Itinerari Italia diario di viaggi organizzati

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Itinerari Italia diario di viaggi organizzati

 

1.1 L’ETRURIA MERIDIONALE: TARQUINIA E BARBARANO.

05.10.97 - 7:00 - Visita organizzata da ITINERA (Dott. B. Mazzotta).

Tarquinia, a circa 100 km da Roma sulla via Aurelia, è una cittadina altomedievale che ospita oggi il Museo Nazionale Etrusco nell’antico palazzo Vitelleschi costruito nel periodo 1436-39 accorpando diversi edifici del XII e XIII secolo. Le rovine della Tarquinia etrusca si trovano su un colle vicino ed il sito fu abbandonato agli inizi del medioevo quando gli abitanti si spostarono nel sito fortificato di Corneto che solo nel 1800, ormai sviluppatosi nel centro moderno, ha assunto l’antico nome di Tarquinia. La Tarquinia etrusca ebbe il suo periodo di massimo splendore fra la fine del VI e l’inizio del V secolo a.C. e la sua egemonia si estese a Roma con la dinastia dei Tarquini. In questo periodo sorse la grande necropoli di colle dei Monterozzi con le splendide tombe a camera. Nel V secolo si ebbe un periodo di crisi economica sociale e politica ma nel IV secolo si ritrova Tarquinia a capo di una confederazione etrusca per difendersi dai Celti e dai Romani. Con la guerra del 358-51 ebbe la prima sconfitta da parte dei Romani e finì successivamente come stato federato nell’orbita di Roma.
Le prime sale del Museo Nazionale Etrusco espongono a piano terra una collezione di sarcofagi in marmo o calcare di imitazione greca provenienti dalla necropoli di Monterozzi, molte sono in marmo pario importato dalla Grecia, scolpito e dipinto dagli artefici locali. Nella prima sala i sarcofagi hanno nomi di fantasia: sarcofago del Sacerdote del IV secolo in marmo pario, quello del Magnate in calcare, quello dell’Obeso per la figura sdraiata. Dopo il IV secolo sui sarcofagi compaiono le figure appoggiate al braccio sinistro come quelle di Cerveteri che però sono in terracotta. In un’altra sala ci sono le tombe dei Camna e dei Pulena, due gens etrusche, e fra queste la tomba detta del Magistrato.
In un’altra sala sono conservate decorazioni fittili, che coprivano i timpani in travature lignee di templi e palazzi della Tarquinia etrusca, fra cui due cavalli alati provenienti dall’Ara della Regina divenuti il simbolo di Tarquinia.
Al piano superiore si inizia con i reperti del periodo Villanoviano (dal IX sec.); vi sono urne cinerarie a capanna e a forma di vasi biconici coperti da un elmo se il defunto era un uomo o una ciotola se si trattava di una donna, corredi funebri e molte fibule. Dal secolo VIII iniziano i vasi con figure di animali e vegetali in ceramica di importazione e successivamente di produzione locale. Molto comuni sono i buccheri di colore nero lucido ottenuto con un processo di cottura in assenza di ossigeno, molto apprezzati perché simulavano i vasi di metallo. Ci sono poi i vasi ad imitazione Attica, prima con disegni neri su sfondo rosso, e dopo il 530 a.C. con figure rosse su fondo nero. In un’ultima sala sono raccolti specchi e monili d’oro ed ex-voto raffiguranti parti anatomiche in terracotta.
Una sezione del museo è dedicata alla ricostruzione di quattro tombe a camera dipinte qui trasferite integralmente. Si tratta della tomba della Nave, quella delle Olimpiadi, quella delle Bighe e quella del Triclinio.

A circa 6 km a sud-est di Tarquinia si trova la Necropoli di Monterozzi dove sono state trovare circa 6000 tombe 200 delle quali sono dipinte. Le tombe sono ipogee e contrassegnate da tumuli, in ognuna di quelle scavate e visitabili è stata costruita una casetta per l’accesso, una scala scende al livello della tomba e l’osservazione è permessa attraverso una lastra di vetro che chiude l’ingresso. Per ridurre l’usura dei dipinti per la luce, vengono aperte a rotazione solo 9 tombe. L’uso delle tombe dipinte è preponderante fra il VII sec. a.C. ed il I sec. d.C., le tombe sono di forma rettangolare con soffitto a spioventi ed i letti laterali per i sarcofagi, le più antiche hanno dipinto solo il frontone, dopo il 530 a.C. le pitture si distribuiscono su tutte le pareti e nel V secolo il soggetto predominante delle pitture è il banchetto. Le pitture sono ad affresco con colori vegetali, in qualche caso sono state sovradipinte. Questo tipo di tombe sparisce alla fine del II secolo d.C.. Oggi sono visitabili le 9 tombe seguenti.
1) Tomba dei Giocolieri. - Scoperta nel 1961, è databile al 510 a.C.; sul frontone c’è una pantera ed un leone, sulle pareti c’è un equilibrista, danzatori e suonatori.
2) Tomba delle Leonesse. - Scoperta nel 1864, è databile al 520 a.C.; sul frontone due leonesse, danzatori e danzatrici
3) Tomba del Fiore di Loto. - Scoperta nel 1962, è databile al 520 a.C.; sul frontone due felini in posa araldica ed al centro un fiore di loto capovolto.
4) Tomba dei Caronti. - Scoperta nel 1960, è databile al 150-125 a.C.; è una tomba a due piani: sotto c’è la cella funeraria e sul frontone il disegno di una porta simbolo dell’ingresso all’Ade.
5) Tomba del Gorgoneion. - Scoperta nel 1960, è databile al 400-375 a.C.; c’è un protome gorgonica ed un giardino.
6) Tomba Cardarelli. - Scoperta nel 1959, è databile al 510-500 a.C.; sul frontone la porta dell’Ade, intorno un paesaggio di alberi con suonatori ed il giuoco del cottabos che consisteva nel far ruotare un piatto colmo con un dito infilato nel manico. La tomba è dedicata al poeta tarquiniese Vincenzo Cardarelli.
7) Tomba della fustigazione. - Scoperta nel 1960, è databile al 490 a.C.; suonatori e danzatori e su una parete un soggetto erotico con la scena di fustigazione di una donna nuda.
8) Tomba dei Baccanti. - Danzatori di riti orgiastici.
9) Tomba dei Leopardi. - Scoperta nel 1875, databile al 470 a.C.; con leopardi alati e banchetto funebre.

Ad est di Tarquinia, verso l’interno, a metà strada fra i laghi di Bracciano e di Vico, si trova l’area di Barbarano Romano con un vasto parco regionale suburbano detto di Marturanum. La cittadina di Barbarano è di origini tardo medievali con una cinta di mura ed una porta monumentale, strade strette, costruzioni originali, una bella vista della valle dal belvedere.
Fuori dalla cittadina, verso nord-est, si trova il sito di Cortuosa di origini etrusche con la necropoli villanoviana di Cima della fine del VII secolo a.C. dove è evidente l’influenza di Cerveteri; vi si trova un grande tumulo intorno a cui sono scavata tombe unifamiliari di tutte le tipologie, sei tombe sono successive al II secolo a.C.. I primi scavi sono della fine del 1800, quindi dopo la prima guerra mondiale e gli ultimi del periodo 1957-59.
Seguendo un sentiero si raggiunge l’area dell’antica Cortuosa prima etrusca poi alto medievale, centro agricolo per 500-600 anni poi abbandonato. Nella vegetazione si trovano i resti di grandi mura e le rovine di una chiesetta romanica del I secolo dedicata a S. Giuliano. In origine era una chiesetta a tre navate con colonne romane e capitelli medievali poi ridotta limitandola alla parte absidale e lasciando le vecchie navate come portico.
Più discosta è una tomba etrusca detta tomba del Cervo per un bassorilievo rappresentante un cane che azzanna un cervo; si tratta di una tomba a dado perché sotto un dado sopraelevato scolpito sulla roccia.

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1.2 MINTURNO E SPERLONGA.

16.11.97 - 7:00 - Visita organizzata da ITINERA (Dott. G. Marone).

La zona archeologica dell’antica colonia romana Minturno si trova vicino alla foce del Garigliano al confine fra Lazio e Campania. Vi si giunge da Roma percorrendo la Pontina (SS 148) fino a Terracina, poi si segue la Flacca (SS 213) fino a Formia, passando per Sperlonga e Gaeta, e si prosegue poi fino al Garigliano. Prima del ponte c’è la deviazione a destra per l’area degli scavi. I territori dei Latini si estendevano fino al Circeo ed i romani arrivarono al Garigliano nel 296 a.C. e chiamarono questa nuova zona Latium adiectum lasciando il Garigliano come confine con la Campania felix. Questa era da tempi remoti una zona di transito litoranea ed i Romani vi fondarono una colonia per il controllo delle comunicazioni e della costa e qui passò la via Appia. Le colonie di diritto romano erano formate da circa 300 cittadini soldati e dalle loro famiglie e fino alle guerre sociali dell’81 a.C. erano dei presidi militari. I cittadini delle colonie avevano diritto di votare a Roma e gli amministratori, i duoviri o sindaci, potevano fare anche carriera politica a Roma fino al consolato e quindi entrare in Senato. Le colonie latine come Sessa Aurunca erano invece colonie di contadini abitanti del posto, erano più popolose, circa 2000-6000 famiglie, e non erano cittadini romani. Dopo le guerre sociali la cittadinanza romana fu estesa a tutte le città italiche e le colonie come Minturno si ingrandiscono. Gli scavi operati nel periodo 1940-51 hanno scoperto cospicui resti di epoca imperiale con un teatro, il foro e l’area templare. Nel VI secolo d.C. la città fu abbandonata per il taglio degli acquedotti da parte dei Longobardi e gli abitanti si trasferirono in una collina vicina dove sorge l’attuale Minturno.
Gli scavi hanno scoperto la parte centrale della città sull’asse della via Appia con il centro politico e religioso e quindi la zona residenziale e commerciale con strade ad angolo retto. Dall’ingresso all’area, il primo edificio che si incontra è il Teatro del I secolo a.C. in buon reticolato augusteo e rifacimenti successivi fino al listato del IV secolo. La cavea ha 24 setti ed era capace di 4600 posti; sotto la cavea corre un criptoportico oggi occupato da un Antiquarium. Dietro l’area della scena, a sud, è la zona templare costituita da un grande triportico con due file di colonne ed in mezzo una fila di pilastri. Nella piazza racchiusa dal triportico vi sono i podi di due templi rivolti verso il lato aperto della piazza. Il tempio a sinistra è il Capitolium o tempio della Triade Capitolina con tre celle ed è del periodo repubblicano. Livio dice che il tempio di Giove fu distrutto due volte da un fulmine, nel 207 e nel 191 a.C. e quindi l’attuale è della ricostruzione dopo il 191. All’interno si trova un pozzo votivo, di forma bidentale cioè con due semicirconferenze diverse, scavato durante il restauro per depositarvi gli oggetti sacri recuperati e vi è stata trovata un’iscrizione con la parola “fulgor” (fulmine) certo con relazione all’evento che aveva distrutto il tempio. Il tempio a destra è con il podio più alto ricoperto con lastre di marmo, 24 portano delle iscrizioni dedicate ai Magistri l’ultimo dei quali è del 65 a.C.. Il tempio è di ricostruzione augustea e, da un’iscrizione mutila: “...IAE AUG...”, si pensa che sia stato dedicato alla CONCORDIAE AUGUSTAE. Davanti ai templi sul lato sud passa la via Appia e, alle estremità dei due portici laterali, vi sono due fontane monumentali di età imperiale. Sull’altro lato della via Appia si trova la piazza del Foro circondata da portici anche sul lato della strada e si vedono basi di capitelli. Il centro commerciale si trova sul lato est del foro con tabernae e negozi intorno ad un piazzale che doveva essere un macellum o mercato coperto; è stato ricostruito l’ingresso con 4 colonne di marmo cipollino ed un arco. Sul lato opposto delle colonne c’è un ambiente dedicato al culto. Dietro il centro commerciale si trovano le terme con mosaici, le vasche del calidarium, le sospensure e le tubazioni fittili per il riscaldamento.
Il museo degli scavi o Antiquarium contiene un gran numero di statue trovate nel corso degli scavi, la raccolta dei cippi del tempio di Augusto con le iscrizioni dedicatorie dei Magistri, lapidi e rilievi ed una raccolta di monete imperiali.

A circa 2 km dopo Sperlonga si trova l’area archeologica con museo nazionale della Grotta di Tiberio. Qui gli scavi condotti nel 1957 a seguito della costruzione della via Flacca hanno riscoperto la villa dell’imperatore Tiberio e della sua grotta con un gran numero di frammenti dei gruppi scultorei che l’ornavano. Tiberio aveva qui ricreato un ambiente mitologico con le storie di Ulisse. L’area era stata proprietà del nonno materno di Livia, madre di Tiberio. Tiberio era vissuto fino al 2 d.C. a Rodi e poi fu richiamato a Roma da Augusto perché rimasto unico erede. Da imperatore soggiornò a lungo in questa villa che fece restaurare ed ingrandire arredando la grotta come triclinio e ninfeo ornata con sculture che si richiamavano al mito di Ulisse che era ritenuto all’origine della famiglia Claudia da Telegono, figlio di Ulisse e di Circe. Nel 26 d.C., come ci viene raccontato nel VI libro degli Annales di Tacito, si ebbe un crollo all’interno della grotta che uccise diverse persone e lo stesso Tiberio si salvò per merito di Seiano. La villa fu allora abbandonata ma fu usata successivamente fino all’età di Domiziano che si costruì una grotta simile nella sua villa di Grottaferrata. Poi la grotta fu usata come vivaio di pesci ed i monaci che l’occuparono distrussero le statue considerati idoli pagani. Nel IX secolo l’area fu abbandonata perché l’abitato si spostò nella vicina Sperlonga il cui nome è derivato dalla grotta.
La villa era molto più grande di quanto mostrano oggi gli scavi e digradava verso il mare; sono state individuate quattro fasi dal tipo di murature. La prima, più antica, è in opera incerta, la seconda in reticolato di epoca augustea, la terza è il rifacimento imperiale contemporaneo alla grotta e la quarta è del periodo tardo antico in listato. Il reticolato è in due colori, tufo più scuro e calcare del luogo più chiaro. Al centro degli scavi si trova un peristilio con colonne. Sul mare, davanti alla grande grotta orientata verso il Circeo, si trovano una serie di vasche, vivai di pesce ed ostriche famose al tempo di Tiberio. Una grotta più piccola si trova a sinistra di quella grande ed era ornata come un ninfeo, vi sono resti di pitture di età imperiale ed una fontana con lunghe vasche anteriori come peschiere a livelli diversi; in età tarda fu trasformata in cappella.
I gruppi mitologici che ornavano la grotta sono stati recuperati in frammenti ed hanno subito una complessa opera di ricostruzione. I gruppi erano 5: sull’arco della grotta in alto si trovava Ganimede rapito dall’aquila di Giove e vi è stata sistemata una copia. All’interno erano disposti il gruppo di Scilla al centro, i furto del Palladio a destra, Ulisse che recupera il cadavere di Achille sulla sinistra ed in fondo alla grotta il gruppo con l’accecamento di Polifemo. I gruppi erano in marmo proveniente dalla Grecia, lavorato e colorato da maestranze di Rodi, erano copie di originali del II secolo a.C., probabilmente in bronzo, secondo modelli riprodotti più volte in statue e pitture su vasi precedenti l’età ellenistica. Questi soggetti erano forse presenti anche nell’Altare di Pergamo.
Il Museo è stato costruito dopo il 1957 per conservare i gruppi scultorei ricostruiti e tutti i moltissimi frammenti rimasti e che non hanno avuto una collocazione. Le parti mancanti sono state in parte ricostruite in resina. Ricostruito quasi completamente è il gruppo di Polifemo a meno delle statue dei compagni di Ulisse. Mutili sono gli altri gruppi e parzialmente ricostruito è il gruppo di Scilla che assale la nave di Ulisse, strappa il timone con una mano e con l’altra afferra la testa del timoniere mentre le sue 6 protomi canine divorano ciascuno un compagno di Ulisse. L’iconografia di Scilla è quella del VI secolo a.C. con il busto di fanciulla e 6 cani mostruosi nella parte inferiore. Il gruppo porta la firma degli artisti: Athenadoros, Agesandros e Polydoros citati anche da Plinio ed autori del Lacoonte.

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1.3 ORVIETO E CIVITA DI BAGNOREGIO.

07.12.97 - 7:00 - Visita organizzata da ITINERA (Dott.ssa S. Cesaroni).

Prendendo da Roma l’autostrada A1 verso nord si esce ad Orvieto stazione e si prende poi la strada per Bagnoregio rientrando nel Lazio. La nuova cittadina di Bagnoregio ha sostituito ormai la vecchia Civita di Bagnoregio quasi integralmente abbandonata dopo il suo progressivo isolamento dovuto all’erosione dei banchi di argilla che la circondano. Il nome deriva da Balneum Regium, così chiamata da Gregorio Magno per le acque termali di cui era ricca la zona. Intorno vi erano infatti quattro vulcani che hanno riempito la zona di tufi e argille. La vecchia Civita è oggi isolata su un cocuzzolo e vi si accede a piedi da una strada sopraelevata che ha sostituito il costone a sella con l’antica strada che la collegava naturalmente con l’area della nuova Bagnoregio. Il costone è stato eroso ed è franato lasciando in mezzo una profonda vallata superata ora da un viadotto. Si arriva a piedi lungo la strada panoramica e, dopo l’ultimo tratto in ripida salita, si entra per la porta medievale di S. Maria con loggetta a tre archi, in origine antica porta etrusca scavata nelle roccia. Civita di Bagnoregio, di origini etrusche, fu occupata dai Longobardi nel VII secolo, nel 1000-1200 fu comune e quindi entrò nell’orbita di Orvieto; fu patria di S. Bonaventura (1217 - 1274) francescano, filosofo e teologo. Civita rimane un prototipo di cittadina medievale con profondi rimaneggiamenti fino al 1500, architetture viterbesi, case con scale esterne e loggette. Nella piazza la chiesa di S. Donato ha un crocifisso ligneo della scuola del Donatello. La città ha subito un terremoto nel 1696 e una serie di frane nel corso del 1700. L’ultima grande frana si è avuta nel 1992 e dopo è stata costruita la nuova strada.

Si riparte per Orvieto alle 12:00 circa ma si lascia il pullman al parcheggio della stazione ferroviaria e si sale alla rocca con la funicolare.
Orvieto si stende sulla sommità piatta di un colle, un banco di tufo vulcanico formatosi da eruzioni avvenute fra 400000 e 100000 anni fa che poggia su una base di argille. Le acque piovane che filtrano attraverso il tufo dilavano la base di argilla provocando un progressivo smottamento. Le origini di Orvieto sono incerte, sicuramente etrusca, è stata identificata con Volsinii Veteres che i Romani conquistarono nel 265 a.C. deportandone gli abitanti a Bolsena detta Volsinii Novi, ma questa è rimasta solo un’ipotesi. Le prime notizie certe si hanno durante la guerra greco-gotica quando nel 538 Belisario la strappa ai Goti e poi viene persa e riespugnata. Il nome derivò da Urbs Vetus con cui viene chiamata da Paolo Diacono e Gregorio Magno (590 - 604) ed in questo periodo è già sede vescovile; viene conquistata dai Longobardi nel 606. Diventa comune fra il XII ed il XIII secolo ma entra nella sfera di influenza del papa; Adriano IV (1154 - 1159) approva il comune ma, quando Martino IV (1281 - 1285) vi si insedia con un seguito di personaggi francesi angioini, la città si ribella e caccia il papa, preludio dei Vespri siciliani. La città diviene preda delle lotte fra le fazioni del Monaldeschi (guelfi) e dei Filippeschi (ghibellini) fino alla cacciata definitiva dei Filippeschi nel 1313, poi anche i Monaldeschi si dividono in due fazioni e le lotte proseguono fino al 1448 quando entra definitivamente nel dominio della chiesa con Niccolò V (1447 - 1455). La città è ancora menzionata per la sua resistenza a Carlo VIII.
Dal 1263-90 inizia la fabbrica del Duomo, il monumento più famoso di Orvieto, che terminerà nel corso del 1600 e continuerà con restauri nel 1700. Il Duomo fu costruito in omaggio al miracolo di Bolsena del 1263 quando, nella chiesa di S. Cristina, l’ostia sanguinò nelle mani di un sacerdote che era dubbioso circa la transustanziazione. Al miracolo si diede grande rilevanza per combattere l’eresia dei Patarini, il fazzoletto bagnato di sangue fu conservato in una speciale teca, nel duomo fu costruita la cappella del Corporale ed in seguito venne istituita la festa del Corpus Domini. Il Duomo unisce il romanico con il gotico della facciata e si parla di gotico orvietano in cui lo stile gotico si riconosce soprattutto nei motivi ornamentali; i disegni furono forse di Arnolfo di Cambio. Vi lavorarono un gran numero di artisti, fra questi il Maitani realizzò la facciata con il basamento, le guglie altissime e il rosone e rinforzò la struttura con contrafforti laterali. Sulla loggia sopra i portali vi sono quattro statue di bronzo: un angelo, un leone (S. Marco), un’aquila (S. Luca) e un bue (S. Giovanni). I mosaici della facciata non sono più quelli del 1300 perché furono rifatti nel 1700 e gli originali regalati al papa. I quattro pilastri della facciata fra i tre portali sono stati scolpiti da artisti di Siena e di Pisa ispirati al Maitani, vi sono storie del Vecchio e del Nuovo Testamento, storie di Cristo e Giudizio Universale.
La visita al Duomo si concentra nelle due cappelle: quella di S. Brizio a destra dell’abside, con le pitture di Luca Signorelli recentemente restaurate, e quella del Corporale a sinistra dell’abside. La cappella della Madonna di S. Brizio fu iniziata nel 1447 dal Beato Angelico che dipinse parte delle volte, quindi, dopo un’interruzione dovuta alle lotte intestine del comune, riprese Luca Signorelli nel 1498 e finì nel 1504. Si inizia a sinistra dell’ingresso con la venuta dell’Anticristo rappresentato nelle vesti di Cristo ma con il diavolo vicino che lo suggerisce, intorno un’architettura rinascimentale con il tempio ed i soldati in scuro che lo hanno profanato; dall’alto scende l’Arcangelo che lancia una pioggia di fuoco. Segue sulla controfacciata la Sibilla, angeli in alto con dardi di fuoco e la fine dei tempi. Sulla parete destra la resurrezione dei morti con gli scheletri che escono dalla terra e si rivestono della carne, in alto due angeli che chiamano a raccolta i beati mentre accanto i dannati vengono scaraventati con diavoli. Sull’abside a destra Caronte e Minosse con la rappresentazione dell’inferno dantesco ed a sinistra i beati. Tornando sulla parete di sinistra c’è la gloria dei beati ed in basso raffigurati Dante e autori latini con riferimenti alle loro opere. Luca Signorelli di Cortona si formò ad Arezzo alla bottega di Piero della Francesca, fu amico del Perugino e lo aiutò nella decorazione della Cappella Sistina, a Firenze divenne amico di Lorenzo dei Medici, viaggiò molto ed assimilò anche la pittura fiamminga; la cappella di S. Brizio è un prodotto della sua fase matura
Simmetrica rispetto alla cappella di S. Brizio è quella del Corporale che conserva nel tabernacolo il lino macchiato di sangue del miracolo di Bolsena. Nell’abside vi sono gli affreschi dell’orvietano Ugolino di Pietro Ilario con le vicende del miracolo e di altri prodigi che seguirono; gli affreschi sono della seconda metà del 1300 ma hanno subito restauri fino al 1800. Sulla controfacciata è raffigurata l’Ultima Cena. Su una teca a sinistra è conservato il primo reliquario del 1370 che ha l’aspetto della facciata del Duomo in smalto, argento, oro e bronzo e con la storia del miracolo e storie di Cristo.
Dopo il Duomo si visita il Parco delle Grotte, una città sotterranea che ha origine circa 3000 anni fa al tempo degli Etruschi ed è stata ingrandita nel corso dei secoli con scavi sotterranei sotto le case per creare pozzi, magazzini e cave di tufo e materiale di costruzione dal medioevo al 1700. Esiste oggi una planimetria con la localizzazione di circa 440 cavità non intercomunicanti con accesso dalle abitazioni di superficie. Con la legge speciale del 1970 per la salvaguardia della città minacciata dall’erosione della sua base argillosa, sono iniziate le “chiodature” cioè le palificazioni di cemento che scendono fino al banco argilloso per consolidare le fondazioni della città ed in questa occasione sono state scoperte un gran numero di queste cavità artificiali. Quelle che si visitano dall’ingresso del Parco, poco distante a destra del Duomo, hanno una storia dagli Etruschi fino ai nostri giorni. Le grotte che si visitano erano luoghi di lavoro con macine e frantoi per l’olio della fine del 1600. C’è un documento del 1882 in cui si chiede l’autorizzazione ad usare gli ambienti per creare una cava di pozzolana. Una di queste grotte è in origine etrusca con soffitto a spiovente tagliato nella roccia riutilizzato nel 1600 spostando l’ingresso. L’ambiente è simile a quello delle tombe a capanna etrusche ma gli Etruschi costruivano le tombe fuori città e potrebbe trattarsi forse di un tempio. Una delle grotte è attraversata dai pali di cemento armato delle “chiodature” e vicino si trovano dei pozzi rettangolari, 120 x 80 cm profondi oltre 25 m che rimontano al VI sec. a.C. in epoca etrusca, datati dai resti di ceramiche trovate. Interessanti sono le nicchie praticate sulle pareti che servivano come pedalore per scendere e salire agli operai che praticavano lo scavo. Forse si tratta di pozzi per raggiungere l’acqua che si trovava al livello dello strato di argilla sottostante così come fu fatto per il pozzo di S. Patrizio profondo 60 m costruito agli inizi del 1500 da Antonio da Sangallo. Anche i pozzi etruschi dovevano essere di 60-70 m ma, una volta abbandonati, furono riempiti usandoli come discarica. Questi pozzi sono numerosi e anche vicini fra di loro, forse ogni casa si costruiva un suo pozzo. Non si sa come avvenisse lo scavo perché, a quelle profondità e con le loro dimensioni ridotte, doveva mancare l’aria, si è pensato che usassero dei mantici per pompare l’aria durante lo scavo.

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1.4 S.MARIA CAPUA VETERE E S. ANGELO IN FORMIS.

25.01.98 - 7:00 - Visita organizzata da ITINERA (Dott.ssa A. Acconci e Dott. B. Mazzotta).

