Temi esempi

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Temi esempi

Concorso di narrativa “… mi fai male”

Pubblichiamo i dieci racconti (tra gli oltre 220 pervenuti) selezionati dalla Commissione composta da: Maria Teresa Bellin (Università Ca’ Foscari ), Roberta Brunetti (Il Gazzettino), Monica Giachino (presidente, Università Ca’ Foscari), Alessandro Niero (Università di Bologna), Armando Pajalic (Università Ca’ Foscari).

 

MARCO DE VIDI, Facoltà di Lettere e Filosofia (primo premio)

Tema: la mia famiglia

La mia famiglia è composta da: io (Marco), il mio papà Giulio, la mia mamma Giovanna e mia sorella Valentina. Io ho otto anni, mentre mia sorella ne ha quattro. Io vado alla scuola elementare, ma lei va ancora alla scuola materna (cioè: l’asilo). Poi c’è il mio papà Giulio, che di lavoro fa il vino. Lui mi ha spiegato che nell’azienda dove lavora, ci sono tanti campi e che lui cambia lavoro dipende dalle stagioni; ogni tanto deve raccogliere l’uva; ogni tanto deve schiacciare l’uva per fare il succo; ogni tanto deve mettere il vino nelle bottiglie del vino. E poi c’è la mia mamma Giovanna: lei non va a lavorare, sta a casa con noi e ci racconta le storie. La mia mamma è andata all’università, infatti è molto brava a raccontare le storie; qualche volta, anche, inventa delle storie apposta per noi due. La mia mamma Giovanna non va a lavorare perché preferisce stare a casa con noi e fare le cose di casa: pulire, stirare, cucinare, lavare i piatti e tirare su le foglie del giardino. Ogni tanto il mio papà sgrida la mamma perché non fa bene i lavori a casa, mentre lui a lavorare è molto bravo e tante volte infatti torna tardi dall’azienda del vino. Poi il mio papà è bravo perché quando torna a casa, anche quando è stanco, gioca con noi e qualche volta ci regala dei giochi. A me piace giocare con il papà. A lui piace giocare soprattutto con me, che sono un maschio e quindi possiamo giocare a calcio: io tiro e il mio papà fa le parate.
Perché io poi gioco a calcio in una squadra (il Roncade Associazione Calcio) e faccio il ruolo dell’attaccante. Vorrei diventare un giocatore famoso da grande e per questo mi alleno. A calcio ci vado col pulmino che passa davanti a casa mia; l’autista si chiama Bepi (ma la mamma mi ha detto che forse in verità si chiama: Giuseppe). Io gioco con altri bambini, ma della mia classe c’è solo Matteo Meneghin, che è abbastanza bravo nelle partite, ma gioca nel ruolo del centrocampista. Quando facciamo le partite il mio papà viene sempre; la mia mamma qualche volta, con mia sorella. Anche i genitori di Matteo vengono solo qualche volta allora, il mio papà porta sia me sia Matteo in macchina alle partite. Il mio papà viene alle nostre partite a fare il tifo. Io sono molto contento che lui venga a vedermi; anche per questo, io al mio papà voglio tanto bene. Anche alla mia mamma voglio tanto bene; e anche a mia sorella. Ma alla mia mamma non so se gli voglio bene come al mio papà. La mia mamma non viene quasi mai alle mie partite e non gioca tanto con me; è sempre che fa i lavori di casa e poi è sempre stanca. Il papà ogni tanto gli dice parole e si arrabbia con la mamma. Il papà dice: – Tu sei sempre stanca e non stai con me.
E la mamma allora gli dice: – Io sono stanca perché devo mandare avanti la casa e tu non sai neanche cosa vuol dire.
Quando dice così, il papà si arrabbia. La mia mamma e il mio papà litigano tante volte. Io sono dispiaciuto se litigano e anche mia sorella Valentina. La mia nonna Lina, che è la mamma del mio papà, gli dispiace anche a lei, ogni tanto me lo dice. I nonni che sono il papà e la mamma della mia mamma abitano distante, in un posto che si chiama Trieste. Ogni tanto andiamo a trovarli; ogni tanto però vengono loro a casa nostra. La nonna Lina invece abita vicino a noi. Suo marito (cioè: mio nonno Gabriele) è morto e io quasi non mi ricordo. Mio papà mi dice che era bravo perché lavorava tanto e da solo manteneva tutta la sua famiglia, cioè: sua moglie (mia nonna), i suoi figli (mio papà e i miei zii) e anche qualche suo amico. Anche io penso che mio nonno era bravo e ho pensato, anche, che il mio papà è come lui: lavora tanto e si stanca così tanto per avere i soldi per tutta la sua famiglia, perché gli vuole bene. Ma poi ho pensato che alla mamma qualche volta non gli vuole proprio così bene. È vero che la mamma lo fa arrabbiare (e anche io se faccio arrabbiare la mamma o il papà o la nonna, qualche volta mi arriva una sberla). Ma una volta, quando litigavano, ho visto il mio papà che dava una sberla forte in faccia alla mamma. La mia mamma non ha detto niente e si è messa a piangere. Io ero molto dispiaciuto quel giorno: la mamma piangeva (però piano, non come mia sorella che piange e urla intanto) e il mio papà le diceva cose brutte urlando.
Un giorno la mia nonna Lina mi aveva detto: – Spero che non diventi come tuo papà e tuo nonno. Io ero arrabbiato, perché invece volevo lavorare e essere bravo come loro e il mio lavoro sarà il calciatore. Poi un altro giorno ho pensato che sono d’accordo con la nonna, perché c’era la mia mamma con delle botte sugli occhi e sulla bocca. Io avevo paura e non ci credo che è caduta quando puliva le scale, lei ha detto così. Ma io credo che è colpa del mio papà che gli ha dato le botte.
Maestra io spero che questo tema sia bello e spero di essere abbastanza bravo in italiano, ma spero che lo leggi solo tu e che non lo fai vedere alla mia mamma e al mio papà, perché ho paura che si arrabbiano con me.

 

LISA CARBONIERO, Facoltà di lettere e Filosofia (secondo premio)

