Storia dell' India

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Storia dell' India

I.     LA RELIGIOSITÀ IN INDIA

 

L’India è il paese dove ci sono più diversità di religioni e sette in tutto il pianeta. Non solo è la terra dove nacque l’Induismo e il Buddismo; è anche l’epicentro dei guru, l’unico dove si pratica il Jainismo, il terzo paese, dopo l’Indonesia e il Bangladesh, di seguaci di Allah e anche uno dei territori più estesi dello Zoroastrismo.
Come descrivere l’India, un luogo capace di ispirare il movimento hippie o di trasformare la musica dei Beatles in stravagante? Quale forza racchiude l’India?
Iniziamo da un discorso relativo alla religione assai complesso e di difficile interpretazione.
Le religioni più importanti sono così ripartite:

  • l'Induismo (80% della popolazione);
  • il Buddismo (estreme regioni del nord);
  • l'Islamismo (soprattutto nel nord dell'India);
  • il Jainismo (soprattutto nel nord dell'India);
  • il Parsismo (minoranza in declino);
  • il Cristianesimo (una minoranza concentrata nel sud, nella zona di Goa);
  • il Sikhismo;
  • il Lamaismo;
  • le sette

 

              1.              INDUISMO
L'Induismo non ha un fondatore o un profeta come le altre religioni; è un modo di vivere o, meglio ancora, una filosofia di vita. Il fulcro del pensiero induista è basato sul concetto di "Karma" e "Dharma".

Il Karma indica il susseguirsi delle azioni in vita che, se saranno buone, incarnazione dopo incarnazione, condurranno al congiungimento con l'Essere Supremo. Il Dharma indica il dovere, la virtù; le leggi che regolano la società, le caste, i rapporti di ogni individuo con gli altri.
La religione induista possiede una iconografia religiosa molto vasta, rappresentata da una serie di dei adorati dai fedeli.
È la religione tradizionale dell’India, praticata da oltre 700 milioni di fedeli. Il termine italiano “Induismo”, connesso con il nome dell’India, trova il suo antecedente etimologico nella parola persiana hindu”, che veniva utilizzata per indicare il fiume noto anche in Occidente come Indo. Già dal V secolo a.C. il termine “indù” indicava per estensione gli abitanti della terra dell’Indo, e quindi dell’intero subcontinente indiano; in seguito, per l’Islam la parola acquisì una connotazione religiosa, in riferimento agli abitanti non musulmani di quelle terre; in questo senso l’italiano definisce “indù” i seguaci della religione più antica dell’India, presentati invece dalla tradizione locale come “coloro che credono nei Veda” o come “coloro che seguono la legge (dharma), accettano la divisione della società in caste (varna) e vivono le quattro fasi (ashrama) della vita umana”.
Fondamenti dottrinale e testi sacri

In termini estremamente sintetici l’Induismo può essere inteso come una religione nella quale le molte divinità convivono sia con l’idea di un Dio assoluto concepito in termini personali sia con la concezione di un Sacro impersonale onnipervadente. Un’articolata concezione della società e dei compiti dei singoli individui supporta la prospettiva religiosa e filosofica induista. La definizione del sistema sociale costituisce quell’elemento di continuità e di unità che l’Induismo non possiede nella sua dimensione propriamente teologica, caratterizzata non solo dalla molteplicità delle figure divine, ma anche dalla pluralità degli atteggiamenti devozionali e dall’assenza di un indirizzo dottrinale uniforme paragonabile a un credo convenzionale.
Il sistema delle caste
Tale atteggiamento fornisce la giustificazione filosofica per la dottrina più nota e controversa dell’Induismo, ovvero la rigida divisione della società in classi, varna, note in Occidente con il termine, di origine portoghese, caste, alle quali si appartiene per nascita senza alcuna possibilità di sfuggire alle severe norme di una concezione gerarchica. Un ruolo di assoluta preminenza è attribuito infatti ai membri delle tre caste superiori, quelle dei sacerdoti (brahmani), dei guerrieri (ksatriya) e dei lavoratori qualificati (vaisya), che riservano una condizione di totale sottomissione a chi appartiene alle caste inferiori, da quelle considerate servili (sudra) fino a quelle, disprezzate come impure, degli “intoccabili”, i “paria” della tradizione occidentale. Questi ultimi, in India, sono definiti candala, termine riferito propriamente a chi si trovi nella condizione di “fuori casta” perché nato dall’unione illecita fra una donna di casta brahmanica e un uomo di casta servile.

 

 

                     2.        BUDDISMO

Fu nel passato, per un certo periodo, la religione dominante in India. Il Buddismo si base su alcuni concetti chiave: il mondo è pieno di sofferenze causate dal desiderio del possesso e dall'invidia che consumano l'uomo. Chi riesce a vincere queste debolezze può raggiungere il "nirvana", lo stato paradisiaco che conduce alla liberazione ed alla presenza del Buddha.
Siddharta Gautama, figlio del principe Suddhodana della stirpe regale dei Sakya, nacque verso il 560 a.C. a Kapilavastu, piccolo regno presso Patna, alle pendici dell’ Himalaya. I saggi chiamati dal padre per esaminare il neonato videro in lui un nuovo Salvatore per l’umanità, cosicché gli fu imposto il nome di Siddharta, “il costruttore”. A 29 anni abbandonò la sfarzosa vita di palazzo per ritirarsi presso la città di Gaya, in meditazione ascetica. Dopo alcuni anni raggiunse l’illuminazione divenendo così Buddha “il Risvegliato, l’Illuminato”, e a Sarnath, vicino a Banares, nel parco delle Gazzelle, tenne il primo sermone a cinque condiscepoli; da allora in poi condusse vita errante, predicando e prestando aiuto ai sofferenti. Quando sentì che la morte gli era vicina, all’età di 81 anni, radunò i suoi discepoli e si ritirò in un bosco dove mori in pace; il suo corpo venne bruciato secondo l’uso tradizionale indiano e le sue ossa vennero distribuite fra i discepoli, cha fecero costruire dei templi a campana (stupa) per contenere le reliquie del loro maestro santificato.
Grazie alla predicazione dei monaci itineranti e alla protezione del re Ashoka, che si convertì al nuovo credo, il Buddismo si diffuse in tutta l’India e a Ceylon, ovunque erigendo “stupa” per pregare il Maestro e monasteri per accogliere coloro che intendevano darsi alla vita ascetica.
La dottrina del Buddha sul piano filosofico si distacca completamente dalla concezione induista dell’universo. Tutto l’interesse di questa filosofia atea nasce da una rivolta storica al predominio assoluto del potere dei brahmini, i sacerdoti dei templi indù; dichiarando l’uguaglianza assoluta di ogni uomo il Buddismo faceva cadere la divisione in caste che frammentava la società Indiana del tempo. I cardini su cui poggia lo sviluppo del pensiero filosofico e religioso del Buddha vennero definiti nel sermone di Benares, detto anche “delle Quattro Nobili verità”:

  • la vita è dolore:
  •  la causa prima del dolore è il desiderio;
  •  il dolore di vivere cessa quando cessano i desideri;
  •  il mezzo per raggiungere la pace e la serenità è di seguire l’ottuplice sentiero, e cioè:
  • retta fede,
  • retta decisione,
  •  retta parola,
  • retta azione,
  • retta vita,
  •  retta concentrazione,
  •  retto sforzo
  • e retto ricordo.

Quando l’uomo saprà comportarsi secondo questo messaggio potrà raggiungere l’illuminazione del nirvana e liberarsi dal desiderio materiale che vincola l’uomo al ciclo di morte e rinascita. È quindi la stessa anima è che si perfeziona via via in un divenire illimitato; nel Buddismo, invece, l’anima muore con il corpo, e ogni nascita porta un’anima diversa.
Verso il  II secolo d.C. il Buddismo prese piede in tutta l’area a est dell’india scindendosi in due correnti diverse che divennero scuole canoniche nel IV secolo: il Buddismo hinayana, detto “del piccolo veicolo”, che mantenne intatto da successive contaminazioni l’originario pensiero del Maestro e si sviluppò soprattutto a Ceylon e nella regione indocinese, e il Mahayana o “grande veicolo”, diffuse in Tibet, in Cina, in Giappone e in Mongolia, che si fuse con le religioni popolari delle antiche tradizioni cercando l’eventuale illuminazione non in un fatto privato o  strettamente individuale, ma collettivo, esteso a tutti gli esseri.
Oggi in India i buddisti sono circa 5 milioni, cioè lo 0,7% della popolazione, raggruppati soprattutto nelle estreme regioni settentrionali: qui l’afflusso dei rifugiati tibetani dopo l’occupazione del Tibet da parte della Cina ha portato in alcuni casi alla costituzione di comunità a maggioranza buddista.

 

 

 

                 3.            ISLAMISMO

L'Islamismo di Maometto e le rivelazioni del dio Allah contenute nel Corano furono introdotte in India con l'arrivo di arabi e turchi. Nel pensiero musulmano, religione e politica sono intimamente legate fra loro. La guida spirituale è anche guida politica e tutti devono diffondere questa fede anche a costo di ricorrere alla guerra santa, la "jihad".
Quando l’Islam giunse in India, le popolazioni non si assoggettarono facilmente alla nuova religione, così diversa da quella propria tradizionale. La stessa arte indù, con la sua esuberanza figurativa, si poneva all’estremo opposto rispetto all’avversione per la rappresentazione di figure propria del pensiero musulmano. Ma l’Islam in India non poté fare a meno di risentire della culture e della somma di tradizioni locali: ecco quindi che nelle comunità musulmane indiane si trovano le processioni di immagini dei santi (cosa strettamente vietata dall’Islam del Vicino Oriente), la riduzione delle cinque preghiere giornaliere a una sola e, presso la tribù dei Mopla, nel kerala (India del Sud) la stretta discendenza matrilineare, estranea alla mentalità virile musulmana ma comune alle tradizioni matriarcali delle aree tribali indiane.
L’eredità della dominazione islamica, durata nell’India del Nord ben 700 anni (dalle prime invasioni alla colonizzazione inglese), è oggi rappresentata dal ricchissimo patrimonio artistico moghul e da circa 75 milioni di fedeli musulmani.
Tale relativamente ridotta presenza umana è dovuta al fatto che la forte cultura induista, che già aveva neutralizzato il Buddismo, restò pressoché inalterate durante il periodo che va dall’XI al XVIII secolo, fossilizzando in una sorta di ortodossia sotterranea che le consentì, alla caduta dell’impero islamico, di riemergere incontaminata nei suoi tratti più peculiari.
Nella vita quotidiana dell’India attuale permangono, e in zone limitate, solo alcuni costume islamici quali il purdah, l’isolamento domestico cui è tenuta la donna, la quale deve in pubblico apparire col viso coperto, e l’uso del narghilè.
I musulmani di oggi, quelli che al momento della spartizione del 1947 non si sono trasferiti in Pakistan, restano una minoranza (diffusa, a parte alcune città dell’Uttar Pradesh, negli stati confinanti con il Pakistan) che nel tempo tende sempre più a fondersi con la popolazione indù assimilando costume e il credo religioso.

