Tesina sull' elettricità

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Tesina sull' elettricità

Argomento Energia
LA POLITICA ENERGETICA IN ITALIA (RAPPORTO ITALIA 2004)
Gaetano Borrelli


Introduzione
La politica energetica in Italia è attualmente segnata dalla liberalizzazione del mercato e dal riposizionamento delle decisioni dal livello centrale a quello periferico. Il peso dello Stato nelle principali aziende del settore, Enel per l’elettricità ed Eni per il petrolio e il gas, è andato via via diminuendo nel senso di un maggiore orientamento di questi settori verso l’economia di mercato.
Avvenimenti come la ratifica del Protocollo di Kyoto che, va ricordato, impone una riduzione dei gas a effetto serra per l’Italia del 6,5% rispetto ai valori del 1990 ed entro il 2010, sono stati indicativi nella scelta italiana verso una politica energetica che riduca l’uso dei combustibili fossili a favore delle fonti rinnovabili.
La politica energetica italiana quindi, come quella di altri paesi dell’Europa, cerca di conciliare tre elementi ritenuti fondamentali:
o la sicurezza degli approvvigionamenti energetici;
o la liberalizzazione del mercato;
o la mitigazione dei cambiamenti climatici.
La necessità di conciliare queste tre esigenze, come notato dall’IEA (International Energy Agency), si scontra molto spesso con il sistema italiano, infatti: «Investimenti tempestivi nei settori della produzione, trasporto e distribuzione di energia sono essenziali per garantire la sicurezza dei rifornimenti energetici e una concorrenza più attiva. In Italia l’elevato livello di resistenza locale alle nuove infrastrutture diventa sempre più preoccupante nel contesto del trasferimento delle competenze alle autorità locali. L’incertezza concernente la responsabilità nell’approvazione dei nuovi progetti in campo energetico e la complessità delle procedure di autorizzazione sono le conseguenze dei cambiamenti giuridici introdotti per attuare il decentramento delle competenze» (International Energy Agency, Energy policies of IEA Countries - Italy, 2003 Review).
Uno sguardo alla situazione internazionale
A causa della bassa crescita dell’economia mondiale, che nel 2001 si è attestata al 2,2% (valore al di sotto della media degli ultimi venti anni), si è registrata una bassa crescita anche dei consumi mondiali di energia primaria.
Il fenomeno è dipeso soprattutto dalla domanda USA dove i consumi si sono nettamente contratti. Come dimostra uno studio dell’ENEA, la domanda energetica ha registrato un aumento sostanziale, se la si considera al netto della domanda USA (ENEA, 2002).

Grafico 1 - Domanda di energia nel mondo
Fonte: Elaborazione Eurispes su dati ENEA.

Per quanto riguarda le diverse fonti energetiche, considerando che il rallentamento della crescita della domanda le riguarda tutte, la situazione appare alquanto differenziata. Il petrolio mostra una certa tendenza alla stabilità, mentre il gas naturale e il carbone crescono. La crescita di energia elettrica, prodotta tramite il nucleare, registra un aumento superiore alla media mentre si è ampiamente ridotta la quota prodotta con l’idroelettrico. Il grafico seguente mostra il rapporto tra il PIL (Prodotto Interno Lordo) e la domanda mondiale di carbone, petrolio e gas.
Grafico 2 - PIL e domanda mondiale di carbone, petrolio e gas nel mondo (1990=100)
Fonte: Elaborazione Eurispes su dati ENEA.
In ogni caso, il petrolio oggi continua a soddisfare il 38% del fabbisogno energetico mondiale, mentre il carbone, grazie all’utilizzo che di esso fanno alcuni paesi asiatici come la Cina, resta la seconda fonte energetica seguita dal gas.
In questa situazione molti paesi europei, tra cui l’Italia, continuano ad avere il problema della continuità certa dei rifornimenti in quanto più del 65% del petrolio e il 36% del gas naturale si trovano in Medio Oriente, in un area del mondo soggetta a forti tensioni politiche ed economiche.
A questo si aggiunga la necessità di una politica che tenga conto di nuove esigenze ambientali che non possono essere soddisfatte con l’uso delle tre fonti citate in quanto tutte forti produttrici di gas a effetto serra.
Sebbene il summit di Genova del luglio 2001 (G8, ovvero i sette paesi più industrializzati più la Federazione Russa) abbia riconosciuto i positivi effetti sull’ambiente delle fonti rinnovabili, la ricerca e lo sviluppo di tali fonti non sembrano ad oggi in grado di garantire una certa continuità nell’approvvigionamento energetico a costi competitivi.
La situazione italiana
È necessario, con riferimento al nostro Paese, un breve cenno alla situazione ed alla evoluzione economica rispetto ai due poli energetici principali: il mercato dell’elettricità e quello del gas.
In un recente Rapporto del Ministero dell’Economia e delle Finanze, la situazione del mercato dell’elettricità e del gas viene sinteticamente così riassunta: «Nel mercato dell’elettricità e del gas, la liberalizzazione dipende dalla progressiva eliminazione delle differenze di prezzo tra differenti categorie di clienti che non è giustificata dalla differenza dei costi. La qualità del servizio è garantita e soggetta a continue verifiche. Grazie a un ampio set di regole che coprono molti aspetti di questo servizio e alla introduzione di standard nazionali uniformi. Nello specifico l’applicazione di un sistema di penalità ed incentivi a partire dal gennaio 2001 ha prodotto significativi miglioramenti nella regolarità del servizio» (Ministero dell’Economia e delle Finanze, 2002).
È evidente che tali considerazioni sono antecedenti al recente black out energetico che ha colpito l’Italia e tengono in scarsa considerazione le differenze regionali tuttora presenti nel Paese: infatti, nel 2002 solo 6 regioni hanno, di fatto, adottato i Piani Energetico-Ambientali previsti dalla Conferenza dei Presidenti delle Regioni e delle Province Autonome. Lo scopo di tali Piani era quello di adottare misure e politiche finalizzate alla implementazione del Protocollo di Kyoto nell’ambito del passaggio del compito di politica energetica alle Regioni, alle Province ed ai Comuni. Delle rimanenti regioni, 10 hanno elaborato il Piano ma non lo hanno adottato; nelle altre 4, esso è in fase di elaborazione, come mostrato dal grafico seguente.