S. Maria Capua Vetere, a circa 4 km a sud-est di Capua, è una cittadina di origini molto antiche; vi sono stati trovati insediamenti dell’età del ferro e le prime notizie ne fanno una città etrusca parte di una confederazione di 12 città. Sull’origine vi sono molte leggende e la sua fondazione si fa risalire ad un mitico Capys. La sua posizione al centro di una vasta pianura vicino al porto fluviale del Volturno fece la sua fortuna economica. Fu centro tessile e dell’industria ceramica e rinomata per il vino falerno. Cicerone la chiamò “altera Roma” e Tito Livio “urbs maxima opulentissima Italiae”. Nel 424 a.C. gli Etruschi furono cacciati e la città divenne sannita. Alla fine del IV secolo a.C. dopo le guerre sannitiche entra nell’orbita di Roma e nel 312 viene costruita la via Appia che la collega a Roma ma la cittadinanza è esautorata come “civitas sine suffragio” e con l’inizio delle guerre annibaliche il partito popolare appoggia Annibale nel 216 a.C.; i Romani l’assediarono più volte dal 215 al 211 quando la città si arrese dopo la ritirata di Annibale. Roma ne cancellò ogni potere politico ma il partito antiromano fu sempre forte; l’ultima ribellione fu con le guerre sociali nel 90 a.C. dopo le quali fu concessa la cittadinanza a tutti i popoli italici. Dal I al II secolo iniziò la sua decadenza economica con lo sfruttamento delle terre coltivate a cereali, lo spostarsi dei traffici marittimi di tutta la Campania nel porto di Puteoli e la costruzione della via Domiziana che spostò i traffici terrestri. Nel primo medioevo fu occupata da Longobardi che importarono i bufali e da allora iniziò la tradizione della mozzarella di bufala. Nel 456 fu saccheggiata da Genserico ma risorse ancora; solo dopo il saccheggio dei Saraceni, avvenuto nell’842, gli abitanti abbandonarono l’abitato e si trasferirono a Casilinum, l’antico porto fluviale sul Volturno che da allora prese il nome di Capua. La vecchia Capua risorse poi come borgo Santa Maria che più tardi, nel 1800, divenne S. Maria Capua Vetere.

Sulla falde del monte Tifata prospiciente alla piana campana, circa 6 km a nord di S. Maria Capua Vetere, si trova l’Abbazia benedettina di S. Angelo in Formis sorta sul luogo di un antico santuario dedicato a Diana tifatina, nome dato al monte per i boschi di querce sacri alla dea. La leggenda vuole che Ifigenia, figlia di Agamennone, sfuggita al sacrificio per intervento di Diana, portò qui il simulacro della dea creando il primo santuario. Gli scavi hanno mostrato che una prima fase di costruzione del tempio si è avuta dal IV al III secolo a.C. e di questo periodo è il podio che si trova sotto la basilica. Fra la fine del II ed il I secolo a.C. i Romani ricostruirono il tempio e di questo periodo sono i mosaici pavimentali in parte conservati nella basilica, le colonne di spoglio ed il basamento del campanile. La grande terrazza antistante la basilica che si affaccia sulla vallata era il recinto sacro del tempio ma si trovava ad un livello più basso ed il podio risultava sopraelevato. L’attuale basilica nasce da una donazione del secolo XI da parte di Riccardo I, conte di Capua, al vescovo e da questo a Desiderio, abate di Montecassino; prima forse c’era un oratorio fondato dai Longobardi nel VII-VIII secolo e dedicato all’Arcangelo Michele, santo protettore dei Longobardi che, come santo militare, era assimilato a Gotan. Il nome di S. Angelo si riferisce proprio all’Arcangelo Michele mentre il toponimo “in Formis” richiama la presenza di un acquedotto romano che dai monti Tifata portava l’acqua al santuario di Diana.
La basilica è preceduta da un portico del XII sec. a 5 arcate con 4 colonne e l’arcangelo Gabriele dipinto nella lunetta del portale. Il campanile sulla destra è una massiccia torre quadrata su una base dell’antico santuario e marcapiani decorati. Nel progetto originale il campanile stava a sinistra e fu ricostruito a destra dopo un terremoto. Le campane poste in alto sono del secolo scorso. L’interno della basilica è elegante e slanciato; il pavimento è in opus sectile cosmatesco e vi sono ancora parti del mosaico del tempio di Diana dei primi del II secolo. Nell’abside il Cristo Pantocrator con la Bibbia e intorno i simboli degli Evangelisti, sotto gli Arcangeli con Michele al centro ed a sinistra un monaco che porta il modellino della chiesa. Tutte le pareti sono dipinti con un ciclo di affreschi dell’XI secolo, opera di pittori locali, con scene dell’antico e nuovo Testamento. Sulla controfacciata c’è il Giudizio Universale. Si sente l’influenza del duomo di Monreale e forse le maestranze provenivano dalla Sicilia.
Si scende a S. Maria Capua Vetere cresciuta in modo disordinato cancellando il tessuto urbanistico romano alla ricerca delle antiche vestigia. Lungo il tracciato della via Appia si trova la Conocchia, un antico sepolcro a forma di torre ricordato da Pietro Ligorio e depredato già in epoca romana. La città romana era con strade ortogonali, divisa per decumani e cardini e la via Appia era il decumanus maximum. Il monumento romano più notevole rimasto è l’Anfiteatro, il più grande dopo il Colosseo; di forma ellittica, poteva contenere 42000 spettatori; era in 4 ordini sovrapposti tutti dorici ma l’ultimo a paraste cieche, la costruzione era in travertino e mattoni. Sotto l’arena, che era di legno ricoperta di sabbia e quindi è sparita, si trovano i sotterranei costruiti insieme al resto a differenza del Colosseo. Nell’Anfiteatro si tenevano le venationes (al mattino), lotte fra fiere o fra fiere e uomini, e i munera (al pomeriggio), lotte fra gladiatori. I giochi erano nati con funzione funeraria in onore degli dei Mani ma poi divennero solo motivo di divertimento. Lo stato ed i ricchi cittadini mantenevano scuole di gladiatori che erano prigionieri o schiavi o condannati e li preparavano per gli spettacoli; le fiere venivano dall’Asia e dall’Africa e venivano tenute in apposite gabbie. A Roma le gabbie stavano fra piazza Vittorio e porta Maggiore. Con la caduta dell’impero romano l’Anfiteatro fu abbandonato e poi spogliato nel medioevo lasciando solo la maggior parte del primo ordine e piccole parti del secondo. Grandioso è l’arco di ingresso in travertino del periodo di Adriano. Oggi all’interno delle sostruzioni è stato creato un museo che raccoglie le statue, le iscrizioni e gli oggetti trovati.
Un altro ritrovamento di epoca romana è il Mitraeum scoperto nel 1922. Si scende in un ambiente sotterraneo con volta a botte, un antico criptoportico a forma di L, ai lati vi sono i banconi dove sedevano gli adepti (i praesepia), il pavimento è ancora originale in pezzi di marmo ed in alto c’è un’apertura a bocca di lupo del criptoportico. Sulla parete sinistra c’è un affresco che rappresenta Amore e Psiche, resto della decorazione del portico, ed infine sul fondo c’è il grande affresco con Mitra che uccide il toro della fine del II secolo d.C., forse il migliore qualitativamente fra quelli conosciuti anche se in parte rovinato. Il culto misterico del mitraismo era arrivato a Roma nel 67 a.C. con Pompeo portato dalla Grecia con i prigionieri orientali e poi con i mercanti lungo le coste e si era diffuso nell’Italia meridionale, in Spagna e naturalmente a Roma. Dei suoi riti si ha una conoscenza indiretta dalle fonti cristiane. La sua massima diffusione fu infatti quasi contemporanea a quella del cristianesimo del quale fu diretto antagonista. A Roma sono noti 45 mitrei, il più grande dei quali è quello sotto le terme di Caracalla, secondo il Coarelli erano in totale circa 2000, 20 se ne trovano ad Ostia antica. L’apice della diffusione del mitraismo si ebbe nell’età dei Severi fra la fine del II secolo e l’inizio del III per la protezione accordatagli dagli imperatori. Il trionfo del cristianesimo nel IV secolo segnò il declino del mitraismo, i mitrei furono distrutti dai cristiani e su molti di essi furono costruite delle chiese.
I resti paleocristiani e medievali di Capua sono concentrati soprattutto nella chiesa di S. Prisco, protovescovo di Capua e discepolo di Cristo e di S. Pietro secondo una tradizione non accreditata dalle fonti, venerato in una cappelle del tardo IV secolo poi trasformata in chiesa da papa Simmaco (498 - 514). Nella stessa chiesa si trova la cappella di Matrona, una ricca signora che veniva dalla Lusitania e aveva voluto essere qui sepolta nel V secolo. Intorno alla chiesa si sviluppò poi il borgo nel medioevo. La chiesa attuale è però del 1776, forse opera del Vanvitelli. All’interno della chiesa sono da notare le statue di Madonne rivestite di vesti vere offerte dalle famiglie del luogo secondo l’uso del ‘700. Anche a Roma si ha un esempio simile nella chiesa di S. Nicola dei Prefetti. La parte più interessante è la cappella di Matrona con i suoi mosaici del V secolo recentemente restaurati. I mosaici della volta a crociera hanno tralci di vite con l’uva e palme sulle nervature, nelle lunette i simboli degli evangelisti poi il rotolo dei sette sigilli dell’Apocalisse di Giovanni e il Cristo con intorno decorazioni a serti di melograni. Questi mosaici sono raffrontabili a quelli contemporanei del mausoleo ravennate di Galla Placida. Predomina il fondo blu e vi è un limitato uso dell’oro che sarà poi predominante nei mosaici di influenza bizantina dopo il VI secolo.

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1.5 L’AREA ARCHEOLOGICA DI POMPEI.

- 7:00 - Visita organizzata da ITINERA (Dott. G. Marone)
17.04.2005 - 7:15 - Visita organizzata da ITINERA (Dott. G. Marone)

La città di Pompei sorge su uno sperone roccioso sulla foce del fiume Sarno che forniva un ottimo approdo essendo allora navigabile e nasce nel VI secolo a.C. come emporio di commercianti greci ed etruschi in un ambiente di popolazioni osco-sabelliche diffuse in Campania, Abbruzzi e Calabria. La città si formò con gli abitanti di 5 villaggi vicini ed il suo nome Pompei forse deriva dall’osco “pompe” che significa cinque. Gli Osci, che i Romani chiamavano Sanniti, alla fine del V secolo a.C. occuparono la città che prosperò per la fertilità dell’entroterra e con l’esportazione di lana e legno provenienti dall’interno. Fu alleata di Roma durante le guerre puniche ma all’inizio del I secolo fu coinvolta nelle guerre sociali contro Roma per la concessione della cittadinanza romana e poi appoggiò Mario nella guerra contro Silla. Silla nell’89 la strinse di assedio e la conquistò confiscando le terre a favore di suoi veterani. Nell’80 a.C. la città diventò Colonia romana, crebbe e si trasformò secondo gli schemi della topografia romana inglobando le aree edificate al tempo dei Sanniti. Nel 62 d.C. un forte terremoto distrusse gran parte della città e si era ancora in fase di ricostruzione quando il 24 agosto del 79 l’eruzione del Vesuvio seppellì la città con una massa di alcuni metri di ceneri e lapilli. Al tempo dell’eruzione la città doveva contare 20-30000 abitanti. L’eruzione arrivò inaspettata perché le popolazioni non avevano memoria di passate eruzioni e non pensavano che il Vesuvio fosse un vulcano. Infatti nessuna delle fonti storiche, che iniziano da quelle greche del secolo VIII a.C., riportano notizie di eruzioni. La lava non arrivò a Pompei ma la città fu coperta da una pioggia di lapilli caldi prodotti dall’esplosione del tappo del cratere; il peso di lapilli fece crollare i tetti delle case e poche ore dopo arrivò un nube di gas tossici che fu la causa principale della morte degli abitanti in fuga o rifugiati in ambienti che credevano protetti. Finita l’eruzione, superstiti e vicini iniziarono opere di scavo per ricercare i tesori sepolti, poi la città fu abbandonata e dimenticata. Nel 1750 si iniziarono gli scavi nella zona dell’anfiteatro che era l’unica parte ancora emergente e gli scavi andarono avanti in galleria. All’inizio del 1800 si scoprì il Foro e si comprese che si trattava della città perduta di Pompei. Da allora si cercò di ricostruire la topografia della città ed individuare i proprietari delle case dalle fistule aquarie che portavano inciso il nome di aveva chiesto l’allaccio, ma la maggior parte dei nomi dati alle insule è di fantasia. La città era circondata da una cinta di mura ma molte zone all’interno erano rimaste ancora non costruite. Recentemente l’area archeologica è stata affidata ad una Sovrintendenza speciale con maggiore autonomia.
Dopo la biglietteria, l’ingresso alla zona archeologica avviene da Porta Marina sul lato sud-occidentale della cinta muraria. Dalla rampa che conduce alla porta si possono vedere resti degli impianti portuali ed una banchina con bitte di pietra forate. Si può osservare anche il profilo dello sperone su cui sorge la città una volta occupato dalla cinta muraria e sostituita dopo dalle domus più prestigiose per la loro posizione panoramica. Si passa poi accanto ai resti di un grande porticato con colonne in mattoni, stuccate ad imitazione del marmo, quindi si attraversa l’arco ed il tunnel sotto le mura con il basolato originale. Dopo la porta la Via Marina conduce al Foro Imperiale, il centro religioso, commerciale e politico della città ma prima, sulla sinistra, c’è il Tempio di Apollo, divinità solo greca senza corrispondenze latine o etrusche a dimostrazione della prima influenza greca. Il tempio fu costruito in epoca sannitica, è circondato da un alto muro e vi sono stati trovati anche buccheri etruschi. Il Foro è una lunga piazza porticata orientata circa da sud a nord. Sul lato sinistro, cominciando da sud, si apre la Basilica, luogo coperto su due piani con due file di colonne all’interno e semicolonne addossate alle pareti. Nella Basilica si amministrava la giustizia con il giudice sulla tribuna e si stipulavano i contratti; vi si trovavano molte statue onorarie. Sul lato opposto della piazza, a destra, si trova il Comitium dove avvenivano le elezioni. Sulla destra della piazza si trovano poi gli edifici commerciali, il primo è il Mercato della Lana o edificio di Eumachia, dal nome del proprietario. Qui si puliva e si colorava la lana usando l’urina come sgrassante e fissatore. Splendido è il portale di accesso per la sua decorazione in marmo; all’interno c’è la statua onoraria di Eumachia fatta dai fullones, i suoi lavoranti. Più avanti c’è il tempio di Vespasiano con all’interno l’ara sacra di marmo con bassorilievo rappresentante un sacrificio: il sacerdote velato, il servo che porta il toro e la mazza ed un fanciullo con gli arredi sacri. Alla fine della piazza c’è il Macellum, il grande mercato a pianta quadrata preceduto da un porticato con botteghe; all’interno è stata ricostruita parte della copertura con spioventi in legno ricoperti di tegole, alle pareti vi sono resti di dipinti in IV stile, il più tardo, leggero e semplice, con prospettive meno verosimili e figurine di geni alati al centro di riquadri. Dentro alcune vetrine sono esposti i calchi in gesso di uomini uccisi e ricoperti dalle ceneri durante l’eruzione; il vuoto formatosi sotto il deposito di ceneri ha costituito il negativo per il calco. Sul lato opposto della piazza si trova la Mensa Ponderaria, l’edificio pubblico dove si controllavano i pesi e le misure da usare nel mercato. Il Foro finisce sul lato corto a nord con il tempio di Giove e la prospettiva del Vesuvio sullo sfondo.
Si esce dal Foro passando sotto un arco onorario e si prosegue per Via del Foro. La città è divisa in Regiones e le case non avevano un numero ma quelle più importanti avevano un titulus, una targa con il nome del proprietario. Su Via del Foro si trova subito a destra l’edificio delle Terme romane (ora in parte trasformato in Bar-Ristorante) con le grandi aule del calidarium e del tepidarium e la sala dello spogliatoio (apodyterium) con le scansie per i vestiti divisi da piccoli telamoni. Prendendo a sinistra su Vicolo di Mercurio fino al confine della città c’è la Casa di Marco Rufo con una terrazza panoramica verso il mare ormai lontano. La casa è una delle ultime costruite ed ha tre livelli. Gli interni sono decorati nel II stile pompeiano con fondali di architetture verosimili e quadri con scene mitologiche.
Tornando indietro su Vicolo di Mercurio c’è la casa della Fontana Grande, con un grande ninfeo in mosaici policromi in una nicchia come una grotta rustica; poi un altro mulino con forno. Di seguito la Casa del Fauno, una delle più lussuose e grandi di Pompei che risale al III secolo a.C.. Nel primo atrio, al centro della vasca c’è la statuetta bronzea di un fauno danzante che ha dato il nome alla casa. Nella stessa villa è stato trovato lo splendido mosaico della battaglia di Isso fra Alessandro Magno e Dario, ora nel Museo Archeologico di Napoli. Si pensa che al tempo dei Sanniti il proprietario della villa abbia partecipato ad un’ambasceria presso Alessandro Magno ed il mosaico sia stato fatto a memoria dell’evento. Vicina è la casa del Vettii, una delle più belle della città ed in ottimo stato di conservazione; nell’atrio due casseforti dove si conservavano i preziosi e dove è stata trovata la scritta “Vettii”. Atrio e triclinio hanno le pareti tutte affrescate in fondo rosso con scene mitologiche. Un lungo fregio rappresenta amorini intenti a diverse attività descritte con dovizia di particolari. Proseguendo Vicolo di Mercurio oltre Via del Vesuvio si trova la Casa delle Nozze d’Argento così chiamata perché scavata per le nozze d’argento di Umberto e Margherita di Savoia. Un grande atrio con quattro colonne, vasca dell’impluvium e fontana e dietro un grande peristilio. La decorazione nell’atrio è di I stile, il più antico, con pareti a finto marmo, un esempio raro a Pompei.
Si torna indietro e si prende Via del Vesuvio fino all’angolo con Via di Nola si trovano le Terme Centrali iniziate dopo il terremoto del 62 ma mai completate e mai utilizzate a causa dell’eruzione. La grande palestra circondata da un portico doveva avere una piscina e sul lato destro ci sono gli ambienti delle terme completati da un laconicum, ambiente circolare con nicchie con funzione di sauna. Via di Nola conduce a porta Ercolano ed esce dalla città. Fuori inizia la via dei Sepolcri, la zona cimiteriale più imponente con tombe singole o di corporazioni tutte del tipo a incinerazione.
Tornando indietro su Via del Vesuvio i può vedere il percorso dell’acquedotto del Serino che arrivava a Pompei nel punto più alto a Porta del Vesuvio dove c’era il Castellum Aquae, un grosso serbatoio da dove si diramava la distribuzione in tre direzioni con tubi di piombo. Lungo Via Stabiana, proseguimento di Via del Vesuvio, sono disposti altri Castellum Aquae più piccoli a forma di torre che regolavano il livello dell’acqua. Vicino vi sono delle fontane. L’acqua veniva distribuita alle fontane, agli edifici pubblici, fra cui le terme, ed ai privati eminenti.
Un’altra casa vicina è la Domus di Popini Secundi che si sviluppa in diversi livelli. All’ingresso c’è una grande vasca ornata con un gruppo di animali in bronzo (copie) rappresentanti cani che azzannano un cinghiale. Intorno vi sono camere da letto (cubicoli) decorati con quadri (sostituiti da copie) fra cui uno rappresentante Marte e Venere. I giardini sono stati ricostruiti usando piante che crescevano nella città attraverso lo studio dei semi ritrovati (tecniche di paleobotanica).
All’angolo con Via dell’Abbondanza si trovano le Terme Stabiane, il complesso romano di bagni pubblici più antico della città poi ampliato ed abbellito; intorno alla grande palestra porticata si aprono i vari ambienti: spogliatoi, bagni freddi, tiepidi e caldi ed il Laconicum o bagno turco. Dietro le Terme si apre il Vicolo del Lupanare con andamento curvo che denota la sua antica origine sannita. Qui, in fondo a sinistra, si trova una delle case di prostituzione di Pompei dette lupanari perché con “lupa” veniva chiamata la prostituta. L’edificio è a due piani con piccole stanze e letti in pietra, le pareti sono coperte da scritte e immagini erotiche. Addentrandoci nel quartiere si incontra il panificio di Modesto con 4 macine di pietra per il grano ed il bancone di vendita, poi la casa della Caccia di epoca sannitica con dipinti di scene mitologiche e di caccia.
Via dell’Abbondanza parte dal Foro all’altezza del Comitium ed è la strada principale di Pompei che attraversa tutto l’abitato in direzione est, dal Foro all’Anfiteatro. Una fontana con una cornucopia in rilievo, simbolo dell’abbondanza, ha dato il nome alla strada. Le domus tipiche hanno due tabernae ai lati dell’ingresso principale e si sviluppano dietro e sul piano superiore collegato con una scala di legno smontabile. Una della prime abitazioni sulla destra è quella detta casa del Cinghiale per il grande mosaico sul pavimento dell’atrio raffigurante una scena di caccia al cinghiale. Più avanti si gira a destra e si raggiunge l’area del Foro Triangolare e dei teatri. Qui è l’antico cuore della città sannitica con planimetria irregolare per adattarsi all’andamento del terreno. Il Foro Triangolare era una terrazza sopraelevata in vista del mare, allora vicino, con un portico ionico ed un tempio dorico del VI secolo dedicato ad Ercole, mitico fondatore della città, e poi a Minerva. Sulla sinistra, nel declivio di una collina si trova il Teatro Grande di struttura greca perché la cavea, che poteva contenere 5000 spettatori, si adagia nella concavità del terreno. Dietro la scena, al livello più basso, si trova un vasto ambiente porticato, in origine luogo di ritrovo del pubblico prima delle rappresentazioni e poi, sotto Nerone, trasformato in caserma dei gladiatori. Ancora più ad est, sempre sfruttando il declivio del terreno, si trova il Teatro Piccolo o Odéon coperto, per 1000 spettatori dove si tenevano rappresentazioni musicali e mimiche. I teatri avevano subito forti danni nel terremoto del 62 ed erano ancora in ricostruzione. Dietro i teatri, sulla parte più alta, si trova il tempio di Iside, uno dei monumenti più eleganti di Pompei, già restaurato dopo il 62, con decorazioni a stucco in parte staccate e conservate nel Museo Archeologico di Napoli.
Tornando su Via dell’Abbondanza, si incontra a destra la Fullonica di Stephani, lavanderia e tintoria della lana, una delle meglio conservate di Pompei; poi la casa del Larario di Achille con interessanti dipinti parietali e, in una cappellina dedicata ai Lari, un dipinto con combattimento di Achille. Più avanti, in fondo al Vicolo di Paquius Proculus si vede una caratteristica casa con ballatoio ed a destra la casa dei Ceii con sulla facciata iscrizioni elettorali. In occasione delle elezioni c’erano delle squadre che di notte provvedevano a tracciare, su commissione, iscrizioni di propaganda. Una squadra era composta da uno “scalarius” che portava la scala, un “lucernarius” che faceva luce, un “dealbator” che imbiancava la parete, e dal “pictor” che scriveva. All’interno della casa dei Ceii c’è un impluvium con quattro colonne e le decorazioni alle pareti sono di II stile. Dietro c’è un triclinio (sala da pranzo) con scene di caccia. Ancora più avanti, su via dell’Abbondanza, è la grande villa di Loreio Tiburtino con un giardino con canali e fontane che voleva riprodurre il Nilo e le sue piene; la villa è chiusa ma il giardino ed il portico si vede dal lato opposto dell’insula sul lato della grande Palestra e dell’Anfiteatro; siamo all’estremo est della città. Accanto alla villa di Loreio Tiburtino, sulla via dell’Abbondanza, c’è la casa di Venere il cui nome deriva da un affresco su una parete del giardino raffigurante Venere nelle acque dentro una conchiglia attorniata da amorini. La via dell’Abbondanza finisce alla Porta di Sarno oltre la quale c’era il fiume Sarno ed il porto fluviale. Tornando indietro si incontra sulla destra il Termopolio di Asellina, una mescita di bevande con le anfore incassate nel bancone in muratura. Prendendo poi il Vicolo dei Fuggiaschi si arriva all’Orto dei Fuggitivi dove, in una grande teca di vetro i trovano diversi calchi in gesso di persone uccise dai gas mentre fuggivano e rimasti sepolti dalle ceneri. Da Via Nocera si esce poi dalla Porta omonima nell’area del Sepolcreto sempre con lo stesso nome dove si trovano una serie di tombe monumentali interessanti. Vicino al Sepolcreto c’è l’uscita dalla zona archeologica su Piazza Anfiteatro.
All’estremo nord-ovest, fuori Porta Ercolano, prima di uscire dalla zona archeologica si trova la villa dei Misteri la più famosa delle ville suburbane che circondavano la città. La villa è divisa in una parte rustica dove abitava il villicus ed una parte dominica, ha un porticato ed una serie di giardini, servizi e un impianto termale. Il nome della villa è derivato dal ciclo di affreschi di una stanza che raffigurano scene dei misteri dionisiaci. Le figure coprono le intere pareti su fondo rosso detto appunto pompeiano e rappresentano diverse scene di difficile interpretazione ma estremamente affascinanti.

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1.6 PIENZA E MONTEPULCIANO.

21.06.98 - 7:00 - Visita organizzata da ITINERA (Arch. M. Eichberg).