 

                      4.             JAINISMO

E' una religione molto antica che si trova solo in India e che è simile al Buddismo. Anche in questa religione il concetto base è la capacità dell'uomo di raggiungere il "nirvana" attraverso un retto comportamento in vita.
Come il Buddismo, e ad esso contemporanea, questa religione nasce in contrapposizione al pensiero induista che aveva elaborato un complesso sistema sacrificale diretto dalla casta superiore dei sacerdoti.
Mahavira (grande eroe) fu il fondatore di questa religione, che si estese ben presto in tutta la regione della piana gangetica. Come il Buddha egli nega l’idea dell’esistenza di un dio, e indica in cinque i precetti fondamentali da seguire per raggiungere la liberazione finale dal ciclo delle rinascite: la non violenza o ahimsa, la verità, il non possesso materiale, il non desiderio e la castità assoluta.
Il Jainismo, per non confondersi con la dottrina parallela del Buddha, raggiunse certe forme di fanatismo che permangono tuttora: non è raro, infatti, incontrare devoti jaina con una mascherina di garza davanti alla bocca, per evitare di uccidere, ingerendoli, microbi o piccoli insetti, infrangendo in tal modo il voto del’assoluta non violenza.. In tutta l’India i jainisti sono circa 500.000: presenza numericamente esigua ma economicamente importante, poiché domina il settore del commercio.

                        5.      IL PARSISMO
Praticano questa religione i Parsi, gli ultimi seguaci di Zoroastro, predicatore di un unico Dio Supremo, che visse probabilmente attorno all’ VII secolo avanti Cristo. I parsi, in India, oggi sono una piccola minoranza, ma rappresentano la comunità più ricca del paese. Per non inquinare l'acqua, il fuoco e la terra, elementi ritenuti sacri, i Parsi non sotterrano, né cremano, né affidano ai fiumi i loro morti. I cadaveri vengono esposti agli avvoltoi nelle Torri del Silenzio, templi cilindrici che sono accessibili solo alla comunità Parsi e che a Bombay sovrastano la città da una collina.
                6.      IL CRISTIANESIMO                   
Il Cristianesimo è una religione monoteista a carattere universalistico, originatasi nel I secolo dalla religione ebraica, fondata sull'insegnamento di Gesù venerato dai credenti come Dio incarnato, crocifisso e risuscitato ed elaborato nella letteratura neo-testamentaria. Assieme a Ebraismo e Islam, il Cristianesimo viene classificato come religione abramitica. Tra le religioni maggiori è la più diffusa, con circa 2,1 miliardi di fedeli in tutto il mondo.
In quanto fede religiosa il Cristianesimo ha i suoi contenuti (dottrina). Questi, secondo la tradizione, si basano sulle rivelazioni di Dio al popolo di Israele (tradizione comune anche alla religione ebraica), sulla predicazione del Vangelo con la dottrina di salvezza di Gesù di Nazareth detto Il Cristo ("Unto da Dio"). Questa tradizione è rispecchiata nella Bibbia (Antico Testamento e Nuovo Testamento), considerato un testo ispirato da Dio, e quindi un testo sacro. Importante anche l'elaborazione teologica dei secoli successivi, presente nella letteratura cristiana e nei Padri della Chiesa.
Storia e origine: il Cristianesimo emerse dal Giudaismo nel I secolo. I cristiani assunsero dal Giudaismo le sue Sacre Scritture, dottrine fondamentali come il monoteismo, la fede in un Messia o Cristo, forme del culto (incluso il sacerdozio), concetti di luoghi e tempi sacri, l'idea che il culto debba essere modellato secondo il modello celeste, l'uso dei Salmi nelle preghiere comuni. Tuttavia tra Cristianesimo e Giudaismo esiste la differenza radicale e la diretta opposizione delle dottrine fondamentali, che per i cristiani sono due, entrambe odiose e ripugnanti per i giudei: la Santissima Trinità di Dio Uno e Trino (una Sostanza in tre Persone), e la Redenzione dell'umanità intera portata dal Messia Gesù Cristo Figlio di Dio incarnato, crocifisso, morto, e risorto. Differentemente dal Giudaismo, il Cristianesimo si contraddistingue in particolar modo per una visione meno materialistica e più pauperista della vita.
Statistiche: Sotto il termine Cristianesimo sono raggruppate chiese molto diverse e, a volte, in polemica tra loro: secondo il World Christian Trends (2001) i cristiani sono complessivamente il 33% degli abitanti del globo e sono così divisi: cattolici 17,5%; protestanti 5,6%; ortodossi delle varie chiese (russa, greca, armena) 3,6%; anglicani 1,3%; copti ed altri (battisti e pentecostali in ascesa) 5,0%. Attualmente il Cristianesimo è la religione più diffusa al mondo, con circa 2,1 miliardi di fedeli (1 miliardo di cattolici, 500 milioni di protestanti, 470 milioni di evangelici pentecostali nel solo 2005 (dati forniti dal CESNUR), 240 milioni di ortodossi, e 275 milioni d'altri), davanti all'Islam, tra 900 milioni ed 1,4 miliardi, e all'Induismo, tra 850 milioni e un miliardo.
Il simbolo del pesce:Le prime comunità cristiane per identificare la propria religione non utilizzavano la croce, all'epoca brutale e ignominioso strumento di morte, ma il pesce. "Pesce" in greco antico si dice ἰχθύς (ichthýs) e fu considerato come l'acronimo di 5 parole, identificative dello status di Gesù Cristo: Ἰησοῦς Χριστός Θεοῦ Ὑιός Σωτήρ (Iēsoùs Christòs Theoù Yiòs Sōtèr), che significa parola per parola "Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore", ovvero ""Gesù Cristo Salvatore Figlio di Dio"" cui spesso si accompagnava il genitivo ζωντῶν= dei viventi. Inoltre il pesce, essendo un animale che vive sott'acqua senza annegare, simboleggiava il Cristo, che può entrare nella morte restando vivo.

                      7.            SIKHISMO

Nato nel secolo XV per opera del Guru (maestro) Nanak, il Sikhismo si diffuse grazie all’azione e alla predicazione dei nove guru che uno dopo l’altro succedettero al primo maestro raccogliendone gli insegnamenti morali e religiosi in un libro sacro, paragonabile alla Bibbia, detto Adi Granth.
La parola “sikh” significa disciplina, e indica una sorta di tentativo sintetico e metodico di conciliare la religione induista e quella dell’Islam. Non a caso la regione Indiana in cui si trovano i fedeli sikh ( attualmente oltre 10 milioni) è il Punjab, la cui capitale sacra è Amritsar, al confine con lo stato islamico del Pakistan. In questa parte dell’India, al tempo di Nanak, il dominio musulmano durava da secoli.
Il maestro prima di morire nominò un successore per portare a termine quel rinnovamento sociale e religioso per cui si era adoperato per tutta la vita, propugnando, oltre all’abolizione delle caste, l’emancipazione femminile e vietando “il costume del sati”, cioè dell’obbligo, per la donna rimasta vedova, di gettarsi sul rogo funebre del marito. Il simbolo più vistoso di tutto il portamento sikh, il voluminoso turbante in seta o cotone dai colori vivaci, viene portato come segno della dignità di questo popolo d’onore e per indicare l’uguaglianza di tutti gli uomini.

 

                     8.              IL LAMAISMO

Il Lamaismo (lama significa “maestro”) del Tibet è una sintesi del Buddismo dell’India con la religione sciamanica dei Bon delle regioni himalayane compresse tra il Ladakh e il Bhutan. Il fondatore di tale culto è Padma Shambava, un kashmiro ( che la leggenda vuole nato da un fiore di loto) presente in Tibet verso la prima metà dell’ VIII secolo d.C. In seguito altri riformatori enunciarono la teoria cosmologica secondo la quale il monte Meru (il Kailash) è la dimora degli dèi, i quali dominano su quattro mondi di cui uno solo è il nostro, mentre gli altri sono mitici.
Capo spirituale del Buddismo tibetano è il Dalai Lama (”il maestro la cui sapienza è infinita come l’oceano”), considerato la reincarnazione del Buddha Avalokitesvara. Questi un tempo risiedeva nel monastero di Potala a Lasha; oggi, dopo l’invasione cinese del Tibet, si trova pressi Macleodgangji, una piccola cittadina nella campagna indiana dell’Himachal Pradesh. Alla morte del Dalai Lama, per nominarne il successore viene seguito un particolare rituale: ad alcuni bambini, scelti perché in possesso di precisi requisiti, vengono presentati degli oggetti, di cui uno solo appartenuto al defunto: chi lo individua viene riconosciuto come nuovo capo spirituale della comunità.
Anche se il Dalai Lama è il personaggio più famoso del Lamaismo, non per questo bisogna disconoscere l’importanza di un altro maestro, il Tashi Lama, il quale viene considerato la reincarnazione del Buddha Amithaba ed è a capo della corrente di pensiero dei “berretti rossi” o Nyingmapa.

                9.                  LE SETTE
In tutta l’India è facile imbattersi in incongruenze religiose a volte paradossali per noi occidentali,  abituati a una religione dogmatica e strutturata come quella cattolica. L’Induismo, invece, si è frammentato, pur mantenendo un’unità originaria, in varie sette o scuole che si indirizzano verso l’adorazione di una divinità piuttosto che di un’altra. Non è difficile riconoscere i Vaishnava, devoti del dio Vishnu poiché portano tracciate sulla fronte, come segno di riconoscimento, una linea perpendicolare rossa e due linee oblique bianche. Appartenenti alla stessa setta si possono considerare anche i Krishnaiti, i fedeli del dio Krishna che viene concepito come una susseguente reincarnazione del più antico dio Vishnu. I Krishnaiti si rifanno alla Bhagavad Gita e ai Bhagavat Purana, testi sacri dell’India che raccontano le avventure eroiche e leggendarie del dio che uccise il drago che molestava gli abitanti di Mathura, città sacra a Krishna perché la tradizione vi ravvisa il luogo della sua nascita, avvenuta nel IV millennio prima della nostra era. I seguaci di questo dio credono nella bakthi, cioè l’azione devota verso la comunità, esercitata assistendo i malati e i bisognosi, per raggiungere la propria illuminazione. Questa corrente si divide a sua volta in quattro diramazioni: quella che venera il Krishna della storia, Vasudeva; quella che venera Krishna Bhagavat; quella dei Bala Krishna, il dio bambino; e infine coloro che venerano Krishna Gopal, il dio pastore raffigurato nelle miniature, che si dedica ai giochi erotici con le pastorelle che come ninfe passeggiano con lui nei boschi descritti da Jayadeva (poeta e fervente adoratore del dio, vissuto nel XII secolo) nel poema pastorale Gita Govinda.
Un’altra importante corrente filosofica e religiosa dell’India è lo Shaktismo, i cui fedeli, adorando la dea Shakti, dimostrando la preferenza per l’energia femminile che permea tutto l’universo.