Grafico 3 - Situazione dei Piani Energetico-Ambientali Regionali al 2002

Fonte: Elaborazione Eurispes su dati ENEA.
D’altra parte, per quanto riguarda la domanda di energia in Italia durante gli anni 2000 e 2001, sempre in conseguenza dell’andamento economico mondiale, si è verificata una situazione di stagnazione. L’industria e il terziario sono i settori che hanno fatto registrare una crescita più marcata (1,2% e 2,5%), mentre il settore primario ha avuto un calo dell’1%. Per quanto riguarda le fonti si è ridotto dello 0,4% il consumo di prodotti petroliferi mentre il gas naturale ha fatto registrare un aumento dello 0,5%, quasi interamente nel settore civile.
Complessivamente, comunque, nel 2001 la richiesta di energia elettrica è aumentata del 2,3% rispetto all’anno precedente (ENEA, 2002).

Grafico 4 - Consumi finali di energia per fonte in Italia

Fonte: Elaborazione Enea su dati MAP.
Per quanto riguarda l’offerta, l’Italia, fra i paesi a più alta dipendenza esterna in campo energetico, ha ridotto ancora di più la produzione interna di petrolio, gas e combustibili solidi: basti pensare che il nostro Paese importa il 99% del proprio fabbisogno di carbone.
Segnali positivi vengono dalle fonti energetiche rinnovabili: in questo settore il contributo al bilancio energetico nazionale è cresciuto del 25% tra il 1995 e il 2001.
Grafico 5 - Energia da fonti rinnovabili in Italia

Fonte: Elaborazione Eurispes su dati ENEA.

Grafico 6 - Produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili non tradizionali in Italia

Fonte: Elaborazione ENEA su dati Enel, GRTN.
Nonostante ciò, la dipendenza dell’Italia dall’estero resta altissima: per quanto riguarda il petrolio, la cui dipendenza mondiale è del 38%, in Italia si è arrivati al di sotto del 50%. Questo dato non significa che abbiamo ridotto la dipendenza nel complesso; infatti, la nostra dipendenza dal gas naturale per la generazione di energia elettrica è salita dal 21% agli inizi degli anni Novanta al 45% di oggi. Complessivamente si può affermare che le politiche energetiche, volte a ridurre la dipendenza dall’esterno, non abbiano avuto grande successo, tant’è che la dipendenza è complessivamente aumentata, anche per i ritardi nell’estrazione di petrolio dai giacimenti della Basilicata che avrebbero dovuto contribuire a ridurre l’import.
Come rileva il Rapporto dell’IEA, infatti, in Italia, malgrado un notevole potenziale, la quota al 2000 dell’energia primaria rappresenta solo il 5,4%, ben al di sotto di altri paesi industriali.
Se confrontiamo i totali di energia primaria prodotta in Italia con quelli degli altri paesi dell’IEA appare evidente la forte dipendenza dai combustibili fossili, petrolio, carbone, gas, del nostro Paese rispetto ad altri, pur tenendo conto dell’assenza di energia nucleare in Italia.

Grafico 7 - Energia totale primaria nei paesi dell’IEA, 2001

Fonte: Energy Balance of OECD Countries, IEA/OECD Paris, 2003.
Alla fine del 2001, la Commissione Parlamentare per le Attività Produttive ha dettato alcune linee guide per il Governo al fine di migliorare il sistema energetico italiano e rafforzare la competitività dell’industria nazionale. Le linee guida della Commissione prevedevano di agire su diversi fronti:
o diversificare le fonti di energia al fine di ridurre la dipendenza dell’Italia dal Medio Oriente. Inoltre si prevedeva, anche tramite una semplificazione amministrativa, l’aumento di fonti domestiche, gas e petrolio. La Commissione auspicava anche l’uso del carbone pulito tramite lo sviluppo di tecnologie idonee alla trasformazione in gas del carbone e, in associazione, una maggiore produzione da fonti rinnovabili. L’ultimo punto riguardava invece un eventuale ripensamento per il futuro dell’energia nucleare;
o migliorare l’efficienza degli usi finali di energia anche tramite l’uso delle fonti rinnovabili per minimizzare l’effetto dei gas serra;
o migliorare i rapporti internazionali nel settore con la creazione di alleanze strategiche.
Partendo da queste considerazioni, il Governo alla fine del 2002 ha presentato al Parlamento la legge “Riforma e riordino del settore energetico”, meglio nota come “legge Marzano” dal nome dell’attuale Ministro.
La legge Marzano prevede di agire su diversi livelli. L’accelerazione della liberalizzazione del mercato viene ritenuta come una conditio sine qua non per favorire la diversificazione delle fonti di energia e l’abbassamento dei costi di cui beneficerebbe l’industria italiana. Si propone inoltre di chiarire, anche in vista di una riforma in senso federalista dello Stato, le responsabilità delle Autorità Regionali e dello Stato nel settore e di riuscire a stabilire tempi sicuri (massimo 180 giorni) per la concessione delle autorizzazioni da parte delle Regioni in caso di richieste relative alle infrastrutture energetiche. Trascorsi i 180 giorni, il Governo potrebbe sostituire le Regioni.
Alcuni punti della impostazione della legge Marzano sono stati contestati. Da più parti si ritiene che la liberalizzazione del mercato non induca automaticamente ad una diversificazione delle fonti di energia né all’abbassamento dei costi, che in altri settori liberalizzati, come la vendita dei carburanti ad esempio, non si sono verificati. D’altra parte, la diversificazione delle fonti di energia, come pure l’introduzione di nuovi combustibili come l’idrogeno, dovrebbero veicolare, attraverso la ricerca tecnologica e la innovazione, settori che, ad oggi, soffrono di carenze strutturali e di finanziamenti certi. Lo stesso problema si pone nel caso delle autorizzazioni che, in vista di un futuro federalismo, spettano alle Regioni: queste, infatti, non sembrano preparate a fornire autorizzazioni per infrastrutture energetiche in 180 giorni, vista la complessità del tema, la carenza di organismi tecnici regionali e la scarsa disponibilità finanziaria. Se questa norma fosse davvero applicata, si assisterebbe al paradosso di una legge che nelle intenzioni promuove il federalismo e lo spostamento delle decisioni dal livello centrale a quello periferico e dall’altra, per carenze strutturali, finisce per accentrare ancora di più le decisioni.
La divisione dei ruoli tra pubblico e privato, con riferimento sempre alla legge Marzano, sembra registrare maggiori consensi, poiché comunque lo Stato intende mantenere un controllo di pubblico interesse sulla distribuzione e trasporto di gas ed elettricità tramite la gestione delle linee ad alta tensione e delle reti ad alta pressione di distribuzione del gas, liberalizzando completamente gli altri settori come la produzione, l’import/export di idrocarburi ed elettricità e la distribuzione.
Meno chiaro appare il punto in cui il Governo mantiene l’autorità di concessione per la ricerca e la produzione degli idrocarburi e il loro stoccaggio. In questo caso, il Governo entrerebbe in conflitto diretto con le competenze territoriali di Regioni e Comuni che perderebbero una parte dei loro poteri, specie riguardo alle valutazioni di impatto ambientale di queste attività e in considerazione del fatto che la maggior parte delle Regioni italiane si è dotata di propri strumenti legislativi in questo delicato settore.
Il Protocollo di Kyoto
Il Protocollo di Kyoto, indicando significativi indirizzi nelle politiche energetiche dell’Italia, è considerato da più parti come il banco di prova del Governo per realizzare un circolo virtuoso tra energia e ambiente. Solo brevemente in questa sede va ricordato che il Protocollo di Kyoto risale al 1997, che è stato ratificato dall’Italia dal 2000, ma che non è ancora operativo in virtù di una clausola che ne prevede l’applicazione solo dopo che almeno più del 50% dei paesi che emettono gas ad effetto serra lo abbiano a loro volta ratificato. Ad oggi, e mentre a Milano si svolge la Conferenza delle Parti della Convenzione sui Cambiamenti Climatici, COP 9, questa quota non è stata raggiunta in quanto gli Stati Uniti non hanno mostrato intenzione di ratificarlo e la Federazione Russa presenta un atteggiamento contraddittorio in merito, probabilmente per non compromettere gli sforzi di modernizzazione industriale del paese che vive una profonda crisi politica ed economica.
In ogni caso, nell’Unione Europea il settore della trasformazione dell’energia è stato responsabile di circa il 37% delle emissioni di CO2 per l’anno 1990, anno di riferimento per il Protocollo di Kyoto, e di circa il 35% nel 2000. Nello stesso periodo il settore manifatturiero è passato dal 21% al 19% di emissioni di CO2, il settore terziario appare stabile al 20% mentre il settore dei trasporti è passato dal 22% al 26%. In questo quadro l’Italia è responsabile del 14% delle emissioni derivate dal sistema energetico (ENEA, 2002).
Grafico 8 - Emissioni di CO2 (Gg) nei paesi dell’Unione Europea