Bellissima

Come sei bella.
Me lo ripeteva in continuazione, prima che ci sposassimo. Allora aveva uno sguardo… due occhi… luccicavano, mentre me lo diceva. Anche ora lo dice, a volte meccanicamente, a volte invece con un misto tra arroganza e perversa soddisfazione. Soddisfazione perché è lui la ragione di questa bellezza, il creatore di questo corpo e di questo viso, l’uomo che paga la palestra, le iniezioni di botulino, i vestiti firmati, e tutto quello che mi fa luccicare, compreso l’enorme diamante che porto al dito. L’uomo che pianifica i miei interventi di liposuzione, che decide tinta e taglio dei miei capelli, che mi controlla mentre mangio, mentre parlo con gli altri. Io senza di lui non sarei stata capace di costruirmi questo corpo perfetto, probabilmente avrei già molte zampe di gallina attorno agli occhi, e ci sarebbe qualche traccia di cellulite sulle mie cosce, e forse non me ne importerebbe neppure, come a tutte quelle donne grasse e sciatte che si vedono al supermercato. È lui che devo ringraziare, se non posso concedermi una fettina di dolce nemmeno per il compleanno. Mangio di nascosto un dolce intero e poi lo vomito, di notte, quando non può vedere i miei occhi rossi e gonfi coi capillari rotti per lo sforzo.
Avrei voluto un bambino, mi sarebbe piaciuto essere mamma, ma lui mi ha minacciato: non tirarmi questo scherzetto, mi ha detto. Un figlio lui lo chiama scherzetto. Il mio corpo si evolverebbe, i miei fianchi stretti si allargherebbero per accogliere una nuova piccola vita, il mio viso mano a mano somiglierebbe sempre più ad un frutto troppo maturo, e lui non potrebbe permetterlo. Come farebbe a mostrare il suo trofeo agli amici e ai personaggi in vista che frequenta?
Questa è la mia bellissima moglie, dice sempre, quando deve presentarmi a qualcuno di quell’ambiente. Per me la parola bellissima è una parola violenta, dietro si nasconde la fame, la stanchezza, il dolore, l’impossibilità di piangere. La sua moglie bellissima allora sorride a tutti, perché è questo che deve fare. E mi ritrovo tutti gli occhi puntati addosso, perché sono davvero bellissima, ma non sono gli occhi degli altri a farmi paura, sono i suoi occhi, che mi osservano, mi scrutano, mi controllano in continuazione. Cosa succederebbe se mi mostrassi annoiata, o stanca, o con il trucco sbavato in pubblico?
Ne va della sua reputazione.
Non riesco a lasciarlo, non posso. In fondo non mi hai mai messo le mani addosso. Ha preferito violentarmi dove gli altri non possono vedere, nel fondo dell’anima. Quando sono troppo stanca per fare lo step o gli addominali mi prende per i capelli, mi trascina davanti allo specchio e mi riempie di insulti. Dice che non sono buona a niente, neanche a morire di fame. Poi quando non ce la faccio più e scoppio a piangere presa dalla debolezza, dallo sconforto di questa dorata prigione lui mi prende tra le sue luride braccia, mi accarezza il viso e mi dice che lo fa per me, per il mio bene. Sento il viscido delle sue parole colarmi addosso, quelle parole sono peggio degli insulti. Cosa me ne faccio di questo corpo così avvenente, se devo sempre lottare? A volte vorrei non essere mai stata così bella. Ma chi potrebbe mai amarmi se fossi brutta? Lui dice che senza questi occhi e queste gambe non varrei niente, sono una stupida donna senza carattere, non potrei mai cavarmela nella vita se al fianco non avessi un uomo come lui. Forse ha ragione, non ho nemmeno il coraggio di lasciarlo. Non ho forza di volontà, se non ci fosse la sua supervisione non mi truccherei nemmeno per andare a fare shopping. A volte mi chiedo quanto andrà avanti questa corsa contro il tempo. Non posso restare bella e giovane per sempre, sarebbe un castigo troppo grande. Sogno di svegliarmi un mattino, sogno che siano passati quarant’anni, sogno di essere entrambi vecchissimi, seduti davanti ad un caminetto acceso, con un libro in mano e il caffè sul fuoco, e forse un nipotino sulle ginocchia a cui raccontare una storia. Quando l’ho confidato a lui, ghignando mi ha risposto che preferirebbe vedermi morta che vecchia. Io continuo a sognare, e alla fine della giornata, quando arriva l’imbrunire, il pensiero più dolce è che una giornata in meno mi separa dal mio sogno di felicità.

 

MARIANNA STORELLI, Scuola di Specializzazione per la Formazione degli Insegnanti, (terzo premio)

Un incidente.
Posologia: Leggere con ritmo pulsante

ZITELLA
SINGLE
ZITELLA
NUBILE
ZITELLA
LIBERA
ZITELLA DUNQUE.

La donna che a trentotto anni suonati, è il caso di dire, è musicista, non è in grado di presentare coniuge alcuno alla famiglia d’origine, e non ha figli, quindi non ha neanche fatto una scelta di egoistica prolifica continuità…..questa donna è zitella il che vuol dire sola….il che vuol dire che:

• quando si ammala esce comunque anche d’inverno con meno dieci ed anche col febbrone…
• quando al mattino vorrebbe nutrire di buono il proprio umore controlla le bollette la macchina la revisione assicurazione bollo olio acqua, e la caldaia e la padrona di casa e la connessione internet le rate del telefonino il resoconto della carta di credito lo stipendio che arriva tre mesi dopo mentre l’affitto tre prima…
• quando tutto sembrerebbe andare a rotoli ed in effetti ci va davvero lei ruzzola insieme al tutto e poi si guarda i lividi allo specchio e calcola quanto tempo passerà prima che scompaiano…ormai essa è una macchina di calcolo perfetto di tempi di ripresa.

L’anno passato ha fatto un incidente d’auto…
Si è schiantata contro un muro per stanchezza, o perché lo stato ha deciso che un, in questo caso una, musicista non ha diritto ad una collocazione in cui spendere la propria competenza (ecco che cominciamo ad esprimerci come si deve….gli studi son serviti!!!) .
Difficile fare gli artisti, difficile essere sole single zitelle libere, quello che è, e perseguire le vie dell’arte.
Ad una donna sola serve UNO STIPENDIO.
Non solo uno stipendio ma anche un contratto a tempo indeterminato…sto chiedendo troppo…facciamo determinato ed accontentiamoci…e invece..no…no….no….nooooo!!!!
A progetto noooo!
NOOOOOO!!!
E invece sì. A progetto sì.
Unico modo metodo di sussistenza.
Per questo, per far prima tornando da uno straccio di comunque favolosa e stracciante mattina a scuola sotto contratto a progetto, la musicista sceglie una via di campagna alternativa ed ignota.
E nella via di campagna c’è un serpente, non vivo di vita animale, ma morto e mortale di curve ravvicinate in cui perdere la bussola, specie se la musicista è stanca di pensare sola e di pensare che quel meraviglioso lavoro appena compiuto con bimbi felicemente musicanti di sei anni verrà rimborsato fra tre mesi con un apprezzamento utile a comprarsi un leccalecca. Ed allora succede che la musicista stanca si schianta.
Piove
Curve
Freno
Pattinata
Ghiaia
E la musicista stanca si schianta, e che ridere, ma prima di schiantarsi pensa: il muro o il fosso?
Maledetti fossi di Lombardia dai quali è così dura uscire… muro o fosso? sbrigati… stai per morire …muro o fosso?
MURO.
SALVA.
In ospedale le diranno brava… il fosso morte… brava… il muro salva.
Ma prima dell’ospedale la musicista esce dall’auto perché anche la sorte ridacchia sempre ed il bello è anche quello, se no dopo… cosa raccontare?
Esce da sola e non respira e già in un calcolo da macchina perfetta calcola il danno di un’auto a fisarmonica contro un muro. Macchina da smaltire onerosamente presso sfasciacarrozze e petto di musicista che non consente un respiro regolare.
Il calcolo è presto fatto.
Auto da buttare e musicista da recuperare subito.
Ovviamente non passa nessuno… la sorte ridacchia…
Ovviamente dei due telefonini utili a contrastare il brigantaggio delle tariffe italiane di ladronia, pardon, telefonia mobile, uno è scarico di soldi l’altro scarico di batteria, per dirla in gergo.
L’opzione salvavita è su quello a batteria traditrice: la musicista ha il volto insanguinato ed il respiro ingabbiato in ossa fuori posto, e qui la sorte ridacchia ancora ma si domanda se c’è un limite a spudoratezza ed accanimento; lei sa che ha una sola telefonata da giocare.
Chiama il suo ex compagno, il che non vuol dire che lei sia stata attivista di partito ora fuoriuscita.
No.
Un ex compagno è uno che ha voluto fare il marito senza aprire il conto dall’avvocato.
Un ex compagno è uno che ha detto Questa è la tua casa Questa è la tua famiglia Tu sei mia moglie e poi ha detto Questa non è la tua casa È la mia quindi vai… e tra una cosa e l’altra non è passato lo stupore di nessuno.
L’ex compagno risponde malvolentieri come se spalancasse la bocca a un cavadenti.
Chiama un’ambulanza.
La musicista aspetta sola.
Arriva l’ambulanza con persone di ambulanza che legando tamponando stendendo sentendo tastando domandano “arriva qualcuno per lei?” “ma arriva qualcuno per lei?”
Lei è in Lombardia, gli amici e la famiglia lontani. Lei è della terra in cui Federico stupor mundi ha scelto di collocare l’Ottagono.
In Lombardia in questa mattina in questa stradina di campagna in cui la sua macchina si è accartocciata a fisarmonica lei aspetta di vedere il suo ex compagno.
Stesa in barella vede la sua macchina avvicinarsi.
E la vede voltarsi indietro.
Quando lei, rientrata seguendo il perfetto calcolo dei tempi di ripresa da sé medesima computato, gli chiederà perché, la sua risposta sarà:
“C’era l’ambulanza non eri sola”.

