del Mezzogiorno fosse anzitutto un problema di struttura politica e che un programma di opere pubbliche non avrebbero mai potuto modificare la situazione; si sarebbe dovuto invece fare leva sulla riforma agraria, per riscattare le classi contadine dalla loro antica emarginazione politica e portarle alla posizione di protagoniste dello sviluppo del sud.
Ma ben presto i contadini si trovarono, nei loro piccoli ed impervi poderi di montagna, a competere con gli agricoltori del Nord Italia e del Nord Europa. Le zappe contro dei trattori grandi come carri armati che operavano in sterminate pianure ed erano in grado in un giorno di arare estensioni di terreno inimmaginabili per i contadini silani. La povertà delle colture silane, in genere patate e grano, fece il resto.
A distanza di decenni possiamo affermare, senza timori di smentita, che nessuno dei poderi assegnati in Sila è in grado di produrre un reddito adeguato al sostentamento di una famiglia. Escludendo i pochissimi casi in cui si è riusciti ad accorpare più quote.
Non solo, ma, per ironia della sorte, la frammentazione e la polverizzazione della proprietà terriera è e sarà il più grande ostacolo alla nascita di moderne aziende agricole che, puntando su colture ad alta resa alternative a quelle tradizionali, avrebbero potuto affrontare il mercato con successo. Comunque questo elemento negativo venne poi attenuato e in alcuni casi eliminato da forme di cooperazione. Le cooperative agricole che, programmando le produzioni e centralizzando la vendita dei prodotti, daranno all’agricoltura quel carattere imprenditoriale che era venuto meno con la divisione delle terre. Si ebbe una migliore resa delle colture che da estensive diventarono intensive e quindi un migliore sfruttamento delle superfici utilizzate. Il lavoro agricolo che era stato fino ad allora poco remunerativo anche se molto pesante, cominciò a dare i suoi frutti, gratificando coloro i quali vi si dedicavano.
Dopo il 1960 i fondi destinati all’agricoltura scesero al di sotto del 50% del totale e venne fatto più largo spazio alle spese per l’industrializzazione.

FONTI  BIBLIOGRAFICHE:
A. Graziani, L’economia italiana dal ’45 ai giorni nostri, Il Mulino 1979;
M. Gutelman, Struttura e riforme nell'agricoltura, Mazzotta, Milano 1976; D. Lehmann (a c. di), Agrarian Reform and Agrarian Reformism, Faber, Londra 1974; A. Gerschenkron, La continuità storica. Teoria e storia economica, Einaudi, Torino 1976; D.H. Perkins, Agricultural Development in China 1386-1968, Edinburgh University Press, Edimburgo 1969; Agrarian Reform in Latin America: an Annotated Bibliography, Wisconsin University Press, Madison 1975; G. Massullo, La riforma agraria, in Storia dell'agricoltura italiana in età contemporanea, a c. di P. Bevilacqua, Marsilio, Venezia 1991 ; Dizionario di storia moderna e contemporanea J.L Del Roio.
 

Roberto Ballabio, Nicolò Borghi 3BIGEA

 

Fonte: http://www.lucianabenincaso.it/ok%20LA%20RIFORMA%20AGRARIArivista.doc

Sito web da visitare: http://www.lucianabenincaso.it

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