II.    RADICI STORICHE E DIRITTI FONDAMENTALI DELLA COSTITUZIONE INDIANA

Il 15 agosto 1947 l’India dichiara la propria indipendenza e cominciano i lavori dell’Assemblea Costituente per la redazione della Costituzione, in sostituzione del “Government of India Act” del 1935, come documento che disciplinava l’ordinamento indiano.
Dopo un accurato studio delle carte fondamentali di vari paesi, tenendo conto delle tradizioni britanniche e delle decisioni della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, l’Assemblea Costituente approva la Costituzione Indiana il 26 novembre 1949, che entra in vigore il 26 gennaio 1950; questa data, 26 gennaio, è stata scelta per commemorare la Dichiarazione di Indipendenza del 1930 e viene festeggiata come festa della Repubblica.
La Costituzione Indiana è la legge suprema dell’India che definisce i principi politici fondamentali, la struttura, le procedure, i poteri e gli obblighi del governo ed i diritti e doveri di tutti i cittadini.
È la più lunga ed esauriente costituzione di qualsiasi nazione indipendente al mondo, formata da un preambolo, 22 parti contenenti 448 articoli, 12 programmi, 5 appendici ed oltre 109 emendamenti ad oggi.
Essendo la Costituzione fonte primaria di ogni legge, ogni norma emanata dal governo deve essere ad essa conforme e subordinata.
L’Unione Indiana viene dichiarata una Repubblica sovrana, democratica, socialista e laica assicurando a ciascuno uguali diritti, proibendo discriminazioni basate su razza, gruppo etnico, casta, religione o sesso.
Il titolo originario del 1950 parlava di “repubblica democratica e sovrana”, i due aggettivi “socialista e laico”saranno aggiunti nel 1976 quale 92 emendamento, come anche il concetto di promuovere tra tutti la “ fraternità” è successivo, inserito nella revisione costituzionale del medesimo anno.
Nasce subito una prima riflessione sull’interpretazione da dare al termine “laico o secolare”.
Alle spalle c’è la visione “gandiana” della laicità come “uguale rispetto o possibilità offerta a tutte le religioni”.
In seguito la concezione del laicismo “nerudiano” la muta in “uguale indifferenza nei confronti di tutte le religioni”; e nel Preambolo della Costituzione è ripreso questo concetto scrivendo “uguale indifferenza nei confronti di ogni via religiosa”.
Si usa il termine indiano “pat” che indica “via” piuttosto che il termine “darma” che significa specificatamente “religione”, ma troppo carico di significati nell’ ortodossia brahaminica.
Nel 1990 con l’ascesa del partita nazionalista motore del fondamentalismo indù, questa nozione di laicità è fatta propria dagli induisti, così si traduce in “NON CONFESSIONALE e privo di ogni tradizione religiosa”.
Contrariamente a quanto le persone credono, l’India non ha seguito gli ideali di Gandhi: nell’ India indipendente Gandhi è stato santificato ma rimosso o obliterato; il suo progetto politico è morto col suo assassinio.
L’ideologo del fondamentalismo indù e figura centrale di molti partiti contemporanei è Vinayak Damodar Savarkar che si scontra ed ha la meglio, anche costituzionalmente, sulla visione di Gandhi, in quanto i suoi principi religiosi non violenti non rispondono a modelli indù bensì a una prospettiva di bramanesimo moderato e occidentalizzato cristiano che richiama alle necessità di controllo delle popolazioni da parte dei colonialisti.
L’art. 17 della Costituzione dell’ India abolisce l’INTOCCABILITA’, ma Gandhi non era disposto all’ abolizione delle caste che mirava a reinterpretare: sostenendo l’esistenza di una sola casta, l’UMANITA’; ma di fatto la divisione delle quattro caste sono da lui difese in quanto le differenze derivanti sono da attribuirsi ad un’errata interpretazione di un atto originario.
Egli cerca un compromesso, senza voler rinunciare alla distinzione delle categorie sociali, fondamento del brahamanesimo.
Da ciò deriva non un’ universalità di diritti, ma doveri di casta che si modificano anche per Gandhi, fautore della non violenza e dell’ uguaglianza sociale, in ordine all’ appartenenza castale.

 

1.         RAPPORTO TRA COSTITUZIONE INDIANA E COSTITUZIONE ITALIANA

La Costituzione indiana ha dunque compiuto da poco 60 anni ed è circa di un anno e mezzo più  giovane della nostra, ma le due carte, da una parte si assomigliano, dall’ altra si discostano.
Tre i punti in comune, entrambe figlie di due enormi traumi: per noi l’uscita dal fascismo, per gli indiani la conquista della libertà dopo la dominazione coloniale britannica.
Secondo motivo di somiglianza è offerto dalle critiche verso quella che noi chiamiamo “Costituzione incompiuta” in tempi, per entrambi i paesi, di annunciate riforme alla seconda parte della Carta; ma la somiglianza e discordanza insieme è per entrambe l’elencazione di principi come “libertà di espressione, libertà religiosa, uguaglianza di fronte alla legge, diritto all’educazione ed all’ assistenza sociale” realtà che nel nostro paese si può ritenere in buona parte garantita dalla legge, l’India rimane invece ancora lontana dalla concretizzazione sostanziale dei principi sanciti, per le difficoltà di ordine politico, economico e sociale in un paese geograficamente molto esteso e estremamente variegato da un punto di vista culturale e multirazziale.

 

2.                  PERCORSO VERSO UNO STATO LAICO E MULTICULTURALE

Lo sforzo maggiore che sta compiendo l’India negli ultimi anni è quello di laicizzare l’ordinamento statale incatenato ai pluriordinamenti confessionali della società più spiritualistica esistente, quella induista, le cui regole religiose sono da sempre imposte sull’osservanza della legge civile; dall’altra parte il nucleo musulmano politicamente prevalente, forte del suo carattere di classe dominatrice, dal tempo delle colonizzazioni europee, che pretende l’equiparazione delle proprie regole religiose a norme statali.
La presenza di numerose confessioni religiose minoritarie ma numericamente rilevanti, come quelle Sikh, Cristiane, Buddiste e Jainiste non aiuta la composizione del conflitto in quanto non c’è interesse da parte dei gruppi religiosi di cercare un mutamento politico. Anche a partire dalla posizione della regina Vittoria con il Proclama del 1858, in materia religiosa, si confermava la neutralità della Compagnia delle Indie.
Lo sforzo del Costituente doveva dunque muoversi nel trasformare in secolare uno stato impregnato di religiosità, dove ogni gruppo religioso, già diverso per etnia e lingua, difendeva fortemente le rispettive autonomie nel timore di una perdita di potere all’interno della propria comunità, ma anche a livello politico e sociale in assoluto.
La difficoltà di realizzare un ordinamento armonicamente pluralistico sembra subito di improbabile riuscita nella società indiana, caratterizzata da contrasti così forti.

 

 

 

III.                        DIRITTO ALLA LIBERTA’ RELIGIOSA

Il diritto di libertà religiosa nella nuova Costituzione viene sancito in 6 articoli:
25, 26, 27, 28 , 29 e 30.

25. Freedom of conscience and free profession, practice and propagation of religion.
(1) Subject to public order, morality and health and to the other provisions of this Part, all persons are equally entitled to freedom of conscience and the right freely to profess, practise and propagate religion.
25. La libertà di coscienza e di libera professione, la pratica e la propagazione della religione. - (1) Fatto salvo per l'ordine pubblico, la moralità e la salute e delle altre disposizioni della presente parte, tutte le persone hanno ugualmente diritto alla libertà di coscienza e il diritto alla libera professione, pratica e propaganda della religione.

(2) Nothing in this article shall affect the operation of any existing law or prevent the State from making any law—
(2) Nessuna disposizione contenuta nel presente articolo può influenzare l’operatività di ogni legge esistente o impedire allo Stato di fare qualunque legge -

(a) regulating or restricting any economic, financial, political or other secular activity which may be associated with religious practice;
(a) che regola o limita qualsiasi attività economica, finanziaria, politica o altre attività secolari che possono essere associate con la pratica religiosa;

(b) providing for social welfare and reform or the throwing open of Hindu religious institutions of a public character to all classes and sections of Hindus.
(b) che procuri il benessere e la riforma sociale o l’apertura delle istituzioni religiose indù a carattere pubblico a tutte le classi e le sezioni di indù.

Explanation I.— The wearing and carrying of kirpans shall be deemed to be included in the profession of the Sikh religion.
Spiegazione 1.– L'indossare e trasportare il kirpan devono essere ritenuti inclusi nella professione della religione Sikh.
Explanation II.— In sub-clause (b) of clause (2), the reference to Hindus shall be construed as including a reference to persons professing the Sikh, Jaina or Buddhist religion, and the reference to Hindu religious institutions shall be construed accordingly.
Spiegazione II .- Nel punto (b) del comma (2), il riferimento agli indù deve essere interpretato come riferito anche alle persone che professano le religioni Sikh, Jainista o Buddista, e il riferimento agli enti religiosi indù deve essere interpretato analogamente.

26. Freedom to manage religious affairs.— Subject to public order, morality and health, every religious denomination or any section thereof shall have the right—
26. La libertà di gestire gli affari religiosi .- Subordinatamente all’ordine pubblico, alla moralità e alla salute, ogni confessione religiosa o qualsiasi loro parte hanno il diritto: -

(a) to establish and maintain institutions for religious and charitable purposes;
(a) di stabilire e mantenere istituzioni per fini religiosi e di beneficenza;

 

(b) to manage its own affairs in matters of religion;
(b) di gestire i propri affari in materia di religione;

(c) to own and acquire movable and immovable property; and
(c) di possedere e acquistare beni mobili e immobili, e

(d) to administer such property in accordance with law
(d) di amministrare tali beni in conformità alla legge.

27. Freedom as to payment of taxes for promotion of any particular religion.— No person shall be compelled to pay any taxes, the proceeds of which are specifically appropriated in payment of expenses for the promotion or maintenance of any particular religion or religious denomination.
27. Libertà del pagamento di tasse per la promozione di una particolare religione. - Nessuno può essere costretto a pagare tasse, i cui proventi siano specificamente stanziati per sostenere  spese per la promozione o il mantenimento di una particolare religione o confessione religiosa.

28. Freedom as to attendance at religious instruction or religious worship in certain educational institutions.— (1) No religious instruction shall be provided in any educational institution wholly maintained out of State funds.
28. Libertà nel prendere parte ad insegnamenti religiosi o atti di preghiera in alcune istituzioni scolastiche. - (1) Nessuna insegnamento religioso deve essere fornito in alcun istituto scolastico finanziato interamente con fondi dello Stato.

(2) Nothing in clause (1) shall apply to an educational institution which is administered by the State but has been established under any endowment or trust which requires that religious instruction shall be imparted in such institution.
(2) Il comma (1) non si applica ad un istituto di istruzione che sia gestito dallo stato, ma che sia stato istituito mediante qualsiasi donazione o fondo che richieda che l’insegnamento religioso debba essere impartito in questa istituzione.

(3) No person attending any educational institution recognised by the State or receiving aid out of State funds shall be required to take part in any religious instruction that may be imparted in such institution or to attend any religious worship that may be conducted in such institution or in any premises attached thereto unless such person or, if such person is a minor, his guardian has given his consent thereto.
(3) Nessuna persona che frequenti qualsiasi istituto scolastico riconosciuto dallo Stato o che riceva aiuti da fondi dello Stato può essere tenuta a prendere parte ad alcuna istruzione religiosa che possa essere impartita in tale istituzione o a partecipare a qualsiasi atto di preghiera che possa essere svolta in tale istituzione o in qualsiasi locale ad essa pertinente, a meno che tale persona o, se tale persone è un minore, il suo tutore, abbia prestato a ciò il suo consenso.

Cultural and Educational Rights- Diritti Culturali ed educativi
29. Protection of interests of minorities. - (1) Any section of the citizens residing in the territory of India or any part thereof having a distinct language, script or culture of its own shall have the right to conserve the same.
29. Tutela degli interessi delle minoranze. - (1) Qualsiasi sezione di cittadini residenti nel territorio dell'India o in una sua parte che abbiano lingua, scrittura e cultura proprie ha il diritto di conservare le stesse.

(2) No citizen shall be denied admission into any educational institution maintained by the State or receiving aid out of State funds on grounds only of religion, race, caste, language or any of them. (2) A nessun cittadino deve essere negata l'ammissione in qualsiasi istituto scolastico finanziato dallo Stato, o che benefici di aiuti derivanti da fondi dello Stato per motivi solo di religione, razza, casta, lingua o di uno di essi.