DANIELA ZANINI, Facoltà di Lettere e Filosofia

Afasia

Gli occhi mi bruciano, c'è una sottile lama di luce che taglia il pulviscolo dell'aria e colpisce dritta su di me; e li tormenta questi miei occhi, li scava con avidità fino a che non forza la loro serratura e finalmente gode nel vederli aprirsi.
Ma io non cedo e li stringo fino all'emicrania di chi, per capriccio, per noia, rimane a letto oltre il necessario, con la testardaggine di chi non vuole vedere cosa c'è intorno e con la rassegnazione di chi sa già che cosa ci troverà lì intorno.
Un letto disfatto a metà, un cuscino diventato uno scudo nella notte, vestiti maltrattati sul pavimento, buchi nelle persiane di un verde ormai stanco ed invecchiato, che aprono ogni mattina la porta a questo sole impietoso, un faro piantato in faccia, un obbligo alla vita di cui da tempo non faccio più richiesta.
Sono grossa, mi muovo a fatica, ad essere ingombranti non ci si abitua mai: si vive con un estraneo sulle spalle, con un grosso serpente sempre affamato attorcigliato alla vita, con l'incapacità delle proprie proporzioni. In una stanza piccola come questa urto di continuo contro tutto ciò che la riempie, non riesco ad evitare i colpi che mi infliggono questi inanimati compagni di cella: nonostante ci conviva da tanti anni e conosca a memoria la disposizione di questi pochi vecchi mobili, non abbiamo ancora trovato una tregua, con i loro spigoli affilati colpiscono con cattiveria il mio tragitto, come astuti nemici approfittano del mio dormiveglia per attaccarmi.
Mi alzo dal letto ed è come tuffarsi da un trampolino: trattengo il fiato, stringo i denti, e mi getto nel nuovo giorno che bollente è già esploso da ore, ma che per me è già morto da tempo.
La gente intorno cammina a testa alta, a passo svelto, senza indugi. Li vedo, loro: sono agili, veloci, l'asfalto delle strade non sembra incollare a terra ogni loro passo, nessuno ruba loro l'ossigeno che con fatica hanno conquistato per il gusto di vederli affannare, arrancare, nessuno toglie acqua al loro corpo per lanciargliela villanamente sulla fronte.
Le vetrine lungo le strade sono schiaffi in faccia: mostrano quello che non puoi avere e riflettono con l'impietosa sincerità di uno specchio quello che sei diventato, tutto ciò da cui sei escluso.
I loro tentacoli sfidano la tua volontà e dopo una dura lotta la vincono; tu sai che avvicinarsi ti farà solo del male, sarà solo un breve riepilogo di tutti i tuoi fallimenti, una scheggia sotto l'unghia dei rimorsi, l'invito ad assaggiare una caramella che ha il gusto amaro delle colpe.
Solo nell'ufficio che contiene il mio volume otto ore al giorno riesco a sentirmi piccola: occupo poco spazio, mi rinchiudo nel mio guscio, in un innaturale letargo umano mi obbligano al reale solo voci conosciute ma allo stesso tempo estranee.
I sorrisi sono la fatica più grande e l'invidia più soffocante: guardo chi li usa per condire il pasto di ogni discorso, senza sforzo, con naturalezza: li guardo per imparare, per memorizzare le istruzioni.
Il sorriso vero è quello che illumina gli occhi e li inumidisce di una momentanea allegria, che distende la pelle del viso, corruga la fronte, che distorce la nostra espressione talvolta imbruttendoci, sfigurandoci: ma loro sembrano appartenere ad un universo che non mi ha mai tenuta in considerazione: mentre sorridono sembrano acquistare ancora maggior bellezza, addirittura fascino, quello di chi è qualcosa che non saremo mai e che gli invidieremo per sempre.
I miei sorrisi invece sono prove da teatrino di periferia, plastificati, privi di convinzione, goffi tentativi di un attore mediocre scontento della paga che medita di lasciare il teatro.
Mi chiamano. Il mio nome è solo una sequenza di parole vuote, estranee, poco pronunciate e il cui risultato è un verso fastidioso, poco significante. Nella bocca delle persone è un suono sforzato, una comunicazione necessaria e obbligata che fischia nelle orecchie e impone un contatto, un dialogo insipido, distratto, frettoloso.
Gli uomini sembrano creature innocue a vederli così, dentro ai loro bei vestiti stirati da ufficio, mascherati dal profumo di cui non gli importa il costo, protetti dal loro rispettabile lavoro mentre camminano indaffarati e pensierosi tra le stanze di un palazzo, mentre raccontano fieri della famiglia che hanno messo in piedi più per borghese convenzione che per reale desiderio: ogni tanto si sistemano i capelli, il nodo della cravatta, si asciugano il sudore sulla fronte con cui agosto esercita la sua potenza sotto forma di calore.
Ma soprattutto li guardo mentre stanno in piedi accanto ad una donna senza provare il desiderio di colpirla, di affondarla con un solo colpo. Mi chiedo se quegli uomini siano davvero capaci di inghiottire e metabolizzare la loro rabbia, o nel loro guscio segreto e privato al dì fuori di quel palazzo abbiano anche loro bisogno di confessarla, dimostrarla, azzerarla su un essere che non sarà mai in grado di comprenderla.