Fonte: Elaborazione Eurispes su dati ENEA.
Dal grafico si evince che le emissioni di CO2 sono diminuite in effetti solo in Germania – nonostante l’uscita dal nucleare – e in Gran Bretagna, mentre sono aumentate in tutti gli altri paesi.
Resta il fatto che il Protocollo di Kyoto prevedeva per l’Italia una diminuzione nel 2010 del 6,5% di emissioni di CO2, mentre a oggi nel nostro Paese si registra un aumento del 10% circa di tali emissioni. Questo vuol dire che se l’Italia intende rispettare gli accordi presi dovrebbe diminuire le emissioni del 16% circa al 2010, obiettivo che sembra francamente irraggiungibile. D’altra parte, come è noto, viene riaffermato che importanti riduzioni sono possibili nel settore dei trasporti e tramite l’adozione di meccanismi come la riforestazione e l’innovazione dei processi produttivi. Ciò non di meno si ritiene che, in virtù della estrema dipendenza del sistema energetico italiano, una riduzione significativa dell’uso di combustibili fossili per la produzione di energia sia essenziale se si vogliono raggiungere gli obiettivi fissati da Kyoto.
Conclusioni
Nel report che l’International Energy Agency (2003) dedica all’Italia sono contenute numerose raccomandazioni riguardanti tutti i settori che contribuiscono allo sviluppo di una apprezzabile politica energetica: le azioni politiche generali che riguardano il sistema politico-istituzionale; il rapporto energia-ambiente che riguarda anche la credibilità italiana di partecipazione alle convenzioni internazionali; l’efficienza energetica sia dal punto di vista dei rapporti Stato-Amministrazioni periferiche sia dal punto di vista della promozione della innovazione tecnologica e delle azioni di promozione dei requisiti di efficienza tramite l’etichettatura del consumo energetico; le energie rinnovabili; le strategie relative al petrolio, al gas naturale, all’elettricità; il tema della ricerca e dello sviluppo della innovazione tecnologica che pone il nostro Paese nelle ultime posizioni dell’Unione Europea in questo come in altri ambiti della ricerca.

Le raccomandazioni dell’IEA, relative alle fonti rinnovabili, meglio riassumono la possibilità di un forte impegno dell’Italia nel campo delle politiche energetiche. Di seguito tali indicazioni sono riportate integralmente:
o aumentare la quota di fonti rinnovabili nella produzione nazionale per migliorare la sicurezza energetica e ridurre le emissioni di CO2;
o incrementare l’obbligo dell’uso di fonti rinnovabili di energia al di sopra del livello attuale;
o facilitare l’accesso al mercato di capitali per i progetti relativi a fonti rinnovabili di energia e per i certificati verdi che potrebbero aumentare la redditività;
o semplificare le procedure di autorizzazione per la costruzione di nuovi impianti di energia rinnovabili;
o assicurare un efficace ed equilibrato contributo di tutte le Autorità regionali al raggiungimento degli obiettivi nazionali alle energie rinnovabili, in particolare per l’informazione al pubblico sull’uso possibile di tali fonti e l’accesso a programmi di incentivazione;
o assicurarsi che l’ENEA fornisca sufficienti informazioni e competenze alle Autorità regionali ed al pubblico sulle possibilità di finanziamento e di meccanismi di sostegno.