 

30. Right of minorities to establish and administer educational institutions. - (1) All minorities, whether based on religion or language, shall have the right to establish and administer educational institutions of their choice.
30. Diritto delle minoranze di creare e amministrare le istituzioni educative. - (1) Tutte le minoranze, siano esse basate sulla religione o la lingua, hanno il diritto di istituire e amministrare le istituzioni educative di loro scelta.

(1A) In making any law providing for the compulsory acquisition of any property of an educational institution established and administered by a minority, referred to in clause (1), the State shall ensure that the amount fixed by or determined under such law for the acquisition of such property is such as would not restrict or abrogate the right guaranteed under that clause.
(1A) Nel fare una legge che preveda l'acquisizione obbligatoria di qualsiasi bene di un istituto di insegnamento istituito e amministrato da una minoranza, di cui al comma (1), lo Stato deve garantire che l'importo fissato o determinato ai sensi di tale legge per l’acquisizione di tali beni sia tale da non limitare o abolire il diritto garantito in forza di tale clausola.

(2) The State shall not, in granting aid to educational institutions, discriminate against any educational institution on the ground that it is under the management of a minority, whether based on religion or language.
(2) Lo Stato non può, nella concessione di aiuti alle istituzioni scolastiche, porre in essere una discriminazione nei confronti di qualsiasi istituzione educativa per il fatto che essa sia sotto la gestione di una minoranza, fondata sulla religione o sulla lingua.

Articolo 25:
Fatto salvo per l’ordine pubblico, la moralità e la salute, tutte le persone hanno ugualmente diritto alla libertà di coscienza e al libero professare, praticare e propagare la religione”.
Nonostante questa norma appaia a garanzia della libertà religiosa, la vera novità al contrario, è la limitazione che per la prima volta viene espressamente consentita in funzione del superiore bene pubblico:la libertà religiosa è subordinata alle esigenze della società indiana.
Concezione rivoluzionaria contenuta in una norma costituzionale relativamente lata, in modo da essere realizzata gradualmente dal legislatore e dalla giurisprudenza nell’ intento di promuovere una minore disuguaglianza tra i cittadini e un maggior benessere comune.
Si pone il problema di tracciare confini precisi tra libertà di credere e di agire e se le limitazioni alle regole religiose debbano derivare da leggi statali che interferiscano con quelle confessionali, o piuttosto, siano limitazioni legittime alla luce dell’ art. 25 della Costituzione.
In ogni caso la via migliore per conciliare le due opposte esigenze anche senza voler entrare nel merito specifico, è la soluzione del bilanciamento degli interessi.
Nell’articolo si affronta anche il concetto di propaganda religiosain relazione a quello di libertà di coscienza. La Corte Suprema nell’interpretazione della norma, dà una visione che si discosta da quella degli ordinamenti di stampo occidentale escludendo che la propaganda religiosa abbia come conseguenza il “proselitismo” cioè la possibilità di convertire al proprio credo esercitando sollecitazioni tendenti a provocare conversioni.
La diversità di soluzioni deriva dalla cultura induista fondata sul principio che “il medesimo Spirito soffi dappertutto” anche se in forme diverse, e dall’idea che la religione sia strettamente legata all’etnia. Per la cultura indiana la libertà di fede non è fondata su una concezione illuministica legata alla libertà di pensiero e alla comunicazione con lo scopo di convincere l’altro attraverso le proprie argomentazioni, bensì sull’idea che proselitismo e conversione caratterizzino alcune grandi religioni come il Cristianesimo, la cui libertà verrebbe meno qualora fossero negate queste attività per esse fondamentali.
Dunque la norma costituzionale va interpretata nell’ottica di garantire a tutti la libertà religiosa, accordando una specifica garanzia alla propaganda in quanto tutela di attività religiosa, essenziale di importanti confessioni minoritarie. Ovviamente, qualora la propaganda divenisse offensiva, aggredendo o insultando la fede altrui essa verrà sottoposta al giudizio della legge penale in quanto contraria all’ ordine pubblico.

 

1.                  VISIONE ATEISTICA DELLA RELIGIONE E SUO LIMITE GIURIDICO

Nella cultura indiana il concetto di religione rispecchia un modello giuridico ampio e  indipendente dalla sola credenza in Dio, tale da risentire dell’influenza del pensiero buddista e jainista; ma giuridicamente è necessario porre un limite all’estensione del concetto. Tuttavia la dottrina indiana rileva che ”la religione non è suscettibile di una rigida definizione”, richiamandosi proprio alla visione non necessariamente teistica del buddismo e del jainismo e rifiutando l’interpretazione della giurisprudenza americana che aveva sancito come presupposto almeno la credenza in una dipendenza dell’uomo da un “Essere Supremo”.
La conseguenza è una larga discrezionalità alla giurisprudenza che deve essere garante nel controllare l’ampiezza dei soggetti e delle confessioni religiose beneficianti della tutela costituzionale, interpretando in modo estensivo o limitativo i precetti costituzionali in difesa dell’ordinamento.
Nel secondo comma si precisa inoltre che questa norma costituzionale non impedisce al legislatore di regolare attività socialmente rilevanti dal punto di vista economico, finanziario, politico, anche qualora si tratti di attività di carattere religioso, consentendo l’emanazione di leggi per limitare privilegi religiosi tradizionali, e ribadendo ancora una volta l’assoggettamento della libertà religiosa alla legge comune.

 

2.  ILLEGITTIMITA’ COSTITUZIONALE IN VIOLAZIONE DEL DIRITTO DI       LIBERTA’ RELIGIOSA

Se una norma è accusata di illegittimità costituzionale per violazione del diritto di libertà religiosa, il giudizio procede seguendo una serie di controlli:
la legge prevale sempre se il comportamento religioso risulta in contrasto con norme che tutelano ordine pubblico, morale e salute fisica dei cittadini; negli altri casi occorre un riscontro da parte di un giudice che abbia competenza in materia religiosa e che stabilisca se quella pratica sia “ESSENZIALE” per la relativa confessione o si tratti di una tradizione, che seppur antica e rispettata, sia però priva di fondamenti teologici che la mostrino “NECESSARIA”.
Dovrà esser stabilito che ci sia un “FINE” ed un “OGGETTO DI ORDINE SECOLARE”; qualora venissero meno questi aspetti (essenzialità religiosa dell’attività e carattere secolare dello scopo perseguito), l’illegittimità costituzionale sarebbe già sicura.
Altrimenti, per garantire la legittimità della norma occorre richiamarsi al “bilanciamento dell’importanza dei contrapposti interessi”, sacrificando quello meno essenziale e salvando l’altro, tenendo in un ottica più favorevole l’interesse più vicino alla legge di stato.
In verità nell’ applicazione concreta il carattere di essenzialità viene frequentemente forzato dai giudici: tipica forzatura è l’esclusione dell’essenzialità religiosa quando una certa pratica religiosa è considerata tale solo in certe zone o solo da alcune particolari chiese.
In seguito a queste motivazioni, anche la Suprema Corte ha ritenuto non fondamentale l’obbligo religioso per i musulmani di sacrificare una vacca nel giorno di Bakr-id, pratica già impedita dalla legislazione degli stati che vietano l’uccisione della vacca e che trova espresso fondamento costituzionale nell’art. 48 che invita gli stati ad emanare leggi a favore dell’agricoltura, prevedendo anche il divieto di uccidere le vacche(incarnazione del Dio VISHNU).
Tale norma nasce dalla difesa della parte induista che era ricorsa ad argomentazioni relative al vantaggio economico dell’utilizzazione delle vacche, come animali vivi, da latte o da lavoro, piuttosto che da carne.
Ma l’opposizione musulmana ha sostenuto che ciò fosse un modo di mascherare la natura religiosa del divieto, chiedendo che oltre il limite dei 25 anni per gli animali sani e 20 per quelli malati, potessero essere abbattuti e sacrificati in quanto inutili da un punto di vista economico.
La Corte Suprema ha dichiarato valida questa impostazione, mentre sarebbe stato illegittimo e ingiustificato un divieto assoluto prescindendo dall’ età e dalla condizioni fisiche dell’ animale.
Altra questione controversa tra legge religiosa e civile è L’ABOLIZIONE DELLE CASTE:
la Costituzione garantisce ora l’uguaglianza dei cittadini assoggettando la norma religiosa a quella statale e vietandone l’applicazione nell’ ambito religioso stesso, punendolo come reato passibile di reclusione.
Altra importante riforma sociale approvata in contrasto col diritto di libertà religiosa è l’abolizione della BIGAMIA INDUISTA, fondandola sulla non essenzialità della regola religiosa e sul fatto che la norma civile è preminente poiché persegue fini di riforma sociale.
Nonostante ciò, non si notano interferenze del legislatore in materia matrimoniale nella POLIGAMIA ISLAMICA, che continua ad essere consentita e riconosciuta civilmente.
Permane una differenza incostituzionale di trattamento per motivi religiosi tra marito induista e marito musulmano, e tra moglie induista e moglie musulmana (diversamente protette nel loro status coniugale), ma anche tra uomo e donna musulmani, a cui non è consentita la poliandria.
È solo la giurisprudenza che ha posto un qualche limite alla poligamia musulmana, consentendo alla moglie di lasciare la casa coniugale, dopo che il marito abbia convolato a nuove nozze, considerando il secondo matrimonio una crudeltà mentale verso la precedente moglie, sebbene consentito dalla legge.

L’articolo 26 della Costituzione stabilisce l’autonomia organizzativa e gestionale delle confessioni religiose, compreso il diritto di acquistare e amministrare proprietà mobiliari e immobiliari.
È un aspetto delicato e continuamente messo in discussione poiché coinvolge interessi economici.
Il solo limite posto dalla norma costituzionale deriva, ancora una volta dall’art. 25 secondo cui, il provvedimento dell’ autorità religiosa non deve recar pregiudizio ad “ordine pubblico, moralità e salute”; dunque segue il principio della non interferenza nell’organizzazione interna delle confessioni sancito dall’art. 26, rendendo insindacabili atti e provvedimenti fondati su motivi religiosi.
L’art. 26 appare in ogni caso subordinato all’art. 25 anche secondo l’interpretazione della Suprema Corte che, con una sentenza, rende legittima l’acquisizione forzata dello stato sul bene appartenente alla confessione religiosa per scopi di pubblica utilità dietro il pagamento di un equo corrispettivo economico.
L’art. 26 in relazione alla garanzia di amministrazione accordata alle confessioni non dà diversa tutela a seconda che si tratti di materia puramente religiosa o di gestione economica delle proprietà ecclesiastiche. Quest’ultima non è garantita, a differenza della prima, in maniera assoluta e deve sottostare a regole più rigide.

Gli articoli 27 e 28 assicurano la neutralità dello stato attraverso uno specifico divieto di finanziamento pubblico delle chiese. Sembrerebbero due disposizioni di stampo nettamente separatistico, ma è poi l’interpretazione giurisprudenziale che dà valore effettivo alle norme.
L’articolo 27 non pone un divieto di esenzione delle chiese dalle imposte statali; il problema si pone relativamente a imposizioni tributarie speciali per spese che lo stato dovrebbe sostenere per contributi a cause che avvantaggiano una determinata chiesa. In tal senso, l’imposizione fiscale speciale è legittima solo quando sia un contributo eccezionale correlato a speciali spese statali.
Si osservi come esempio il caso del pellegrinaggio ad un famoso tempio sacro indù, dove lo stato ha dovuto farsi carico di una serie di servizi logistici e di trasporto per assicurare al pellegrino un maggior benessere, poiché nella realtà economica indiana, esso appare fonte di spesa più che di guadagno.
L’intervento pubblico può essere considerato legittimo anche quando prescinde da qualsiasi finalità di sostegno alla religione, ma sia reso necessario da esigenze relative al benessere sociale anche se apparentemente nascono sotto forma di natura agevolatrice della religione (per esempio, l’intervento dello stato per la ricostruzione di edifici pubblici, case, scuole, templi,danneggiati a causa di disordini tra musulmani e induisti).
L’articolo 28 prende in esame la materia dell’ istruzione religiosa ed esclude “qualsiasi insegnamento religioso nelle scuole pubbliche o comunque a carico dello stato”.
Tuttavia nei commi successivi si consente il finanziamento pubblico delle scuole confessionali,dove può essere impartito l’insegnamento religioso, ma non deve essere obbligatorio.