Chi usa un coltello per uccidere spesso rimane anch'esso ferito, almeno a se stesso non può nascondere la ricevuta del suo gesto: ma chi colpisce, chi distrugge lentamente un altro corpo con la forza del proprio, se è bravo, se ha preso dimestichezza con il più terribile dei mestieri, può dimenticare tutto in fretta, può fare a pezzi una donna senza vederne poi su di sé le tracce, lavando via il rosso sangue della colpa con un po' di sapone.
É per questo che mi punisce così, ogni giorno al suo rientro quando sa che la nostra casa può trasformarsi in una gabbia in cui sono condannata all'ergastolo, da cui non posso più fuggire: uno scontro corpo a corpo senza intermediari, senza pause né riprese, senza delegare il compito di ferirmi a nessun altro, a nient'altro.
Lo vuole fare lui, a mani piene, mani enormi e forti, cariche di odio, di rabbia senza nome, di adulta ignoranza, di vigliaccheria, di frustrazione covata ed esplosa: le sue mani sono così grandi e veloci che non posso evitarle, non posso vederle, posso solo sentirle nel loro impatto mortale, nel rumore di uno schianto al contatto con la mia pelle.
Gli uomini sono esseri straordinari si dice, si abituano a tutto.
E io al dolore mi sono abituata, davanti ai lividi nello specchio divento cieca, di fronte agli insulti muta, di fronte alle minacce sorda. Tengo gli occhi chiusi e mi ripeto che finirà. Per distrarmi penso già a cosa dire domani a chiunque si insospettirà vedendomi. I lividi sono i sintomi con cui il mio viso si vendicherà di ciò che mi è stato fatto mostrandolo al mondo, senza rispettare la mia vigliacca omertà.
Le sue parole mi spaccano i timpani, mi fanno tremare fin dentro alle viscere; mi parla annullando ogni distanza, invadendo tutto lo spazio che ci separa, come volesse respirare la mia stessa aria, rubarmela per il gusto di vedermi affannare. Il suo alito è dolciastro e nauseante, la fermentazione che avviene al suo interno lo rende riconoscibile ad ogni suo rientro.
Quando mi si scaglia addosso mi trasformo in un essere senza funzioni, un vegetale attaccato alla spina incapace di comunicare e di agire, che subisce in silenzio le scelte che gli altri fanno per lui, che può essere rigirato a piacimento, rivoltato, scardinato, umiliato senza diritto di replica.
Accartocciata su me stessa aspetto solo che la tempesta si plachi, non chiedo aiuto, non imploro pietà, non gli chiedo di fermarsi né gli dico mi fai male.
Come un vecchio pescatore sulla riva aspetto che le acque si plachino, che il mare sfoghi tutta la sua ira per portare al largo, lontano da questo gelido inferno la mia barca, il mio unico riparo isolato dal resto del mondo, dove poter dimenticare e svuotarmi di tutto quello che è rimasto in gola e non si è trasformato in parola, dove potermi lavar via il peccato di tacere.
Ma questa volta la quiete non arriva, anzi le onde mi trascinano ancora di più verso il fondo, mi inghiottono e mi tolgono il respiro, mi tappano la bocca e mi obbligano a soffrire senza gridare, senza tentare di aggrapparmi alla vita.
Qualcosa di caldo mi scivola lento sulla faccia, in bocca ha un sapore strano, dolciastro, ma so che non sono lacrime: un dolore così antico indurisce il cuore fino a prosciugare ogni goccia di pianto rimasta nel fondo dell'anima.
Non posso nemmeno più aprire gli occhi, mi bruciano come se li avessero immersi nel sale, e non posso muovermi perché le catene invisibili delle ferite e dei lividi mi tengono ferma sul pavimento della stanza.
C'è un nucleo caldo nella mia pancia, un calore nuovo e molle, che si sta spargendo lentamente tutt'intorno, lo sento e lo ascolto: è qualcosa di dolce, di rassicurante, che rilassa ogni brandello di carne, che mi tranquillizza fino alla più piccola estremità del mio corpo, mi scioglie i pugni delle mani e distende la barriera serrata dei denti, che dissolve ogni pensiero e cancella ogni ricordo.
Mi lascio cullare da questa nuova sensazione: forse per la prima volta mi sto per addormentare dolcemente, senza pensieri, senza incubi. Forse per la prima volta sono contenta di chiudere gli occhi e ritrovare la voglia per me sconosciuta di sognare.
La sua voce è sempre là, ma ora è distante, ovattata: la sento farsi incomprensibile, non umana, come se qualcuno ne stesse con delicatezza abbassando il volume per non svegliarmi.
Non gli chiedo di aiutarmi, né di salvarmi: la mia salvezza è questo sonno che mi sta catturando e portando in basso, in abisso che diventa oasi, in cui il mio peso svanisce e posso muovermi leggera, dove i pensieri si offuscano ed il sorriso sulla mia bocca nasce spontaneo, dove non esistono più grida ma solo un immenso silenzio in cui trovare quella che ho sempre erroneamente creduto essere l'unica possibile pace.

 