La cittadina di Pienza, come Montepulciano e Chianciano Terme, si trova fra la via Cassia e l’Autostrada del Sole all’altezza del lago Trasimeno, fa parte della provincia di Siena ed è una città con un centro rinascimentale rimasto intatto nelle forme datele dal papa Pio II (1458 - 1464) e dal suo architetto Bernardo Rossellino nel 1462. Enea Silvio Piccolomini, poi papa con il nome di Pio II, apparteneva ad un’antica famiglia di mercanti senesi che nel 1400 si erano trasferiti nella zona del castello di Corsignano, antico nome di Pienza. Enea Silvio nacque certamente a Siena ma visse a lungo a Corsignano dove la sua famigli aveva dei possedimenti, divenuto papa nel 1458, nel 1459 decise di rifare il borgo dando l’incarico all’architetto Bernardo Rossellino, allievo di Leon Battista Alberti. Il Rossellino rifà la cattedrale ruotandola di 90° su un terrapieno a sbalzo sulla valle e ridisegna la piazza antistante dandole una forma trapezoidale che la rende più profonda. Ai lati della piazza il palazzo dei Priori e quello della famiglia Piccolomini. Nello stesso tempo Pio II indusse alcuni cardinali, fra cui l’Ammannati a costruire intorno i loro palazzi completando la fisionomia rinascimentale della nuova città. Pio II, umanista e letterato, influenzò molto il progetto della cattedrale e del palazzo memore di quanto aveva visto durante i suoi viaggi in Austria e Francia. Nel 1462 finiscono i lavori della cattedrale che però per la sua posizione ebbe fin dall’inizio problemi di stabilità per la poca solidità del terreno sottostante di natura arenaria ed argillosa. La cattedrale è stata salvata con enormi lavori di puntellamento ma ancora oggi si notano fenditure nel pavimento e sulla pareti della parte absidale.
Il Palazzo Piccolomini, a destra della piazza, ha una facciata che ricorda quella del palazzo Rucellai di Leon Battista Alberti a Firenze con tre ordini di paraste, doriche, corinzie e composite e le grandi finestre ad arco che però, invece che bifore sono a croce guelfa, un motivo proveniente dalla valle del Reno. Dello stesso periodo è il pozzo con fregio strigilato accanto al palazzo. Il palazzo è oggi un museo gestito da una Fondazione dopo la morte dell’ultimo conte Piccolomini nel 1962 il cui figlio era anche morto nel 1942 da aviatore. Si entra in un cortile porticato e si sale al primo piano, la sala principale è quella delle Armi usata per la scherma nel 1400, per ricevimenti nel 1600 ed adibita a collezione di armi nel 1800, sulle pareti molti trofei di armi, al centro un tavolo retto su due capitelli corinzi rovesciati, una cassapanca matrimoniale ed intorno quadri del Borgognone. Da questa stanza ci si affaccia sul loggiato posteriore del palazzo che guarda il giardino segreto. Si passa alla camera da letto del papa che ha sulla porta un’immagine del papa dipinta in vita dal Rossellino, gli arredi della stanza sono posteriori, i quadri alle pareti sono della scuola del Raffaello e del Caravaggio. Ai lati del letto (del 1600) due piccole porte originali, a sinistra per i servitori ed a destra per comunicare con la cappella. Al tempo di Pio II non vi erano altre porte nell’appartamento ma gli ingressi erano chiusi con arazzi. La biblioteca del palazzo è ricca di libri e stampe su argomenti di storia, teologia e linguistica. Tra gli oggetti una sfera armillare, o calendario perpetuo, del 1700 in legno e cartapesta. Nell’anticamera un quadro che raffigura la battaglia della Montagna Bianca del 1620 durante la guerra dei 30 anni (1618-1648) vinta dal generale Vittorio Piccolomini. La stanza da pranzo ha un camino in marmo rosa del Rossellino ed un arazzo fiammingo. Fra gli oggetti un orologio del 1700 che scattava ogni 15 minuti ed era chiamato per questo “pressappoco” ed uno spremiagrumi in legno del 1600. La sala della Musica ha un soffitto originale del 1460 e le pareti ricoperte di cuoio di Cordova del 1500; un tavolo porta disegnata la mappa del territorio di Siena. Lo stemma dei Piccolomini, che si ritrova nei fregi delle stanze, porta le mezze lune indice della partecipazione della famiglia alle crociate.
La cattedrale è una chiesa a sala, cioè con tre navate di uguale altezza come le chiese nordiche della valle del Reno (a Roma è a sala la chiesa di S. Maria dell’Anima). La facciata con un grande timpano segna con 4 paraste l’uguaglianza delle tre navate. Il campanile a sinistra è a base ottagonale e poi diventa più sottile e finisce a guglia. L’interno della chiesa ha il verticalismo delle chiese gotiche con pilastri a fasci di colonne polistili e doppio capitello, le volte sono a crociera costolonate nelle navate. L’abside è con cappelle a raggiera intorno all’altare; il modello fu suggerito a Pio II da una chiesa vista in Austria. La decorazione è scarna e le pareti sono senza affreschi perché erano aborriti da Leon Battista Alberti. Le cappelle hanno solo delle pale di pittori senesi della scuola di Masolino e Donatello.
Dietro la chiesa si vede il panorama della vallata dai bastioni dell’antica rocca di Corsignano. La strada che attraversa la piazza è l’antico asse viario della città, vi si affacciano palazzi rinascimentali come quello dell’Ammannati. Della fine del XIII secolo è la chiesa di S. Francesco di forme gotiche a navata unica; fu costruita con la diffusione degli ordini mendicanti di S. Francesco S. Domenico e S. Agostino. La chiesa, ancora in restauro, ha il coro tutto affrescato con scene della vita di S. Francesco da pittori senesi, seguaci di Giotto e del Lorenzetti con colori tenui e quasi irreali.

Montepulciano, fra Pienza e Chianciano Terme, è una città di origine etrusca fondata da Porsenna, nell’VIII secolo viene indicata come Castello Policiano, fra il 1200 ed il 1500 fu a lungo contesa da Siena e Firenze e passò continuamente da una all’altra. Nel 1390 passò sotto Firenze e rimase fedele ai Medici anche durante il loro esilio durante il quale si appoggiò a Siena. Divenne diocesi nel 1561, poi finì sotto i Lorena e vi rimase fino all’unità d’Italia.
Ai piedi della rocca dove sorge la città si trova la chiesa di S. Biagio costruita nel 1518 da Antonio da Sangallo il Vecchio su commissione della famiglia Ricci a seguito di un fatto miracoloso secondo il quale un’immagine della Madonna aveva aperto e chiuso gli occhi. La costruzione fu finanziata dalle elemosine dei fedeli come dice un’iscrizione all’ingresso: “aere undique confluentum”. La chiesa ha una pianta a croce greca con una grande cupola ed aveva in origine due campanili a base quadrata di cui uno è stato interrotto e l’altro continua su perimetro ottagono e termina a cuspide. All’interno è in ordine dorico con triglifi e metopi ma anche con una decorazione di dentelli ionici come nel teatro di Marcello a Roma. Fu il Bramante a Roma a introdurre per primo l’ordine dorico nell’architettura religiosa con il tempietto di S. Pietro in Montorio (1502). La cupola centrale si imposta su quattro grandi arcate che introducono i quattro bracci della croce ed agli angoli vi sono pilastri e colonne in travertino locale, sull’altare, posto nella parete terminale di un braccio, c’è la pala della Madonna miracolosa. La chiesa non aveva affreschi secondo i canoni di Leon Battista Alberti. Nel tardo 1500 le lunette furono affrescate dagli Zuccari. Vicina alla chiesa è l’edificio della Canonica, anche questo opera del Sangallo, con elegante loggiato su pilastri a piano terra e con arcate doppie al primo piano alleggerite da colonnine ioniche.
Salendo alla rocca della città si incontra la casa del Poliziano che qui ebbe i natali nel 1454, poi la piazza del comune circondata dai principali edifici rifatti nel periodo 1513-21 dopo il ritorno di Piero dei Medici a Firenze con l’aiuto di Montepulciano. Il palazzo del Comune è simile a Palazzo Vecchio di Firenze con la sua torre senese a pianta trapezia; di fronte il palazzo Contucci, oggi enoteca, con a primo piano finestre a timpano sorretto da colonnine ioniche ed un secondo piano più tardo dovuto a Baldassare Peruzzi. A destra del Comune il palazzo dei nobili Tarugi dalla facciata inusuale con colonne che sorreggono un davanzale a secondo piano, vicino un pozzo con grifi e leoni e gli emblemi dei Medici. A sinistra del Comune la Cattedrale di forme semplici con facciata rimasta non finita, interno a tre navate con cappelle sulle laterali, sull’altare maggiore il trittico a fondo oro di Taddeo di Bartolo proveniente dalla vecchia cattedrale (fine 1300), ai lati dell’altare due sculture raffiguranti la Fede e la Speranza; all’ingresso sul lato sinistro è un fonte battesimale di Andrea della Robbia.
Proseguendo la strada principale si incontra la chiesa del Gesù del 1600 tardo barocco finita nel 1700, è a pianta ottagona con colonne inserite agli angoli e quattro cappelle ricavate in quattro lati. Scendendo ancora, dopo porta Cavina, c’è un negozio con una tomba etrusca sotterranea del V secolo a.C.; più avanti un orologio con pulcinella che batte le ore e vicino la chiesa di S. Agostino con facciata del Michelozzo in forme rinascimentali e tardo gotiche ed una bella decorazione sul portale.

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1.7 LE DOLOMITI ED IL TRENTINO ALTO ADIGE.

19.08.98 - 7:20 - Giro turistico guidato in pullman.

Il giro in pullman parte da Trento nella valle dell’Adige, prende poi verso nord-est la valle dell’Avisio, affluente dell’Adige e la Val di Fiemme fino a Moena dove inizia la Val di Fassa. Si sale poi fino a Canazei a 1460 m ai piedi dei gruppi dolomitici di Sassolungo, Sella e Marmolada, la strada sale ancora con 27 tornanti fino al bivio per Passo Sella e Passo Pordoi. Si prende a destra verso il Pordoi, si raggiunge il passo a 2239 m, il punto più alto, e si entra in Veneto. Si scende quindi verso Arabba, passo Falzàrego (2105 m) e la valle di Cortina di Ampezzo, luoghi dai molti ricordi della guerra ‘15-’18. A nord-est di Cortina si incontra l’incantevole lago di Misurina fra le cime dolomitiche. Girando a nord-ovest si raggiunge poi in Alto Adige la Val Pusteria con Dobbiaco e Brunico, ultima tappa prima di riprendere la via del ritorno sull’autostrada del Brennero passando per Bressanone e Bolzano.
La città di Trento, oggi capoluogo di provincia, per la sua posizione strategica sulla valle dell’Adige fu fondata al tempo dei romani e della città quadrata sono stati trovati molti resti (come la porta Veronensis sotto il palazzo vescovile); con la caduta dell’impero divenne via di transito delle invasioni barbariche fino a Carlo Magno ed al Sacro Romano Impero quando divenne via obbligata di passaggio degli imperatori che venivano a Roma per farsi incoronare. Il vescovo di Trento ebbe allora dall’imperatore poteri civili e la città prosperò e si ingrandì. Il dominio dei Principi vescovi durò fino a Napoleone, poi Trento passò sotto l’amministrazione austriaca fino alla fine della prima guerra mondiale. Le maggiori testimonianze artistiche sono state lasciate nel medioevo e nel rinascimento ad opera dei Principi vescovi fra cui Giorgio di Lichtenstein (1391 - 1419) e Bernardo Clesio (1514 - 1538) che rinnovò Duomo e Castello secondo i modelli rinascimentali. Sotto il Principe vescovo Cristoforo Madruzzo (1539 - 1565) Trento fu scelta come sede del Concilio per la Controriforma della Chiesa che durò dal 1545 al 1563 con diverse interruzioni. Fino al 1858 l’Adige seguiva in città un corso diverso e formava una grande ansa dove è oggi via di Torre Verde passando sotto il castello del Buonconsiglio, poi il corso fu raddrizzato per motivi di viabilità.
Usciti da Trento verso nord, dove l’Adige riceve sulla sinistra le acque dell’Avisio, si segue la strada che si arrampica lungo la valle con una bella vista sulle valli dell’Isarco dove giace Bressanone e sulla Val Passiria dove si trova Merano; saliti al passo di S. Lugano (circa 1000 m) si arriva a Cavalese, centro della Val di Fiemme, che ha acquistato una triste fama per le sciagure della funivia di Cermìs l’ultima delle quali provocata da un jet americano. Cavalese è però famosa per la “Magnifica Comunità di Fiemme” creata a seguito dei patti Gebaldini del 1110 stipulati fra gli abitanti della valle ed il vescovo Gebaldo di Trento con cui questi riconosceva, in cambio della loro fedeltà e di un tributo, l’indipendenza economica della comunità ed il loro diritto di gestire in proprio il grande patrimonio boschivo della valle. Seguendo ancora il corso del fiume Avisio si arriva a Moena dove inizia la Val di Fassa e si cominciano a vedere gli spuntoni del Catinaccio detto dai Tirolesi Rosengarten per il colore rosato che assumono le rocce al sorgere ed al calare del sole legato ad una leggenda sul re degli gnomi Laurino. Da Moena parte ogni anno a fine gennaio la Marcialonga, una gara di fondo di sci di 60 km che termina a Cavalese. La Val di Fassa è abitata in prevalenza (80%) dal gruppo linguistico dei Ladini che si trovano diffusi anche in Svizzera, Friuli e Val Gardena. La lingua ladina ha origine dalla conquista romana della regione nel 15 a.C. da parte di Druso e Tiberio e, dato l’isolamento degli abitanti, ha mantenuto la sua identità fino ad oggi. Dopo Moena si entra nella Grande Strada della Dolomiti che parte da Bolzano e passa per il lago Carezza dalle acque azzurro intenso. Si continua a salire fino a Canazei ai piedi dei gruppi di Sassolungo, Sella e Marmolada. Siamo a 1460 m e la vegetazione è ancora ricca di abetaie. Molte funivie portano da qui verso i campi di neve e le piste invernali. Siamo ormai sulle Dolomiti, l’insieme delle Alpi orientali fra le valli dell’alto Adige e del Piave formato da gruppi di monti calcarei dalle forme irregolari e dalle cime frastagliate che superano i 3000 m e formano un grande quadrilatero di circa 6500 kmq. Da Canazei la strada inizia una serie di tornanti (27) salendo alla valle di Antermont sotto il Sella; qui un bivio porta a sinistra verso il passo Sella (2213 m), da dove scende la Val Gardena per Ortisei, ed a destra al passo Pordoi (2239 m), il punto più alto della Grande Strada delle Dolomiti ormai a nord del gruppo della Marmolada. Al bivio un cippo ricorda le imprese di Coppi sulle Dolomiti. Con l’altitudine il paesaggio è cambiato, finite le grandi abetaie la vegetazione si è fatta rada; numerose le funivie che portano ai campi di sci. Dopo passo Pordoi si inizia a scendere fino ad Arabba nella valle del Cordévole quindi si risale fino a passo Falzàrego (2105 m) con la vista del gruppo delle Tofane. Da passo Falzàrego inizia il Parco Naturale delle Dolomiti d’Ampezzo di 10000 mq circa creato nel 1990, è il quarto parco del Veneto. Da qui la strada porta alla valle di Cortina d’Ampezzo passando per Pocol punto di belvedere. Cortina, famoso centro di sport invernali, lanciato già al tempo degli austriaci che avevano creato la strada Alemanna nel 1830, è dominata a nord-est dal monte Cristallo ed a sud-est dal Sorapis. La città ha mantenuto il suo aspetto tradizionale con le case tutte in legno decorate ed abbellite da fioriere. Oggi ha attrezzature modernissime per gli sport invernali ed è centro di manifestazioni culturali e sportive. Come Val di Fiemme anche Cortina ha una sua tradizione di indipendenza economica che rimonta alle Regole Ampezzane con cui le cooperative gestivano le ricchezze boschive della vallata.
Si lascia Cortina verso passo Tre Croci che ricorda una misteriosa tragedia familiare e si gira dietro il monte Cristallo fino al lago di Misurina con sullo sfondo le cime del Lavaredo (da qui se ne vedono solo due delle tre). Il lago è piccolo e poco profondo (5 m), alto 1750 m e con un perimetro di 2600 m ma è famoso per una leggenda locale che racconta della figlia del re Solaris, Misurina, che voleva dal padre in dono lo “specchio tutto so” posseduto dalla fata Cristallo del monte omonimo. La fata accettò di donarlo a condizione che il re si trasformasse in montagna per proteggerla dal sole; così sorse la montagna Solaris e Misurina scivolò giù nel lago formato dalle lacrime del padre.
Da Misurina si scende verso nord alla conca di Dobbiaco in Val Pusteria quindi Monguelfo con il suo castello ed infine, ultima tappa, Brunico. Brunico è un’antica città con un nucleo circondato da mura, patria del pittore Michael Pacher le cui opere si trovano sparse nel sud Tirolo ed in particolare nell’abbazia di Novacella vicino a Bressanone.
Da Brunico ci si dirige verso Bressanone dove si imbocca l’autostrada del Brennero verso sud ritornando a Trento.

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1.8 DA S. QUIRICO D’ORCIA ALL’ABBAZIA DI MONTE OLIVETO MAGGIORE.

20.09.98 - 7:00 - Visita organizzata da ITINERA (Dott.ssa S. Cesaroni).

San Quirico d’Orcia è una cittadina in provincia di Siena lungo la via Cassia sulle alture sopra la valle dell’Orcia, toponimo etrusco. Nel medioevo era detta S. Quirico in Osenna dal fiume Osenna che divideva in due la città in alta e bassa e si trovava in uno dei percorsi della via “franchigena” battuta dai pellegrini che venivano a Roma dalla Francia. Nel XVI secolo divenne feudo dei Chigi per concessione di Cosimo I.
Sulla piazza principale della città alta si trova il monumentale Duomo, detto Collegiata perché associato ad un seminario; fu iniziato nel XII secolo e il campanile rifatto nel 1700, è dedicato ai Ss. Quirico e Giulitta. Un secondo campanile addossato al complesso appartiene a un’altra chiesetta dell’VIII secolo. L’esterno del Duomo ha tre portali, due sono sul fianco destro e danno sulla piazza, il terzo, romanico e più grandioso, è quello della facciata rivolto verso la strada che veniva da Siena; quest’ultimo, attribuito a Giovanni Pisano, ha a ogni lato quattro colonnine annodate, a simboleggiare l’unità e la forza, che poggiano su due leoni, sopra due coccodrilli che si fronteggiano. Si entra nella chiesa dal portale laterale, l’unico in stile gotico, all’altezza del transetto; l’interno presenta più stili avendo subito nel tempo molti rimaneggiamenti ma recentemente è stato in parte ripristinato. Ha una navata sinistra separata da tre arcate, forse antico battistero; sul transetto sinistro c’è una pala d’altare (1470) di Sano di Pietro, scuola senese, con Madonna e Bambino in trono fra santi e pavimento in prospettiva che da profondità alla scena. L’abside è del 1700, dietro l’altare il coro è barocco a stucchi, organo del 1600, arredo ligneo del 1700 con intarsi del 1400/1500 provenienti dalla fabbrica del Duomo di Siena. Il soffitto della navata è a capriata lignea restaurata eliminando la volta a botte del 1600 voluta dai Chigi. Sul pavimento a sinistra vicino al transetto c’è la lapide a rilievo del conte Enrico di Nassau, in armatura e con un leone ai piedi, morto qui nel 1451 tornando dal Giubileo. Usciti dalla Collegiata va dato uno sguardo al palazzo del cardinale Fabio Chigi, nipote di Alessandro VII (1655 - 1667), ancora pericolante e in restauro a causa dei bombardamenti dell’ultima guerra.
Scendendo dalla piazza principale, sulla sinistra si trova la porta dei Cappuccini del XIII secolo con un torrione poligonale, unica porta rimasta della cinta muraria. La città bassa aveva nel XIII secolo 4 ospedali per i pellegrini, fra cui quello della Scala di cui è rimasto un cortile con loggiato. Si arriva a piazza della Libertà con la chiesa di S. Maria di Vitaleta nota per una Madonna in maiolica di della Robbia. Vicino è un tratto delle mura e gli Horti Leonini, un parco privato creato nel 1500 da un certo Diomede Leoni. Nel parco c’è una statua di Cosimo III e si tengono mostre di sculture moderne.

Lasciata San Quirico d’Orcia, circa 5 km a sud, si trova la piccola stazione termale di Bagno Vignoni con una piazza occupata da un grande bacino di acque termali che sgorgano al centro con temperatura di circa 52 °C. Queste terme erano note dall’antichità per le loro proprietà curative contro artriti, gotta, fratture, e furono usate anche da Lorenzo il Magnifico. Il bacino è circondato da palazzi del tempo di Pio II (1458 - 1464) che ne aveva curato il restauro, dal 1600 i Chigi hanno la proprietà delle acque e fino a tutto il 1800 il bacino fu utilizzato come bagno pubblico. Oggi l’acqua è utilizzata per scopi curativi all’interno di un albergo vicino mentre la sorgente del bacino scarica l’acqua in un canale e quindi a valle nel fiume Orcia.

Ripresa la Cassia verso nord e deviando a destra a Buonconvento si sale, dopo circa 9 km, all’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore, antico eremitaggio di S. Benedetto. Il convento dei Benedettini fu fondato agli inizi del 1300; sul punto più alto è l’ingresso con una specie di fortilizio, torrione merlato e antico ponte levatoio. Sopra il portale di ingresso ci sono due maioliche di Luca della Robbia, dal lato esterno una Madonna con Bambino e dal lato interno S. Benedetto. Più a valle si trova il monastero e la chiesa del 1400 trasformata nel XVIII secolo. Da un atrio si entra nel Grande Chiostro a tre ordini di logge circondato da portici le cui pareti sono state affrescate da Luca Signorelli prima (1497) e completate dal Sodoma poi (1505) con storie della vita di S. Benedetto secondo la biografia scritta da S. Gregorio Magno (590 - 604). Del Signorelli sono solo 9 storie perché poi abbandonò per dedicarsi alla cappella di S. Brizio ad Orvieto. Il Sodoma proseguì con altre 27 storie completando il giro del chiostro. Il Signorelli è più sintetico ed essenziale nei racconti. C’è poi un Chiostro Piccolo con portico su pilastri ed il Refettorio con sul fondo un affresco dell’Ultima Cena attribuito al Ghirlandaio. La chiesa si presenta in forme barocche ma con un magnifico coro ligneo di fra’ Giovanni da Verona che apparteneva all’ordine benedettino e che lo realizzò fra il 1503 e il 1505.

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1.9 L’OASI DELLA LAGUNA DI ORBETELLO E LE ROVINE DI COSA.

04.10.98 - 7:00 - Visita organizzata da ITINERA (Dott. B. Mazzotta).

L’Oasi del WWF Italia della Laguna di Orbetello si affaccia sulla parte di laguna a nord di Orbetello, detta di Ponente, separata dal mare dal Tombolo della Giannella, e vi si accede dal km 148 della via Aurelia. Ha un’estensione di 42 ettari di proprietà del WWF Italia e si inserisce nella più vasta oasi di protezione, di circa 800 ettari, della Laguna di Ponente. L’ambiente comprende lagune di acqua salmastra, stagni di acqua dolce, macchia mediterranea alberi di pino domestico, pioppo, frassino, quercia da sughero, olmi, specialmente concentrati nell’area del bosco di Patanella. L’area è zona di svernamento e di passo per molte specie di uccelli acquatici. Molti sono i Fenicotteri che provengono dalla Francia, anche le anatre, fra cui il Germano reale, sono molto comuni nell’oasi. Un altro uccello che viene dall’Africa tropicale in primavera è il Gruccione molto colorato che scava i suoi nidi nella sabbia e va a caccia di api. In questo periodo sono comuni la anatre, i cormorani, le garze bianche, l’airone scuro. Fra la fauna terrestre si possono incontrare l’istrice, la volpe, il serpente cervone, lungo anche 2,5 m ma innocuo per l’uomo. Si possono osservare poi un gran numero di piante erbacee, fiori e cespugli come il pungitopo (Ruscus aculeatus), molte orchidee palustri, i lampacioni, o cipolle selvatiche.
Si segue un breve percorso naturalistico soffermandosi specialmente all’interno di alcuni capanni disposti per l’osservazione degli uccelli in vista della laguna e degli stagni.

Dopo pranzo si raggiunge la zona archeologica di Cosa, antica colonia romana, posta su una collina vicino ad Ansedonia in vista del mare. Il nome deriva forse da Cusia, toponimo dell’antico Orbetello. L’area è stata scavata nel 1948 dall’American Accademy ed all’interno è stato sistemato un Antiquarium con gli oggetti ritrovati. Di Cosa ne parla Livio ed è stata fondata ex novo come colonia militare romana nel 273 a.C., circondata da mura con uno sviluppo di 1500 m racchiudenti un’area di circa 13 ettari divisa in insulae da un reticolo ortogonale di strade. La cinta di mura è realizzata in opera poligonale con grandi blocchi ben connessi ed è rinforzata da 18 torri rettangolari che rappresentano un’innovazione nella tecnica romana. Nell’angolo più alto della città, a circa quota 114 m, si trova l’Arx, l’area sacra con i templi ed una propria cinta muraria. Cosa fu creata dopo la conquista della bassa Maremma con Volsini e Vulci nel 280 a.C. e fu contemporanea alla creazione di Paestum, anche questa colonia militare vicina al mare. Poiché nel 264 a.C. scoppia la prima Guerra punica, si può pensare che la creazione di questi due avamposti sul mare facesse parte di un disegno strategico in previsione dello scontro con Cartagine. In Cosa i Romani mandarono 2500 coloni ed il territorio fu centuriato cioè diviso in parti di 8 o 16 iugeri assegnati ai coloni. Queste divisioni si vedono ancora dalle foto aeree perché i muretti a secco di separazione costruiti dai Romani hanno lasciano delle tracce più chiare. Dopo la seconda Guerra punica la città dovette subire un progressivo abbandono perché nel 199 mandò un’ambasceria al Senato per chiedere nuovi coloni ma ebbe un rifiuto; nel 197 furono però inviati altri 1000 coloni e da questo momento si ha la ricostruzione dei templi con influsso ellenistico. Dopo le guerre civili, essendosi Cosa schierata con Mario, la città decadde e nel 71 a.C. si ebbe una distruzione volontaria ma non se ne conoscono i motivi; anche la rinascita augustea dopo il 31 a.C. non interessa Cosa ed in età imperiale fu progressivamente abbandonata; questo è il periodo dello sviluppo delle campagne con le grandi ville imperiali e senatorie con caratteristiche quasi industriali. Cosa ritornò ad essere abitata nel VI secolo e nell’805 Carlo Magno donò la zona all’Abbazia delle Tre Fontane di Roma.
Si entra da porta Firenze, una delle tre porte della cinta muraria, e si procede verso il centro dove si trova l’edificio dell’Antiquarium, il piccolo Museo. Qui si trova una mappa dove si individuano l’area politica, con il Foro e gli edifici pubblici, e l’area sacra dell’Arx con i templi; vi sono poi dei plastici con la ricostruzione degli edifici principali. I reperti esposti sono capitelli e fregi, alcune statue mutile, terrecotte architettoniche dei templi ricostruite dai frammenti, monete e vasellami da cucina del II secolo a.C., all’esterno vi sono anche dei grandi orci; si può vedere infine una videocassetta che illustra gli scavi.
Vicino all’Antiquarium si trovano i resti di una domus dove è stato rinvenuto uno scheletro e per questo è chiamata “casa dello scheletro”. Spostandosi poi verso l’area del Foro si incontra una grande cisterna con visibile ancora il rivestimento in coccio pesto; nel Foro sono riconoscibili gli edifici principali: la Curia ed il Comizio circolare, accanto il tempio della Concordia ed i resti della Basilica.
Si sale infine all’Arx sul punto più alto con i resti dei due templi principali: quello della Mater Matuta, del primo quarto del II secolo e, dominante, il Capitolium che, nel secondo quarto del II secolo (240 circa), sostituisce il precedente tempio di Giove. Da qui si ha anche una bella vista del golfo di Ansedonia e del lago di Burano.

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1.10 VISITA A PAESTUM, VELIA E CERTOSA DI PADULA.

24-25.10.98 - 6:30 - Visita organizzata da ITINERA (Dott. B. Mazzotta).

