Tecnologia di processo planare

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Tecnologia di processo planare

Appendice A – La tecnologia di processo planare standard

 

Introduzione

La tecnologia con la quale si producono i rivelatori di particelle di ultima generazione è stata mutuata in larga parte dalla tecnologia planare che fu originariamente sviluppata nel campo della microelettronica. J.Kammer nel 1980 la introdusse e la adattò alla produzione di rivelatori di particelle a semiconduttori [KEM80]. Benché agli occhi degli standard attuali la progettazione di tali rivelatori possa sembrare molto semplice, l’esigenza di mantenere un’elevata qualità dei materiali semiconduttori durante tutta la fase di processo, in quegli anni non consentiva un’applicazione diretta della tecnologia. Da allora i rivelatori sono diventati sempre più sofisticati e più vicini alla complessità della microelettronica, tanto che molti dei metodi di processo e diagnostica propri della microelettronica sono stati introdotti nella tecnologia dei rivelatori di particelle.
Benché la densità delle strutture che formano il singolo rivelatore sia molto modesta rispetto a quella propria della microelettronica, le richieste tecnologiche sono spesso molto più stringenti. In particolare la lavorazione di silicio ultrapuro in modo tale da impedire il deteriorarsi delle sue qualità, ad esempio con l’introduzione involontaria di impurezze e difetti, la necessità di lavorare entrambi i lati della fetta di silicio senza danneggiare la parte opposta a quella di lavorazione e la produzione di rivelatori delle dimensioni di una fetta privi di difetti. L’applicazione dei rivelatori per la copertura di grandi aree, inoltre, rappresenta un notevole problema tecnologico ad esempio nel mantenimento di bassi livelli di difettosità su vaste aree. Tutte queste esigenze impediscono di utilizzare la tecnologia elettronica direttamente, ma richiedono lo sviluppo di strumentazioni e procedure speciali.
Una procedura speciale nella produzione dei rivelatori al silicio è quella impiegata per ottenere spessori inferiori allo spessore standard di fetta pur mantenendo inalterate le proprietà di substrato.

 

A.1      La produzione del substrato  [GER01]

I substrati per la produzione dei rivelatori sono spesso acquisiti direttamente dallo stesso produttore che rifornisce anche l’industria dei semiconduttori e microelettronica. Tali substrati sono generalmente cristalli singoli caratterizzati da una struttura cristallina il più possibile perfetta e con il minimo numero possibile di impurezze, ad eccezione degli atomi droganti che sono aggiunti intenzionalmente per variare le proprietà estrinseche del materiale.
Il materiale di partenza del processo di fabbricazione del silicio è rappresentato dalla comune silice (SiO2) dalla quale, tramite riduzione con carbone in fornaci ad arco ad alta temperatura (2000°C) si ottiene il silicio metallurgico. Da quest’ultimo, mediante trattamento con acido cloridrico e distillazione forzata, si ottiene un composto gassoso purissimo, il triclorosilano (SiHCl3) che, a sua volta, viene ridotto con idrogeno ad alta temperatura (attorno a 1100°C), dando origine al materiale policristallino ad uso elettronico. Il metodo descritto prende il nome di “processo Siemens” e, dal punto di vista energetico si dimostra piuttosto intensivo, con un consumo di circa 100kWh per ogni chilogrammo di materiale prodotto.
Per ottenere la voluta struttura cristallografica perfetta il silicio così ottenuto deve essere reso monocristallino mediante ulteriori trattamenti.
Il metodo di cristallizzazione attualmente più diffuso tra le industrie elettroniche è il cosiddetto “processo Czochralski”. Durante questa procedura, il silicio viene fuso a 1414°C in un crogiolo di grafite rivestito di quarzo ad elevato grado di purezza, nel quale viene successivamente immerso un seme di silicio cristallino in lenta rotazione, opportunamente raffreddato. Il seme cristallino viene estratto lentamente generando un lingotto di silicio monocristallino del diametro voluto, a seconda della velocità di estrazione, in cui le impurezze si concentrano nella parte inferiore.
Il silicio monocristallino della qualità in assoluto più elevata si può ottenere tramite un altro metodo, il processo “float-zone”, nel quale il materiale allo stato policristallino viene sagomato in barre cilindriche e quindi fuso localmente con una bobina, tramite induzione a radiofrequenza. La bobina, e quindi la zona in cui si verifica la fusione, viene fatta scorrere (anche più volte) lungo la barra, partendo da un seme monocristallino posto a un’estremità, cosicché il silicio assume la struttura cristallografica voluta senza venire a contatto con elementi estranei.
I lingotti di monocristallo, ottenuti tramite i processi descritti, sono successivamente tagliati in fette sottili le cui superfici vengono rifinite e lappate ed, eventualmente, lucidate. Durante queste operazioni è indispensabile evitare di introdurre difetti all’interno del cristallo come conseguenza degli sforzi meccanici applicati alla superficie. Le fette così trattate da uno o da entrambi i lati costituiscono il punto di partenza della produzione dei rivelatori.