LUIGINA ROMOR, Facoltà di Lettere e Filosofia

Bussano alla porta

Bussano alla porta dell’appartamento. Senza bisogno di sentirne la voce, Anna sa già chi è perché solo Angela ha quel modo di bussare che pare scivoli con le nocche sulle righe della porta d’ingresso.
Faccio finta di niente, si dice Anna, cambia penna (da blu a rossa) e continua a fare i compiti, scrivendo a destra in alto ‘Mestre, il 13 maggio 1976’, mentre sente sua madre andare alla porta e salutare Angela (appunto). Scambio di saluti, invito a prendere un caffè, il solito gentile ma deciso rifiuto, e poi:
“Anna! Angela chiede se lei dai una mano con Tommasino!”
“Mamma, devo finire i compiti!”
“Intanto vieni qua, così non gridiamo da una stanza all’altra! Dai, Anna!”
Di malavoglia si alza e, canticchiando sottovoce una canzone in inglese, la sua nuova passione, eccola salutare Angela e appoggiarsi a sua madre. Angela le è sempre stata simpatica, sin da quando si sono trasferiti da fuori nella loro città, circa un anno fa. Ogni volta che deve stare attenta a Tommaso lei le fa trovare il gelato nel freezer.
“Scusami Anna, ma sono stanca morta. Vorrei riposare solo un’oretta, e lui è là, sveglio come un grillo… solo un’oretta, puoi?”
“Va bene.” La mamma le dà un bacio, fa caldo, ormai è maggio ma il sudore che le scende dietro la nuca, fra i capelli raccolti, non dipende dalla temperatura. Forse ho la febbre, pensa.
Segue Angela nell’appartamento a fianco al loro, vivono in un condominio dove più o meno tutti si salutano e si sorridono gentili; quasi tutte famiglie, con la macchina nuova nel garage.
In cucina il solito odore di cibo, buono però, e di pulito. Tommasino sta seduto nel suo seggiolone, gli occhi pesanti dal sonno. Per l’ennesima volta Anna si domanda perché mai anche Angela debba raccontare bugie. La luce filtra attraverso i buchetti delle tapparelle semichiuse, e vede il pulviscolo danzare nei raggi che tagliano obliqui la cucina.
“Bene, io vado in camera. Fate piano, mi raccomando, il papà di Tommy sta dormendo. Sai che lavorare di notte è faticosissimo?”
Anna fa sì con la testa, anche suo padre a volte deve lavorare di notte. Lei e suo fratello allora fanno pianissimo, anzi, di solito vanno a casa di amici per non disturbare.
Poi, appena Angela se ne va, prende in braccio Tommasino, e lui le riempie la faccia di baci che sanno di biscotti sbriciolati e sono appiccicaticci e umidi. Gli fa il solletico e lui ride e la abbraccia ancora più forte e lei gli fa fare un volo alto alto e lui grida di felicità . Adesso ti porto al galoppo, gli sussurra, e sfreccia in salotto, dietrofront, via al galoppo verso la cucina di nuovo! Altri gridolini
di gioia, ed ecco apparire Angela con il dito sulla bocca, cosa vi ho appena chiesto, scusa Angela.
Mette a sedere Tommasino sul tavolo e lo galvanizza con un altro biscotto, gli fa bubusettete, ma ormai sta definitivamente crollando. Forza, gli dice sottovoce, non ti addormentare bambino, dai.
Il biscotto gli scivola di mano, e sta per mettersi a piangere: niente da fare. Lo trasporta nel suo lettino, in cameretta, e mentre lo appoggia giù lui ha già chiuso gli occhi. Andato.
Piano, pianissimo Anna torna in cucina, dando una rapida occhiata alla porta socchiusa della camera matrimoniale, dov’è tutto buio. Matrimoniale, sì, pensa Anna dentro di sé. Proprio. I miei genitori non sono così, si dice, e neanche quelli di Lisa; anzi, dopo la chiamo; no, non la chiamo dopo. La chiamo più tardi… più tardi.
Si siede in cucina, accanto al tavolo di formica. Sa già cosa ha lasciato Angela, fulminea, mentre Anna portava a letto Tommaso: il cucchiaino per il gelato nel freezer, la salviettina per pulirsi la bocca, e i giornalini porno.
Come al solito, Anna si pesca prima il gelato (la sua coppetta preferita), tentando di non sbattere lo sportello del freezer, sperando che una volta tanto dormano davvero.
Come al solito, la vince la curiosità: mangiando il gelato, Anna legge i giornalini senza capire il significato di quelle parole; senza capire il significato di quelle azioni. Ma con una crescente sensazione, sempre quella, di vuoto nella pancia, giù in basso. Bella. Proibita.
Le storie sono stupefacenti, prendono apposta i fumetti perché sanno che le piacciono; Anna è una lettrice accanita, sorvola quasi le illustrazioni per leggere quelle parole, e quasi non si accorge che è già davanti a lei.
E’ arrivato presto, di solito fa a tempo a finire di leggere almeno un giornalino. La canottiera immacolata, gli slip sempre nuovi. Lei seduta; lui in piedi di fronte a lei.
Neanche il tempo di pulirsi la bocca con la salviettina e già la solita richiesta roca e bisbigliata, carezzandole il viso, di aprire la bocca e fare come nel giornalino. La solita mano sui capelli e poi, veloce, girati e abbassa le mutandine; il solito dolore, acuto, vergognoso, colpevole.
Sì, il nostro segreto. Sì, era buono il gelato.
“Papà di Tommasino…”
“Dimmi, Anna”
“Mi fai male, sempre.”
“Zitta, che si sveglia Tommaso.”
“Sai che domani compio gli anni? Ne faccio dieci”.

 

RICCARDO AGOSTINI, Facoltà di Lettere e Filosofia

Ester

Un giorno, che era freddo, Ester sedeva pensosa alla finestra.
Osservava attonita lo spettacolo bianco come la neve. E desiderava vivere in eterno.
Una persona soltanto, oltre a lei, sapeva tessere le fila dei suoi pensieri; ma Ester ancora non la conosceva.
Ester era una ragazza bellissima. Intelligente, che sapeva piangere e ridere delle cose giuste.
Per questo forse era intelligente.
Non ne sapeva niente di matematica; né di fisica. Erano materie in cui andava male a scuola.
Fuori faceva freddo. La neve riempiva i viali. Ogni tanto qualche macchina tracciava solchi sulla neve fresca che subito neve ancora più fresca ricopriva, cancellando tutto.
Neppure le orme degli uomini venivano risparmiate. Sembrava un presagio della natura.
Come a dire: ora vedrete cari umani chi possiede chi.
Invece era soltanto neve che cadeva, morbidamente.
Scese le scale al buio. Lo faceva spesso perché il fatto di tastare le pareti e dosare il passo sul gradino successivo la faceva sentire sicura di sé.
Scelse di non prendere l’ombrello.
Voleva confrontarsi con la neve che dopotutto cadeva sì, ma poco per volta.
Era una di quelle solite nevicate di capodanno. Senza peso e senza fretta di cadere.
Neve freschissima. Senza un filo di vento. Perpendicolare.
Chiusa la porta alle spalle, Ester si incamminò al torrente della sua città. Sicura, con passo spedito.
Tirò fuori la lingua e chiuse gli occhi. Aveva intenzione di beccare un fiocco di neve pura prima che tutto intorno diventasse nero.
Si trovava in Saalbach straße. Sapeva che sulla destra, dietro al panificio, avrebbe visto la chiesa che frequentava da piccina e l’ampio piazzale in cui giocava urtando le ire del sacrestano, sempre preoccupato per i fiori dei suoi vasi a terra.
Una volta Ester aveva giocato a calcio con alcuni maschi del catechismo e aveva tirato la palla talmente forte da rovesciare due vasi di tulipani.
Il sacrestano, avvisato dalle risate dei bambini e dal rumore di cocci in frantumi, era uscito per rincorrerla mentre lei già fuggiva verso il torrente.
Ecco perché ora Ester stava andando proprio là. Era il suo luogo preferito in cui passare il tempo. Guardare l’acqua scivolare sui sassi era rilassante, diceva.
Pianse senza lacrime per un minuto intero, singhiozzando sul bordo del parapetto, guardando il torrente. Si sedette sul bordo con le gambe a penzoloni e la testa chinata.
I capelli bianchi di neve. Una lacrima scese e cadendo si ghiacciò.
Alcune ore più tardi due gendarmi videro un corpo violaceo coi capelli biondi incastrato fra due spuntoni di ghiaccio a due dozzine di metri dal ponte. Diedero immediatamente l'allarme.
“Nebbia fitta e malumore sociale per tutti.” Annunciò il sacrestano pulendo un altro calice.