Questa visita di due giorni con pernottamento ad Agropoli interessa tre luoghi di grande importanza storica ed archeologica della Campania: gli scavi della greca Poseidonia del VII secolo a.C., divenuta poi colonia romana con il nome di Paestum, gli scavi di Velia o Elea del VI secolo a.C. fondata dai Focesi e culla della scuola Eleatica ed infine la Certosa di S. Lorenzo in Padula uno dei più grandi monasteri dell’Italia Meridionale oggi monumento nazionale.
Paestum e Velia si trovano a sud di Salerno, vicino al mare, rispettivamente a nord e sud del Cilento, Padula si trova più all’interno nella valle del Tanagro lungo l’autostrada A3 a sud di Sala Consilina.

Poseidonia nasce intorno al 600 a.C. fondata da coloni di Sibari del golfo di Taranto a sua volta fondata dai Greci dell’Acaia nel 730 a.C. circa, quando l’aumento della popolazione e l’accentramento della proprietà terriera avevano messo in crisi la società greca. Strabone nella sua opera “La geografia” ci da informazioni su un fondaco commerciale creato dai Sibariti nel Tirreno, forse vicino all’odierna Agropoli, e certo da qui i Sibariti si spostarono più a nord fondando Poseidonia sul mare. Non ci sono documenti sulla data di fondazione e questa può essere desunta solo dagli oggetti funerari trovati negli scavi, la prima iscrizione che parla di Poseidonia è del 510 ed il più antico tempietto scavato nella città è del 580. La zona era abitata dagli Enotri, popoli della Lucania che abitavano sulla riva sinistra del fiume Sele mentre a destra si trovavano gli Etruschi. Quasi contemporaneo a Poseidonia è il santuario di Hera sulla foce del Sele, lo Heraion, che delimitava a nord la zona di influenza dei coloni Sibariti mentre altri santuari la delimitavano a sud (dedicato a Poseidone) e all’interno (dedicato ad Hera). Lo Heraion sul Sele era famoso in età greca e romana ed ebbe il suo apice nei secolo VI e V a.C., ne parlano Strabone e Plinio; dopo esserne state perse le tracce, è stato ritrovato nel 1934 da Zangaro Montuorio e Zanotti Bianco che vi hanno eseguito scavi e trovato in gran numero ex-voto di provenienza lontana a dimostrare la fama raggiunta. I reperti si trovano oggi nel Museo archeologico di Paestum. Di Poseidonia era Parmenide che vinse la gara dello stadio nella 78° Olimpiade del 468 a.C., a metà del V secolo la città aiutò i Sibariti alla ricostruzione della loro città distrutta da Crotone nel 510. Alla fine del V secolo a.C. i Lucani conquistarono la città di Poseidonia e distrussero il Santuario dove sono state rilevate tracce di incendio. I Greci vennero schiavizzati e si imbarbarirono, nel 273 arrivano i Romani che fanno di Poseidonia una colonia con il nome di Paestum modificando profondamente la struttura urbana greca. La città rimase fedele ai Romani durante Annibale e godette poi di autonomia commerciale fino all’età imperiale, era inserita nella 3° Regione Augustea (Lucania et Brutium), una delle 9 Regiones che dividevano l’Italia. Città e Santuario furono danneggiate dal terremoto del 63 d.C., lo stesso di Pompei, e del 69 è uno strato di ceneri proveniente dall’eruzione del Vesuvio. Dal IV secolo inizia l’abbandono graduale per l’insabbiamento del porto causato dal Sele e la formazione di acquitrini, nell’VIII secolo la città è ormai abbandonata anche a causa dei Saraceni e i cittadini si erano spostati nell’odierna Capaccio (Caput Aquae) dove avevano portato il culto della Madonna del Granato antico attributo della dea Hera.
L’area archeologica di Paestum è tutta circondata dalla cinta di mura lunga 4750 m del periodo greco e romano che delimita un’area di circa 6 km nord-sud e 1,5 km est-ovest. Due strade perpendicolari conducono a quattro porte: porta Aurea (nord), porta Giustizia (sud), porta Marina (ovest), che dava sul porto, e porta Sirena (est). Gli scavi hanno interessato solo una striscia fra porta Aurea e porta Giustizia con il centro politico e religioso. Una strada preesistente gli scavi attraversa l’area e ne costituisce il confine orientale, qui si trova una chiesetta del IV secolo, negozi ed il Museo archeologico costruito dall’architetto De Vita nel 1952 per conservare le metopi del santuario di Hera, le tombe dipinte trovate nelle necropoli esterne alle mura, ed altri reperti del Santuario e dalla città.
All’interno del Museo si trovano delle vetrine con oggetti rinvenuti nelle stipe votive dei templi. Sono ex-voto: testine di terracotta donate alla divinità, generalmente fatte di stampo, monete di bronzo e qualcuna d’argento, e piccoli vasi. In una sala si trovano esposte le metopi dello Heraion, le più grandi in basso del VI secolo a.C. e quelle più piccole in alto del IV secolo: vi sono rappresentate scene mitologiche o del mito troiano e di Eracle. Quelle più antiche mostrano uno stile arcaico ma sono piene di movimento, fra queste una rappresenta la fatica di Sisifo. Altre vetrine sono dedicate ai corredi funerari tratti dalle necropoli: vasi per unguenti e gioielli per le tombe femminili, armi e strigili per quelle maschili, molte sono le corazze con tre borchie, elmi, cinturoni e gambali di bronzo; vi sono anche statue fittili. Dopo il V secolo, sotto il dominio dei Lucani, sono le scene dipinte più che gli oggetti a indicare il sesso del sepolto: per gli uomini è ricorrente la scena del ritorno del guerriero ad eroicizzare il defunto o scene di giochi funebri. Le tombe erano a cassa con lastre di pietra a formare un parallelepipedo o con copertura a spioventi, a semicamere o a camera tutta scavata nelle roccia. In quelle a cassa le lastre sono dipinte all’interno ad affresco prima della sepoltura ed il pittore eseguiva il lavoro entrando nella tomba ed infatti si trovano spesso impronte di mani e di gomiti nella calce fresca. Le tombe a cassa trovate spesso sono state estratte intere dalla terra e quindi aperte in laboratorio in modo da non danneggiare l’interno; il museo ne ha una ricca collezione. La tomba più famosa e quella detta del Tuffatore trovata nel 1968 in località Tempa del Prete e datata V sec. a.C., ha 7 lastre dipinte; nel coperchio c’è la raffigurazione di un uomo che si tuffa nel mare da una torre, forse rappresenta il passaggio al mondo sconosciuto dell’al di là oltre le colonne d’Ercole. Anche i dipinti delle altre lastre hanno un significato simbolico. Le lastre più lunghe hanno 5 personaggi con scene di banchetto di amanti e di musica, nelle lastre più piccole sono raffigurati degli efebi. Il senso figurato delle scene è che nel mondo dei morti il vino, l’eros e la musica permetteranno di acquisire nuove conoscenze. Le tombe più tarde, quelle del III secolo, danno più importanza al colore.
Si inizia la visita dell’area archeologica dal lato nord dove si trova il tempio di Cerere rimasto sempre in piedi e ben conservato anche perché trasformato in chiesa cristiana nel medioevo murando gli spazi fra le colonne. Nel 1700 l’illuminismo lo fece conoscere in tutto il mondo attraverso le incisioni fra cui quelle del Piranesi del 1778. Nel 1828 fu fatto un primo restauro e fu scavato intorno un fossato per impedire ai bufali di avvicinarsi. Gli interventi e le ricerche più approfondite sono state eseguite nel 1928-39 e dalle analisi delle stipe votive si è scoperto che il tempio era in effetti dedicato ad Athena e databile intorno al 500 a.C.. Il tempio è periptero dorico con 6 colonne sui fronti e 13 ai lati non monolitiche ma a rocchi di calcare locale, sorge su uno stilobate a tre gradini ed anche la cella è sollevata; l’ingresso è a est. Procedendo verso sud si incontra un recinto con al centro un Sacello ipogeico con tetto a spioventi in lastroni di calcare. All’interno sono stati trovati 4 vasi di bronzo che contenevano miele, il cibo degli eroi, un vaso attico del IV secolo e 5 spiedi di ferro ma nessuna iscrizione. Questi oggetti si trovano nel vicino Museo. Potrebbe trattarsi di un cenotafio per un personaggio importante nella storia della città databile al 520-10 a.C.. Al confine est, interrotto dalla strada esterna, si trova l’Anfiteatro romano; ne è rimasta solo la metà e le parti sopraelevate sono crollate, le gradinate degli ordini superiori al primo dovevano essere di legno. A ovest si trova la Natatio, una grande piscina pubblica dove forse si tenevano anche i giochi delle naumachie. Fra Natatio e Anfiteatro si trova il Comitium, luogo delle assemblee pubbliche per l’elezione dei magistrati e vicino i resti di un tempio identificato con il Capitolium. Subito a sud si apre la grande area del Foro con porticato e botteghe.
I due templi più importanti si trovano verso porta Giustizia, lato est. Si tratta del complesso formato dal tempio di Nettuno e Basilica attualmente in corso di restauro e quindi in gran parte coperto. In realtà ambedue sono dedicati alla dea Hera come il Santuario sul Sele. Il tempio detto di Nettuno è il più grande e recente e risale a circa il 450 a.C., dorico con 6 colonne sul fronte e 14 ai lati, misura circa 24 x 60 m. La cella è posta simmetricamente all’interno ed è distinta in pronao ed epistodomo e la parte centrale, naos, divisa a sua volta in tre navate da due file di colonne a due ordini. Si vede qui l’evoluzione dello stile dorico nella Magna Grecia con le colonne meno slanciate e i capitelli più svasati, si nota poi la curvatura delle linee orizzontali ottenuta con la riduzione di altezza delle colonne d’angolo della fronte che corregge la distorsione dell’occhio. La Basilica è l’edificio più antico e risale al 540-30 a.C., fu ritenuto un edificio civile romano e invece era un tempio anche questo dedicato ad Hera. La sua arcaicità è dimostrata dal numero dispari di colonne sul fronte (9), mentre 18 sono quelle dei lati, e dalle colonne più rigonfie. La cella è inoltre divisa in due da una fila di colonne forse perché dedicata a due divinità.
Ad ovest dell’asse fra le due porte si trova il quartiere abitativo con le domus private. Caratteristico è l’impluvium nel cortile centrale e l’orto posteriore; il piano superiore meno comodo era per la servitù.

La cittadina di Agropoli, il cui nome è una corruzione di Acropoli, si trova a sud di Paestum dove inizia la penisola del Cilento. L’antico borgo si trova su un promontorio, c’è una caratteristica porta e un castello che domina la piccola baia con il porto.

A sud della foce dell’Alento si trova l’area archeologica di Velia o Elea. Secondo Erodoto, nella sua Geografia, Elea fu fondata dai Focesi dell’Asia Minore di fronte a Chio. I Focesi, navigatori e commercianti, avevano iniziato la loro espansione dal 900 a.C., nel 597 fondarono Marsiglia ed misero basi in Sardegna e Corsica, a Lerici, Genova e Cosenza. Nel 546 Cirio, re di Persia conquistò la Lidia; i Focesi in gran parte fuggirono per mare; interpretando l’oracolo fondarono la città di Alalia in Corsica. Qui presto entrarono in conflitto con i Cartaginesi e gli Etruschi, vinsero una battaglia navale nel 540 ma subirono la perdita di troppe navi ed i prigionieri Focesi vengono lapidati a Cere; decisero quindi di abbandonare la città e, in base ad una nuova interpretazione dell’oracolo e aiutati da un abitante di Poseidonia, fondarono la nuova città a sud dell’Alento; il primo nome è Yele, nome italico, Platone riporta la forma Elea mentre Velia è il nome romano riportato da Plinio. Velia prospera e con un’accorta politica riesce a mantenere la sua indipendenza dai Lucani; la sua posizione è favorevole, ha due porti, è circondata da mura, ha un’acropoli su un promontorio con un tempio di Apollo del 480 a.C., questa collina è oggi occupata dalla torre medievale di S. Severino (900-1000). Elea è nota soprattutto per una scuola di medicina e per quella filosofica detta appunto “eleatica” creata da Senofane proveniente dalla Ionia e poi continuata da Parmenide e Zenone (V secolo a.C.). L’eleatismo afferma l’unità dell’essere divino in pieno politeismo, Parmenide sostenne anche la sfericità della terra e contrappose l’inconscio al conscio precorrendo Freud, Zenone insegnò la logica e la dialettica alla ricerca del razionale e non dell’opinione e negò i processi infiniti con il famoso esempio di Achille pié-veloce e la tartaruga. Si sa che Zenone fu ucciso dal tiranno Nearco a cui si opponeva. Sottomessa dai Romani, Elea divenne Velia, rimase fedele durante Annibale e godette sempre una certa indipendenza mantenendo la sua cultura greca. Subì dissesti nel terremoto del 63 a.C. e nell’88 divenne Municipium, qui Bruto mise il suo ultimo caposaldo e si incontrò con Cicerone. La città decadde dopo il 300 a.C. quando un’alluvione fece insabbiare il porto, la cosa si ripeté nel I sec. a.C. e la città si spopolò anche per il cambio delle rotte commerciali.
Gli scavi sono stati iniziati da Maiuri nel 1927 e hanno messo in luce le mura e le porte; le strutture romane si sovrappongono a quelle greche. Vicino all’antico porto sud, a porta Marina, ormai lontano dal mare, si trova un pozzo votivo (stipa) sacro a Hermes, dove sono stati raccolti molti ex-voto; fuori di porta Marina, dopo l’insabbiamento del porto, si formò un sepolcreto. Romane sono le Terme del II sec. d.C. con un grande mosaico a soggetti marini, sono visibili gli intonaci idraulici e gli impianti fognari. Le costruzioni più antiche della città usano dei mattoni di fabbricazione locale piuttosto alti con una scanalatura e bolli impressi. Dietro le Terme una strada sale sulla collina, costeggia altri resti, fra cui una piccola agorà, ed arriva alla cinta muraria in una valle a sella naturale dove si apre la porta Arcaica, o porta Rosa per il colore della pietra, del IV sec. a.C. è uno dei pochi esempi di uso dell’arco nell’architettura greca. Tutti i conci sono originali e di forma perfetta e sopra la porta è disposto un secondo arco di scarico. Questa porta dava accesso al quartiere settentrionale della città dove si trovava il porto nord. Le mura da qui proseguono sul crinale fino al punto più alto dove c’è un fortilizio detto Castelluccio.

Seguendo l’autostrada A3 dopo Sala Consilina c’è l’uscita per Padula, luogo dove sorge la grande Certosa di S. Lorenzo, uno dei più grandi monasteri dell’Italia meridionale. La Certosa fu fondata nel 1306 da Tommaso di Sanseverino, conte di Màrsico e Connestabile del Regno di Napoli legato alla dinastia Angioina. La Certosa si andò ingrandendo ed assunse l’attuale configurazione fra il XVI ed i XVIII secolo nello stile tardomanierista. L’ordine dei Certosini era stato fondato con 6 monaci da S. Brunone di Colonia nel 1084 a Chartreuse presso Grenoble da cui prese il nome; la regola prevedeva una divisione fra monaci di clausura, che vivevano separati in una zona riservata del convento, e i conversi esterni che vivevano nell’ala di rappresentanza, davano assistenza ai pellegrini, avevano contatto con l’esterno e facevano da congiunzione con i fratelli in clausura; conversi e padri certosini di clausura si incontravano solo per i riti. Molti dei certosini erano di estrazione nobile e la certosa ospitò nella foresteria Carlo V e Ferdinando di Borbone. Con la venuta di Napoleone quadri e tesori furono trafugati; poi nel 1866, con l’unità d’Italia, l’ordine dei certosini fu soppresso, il convento fu abbandonato e andarono perduti i documenti. Durante l’ultima guerra divenne anche campo di concentramento. Oggi il grande monastero, che con il parco si stende per 51500 mq, è affidato al Ministero dei Beni culturali e dagli inizi degli anni ‘90 sono in corso restauri.
Si entra nella grande corte esterna e da qui si passa in un lungo corridoio centrale, a destra ci sono gli ambienti della comunità e si accede al chiostro della Foresteria nobile, da qui si comunica con la chiesa attraverso una porta gotica del 1374 in cedro del Libano con formelle che raffigurano scene del martirio di S. Lorenzo; l’interno della chiesa è barocco del 1700, vi sono due cori del 1500 ad intarsio, che separano i padri conversi da quelli di clausura. Le pareti non hanno quadri, trafugati da Napoleone, ma solo cornici in stucco dorato, l’altare maggiore è in scagliola di marmo impreziosito con madreperla. Dietro la chiesa c’è la Sala del Tesoro a cui aveva accesso solo il Priore ed il padre Procuratore; c’è un dipinto con gli angeli ribelli in cattivo stato per l’umidità. Vicino si trova la Sala del Capitolo, o delle Colpe, dove venivano inflitte le pene per le trasgressioni; una tela raffigura la Madonna fra S. Lorenzo e S. Brunone, nelle nicchie vi sono le statue di S Giuseppe, simbolo delle vita pratica, S Giovanni Battista, simbolo della vita contemplativa, S. Lorenzo e l’Arcangelo Gabriele. Un secondo chiostro era adibito a cimitero, in forme rinascimentali e con una croce al centro; i monaci venivano sepolti nella nuda terra avvolti in un lenzuolo; nelle balaustre vi sono simboli della morte: clessidre, falci, teschi. Dal chiostro si passa alle cucine, con una grande cappa e piano di cottura maiolicato, ed al refettorio dove i monaci prendevano i pasti insieme solo nelle domeniche ed in quaresima; un pulpito in marmi policromi del 1700 serviva per le letture, nella parete di fondo c’è un dipinto con le nozze di Cana del 1749. I monaci mangiavano pesce, latticini, verdure, uova, ma nei giorni dispari pane ed acqua. Si ricorda la visita di Carlo V per la quale fu preparata una frittata di 1000 uova ed è conservata l’enorme padella.
A sinistra del corridoio centrale c’è l’appartamento del Priore con loggiato e giardino, proseguendo il corridoio centrale si raggiunge il Chiostro grande, vastissimo e circondato da un portico; la sopraelevazione è stata aggiunta dopo ed è solamente una passeggiata coperta. Intorno al portico si trovano gli appartamenti dei padri di clausura, ciascuno con 3-4 camerette ed un piccolo giardino. Oltre alla preghiera ed alla meditazione i monaci si dedicavano alla trascrizione di documenti ed alla cura dell’orto che rappresentava il loro riposo ed il contatto con la natura. I monaci avevano una biblioteca molto fornita al secondo piano a cui si accede con una scala elicoidale autoportante che è uno dei gioielli del monastero. Alla fine del portico di sinistra del Chiostro grande c’è una torre ottagona ed una grande scala ellittica con due rampe che porta al piano superiore del chiostro dove c’è la passeggiata coperta. La scala è opera di un seguace del Vanvitelli. Il grande parco del monastero si stende sul lato ovest dove affaccia il loggiato del Priore.

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1.11 SUBIACO: SPECO DI S. BENEDETTO, S. SCOLASTICA E VILLA DI NERONE.

08.11.98 - 8:30 - Visita organizzata da ARTEMIGRANTE (Dott.sse S. Lupinacci e O. Beltramme).

Subiaco, sulla valle dell’Aniene sotto monte Livata nei monti Simbruini, deve la sua origine alla grande villa fatta costruire in questa zona da Nerone a cavallo dell’Aniene. Tacito ci informa della costruzione di tre laghi artificiali, i Simbruina Stagna, ottenuti sbarrando l’Aniene, intorno ai quali si sviluppò la villa che fu costruita in 6 anni dal 60 d.C.; Tacito racconta pure di un fulmine che spaccò in due la mensa dove Nerone banchettava; un abitato, formatosi con gli addetti alla manutenzione della villa, fu detto Sublaqueum, sotto i laghi, e divenne poi Subiaco. La zona era quella dove si allacciavano 4 degli acquedotti romani: Anio Vetus, Aqua Marcia, Anio Novus e Aqua Claudia, la via Sublacense era una strada di servizio per gli acquedotti e passava prima sulla riva sinistra dell’Aniene. Gli architetti di Nerone, Severo e Celere, intervennero profondamente sulla natura disponendo la villa a festone fra riva sinistra e riva destra intorno ai laghi, mimetizzata nella vegetazione, come luogo residenziale e di caccia e si stendeva forse fino ad Arcinazzo. Traiano, che risistemò l’Anio Novus la cui acqua era diventata torbida, prelevò l’acqua dal pelo del secondo lago, dopo decantazione, e costruì una sua villa negli altipiani di Arcinazzo, forse riutilizzando parte della villa di Nerone. I laghi erano già spariti nel 1500 forse a seguito dell’inondazione del 1305 e solo nel 1883-84, costruendo la strada per Ienne, affiorarono le prime fondazioni della villa di Nerone. Il nucleo più importante è quello vicino all’Aniene più in basso del monastero di S. Scolastica. Qui, sulla riva destra, sono stati trovati resti delle arcate di un ponte che doveva attraversare il fiume e forse aveva la funzione di diga per formare uno dei laghi. Vicino a questo ponte c’è un’area di scavi dove sono state scoperte murature romane, una cisterna rotonda circondata da murature medievali ed un’aula absidata del VI secolo, resto di un primo monastero di S. Benedetto dedicato a S. Clemente e poi distrutto nel XIII secolo. Altri resti della villa di Nerone sono stati trovati sull’altra riva con frammenti di mosaici in pasta vitrea e opus sectile, ed un altro nucleo della villa è ancora più a monte. Una ricostruzione della villa e della topografia dei laghi non è stata ancora possibile.

Verso la fine del V secolo, in una grotta vicino Subiaco, si ritirò in solitudine e meditazione il giovane Benedetto nato forse a Norcia nel 480 dalla nobile famiglia degli Anici dopo aver passato un certo tempo a Roma per studiare, come d’uso nelle nobili famiglie di quei tempi, ma rimasto deluso dai corrotti costumi della società romana. La solitudine di Benedetto durò solo 3 anni perché la fama della sua santità fece affluire molti seguaci ed egli formalizzò la regola di una vita comunitaria fondata sulla preghiera e sul lavoro (ora et labora) e divenne il padre del monachesimo occidentale contrapposto a quello eremitico orientale. Ben presto Benedetto fondò 12 monasteri dove distribuì i seguaci; i monaci prendevano i pasti ed avevano dormitori comuni, anziani e giovani stavano vicini per aiutarsi ed istruirsi e non c’erano celle. I monasteri erano delle comunità autosufficienti con campi coltivati ed allevamenti ed i monaci più colti si dedicarono alla copiatura di antichi codici contribuendo al diffondersi della cultura. Uno dei monasteri fu quello della sorella di Benedetto, Scolastica, non lontano dalla grotta, e questo è l’unico rimasto dei primi 12 fondati. Benedetto, abbandonata Subiaco, fondò nel 529 il famoso monastero di Montecassino ed il luogo del suo primo ritiro divenne meta di pellegrinaggio e venerazione. Innocenzo III (1198 - 1216) con una Bolla vi fece costruire un piccolo monastero e fino al 1400 il luogo si arricchì di dipinti e fu frequentato poi decadde e nella zona rimase il solo monastero di S. Scolastica. Innocenzo III riformò anche la regola e da quel momento gli Abbati dei conventi si riferivano ad un Priore in una struttura piramidale.
Il Sacro Speco di S. Benedetto si trova sulla parete scoscesa di un monte ed è oggi inserito in un complesso di edifici formati da due chiese sovrapposte, cappelle e grotte sistemate a scopo devozionale. Da un cancello in basso si sale per una ripida strada che attraversa un bosco di lecci e, raggiunto un terrazzo, si entra nel santuario nella Sala del Capitolo Vecchio con dipinti umbro-toscani della fine del 1400. Per una scala si scende alla Chiesa Inferiore costituita da una serie di ambienti a diverse quote con volte e pareti dipinte. Il primo ambiente, il più alto, ha trascritta sulla parete di fondo la Bolla di Innocenzo III del 1200, ed in alto l’immagine del papa dipinta nel secolo successivo, poi una nicchia con Madonna e Bambino del Magister Conxolus del 1200; sulla volta a crociera vi sono i simboli degli Evangelisti e sulle pareti un ciclo di affreschi dello stesso autore con le storie di S. Benedetto ed i suoi miracoli insieme ai suoi seguaci Mauro e Placido; le storie sono tutte tratte dai Dialoghi di Gregorio Magno (VI sec.). Il ciclo prosegue nell’ambiente più basso con sulla volta il Cristo ed i Padri della Chiesa. Di lato si apre il Sacro Speco, la grotta scavata nella roccia, ridecorata nel 1600. Scendendo ancora si trova la cappella di S. Gregorio dove il papa venne per documentarsi sul Santo con i suoi seguaci. Qui gli affreschi sono attribuiti ad un Maestro di Frate Francesco e c’è un preziosa immagine di S. Francesco che forse è un vero ritratto essendo Francesco venuto qui ed è raffigurato senza le stimmate e senza aureola. Vicino è la Scala Santa che conduce alla sottostante grotta dei pastori seguendo l’antico sentiero scavato nella roccia che portava al Sacro Speco divenuto percorso dei pellegrini. La Scala è stata decorata a metà del 1300 ed i soggetti sono ispirati alla pestilenza del 1348 (quella raccontata dal Boccaccio). Le raffigurazioni sono simboliche: la morte che trafigge i ricchi e risparmia i poveri e disperati. A metà della Scala si apre la Cappella della Madonna della metà del 1300 con storie della Vergine: Annunciazione, Natività, Adorazione dei Magi, morte della Vergine ed in alto dipinta con Cristo sullo stesso piano. Alla fine della Scala è la Grotta dei pastori con l’affresco più antico di stile bizantino; fuori è la facciata dell’antico ingresso al santuario. Un piccolo giardino contiene delle rose che si dice siano state innestate da S. Francesco.
Ritornando in alto si accede alla Chiesa Superiore costruita agli inizi del 1200 e decorata a metà del 1300 da un maestro di bottega sconosciuto con un ciclo cristologico, fra i soggetti una Crocifissione, bacio di Giuda, Flagellazione, entrata di Cristo a Gerusalemme. Nel transetto i dipinti sono della prima metà del 1400 di maestri umbro-toscani con vite di S. Benedetto e seguaci.