POST KYOTO E L'ERA DEL NUCLEARE VERDE
Autore: Alessandro Caramis
Introduzione
Dopo anni di “silenzio”, l’energia nucleare è entrata nel dibattito sulle scelte energetiche da compiere nel nostro paese. Attorno alla decisione di ritornare all’atomo si è formato nel corso degli ultimi anni un gruppo di pressione che ha visto convergere politici e industriali, scienziati di fama mondiale, autorevoli opinionisti della carta stampata, fondatori di importanti associazioni ambientaliste e giornalisti. Una buona parte è concorde sulla necessità di rilanciare l’energia nucleare nel nostro paese. Queste posizioni hanno trovato il “giorno della svolta” quando il ministro dello sviluppo economico Claudio Scajola, all’assemblea di Confindustria del 22 maggio del 2008, ha annunciato pubblicamente la scelta del governo di puntare al ritorno di questa tecnologia, affermando: “Entro questa legislatura porremo la prima pietra per la costruzione nel nostro paese di un gruppo di centrali di nuova generazione”; aggiungendo subito dopo: “Solo gli impianti nucleari consentono di produrre energia in modo sicuro, a costi competitivi e nel rispetto dell’ambiente”. Questa posizione ha avuto una eco molto forte nei principali media e quotidiani nazionali fino a parlare di “fine di un tabù” . Il dibattito sul nucleare nei quotidiani nazionali non è nuovo. La Repubblica un anno fa titolò un dibattito ospitato nelle proprie pagine tra il prof. Veronesi ed il Nobel della fisica Rubbia: “Veronesi: solo il nucleare ci salverà” .
1. Le condizioni del ritorno
Le condizioni che hanno proposto il ritorno del nucleare tra le scelte energetiche da attuare nel nostro paese sono principalmente riconducibili a tre:
• una progressiva e forte impennata del prezzo del petrolio (fino al 147$ al barile nel Luglio di quest’anno) a fronte di uno scenario di forte dipendenza e approvvigionamento energetico (nel 2007, l’85,6% del nostro fabbisogno energetico ), motivazione questa peraltro superata dagli ultimi eventi;
• la necessità di porre azioni urgenti atte a mitigare il cambiamento climatico causato dalle emissioni di CO2 immesse nell’atmosfera da parte dell’uomo;
• la fine della contrarietà di principio all’energia nucleare riscontrata negli ultimi sondaggi e nelle rilevazioni sull’opinione pubblica accompagnata da una favorevole adesione al ritorno al nucleare anche da parte delle nuove generazioni .
Il mix di queste tre condizioni ha pian piano facilitato e reso più agevole la promozione dell’energia nucleare da parte di chi, fino ad un decennio addietro, si è scontrato con un forte ostracismo ed una forte diffidenza dell’opinione pubblica verso tale tecnologia.
Il tema è entrato anche nel corso delle ultime due campagne elettorali per il rinnovo del parlamento ma è stato con il nuovo governo che le posizioni politiche favorevoli al ritorno nucleare nel nostro paese hanno trovato un interlocutore sensibile. Dal momento dell’annuncio del ministro ad oggi si sono ulteriormente specificate le strategie per il rilancio di questa politica in un quadro di azioni e di tappe che prevedono l’obiettivo di ricavare tra il 2020-2030, il 25% del fabbisogno della domanda di energia elettrica da fonte nucleare abbinato ad un 25% da fonti rinnovabili. Il recente accordo di cooperazione sull’energia nucleare firmato il 24/2/2009 tra Italia e Francia ha posto le basi per la costruzione di quattro reattori di terza generazione nel territorio italiano. La prima centrale, secondo il governo sarà operativa entro il 2020. Tra le motivazioni adottate ritorna l’argomentazione secondo cui il mix energetico può servire a due fini: “il primo è quello del rispetto dell’ambiente e si può rispettare l’ambiente meglio con l’energia nucleare e con le rinnovabili; il secondo è competitivo ed economico, il nucleare costa poco, costa meno, ed è più sicuro e si può fare tanto più rinnovabile, che invece costa molto, tanto più nucleare si fa” .
Per quanto riguarda le questioni economiche e di competitività legate a tale scelta energetica non saranno fatte in questa sede ulteriori considerazioni. La parte centrale di questo paper verterà invece sull’elemento di novità di questo revival
Tra le argomentazioni utilizzate dai “nuclearisti” rientra una strategia di promozione dell’atomo come una tra le risposte più efficaci per contrastare i cambiamenti climatici e proteggere l’ambiente. Questa strategia verde ha trovato immediatamente fortuna al momento in cui autorevoli esponenti ambientalisti hanno riformulato le loro opinioni: da contrarie a favorevoli all’uso dell’energia nucleare. Ad esempio Patrick Moore (uno tra i fondatori di Greepeace) scrive: “All’inizio degli anni ’70, quando ho contribuito a fondare Greenpeace, credevo che l’energia nucleare fosse sinonimo di olocausto nucleare. E così la pensano i miei compagni. Ora, a distanza di trent’anni il mio punto di vista è cambiato e ritengo che tutti i militanti del movimento ambientalista dovrebbero aggiornare il loro. Perché il nucleare potrebbe essere la sola fonte energetica in grado di salvare il nostro pianeta dal disastro: cioè un catastrofico cambiamento del clima.”
Nel nostro paese un cambiamento di opinione simile è quello di Chicco Testa (tra i fondatori di Legambiente). Nel suo recente libro “Tornare al Nucleare”, egli afferma nelle pagine conclusive: “La CO2 solleva una domanda fondamentale per gli ambientalisti “radicali”. Dal momento che i reattori nucleari emettono zero CO2, come può una persona essere contro l’energia nucleare, se questa persona è preoccupata per le emissioni di CO2?” . Lo stesso Testa cita nel suo testo il teorico del pensiero dell’ecologia sociale Lovelok quando afferma : “una via di uscita al riscaldamento globale esiste ed è l’energia nucleare” . Il messaggio che si vuole far passare per favorire l’accettabilità sociale di questa nuova policy sembra essere: “l’atomo è amico dell’ambiente”.
In questa sede non ci interessa comunque il cambiamento di opinione di più o meno autorevoli personaggi, bensì l’efficacia del messaggio nucleare = lotta al cambiamento climatico, all’interno di una policy di governo che punta al ritorno al nucleare come uno dei pilastri di politica energetica ed ambientale.
Le argomentazioni utilizzate per giustificare questa nuova scelta energetica e favorirne la sua desiderabilità sociale sono essenzialmente fondate su quattro tesi ricorrenti e tra loro interdipendenti. Il filo conduttore di questi messaggi è la novità di tingere di "verde" la scelta del ritorno al nucleare attraverso le seguenti asserzioni:
1. Importiamo energia nucleare dalla Francia perché non ce la facciamo a coprire la nostra domanda elettrica, tanto vale produrla in proprio;
2. abbiamo bisogno del nucleare per ridurre la dipendenza energetica dal petrolio;
3. il nucleare non emette emissioni di CO2, quindi è una tecnologia pulita e neutra per quanto riguarda le emissioni responsabili del riscaldamento globale;
4. il nucleare, insieme alle energie rinnovabili ed al risparmio energetico, è il terzo “pilastro” delle politiche volte a combattere i cambiamenti climatici.