 

VALENTINA BIN, Facoltà di Lettere e Filosofia

Carta straccia

Ogni volta che entro in un edificio pubblico è la stessa storia, sempre la solita gaffe del tirare/spingere. Non provo nemmeno più imbarazzo.
Le porte del commissariato si aprono a fatica. L’atrio è angusto, brutto, grigio. C’è un’irritante pianta in un vaso abbandonato in un angolo, imbarazzante tentativo di dare un’aura bucolica ad un buco. Apro maldestramente la porta. Il commissario è curvo davanti allo schermo del computer, aggeggio con il quale non ha evidentemente molta dimestichezza, a giudicare dallo sguardo ottusamente interrogativo. “Ho una denuncia da fare” dico, senza tanti preamboli e convenevoli, con un tono insolitamente sommesso e monocorde.
“Che strano, non ho sentito bussare. Bè signorina, si accomodi.” Risponde lui, tradendo nell’espressione un certo tedio nei confronti del mio racconto, peraltro nemmeno intrapreso. Il rumore causato dall’attrito tra la sedia, troppo pesante da sollevare, e le piastrelle, interrompe bruscamente il mio silenzio. Dopo la Cosa ho un sussulto ogni volta che avverto una discontinuità, una stonatura, uno strappo. Sono stanca, mi siedo.
Il commissario mi guarda in modo stancamente accigliato, fiaccamente cortese. “Allora, mi dica” un incipit secco diretto, formale quanto basta.
Anzi no, non basta. E ora, da dove inizio? Forse dal convincermi che tutto ciò è necessario, fisiologico. Il rapporto tra abuso e denuncia è una ferrea concatenazione causale, com’è vero che la notte precede l’alba. Sono già passati tre giorni, almeno quindici docce e altrettanti bagni. D’acqua e lacrime. Mi pare più che sufficiente. Il problema è che il male non si consuma nell’attimo, per qualche perversione autolesionista della psiche torna, inesorabilmente, ad agitare voluttuosamente le già torbide acque degli animi lacerati. Una violenza è un marchio, cicatrice infetta e pulsante di uno strappo, focolaio di sensi di colpa, vergogna, paure. Dolore. Dolore capace di distruggere ogni costruzione. E’ la nostra vulnerabilità sbattuta in faccia, senza facoltà d’appello, che ci fa sentire merce avariata. Possiamo solo piangere gridare dimenarci, sentirci morire. É tutto quello che c’è concesso.
Una vita passata a edificarci, a migliorarci, a proteggerci. A che cosa è servito?
Un atto villano mette in ombra ogni intelligenza, diceva Schopenhauer. E ogni dignità, aggiungo io.
La dignità è una cosa che solitamente arriva dal cielo, ma va consolidata e confermata tutti i giorni della nostra vita. È un impegno costante. Non pensavo bastasse così poco, un atto meramente fisico, per mandare all’aria anni di lavoro. Per farmi sentire un panno schifosamente laido. Rifiuto di ricordare l’atto che ora mi fa sentire un rifiuto, ogni volta che ci ripenso mi viene da vomitare. L’uomo non è abituato ai precipizi, alle cadute repentine, sappiamo destreggiarci solo nel fluire delle cose. Quando ci capita di trovarci davanti ad una brusca e destabilizzante rottura siamo persi.
Se l’evento è causa di sofferenza, in un primo momento siamo impauriti, poi arrabbiati. Poi vuoti. Nel mio caso sono vuota e vergognosa, in linea con l’assurdo paradosso della vittima che si sente colpevole. Ecco, è così che mi sento, questo è il mio itinerario emozionale in ultima, fredda analisi. Morta ma clinicamente viva.
Mi sento insostenibilmente pesante. Non mi sopporto in questo modo. Non serve ammazzare per uccidere. Chissà se quel bastardo ci ha mai pensato... no, non cred...“Signorina, io posso capire che lei sia turbata, ma se non mi dice cosa deve denunciare non posso aiutarla. Io sono molto paziente, ma non possiamo stare qui fino a domani.”. Il commissario ha fretta, è meglio se sputo il rospo. Non devo tralasciare nessun particolare. È irritato.
Ora m’ignora. Ha raccolto un foglio da un cassetto, lo sta leggendo con avidità, pare molto interessato. Si mette gli occhiali, che stanno calati sul naso a metà via. Non tralascia nemmeno una riga, qualche volta sottolinea con una matita, qualche volta annota qualcosa ai margini.
Sembra irrequieto, irritato, insoddisfatto. La fronte madida di sudore, aggrottata, sorretta nervosamente dalle robuste mani, è sempre più china sul foglio.
Ad un certo punto sbuffa, si passa la fronte e la guancia con la mano, si stropiccia gli occhi. Accartoccia distrattamente e vigorosamente il foglio. Rabbrividisco nel sentire le croccanti pieghe di carta che paiono friggere per effetto dello sfregamento. Non è solo un rumore fastidioso. É raccapricciante.
Il commissario lancia la poltiglia nel cestino all’angolo. Canestro.
Che cosa rimane ora di quello che vi era scritto? Non ha più importanza.
Misera la sorte di quel foglio, scritto con tanta perizia per poi essere letto in fretta, maltrattato e gettato.
Una fulminea perdita di status, da nobile documento a rifiuto, come vuoto, perché non più degno di esser letto.
Così mi sono alzata e me ne sono andata, conscia che la vendetta è un’esigenza dei vivi.

 