Il monastero di S. Scolastica, più in basso del Sacro Speco, è stato ricostruito, dopo i bombardamenti del maggio 1944, secondo la tipologia del 1700. Il monastero, uno dei primi 12 fondati da S. Benedetto, era intitolato prima a S. Silvestro, poi a Silvestro, Benedetto e Scolastica e poi solo a S. Scolastica ed è l’unico sopravvissuto dei primi 12. La prima costruzione risale al VI sec., sopra dei resti della villa di Nerone; ebbe una chiesa e 3 chiostri che erano i luoghi di incontro della vita monastica. Il primo chiostro dopo l’ingresso è il più recente, del 1580, ha un portico su due lati ed aveva una fontana al centro sostituita ora da una statua di S. Scolastica. Sul chiostro affaccia la biblioteca e gli antichi ambienti dello Scriptorium dove si copiavano i testi. Qui nel 1465 uscirono i primi libri stampati in Italia: De Oratore di Cicerone e De Divinis Institutionibus di Lattanzio e nel 1467 De Civitate Dei di S. Agostino. Il secondo chiostro, più avanti, di forme irregolari e in stile gotico, è il più antico, del 1052, ed è dominato dal campanile romanico della chiesa (XI sec.); il portico contiene numerosi reperti romani provenienti dalla villa di Nerone e dalla villa di Traiano: sarcofagi, pezzi di colonne, capitelli, epigrafi. Dal secondo chiostro si passa alla chiesa del 1700, unica opera in Italia dell’architetto Giacomo Quarenghi che lavorò molto a Pietroburgo chiamatovi dalla regina Caterina di Russia. Lo stile è neoclassico e le colonne di ingresso provengono dalla villa di Nerone; fu finanziata da Pio VI (1775 - 1799) che era stato abate di Subiaco ed è senza decorazioni. Alla chiesa si entra pure direttamente da un ingresso esterno laterale. Sulla destra della chiesa è il terzo chiostro, del XIII secolo, lavorato da due generazioni di marmorari romani: i Cosma padre e figli. Il portico è un susseguirsi di gruppi di archetti romanici con colonnine semplici e binate e pilastrini, il secondo ordine del chiostro è del 1500. Al centro è un bel pozzo con materiali provenienti dalla villa di Nerone.

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1.12 IL CASTELLO DEI PRINCIPI MASSIMO AD ARSOLI.

15.11.98 - 9:30 - Visita organizzata da PALLADIO (Dott.ssa C. Lollobrigida).

Il borgo di Arsoli, feudo della famiglia Massimo dal 1540, è stato sempre un’appendice del castello posto fra i due assi viari della Tiburtina e della Casilina che collegavano alle regioni dell’est, Abruzzo e Puglie, e che furono usate nel medioevo come vie preferenziali di pellegrinaggio e traffici. Nel Lazio dominato dal papato e dalle grandi famiglie romane i feudi erano dei latifondi ed intorno al castello del signore non si creavano vasti borghi feudali come nel nord dell’Italia. Il castello di Arsoli ha preceduto il borgo ed è nato come monastero benedettino nel X secolo al centro di un latifondo coltivato dai monaci. Nel 1200 la famiglia Passamonti diviene proprietaria, forse per vendita da parte dei monaci, e da questo momento il convento viene trasformato in fortezza per la sua posizione strategica. I Passamonti tengono la proprietà per 300 anni circa; nel 1574 è acquistato dai Massimo che a Roma avevano ristrutturato nel 1400 il complesso dell’Isola de’ Massimi con il Palazzo Massimo alle Colonne. La famiglia Massimo, che una tradizione fa risalire a Fabio Massimo il Temporeggiatore, è un delle più antiche famiglie romane con discendenza documentata dal 999, divennero marchesi nel 1600 e principi nel 1700 e furono imparentati con i Borboni ed i Savoia; in questo castello fu ospitato S. Filippo Neri, loro grande amico, e molti altri ospiti illustri fra cui Garibaldi nel 1849; nel 1944 il castello fu occupato dalle truppe Tedesche. Con i Massimo il borgo di Arsoli comincia a svilupparsi e nel 1600 vengono promulgati nel feudo codici scritti civili e penali. La peste scoppiata nel 1656, seguito di quella manzoniana, decima la popolazione di Arsoli e subito dopo il marchese Fabrizio Massimo promuove l’istituzione di corporazioni di sellai e conciatori e di una fabbrica di stoviglie, ottiene inoltre l’istituzione di un mercato settimanale agricolo che in pochi anni ridiede vita al borgo. Nel 1700 si ebbe una farmacia ed un teatro dove recitavano anche gli arsolani. Attualmente il castello è ancora proprietà della famiglia Massimo.
Il castello domina la valle ed è circondato da un vasto parco che copre la collina alle sue spalle. Si entra nel parco da un cancello e seguendo un viale si giunge davanti al castello preceduto da un ampio giardino all’italiana con siepi di mortella e fontane. Il castello presenta due torri merlate con bifore ogivali ed al centro un portico ad arcate, forse resto di un antico chiostro monastico. La costruzione è un insieme di stili diversi, dal 1500 al 1700 e gli ultimi ritocchi risalgono alla fine del 1800.
Prima di salire al castello si visita il parco salendo sulla collina. In asse con il castello si trova una fontana e, ancora più in alto la statua della Dea Roma portata qui dalla villa Montalto di Roma, divenuta villa Massimo, ma in origine proveniente dalle terme di Costantino. Sulla stradina a tornanti che sale alla collina si incontra una torre rotonda abbandonata costruita dai Passamonti come torre di vedetta. Ancora più in alto si trova una cappellina funeraria in una radura dove era sistemato un cimitero già usato anche dai Massimo.
Si sale al castello attraverso una porta dominata da una piccola torre cilindrica e si giunge nella prima corte dove si trovano alcuni edifici di servizio. Da qui si accede anche alla vicina chiesa del SS. Sacramento di Giacomo della Porta. Per un’altra rampa si sale agli appartamenti; nell’atrio una carrozza usata per la traslazione del corpo di S. Francesca Romana. Il primo ambiente è un lungo corridoio detto dell’Armeria Nuova per la collezione di armi ed armature del 1500 e 1600. Sulla destra è la sala detta di Marco Benefial per i dipinti che la decorano. La sala è decorata con finte colonne, cornici e riquadri con vedute fra le finestre, finte nicchie con allegorie e busti anche questi dipinti. Sulla volta a padiglione è rappresentato il matrimonio di Perseo e Andromeda. Sulla parete principale, sopra il caminetto c’è un grande paesaggio: la vallata di Arsoli come si vede dalle finestre con una balaustra dipinta che da il senso della profondità. Il Benefial nella prima metà del 1700 operò una rivoluzione nel panorama artistico del suo tempo anticipando il neoclassicismo. Sopra le porte di ingresso vi sono due dipinti monocromi rappresentanti la mietitura e la vendemmia. La stanza comunica con tre stanze da letto con mobili originali, poi segue la sala di Macci e Zuccari con la volta dipinta da Federico Zuccari nel 1557 e le pareti da Macci nel 1700 forse in sostituzione di arazzi saccheggiati. La volta a padiglione è decorata a grottesche e motivi floreali e vi sono due riquadri che rappresentano due trionfi romani. Le pareti hanno dei grandi dipinti che rappresentano le fatiche di Ercole, progenitore della gens Fabia da cui si dicevano discendere i Massimo. Tornando al corridoio delle armi si passa in un giardino pensile esterno circondato da arcate, i resti dell’antico chiostro che si vedono da fuori, al centro è una fontana e sul lato dell’edificio è la facciata di una piccola cappella che risale alla fine del 1200 ma rimaneggiata successivamente con decorazioni gotiche e cosmatesche prese da altre parti. L’interno è stato decorato a cavallo fra il ‘500 ed il’600 con dipinti riportati. Sull’altare c’è una Adorazione che segue i canoni dell’arte figurativa della Controriforma attenta al rispetto della tradizione cattolica e senza distrazioni dal soggetto principale. Dal giardino pensile si può vedere il giardino all’italiana antistante il castello.

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1.13 PERUGIA.

22.11.98 - 7:00 - Visita organizzata da ITINERA (Arch. M. Eichberg).

Perugia, città etrusca di epoca tarda (VI sec. a.C.) di cui rimangono mura del IV secolo, resistette a lungo ai Romani fino alla sua sottomissione agli inizi del III secolo a.C., fu poi fedele ai Romani durante le guerre annibaliche ed acquistò la cittadinanza nel 90. Nella guerra civile fra Ottaviano ed Antonio fu assediata da quest’ultimo e distrutta da un incendio, risorse come Augusta Perusia e dopo non si hanno più notizie, anche scarsi sono i monumenti romani. Nel medioevo fu distrutta da Totila (547), dal secolo XI fu comune guelfo, sottomise la regione del Trasimeno, Gubbio e Assisi, fu abitata da molti papi e vi si tennero 5 conclavi nella canonica della Cattedrale da cui uscirono eletti Onorio III (1216), Clemente IV (1265), Onorio IV (1285), Celestino V (1294) e Clemente V (1305). Nel 1348 fu devastata dalla peste nera; nel 1370 Urbano V (1362 - 1370) le impose i legati pontifici, poi si ebbe un periodo di lotte intestine, un intervallo di pace si ebbe con la signoria di Fortebraccio da Montone (1416-24) ma le lotte proseguirono con la potente famiglia dei Baglioni. Alla fine, dopo una rivolta provocata dalla “tassa del sale” imposta dal pontefice, Paolo III (1534 - 1549) prese la città con la forza e fece costruire da Antonio Sangallo il Giovane la Rocca Paolina sulle rovine delle case dei Baglioni. Il dominio papale durò ininterrotto per due secoli fino all’arrivo dei Francesi di Napoleone nel 1798; passarono poi la restaurazione, la rivolta del 1849 ed infine venne l’unificazione d’Italia nel 1860 dopo la quale fu demolita la rocca di Paolo III.
Arrivando da sud ai piedi della collina, dove sorgeva la Rocca Paolina, un percorso pedonale sale verso il centro con un insieme di scale mobili e rampe che sfruttano le antiche strutture della fortezza e si esce da sotto il palazzo della Prefettura a piazza Italia. Da qui si prende il lungo Corso Vannucci, reso zona pedonale, che porta a piazza IV Novembre, centro cittadino con la Cattedrale di S. Lorenzo ed il palazzo dei Priori. Il lato più lungo del palazzo dei Priori, con le parti più antiche, si trova su Corso Vannucci dove si aprono i portali di ingresso alle sedi delle Arti del Cambio e della Mercanzia, le due Arti più ricche ed influenti della Perugia medievale.
Il portale del Collegio del Cambio, sede dei Cambiavalute, porta un simbolo costituito dal Grifo perugino sopra un forziere. Si entra in un vestibolo e si passa a destra nella Sala delle Udienze; di fronte all’ingresso è l’elegante bancone intagliato ed intarsiato dove sedevano i giudici del collegio; tutto l’arredo e le pareti in basso sono in legno intarsiato con grottesche, le pareti in alto e la volta a vele costolonate sono dipinte dal Perugino e dalla sua scuola. I collaboratori lavorarono soprattutto sulla volta decorata con grottesche a colori forti e con raffigurazioni di pianeti e costellazioni abbinate. La mano del Perugino è evidente sulle pareti e forse fra gli allievi vi ebbe il Raffaello, le immagini sono frontali, staccate fra di loro e non si fondono con il paesaggio dello sfondo. Sulla parete lunga di ingresso due gruppi: uno con Fabio Massimo, Socrate, Numa Pompilio, Camillo, Pittaco e Traiano sotto una lunetta dove sono raffigurate la Prudenza e la Giustizia, nel secondo gruppo vi sono Lucio Licinio, Leonida, Orazio Coclite, Publio Scipione, Pericle e Cincinnato sotto un’altra lunetta con la Fortezza e la Temperanza (nella Fortezza si è vista la mano del Raffaello). Sulla parete corta di fondo c’è una Trasfigurazione ed una Natività; nell’altra parete lunga il gruppo dei Profeti e quello delle Sibille; sul lato corto della finestra la figura isolata di Catone, simbolo della saggezza.
Da un altro portale si entra nella Sala del Collegio della Mercanzia, l’arte più antica; la sala è rettangolare con due volte a crociera in stile gotico e tutta ricoperta da decorazioni lignee a intarsio con quadrati e quadrilobi tutti diversi.
Il palazzo dei Priori, uno dei più belli d’Italia, ha il suo ingresso monumentale su piazza IV Novembre; il palazzo fu iniziato nel 1290 ma ampliato e completato nel 1500. Una scala a ventaglio sale ad un ampio portale da cui si accede alla Sala dei Notari, sopra il portale, su due mensoloni, poggiano il Grifo, simbolo di Perugia ed il Leone guelfo, sono in bronzo, opere di fusione del ‘200; la facciata su questo lato è ornata da trifore ben distribuite, in alto il cornicione merlato. Bellissima è anche la facciata su Corso Vannucci: al primo piano vi è una serie di finestre trifore accostate come per una galleria e sovrastate da una cornice marcapiano, al secondo piano 19 splendide trifore gotiche con timpani triangolari, una torre si solleva dal cornicione. Entrando dal portale principale si ammira la grande sala dei Notari, prima Sala del Gran Consiglio, ampia 32 x 14 m e retta da 8 arconi a tutto sesto; la decorazione che copre arconi e volte è attribuita alla scuola del Cavallini. I soggetti sono ispirati all’arte del buon governo; vi sono favole di Esopo e scene del Vecchio e Nuovo Testamento, in fondo gli stemmi dei Priori fra cui quello di Fortebraccio da Montone.
Al centro della piazza si trova la Fontana Maggiore, attualmente ricoperta per i restauri, opera di Nicola Pisano e del figlio Giovanni e forse di Arnolfo da Cambio. La fontana, sopra una gradinata circolare, è costituita da due bacini poligonali sovrapposti in marmo con 24 facce con bassorilievi ed in alto una vasca di bronzo. La fontana fu costruita come termine di un acquedotto.
Sul lato nord di piazza IV Novembre c’è il fianco della cattedrale di S. Lorenzo, dedicata al patrono della città e costruita fra il 1345 ed il 1490. Sul fianco si apre un portale, a sinistra la loggia di Fortebraccio da Montone del 1423, davanti la statua in bronzo di Giulio III, sulla parete un pulpito in marmo e mosaici da cui predicò S. Bernardino da Siena nel 1425. La facciata della Cattedrale, grezza e incompleta, da sulla vicina piazza di Vincenzo Danti. Nell’interno si nota la sua struttura di chiesa a sala con le navate laterali di pari altezza a quella centrale; poiché la chiesa non ha contrafforti esterni la sua debole struttura statica è stata rinforzata con l’uso di numerose catene che legano in alto le pareti esterne con i pilastri ottagonali. L’opera più interessante all’interno è la cappella o oratorio di S. Bernardino, costruita dopo la morte del santo per conto del Collegio della Mercatura. Si trova all’inizio della navata di destra e sull’altare ha una Deposizione del Barocci (1569) con la Vergine svenuta ai piedi della croce e uno sfumato che richiama il Correggio.
Lasciando piazza Danti verso nord-est si incontra il palazzo dei Ranieri di Sorbello sotto il quale è stato scoperto un pozzo etrusco del III-IV secolo a.C. profondo da 35 a 60 m capace di contenere 430000 litri di acqua. Interessante è la struttura della costruzione che può essere osservata da vicino portandosi a diversi livelli con una scala scavata nella roccia. Il pozzo è formato da una prima canna cilindrica di 5,3 m di diametro e profonda 12 m rivestita da blocchi di travertino; in alto un sistema di capriate formato da due coppie di blocchi di travertino posti obliquamente a formare due capriate vicine ed un quinto blocco trasversale che forma la chiave comune centrale. Sotto la prima canna scende una seconda canna di 3 m di diametro che raggiunge la falda; una passerella si trova alla base della prima canna per meglio osservare il pozzo. La vera del pozzo, che però rimonta al 1500, si trova su piazza Piccinino
Da piazza Piccinino continuando verso est si raggiunge la chiesa di S. Severo in origine del 1007, ricostruita poi nel 1700, di cui rimane ora solo una cappella rettangolare che conserva un affresco di Raffaello, ultimo lavoro in Perugia prima di partire per Roma. Il lavoro fu fatto in comune con il Perugino che dipinse in un secondo tempo la scena inferiore: sei santi ai lati di una Madonna con Bambino in terracotta colorata, i sei santi sono schierati sullo stesso piano secondo lo schema del Perugino. In alto le figure di Raffaello sono poste invece in semicerchio introducendo il senso della profondità.
Si torna indietro lungo Corso Vannucci, dove si vede a sinistra il palazzo dell’Università, e si raggiunge piazza Italia dove si trova il centro amministrativo della città con palazzi costruiti dopo l’unità d’Italia. Sul lato sud è il palazzo della Provincia costruito sulle strutture della Rocca Paolina, sul lato ovest il palazzo della Banca d’Italia dell’architetto Calderini, lo stesso che ha progettato il palazzo di Giustizia a Roma, sul lato nord il palazzo Donadoni in stile borrominiano con colonne agli spigoli. Dietro il palazzo della Provincia si prende via Marzia scendendo lungo i bastioni che sorreggevano la Rocca Paolina e si incontra porta Marzia, antica porta etrusca (III-II sec. a.C.), poi romana, che Antonio da Sangallo il Giovane integrò nella fortezza lasciando solo l’arco ed il coronamento con una specie di loggia da cui si affacciano Giove ed i Dioscuri, numi tutelari della città; sopra la loggia è la scritta “Colonia Vibia” e sotto “Augusta Perusia”. Entrando da porta Marzia si percorre una strada sotterranea all’interno della rocca dove alla fine del 1300 la famiglia Baglioni costruì le sue case; queste furono distrutte dopo la guerra del sale del 1540 e sopra vi sorse la fortezza, la strada divenne un percorso interno per l’accesso alle cannoniere ed alla polveriera. Gli scavi hanno riportato alla luce resti delle case dei Baglioni e tutta l’area è stata adibita a mostre temporanee; si ha una visione suggestiva delle fortezza come vista dall’interno con le cannoniere, le feritoie sugli speroni ed i fori degli esalatori dei fumi praticati sulle volte.
Antonio da Sangallo il Giovane (1483-1546), figlio di una sorella di Giuliano da Sangallo e Antonio il Vecchio, fu architetto di talento che lavorò in campo civile, religioso e militare. In campo civile si ricorda il palazzo Baldassini a Roma (1514-20) in cui definisce il prototipo del palazzo gentilizio romano con ingresso decentrato, e scala all’interno del cortile; è anche suo l’ingresso ed il vestibolo di palazzo Farnese a Roma. In ambito religioso successe al Bramante nella direzione della fabbrica di S. Pietro, sue sono le chiese di S. Maria di Loreto, S. Giovanni dei Fiorentini e S. Maria in Monserrato a Roma. Come architetto militare lavorò per Paolo III Farnese alla fortezza ed alla cinta muraria di Civita Castellana ed adottò la forma pentagonale come quella con gli angoli più adatti alla difesa; lavorò poi alla residenza fortificata di Caprarola, finita poi dal Vignola. Sue sono la fortezza dei Medici a Firenze (1533), la fortezza di Ancona (1534), la fortezza di Piacenza (1546). A Roma iniziò le fortificazioni della cinta Aureliana contro il pericolo dei Turchi (Bastione di Sangallo) dopo il 1530 ma il progetto fu poi interrotto. La Rocca Paolina a Perugia fu ideata dal Sangallo con due bastioni collegati da un camminamento, uno ad est dove si trova porta Marzia che dominava la città, per prevenire le rivolte, e l’altro ad ovest che guardava la valle a difesa della città.

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1.14 ALBA FUCENS, S. MARIA IN VALLE PORCLANETA E ROSCIOLO DEI MARSI.

06.12.98 - 7:00 - Visita organizzata da ITINERA (Dott. G. Maroni).

Dall’uscita per Avezzano dell’autostrada A25 per Pescara, fra monte Velino e la piana del Fucino, si raggiunge, un po’ più a nord, l’area archeologica di Alba Fucens, colonia romana, scavata da archeologi belgi nel 1949. La colonia, sul percorso della Tiburtina-Valeria, fu fondata nel 304 a.C. dopo che i Romani prolungarono la Tiburtina con la Valeria attraversando la zona degli Equi che vivevano in villaggi fortificati e rappresentavano una minaccia con le loro razzie. I Romani in 57 giorni distruggono i villaggi degli Equi e fondano poi due colonie: Carsoli e Alba Fucens, quest’ultima con 6000 coloni, ai due confini del territorio degli Equi. L’area di Alba Fucens occupava tre colline e fu cinta da mura e dotata di un reticolo regolare di strade creando dei terrazzamenti con muri di contenimento per adattarsi all’orografia della zona disponendo così strade parallele a diversi livelli. Le due strade principali perpendicolari sono la Valeria, o via del Miliario, ed il Cardo; le tre colline sono, a sud quella di S. Pietro dove si trovava il tempio ad Apollo poi trasformato nella chiesa di S. Pietro, a nord-est quella di Pettorino e a nord quella di S. Nicola o della Rocca degli Orsini. Dalle colline si vede la valle del Fucino (da cui Fucens) dove si trovava il lago di Fucino, il terzo lago d’Italia per grandezza dopo il Garda ed il Lago Maggiore. Il lago fu prosciugato da Claudio e Traiano per aumentare i terreni coltivabili costruendo un emissario in parte in galleria che portava le acque nel fiume Liri. L’emissario funzionò fino al VI secolo poi il lago tornò a riempirsi ed i tentativi per ripristinarlo furono sempre parziali fino al 1853 quando il duca Alessandro Torlonia affrontò l’impresa e costruì un nuovo emissario dal 1854 al 1870.
Si entra nell’area archeologica da est scendendo il Cardo fino all’incrocio con la Valeria dove inizia il centro politico e commerciale cittadino con un grande portico rettangolare e la Basilica, ambiente coperto su una piattaforma dove si amministrava la giustizia. Gli edifici più importanti si trovano fra la Valeria ed una strada parallela detta via dei Pilastri per i 4 pilastri di un portico rimasti in piedi. Sulla Valeria, a sud dell’incrocio, si trova un cippo miliario che segna le 64 miglia da Roma, il cippo è una copia perché l’originale si trova nel museo di Celano. A sud della Basilica si trova il Macellum, il mercato coperto di età imperiale (I secolo d.C.) con le botteghe intorno ad una piazza circolare. Fra il Macellum e la via Valeria c’è un podio con un doppio tempietto; dal lato della via dei Pilastri si trovano le Terme, anche queste di età imperiale, con la vasca del calidarium in un ambiente con abside circolare, il sistema di circolazione dell’aria calda con le sospensure e l’ambiente delle foriche (latrine). Più a sud, sempre fra la Valeria e la via dei Pilastri, si trova una vasta area rettangolare con portico, solo in parte liberata dallo scavo, che doveva essere mercato scoperto e fiera del bestiame. Sul lato di testa, un ambiente rettangolare, dove è stata trovata una statua di Ercole dio dei commerci che proteggeva i mercanti, è stato identificato come tempio di Ercole. Sul lato sinistro della via Valeria, in posizione più rialzata, sono stati liberati i resti di una domus imperiale (I secolo d.C.) con le mura in opus incertum in pietra ed un colonnato in mattoni stuccati nel peristilium. La domus è molto vasta e si appoggia a ovest ad un muro di contenimento del 304 a.C.. Sempre a ovest una strada parallela sopraelevata conduce al grande anfiteatro scavato nella collina; è di forma ellittica ed ha due grandi portali diametralmente opposti. Un’iscrizione trovata vicino ad una delle porte indica l’anno di costruzione, il 38 a.C., al tempo di Caligola, per lascito ereditario.
Si sale sulla collina di S. Pietro; da qui si ha una vista completa dell’area archeologica con lo sfondo del monte Velino e della piana del Fucino sul lato opposto; si vedono verso nord la collina di Pettorino con alle falde i resti di un teatro, e quella della Rocca degli Orsini. Sulla sommità è la chiesa di S. Pietro in Albe costruita sui resti dell’antico tempio italico di Apollo. Nel 1115 una bolla di Pasquale II (1099 - 1118) la nomina come diocesi dei Marsi. Di questo periodo è la costruzione dell’abside aggiunta dietro la cella del tempio di Apollo. La chiesa fu gestita dai monaci benedettini di Montecassino. L’interno è a tre navate divise da due file di 8 colonne corinzie recuperate dal tempio romano, anche le mura hanno riutilizzato quelle della cella del tempio; nel XIII secolo fu arredata con un’iconostasi ed un ambone, opera di maestri cosmati. Nel XV secolo fu anche affrescata; durante il terremoto del 1915 la chiesa fu distrutta e fu ricostruita nel 1957; gran parte degli affreschi però sono andati perduti e quelli recuperati sono ora al museo di Celano, pochi sono i frammenti rimasti nella chiesa. Il pavimento è quello del XVI secolo e, circa 30 cm, sotto è stato scoperto quello romano del III secolo. Sotto l’abside si trova una cripta con il sarcofago di S. Vito.

La chiesa di S. Maria in Valle Porclaneta si trova a nord-ovest di Alba Fucens passando da Magliano dei Marsi ed è nel territorio di Rosciolo dei Marsi a 1022 m di quota ai piedi del Velino. Alcune iscrizioni documentano che agli inizi del 1000 la chiesa fu donata dal feudatario del luogo costruendola forse sopra un antico tempio pagano. Nel 1080 vennero i Benedettini che da questo momento costruirono un monastero che oggi non esiste più e decorarono la chiesa di impianto romanico. La chiesa era addossata alla roccia, ed infatti all’interno si vede ancora uno sperone di roccia, solo recentemente è stata separata costruendo la strada. L’abside all’esterno è di forma pentagonale. La chiesa è preceduta da un portico e sopra il portale, di forme protogotiche, si trova una Madonna con angeli del 1400, a sinistra una S. Lucia di stile bizantino. All’interno si trova un ambone del 1150 costruito in stucco di materiale siliceo con belle decorazioni a rilievo che rappresentano personaggi e storie dell’Antico Testamento: Salomone, Sansone e Giona: Gli artisti, sconosciuti, si erano formati in una scuola locale. Davanti al presbiterio c’è un’iconostasi sovrastata da una trabeazione lignea, unica nel suo genere. Sopra l’altare c’è un ciborio di stile bizantino; sulle pareti vi sono affreschi di autore ignoto ed a sinistra dell’altare una Crocifissione del 1300 con Cristo bizantino nello stile trionfante. La chiesa subì distruzioni da parte delle truppe di Corradino di Svevia prima della battaglia di Tagliacozzo (1268).

Il paesino di Roscilo dei Marsi si trova un po’ più a sud a 909 m di quota ed è circondato da antiche mura medievali. Sulla piazza c’è la chiesa di S. Maria delle Grazie con una facciata del 1446 con portale e rosone gotico. L’interno, rifatto più volte, ha subito recentemente dei restauri che hanno fatto scoprire degli affreschi del 1300 sotto altri del 1400, la stessa epoca della facciata.

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1.15 IL CASTELLO DI ROCCA SINIBALDA E L’ABBAZIA DI FARFA.

14.02.99 - 8:00 - Visita organizzata da PALLADIO (Arch. G. Ametrano e Dott.ssa C. Lollobrigida).