A fronte di queste tesi le domande da porsi sono: come si inserisce l’obiettivo di realizzare un parco centrali nucleari in Italia nella cornice della strategia e degli impegni europei ed internazionali assunti su energia e clima? Come rendere compatibili gli impegni assunti dal Protocollo di Kyoto e quelli successivi riassumibili nella strategia del 20-20-20 (20% di energia rinnovabile, riduzione del 20% di emissioni nel 2020) con la costruzione di nuove centrali nucleari? Infine, il nucleare rappresenta realmente una reale ed efficace risposta per contrastare i cambiamenti climatici?
2. Tra Kyoto e dopo-Kyoto: uno sguardo alle strategie europee volte a combattere il cambiamento climatico.
Gli impegni presi del nostro paese sul Protocollo di Kyoto prevedono una riduzione delle emissioni dei gas serra del 6.5% rispetto ai livelli del 1990 entro il 2012. Attualmente lo stato di attuazione è molto scoraggiante. Rispetto al 1990 l’Italia ha aumentato le emissioni del 13%. Con questi dati la percentuale di emissioni da ridurre entro il 2012 è quindi del 19.5%. Gli aumenti più consistenti si sono registrati nel settore dei trasporti (+27.5%) e nella produzione di energia termoelettrica (+17.5) . Le motivazioni di tale ritardo sono ben spiegate nelle conclusioni del Rapporto Italia 2004 . Da queste si evince come le difficoltà a ridurre le emissioni nel nostro paese sono principalmente dovute alla priorità data dai policy makers alle politiche volte ad assicurare l’approvvigionamento delle fonti di energia rispetto a quelle volte alla riduzione dei gas serra. Mentre per quanto riguarda il settore elettrico si spera che l’entrata in funzione dei nuovi impianti (più efficienti e non inquinanti) possa portare benefici concreti alla riduzione dei tradizionali gas inquinanti, il settore dei trasporti è quello che presenta le maggiori criticità. Le nuove tecnologie ritardano ad essere introdotte, quelle attuali portano benefici parziali e soprattutto l’aumento del parco circolante e delle circolazioni medie porta un aumento continuo di emissioni. Inoltre, il settore dei trasporti è quello che rappresenta il punto più critico proprio per quanto riguarda la dipendenza del nostro paese dal petrolio. Infatti, “la domanda di prodotti petroliferi resta tuttavia prevalente rispetto alle altre fonti, coprendo il 43% del totale dei consumi primari, sostenuta quasi esclusivamente dal fabbisogno energetico del settore dei trasporti” .
Allo stato attuale quanto costa la mancata applicazione degli impegni associata al l’uso di combustibili fossili sempre più cari? Il mancato raggiungimento dell’obiettivo di riduzione di gas serra fissato nell’ambito del Protocollo comporta per l’Italia un debito giornaliero di 4 milioni di euro, che stante la situazione attuale, porterà entro la fine di quest’anno ad un esborso di 1,5 miliardi di euro . Nonostante questo debito pubblico che si sta progressivamente accumulando, dalle dichiarazioni governative le priorità del governo rispetto al passato non sembrano essere mutate, e le preoccupazioni inerenti l’approvvigionamento delle fonti di energia sembra continuare.
Per quanto riguarda l’Unione Europea attualmente la ripartizione delle quote tra gli Stati membri è oggetto di negoziato sui costi che dovrà sostenere ogni singolo paese dell’Unione.
Il pacchetto sull’energia è di notevole importanza perché oltre a stabilire i futuri obiettivi relativi alla riduzione delle emissioni rende esplicite le tecnologie funzionali per raggiungerli e nel pacchetto non se ne fa assolutamente cenno del nucleare. L’unico passaggio è contenuto nel piano allegato alle conclusioni del Consiglio Europeo. In questo passaggio vediamo come il nucleare è escluso dalla politica comune su energia e clima e rimesso alla singola volontà degli Stati. Chi sceglierà di costruire nuovi centrali correrà il rischio di non usufruire della legislazione europea a supporto delle tecnologie energetiche riconosciute per la riduzione delle emissioni. Un punto importante su cui va focalizzata l’attenzione, anche ai fini dell’oggetto di questo articolo, è che gli Stati non potranno dare incentivi per la costruzione di centrali nucleari con la motivazione della riduzione delle emissioni. Le nuove linee guida sugli aiuti di Stato, varate insieme al pacchetto, non contemplano il nucleare tra le tecnologie che sarà possibile incentivare con risorse pubbliche . L’energia nucleare non rientrerà quindi tra le tecnologie incentivate per il conseguimento dei futuri obiettivi.
Per quanto riguarda la necessità di importare energia nucleare dalla Francia in quanto non si riesce a coprire la nostra domanda elettrica è noto che la produzione nazionale copre l’85,1% del fabbisogno energetico nazionale, mentre le importazioni contribuiscono per il 14,9 %” . A fronte di questi dati sorge una domanda: l’Italia è veramente in condizione di non soddisfare la domanda elettrica interna e di conseguenza acquistare energia elettrica di origine nucleare che ci proviene dalla Francia? Se passiamo dalla produzione/consumo interno alla potenza elettrica installata vediamo come i dati si capovolgono.
• In Italia la potenza installata dal parco centrali nel 2006 era di 89.800 Mw a fronte di una domanda di picco di 55.600 Mw. La differenza è un margine di sovrapotenza di oltre 34.000 Mw. Da questi dati sulla potenza installata vediamo come il problema non consiste più nella carenza di centrali energetiche bensì nel fatto che abbiamo un utilizzo degli impianti inferiore al 50% . Le stesse considerazioni le possiamo riscontrare dal Piano Strategico triennale dell’Autorità elettrica. Testualmente in esso si riporta come per quanto riguarda la potenza energetica: “l’offerta è significativamente superiore alla domanda, grazie ai numerosi impianti entrati in esercizio negli ultimi anni, tendenza che peraltro non è destinata a fermarsi: è infatti prevista nei prossimi anni l’entrata in funzione di nuova generazione per 7000 MW circa entro il 2009 (elaborazioni su stime degli operatori raccolte da Terna), garantendo quindi una costante e soddisfacente copertura delle punte e rendendo teoricamente possibile anche l’esportazione di energia in maniera non episodica, compatibilmente con la necessità di garantire la sicurezza del Paese in termini di approvvigionamento di gas”
Da queste ultime considerazioni si riscontra che non si avrebbe più bisogno di importare energia nucleare dalla Francia. In un certo senso potrebbe valere anche il contrario e verrebbe quindi a cadere la tesi che giustifica la costruzione di centrali nucleari.
Per quanto riguarda la tesi che abbiamo bisogno del nucleare per ridurre la dipendenza energetica dal petrolio è bene ricordare che in Italia, come detto precedentemente, la domanda dei prodotti petroliferi resta tutt’oggi prevalente (il 43% dei consumi primari) ed è sostenuta quasi esclusivamente dal settore dei trasporti. Lo slogan sul legame tra: “più ricorso all’energia nucleare = meno dipendenza dal petrolio” è uno dei “cavalli di battaglia” dei sostenitori del ritorno al nucleare in Italia. Questa equazione ha trovato nell’ultimo anno un forte sostegno dall’innalzamento del prezzo del petrolio che ha raggiunto quest’estate la soglia di 147$ al barile. Alla fine dell’anno, per via della crisi e della recessione globale il costo del barile è sceso fino a meno di 40$ al barile.