FABIOLA MANIEZZO, Facoltà di Lettere e Filosofia

Confini

Sedeva sulla panchina, di fianco al binario, a soli due metri dal passaggio dei treni che avveniva ridondante ad ogni mezz’ora.
Era l’unico posto che le concedesse l’impressione che qualcosa di estraneo e potente potesse agire sul complesso scompaginato della sua anima.
Si recava in stazione almeno due volte alla settimana e sedeva lì, in attesa che passasse il treno che le avrebbe strappato via le viscere e con esse quella bestia nera che vi stava avvinghiata.
Sapeva che ormai non avrebbe più potuto eliminare la belva da sola, aveva permesso per troppo tempo che essa conficcasse i suoi artigli, lì, nello stomaco dove la sentiva maggiormente presente.
I treni con il loro scorrere tormentoso, le concedevano l’illusione di una potenza indomabile a cui nemmeno la fin troppo radicata “bestiaccia nera” avrebbe potuto opporre resistenza.
L’altoparlante annuncia il transito del treno al binario uno.
“Ecco, ci siamo” pensa Rebecca “pochi istanti e tutto sarà finito”.
Ascolta lo scampanellio che precede l’abbassarsi delle sbarre pochi metri più in là. Sporge il più possibile in fuori la sua persona, in modo che la forza perturbante del treno potesse frantumarla, concedendole la possibilità di ricomporre i pezzi in una maniera meno dolorosa.
I suoi occhi cominciano a cogliere la testa del suo salvatore. Prima ancora un fischio assordante sorretto dal fracasso più uniforme delle rotaie l’aveva invasa senza chiedere permesso.
Ed infine, l’ultima percezione visiva: lo scorrere indefinito delle carrozze, accompagnato dalla speranza che la lucidità, recuperata dopo il passaggio dell’ultimo vagone, le avrebbe permesso di scorgere, sul fondo di questo, la bestiaccia. Sì, proprio lì attaccata alla fine del treno che l’aveva strappata dalle sue viscere restituendole un sollievo da tempo dimenticato.
L’ultimo vagone si allontana. Fine del fracasso. Soltanto una scia: amarezza per un’illusione svanita.
Rebecca fa riposare le orecchie, abbassa gli occhi e si guarda la mano per poi appoggiarla all’altezza dello stomaco, riprendendo ad accarezzare la belva, quasi a scusarsi per averla nuovamente esposta ad un turbine così intenso.
Erano passati già quattro anni dalla prima volta che aveva incontrato Gabriele alla sala ristoro riservata agli impiegati di quel grigio complesso di uffici, nei quali, senza sapere bene come, era capitata a lavorare.
Lui le era venuto incontro, con un sorriso fra la timidezza e la sfida, chiedendole se aveva della moneta.
Rebecca gli aveva sfiorato la mano porgendogli le monetine che con la sua previdente indifferenza aveva preparato per la giornata.
Era stato il modo in cui Gabriele le aveva fatte roteare nella fessura della macchinetta automatica a farla ridestare dalla sensazione di gelido meccanicismo che sempre aveva provato in quel luogo.
Una curiosità nacque per acquietarsi sullo sguardo di lui, trovando pace e sicurezza.
Da quel giorno non fece altro che seguire il percorso che Gabriele sembrava aver già preordinato per lei, esattamente con la stessa aria di precognizione con cui aveva infilato le scintillanti monetine all’interno del distributore automatico. Rebecca ebbe l’impressione di aver finalmente trovato i suoi confini, la sua strada, la sua meta.
Purtroppo gli argini che inizialmente sembravano darle la possibilità di scorrere in maniera impetuosa diventarono ben presto la potenza limitante del corpo di lui.
Fin da quando il padre se n’era andato, nei primi anni della sua infanzia, la sua vita si era svolta in maniera sconnessa e con le dita aveva sempre cercato di percepire quella linea rassicurante del braccio maschile che potesse farle ricordare chi era.
Le braccia di Gabriele sembravano averglielo permesso, salvo stringere il cerchio della sua consapevolezza troppo energicamente, troppo violentemente.
Il corpo di Gabriele aveva disegnato i termini del suo fluire, la mappa da seguire, la sicurezza che poi l’aveva cristallizzata nell’inferno caldo e sicuro di cui non poteva più fare a meno.
Si muoveva all’interno di questo labirinto andando continuamente a sbattere contro pareti di pugni e lividi.
Ella si concedeva l’unico lusso di sedere nei pressi dei binari, alla stazione, per poter guardare altri percorsi metallicamente ordinati, ma aperti ad un orizzonte infinito che a lei non era più concesso.
Quel giorno, come sempre, Rebecca portò con sé quel feroce groviglio di miseria e dolore, quella fiera artigliata al suo stomaco.
Lo scampanellio, l’altoparlante, l’accostarsi metallico delle sbarre, il fragore delle rotaie, un fischio e poi un altro più stridente, più netto.
Rebecca scosta la mano dal ventre per brandire l’impugnatura della valigia.
Il treno si ferma, questa volta lei è in piedi sulla linea gialla a pochi centimetri dall’ingresso della carrozza.
Afferra la maniglia, la tira verso di sé. La porta si apre e con essa l’orizzonte del possibile prima inaccessibile.
Il treno riparte.
Dalla panchina dov’è rimasta, con i suoi occhi scintillanti la belva nera osserva lo svanire dell’ultimo vagone.

 

GIACOMO PISTOLATO, Facoltà di Lettere e Filosofia

L’ombra della sera

Sul fuoco, alto, l’acqua bolliva già da un po’. Il soffritto era ormai imbrunito e una leggera scia di fumo bianco si levava in direzione della finestra aperta. Ettore, un soriano pigro e soffice, sonnecchiava distratto sul tavolo spoglio della cucina. Dal vecchio quattordici pollici mal sintonizzato - sempre sullo stesso canale - tuonavano a volume troppo alto le insipide notizie della giornata. Fuori, in strada, un vociare sconnesso sembrava presagire un frettoloso litigio, prima di risolversi speditamente in sonore e scomposte risate.
Sotto la luce fioca di un lampadario malandato a soffitto, Elena fissava ancora una volta i fornelli, senza vederli. Dopo tanti anni, non ricordava più quando fosse stata l’ultima volta in cui avesse provato piacere a cucinare. Un tempo, tirare la pasta e arrostire bistecche non le pesava per niente, anzi. Non sapeva perché, ma condire sughi e pulire il pesce la faceva sentire libera, le sembrava un modo per esprimersi; anche se, forse, l’unico, tra le mura di casa. Preparare manicaretti per suo marito, soddisfare il suo appetito, piuttosto che il suo palato di certo non raffinato, la faceva sentire, se non apprezzata, quantomeno utile. Già, utile.
Quarant’anni anni dopo, davanti a quegli stessi fornelli, sentirsi utile la faceva rabbrividire.
Mentre l’acqua nella pentola sul fuoco si consumava velocemente, e le carote e le cipolle nella padella erano ormai bruciate, la mente di Elena migrava da tutt’altra parte. Conosceva bene quelle divagazioni. Non era la prima volta. E di sicuro la cucina non era il luogo privilegiato delle sue fughe immaginarie. Nel letto prima di addormentarsi, davanti allo specchio del bagno, in coda alle Poste, il suo pensiero viaggiava non in direzione di mondi lontani e paradisi tropicali, ma più semplicemente in cerca di un universo parallelo, tanto vicino quanto irraggiungibile, testimone della sua vita come avrebbe voluto che fosse. Una volta, al supermercato, una cassiera doveva aver aspettato almeno un minuto prima che Elena rivestisse i panni del presente e mettesse mano al portafogli. Non era infrequente che la gente la guardasse perplessa e interdetta.
Ripensava spesso alle sue passioni di una volta, quelle che, quand’era più giovane, coltivava con gioiosa partecipazione. Pensava al teatro, al cinema, alle passeggiate senza una meta precisa e alle sue amiche. Da quanto non sentiva le sue amiche. Non riusciva a ricordarsi nemmeno quand’era stata per l’ultima volta a vedere un film in sala. E non riusciva a capacitarsene.
Ora, fissando i muri ingialliti della cucina, il mobilio datato e quell’atmosfera opprimente, non capiva cosa avesse sbagliato. Lo capiva, anzi. Ma il dolore veniva dalla rassegnazione a non avere le forze per cambiare le cose, sentendosi di giorno in giorno sempre più affaticata, reclusa in un’esistenza che non era la sua. Quando era iniziato tutto questo? Come? Quando aveva smesso di dare ascolto a se stessa e iniziato a farsi sminuire, a subire gli stati d’animo in cui suo marito la relegava?
Quante ore aveva passato in quella cucina ad aspettarlo, davanti alla televisione. E quante volte lui era rientrato a notte fonda. O non era rientrato affatto. «È un padre amorevole», si diceva Elena per consolarsi, «Porta a casa lo stipendio, ha bisogno di tempo per sé». Quante volte aveva assecondato le sue verità, le sue intimidazioni verbali. Lui non aveva mai alzato le mani su di lei, neanche una volta, anche se le loro urla, spesso, si sentivano a isolati di distanza; ma il suo crudele egocentrismo la feriva come uno schiaffo al cuore. I desideri di Elena e le sue speranze sembravano essere implosi sotto il peso dell’egoismo del consorte.
Per quanto emancipata pensasse di essere, non c’era voluto molto anche ad Elena per entrare nel bieco circolo vizioso della sudditanza, della subordinazione cronica, della prevaricazione in nome di chissà quale arcaico principio. Pensando a sua madre, e poi a sua nonna, si era detta: «Non sarò come loro. Sarò libera, felice». Poi la paura per i figli, per la famiglia, il timore di non farcela da sola.
La cucina era ormai piena di fumo. Ettore, il gatto, era fuggito verso il corridoio miagolando, e le voci dalla televisione - finti applausi e musiche da due soldi di un gioco a premi qualunque - suonavano ancor più irreali in mezzo a quella nebbia pesante. Elena, destatasi dai pensieri in cui si era rinchiusa, si affrettava a togliere le pentole dal fuoco e a gettarle nel lavandino, sventolando con decisione il canovaccio che teneva tra le mani per cercare di diradare quel fumo.
Appoggiata alla finestra, Elena respirava avidamente in cerca di ossigeno. La luce del tramonto infondeva ora una pacata serenità alla via sotto casa, mentre il canto degli storni forniva l’ideale colonna sonora a quell’attimo di pace che avrebbe voluto fermare per sempre.
La porta d’ingresso fece un gran rumore chiudendosi: «Elena! Sono qui, che c’è in tavola?».