Presa la Salaria, da Fiano Romano sulla A1, in direzione di Rieti la si lascia per Monteleone Sabino e, dopo un percorso tortuoso di circa 20 km si raggiunge il paesino di Rocca Sinibalda, provincia di Rieti, a 552 m di quota dominato dal poderoso castello costruito nella forma attuale nel 1536 da Gian Giorgio Sforza Cesarini su progetto di Baldassare Peruzzi. Questo è uno dei tanti castelli distribuiti nel Lazio, centri di potere delle grandi famiglie romane che gravitavano nell’orbita del papato, una situazione anomala rispetto alle altre regioni italiane che avevano conosciuto le libertà comunali dopo la formazione dei borghi feudali. La Rocca Sinibalda fu eretta per la prima volta nel 1050 dal conte Sinibaldo, discendente di Carlo Magno, nel 1530 fu completamente rifatta con il Peruzzi dal cardinale Cesarini con una pianta a forma di aquila; il progetto risente della nuova strategia difensiva sviluppatasi nel 1500 con il diffondersi delle macchine da sparo. Le torri diventano circolari, perché ogni spigolo è un punto debole e per deviare i proiettili, le mura si ispessiscono, i bastioni si fanno a scarpa e si inseriscono negli angoli in modo avanzato per difendere con tiro incrociato i tratti rettilinei di mura, le bocche da sparo vengono disposte a più livelli per coprire ogni direzione di attacco. Fra il 1400 ed il 1500 i Sangallo, Michelangelo e il Peruzzi sono tutti grandi architetti di opere di difesa. Rocca Sinibalda divenne Cesarini e successivamente Sforza per fusione delle famiglie. Oggi è proprietà privata della famiglia Desterani, importatore delle macchine Skoda.
Si sale all’ingresso del castello e con un lungo corridoio si giunge al cortile centrale dove si affacciano un loggiato e le finestre degli appartamenti. Dal lato destro del cortile si scende nelle cantine, antichi magazzini con archi e volte a botte attualmente vuoti, poi si torna indietro e si sale a primo piano dove si trovano gli appartamenti residenziali. Vi sono una serie di stanze con decorazioni attribuite a Brill (paesaggi), Zuccari (grottesche) e Pomarancio (soggetti mitologici), in realtà si tratta di maestri sconosciuti, seguaci di queste scuole, che nel 1500 operavano in tutti i castelli del Lazio. Le decorazioni seguono uno schema fisso, un lungo fregio sotto il soffitto diviso in riquadri e con finte architetture; alcuni dipinti sono un po’ grossolani. La serie di stanze finisce nell’estremità nord in un loggiato che guarda sul vicino monte Sole (1022 m). Salendoal secondo piano si accede al camminamento delle mura che permette di godere del panorama su 360 gradi.
Prima di uscire dal castello, passando dal cortile, si visita il giardino sul lato sud su uno sperone del castello con vista sulla valle.

Da Rocca Sinibalda, tornando sulla Salaria verso Roma si devia per Frasso Sabino; prima dell’abitato c’è una zona destinata al mercato del bestiame e dei prodotti locali ogni prima settimana del mese. Vicino si trova la cosiddetta Grotta dei Massacci, un’antica tomba romana inglobata in un casale del 1700, posto di ristoro sulla strada, utilizzato poi anche come officina meccanica. Uno degli ingressi del casale è la galleria di accesso alla tomba a due piani costruita con enormi massi di calcare squadrati (da cui il nome di Massacci). La tomba è certamente di età repubblicana. Con il finanziamento della Comunità Europea si sta restaurando il reperto archeologico e trasformando il casale in una mostra permanente dell’artigianato locale.
A Frasso Sabino si trova pure un altro castello degli Sforza Cesarini del 1500 poi molto rimaneggiato e recentemente restaurato. In origine il castello fu costruito nel X secolo e per molto tempo fu proprietà dell’abbazia di Farfa.

L’Abbazia di Farfa, vicina a Fara Sabina sulla strada per Poggio Mirteto, fu un famoso centro monastico benedettino già al tempo dei Longobardi ad opera del monaco franco S. Tommaso di Maurienne. Appoggiò i Franchi alla calata di Carlo Magno nel 774 e divenne Abbazia imperiale; questo fu il suo periodo d’oro. Nell’898 fu saccheggiata dai Saraceni che nelle loro scorrerie risalivano il Tevere ma fu ricostruita e riprese il suo primato culturale con gli abati Ugo e Berardo I. Nel 1122 con il concordato di Worms passò sotto la giurisdizione del papa e da quel momento fu retta da un abate Commendatario nominato dal papa fino al 1841 quando Gregorio XVI soppresse la commenda. Nel 1872 l’Abbazia fu incamerata dallo Stato italiano e posta all’asta. Attualmente è per 2/3 dello Stato, che ha in corso i restauri, e per 1/3 dei monaci (solo in 5) che la hanno riaperto al culto.
L’abbazia sorge all’interno di un borgo che si sviluppò durante la lotta delle investiture come un piccolo stato feudale; le case disposte in filari erano affittate dai monaci ai mercanti. A destra della chiesa si entra da un lungo corridoio fino al chiostro; da qui si vede la grande torre campanara che nella parte bassa è del IX secolo mentre gli ultimi tre piani con trifore sono del secolo XI. Le parti più antiche dell’abbazia sono del periodo carolingio. In una sala si trova l’epigrafe sepolcrale, datata 830, dell’abate Sicardo che costruì la chiesa, l’epigrafe fu riutilizzata nel XIII secolo rovesciandola e decorandola con un mosaico cosmatesco; è stata ritrovata durante gli scavi nella chiesa. Da un ambiente vicino si accede alla cripta sotto la chiesa la cui pianta riproduce la forma dell’abside carolingia sovrastante; qui si trova un sarcofago romano del II-III secolo d.C., riutilizzato come vasca, con un altorilievo rappresentante una battaglia fra Romani e Daci. La parte più famosa dell’abbazia è la biblioteca archivio che ha origine nel secolo XI con un famoso Scriptorium di monaci clunacensi che produssero preziosi manoscritti, incunaboli, cinquecentine, corali e canti gregoriani. Sono rimasti ancora circa 45000 volumi conservati nelle sale e nell’archivio della biblioteca.
Da ultimo si visita la chiesa che rimonta all’epoca di Sicardo ma fu ricostruita dal cardinale Orsini nel 1484 mentre era Commendatario. L’interno è a croce latina a tre navate; le colonne sono di recupero da un antico tempio pagano dedicato alla dea sabina Vacuna che qui si trovava. Sulla controparete è dipinto un Giudizio Universale di pittori fiamminghi della metà del 1500, il soffitto è a cassettoni come quello di S. Maria Maggiore a Roma e sulle pareti vi sono decorazioni a grottesche della scuola degli Zuccari (fine 1400). Il coro ed un grande leggio sono di legno e del 1600. Sulla facciata vi è un bel portale ogivale della fine del 1400 con un affresco di arte umbra con Madonna, Bambino e Santi.

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1.16 ANAGNI E FUMONE.

21.03.99 - 7:00 - Visita organizzata da ITINERA (Dott.ssa R. Randolfi).

Anagni è uno dei centri storicamente più importanti della Ciociaria, ha conservato soprattutto il suo aspetto medievale ma è città antichissima, popolata in origine dagli Ernici, fu a capo della Lega Ernica fra numerose città. Quando Roma cominciò ad estendere la sua influenza, nel 350 a.C. accusò la Lega di non rispettare i patti e nel 306 ne completò la conquista. La sua posizione dominante sulla valle del Sacco è stata a fondamento della sua importanza nel controllo di questa via di comunicazione. Nel medioevo la zona era dominata dalla famiglia Conti da cui vennero i papi Innocenzo III (1198-1216), Gregorio IX (1227-1241) e Alessandro IV 1254-1261) poi dai Caetani con il papa Bonifacio VIII (1294-1303) e fu sede di molti avvenimenti storici; vi fu segnata la pace fra Innocenzo III e il Barbarossa nel 1177, Alessandro IV scomunicò Federico II, venne canonizzata S. Chiara nel 1255, nel 1303 avvenne il famoso episodio dello “schiaffo di Anagni”. Anagni fu saccheggiata dal duca d’Alba nel 1556 durante la guerra fra Paolo IV e Filippo II di Spagna.
Anagni è attraversata dalla via Vittorio Emanuele, fra porta S. Maria e porta Cerere che facevano parte della cinta muraria medievale. Da porta S. Maria, ricostruita arretrata di circa 40 m da Pio IV Medici (1560-1565), si sale a destra alla Cattedrale dedicata a Maria e costruita fra il 1072 ed il 1114 da Pietro vescovo di Salerno in stile romanico con influenze gotiche.
La facciata della Cattedrale è semplice con tre portali e senza rosone, con decorazioni tratte da sarcofagi e qualche protome di animali: una testa di bue e una di pecora sul portale centrale. Il campanile è posto separato davanti alla chiesa ha nel primo ordine una finestra rettangolare, nel secondo una bifora e negli altri tre ordini tre trifore. Scendendo sulla sinistra su piazza Innocenzo III si può osservare il lato sinistro della cattedrale (sud) con la loggia delle benedizioni sopra un portico, sovrastata dalla statua di Bonifacio VIII in trono. A sinistra della loggia si protende il transetto sinistro con rosone dove si trovano le tombe dei Caetani; dietro ci sono le absidi semicircolari della cattedrale decorate in alto con un finto loggiato a colonnine e archetti pensili di stile lombardo; in basso è la scala di ingresso per i sacerdoti. Quasi collegate alle absidi sono alcune casette medievali con finestre a bifore, una volta destinate ai sacerdoti; una di queste è ora studio dello scultore Gismondi.
L’interno è a tre navate divise da colonne alternate a pilastri, navata centrale e transetto altissimi ed all’incrocio pilastri a fasci di colonne, le finestre in alto danno una luce diffusa. In origine la chiesa era tutta ricoperta da affreschi dei quali è rimasto poco, un esempio è il velario dipinto in basso. Di Jacopo Cosma e dei marmorari romani è il pavimento di prima del 1227. Nel presbiterio chiuso da transenne si trova il candelabro del cero pasquale con colonnina tortile ed un fanciullo che regge il cero su una patera, nell’abside è la cattedra episcopale con due leoni al fianco, sono ambedue opere del Vassalletto. Il ciborio su 4 colonnine è romanico ma ricostruito nel 1800 con parti originali. La parte più antica ed interessate è però la cripta che per i suoi affreschi è stata chiamata la “Cappella Sistina del Medioevo”, è divisa in tre navate trasversali da due file di colonne di reimpiego provenienti da un antico tempio di Cerere che qui si trovava; i dipinti sono attribuiti a tre diversi maestri che operarono fino alla prima metà del 1200 dei quali però si conosce il solo soprannome. Sul lato sinistro ha lavorato il Maestro delle traslazioni, il più arcaico, che dipinge su una volta la creazione dell’uomo al centro di 4 cerchi colorati con intorno gli Evangelisti; su una parete Ippocrate e Galeno a rappresentare la scienza del tempo e i 4 elementi, aria, terra, acqua e fuoco, con le loro proprietà secondo il Timeo di Platone. Nella parte centrale lavora il Maestro ornatista bizantineggiante con le storie di S. Magno, patrono di Anagni: S. Magno che salva un bambino caduto in un pozzo, il suo martirio e la traslazione della sua spoglia. Nella terza campata con una grande abside centrale vi sono in basso le storie di Secondina, convertita da S. Magno, poi martirizzata e traslata nella cripta, ancora il martirio di S. Magno decapitato a Fondi e l’arrivo della sua spoglia ad Anagni. Le figure sono dipinte senza uso del chiaroscuro ed il movimento è dato con il cambio di colore; i volti di stile bizantino sono frontali. Nel catino dell’abside S. Giovanni e la visione dell’Apocalisse, sulla volta Cristo giudice ed a destra i 4 cavalieri dell’Apocalisse. La parte destra della cripta è attribuita al terzo Maestro detto Frate Romanus, più avanzato stilisticamente che precorre Giotto e il Cavallini. Sono dipinte le storie di Samuele, il recupero dell’Arca dell’Alleanza ed Elia sul carro. I dipinti sono stati restaurati nel 1994.
Dopo la cattedrale, più avanti sulla via Vittorio Emanuele, si trova il palazzo della famiglia Conti e di Gregorio IX, poi di Bonifacio VIII, con grandi archi di sostruzione a tutto sesto ed acuti. In origine era un palazzo fortezza ingrandito con l’unione di un altro palazzo. Dall’ingresso si sale al primo piano con una scala a chiocciola destrorsa, per essere più facilmente difendibile, e si giunge alla sala dello “schiaffo di Anagni” detta anche la sala della Scacchiera per la decorazione a scacchi di una parete. Gli scacchi erano un gioco molto comune a quel tempo ed erano inclusi anche nello stemma dei Conti costituito da un’Aquila con il corpo a scacchi. Le altre tre pareti erano ricoperti da un motivo geometrico con fiori a 8 petali e si ricorda che il numero 8 nella cabala cristiana rappresenta l’Assoluto e quindi Dio. Bonifacio VIII fu un papa energico ed ambizioso, eletto nel 1294 dopo la rinunzia di Celestino V che poi fece imprigionare, indisse il primo giubileo nel 1300, per ridare autorità alla chiesa e risollevare l’economia romana, a lui si deve inoltre la fondazione nel 1300 della prima Università romana, La Sapienza, che fu sostituita solo nel 1930 dalla nuova Città Universitaria. Entrò però in contrasto con Filippo IV il Bello di Francia che inviò il suo cancelliere, Guglielmo di Nogaret, ad arrestarlo sostenuto da Sciarra Colonna. Il papa lo attese in questa stanza il 7 settembre 1303 con la tiara e le insegne di pontefice e si disse che il Nogaret lo avesse schiaffeggiato con il guanto di ferro ma forse si trattò solo di uno schiaffo morale. Bonifacio VIII fu poi liberato dal popolo di Anagni insorto e tornò a Roma ma morì un mese dopo. In un’altra sala vicina si trovano documenti, iscrizioni e reperti fotografici, vi si trova la riproduzione di una statua di Bonifacio VIII di Arnolfo da Cambio, il papa porta sul capo il frigium, il cappello a punta che, oltre ad essere un cappello ciociaro, era un’insegna imperiale ad indicare che il papa aveva la potestà civile derivatagli dalla donazione di Costantino. La terza sala è detta delle oche per la decorazione delle pareti. In questa sala Gregorio IX tolse la scomunica a Federico II e lo accolse dopo la liberazione di Gerusalemme; la decorazione sembra si riferisca al “De arte venantibus cum avibus” dello stesso Federico II che era uomo colto ed esperto nella falconeria.
Seguendo ancora via Vittorio Emanuele si arriva al palazzo del Comune del 1200 attraversato da un passaggio ad archi che da sulla piazza del Mercato o piazza della Pace dove prospetta la facciata principale. Una grande scala sul fianco sinistro che arriva al piano superiore, le finestre a trifore della Sala della Ragione ed accanto la loggetta del Banditore dove si comunicavano gli editti. Lo stemma di Anagni sulla facciata è un’aquila sopra un leone.
Al n. 89 di via Vittorio Emanuele si trova una casetta medievale (1200-1300) ristrutturata nel 1800 con finte lapidi sulla facciata, detta casa Barnekow. Più avanti è la chiesa Collegiata di S. Andrea con campanile romanico, all’interno si trova il famoso Trittico del Salvatore di un Anonimo, dipinto in oro: al centro il Cristo con il Vangelo in mano, a sinistra la Madonna, a destra S. Giovanni Evangelista che presenta il committente Gregorio di Francesco. Il trittico si trovava prima nella Cattedrale.

A 8 km a sud-est di Alatri si trova Monte Fumone e la sua famosa Rocca con il borgo. Si è a 810 m di quota, in posizione panoramica sulla Ciociaria con la vista dei monti di Campo Catino (ora innevati) e di numerosi paesi vicini come Ferentino, Alatri, Frosinone, Veroli e Guarcino. Il castello posto sul punto più alto fu costruito all’inizio del 1000 ed era un posto di vedetta da cui si segnalava fino a Roma, con il fumo di giorno e con i fuochi di notte, l’avvicinarsi dei nemici. Il castello fu affidato dai papi ai conti di Anticoli, Anagni e Segni per il controllo del territorio. Vi fu imprigionato sotto Callisto II (1119-1124) l’antipapa Gregorio VIII e più tardi Bonifacio VIII vi fece rinchiudere il monaco eremita Pietro del Murrone che, eletto papa con il nome di Celestino V aveva rifiutato. Il monaco, rinchiuso in un’angusta cella, vi mori il 19 maggio del 1296 e si disse che fosse stato anche torturato con un chiodo sulla testa. Il castello nel 1586 fu acquistato dai marchesi Longhi De Paolis, che ne sono ancora i padroni, fu poi restaurato nel 1600 ma la sommità era già crollata e vi fu costruito un giardino pensile di 3500 mq che è oggi il più grande di Europa.
Dall’ingresso si sale con una scala sul giardino per ammirare il panorama, poi da un’altra scala si scende nelle stanze del castello: una stanza da pranzo, usata anche per ricevimenti di nozze, la stanza dei busti per la raccolta di numerosi busti antichi, la stanza di Paolina Borghese con un bozzetto supposto del Canova che riproduce la Paolina Borghese distesa come l’Ermafrodito; ci sono anche molti stemmi. Si passa ad una piccola cappella vicina all’angusta cella di Celestino V ricavata alla base della torre. In un’altra stanza è conservato il corpo imbalsamato di un bambino della famiglia De Paolis ucciso nel 1800 dalle sorelle; una tragedia familiare.

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1.17 ERCOLANO, VILLA DEI PAPIRI ED OPLONTIS.

- 7:00 - Visita organizzata da ITINERA (Dott. B. Mazzotta).
18.04.2004 - 7:15 - Visita organizzata da ITINERA (Dott. B. Mazzotta).


Gli scavi di Ercolano, antica Hercolanum, si trovano fra Portici e Torre del Greco sul golfo di Napoli a poca distanza dal mare. La cittadina romana fu sepolta durante l’eruzione del Vesuvio del 24 agosto 79 d.C. da una colata di fango con uno spessore di 20 m che, solidificato, è diventato duro come il tufo. Rimasta dimenticata, fu ricoperta dall’abitato della medievale Resina fino al 1709-16 quando i primi scavi riscoprirono il sito. Parte dell’area fu liberata dalle abitazioni che vi sorgevano e si deve a Carlo III di Borbone l’inizio di scavi sistematici nel 1738 aprendo dei pozzi, lo scopo era però il recupero di oggetti d’arte. Scavi sistematici e razionali sono iniziati solo nel 1927 ed ancora continuano; l’area interessata è di circa 5 ettari su 14, quanto è valutata l’estensione della cittadina romana, i 2/3 sono ancora sotto l’abitato della moderna Ercolano ed è molto difficile che possano essere scavati. In confronto l’area degli scavi di Pompei è di 40 ettari. Il fango indurito ha preservato l’abitato nelle condizioni originarie più che a Pompei permettendo il recupero anche di strutture lignee in gran parte carbonizzate e materiali organici come sementi. Pochi sono gli scheletri ritrovati perché gli abitanti hanno avuto il tempo di fuggire all’avvicinarsi della colata di fango, gli unici scoperti sono stati in prossimità delle Terme suburbane vicino al porto.
Hercolanum era in origine una città greca, come Neapolis (Nuova città), e fu fondata secondo la leggenda da Ercole; alla fine del V secolo a.C. fu presa dai Sanniti e nell’89 divenne municipio romano; non ci sono invece tracce degli Etruschi che erano arrivati anche più a sud fino a Pompei. La planimetria è quella delle città romane, a scacchiera con i decumanus paralleli alla linea di costa, da nord a sud, ed i cardini in senso perpendicolare. Gli scavi terminano ora sull’antica linea di costa dove sono state trovate le Terme suburbane e un’area sacra prospiciente il porto; qui c’è ora un’alta scarpata dovuta allo scavo e da qui si inizia la visita.
L’area di scavo è attraversata da tre cardini che partono dal porto e raggiungono in salita il decumanus maximum costituente in pratica il confine nord dell’area. Dalla strada di accesso la vista degli scavi è confusa, poi oltrepassato su una passerella lo scavo sulla linea di costa, si inizia dal cardine di sinistra. La pavimentazione è originale in pietra basaltica del Vesuvio e vi prospettano edifici a carattere signorile, Hercolanum infatti per la sua posizione era diventato soggiorno di ricchi campani e romani. Gran parte delle strade erano porticate con i tetti sporgenti delle case che poggiavano sulle colonne del portico. Sul lato destro del cardine si incontra uno spiazzo davanti alla cosiddetta Casa dell’Albergo dove crescono dei meli cotogni piantati con i semi ritrovati nello scavo, poi c’è la Casa dello Scheletro per uno scheletro qui trovato. Il pavimento è in opus sectile, gli affreschi alle pareti sono di II e III stile pompeiano con largo uso del cinabro, un colore molto costoso perché proveniva dalla Spagna cosa che dimostra il censo del proprietario. Interessanti sono un piccolo larario ed un ninfeo. Più avanti a sinistra, all’incrocio con il decumano inferiore, è un Termopolium o mescita di vino e bevande; vi sono grandi orci incassati in un bancone di muratura. In uno slargo si trova un grande dolio riparato con cuciture di piombo. Oltrepassato l’incrocio con il decumanus inferiore si incontrano le Terme, il secondo impianto termale più importante di Hercolanum, è diviso in due sezioni, la maschile e la femminile, ciascuno con un apodyterium (spogliatoio), con sedili e stalli per deporre gli abiti, e la volta a botte sulla quale si sono conservate le scanalature; nella sezione maschile vi è un grande mosaico pavimentale con tritone che regge un remo, ha un pesce nell’altra mano ed intorno altri pesci. Seguono il frigidarium, il tiepidarium ed il calidarium con le vasche dove ci si sedeva; le Terme furono costruite in epoca augustea ma la decorazione è del tempo di Claudio e Nerone. Passando sul cardine di centro, sulla sinistra prima del decumanus inferiore, c’è la casa detta del “tramezzo di legno” perché vi è stato trovato e conservato un tramezzo ligneo quasi interamente carbonizzato. Al centro c’è un atrio con impluvium e vasca centrale e in alto gli scolatoi originali. Poi un’aula con ballatoio e parete divisoria in legno con borchie di bronzo che la separava dal Tablinium dove si ricevevano i clienti. Le decorazioni sono del II e III stile pompeiano. Subito dopo il decumanus inferiore, sulla destra, si entra nella Casa Sannitica con planimetria e capitelli di stile sannitico. I proprietari erano certo di origine sannitica che qui abitavano prima della romanizzazione della città avvenuta dopo le guerre puniche e la battaglia di Zama. L’atrio ha un finto ballatoio con balaustre e colonne dipinte ed altri affreschi fra le colonne. All’estremità del cardine si giunge al Decumanus Maximum, la strada più larga con portici a colonne che segna il confine est degli scavi ma doveva essere anche l’asse centrale dell’abitato metà del quale si deve estendere quindi sotto la nuova Ercolano le cui case sorgono 20 m più avanti sopra il dislivello dello scavo. Percorrendo il decumanus verso sud si trova a destra la Casa del Bicentenario così chiamata perché scavata nel 1938, 200 anni dopo l’inizio degli scavi di Carlo III. Scendendo verso il mare per il cardine di destra (sud) si incontra a metà strada il vestibolo della Grande Palestra ancora in corso di scavo. Ancora avanti si entra a destra alla Casa dei Cervi, una delle più grandi e ricche di Hercolanum. In un triclinio si trovano dei gruppi marmorei di cervi assaliti da cani; gli originali sono però al Museo Nazionale di Napoli e qui sono esposte delle copie. La casa ha un ampio giardino contornato da corridoi e stanze e la parte più meridionale da su terrazze panoramiche con vista sul mare.
Scendendo il cardine di sinistra fino alla zona del porto si raggiunge una terrazza sostenuta da una serie di arcate che segnavano il fronte del porto e la spiaggia. Qui si trova il basamento di una statua onoraria di un pretore trovata poi poco distante e sul lato sud l’ingresso alle Terme suburbane che sono le meglio conservate della città, recuperate liberandole dal fango che aveva riempito gli ambienti. Si entra in un vestibolo con colonne ed una fontana con erma, segue una stanza con pavimenti e pareti marmoree. Un ambiente di passaggio fra frigidarium e calidarium ha le pareti decorate da figurine in stucco. Il calidarium ha la vasca centrale con la testudo in piombo che comunicava direttamente con il prefurnium per trasmettere il calore.
La Villa dei Papiri si trova a nord dell’area principale degli scavi in un’area separata aperta al pubblico da poco. La sua scoperta è avvenuta casualmente nel 1750 scavando un pozzo dall’alto della città di Resina ed i primi reperti si sono raccolti scavando dei cunicoli orizzontali. Maiuri, direttore degli scavi di Pompei ed Ercolano dal 1924 al 1961 portò avanti lo scavo dall’alto. Furono recuperate la statue dei Corridori, copie greche di marmorari copisti, presentate recentemente al Colosseo, e furono trovati dal 1785 un gran numero di rotoli di papiro semicarbonizzati che i primi scopritori in gran parte distrussero usandoli come torce; successivamente, rendendosi conto del loro valore, furono aperti con tecniche moderne e letti. Si è così appreso che si trattava di scritti di Filodemo di Gadara, filosofo epicureo amico dei Pisoni. Per questa amicizia la villa fu attribuita ai Pisoni ma non sono state trovate conferme archeologiche. Un’altra attribuzione la assegna ad un cognato di Lucullo, forse Appio Claudio Pulcher. La villa era del tipo suburbano, quindi agricola e rustica gestita dal villicus, ma con una costruzione con comodità cittadine per il proprietario adibita all’otium, attività intellettuale del tempo libero distinta dal male otium che era quello delle persone disabili. La villa era affacciata sul mare, che ora si trova a 350 m, ed in posizione un po’ elevata e vi sono dei bei mosaici pavimentali. In un angolo è il cosiddetto Pozzo di Nocerino, quello da cui sono scesi i primi scopritori. Fuori dalla villa di trova un edificio termale con una natatio all’interno coperta ancora con le tegole originali ed i resti dipinti delle pareti di una basilica dove è stato trovato un bassorilievo in marmo. Di esso c’è qui un calco mentre l’originale si trova al Museo archeologico di Napoli.