Gli articoli 29 e 30 tutelano gli interessi delle minoranze anche da un punto di vista religioso precisando che sotto l’aspetto culturale e scolastico, tutti i cittadini hanno diritto ad essere ammessi in istituti pubblici, come pure il diritto di istituire e gestire istituzioni educative di loro scelta nei confronti delle quali lo stato non può operare discriminazioni per il fatto di essere sotto la gestione di una minoranza.

 

IV.                        ASSETTO ISTITUZIONALE DELL’INDIA

Per quanto riguarda l’assetto istituzionale, l’India ha una forma semi-federale di governo, dove il governo centrale, modellato sul sistema parlamentare inglese detiene maggiori poteri, rispetto a quello dei vari stati.
È dotata di un parlamento bicamerale con la classica tripartizione dei poteri: legislativo, esecutivo e giudiziario.
Il presidente dell’ India è il Capo di Stato, con compiti di mera rappresentanza.
Ha un mandato di 5 anni ed è eletto indirettamente da un collegio elettorale.
Il potere esecutivo è esercitato dal Primo Ministro che è il Capo del Governo, è nominato dal Presidente ed è il candidato sostenuto dalla alleanza politica maggioritaria; il Governo è composto da Presidente, Vice Presidente e Consiglio dei Ministri, guidato da Primo Ministro.
Il potere legislativo è esercitato dal Parlamento bicamerale costituito da una Camera Alta,  “Consiglio degli Stati” ed una Camera Bassa, ”Casa del Popolo”; rispettivamente l’una composta da 245 membri in carica per 6 anni, eletti dagli stati in proporzione alla popolazione, l’altra composta da 545 membri, eletti in carica per 5 anni, di cui 543 direttamente dal voto popolare e 2 nominati dal Presidente.
Il potere esecutivo è subordinato  al potere legislativo, con il Primo Ministro e il suo Consiglio, direttamente responsabili, ma solo davanti alla Camera Bassa del Parlamento.
Il potere della magistratura è strutturato su tre livelli: costituito dalla Corte Suprema, 21 membri dell’Alta Corte e un gran numero di magistrati.
La Corte Suprema ha giurisdizione su casi che riguardano diritti fondamentali e controversie tra gli Stati e il Centro, e i casi di appello dell’Alta Corte. È indipendente da ogni altro potere e può sciogliere i governi statali, nonché dichiarare incostituzionali leggi dei vari stati.
Il ruolo come ultimo interprete della Costituzione è una delle più importanti funzioni della Suprema Corte.

 

V.                STORIA DEL DIRITTO INDÙ

Il diritto indù può essere definito come l’insieme delle regole di comportamento, delle istituzioni, e delle concezioni a esso collegate, che sono state elaborate all’interno delle diverse tradizioni religiose e culturali che si considerano parte dell’Induismo.
E’  diritto degli indù, ed è un diritto a carattere personale, osservato dagli indù in quanto appartenenti a una determinata comunità religiosa e culturale, e non in quanto residenti in un determinato territorio o soggetti a una determinata entità politica.
Gli studi indiologici recenti mettono in discussione la categoria dell’Induismo come religione, in quanto sarebbe più corretto parlare di un fascio di religioni che si riconoscono a vicenda.
All’interno dell’Induismo esistono quindi una pluralità di religioni autonome.
Le diverse tradizioni che rientrano in esso condividono alcune concezioni e alcune pratiche, ma possono essere radicalmente diverse su aspetti anche decisivi.
Un nucleo centrale potrebbe individuare tre aspetti:

  • il riconoscimento dell’autorità dei testi sacri dei Veda;
  • l’accettazione della legge del Karman (credenza nella rinascita);
  • l’adesione al sistema delle caste.

 

Vi sono comunque comunità che non si riconoscono in uno o più di essi e che, nonostante ciò, sono considerate parte dell’Induismo.
Col termine “indù” nel 12 d.C. i musulmani indicavano la religione delle popolazioni che abitavano a est del fiume Indo.
Successivamente il termine è stato usato per definire le popolazioni del subcontinente indiano non appartenenti all’Islam o ad altre religioni.
La definizione di indù viene  compiuta in termini negativi, per cui è considerato indù chi non appartiene espressamente ad un’altra religione o comunità.
Nell’identità indù si mantiene una fusione tra aspetto religioso, aspetto etnico e aspetto socioculturale, per cui può capitare, ad esempio, che un cristiano indiano veda se stesso anche come indù per ragioni etniche e culturali, pur appartenendo ad una religione distinta.
Inoltre, si può essere indù pur non professando alcuna religione, cioè dichiarandosi atei.
Di conseguenza l’applicazione del diritto indù è molto inclusiva.
Infatti, il diritto indù ufficiale nell’India di oggi si applica in materia di statuto personale a tutti coloro che non sono musulmani, ebrei, parsi o cristiani, e in via generale a tutti coloro che non provino che ad essi si dovrebbe applicare un diritto diversi.
Il diritto indù non si applica ai soli indù per religione ma anche a buddhisti, jainisti e sikh, che sono considerati indù ai fini dell’applicazione del diritto relativo allo statuto personale.

Nel corso della sua storia, il diritto indù ha interagito con altri diritti; alcuni sono stai induizzati, altri sono rimasti autonomi.
Sotto l’etichetta “diritto indù” rientra una serie di diritti che, pur riconoscendosi come parte di un’unica tradizione, possono essere molto diversi tra loro.
Storicamente il diritto indù è stato un diritto tendenzialmente completo (con norme relative al processo matrimonio, proprietà).
Nel passaggio alla modernità, l’ambito di rilevanza del diritto indù si è ridotto o trasformato.
Ampie parti del diritto si sono completamente staccate dal diritto indù e sono state direttamente sostituite da norme di origine occidentale.
Dal periodo coloniale il diritto indù è diritto vigente ufficialmente solo in materia di statuto personale.
L’introduzione di fonti statali del diritto indù cambia in parte la natura di questo come diritto religioso, visto che la Repubblica Indiana è laica e una legge che regola i rapporti familiari tra indù non può esser considerata produzione di diritto religioso.
L’intervento statale sul diritto indù non configura però una totale rottura con la tradizione, visto che larghe parti del diritto tradizionale sono state riconosciute e applicate dagli stessi organi statali.
Inoltre il diritto ufficiale indù non esclude la rilevanza del diritto indù tradizionale a livello non ufficiale, non riconosciuto dallo stato, ma non per questo privo di giuridicità.
Il diritto indù non ufficiale può porsi in contrapposizione con quello ufficiale (esempio il permanere di istituti come il matrimonio di bambini in alcune aree dell’Induismo), o esistere in ambiti separati.

 

1.             EPOCHE DEL DIRITTO INDU’

Periodo vedico (1500-800 a.C.)
Periodo classico (80-200 d.C.)
Periodo post classico (200-1100 d.C.)

Dal 1100, la crescita della presenza dell’Islam identifica un periodo autonomo di dominazione musulmana, durante cui però non vi sono cambiamenti profondi nel diritto indù.
È col periodo coloniale (iniziato nel 600 e conclusosi nel 1947, con l’indipendenza dell’India) che inizia una fase nuova e di cambiamenti soprattutto sul piano delle fonti.

Il 1500 a.C. è il momento convenzionale di inizio della tradizione indù, in quanto epoca presunta di composizione dei primi testi vedici (periodo vedico).
Il Dharma è l’insieme di doveri finalizzati al mantenimento dell’ordine, esso abbraccia tutti i doveri che l’individuo deve osservare per avere un comportamento corretto.
Le tradizioni indiane classiche hanno perciò una concezione delle regole e del diritto diversa da quelle delle tradizioni occidentali.
La forza vincolante della legalità ha un posto centrale nelle tradizioni occidentali moderne, in India il nucleo del “governo della legge” è costituito piuttosto dall’autorità morale di ciò che è chiamato Dharma. Il Dharma si riferisce alla totalità dei doveri che incombono sugli individui, ed indica anche le regole eterne che reggono il mondo.
Il termine Dharma può tradursi come diritto, inteso quali regole di comportamento  anche morale e religioso, che una comunità riconosce come vincolante per i suoi membri; abbraccia cioè tutti i doveri che l’individuo deve osservare per avere un comportamento corretto.
Non si tracciano distinzioni tra le varie sfere del dovere, quindi distinzione tra norme etiche, sociali o giuridiche.
Stabilire che un’azione è Dharma significa affermarne il suo valore e quindi la sua normatività e doverosità.
In conclusione il concetto di Dharma ha rappresentato nella tradizione indù un equivalente del concetto di Giustizia in occidente; giustizia non basata su un concetto astratto di bene morale, ma sull’idea dell’appropriatezza e correttezza.
E’ dharmica l’azione appropriata per una determinata persona in un determinato contesto.
Di conseguenza il diritto indù si sviluppa come un insieme di regole di comportamento differenziate a seconda della classe sociale e della casta di appartenenza.
Il Dharma è per sua natura flessibile e varia secondo le circostanze, secondo le persone e secondo i contesti locali.
Alcune regole vengono istituzionalizzate in determinati contesti, altre, anche opposte, in altri.
I singoli ordinamenti giuridici delle diverse parti dell’India e delle diverse comunità appartenenti all’Induismo, trovano nel Dharma un elemento unificante che li rende parte di un’unica tradizione.
Il nucleo normativo dell’Induismo, che è alla base dei diversi diritti indù, resta fortemente improntato alle prime elaborazioni del Dharma.
Il periodo classico è quello di massimo sviluppo dell’elaborazione teorica del diritto indù.
In tale periodo si formula la teoria delle fonti e si costruiscono i principi base dell’organizzazione sociale indù (come quello delle caste).

Con l’arrivo degli europei e con la penetrazione del diritto occidentale, il diritto indù subisce cambiamenti.
Prima tra le necessità avvertite dall’amministrazione coloniale fu quella di introdurre un sistema di giustizia penale e civile per gi stessi colonizzatori, ma il problema che gli inglesi si trovarono ad affrontare fu decidere in che modo amministrare i diritti delle popolazioni locali ed in quale misura applicare ad esse il diritto inglese.
Nel 1772 si introdusse il sistema dei “Listed Subjects”, in base al quale il diritto indù e il diritto islamico venivano applicati a indù e musulmani in alcune materie relative allo statuto personale (principalmente al matrimonio e alle successioni).
Gli inglesi contemporaneamente cominciarono ad intervenire in modo massiccio negli altri settori del diritto, anche facendo ricorso al codice per raggiungere una maggiore uniformità.
Mentre il diritto applicato nei tribunali prima del 1860 era vario, nel 1882 era stata virtualmente completata la codificazione di tutti i campi del diritto commerciale, penale processuale, tranne i diritti personali indù e musulmani.
In conclusione, durante il periodo coloniale, si forma un diritto anglo-indù, che risulta dalla applicazione del diritto indù nelle corti britanniche.
I Giudici inglesi si trovarono a dover applicare il diritto indù con enormi difficoltà.