A fronte di questo, quale impatto avrebbe sulla dipendenza dal petrolio la strategia governativa di coprire con il nucleare il 25% del fabbisogno elettrico, entro il 2020-2030? Prendendo in considerazione che sul fabbisogno energetico complessivo la produzione elettrica rappresenta il 18%, il margine di risparmio reale sul consumo totale nazionale sarebbe del 4,5%.
Quanto costerebbe questa operazione di risparmio del 4,5%? I costi valutati per tornare al nucleare sono attualmente di 30 miliardi di euro. La stima di tali costi non è definitiva, ma l’impegno per tornare all’atomo e ridurre la dipendenza dal petrolio è di utilizzare fondi esclusivamente privati.
A fronte di questi dati una domanda che potrebbe sorgere è se non sarebbe più facile, più veloce e meno costoso raggiungere la medesima percentuale di risparmio dalle importazioni di petrolio (4,5%) puntando sulle energie rinnovabili, sul risparmio e l’efficienza energetica e su una strategia più incisiva che agisse nel settore dei trasporti piuttosto che agire su un investimento più complesso, lungo e dispendioso come il nucleare.
Da come si è visto infatti è il settore dei trasporti, e non quello elettrico, il maggiore responsabile della domanda dei prodotti petroliferi. In Italia il trasporto su gomma riguarda 2/3 del traffico di merci terrestre e il 92% di quello di passeggeri su strada . Stante questo sistema dei trasporti “energivoro” siamo proprio sicuri della reale capacità del nucleare di metterci al riparo dalle impennate dei prezzi petroliferi? I paesi con centrali nucleari sono meno dipendenti dal petrolio rispetto a quelli senza?
La tabella sottostante mostra il consumo di petrolio pro-capite in quattro paesi dell’Unione Europea nel 2007, ci fornisce un quadro abbastanza chiaro.
In essa è visibile che Paesi come la Francia - che produce più dell’80% dell’elettricità dal nucleare - consumano più petrolio pro-capite di Paesi che fanno uso di nucleare in dimensione minore come la Germania (26% di elettricità prodotta dal nucleare), il Regno Unito (20%) e addirittura l’Italia in cui il nucleare è assente (0%) .
Tabella 1: consumo di petrolio pro-capite.
Paese Francia Germania Italia Regno Unito
popolazione (milioni) 60,8 82,4 58,7 60,2
tep 1,46 1,36* 1,31 1,33
Fonte: EURISPES
E’ da rilevare inoltre che mentre nel 2006 i consumi pro-capite di Francia e Germania erano identici nel 2007 il consumo di petrolio della Germania è diminuito del 10%.
Da questi dati è evidente come il nucleare non ha alcun impatto nella riduzione della dipendenza dal petrolio. Il motivo è legato al fatto che la domanda di petrolio è sostenuta fortemente dal settore dei trasporti e l’energia elettrica su questo settore non può allo stato attuale dare un grande contributo. L’unica condizione a supporto della tesi sul rapporto: “ + energia nucleare = – consumi di petrolio” è legata alla scelta tecnologica (ancora tutta da sperimentare) di poter produrre l’idrogeno direttamente dalle centrali nucleari e rivoluzionare l’intero parco vetture mediante l’uso di questo vettore. I vantaggi in questo caso sarebbero di poter produrre idrogeno in quantità tali da consentire di utilizzarlo al posto del carburante e quindi dalle importazioni di idrocarburi.
Per quanto riguarda il fatto che l’energia nucleare non emette CO2 e non contribuisce al riscaldamento globale, idea sostenuta da molti opinion leader con un passato ambientalista alle spalle e fortemente comunicata dall’industria che promuove questa scelta energetica bisogna dire che questa considerazione è vera fino ad un certo punto.
Uno strumento importante che serve per valutare l’impatto ambientale di una tecnologia sul territorio è il Life Cicle Analysis. Il Life Cicle Analysis (LCA) è una metodologia che consente di stimare la sostenibilità ambientale di un prodotto/servizio lungo tutte le fasi del suo ciclo di vita: dall’estrazione della materia prima alla produzione, dall’uso alla manutenzione, fino alle operazioni di dismissione finale del prodotto stesso.
Questa metodologia di valutazione consente di misurare i reali costi energetici, e di conseguenza la sostenibilità ambientale, derivata dall’uso di una tecnologia. Prendendo in considerazione questa variabile vediamo come l’energia nucleare ha, lungo tutto il suo ciclo di vita, un impatto in termini di CO2 emessa, dovuto ad una serie di processi che comprendono: la ricerca e l’estrazione dell’uranio, il grado di concentrazione del minerale, le attività ed il metodo di arricchimento, la costruzione, il mantenimento e il decomissioning della centrale, la bonifica delle miniere, la disposizione intermedia e finale delle scorie.
Al fine di avvalorare queste ipotesi si possono citare due recenti ed importanti studi sul LCA dell’energia nucleare. Il primo di questi dal titolo “Life cicle energy balance and Greenhouse Gas Emissions of Nuclear Energy in Australia” è uno studio preliminare commissionato dal governo australiano all’Università di Sidney; il secondo dal titolo : “Nuclear power – the energy balance, energy insecurity and greenhouse gases” è stato redatto per conto del gruppo dei Verdi del Parlamento europeo da Jan Willem Storm van Leeuwen & Philip Smith nel 2006 come aggiornamento di un precedente rapporto realizzato nel 2001.
Tra i principali risultati di questi studi viene evidenziato come, se si ragiona in termini di intensità energetica e di gas ad effetto serra, il nucleare (Light water reactors e Heavy water reactors) ha un impatto più alto rispetto ad alcune tecnologie che fanno uso di fonti rinnovabili (come l’idroelettrico e l’eolico), ma leggermente più basso rispetto al fotovoltaico. Tuttavia mantiene un impatto decisamente più basso rispetto ad altre tecnologie che fanno uso di fonti fossili. Di 1/9 circa in più di un impianto a gas a ciclo combinato e molto minore rispetto al carbone.
La seconda ricerca citata prima (Nuclear power. The energy balance, energy insecurity and greenhouse gases) enfatizza i costi connessi alla estrazione dell’uranio sia in termini ambientali che economici. L’incognita di oggi, infatti, consiste nel fatto che le attuali riserve di uranio provengono da bacini di alta qualità, ovvero da bacini con capacità di concentrazione di uranio alta, valutabile intorno ad 0,1%. Tuttavia, le riserve attualmente disponibili (naturali e militari) sono in via di esaurimento. Ciò comporterà negli anni a venire, oltre ad un aumento del prezzo stimato , soprattutto ad un aumento delle attività volte a estrarre il futuro combustibile da nuovi giacimenti a bassa concentrazione nei quali l’uranio disponibile è inferiore, introno allo 0,05%. Tutto questo avverrà mediante un maggiore dispendio di intensità energetica (considerando il LCA) e di conseguenza una maggiore emissione di gas serra nell’atmosfera rispetto ad un medesimo impianto a gas.
Il grafico sottostante riassume in sintesi le conclusioni di questo studio. I seguenti valori nascono dalla simulazione di uno scenario che considera l’attuale domanda nucleare mondiale necessaria a soddisfare il fabbisogno energetico del 2,5% (7,5 – 10 GWh) con un incremento della capacità mondiale di circa il 2%-3% l’anno necessaria per soddisfare il rialzo della domanda energetica mondiale.
Grafico 1: Emissioni di C02 del nucleare in rapporto con una centrale a gas.