La villa di Oplontis, oggi circondata dall’abitato di Torre Annunziata e a circa 5 km dagli scavi di Pompei, è una delle più sontuose ville romane ritrovate nell’area del Vesuvio e conservate in grazia dell’eruzione del 79. L’attribuzione della villa a Poppea Sabina, seconda moglie di Nerone dopo il ripudio di Ottavia, deriva da un’iscrizione di un’anfora trovata nelle latrine a nome di un “liberto di Poppea”, non esiste altra fonte epigrafica o letteraria da cui trarre indicazioni più precise. La villa potrebbe essere appartenuta alla gens Poppaea e quindi forse alla stessa Poppea. Il nome di Oplontis si ritrova nella Tavola Peutingeriana dell’umanista bavarese Corrado Peutinger (1465-1547), una carta geografica su rotolo di pergamena che rappresentava la terra dal Gange all’Atlantico e su cui viene indicata Oplontis come impianto termale a 3 miglia romane da Pompei. Oplontis poteva essere il porto di Pompei ed il nome derivare da oplon (gomena), oppure essere un quartiere residenziale di ville suburbane di Pompei e Napoli e derivare da opulentia oppure da opulus, l’albero che serviva a reggere le viti, ma tutto rimane nel campo delle ipotesi. Al momento dell’eruzione la villa doveva essere abbandonata e forse in restauro dopo il disastroso terremoto del 62, infatti non sono stati trovati scheletri né utensili quotidiani ma molti materiali da costruzione ammassati. La villa fu ricoperta da strati di lapilli e ceneri per uno spessore di 2 m seguiti da uno strato di fango di 5 m come ad Ercolano. Il primo ritrovamento della villa fu fatto alla fine del 1500 nel corso di lavori di canalizzazione ma gli scavi furono abbandonati subito non avendo trovato nulla di prezioso, anche i Borboni più tardi rimasero delusi; solo nel 1964 sono iniziati gli scavi razionali. Dalle strutture murarie si è desunto che la villa è stata costruita nel I sec. a.C. e ristrutturata e decorata nel I sec. d.C.; tutte le pitture, in affresco, sono di alto livello, opera certo di maestranze qualificate, e questo denota la ricchezza del proprietario. Non ci sono pitture del I stile, tipiche della tarda epoca repubblicana, con semplici decorazioni geometriche che imitano rivestimenti in marmo; sono invece presenti solo pitture del II e III stile ambedue del periodo Giulio-Claudio. Il II stile è caratterizzato da elementi illusionistici con prospettive di colonnati e sfondo di paesaggi, il III è ancora più ricco di colori e con l’aggiunta di riquadri, figurazioni e scenette. Il IV stile, qui non presente, è poi quello che nasce con la Domus Aurea con le decorazioni a grottesche.
La villa ha il corpo principale orientato da sud a nord. Il prospetto nord dava sul viridarium e corrisponde all’attuale ingresso degli scavi; si entra con un atrio a colonne in un grande salone seguito da un giardino interno. Sul lato opposto a sud c’è un grande atrio tuscanico, cioè senza colonne, con impluvium e vasca centrale. Ai lati di questo asse si trovano i due corpi della villa: ad est la pars rustica dove viveva il villicus che gestiva la villa con gli schiavi ed i liberti, ad ovest la pars dominica, quella residenziale con il triclinio, le terme private, le cucine, le sale di ricevimento ed i cubicoli o stanze da letto piccole ma dipinte con finte prospettive che danno l’illusione di spazi aperti. Nelle terme il calidarium ha le nicchie dipinte con il tema di Ercole nell’orto delle Esperidi, il triclinio riproduce sulle pareti il tempio di Apollo a Delfi con finti colonnati prospettici a due ordini, dorico e ionico, un tripode ed una maschera teatrale. Nelle stanze si scoprono raffinati dipinti come un cesto di frutta ricoperto da un velo trasparente di estremo realismo ed una fruttiera di vetro con melograni. Passando al peristilio rustico si trova subito un larario per le divinità protettrici della famiglia, poi il cortile porticato con una fontana, la latrina e gli androni di servizio. Sull’estremo est della villa si trova una grande natatio fiancheggiata da un portico, anche qui con delicati dipinti floreali e prospettive di giardini.

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1.18 IL CASTELLO CAETANI A SERMONETA, NINFA E L’ABBAZIA DI VALVISCIOLO.

16.05.99 - 7:00 - Visita organizzata da PALLADIO (Arch. G. Ametrano).

Sermoneta è una cittadina medievale a circa 280 m di quota sul bordo dei monti Lepini con bella vista sulla piana di Latina. Si raggiunge dall’Appia dopo Cisterna o dalla Pontina dopo Borgo Piave deviando sulla sinistra. La città fu feudo degli Annibaldi fino al 1297 quando fu venduta ai Caetani per 200000 fiorini d’oro. I Caetani acquistarono gran parte del territorio pontino che costituì il Fondo dei Caetani, da cui il nome di Fondi, e vi costruirono fortificazioni e torri di avvistamento, una di queste torri si vede sulla piana ai piedi della collina sopra uno spuntone di roccia. La rocca di Sermoneta è rimasta sempre dei Caetani tranne che nell’intervallo fra il 1499 ed il 1503 quando papa Alessandro VI Borgia li scomunicò ed espropriò dando la rocca alla figlia Lucrezia; Cesare Borgia in questo periodo trasformò la rocca in una vera fortezza per opera di Antonio da Sangallo. Nel 1503 il nuovo papa Giulio II reintegra i Caetani ma la fortezza fu progressivamente abbandonata ed andò in rovina. Nel 1797 i Francesi di Napoleone occuparono il castello che era rimasto indifeso e portarono via 36 cannoni e ogni oggetto di valore. Solo nel 1921 Gelasio Caetani restaurò il castello ma nel 1977 si estingue il ramo romano della famiglia e da allora, per volere testamentario, i possedimenti passarono alla fondazione Roffredo Caetani che li gestisce tuttora. La famiglia Caetani ha origine da Gaeta ed infatti il loro primo nome fu Gaetani, poi il ramo romano per distinguersi cambiò il nome in Caetani e la famiglia raggiunse l’apice con la salita al soglio pontificale di Bonifacio VIII nel 1303.
Una salita conduce al borgo circondato da mura con torri semicilindriche; si passa porta Annibaldi e si segue corso Garibaldi; sull’estremità nord-est del colle si trova la fortezza il cui aspetto è quello datole da Antonio da Sangallo per volere di Cesare Borgia. Si sale fino ad uno spiazzo e da qui, con un percorso tortuoso attraversando due ponti levatoi su fossati asciutti, si entra nella Piazza d’Armi, un vasto cortile dove si tenevano le esercitazioni militari, le manifestazioni e le feste. Sul cortile, circondato dalle mura, si affacciano due torri affiancate, il Maschio, quadrato e alto 42 m, ed il Maschietto più piccolo, e due edifici residenziali. Opposto al Maschio sta la “Casa del Cardinale” destinata a Cesare Borgia che doveva diventare cardinale. Nel salone c’è un quadro di Girolamo Siciolante (1520-80) nativo del luogo e detto il Sermoneta, una delle stanze ha ancora un soffitto a cassettoni lignei originale. Usciti dalla Casa del Cardinale sulla sinistra si scende alle Scuderie, un grande ambiente rettangolare con volta a botte fatta con malta e canne di palude, un ottimo isolante termico ed acustico che rende oggi il luogo adatto per convegni e concerti; la scuderia poteva contenere 40 cavalli, le mangiatoie erano sui lati lunghi (sul lato sinistro sono ancora presenti) ed avevano sotto degli archi per permettere ai cavalli di scalciare senza ferirsi. L’ambiente è stato usato a lungo come granaio. Il secondo edificio che da sulla Piazza d’Armi è quello degli Appartamenti. La prima sala è quella dei ricevimenti o delle funzioni ufficiali con un tavolo in legno massiccio, forzieri e gli stemmi di famiglia: le onde che richiamano il mare di Gaeta ed un’aquila della famiglia aragonese Aquila con cui i Caetani erano imparentati. Seguono le stanze “tinte” perché dipinte con affreschi rinascimentali della scuola del Pinturicchio. Sono ambedue stanze da letto, la prima è affrescata con figure di ninfe, la seconda ha come soggetti le Virtù teologali ma ne sono visibili solo 4: la Fede, la Prudenza, la Giustizia e la Fortezza. La visita prosegue salendo alle torri. Una scala porta sulle mura e da qui con un ponte levatoio si entra nel Maschietto in una sala, questa comunica con una grande camera da letto che si trova nel Maschio con arredi antichi ed il pavimento originale in pietra detto “battuto”. Dal Maschio, con un altro ponte levatoio si torna alle mura sulla torre di guardia sopra l’ingresso della fortezza; questa è detta torre della Calatora dove si faceva scendere la grata che chiudeva l’ingresso; questo tipo di chiusura fu inventata dai Saraceni e fu chiamata saracinesca. Sulla torre c’è l’argano per sollevare la Calatora ed un piccolo campanile per dare l’allarme; intorno è protetta da merloni fra i quali si ponevano le bocche da fuoco. Dalla torre della Calatora si segue il camminamento di ronda lungo le mura che affacciano all’esterno e sulla Piazza d’Armi quindi si scende al piano inferiore nel camminamento interno con le feritoie delle fuciliere su ambedue i lati, infine si scende al livello del cortile sotto la torre della Calatora.
Si esce dal castello e si scende la via delle Scalette o via del Belvedere che da su una terrazza panoramica verso la piana di Latina, vicino è il palazzo del comune. Tutte le costruzioni del borgo sono in pietra calcarea bianca del posto. Tornando verso l’ingresso del borgo e deviando sulla sinistra si trova la cattedrale dell’Assunta sorta su un tempio di Cibele del II sec. a.C. il cui culto era rimasto vivo fino al V sec. d.C.. La cattedrale è dell’inizio del XIII sec. di stile tardo romanico con accanto un bel campanile a 5 piani con bifore, decorazioni con clipei a mattoni radiali e scodella al centro, cornici marcapiani con giochi di mattoni inclinati. La chiesa è preceduta da un piccolo portico con archi a sesto acuto e semicolonne. L’interno ha due cose interessanti. Una è la cappella De Marchis, subito a destra c’è una pala di Benozzo Gozzoli detta della Madonna degli Angeli perché circondata da 14 angioli; la Madonna porta in grembo il modellino del castello di Sermoneta con il particolare della chiesetta di S. Pietro in Borgo dentro il castello, poi distrutta durante la trasformazione a fortezza. Nella stessa cappella si trova un’Annunciazione attribuita a Guido Reni ed un’Incoronazione di Maria del Sermoneta. Dietro l’altare maggiore poi c’è il coro ligneo degli inizi del 1500 con gli stemmi dei Caetani: onde ed aquile ma queste sono state decapitate dai Francesi. Pareti e soffitto del coro sono affrescati con le storie della Vergine e tre dei soggetti sono stati dipinti sulla base di cartoni del Cav d’Arpino (Giuseppe Cesari) al tempo di Sisto V: in alto c’è l’Assunzione, a sinistra la nascita ed a destra la morte della Vergine; intorno altre storie dipinte da artisti minori, Profeti e Sibille.

A nord di Sermoneta ed ai piedi dei monti Lepini e della collina di Norma si trovano le rovine della città medievale di Ninfa divenuta dal 1976 oasi faunistica con il nome di “Giardino e rovine di Ninfa” gestita dalla fondazione “Roffredo Caetani”. Il primo agglomerato di Ninfa fu creato nel 753 su un terreno donato a papa Zaccaria (741-752) ed affidato come feudo ai Frangipane, poi la cittadina si sviluppò per la presenza di sorgenti termali e la posizione strategica sulla strada pedemontana che andava verso Napoli al tempo in cui l’Appia era impraticabile per le paludi; gli introiti dei pedaggi la resero florida. Nel 1159 vi si rifugiò Rolando Bandinelli perseguitato dai Colonna a da Federico Barbarossa che volevano impedire la sua elezione a papa; fu incoronato papa nella chiesa di S. Maria Maggiore di Ninfa con il nome di Alessandro III e scomunicò il Barbarossa. Nel 1297 Ninfa fu inclusa nel feudo acquistato dai Caetani. Nel 1382, in pieno scisma di Occidente fra Roma ed Avignone, Ninfa fu completamente distrutta nella guerra fra le fazioni e non si risollevò più anche a causa del diffondersi della malaria. Solo nel 1921 Gelasio Caetani bonificò la zona, restaurò i ruderi ed impiantò un giardino botanico che fu sviluppato dai suoi successori, il fratello Roffredo e sua figlia Lelia Caetani alla cui morte, estintasi la famiglia, l’oasi fu affidata alla fondazione Caetani.
Una sorgente carsica che viene dai vicini monti Lepini forma un piccolo lago circondato da un muro della fine del 1200, il lago funziona da regolatore termico e le acque defluiscono poi nella pianura pontina e, dopo 30 km, si immettono nel fiume Sisto che sbocca fra Terracina ed il Circeo. La zona è protetta a nord dai Lepini e gode tutto l’anno di un clima temperato ed umido che favorisce la vegetazione; nell’oasi non vengono usate sostanze chimiche e contro gli insetti si usa la controllo biologico. La fauna protetta dal WWF e dalla LIPU comprende molte specie: istrice, faine, puzzole, donnole, volpi, tassi; fra gli uccelli vi si trovano il falco pellegrino, le poiane, i barbagianni che si cibano dei topi, e molti uccelli insettivori.
Si entra nell’oasi dal lato nord dove si trova un grande parcheggio e vicino all’ingresso vi sono le rovine della chiesa di S. Giovanni. Tutte le chiese di Ninfa hanno i nomi delle basiliche romane per volere di Alessandro III. Il complesso maggiore delle rovine si trova a sud-est, fra il lago e l’emissario, ed è costituito dal Castello, la Torre e il Municipio, gli ultimi due restaurati negli anni ‘20. Il percorso di visita attraversa l’oasi verso ovest lungo un viale dove si possono osservare varie specie di rose a cespo e rampicanti, lecci, betulle, magnolie, cedri del Libano ed un acero variegato. Il giardino è attraversato da canali artificiali che si incrociano e formano giochi d’acqua. Deviando verso nord sul viale dei cipressi si raggiungono le rovine della chiesa di S. Maria Maggiore dove fu incoronato papa Alessandro III; sono rimaste poche mura ed un tratto dell’abside con alcuni resti di affreschi. Ad ovest, sulla cerchia muraria dell’oasi, c’è la chiesetta di S. Biagio; si scende poi a sud su una strada bordata da lavanda e si raggiunge il fiume al ponte del Macello, segue il ponte Romano ed il ponte di Legno. Molte sono le rovine di edifici fra la vegetazione. Fra le piante arboree un acero saccarinus del Canada, un albero dei Tulipani americano con bellissimi fiori a forma di tulipano ed un acero palmatum giapponese. C’è anche una piccola piantagione di bambù perfettamente acclimatati. Lungo il fiume crescono calle e una gunnera manicata, pianta originale del Brasile dalle grandi foglie che vengono utilizzate per coprire le capanne e per contenere cibi e che sono ignifughe. Si ritorna all’area del castello.
Adiacente al castello e separato dall’oasi è un piccolo giardino segreto con viali fra alte siepi, una fontana con al centro una meridiana, ninfei con fontane e due piscine con una coppia di cigni.

Fra Sermoneta e Norma si trova l’Abbazia di Valvisciolo, uno dei primi insediamenti dei monaci Basiliani nel Lazio risalenti al secolo VIII. A Roma unico edificio dei Basiliani è la chiesa di S. Giovanni Battista presso la casa dei cavalieri di Rodi al foro di Augusto. Il Monastero fu riedificato nell’anno 1000 sempre dai Basiliani, poi passò ai Templari alla fine del 1100, alla metà del XIII secolo vi furono ospitati i cistercensi che rimasero proprietari dopo la soppressione dell’ordine dei Templari nel 1320.
Chiesa e Monastero formano un unico grande complesso cistercense in pietra calcarea locale ed è chiamato Abbazia dei Ss. Pietro e Stefano di Valvisciolo in Sermoneta. La facciata della chiesa presenta un grande rosone di 5 m di diametro e non c’è portico. Il monastero ha sulla facciata finestre con bifore. All’interno del monastero c’è un bel chiostro con colonnine binate e capitelli tutti differenti; da qui si vede il campanile anche questo con bifore. All’interno della chiesa sono da segnalare il coro ligneo della metà del 1700 e, nel fondo della navata sinistra, la cappella di S. Lorenzo con affreschi del Pomarancio.

1.19 NAPOLI.

23.05.99 - 7:00 - Visita organizzata da ITINERA (Dott. B. Mazzotta).

Le origini di Napoli sono molto antiche; colonia greca con il nome di Parthenope e poi Paleopolis fin dall’VIII sec a.C., ebbe il suo primo nucleo sul mare nell’area che comprende ora il Castel Dell’Ovo, il pendio di Pizzofalcone e S. Lucia; ingranditasi nel V secolo a.C. dopo la vittoria dei Cumani sugli Etruschi, il suo centro si spostò fra le colline ed il mare da via Settembrini e Castel Capuano fino a S. Giovanni Maggiore e prese il nome di Neapolis o Città Nuova. Entrò nell’orbita di Roma e fu città alleata, mantenne la sua cultura greca ed anche la sua popolazione rimase ellenica. Per il suo clima e la sua cultura fu soggiorno preferito della nobiltà romana sia nel periodo repubblicano che imperiale; l’area di Pizzofalcone e del Castel dell’Ovo fu occupata dalla villa di Lucullo che passò poi al fisco imperiale ed Odoacre vi relegò Romolo Augustolo. La città romana, cinta dalle mura di Valentiniano III (450-455) rimase sostanzialmente la stessa nel medioevo e con i Normanni e gli Svevi fino alla fine del 1200 quando gli Angioini la scelsero a capitale e le cambiarono volto. La Napoli Angioina si arricchì di conventi e di palazzi ed ebbe un grande porto. Passata agli Aragonesi con Alfonso d’Aragona la città si ingrandì ancora con una nuova cinta di mura. Nel 1500 i Viceré di Spagna attuarono un nuovo ingrandimento delle mura ma poi la città andò sempre più allargandosi al di fuori fino al 1700 quando Carlo III di Borbone, imparentato con i Farnese, trasformò il Vicereame in regno; furono chiamati allora l’architetto Medrano, il Canevari, il Fuga ed il Vanvitelli che trasformarono la città in una capitale moderna.
L’asse principale di Napoli è via Roma, meglio nota con l’antico nome di via Toledo dal viceré Don Pedro di Toledo che la fece aprire nel 1536 sul lato ovest della cinta aragonese quando ingrandì la città. Sullo stesso asse c’è a nord il Museo Nazionale; via Roma inizia da piazza Dante e finisce a sud a piazza Trento e Trieste, qui vicino c’è il centro monumentale con il Teatro S. Carlo, il Palazzo Reale e la grande piazza del Plebiscito con il lato ovest a forma di semiellisse cinta da un portico e sul lato opposto la grande facciata del Palazzo Reale di Domenico Fontana del 1600-02. Al di là del Palazzo Reale, a nord-est, c’è il Castel Nuovo e piazza Municipio; da qui un altro asse con via Agostino Depretis e Corso Umberto I taglia in direzione nord.est fino a piazza Garibaldi e la Stazione Centrale. A destra di Corso Umberto I si ha l’area portuale con gli antichi mercati; nel triangolo fra Corso Umberto, via Roma e porta S. Gennaro a nord, c’è la Napoli antica e Angioina.
Sotto Piazza del Plebiscito, fra la collina di Pizzofalcone e il mare c’è il rione di S. Lucia con il piccolo porto di S. Lucia protetto da Castel dell’Ovo. Un traforo realizzato nel 1926 sotto la collina di Pizzofalcone collega il centro monumentale con la zona est di Napoli: il lungomare di via Caracciolo ed il porto di Mergellina.
Napoli alta è il Vomero, a ovest di via Roma collegato con le funicolari e dominato da Castel Sant’Elmo.
Fuori città, sull’asse di via Roma, a nord, si arriva al Parco di Capodimonte con l’antica reggia ora museo delle ceramiche di Capodimonte.

Un rapido giro turistico ed una passeggiata nel centro antico hanno dato modo di dare uno sguardo ad alcune chiese di interesse storico ed artistico.
La chiesa di S. Giovanni a Carbonara fra porta S. Gennaro e porta Capuana è la prima chiesa degli Aragonesi a Napoli. La chiesa ed il convento annesso sono del 1343 ed appartenevano agli Agostiniani; la chiesa era prima orientata secondo la scalinata a due rampe a pianta ellittica; dopo i rifacimenti di re Ladislao, agli inizi del 1400, la chiesa fu ruotata di 90 gradi e ora si entra da un portale laterale dal cortile a destra, alla sommità della gradinata. La chiesa è un insieme di cappelle funerarie. Dietro l’altare maggiore è il monumento a re Ladislao (1386-1414) eretto dalla sorella Giovanna. Il monumento è sorretto da colossali di Virtù, vi sono Ladislao e Giovanna assisi in trono, poi il re giacente morto con l’arcivescovo che lo benedice per toglierli la scomunica ed infine il re a cavallo con la spada sguainata. Da una apertura fra le cariatidi del monumento si passa ad una vasta cappella ottagonale con pavimento maiolicato coperta a cupola dedicata a Caracciolo del Sole, amante di Giovanna II e da lei fatto assassinare nel 1432. Il sarcofago, retto da guerrieri ha sopra la statua del defunto in piedi con il pugnale in mano come ad aspettare vendetta. Il monumento fu completato dopo che i Caracciolo vennero reintegrati nei loro privilegi dagli Aragonesi nel 1465. Sulla sinistra dell’altare maggiore si apre un’altra cappella circolare con cupola a lacunari decorata da artisti spagnoli della metà del 1500. Sull’altare una Natività in bassorilievo. All’estremità della navata, addossata a quella che era la primitiva facciata, è la Cappella di Somma con il sepolcro di Scipione di Somma della metà del 1500.
Da Piazza Dante, passata la porta d’Alba della cinta angioina, si incontra sulla destra la chiesa di S. Pietro a Maiella del 1313-16 dedicata a Celestino V con il soffitto dipinto da Mattia Preti nella metà del 1600: sulla navata principale storie di Celestino V e sul transetto storie di S. Caterina di Alessandria in omaggio all’unione delle Celestiniane e delle Cateriniane nel convento annesso. L’altare è una tarsia di marmi e madreperla, il coro è in ebano e legno di rosa.
Girando a destra su piazza S. Domenico Maggiore c’è la chiesa omonima dell’ordine Domenicano e poi della dinastia Aragonese
Più a sud è la cittadella monastica di S. Chiara fondata nel 1309 da Sancia di Maiorca, moglie di Roberto d’Angiò, costruita in stile gotico-provenzale, fu rinnovata in stile barocco nel 1700. La chiesa è a navata unica amplissima con nove cappelle per lato.

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1.20 LE VILLE VENETE E LA CROCIERA SUL BRENTA.

04.06.99 - 6:30 - Visita organizzata da ITINERA (Dott. B. Mazzotta).

Il percorso della visita si articola in una serie di tappe alla ricerca di alcuni aspetti dell’architettura veneta, dai resti di mura medievali alle ville suburbane residenziali intorno a Padova e particolarmente sulla riviera del Brenta accostandosi così all’opera del Palladio e di tanti altri architetti ed artisti veneti.
Il fenomeno architettonico delle ville venete ha il suo massimo ispiratore in Andrea Palladio, nome d’arte di Andrea di Pietro della Gondola, che prese questo nome in omaggio alla dea della sapienza Pallade Atena. Nato a Padova nel 1508, iniziò come lapidario, fu scoperto da Gian Giorgio Trissino che fu agli inizi il suo mecenate, si formò a Roma dove fu cinque volte: 1541, ‘45, ‘47, ‘49, ‘54, vi assimilò il patrimonio archeologico e classico e fu a contatto diretto con Giulio Romano; si può dire che, dopo il Brunelleschi ed il Bramante, fu la figura più rappresentativa dell’architettura rinascimentale ormai nella sua fase manierista; la sua non fu solo imitazione, creò nuovi modelli e scrisse nel 1570 i “Quattro libri dell’Architettura” prendendo a riferimento Vitruvio. La sua produzione spaziò da quella di carattere civile a Vicenza, come la Basilica o portico del palazzo della Ragione, la Loggia del Capitanato incompiuta ed il Teatro Olimpico costruito dopo la sua morte, a quella religiosa a Venezia, come la chiesa del Redentore, ai moltissimi palazzi e ville su committenze private di famiglie aristocratiche. Nelle sue opere ha una visione urbanistica e non solo architettonica, le inserisce nell’ambiente naturalistico, cura la funzionalità e le decorazioni interne. Il suo insegnamento fu recepito e seguito fino al 1700 e inizio del 1800 con il neoclassicismo e fu esportato in Inghilterra e Germania con la moda del Grand Tour. Dall’Inghilterra l’architettura palladiana passerà agli Stati Uniti come architettura coloniale a Boston e Washington e nelle fattorie del sud in Georgia e Virginia. Anche l’architetto Wright si ispirò al Palladio.

A sud di Padova, sulla strada nazionale n. 10 si trova la cittadina di Montagnana con il suo antico borgo medievale e la cinta muraria quasi rettangolare di circa 2 km in ottimo stato, 24 bastioni e 4 porte con un fossato verde. La città fu dominio della casa d’Este e, dopo la signoria di Ezzelino da Romano (1242-1257), passò al comune di Padova e poi sotto i Della Scala di Carrara, di questo periodo (1360) sono le mura; nel 1405 passa sotto il dominio di Venezia perdendo la sua importanza. Fuori da porta Padova si trova la villa Pisani opera di Andrea Palladio costruita nel 1553-54 su commissione della famiglia Pisani. Sono evidenti i criteri fondamentali dell’architettura palladiana delle ville suburbane: la facciata principale classica, qui con due ordini dorico ed ionico ed un fregio con metopi e triglifi che gira intorno alla casa; la facciata posteriore, che da sulla strada per Padova, è più modesta con semicolonne e timpano con lo stemma della casa Pisani retto da vittorie alate. All’interno del borgo è la piazza S. Marco ricca di palazzi medievali con comignoli in gotico fiorito. Il Duomo è posizionato in angolo con la grande facciata scandita da lesene e sormontata da pinnacoli come torrette campanare. Il portale è di Iacopo Sansovino come un arco di trionfo romano. L’interno è a navata unica con volta a botte, a croce latina con transetto e tre absidi; le cappelle del transetto hanno due semicupole a conchiglia opposte. Sull’altare maggiore è la famosa pala della Trasfigurazione del Veronese dipinta nel 1555. Una nuvola divide la scena in due parti con una prospettiva verso l’alto: la scena superiore, celeste, con il Cristo che risorge e l’inferiore, terrestre, con gli apostoli stupiti davanti al sepolcro vuoto; questa divisione e prospettiva sarà imitata da tutti gli artisti del primo ‘600 dal Lanfranco a Guido Reni. Altri due edifici importanti all’interno del borgo sono la chiesa ed il campanile di S. Francesco, primo insediamento francescano nella seconda metà del 1300, ed il Palazzo Comunale, un edificio ad angolo con porticato di ingresso, che elimina il piano terreno, a forma di serliana ripetuta in alto da un arco centrale e due balconi rettangolari. Tornando a porta Padova si può visitare il Mastio di Ezzelino da Romano, rimaneggiato dai Veneziani e poi usato dagli Austriaci come caserma. In basso c’è un cortile rettangolare con una balconata; qui nel 1500 sotto i Veneziani si faceva la raccolta e la cernita della canapa, uno dei prodotti più importanti della zona. Salendo al primo piano si trova il museo civico; nella prima stanza sono raccolti reperti preistorici trovati ad est dell’abitato medievale dove una volta passava l’Adige, vi sono bronzi, vasi, elementi di telaio, sepolture ad urna e poche ad inumazione dove i corpi erano disposti proni, forse si trattava di stranieri o schiavi; in una seconda stanza vi sono arredi funerari e tombe romane del I sec. d.C. e la stele Vassidiana con iscrizione che si riferisce alla centuriazione della zona quando fu assegnata alla X legione macedone dopo Azio (31 a.C.). In una terza sala vi sono ceramiche locali colorate in verde (sali di rame) e giallo (sali di ferro), l’ultima sala è dedicata a due tenori nati a Montagnana nel 1885: Aureliano Pertile e Giovanni Martinelli con costumi, locandine e documenti. Si sale infine alla Torre alta 40 m, in origine 7 piani con scale di legno retrattili, oggi c’è una comoda scala di ferro con 190 gradini. Dall’alto si ha un bel panorama della città e delle mura.