 

VI.                      ISTITUTO DEL MATRIMONIO

Nell’Induismo il matrimonio è visto come sacramento e rappresenta il più importante passaggio rituale e sociale nella vita di un indù.
Il carattere sacramentale si ha attraverso una serie di riti con cui i due sposi vengono legati in modo indissolubile ed eterno.
Il matrimonio segna un cambiamento di status sia per l’uomo che per la donna, ed è vissuto come situazione familiare più che individuale.
Nel diritto indù tradizionale venivano distinte otto forme di matrimonio, che hanno lasciato molti dubbi agli interpreti, visto che contemplano anche il matrimonio attraverso un rapporto sessuale imposto.
Il VIVAHA, termine sanscrito per matrimonio,è un concetto con cui ci si riferisce a diversi tipi di unione.
Nel definire le otto forme di matrimonio gli interpreti si sono basati sull’osservanza e l’istituzionalizzazione di quanto era dato loro osservare nella pratica sociale, suggerendone alcuni tipi di unione e sconsigliandone o biasimandone altri.
Ad esempio per le caste più alte è suggerito il matrimonio in una forma ove è presente un dono fatto dal padre della sposa al marito.
Nel diritto indù moderno il matrimonio conserva alcuni elementi del carattere sacramentale e ne acquista altri di carattere contrattuale:maggiore importanza viene data al consenso e minore all’aspetto dell’indissolubilità del matrimonio, essendo possibile il divorzio (sentito però a livello sociale evento riprovevole, cosa che in alcuni casi spinge piuttosto all’uxoricidio).
Nel diritto indù esistono più tipi di matrimonio con riti ed effetti diversi e con molte varianti a livello locale.
Il matrimonio indù non richiede alcuna forma di collaborazione o di intervento pubblico e viene regolato a livello comunitario. Infatti solo recentemente in India si è cominciato a parlare di registrazione obbligatoria.
L’Induismo è sempre stato caratterizzato dalla coesistenza di una pluralità di modi di celebrazione del matrimonio.
Esso è spesso costituito da una serie complessa di riti coordinati, può tuttavia assumere anche caratteri ampiamente informali (ad esempio il secondo matrimonio della vedova, ammesso ma non favorito, può consistere in poco più che manifestare l’intenzione di sposarsi).
Il legislatore avrebbe potuto semplificare le molte forme presenti, indicando se non una, almeno una serie definita di forme, ma non lo ha fatto, rispettando la rilevanza delle consuetudini.
Ha cioè rinunciato all’ambizione di entrare in ogni aspetto della disciplina, lasciandola al controllo sociale.
L’Art.7 dell’ HINDU MARRIAGE ACT  dispone che:

  • a hindu marriage may be solemnized in accordance with the customary rites and cerimonies of either party thereto.
  • Where such rites and cerimonies include the saptapadi (that is, the talking of seven steps by the bridegroom and the bride jointly before the sacred fire), the marriage becomes complete and binding when the seven step is taken.
  • Un matrimonio indù può essere celebrato in conformità con i riti e le cerimonie consuete di una delle parti.
  • Nei casi in cui i riti e le cerimonie includono il saptadi (che sono i sette passi dello sposo e della sposa insieme davanti al fuoco sacro) il matrimonio diventa completo e vincolante quando è ultimato il settimo passo.

 

Il matrimonio indù può essere quindi celebrato in accordo con i riti consuetudinari e le cerimonie di una delle parti.
La norma opera un rinvio alle regole osservate dalla comunità delle parti.
Ciò non significa che i nubendi abbiano libertà di scegliere, la regola esiste ed ha carattere consuetudinario.
L’art.7 fa riferimento al saptapadi ( i sette passi davanti al fuoco rituale), che costituisce una delle forme di celebrazione più diffuse e con maggior rilevanza culturale essendo espressamente contemplata nei testi del dharmasastra così una forma di matrimonio del diritto tradizionale viene recepita espressamente dal diritto statale indiano.
Tuttavia l’art.7 non prescrive il compimento del “saptapadi”, ritenendola norma maggioritaria a scapito delle altre forme di celebrazione, ma si limita a stabilire che nel caso di quella particolare consuetudine il negozio si perfeziona al compimento del settimo passo.
In alcune sentenze ed opere di dottrina sul diritto indù è stato affermato il carattere essenziale del “saptapadi” per la validità del matrimonio, forzando il tenore letterale della norma e cercando di compiere lì operazione di generalizzazione e uniformazione che il legislatore aveva rinunciato a fare.
Ciò mostra che la tensione tra uniformità e diversità non debba essere considerata limitandosi alla sola analisi del formante legislativo, ma debba essere rintracciata anche negli altri formanti del diritto, come la giurisprudenza.
Il matrimonio indù è vissuto come rito religioso e sociale che non richiede nessun intervento pubblico.
In base allo HINDU MARRIAGE ACT  il matrimonio può esser registrato, ma la sua registrazione non è condizione di validità.
Il legislatore del 1995 non ha previsto la registrazione come condizione di validità del matrimonio, in quanto consapevole che in un contesto indiano, date le dimensioni demografiche, l’arretratezza culturale di larghe sfere della popolazione e i notevoli problemi dell’attività amministrativa, il sistema avrebbe potuto portare a situazioni di ingiustizia.
Anche in presenza dell’obbligatorietà della registrazione, molti matrimoni non sarebbero registrati.
In una situazione del genere le tutele offerte dal diritto statale avrebbero potuto paradossalmente diminuire, non essendo riconosciuto un matrimonio sentito come perfettamente valido sul piano sociale.
Una conseguenza della non obbligatorietà della registrazione, è che le corti devono accettare normalmente l’esistenza del matrimonio in giudizio principalmente su base di prove testimoniali (e questo è elemento di incertezza giuridica).
Il quadro normativo sta però cambiando ed in alcuni stati è già stata prevista la registrazione obbligatoria.
I requisiti del matrimonio, possono variare considerevolmente nelle epoche storiche, nelle componenti diverse del’induismo,nelle diverse zone dell’india.
La monogamia rappresenta il modello ideale nell’induismo.
Tuttavia è sempre esistita una poligamia indù molto diffusa, tanto da poter essere vista come la vera regola di fatto.
Tra le diverse possibili unioni che si verificano nella pratica vengono selezionate come accettabili quelle che, pur non corrispondendo al modello ideale, sono meritevoli di tutela.
L’esempio principale si ha nel caso di sterilità della moglie.
Dato il dovere di generare una discendenza, si ammette la possibilità di avere un’altra moglie, senza che sia necessario dover divorziare dalla prima.
Sul piano sociologico la poligamia è sempre stata diffusa soprattutto nelle caste alte, come testimonianza di un potere economico e prestigio sociale.
Le riforme del diritto indù degli anni ’50 hanno vietato la poligamia ed hanno stabilito la nullità del matrimonio poligamico.
Di fatto, l’esistenza di pratiche sociali poligamiche non viene cancellata dalla legge dello stato.
Ciò che è accaduto, è che per non esser condannati per poligamia molti uomini hanno cominciato a negare l’esistenza o la validità di uno dei matrimoni (cosa facile data la varietà di riti previsti per la valida celebrazione, e l’assenza di registrazione obbligatoria).
Nel diritto tradizionale sono ammessi i matrimoni tra i bambini.
Gli inglesi cercarono di intervenire su questa pratica attraverso alcune norme penali l’art. 375 del codice penale e il CHILD MARRIAGE RESTRAINT ACT del 1929, ma non arrivarono a collegare conseguenze di natura civilistica a tali matrimoni, che restavano validi.
Anche il diritto indù ufficiale, attraverso l’HINDU MARRIAGE ACT ha vietato tale pratica stabilendo l’età minima per contrarre il matrimonio a ventuno anni per gli uomini e a diciotto per le donne.
In caso di violazione di tale regola, non è espressamente stabilita l’invalidità del matrimonio, e l’opinione dominante è che resti valido.
E’ prevista una sola sanzione pecuniaria o detentiva.
Nel 2006 il CHILD MARRIAGE PROHIBITION  ha per la prima volta previsto l’annullabilità in generale per i matrimoni tra i minori, e la nullità per alcune forme gravi ( come quello in cui al matrimonio è collegata la sottrazione del minore).
Resta ovviamente presente il possibile conflitto tra norma ufficiale e diritto indù non ufficiale.
Altro requisito del matrimonio sono i limiti del grado di parentela.
Nel diritto indù la relazione deve essere esogamica; esistono due sistemi per escludere l’endogamia.
Uno si basa sulla parentela, l’altro sulla relazione di “sapida” (dove il concetto chiave è che la collaborazione di due soggetti in alcune attività rituali equivalga alla parentela, anche in assenza di vincoli  di sangue).
Nel diritto indù tradizionale, i matrimoni interreligiosi e i matrimoni intercasta sono proibiti.
In particolare sono visti con enorme sfavore i matrimoni tra uomo di casta  bassa e donna di casta alta.
Su tale punto però non esistono regole nette, in molti casi la questione viene posta in termini di minore o maggiore desiderabilità e non in termini di divieto assoluto.
Nel diritto indù moderno ufficiale non possono collegarsi conseguenze a differenze di casta tra gli sposi, in quanto contrasterebbe coi principi costituzionali.
Perciò un matrimonio tra persone di caste diverse è perfettamente valido.
I matrimoni interreligiosi sono stati sempre visti con sfavore nel diritto indù tradizionale.
Il diritto indù ufficiale invece non considera un matrimonio indù l’unione tra un indù ed una persona appartenente a diversa religione.
Cioè il diritto indù esclude che uno dei due nubendi possa non essere indù.
Quindi due persone di religione diversa possono sposarsi, ma devono far ricorso ad un diverso regime matrimoniale, che è quello fissato nello SPECIAL MARRIAGE ACT  del 1954.
Concludendo, il matrimonio comporta mutamento di status sia dell’uomo che della donna.
I doveri coniugali del marito nel diritto tradizionale sono di protezione della moglie, di fedeltà di sostentamento e di coabitazione.
Essi si conservano nel diritto moderno con maggior attenzione al quadro formale di uguaglianza dei coniugi, in cui sono inseriti.
La donna sposandosi entra a far parte della famiglia del marito cui seguono conseguenze sul piano patrimoniale e su quello dei rapporti con gli altri membri della famiglia dello sposo.
Nel modello ideale di matrimonio indù esiste un principio di indissolubilità.
L’introduzione del divorzio è stata una novità del 1955, anche se esso era già ampiamente riconosciuto dal diritto indù tradizionale, almeno in alcune zone e da alcune caste.
Il diritto statale ammette accanto alla forma di divorzio prevista dalla legge, anche forme di divorzio consuetudinario.