 

GIULIA SCIANNA, Facoltà di Lingue e Letterature Straniere

 

Avevo imparato a riconoscere i segnali. Gli occhi arrossati, stanchi e pieni di fuoco allo stesso tempo. Il respiro rumoroso, come vento dalle narici. Le spalle, le braccia che palpitavano di violenza. E quel silenzio terribile che aspettava solo una mossa di mio padre per ridursi in frantumi.
Guardavo mia madre. Vedevo il suo viso irrigidirsi, caricarsi di tremore in attesa dell’esplosione, e intanto sentivo la paura arrampicarsi dallo stomaco su fino in gola. Non riuscivo a non osservare le mani di mio padre. Grandi, brune, forti. Le linee della pelle sporche di nero, dopo le ore a lavorare in officina. Le fissavo e desideravo che il mio sguardo fosse capace di bloccarle, di tenerle al loro giusto posto.
Come cominciammo a cenare, accadde. Tutto si svolgeva sempre nello stesso modo. Era sufficiente una sciocchezza per far partire l’inferno. Un oggetto nel posto sbagliato, qualcosa che non andava nel mangiare, il volume della televisione troppo alto.
A mio padre, quella sera, bastò un bicchiere d’acqua rovesciato sulla tavola. Scivolò di mano a mia madre un attimo prima di essere posato. Osservai il liquido correre sulla tovaglia, impregnare il tessuto e infilarsi sotto il mio piatto.
Con uno scatto mia madre si alzò e prese lo strofinaccio dei piatti. Si affannava cercando di rimediare, come se asciugare quella chiazza umida volesse dire asciugare il marcio cresciuto nell’uomo con cui mangiava e dormiva tutti i giorni.
Quando mio padre scagliò il suo piatto a terra, lei mi guardò e mi disse di andare. Potevo vedere la furia scatenarsi sugli oggetti, poi dovevo scappare in camera e chiudere la porta, per proteggere gli occhi. Credo che mia madre pensasse questo.
Quella volta non ubbidii. Alla voce grossa, al pianto, al rumore delle sedie spinte a terra e dei bicchieri frantumati volli aggiungere le immagini. Mi nascosi dietro lo stipite della porta del salotto, che comunicava con la cucina, sporgendo solo con il viso, e stetti a guardare.
Mia madre prese a raccogliere i cocci ed il cibo sparsi sul pavimento. Lui fece per versarsi del vino ma di colpo scagliò via la bottiglia, che andò a schizzare di rosso il muro. Poi si alzò, iniziando a muoversi rabbioso per la stanza, e le si avvicinò. Lei stava con la schiena appoggiata al piano del lavandino, stringendosi tutta come se cercasse disperatamente altro spazio in cui fuggire. Il primo colpo arrivò sul volto. Tutto il corpo si accartocciò, percorso da quella scarica di potenza. Lui la sovrastava, urlandole sulla testa, e poi di nuovo giù le mani, mentre lei cercava di scappare, ma veniva riafferrata, strattonata, sbattuta a terra. Balbettava scuse per placarlo, assecondando le parole che esplodevano dalla sua bocca. Il mio corpo si scuoteva assieme a quello di mia madre e dalle labbra usciva sussurrata una preghiera perché mio padre smettesse di farci male.

C’era puzza di olio di lino in cantina. E di muffa. Mi pizzicavano le narici e avevo la punta del naso infreddolita. Avrei voluto avere una camicia addosso e non quella maglietta talmente fina che ci si vedeva attraverso. Lì sotto l’umidità stuzzicava la pelle anche se fuori c’erano trenta gradi e un fastidioso senso di freddo cominciava a pungere ogni parte del corpo scoperta.
Dovevo inchiodare dei listelli a delle lunghe tavole di legno che sarebbero servite a mio padre come mensole. Aveva detto che era ora, a undici anni, che cominciassi a cavarmela in quel genere di lavori. Pretese di aiutarmi, almeno all’inizio, anche se non ne avevo bisogno e la sua vicinanza non faceva che agitarmi.
Lui teneva fermi i pezzi mentre io piantavo i chiodi. I miei occhi continuavano a cadere sulle sue mani solide e nude. Non indossava i soliti guanti scuri da lavoro. Le vene in rilievo parevano acqua che si snodasse tra la roccia, e la carne di quelle mani era roccia. Battevo i chiodi, li affondavo nel legno e rivedevo le macchie di cipria sul volto di mia madre, e la sua maglia con le maniche lunghe ed il collo alto nonostante il caldo. Quella mattina, come sempre, era toccato a lei nascondere la colpa. Lei, con le carezze, le labbra a sfiorarmi la fronte, i miei biscotti preferiti in tavola, si era caricata del compito di chiedere perdono.
La rabbia che in silenzio mi era cresciuta dentro, quando avevo sentito, visto, una volta dopo l’altra, ed ero rimasto fermo, trovò uno spiraglio da cui schizzare via. Con la rapidità e l’impeto di un fulmine che crepa il cielo, corse dal fondo fino alla testa, mi pervase il corpo e s’impossessò del mio braccio. Alzai il martello e di proposito, violentemente, colpii la mano di mio padre.

Fonte: http://www.unive.it/media/allegato/comitato/cpo/Racconti_Concorso_di_narrativa.doc

Sito web da visitare: http://www.unive.it/

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