A.2     La sequenza di processo nella tecnologia planare [LUT01]

La caratteristica essenziale della tecnologia planare è quella di crescere o depositare strati sottili uniformi di materiale che vengono poi definiti mediante tecniche litografiche. Anche il profilo di drogaggio può essere definito, facendo uso di strati successivi.
I seguenti passi sono utilizzati ampiamente in varie sequenze:

  • definizione fotolitografica;
  • erosione chimica (umida e asciutta);
  • drogaggio;
  • crescita di strati isolanti mediante reazione chimica con la superficie del semiconduttore (ossidazione);
  • deposizione di strati isolanti o conduttivi prodotti per reazione chimica tra gas (SiO2, Si3N4);
  • deposizione di materiali conduttivi per evaporazione o erosione catodica;
  • trattamenti termici;
  • passivazione.

Molto importanti sono anche i passaggi di pulizia e rimozione (ad esempio del photoresist).

A.2.1    La definizione fotolitografica

La tecnica fotolitografica è utilizzata per trasferire una struttura da una maschera al rivelatore. Per fare questo la fetta di semiconduttore viene prima ricoperta con un sottile (tipicamente circa 1mm) strato di resina fotosensibile, distribuendo una piccola quantità di resina liquida mediante rotazione veloce. Una volta che la resina si sia asciugata viene illuminata con luce UV attraverso la maschera che viene mantenuta in contatto con la fetta oppure mantenuta ad una certa distanza (~10-20mm). L’illuminazione con contatto consente una maggiore risoluzione, ma può produrre errori sistematici nella definizione delle strutture successive, causati da particelle o parti di resina che si attaccano alla maschera. L’illuminazione senza contatto è quindi la tecnica standard di processo. 
A seguito dell’esposizione alla luce la resina viene sviluppata e, nel caso di photoresist di tipo positivo, le zone illuminate vengono eliminate lasciando libera la superficie della fetta che può essere sottoposta a passaggi successivi di erosione o drogaggio.

A.2.2   L’erosione chimica

La superficie della fetta di silicio può essere protetta selettivamente dal photoresist, che è in grado di resistere a molti reagenti chimici erosivi. Il reagente chimico erosivo (etchant) può essere sia liquido che gassoso ed è applicato a tutta la fetta agendo su tutte le parti non protette dal photoresist. Un’importante proprietà del reagente è la sua attività selettiva rispetto ad un particolare materiale.
L’erosione umida è il metodo più comunemente utilizzato, mentre l’erosione ionica asciutta è impiegata meno frequentemente. Il motivo di questa preferenza, va al di là dei minori costi dell’erosione umida, e risiede piuttosto nella possibilità di utilizzare strumentazioni di modeste dimensioni e di evitare quei danni agli strati di ossido che sono comunemente connessi all’erosione asciutta. D’altra parte l’isotropia che caratterizza l’erosione umida è responsabile di un certo grado di penetrazione dell’erosione anche al di sotto dello strato di photoresist. Questa meccanismo va previsto in fase di progettazione.