 

 

VII.              CODICE CIVILE, CONSUETUDINI E GIURISPRUDENZA

Il diritto indù  rappresenta lo strato giuridico più antico della tradizione indiana e si trova ad essere una componente ufficiale dell’ordinamento giuridico della repubblica indiana.
Il modello che viene contrapposto è quello di un diritto uniforme e laico, basato sulla cittadinanza e non sull’appartenenza religiosa e comunitaria.
L’adozione di un codice civile uniforme in India, che sappiamo essere previsto nella Costituzione, rappresenterebbe la fine del diritto indù come tale, nella sua vicenda di diritto personale ufficiale nell’esperienza indiana.
A più di cinquant’anni dalla Costituzione, il sistema delle leggi personali resiste ancora e non vi sono segni di un possibile ripensamento.
La scelta del codice sarebbe in contrasto col pluralismo tipico della società indiana; in questo contesto una grande importanza è rivestita dalle consuetudini ove esiste una forte resistenza ad abbandonare le proprie tradizioni distintive e ove è probabile che un codice rimanga ineffettivo.
Inoltre sarebbe scelta di difficile applicazione sul piano tecnico, a causa della grande diversità degli statuti personali attualmente esistenti.
Infine tale scelta potrebbe portare all’accentuarsi del divario tra diritto ufficiale e diritto non ufficiale e vi sarebbe il rischio di una sottrazione a qualsiasi forma di controllo giurisdizionale con la possibile diminuzione di fatto della tutela per i soggetti più deboli.
Dunque, diversi fattori operano contro l’adozione del codice civile in India (soprattutto il fatto che molti settori della cittadinanza considerano il loro diritto personale come parte essenziale della propria religione) e, con molte probabilità, le riforme del diritto di famiglia saranno attuate in modo progressivo e limitato all’interno del sistema delle leggi personali.
Il caso di Shah Bano, una donna musulmana ripudiata, illustra drammaticamente le difficoltà in cui si dibatte l'introduzione di un Codice civile unitario. Shah Bano, una donna musulmana povera, si era rivolta alla Corte per chiedere il mantenimento da parte dell'ex marito e nel 1985 la Corte suprema indiana aveva confermato la decisione dell'Alta corte che aveva imposto al marito di pagare gli alimenti alla moglie.
Ma la Commissione indiana per il diritto personale musulmano aveva accusato la sentenza della Corte suprema di essere una grave interferenza nel diritto personale musulmano e presto le forze politiche e religiose conservatrici, affermando di rappresentare e proteggere gli interessi delle minoranze religiose, esercitarono pressioni sul governo.
Quest'ultimo, guidato dall'allora Primo ministro Rajiv Gandhi, invece di cogliere l'occasione per aprire un ampio dibattito sulle riforme, introdusse una nuova legge che annullò la decisione della Corte suprema.
È una legge controversa che nega giustizia alle donne musulmane. È anche un trionfo dei leader politici e religiosi musulmani maschi che pretendono di essere gli unici portavoce dell'intera popolazione musulmana.
Questi leader si oppongono all'introduzione di un Codice civile unitario, sostenendo che sarebbe un'interferenza nel loro diritto personale religioso. Ma occorre che i leader religiosi reinterpretino le leggi religiose alla luce delle sfide contemporanee.
La domanda chiave è: la libertà di religione può venire usata per sopprimere il diritto all'uguaglianza costituzionalmente garantito degli individui, in particolare delle donne? Il problema vero nasce in questo caso dal conflitto fra i diritti delle minoranze e i diritti delle donne delle comunità minoritarie.
La Costituzione indiana forniva un'alternativa ai Dharmasastra come fondamento del “governo della legge”. La dissonanza normativa introdotta dalla Costituzione nella società indiana tradizionale è ben descritta da Andre Beteille quando sostiene che la società indù è un sistema armonico nel quale la disuguaglianza esiste ed è percepita come legittima, mentre la Costituzione introduce un sistema diacronico nel quale le disuguaglianze esistono ma non sono più legittime.
Oggi, cristiani e musulmani continuano ad avere i loro vecchi diritti personali, con pochissime modifiche, anche se di recente il governo ha cercato di introdurre un nuovo diritto personale per i cristiani, che rende più facile alle donne ottenere il divorzio.
Come è stato osservato da Dieter Conrad, in India l'ordinamento giuridico indiano include una vasta area in cui le regole costituzionali non si applicano o, meglio, non sono applicate dal legislatore o dalle corti.
L'area in questione non è semplicemente una delle molte ramificazioni sfaccettate del diritto e della vita sociale, ma riguarda il nucleo della posizione di un individuo come persona umana nella società.

1.                  LE FONTI DEL DIRITTO INDIANO

Nel corso dei secoli sono state introdotte fonti nuove, che però non si sono sostituite completamente alle fonti più antiche.
Dal periodo coloniale si sono aggiunte alle fonti tradizionali fonti importate dalla cultura giuridica occidentale, che sono state poi confermate nell’India indipendente.
Il periodo coloniale rappresenta perciò uno spartiacque nella storia delle fonti del diritto indù, visto che viene introdotta la distinzione tra fonti tradizionali e moderne.
L’importanza delle fonti tradizionali nel diritto indù moderno è data quindi principalmente dal fatto che attraverso esse si sono formati gli istituti cardine del diritto indù, su cui anche le fonti moderne si sono trovate ad incidere.
Le fonti tradizionali sono ancora oggi considerate fonti del diritto indù; esse sono studiate in tutti i manuali universitari del diritto indù e può capitare che il giudice si trovi a dover far ricorso ad esse.
L’introduzione di fonti moderne di origine statale non ha eliminato le fonti tradizionali, pur avendone diminuito la rilevanza.
Fonti tradizionali e moderne tendono ad interagire tra loro.
Le fonti del  dritto indù tradizionale sono rappresentate principalmente dai trattati sul Dharma, anche se alcune fonti non dharmiche vengono riconosciute dagli interpreti in posizione subordinata.
Le fonti riconosciute come dotate di autorità per la conoscenza del Dharma sono quattro: Sruti, Smrti, Sadacara e Atmanastusti.
La Srutisi identifica con i Veda, i testi sacri della tradizione Indù.
Sono testi formati da inni, canti, formule, a cui si aggiungono trattati di carattere rituale e filosofico. Nella Smirti rientrano diversi tipi di testi.
I più importanti per il diritto sono i Dharmasastrae i Dharmasutra.
In passato considerati gli equivalenti nel contesto indiano dei codici occidentali, ma si tratta in realtà di opere di carattere dottrinale in cui un autore, elabora e sistematizza l’insegnamento sul Dharma.
I Dharmasastra sono testi interpretativi, frutto del sapere di un esperto del Dharma.
Tali testi, ed in genere le opere che rientrano nella Smirti, non possiedono un’autorità autosufficiente, ed essendo opera di esseri umani potrebbero contenere errori ed opinioni personali.
Di conseguenza la loro autorità deve essere fondata sui Veda; le regole contenute nella Smirti sono considerate semplice trasmissione di regole già contenute nei Veda.
I Dharmasastra sono stati a loro volta oggetto di interpretazione dando vita ad altri due tipi di opere, i Commenti e i Digesti.
I Commenti finiscono con l’inglobare il testo commentato, e quelli più autorevoli ne acquistano di fatto la stessa autorità.
Le differenze di interpretazione possono essere alla base di regole diverse adottate in diverse parti dell’India.
Ad esempio le opinioni differenti contenute in due testi, il Dayabhaga e la Mitaksara, sono all’origine di alcune differenze nel regime delle successioni nel Bengala, dove prevale l’autorità del primo testo, ed altre zone dell’India, dove prevale l’autorità del secondo.
I Sadacara, sono le pratiche dei virtuosi, cioè di coloro che sono stati istruiti nei veda.
Si tratta di modelli di comportamento considerati normativi in virtù delle qualità delle persone che li mettono in atto.
Anche i  Sadacara sono una forma di trasmissione non testuale, della conoscenza del Dharma.
Nel  Sadacara si trovano le regole di comportamento corretto per una serie tendenzialmente infinita di situazioni.
L’Atmanastusti consiste nel senso di soddisfazione interiore derivante dal comportarsi nel modo appropriato in un determinato contesto.
E’ fonte del Dharma solo l’approvazione di persone istruite nel Veda e che normalmente si comportano conformemente ad esso.
Questa quarta fonte del Dharma è controversa; secondo Lingat la soddisfazione personale, non avendo un’autorità esterna all’uomo, non deve essere considerata una vera e propria fonte.
E’ possibile vedere la difficoltà che un giurista di civil law può incontrare nel riconoscere agli individui singoli un ruolo nel processo giuridico, difficoltà che si traduce nel disconoscimento di un aspetto essenziale del modello indù.
La svalutazione degli elementi non testuali del diritto indù e la contemporanea sopravvalutazione dei testi della Smirti sembra frutto di un disconoscimento del modello indù, che appiattito sull’esperienze giuridiche occidentali, viene interpretato privilegiandone gli aspetti formali e limitando il ruolo degli individui nel processo di accertamento del Dharma.
I casi di conflitto tra fonti di diversa autorità vengono decisi sulla base di un criterio gerarchico, per cui, tra Veda, Smrti, Sadacara e Atmanastusti, la fonte che precede ha maggiore autorità della seguente.
Se il conflitto si verifica tra due fonti di pari autorità, si ritiene che entrambi i modelli di comportamento siano validi, ed è possibile scegliere tra di essi.
Le fonti, introdotte nel periodo coloniale e confermante nel diritto dell’India indipendente, sono: precedenti giudiziari, equità, justice and good coscience e legislazione.
Si tratta di fonti che rilevano nel diritto indù ufficiale, vale a dire nel diritto indù così come viene applicato nelle corti statali.
Come tali non hanno carattere religioso.
Il diritto indù resta concettualmente indipendente da ogni fonte di carattere statale e rimane fermo il principio per cui è mal tollerata l’idea di un intervento dall’alto nella definizione del diritto seguito dalle diverse comunità.
La legislazione diviene fonte del diritto indù nel periodo coloniale.
Comunque, l’uso della fonte legislativa non ha mai inteso sostituire le altri fonti.
Non si è mai preteso di codificare il diritto indù  e anche le leggi di riforma successive all’indipendenza costituiscono in realtà un intervento mirato.
La legge viene a rappresentare nell’India di oggi una fonte scritta in interazione con il complesso delle consuetudini indù.
La Costituzione è fonte del diritto indù moderno, nel senso che il diritto indù applicato nelle corti non può che essere interpretato alla luce dei principi costituzionali, e l’azione legislativa modernizzatrice si ispira agli stessi principi.
Tutte le norme di diritto indù connesse all’intoccabilità, al sistema delle caste e alle differenze di genere vengono adesso filtrate attraverso i principi costituzionali.
Per quel che riguarda equità, justice, and good coscience, si può osservare che nel diritto indù tradizionale non mancava il riferimento all’equità della decisione, per cui anche una regola del Dharma contenuta in un autorevole Dharmasastra non doveva essere applicata in caso concreto se ciò avesse condotto ad una ingiustizia nel caso singolo.
Ma, in senso tecnico, ci troviamo davanti ad un principio di common law introdotto nell’ applicazione del diritto indù.
Se il giudice inglese che si trovava a dover applicare il diritto indù non trovava la soluzione al caso concreto doveva giudicare in base al suddetto criterio.
In realtà tale criterio veniva applicato non solo in caso di lacuna, ma anche nel caso di mancanza di una regola approvata dai giudici, cioè lacuna ideologica.
L’applicazione di tale criterio finiva per coincidere con l’applicazione di principi del diritto inglese con qualche aggiustamento per adeguarsi alle specificità della situazione indiana.
Mancava l’idea della necessità di conservare tali decisioni contingente che, a differenza dei trattati dottrinali sul Dharma, non aspiravano ad esprimere un Dharma eterno.
Il principio del precedente vincolante è stato introdotto nel periodo coloniale.
A partire dal periodo coloniale i precedenti tendono a far sì che ci sia un ricorso il più limitato possibile ai testi tradizionali.
Per questa via diversi principi di common law sono entrati a far parte del diritto indù.
Un altro aspetto interessante dell’assetto moderno delle fonti riguarda le consuetudini.
L’ampio riconoscimento delle consuetudini nel diritto indù ufficiale è stato temperato dalla definizione legale delle consuetudini, che pone dei limiti alla loro applicabilità.
Deve essere valutata la sua antichità, inoltre deve essere stata osservata senza interruzioni, e deve essere certa. Non deve essere irragionevole, immorale, o contraria ai principi dell’ordinamento.
L’onere della prova dell’esistenza della consuetudine, ricade sul soggetto che intende avvalersene. Le consuetudini possono essere locali, proprie di tribù, comunità, gruppi o famiglie. Il riconoscimento delle norme locali e particolari, permette in molti casi alle diverse comunità di vedersi applicato dalle corti il proprio peculiare diritto tradizionale, pur all’interno di un quadro normativo statale e semplificato.
Il caso del diritto indù fornisce quindi indicazioni importanti sulle interazioni tra diritto statale e diritti religiosi, visto che permette di individuare un modello per cui il diritto statale fa da cornice ad una serie di norme aventi diverse origini. È ufficiale il diritto applicato dallo stato anche se non prodotto da esso. In questo senso, il diritto indù è una componente ufficiale del diritto indiano, pur essendo in gran parte non prodotto dallo stato, o perché la legislazione si è limitata a recepire norme che erano già presenti nel diritto tradizionale o perché si dà applicazione a norme consuetudinarie. Il diritto Indù non ufficiale è seguito dagli Indù su base tradizionale, che in alcuni casi contrasta col diritto Indù ufficiale. Tra i due esiste una relazione dinamica per cui una norma originariamente non ufficiale può divenirlo e viceversa.
In conclusione, il sistema delle fonti del diritto Indù è molto complesso e in esso fonti religiosi come i Veda interagiscono con fonti laiche come la legge. Il diritto Indù ufficiale può essere applicato da giudici che possono anche non essere Indù, ad esempio musulmani o cattolici, in ogni caso questa loro appartenenza non rileva nell’esercizio delle loro funzioni.
L’espressione “diritto degli Indù” indica un diritto prodotto dagli Indù o applicato agli Indù. I due aspetti, normalmente coincidenti, tendono quindi ad essere distinti nel diritto indù moderno in India, definibile come il diritto osservato dagli Indù: composto da norme prodotte all’interno della tradizione e norme aventi origine esterna nella misura in cui riescono a entrare nel diritto vivente indù.