Fonte: W. Storm van Leeuwen & P.Smith
Da queste considerazioni si vede come l’assunto secondo cui l’energia nucleare è un modo per combattere a lungo periodo l’effetto serra e mitigare il cambiamento climatico non è del tutto esatto. Paradossalmente può essere vero il contrario: le centrali nucleari soltanto nel breve periodo hanno un impatto minore di emissioni di CO2 nell’atmosfera rispetto ad altri impianti alimentati a combustibili fossili. Con l’esaurimento delle attuali scorte e con l’entrata in funzione di nuovi impianti che faranno uso di uranio a bassa concentrazione le emissioni di CO2 saranno molto più alte rispetto ad oggi, quindi nel lungo periodo (come sostengono i promotori del nucleare) l’energia nucleare non rappresenterà una soluzione ai problemi del cambiamento climatico.
Per quanto riguarda il nostro paese il ritorno al nucleare non avrebbe alcun impatto sulle riduzioni di CO2 nell’atmosfera. Primo perché gli impianti non entrerebbero in funzione prima del 2020 (data di scadenza degli impegni europei attualmente in presi); secondo perchè la stessa misure comprese nel pacchetto non contemplano alcun incentivo per la costruzione di centrali con la motivazione di ridurre la CO2.
Per quanto riguarda invece l’assunto che insieme alle energie rinnovabili ed al risparmio energetico, il nucleare è il terzo “pilastro” delle politiche volte a combattere i cambiamenti climatici, a parte il caso francese, è da rilevare che la Germania e la Spagna stanno uscendo dal nucleare. La Germania ha già annunciato la chiusura dei suoi impianti nucleari nel 2020 e la Spagna farà altrettanto nel 2014.
A differenza di Spagna e Germania, pur non avendo nessuna quota di energia prodotta dal nucleare, l’Italia è intenzionata a seguire la linea francese. Nel frattempo per quanto riguarda le politiche sul risparmio energetico il nostro paese ha appena ridotto con il decreto legge 185/2008, la possibilità di usufruire delle detrazioni fiscali del 55% concesse ai cittadini che adottassero misure ed interventi volte alla riqualificazione ed al risparmio energetico . Questa norma fu introdotta precedentemente dal ex-ministro delle attività produttive Bersani e nell’arco degli anni 2007-2008 ha portato secondo Legambiente alla realizzazione di 230.000 interventi, con conseguente risparmio di CO2.
Il secondo “pilastro” rappresentato dalle energie rinnovabili è stato messo in discussione nel corso dell’ultimo negoziato europeo sul clima: prima cercando di contrastare l’obiettivo vincolante del 20% di energia prodotta da energia da fonti rinnovabili proponendo nel 2014 una clausola di revisione degli obiettivi dell’accordo, infine ottenendo un compromesso sulle modalità di raggiungimento di tali obiettivi. La formula di accordo raggiunta nel negoziato consente, sempre nel 2014, di rivedere i meccanismi di cooperazione fra gli Stati con riferimento ai progetti comuni e la possibilità di trasferire quote di rinnovabili da un paese all’altro. Inoltre, sulla base del compromesso raggiunto sarà possibile conteggiare in parte la quota dell’ energia prodotta da fonti rinnovabili ma non ancora consumata per la mancanza di connessione e quella proveniente da progetti in paesi terzi, in particolare quelli della sponda sud del Mediterraneo.
Di fronte a questi comportamenti è evidente come il famoso “terzo pilastro”, il nucleare, sembra essere diventato nelle intenzioni strategiche l’unico ambito sul quale puntare.
Il ritorno del nucleare, pur prevedendo una sua effettiva realizzazione senza incontrare nessun ostacolo di natura tecnica o di accettazione sociale, non avverrebbe almeno fino al 2020. Nel corso di questi anni tale scelta non avrebbe alcun effetto sulla riduzione delle emissioni di CO2. L’unico effetto che rivestirebbe tale scelta sarebbe quello limitare la produzione di energia elettrica proveniente da fonti rinnovabili secondo la direttiva UE e distogliere di conseguenza le risorse per l’incentivazione di misure a sostegno del risparmio e dell’efficienza energetica. Infatti, se fosse dato seguito all’intenzione di produrre il 25% di energia elettrica da fonte nucleare si dovrebbe necessariamente ridurre la quota di energia prodotta da fonti rinnovabili andando in contrasto con le direttive europee che prevedono di portare dal 15% al 35% l’energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili. Con il nucleare quindi non solo si rinuncerebbe a raggiungere gli obiettivi di Kyoto ma anche di quelli futuri del dopo-Kyoto.
Conclusioni
Dopo aver affrontato nel merito alcune tesi su cui si basa la strategia comunicativa di rilancio del nucleare in Italia quali considerazioni finali si possono trarre? Evidentemente il cambiamento climatico e l’emergenza di contrastare le emissioni nocive di gas serra hanno posto la tecnologia nucleare in una luce del tutto diversa rispetto al passato. Da quello che si è visto la strategia per includere il nucleare nella conta delle tecnologie volte ad ottenere una drastica riduzione delle emissioni nel prossimo cinquantennio è condivisa da più attori. L’IEA ad esempio, in previsione di una crescita mondiale dei consumi energetici non elimina del tutto il nucleare tra le tecnologie future. La stessa Francia non prevede di uscire dal nucleare per combattere i cambiamenti climatici. Nonostante queste posizioni tra le priorità rimane comunque una forte attenzione alle azioni volte all’efficienza energetica ed alle fonti rinnovabili. La Francia stessa sta lanciando un investimento massiccio nel settore dei trasporti, l’efficienza energetica e le energie rinnovabili. L’Unione Europea nella sua strategia per il clima e l’energia non contempla il nucleare come uno strumento atto a realizzare gli obiettivi futuri. Paesi “nuclearisti” come Germania e Spagna, per perseguire gli obiettivi di sostenibilità, competitività e sicurezza sanciti nel Libro Verde della Commissione Europea, progettano di uscire lentamente dalle scelte commesse in passato e di affidarsi completamente al risparmio, l’efficienza energetica e le energie rinnovabili. Quello che accadrà da qui ai prossimi 20 anni avrà, secondo il parere di illustri scienziati e ricercatori, un impatto preponderante nel mitigare il riscaldamento globale del pianeta ed i gravosi effetti sociali ed ambientali che potrebbe generare (e genera) nel futuro. Avrebbe senso quindi per il nostro paese tornare oggi al nucleare quando per avere l’autorizzazione di un impianto ci vogliono almeno tre anni e per costruire una centrale (nell’ipotesi che non si incontrino ostacoli) almeno otto?