A.2.3   Il drogaggio

Gli elementi comunemente utilizzati come droganti del silicio sono il boro per il tipo-p, il fosforo e l’arsenico per il tipo-n . Lo scopo del processo di drogaggio è di modificarne il profilo in regioni definite della superficie a partire da substrati a drogaggio uniforme. Per realizzare lo scopo si può procedere per diffusione, per impiantazione o con entrambi i metodi.
Nel processo di diffusione, mantenendo il substrato ad una temperatura elevata, gli atomi donori penetrano dalla superficie nel volume del semiconduttore. La concentrazione di droganti può essere controllata agendo dalla superficie durante tutto il processo, oppure depositando sulla superficie una quantità definita di atomi all’inizio del processo.
Il processo di impiantazione consiste, invece, nel bombardare la fetta con un fascio ionico di energia definita. Gli ioni potranno penetrare nel substrato attraverso le aree di superficie aperte mediante i processi litografici ed erosivi messi in atto nei passaggi precedenti. Nelle altre aree gli ioni verranno fermati dagli strati isolanti, a meno che la loro energia non consenta di oltrepassare anche tali strati. Anche il photoresist può essere utilizzato come schermo durante l’impiantazione.
I processi di diffusione ed impiantazione immettono nel reticolo cristallino del semiconduttore la concentrazione voluta di impurezze, ma ciò non è sufficiente a garantire le proprietà elettriche desiderate. Le impurezze, ad esempio, possono trovarsi in posizioni irregolari all’interno del reticolo, posizioni che non consentono loro di funzionare nel modo corretto, oppure il processo di impiantazione può danneggiare fortemente il reticolo stesso. Per portare gli atomi droganti nelle posizioni corrette e per ricostruire il reticolo, il substrato viene quindi sottoposto ad un trattamento termico.
Per semplificare il processo di definizione dei profili di drogaggio è possibile eseguire l’impiantazione ionica direttamente attraverso gli strati isolanti, ad esempio di SiO2, ciò consente anche di modellare il profilo, ad esempio con lo scopo di avere la maggior concentrazione alla superficie del substrato. I metodi diffusivi introducono nel reticolo un minor numero di difetti, ma, per contro, sono molto meno flessibili dell’impiantazione e richiedono l’uso di gas tossici. L’impiantazione ionica eseguita alle energie standard (20-100keV), d’altra parte, non consente di raggiungere profondità elevate (distanze tipiche sono <1mm) ed è spesso necessario far seguire il processo di impiantazione da un processo di diffusione guidata.

A.2.4   L’ossidazione

Praticamente tutti i rivelatori ed, in generale, i dispositivi a semiconduttore fanno uso di biossido di silicio, SiO2, per passivare la superficie del silicio, cioè per saturare i legami liberi che il silicio mostra in superficie. Ciò avviene all’interfaccia Si-SiO2.
L’ossidazione è ottenuta riscaldando il silicio in ossigeno “secco” a circa 1000°C, oppure in atmosfera umida (H2O). In entrambi i casi l’ossigeno diffonde attraverso lo strato di ossido già formato e reagisce con il silicio all’interfaccia Si-SiO2. Il processo rallenta all’aumentare dello spessore dello strato d’ossido ed è fortemente dipendente dalla temperatura. L’ossidazione è il processo nel quale vengono raggiunte le temperature maggiori e viene eseguita all’inizio di tutta la fase di produzione del rivelatore. A causa dell’elevata temperatura molte delle impurezze e dei difetti del cristallo diventano mobili ed è necessario porre molta attenzione a non introdurne di nuovi.