 

VIII.          Il nazionalismo Indù e le comunità cristiane nel paese

Lo status delle comunità cristiane in India, non è attualmente privo di difficoltà, visto che è quasi inesistente l’integrazione con le altre religioni presenti nel paese e la sistematica ostilità da parte degli estremisti indù, che, anche recentemente, riscontra un inasprimento delle violenze.
L’episodio temporalmente più recente, riguarda due chiese cristiane che sono state date alle fiamme nel febbraio del 2010 ed è scoppiata una guerriglia urbana tra cristiani ed estremisti indù.
L’elemento scatenante, riguardava un' immagine di Gesù ritratto con una birra e una sigaretta in mano, pubblicata su un libro delle elementari, adottato nelle scuole di New Delhi.
Le suore ne chiedono il ritiro alle autorità, che subito acconsentono.
Alcuni esponenti dei movimenti estremisti, non sono d’accordo ritenendo l'immagine non censurabile, e l'affiggono sui muri delle città.
Molti giovani cristiani scendono in piazza per protestare, staccando i manifesti. Lo scoppio delle violenze appare inevitabile. La polizia sembra abbia arrestato diversi cristiani, ma nessun estremista indù.
Risulta evidente la strumentalizzazione di un simile episodio, che però non è che l’ultimo anello di una catena  che segnala la recrudescenza di azioni ostili nei confronti dei cristiani in tutta l'India.
A partire dal 2002 è iniziato un crescendo di tensioni e aggressioni.
I fondamentalisti indù hanno incrementato il ritmo delle loro violenze e nel 2006 sono stati almeno 200 gli attacchi portati nei confronti dei cristiani in India. Tra questi spiccano per gravità:
l'uccisione di un parroco a est del paese, l'attacco da parte di 300 fondamentalisti ad una parrocchia in Orissa (nord est), l'uccisione di un altro sacerdote a sud del paese.
Nel 2007, i fondamentalisti indù hanno deciso di dare maggiore risonanza alle proprie azioni, servendosi anche dei mezzi di comunicazione di massa più attuali come le riprese televisive o addirittura la rete di internet, per riuscire ad avere una più ampia visibilità; tutto ciò, unito anche alle riconversioni attuate spesso con la violenza da parte degli estremisti indù. Sono specialmente i Dalit, gli appartenenti all' ultima casta o alla classe sociale più povera e diseredata, le vittime di tali riconversioni forzate dal Cristianesimo all'Induismo.

 

Il fondamentalismo indù si rafforza in molti modi:

  • Campagne di disinformazione: i cristiani vengono diffamati attraverso la distribuzione di cd, opuscoli, siti internet.
  • Legislazione anti conversione: le leggi in gran parte del paese tendono ad impedire alla popolazione indù di cambiare religione.
  • Rafforzamento del dominio induista: è stato introdotto nei pubblici uffici, scuole e altri luoghi statali l'uso di pratiche ed emblemi legati all'induismo. Coloro che vi si oppongono possono essere facilmente identificati, presi di mira e marchiati come “anti nazionalisti”.

 

I cristiani vengono attaccati per diverse ragioni, eccone alcune:

- La dignità dei Dalit e degli oppressi: i primi missionari introdussero nella cultura indiana il Vangelo. I poveri e gli oppressi si interessarono al Vangelo, perché li investiva di dignità e valore intrinseco. Il messaggio che le Scritture indirizzavano loro, conferiva una nuova coscienza di sé e fiducia. Senza dubbio i Dalit furono influenzati da una serie di fattori sia spirituali che materiali, sia psicologici che sociali:  una coscienza risvegliata ha prodotto per i Dalit una trasformazione sociale. La loro conversione a Cristo ha allargato il loro pensiero, affilato le loro menti e conferito loro stima.
- Pertanto il Vangelo di Cristo ha contrastato il sistema tradizionale delle caste e ciò non era accettabile dai promotori del sistema di caste brahmanico che riconosce la persona nella misura in cui questa accetta di sottomettersi ai brahamini. La ragione dietro la persecuzione trovava origine nel messaggio di liberazione dei poveri e degli oppressi  minacciando di destabilizzare i brahamini e le caste induiste.
- Influenza dei missionari sulla cultura e cambiamenti: i missionari non intendevano distruggere la cultura. Hanno tentato di rimuovere quelle pratiche culturalmente incompatibili col Vangelo in funzione del benessere comunitario. Fra queste ricordiamo il matrimonio delle spose bambine, la pratica di bruciare le vedove, l’infanticidio e le caste.
Poiché l'ingiustizia sociale si scontrava con la volontà di Dio, i missionari si sentivano chiamati a combatterla, indipendentemente dal numero di persone che si convertivano per questo motivo.
Tutto ciò era intollerabile da parte delle persone che più beneficiavano di questo sistema iniquo.

  • Fondamenta teologiche: i cristiani in India sono stati più volte interrogati sulla loro fede. L’ostacolo maggiormente frenante è l'affermazione cristiana secondo la quale Cristo è l'unica via verso il cielo. I fondamentalisti hanno chiesto ai cristiani di trovare un compromesso su questo punto e anche questo è stato motivo di scontri violenti. Un altro scoglio è il comportamento altruista con cui i cristiani aiutano i poveri. Le forze indù non tollerano di competere in ciò che loro chiamano lavoro sociale con l'altruismo dei cristiani.
  • L'altra importante questione che oggi affronta la chiesa è la sua stessa sopravvivenza in un ambiente così ostile. Nella situazione che si va sempre più deteriorando, la pressione esercitata sul governo affinché emani delle leggi è la preoccupazione più seria. Un altro aspetto preoccupante è la propaganda diffamatoria che etichetta i cristiani come anti nazionalisti e terroristi.

 

E' di fondamentale importanza che la Chiesa vigili e si avvalga di ogni mezzo legale per dedicarsi alla questione della libertà di religione nel paese.

 

1.                 Le scelte legislative

In India tutto ciò che riguarda la sicurezza del territorio è posto sotto la responsabilità dei vari stati e delle province.
Molti sono gli stati che hanno promulgato leggi più dure nei confronti dei cristiani e dei loro atti di conversione.
Nell'ottobre 2002, il Governatore dello stato indiano del Tamil Nadu ha emesso un'ordinanza mirata a impedire le conversioni al cristianesimo, con il pretesto che esse avvenivano in modo ingannevole.
Se ritenuti colpevoli di questo crimine, i cristiani possono essere condannati fino a tre anni di reclusione.
Allo stesso modo però, sempre nel Tamil Nadu, vengono invece promulgati testi legislativi che inseriscono delle quote riservate alle minoranze religiose in seno all'amministrazione statale, come è avvenuto recentemente nell'agosto del 2007.
Negli ultimi anni diversi Stati hanno emanato leggi più restrittive per quanto riguarda la conversione.
In passato, per convertirsi bastava avvisare un funzionario statale una settimana prima dell'atto di conversione.
Secondo le ultime leggi invece, è necessario chiedere il nulla osta un mese prima ad un magistrato distrettuale che può decidere anche di negarlo. L'obbligo del nulla osta riguarda sia chi desidera convertirsi sia il religioso incaricato di celebrare la cerimonia. Ognuno dei due può essere condannato ad un anno di prigione e al pagamento di una multa qualora non rispettasse la normativa.
Nel Rajasthan è stata presentata nel 2005 una legge che bandisce la conversione nello Stato. Così è stato anche ad inizio del 2007 nello Stato dell' Uttarakhand.
In sostanza queste due leggi bandiscono in generale la conversione nello Stato e, qualora un cittadino decida comunque di convertirsi, deve dimostrare di farlo senza essere stato costretto o portato a farlo in seguito a promesse fraudolente (soldi, vestiti, educazione, ecc).
Secondo alcuni movimenti cristiani, l'onere della prova della conversione volenterosa ricade quindi sul convertito e non più sui responsabili di culto, il che permetterebbe maggiori pressioni sul convertito stesso.
Ciononostante, i governi che intendono promulgare queste leggi, o che lo hanno già fatto, non hanno bandito la professione di religioni diverse da quella indù, poiché viene garantito ai cristiani di celebrare la propria fede. Le difficoltà subentrano in materia di proselitismo, di evangelizzazione.
Secondo il parere dei movimenti estremisti indù, le rimostranze maggiori non vengono rivolte ai cattolici, bensì alle comunità protestanti insediate nei diversi Stati che si affermano per un maggiore slancio verso il “proselitismo”.
I cattolici tendono a vivere secondo una forma maggiormente comunitaria la loro fede e spesso le scuole cattoliche vengono usate anche dagli indiani indù di un certo livello sociale, perché gli istituti cattolici sono ritenuti di maggior successo.

 

 

 

Bibliografia

 

 

 

 

 

ONIDA F.
Il giro del mondo in duecentocinquanta pagine,Il Mulino

ONIDA F., MARGIOTTA BROGLIO F., MIRABELLI C.
Testo di religioni e sistemi giuridici,Il Mulino

FERRARI S.
Introduzione al diritto comparato delle religioni. Ebraismo, Induismo e Islamismo

Costituzione Indiana

L'Osservatore Romano

www.vaticano.va

www.olir.it

www.mapsofindia.com

www.india.gov.in

 

Fonte: https://dirittoecclesiastico.files.wordpress.com/2010/02/india.doc

Sito web da visitare: https://dirittoecclesiastico.files.wordpress.com

Autore del testo:

Basiloni Giulia
Bertoli Mauro
Marrata Fabio
Toccafondi Irene

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