L’Italia, nonostante è in forte ritardo nel raggiungimento degli obiettivi di Kyoto e nonostante con la liberalizzazione del settore elettrico abbia installato negli ultimi anni un ingente potenza elettrica, sembra persistere nel preoccuparsi della questione dell’approvvigionamento energetico trascurando altre questioni come i trasporti e l’ammodernamento del nostro sistema produttivo.
Per rendere accettabile il ritorno al nucleare, il contenuto dei messaggi volti a veicolarne i suoi benefici, oltre a considerazioni economiche, si sta tingendo di verde. In questo articolo ne abbiamo visti almeno tre. Da come si è mostrato questi messaggi si fondano su presupposti discutibili.
Probabilmente sarebbero meno discutibili se il nostro paese, seguendo l’esempio francese (così come quello tedesco e spagnolo per citare i paesi a noi più vicini) prendesse serie iniziative volte: a ridurre le emissioni di gas serra nell’atmosfera, a risparmiare ingenti quantità di energia oggi sperperata, a rendere più efficiente il nostro sistema, ad innovare il settore dei trasporti, delle imprese, ad investire sulle energie rinnovabili e sull’innovazione tecnologica come in Germania (circa 250.000 posti di lavoro negli ultimi anni).
Quello che invece sembra avvenire è esattamente il contrario. I partner europei ed i sistemi produttivi con i quali ci si sente più affini sembrano essere più i nuovi paesi entranti dell’est europeo (con una storia ed una situazione oggettivamente diversa) rispetto quelli più simili al nostro per storia, cultura e sistema economico e sociale. Anche gli Stati Uniti grazie alla nuova presidenza sembrano tornare sui passi di una politica volta a puntare decisamente su una rivoluzione energetica. Al contrario, tra le strategie del nostro paese il cosiddetto “terzo pilastro” sembra voler fare a meno proprio di quello a cui si da più importanza a livello internazionale: il risparmio, l’efficienza energetica e le energie rinnovabili.
A fronte di questo, il nuovo abito verde con cui si tinge oggi il nucleare rischia di non essere altro che una strategia di marketing, di green washing volto a fare leva sui potenziali e futuri clienti.
Il rischio maggiore verso cui si potrebbe incorrere sarebbe di trasformare il nucleare da tabù a totem. Da argomento da non nominare (come è stato nel passato) senza incorrere in scomuniche e ostracismi ideologici da parte di un’opinione pubblica spaventata dalle sirene di un massimalismo verde a nuova “bacchetta magica” utilizzata per dare nel futuro una risposta a tutti i problemi: compreso quello ambientale.
L’errore più grande di vent’anni fa, dopo i referendum che sancirono l’uscita del nostro paese dal nucleare, è stato quello di fare delle scelte affrettate, senza discuterne laicamente nel merito, negli impatti e nelle conseguenze che tale opzione avrebbe provocato. Queste scelte furono fatte senza pensare a quanto la rinuncia al nucleare fatta in quel modo avrebbe risolto i problemi energetici ed ambientali di allora. Oggi, pur partendo da fronti diversi l’errore più grande verso cui si andrebbe incontro, è quello di poter adottare la medesima logica, basata su opzioni più fondate sull’ideologia che sui contenuti, più su un decisionismo frettoloso invece di una riflessione a-dogmatica. Senza, neanche questa volta, valutare gli impatti e l’efficacia di determinate policy volte a risolvere i problemi ambientali ed energetici del domani. La conferenza energetica, prevista nei prossimi appuntamenti in agenda del governo, potrà rappresentare un’ottima occasione per affrontare questi dilemmi.
Bibliografia
Ambrosetti, Le caratteristiche del settore energetico in Italia, in “Ricerca Energia Elettrica Domani. Linee guida per la politica delle fonti energetiche primarie come chiave per la competitività e la sicurezza dell’Italia e dell’Europa in futuro”, Milano 2007.
Atti del Convegno, Ritorno al nucleare. Conviene? Risolve?, promosso da Parlamentari Radicali e Amici della Terra TECH. REV, Roma, 11/07/2008.
Autorità Energia Elettrica, Piano strategico triennale 2007-2009.
Baracca A., G. Ferrari, Nucleare: i soliti noto dell’atomo, “Il Manifesto”, 2-7-08.
Cianciullo A., Ambiente, l’Italia maglia nera allarme sulle malattie “da clima”, “La Repubblica”, 11/12/2008.
Cresto D., Dina, Veronesi: solo il nucleare ci salverà, la Repubblica, 30/05/2007.
Di Vico D., La fine dei tabù, “Il Corriere delle Sera”, 23/05/2008.
ENEA, Rapporto Energia e Ambiente 2007. Analisi e Scenari, 2008.
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Legambiente, I costi segreti del nucleare, Dossier, Agosto, 2008.
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Terna, Dati statistici sull’energia elettrica Italiana, 2007.
Testa C., Tornare al nucleare?, Einaudi, Torino, 2008.

Fonte: http://www.sociologia.uniroma1.it/users/borrelli/Argomento%20Energia.doc

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