A.2.5   Deposizione da fase gas

Oltre che fatto crescere a partire dal silicio, il biossido di silicio può, anche, essere depositato a partire da una fase gassosa tramite reazione chimica tra due gas. La deposizione si sviluppa a basse pressioni ed è possibile ottenere molti materiali differenti quali ad esempio il polisilicio ed il nitruro di silicio. Generalmente il risultato della deposizione da fase gas è di ottenere materiali amorfi o policristallini, ma è anche possibile utilizzare questa tecnica per far crescere sulla superficie uno strato monocristallino. Questo metodo è detto di crescita epitassiale ed è caratterizzato dal fatto che lo strato cresce ripetendo la struttura monocristallina del materiale sottostante.

A.2.6   La metallizzazione

Le metallizzazioni sono utilizzate per creare interconnessioni a bassa resistività e per creare le connessioni verso l’esterno. Il metallo più comunemente utilizzato è l’alluminio che può essere depositato in vuoto per evaporazione o per erosione catodica. L’evaporazione è ottenuta scaldando l’alluminio in un crogiolo di tungsteno, mentre nell’erosione catodica un bersaglio di alluminio viene bombardato, e quindi eroso, da ioni (ad esempio di Ar) accelerati da una d.d.p. opportuna.
L’alluminio possiede l’importante caratteristica di diffondere in un certa misura nel silicio, consentendo la formazione di un buon contatto elettrico e meccanico tra i due materiali. Benché l’alluminio possieda un’eccellente conducibilità elettrica, esso è anche caratterizzato da una bassa temperatura di fusione (660°C) che può creare problemi quando siano necessarie più metallizzazioni. In questo caso è necessario frapporre fra due metallizzazioni di alluminio uno strato isolante ottenuto a bassa temperatura, oppure è necessario depositare un primo strato metallico di un materiale resistente alle alte temperature, come, ad esempio, il tungsteno.

A.2.7    La passivazione

A causa dell’ambiente nel quale i rivelatori di radiazione sono utilizzati, in molti casi essi lavorano senza alcuna protezione contro agenti meccanici o chimici che possano danneggiarli. I dispositivi possono, inoltre, essere impiegati per la rivelazione di radiazioni poco penetranti ed in questo caso è fondamentale non frapporre materiali assorbenti tra la radiazione e il dispositivo.
Nei casi in cui l’uso di una protezione è fondamentale si esegue la cosiddetta passivazione della fetta di silicio. Questo processo consiste nel ricoprire la fetta di un robusto strato isolante che viene depositato a bassa temperatura e può essere definito tramite litografia.
I materiali generalmente utilizzati per la passivazione sono:

  • LTO, ossido di silicio depositato a bassa temperatura e bassa pressione;
  • Nitruro di silicio (Si3N4);
  • Phosphorglass;
  • Poliammide, una resina organica simile al photoresist.


Appendice B –Il processo di fabbricazione del silicio

 

Introduzione

Le due caratteristiche tecniche fondamentali del silicio utilizzato per i rivelatori di particelle per la fisica delle alte energie sono: 1. un’elevata resistività; 2. una lunga vita media dei portatori di carica minoritari.
Il silicio di tipo Float Zone, oltre a possedere queste caratteristiche, ha un basso costo di produzione e garantisce una resistività uniforme lungo tutto il wafer e, per questi motivi, è attualmente il materiale utilizzato in tutti i rivelatori al silicio negli esperimenti di fisica per le alte energie. Negli ultimi anni, considerato il benefico effetto dell’ossigeno nei rivelatori irraggiati, si stanno producendo e studiando prototipi di rivelatori che utilizzano silicio cresciuto con tecniche Epitassiale e Czochralski.

B.1 La tecnica Czochralski e Magnetic Cz

La tecnica Czochralski impiega l’apparato riportato in figura B.1. Nel processo di crescita cristallina, il silicio policristallino è posto nel crogiolo e la fornace è riscaldata al di sopra della temperatura di fusione del silicio. Un seme cristallino è introdotto nella miscela fusa (SiO2): parte di esso fonde, ma la punta della parte restante resta in contatto con la superficie liquida. Il seme cristallino viene poi sollevato lentamente, attraverso dei sistemi di rotazione. La solidificazione progressiva all’interfaccia fra solido e liquido genera un monocristallo di grandi dimensioni. Durante il processo la miscela di SiO2 si dissolve gradualmente rilasciando una grossa quantità di ossigeno. Più del 99% evapora dalla superficie della miscela in forma gassosa ma la restante parte rimane nella miscela e diffonde nel cristallo arricchendolo di ossigeno.
Durante la crescita del cristallo, una quantità nota di drogante può essere aggiunta alla miscela fusa al fine di ottenere un cristallo dal drogaggio desiderato.
Per distribuire uniformemente tutte queste impurezze all’interno del lingotto si è pensato di applicare durante la produzione un campo magnetico uniforme: si parla così di silicio di tipo Magnetic Czochralski.

 

Fig. B.1: Apparato per la crescita dei monocristalli Cz

 

B.2 La tecnica Float Zone

Il processo Float Zone, zona fusa mobile, viene utilizzato per far accrescere silicio avente un livello di impurezze più basso di quanto non si possa ottenere con la tecnica MCz. Il processo FZ è rappresentato schematicamente in figura B.2. Un lingotto policristallino di elevata purezza, con il seme cristallino all’estremità inferiore, è mantenuto in posizione verticale e fatto ruotare. Il lingotto è racchiuso in un contenitore di silice all’interno del quale immesso argon. Durante il processo, una piccola zona del cristallo è mantenuta allo stato fuso mediante un riscaldatore a radiofrequenza. Il silicio fuso resta confinato fra due zone di silicio solido, rispettivamente in corso di fusione e di accrescimento, dalla tensione superficiale. Mentre la zona fusa si muove verso l’alto, in corrispondenza del limite inferiore della zona mobile il monocristallo di silicio cresce come una estensione del seme cristallino. Poiché il processo FZ non utilizza nessun crogiolo non ci sono contaminazioni come nella crescita MCz.

 

Fig. B.2: Apparato per la crescita dei monocristalli FZ

 

B.3 Crescita epitassiale

Ci sono diversi metodi di crescita epitassiale [SZE81]; comunque la più utilizzata è l’epitassia da fase vapore (VPE). Per questo tipo di crescita vengono utilizzate diverse sostanze ma la più utilizzata è il tetracloruro di silicio (SiCl4), con una temperatura di reazione di 1500K. La reazione complessiva del tetracloruro è:
SiCl4(gas) + 2H2(gas) Û Si(solido) + 4HCl(gas)
Il drogante viene introdotto contemporaneamente al tetracloruro. Durante la crescita le impurezze diffondono attraverso il substrato di tipo Cz che funge da supporto.        La concentrazione di ossigeno varia al variare dello spessore dello strato epitassiale ed in particolare si all’aumentare dello spessore del substrato epitassiale la concentrazione dell’ossigeno diminuisce e la distribuzione varia. Considerato che la presenza di ossigeno permette di ottenere una maggiore resistenza al danno da radiazione, dovrebbero preferirsi spessori piccoli, con lo svantaggio però che in tal caso si otterrebbe un segnale troppo piccolo al passaggio della particella. È necessario quindi trovare un giusto compromesso: in questo lavoro sono stati studiati substrati di spessore 150μm.

 


Pubblicazioni

 

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Fonte: http://www2.de.unifi.it/Fisica/Bruzzi/appendici%20+%20bibliografia.doc

Sito web da visitare: http://www2.de.unifi.it/

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"Ciò che sappiamo è una goccia, ciò che ignoriamo un oceano!" Isaac Newton. Essendo impossibile tenere a mente l'enorme quantità di informazioni, l'importante è sapere dove ritrovare l'informazione quando questa serve. U. Eco

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