La Riviera del Brenta è il ramo del Brenta che da Stra, ad est di Padova, conduce alla Laguna ed a Venezia, il secondo ramo del Brenta, quello principale, è il Brenta-Cunetta che sbocca a sud di Chioggia convogliando la maggior parte delle acque ed evitando l’insabbiamento della Laguna. Il Brenta aveva approssimativamente lo stesso doppio percorso in epoca romana quando si chiamava Modoacus. Nel medioevo i Padovani predilessero il primo ramo che facilitava i traffici con la Laguna ma le frequenti alluvioni provocavano danni e contese, anche le opere idrauliche dei Veneziani, dopo aver conquistato il predominio sul Veneto nel 1505, non risolsero i problemi. Solo gli Austriaci nel 1840 regolarono definitivamente il corso del Brenta con il taglio del Cunetta.
Dagli inizi del 1500 alla fine del 1700 la nobiltà veneziana creò lungo la Riviera del Brenta più di 70 ville suburbane con parchi e giardini. Padova era un passaggio obbligato per Venezia da tutti gli altri stati e la Riviera del Brenta, detta “la Brenta”, divenne luogo piacevole di transito e villeggiatura conosciuto da tutti gli stranieri con il Grand Tour. I collegamenti fino a Padova erano assicurati da eleganti battelli coperti detti Burchiello trainati da terra con i cavalli. La tradizione è rimasta ed oggi la crociera sul Brenta si effettua con battelli a motore detti “Il Burchiello” che collegano piazza S. Marco a Venezia con Stra e viceversa. Dalla Laguna si entra a Fusina ed il dislivello fino a Stra è di 8 m che viene superato dai natanti con 4 chiuse da 2 m ciascuna; vi sono pure 9 ponti mobili per consentire il passaggio dei natanti, alcuni automatici altri rimasti manuali. La prima chiusa è quella di Moranzani costruita nel 1700 poi si incontra un piccolo centro chiamato Malcontenta dalla villa omonima costruita dal Palladio dal 1550 al 1561.
Il giro sul Brenta inizia dalla Malcontenta che si raggiunge con il pullman. La villa fu commissionata da Nicola e Alvise Foscari al Palladio nel 1550; questi scelse il posto e vi creò uno dei suoi capolavori secondo i canoni da lui teorizzati. La facciata principale guarda il fiume che qui fa una grande ansa e vi si specchia; il prospetto ha un carattere templare con un pronao esastilo a colonne ed un timpano compatto. Si arriva al piano nobile dove si impostano le colonne con due scale laterali che superano lo zoccolo occupato dal piano dei servizi. La facciata posteriore è più sobria, in bugnato liscio di matrice toscana, il piano terreno adibito ai servizi, il piano nobile con due ordini di finestre, 5 inferiori e 5 superiori con le tre centrali che seguono un profilo ad arco e danno luce ad un unico salone a volte. Il piano più alto ha le camere da letto e si dice che in una di queste fu relegata la moglie di uno dei Foscari per condotta immorale da cui venne il nome di Malcontenta. Ancora sopra una specie di mansarda per gli ospiti come un’altana belvedere. La villa è sormontata da 4 comignoli cilindrici con calotte emisferiche di stile orientale. Dietro la villa c’è il parco, un grande spazio verde che doveva essere porticato come un foro e dare la cornice naturalistica alla villa. L’interno ha un grande salone a pianta centrale con volta a crociera illuminato da ambedue le facciate e con ambienti laterali simmetrici. Il Palladio seguì tutta la realizzazione dell’opera, anche le decorazioni interne eseguite da Giambattista Zelotti. Tutti gli interni sono decorati con finte architetture, colonne, timpani, nicchie con statue che amplificano lo spazio ed hanno un effetto di trompe l’oeil. L’uso del monocromo migliora l’effetto prospettico di volume. Nei riquadri delle pareti e sulle volte raffigurazioni mitologiche con ampi scorci di cielo. Figure femminili e maschili si affacciano agli angoli e sono distesi sulle trabeazioni. Anche gli ambienti laterali sono ricchi di affreschi e decorazioni, si sente l’influenza del Veronese nei personaggi; non ci sono grottesche ma una varietà di oggetti decorativi come strumenti musicali, fiori e frutta.
Alla Malcontenta ci si imbarca su Il Burchiello per risalirne il corso fino a Stra. Il fiume scorre descrivendo anse fra salici e poche ville, fra queste villa Priuli dalla bianca facciata con loggia a tre archi. Si raggiunge il confine di Oriago (ora laci o bocca del lago) contrassegnato da una colonna di mattoni allo spigolo di una casa rosa, una delle quattro colonne innalzate nel 1375 a segnare il confine fra il dominio di Padova e quello della Serenissima; si passa la settecentesca villa Allegri, che fu abitata dal generale Radetsky, quindi un ponte girevole automatico, il secondo dei nove ponti che si incontrano dalla laguna. La chiesa di S. Maria Maddalena con il campanile ed accanto il palazzo Moro sono del ‘400; il palazzo ha un balcone con balaustra e serliana e sulla facciata è stata riportata una targa dedicata a Iacopo del Cassero ucciso nelle paludi di Oriago e ricordato da Dante nel Purgatorio. Più avanti un ponte mobile manuale a scorrimento detto di Leonardo perché riproduce un suo meccanismo. Al centro di Oriago sulla sinistra è palazzo Mocenigo del 1600 seguito da palazzo Gradenigo prepalladiano del 1500 che conserva sulla facciata tracce di affreschi. Dopo un altro ponte girevole all’altezza della piazza del mercato, Il Burchiello si ferma all’attracco di Oriago per la sosta del pranzo. Ripreso il viaggio e passati sotto il ponte ferroviario si entra in località Valmarana e si attraversa un altro ponte girevole. La zona ebbe il suo massimo sviluppo nel 1600 per la moda della villeggiatura. Con la caduta della Serenissima, l’arrivo dei Francesi prima e degli Austriaci dopo, cominciò la decadenza. Una delle più famose ville è la Barchessa Valmarana costruita nel 1600 e poi distrutta dopo il 1797 trasformandola in fattoria ed osteria per non pagare la tasse. La villa è stata ora restaurata ed è oggetto di una visita durante una sosta del Burchiello. Proseguendo si incontra sulla riva opposta la settecentesca villa Widmann, ricercata e di stile rococò, ha ospitato Goldoni e d’Annunzio. Dopo Valmarana si entra nel comune di Mira il più vasto del Brenta dedicato a S. Nicola protettore dei marinai delle acque interne; a Mira il Brenta incrocia altri canali e fu quindi luogo di transito di traffici. Qui si incontra la villa Valier o della Chitarra da un affresco, oggi conservato nel Museo dell’Accademia di Venezia, rappresentante una donna che suonava; subito dopo si incontra la villa Querini Stampalia del 1500 di forma cubica a tre piani con bel balcone a trifora. Si giunge ora alla chiusa di Mira, la seconda dalla laguna che supera un altro dislivello di 2 m. Oltrepassata la chiusa si vedono a sinistra gli impianti della Miralanza, nota industria chimica, in origine fabbrica di candele steariche. La villa Contarini elegante e classica sormontata da due obelischi che indicavano che il proprietario era capitano de mar. La villa è famosa per il passaggio di Enrico III di Francia nel 1574 tornando dalla Polonia, avvenimento rimasto memorabile per i festeggiamenti. Al centro di Mira c’è la villa Corner anche questa famosa per una festa di 7 giorni e 7 notti nel 1700. Si attraversano due ponti mobili quindi la villa Toscanini, villa Fini-Melchiorri del 1600 e villa Grimani-Migliorini prepalladiana. Dopo l’ultimo ponte mobile, il nono, si entra nel comune di Dolo, borgo medievale antichissimo che prese il nome da quello della famiglia Dauli originaria di Padova; all’ingresso c’è l’antica stazione di posta con l’insegna di un cavallo imbizzarrito, poi villa Ferretti con gli obelischi, insegna di un capitano de mar, più avanti l’antico macello trasformato in teatro. A Dolo vi sono16 mulini ad acqua che si ritrovano nei disegni del Canaletto. Un po’ più a monte si passa la chiusa di Dolo e si percorre l’ultimo tratto verso Stra passando sotto il ponte stradale. Si passa davanti alla villa Recanati-Zucconi del 1600 e vicino villa Soranzo cinquecentesca con la facciata affrescata da finte architetture. Il Burchiello infine approda davanti alla facciata di villa Pisani.
Villa Pisani è la più grande e la più recente delle ville del Brenta, fu costruita fra il 1732 ed il 1733 per volere di Alvise Pisani quando fu nominato Doge e per questo ebbe l’aspetto di una reggia francesizzante e non di una villa agreste. Per la decorazione fu chiamato Giambattista Tiepolo che vi lavorò fino alla sua partenza per Madrid. Il progetto dell’edificio principale fu di Francesco Maria Pozzi, il parco e le altre costruzioni sono dell’architetto padovano Girolamo Frigimelica. Nel 1807 la villa fu venduta a Napoleone che la diede a Eugenio di Beauhairnais, con la restaurazione passò agli Asburgo e dopo il 1866 ai Savoia, nel 1888 passò al demanio statale, nel 1911 fu affidata al Centro Ricerche Idriche che vi costruì la Peschiera, dopo la 2° guerra mondiale divenne Museo Nazionale ed ora è aperta al pubblico.
La facciata principale verso sud da su un’ansa del Brenta; il corpo è allungato da due ali, sul fronte, di gusto palladiano, le colonne coprono due piani, 4 cariatidi erculee come erme reggono le balconate con una serliana al centro. Si entra in un enorme salone delle feste con le pareti dipinte con prospettive illusionistiche di colonnati a trompe l’oeil, una balconata in giro dove prendevano posto i musici e sul soffitto l’apoteosi della famiglia Pisani dipinta dal Tiepolo e dal fratello Gian Giacomo. Le stanze del piano nobile sono distribuite lungo il perimetro esterno, hanno tutte ricche decorazioni, per la maggior parte di allievi del Tiepolo, pergolati alle pareti, raffigurazioni in monocromo come bassorilievi, molte stanze hanno arredi e decorazioni a carattere multinazionale. Ben conservata è la stanza da letto di Napoleone con il letto a baldacchino. Uscendo sul parco si osserva la facciata posteriore più semplice, con lesene invece di colonne, che coprono ambedue i piani; l’orologio è del 1800. La prospettiva del parco è data dalla lunga Peschiera che finisce alle Scuderie per 24 cavalli con prospetto colonnato come una seconda villa. I lati del parco sono coperti da zone alberate ed a destra si trova un grande labirinto di sempreverdi con torre centrale realizzato dal Frigimelica, divertimento simbolo della società del settecento.

A nord est di Padova, a Piazzola sul Brenta, si trova un’altra famosa villa palladiana: villa Contarini-Camerini il cui nucleo originale è del 1546; nel 1671 Mattia Preti costruì le ali laterali ed un lungo corpo di fabbrica a destra collegandola al porticato della piazza che la fronteggia. Nel 1852 fu acquistata dalla famiglia Camerini e dal 1986 è gestita dalla Fondazione G. E. Ghirardi che promuove manifestazioni della scienza, cultura ed arte.
La facciata ha un aspetto regale ma senza la struttura templare di villa Pisani, tre piani sopra lo zoccolo dei servizi coperto nella parte anteriore da una rampa e da una terrazza, quattro serliane sul prospetto. Si entra in un portico e quindi in un’aula con un soffitto a vetrata del Palladio, le pareti sono state dipinte da Michele Primon nel 1670. A destra e a sinistra si apre la lunga prospettiva delle stanze sulle ali. Nel braccio destro c’è la sala del Ratto di Proserpina con il mito dipinto sul soffitto, sul braccio sinistro è la sala degli stucchi con pareti e volta ricoperti da stucchi di motivi classici ma amplificati come bassorilievi, poi si incontra la sala delle maioliche. Al piano superiore sono le camere da letto con decorazione moderna. Salendo ancora un piano si trova al centro la sala della “chitarra rovesciata” per la sua forma dove stavano i musici. Scendendo fino al piano terreno dei servizi si esce sul lato posteriore sul parco di 5000 ettari. Il fronte posteriore è più rustico, il parco ha un lago ed un isolotto e molte peschiere.

Ancora più a nord, fra Vicenza e Treviso, si trova Castelfranco Veneto e vicino la villa Emo, anche questa della metà del 1500, al centro di un piccolo borgo con antichi casolari trasformati in mostre d’arte. Il capostipite Lunardo Emo commissionò la villa al Palladio nel 1550, come la Malcontenta e le decorazioni sono dello Zelotti, lo stesso che lavorò alla Malcontenta. Il fronte anteriore ha una cordonate che porta al pronao coprendo il piano terreno dei servizi; la facciata ha un timpano con due vittorie alate che sostengono uno stemma. La villa ha un blocco centrale, due corpi laterali con porticato ad un solo piano ed alle estremità due colombaie. Il pronao è dipinto con finte architetture ed ha un soffitto ligneo a grandi cassettoni con rosetta centrale; segue un ambiente di ingresso anche questo coperto a cassettone ligneo e con alle pareti quadri di soggetto mitologico e religioso. Anche qui lo Zelotti ha dipinto finte architetture in monocromo e frutta e fiori negli spazi liberi. Si passa al salone centrale che ha l’uscita sul parco, soffitto sempre a cassettone ligneo, alle pareti grandi colonne su zoccolo, pannelli con narrazioni mitologiche e religiose e statue in monocromo entro nicchie. Si esce sul parco con una doppia rampa di scale; il prospetto posteriore è rustico coronato da comignoli eterogenei. I giardini intorno alla villa sono all’italiana: disegno regolare, viali decorati con anfore e statue ben visibili. La villa è ancora della famiglia Emo.

La cittadina di Castelfranco Veneto ha ancora un nucleo medievale circondato da una cinta muraria con torri in buono stato e fra questi la Torre Civica. La città ha dato i natali al Giorgione ed a destra della chiesa si trova la Casa di Marta Pellizzari detta Casa del Giorgione dentro la quale i conserva un fregio giorgionesco. La chiesa principale, rifatta dal Preti nel 1730, ha nell’abside destra una pala di altare del Giorgione, dipinta nel 1505, rappresentante la Madonna con il Bambino ed i santi Liberale e Francesco. Questa pala rappresenta l’inizio del rinascimento veneto; Giorgione aveva studiato alla bottega di Giovanni Bellini da cui prende il cromatismo che poi fu ripreso dal Tiziano. Il soggetto ha una prospettiva centrale visibile nel pavimento dove stanno i due santi e vi sono altri due livelli prospettici. Il secondo livello è un piedistallo dove sorge il trono con la Madonna che costituisce il terzo livello; si forma una specie di piramide rotta dallo stendardo di S. Liberale piegato in senso trasversale; sul fondo c’è un paesaggio naturalistico sconfinato.

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1.21 GUBBIO.

11.07.99 - 7:00 - Visita organizzata da ITINERA (Dott.ssa R. Randolfi).

Gubbio, 30 km circa a nord-est di Perugia, è la città dell’Umbria che più ha mantenuto un aspetto medievale con i suoi edifici severi in blocchi di pietra calcarea. La città si trova sulle pendici del monte Ingino e sopra la conca eugubina. Nell’antichità romana era nota come Iguvium, poi detta Eugubium, e la sua antichità è attestata dalle Tavole Iguvine o Eugubine in bronzo scritte in caratteri latini ed etruschi; fu alleata dei Romani ed ebbe una storia tranquilla essendo lontana dalle principali vie di comunicazione come la Flaminia. Con le guerre sociali acquista la cittadinanza romana, diviene provincia e fiorì al tempo dell’impero; vi sono i resti di un teatro di età augustea. Nel medioevo fu sottoposta prima a Perugia, nel XIII secolo divenne libero comune appoggiandosi a Federico II, nel 1300 ebbe il suo massimo sviluppo. Nel 1384, per sfuggire alla tirannia guelfa del vescovo Gabrielli, chiamò i Montefeltro di Urbino che divennero duchi di Gubbio. Nel 1631, estinti i Della Rovere succeduti ai Montefeltro, passò allo Stato Pontificio ed infine, con i plebisciti del 1860, al Regno d’Italia.
Gubbio è famosa per due caratteristiche ricorrenze: la Corsa dei Ceri che si tiene il 15 maggio durante la quale tre alte piramidi di legno con alla sommità le statue di S. Ubaldo, S. Antonio abate e S. Giorgio vengono benedette e portate a gran velocità per le strade della città; la gara di Tiro della Balestra che si tiene il 18 maggio su piazza della Signoria con un bersaglio collocato sulla facciata del palazzo del Pretorio.
Si entra a Gubbio nella zona bassa sulla piazza dei 40 Martiri, dedicata ai 40 civili uccisi per rappresaglia dai tedeschi nel 1944. Sulla piazza sorge la chiesa di S. Francesco e la Loggia dei Tiratoi dal 1600 appartenente alla corporazione dell’Arte della Lana dove si stendeva la lana e si formavano le stoffe. Sotto la loggia c’è anche la chiesa di S. Maria Nuova ed un antico ospedale. La chiesa di S. Francesco è stata costruita dagli Eugubini nel 1256 in onore del Santo e a ricordo della famosa leggenda del lupo. Francesco era venuto per la prima volta a Gubbio nel 1208 e qui, aggredito e derubato, aveva trovato asilo presso la famiglia degli Spadalonga, mercanti di stoffa come il padre, che avevano la casa nel posto dove ora sorge la chiesa. Dopo aver creato l’ordine, Francesco viene chiamato a Gubbio dal vescovo per crearvi un monastero; morì nel 1226 e fu canonizzato due anni dopo nel 1228. La chiesa a tre navate ha un’architettura goticheggiante più evidente nell’abside, che è la parte più antica, divisa in spicchi da costoloni; la copertura in legno è stata rifatta in muratura nel 1700. Le vetrate sono moderne del 1900 di Giovanni Aldo Ajò, la sacrestia corrisponde all’antica casa degli Spatalonga. Le pitture più antiche, precedenti a quelli di Assisi che sono del 1302, si trovano nell’abside destra ed hanno come soggetto la vita del Santo; nell’abside di sinistra le pitture sono posteriori e trattano della vita della Vergine con molti episodi tratti dai Vangeli apocrifi.
Dalla piazza dei 40 Martiri si coglie il panorama della cittadina sulle pendici del monte Ingino con il palazzo dei Consoli che si distingue nettamente per la sua altezza. Le strade principali sono disposte quasi parallele a quote diverse collegate da gradinate e vie ripide trasversali secondo la pendenza del monte. Si sale lungo via Paoli e, a sinistra, c’è la piazza S. Giovanni con la chiesa omonima che ha un campanile romanico, il più bello ed alto di Gubbio; l’interno è mononave con archi a diaframma goticheggianti che finiscono sulle pareti con peducci sorretti da due colonnine. Anche qui le vetrate sono di Aldo Ajò; sulla destra la cappella del Battistero gotica con la volta divisa a spicchi con costoloni che finiscono su esili colonnine. Da via Cristini si raggiunge il palazzo del Bargello o del Capitano del Popolo, prototipo di casa eugubina con la porta grande centrale e la porta piccola laterale che portava ai piani superiori, detta anche Porta del Morto perché da qui uscivano i morti della famiglia. Nella piazzetta davanti al Bargello c’è la fontana dei matti, in pietra serena grigia con al centro i quattro monti simbolo dei Montefeltro. Una tradizione vuole che chi gira tre volte intorno alla fontana venga dichiarato matto.
Da via Ubaldo Baldassini, dedicata al vescovo santo patrono ella città, si arriva alla base del palazzo dei Consoli che si solleva altissimo. Salendo a sinistra al livello di via dei Consoli si raggiunge piazza della Signoria, la più bella della città, con terrazza panoramica ed i due palazzi dei Consoli e del Pretorio (Comune) che si fronteggiano. Il palazzo dei Consoli è del 1300 opera dell’architetto Matteo Gattaponi, ha un ingresso con scala a ventaglio e portale romanico con colonnine ai lati e iscrizioni in latino e volgare. Sopra un’alta parete liscia, interrotta da piccole finestrelle, c’è il piano della Loggia con sei finestre ad arco ed alla sommità una fila di archetti pensili e una merlatura rettangolare. Sull’angolo sinistro si solleva una slanciata torretta campanaria che porta una campana da 25 quintali. Dal portale si entra nella grande sala dell’Arengo dove i Consoli riunivano i capi famiglia della città per le decisioni importanti. La sala ha una volta a botte ed archi tamponati alle pareti; è tappezzata di reperti archeologici, stemmi, doli, sarcofagi alcuni molto antichi con copertura a tettuccio ed uno paleocristiano con bassorilievi rappresentanti angeli con cornucopie. Le pareti dovevano essere tutte affrescate ma rimangono pochi lacerti del 1400 attribuiti a Orlando Merlini, il più grande è in restauro ed un altro rappresenta S. Agostino e S. Ubaldo, vescovo di Gubbio. Sulla parete corta di sinistra è appoggiata una lunga scala che porta al piano superiore. I Consoli erano soliti attendere alla sommità della scala le decisioni dei capi famiglia, pronti a rinchiudersi nelle stanze superiori in caso di tumulti. Il palazzo è oggi sede del Museo e Pinacoteca comunale che si trovano al livello superiore. Ai piedi della scala una porta conduce al Museo Numismatico con una raccolta di monete romane e medievali della zecca di Gubbio. Sono conservate qui anche le famose tavole Eugubine trovate nel 1444 presso il Teatro romano. Sono 7 lastre di bronzo, due scritte in caratteri etruschi, e sono le più antiche della prima metà del III sec. a.C., e le altre in caratteri latini della seconda metà del II sec. a.C.; sono tutte in lingua umbra e trattano di argomenti religiosi. Alla sommità della scala c’è il museo delle ceramiche con una raccolta di vasi di antiche farmacie e ospedali, poi le ceramiche a riverbero dall’aspetto simile alla madreperla di mastro Giorgio Andreoli il cui segreto, mai rivelato, è andato perduto con gli ultimi discendenti della famiglia. Un’altra scala sale fino al livello della loggia, o piano nobile, dove si trovano le sale della Pinacoteca. Nel salone d’onore c’è un quadro Gonfalone di Sinibaldo Ibi del 1400 con S. Ubaldo su una faccia e sull’altra la Madonna della Misericordia che accoglie gli abitanti di Gubbio; vi si vede l’influenza del Perugino nelle figure e dei modelli bizantini nell’uso di oro e di lapislazzuli. Vi sono quadri di Benedetto e Virgilio Nucci, padre e figlio, della seconda metà del 1500; una Madonna con Apostoli di Benedetto Nucci come un tabernacolo con colonne avvolte da tralci di vite come quelle del Bernini dell’altare di S. Pietro; una Resurrezione di Lazzaro di Virgilio Nucci del 1586 di pieno stile manierista. Di Felice Damiani, allievo del Barocci, è un’apparizione di S. Francesco, ritratto con il lupo, il cui aspetto richiama la “poetica degli affetti” iniziata già dal Raffaello. Alla parete della sala c’è una fontana del 1300 con cannelle ed un sarcofago come vasca che porta gli stemmi di Gubbio. Nelle salette a destra della facciata c’è un camino di pietra serena con stemma dei della Rovere, mobiletti di legno intarsiato, un polittico di Pietro di Palmeruccio, dei piccoli tabernacoli da portare in processione ed una Pietà in legno di scuola tedesca con il Cristo rigido e primitivo. Sulla facciata sinistra del palazzo si apre una loggia aperta da cui si gode il panorama di Gubbio: la piazza dei quaranta martiri, il Teatro romano, le pendici del monte Ingino con il Duomo.
Lasciato il palazzo dei Consoli e la piazza della Signoria, si sale ancora fino al palazzo Ducale e al Duomo che si fronteggiano. Il palazzo Ducale è di origine longobarda come attestano gli scavi compiuti nel sottosuolo, fu ristrutturato nel 1200 e fu sede anche dei consoli. Nel 1400, quando i Montefeltro divennero duchi di Gubbio, lo ricostruirono prendendo a modello il palazzo di Urbino. Si entra in una corte centrale con portico su tre lati, colonne a capitelli corinzi, il quarto lato ha invece una fila di archetti pensili. Al primo piano ci sono finestre affiancate e paraste scanalate. La costruzione è in pietra serena grigia e mattoni. Si può scendere agli ambienti sotterranei, dove sono gli scavi, sotto l’attuale livello stradale con i ritrovamenti di mura dell’antico palazzo longobardo dal secolo VIII al IX. Nelle sale del piano terreno si tengono mostre (ora c’è una mostra di arte minimale); belli sono i pavimenti originali in cotto e le porte di legno intarsiato. Al primo piano corridoi e sale circondano il portico. Il Duomo fu costruito fra la fine del 1100 e gli inizi del 1200, è di arte gotico cistercense, sulla facciata un rosone circondato dai simboli degli Evangelisti e sormontato dall’agnello mistico; la culminazione è triangolare ornata con uncini. L’interno ha una serie di archi diaframma inframmezzati da capriate lignee. L’abside, pure gotica, è divisa a spicchi da costoloni, il coro ligneo è di Giacomo Maffei della metà del 1500; le pitture sono del 1400 e raccontano le storie dei martiri Mariano e Giacomo a cui è dedicata la cattedrale e le cui reliquie si trovano sotto l’altare. Sul lato destro della navata c’è la cappella del SS. Sacramento con una tela di Antonio Gherardi che rappresenta la nascita di Maria; in una cappella a sinistra una tela con Natività è attribuita al Pinturicchio, altre tele sono di Benedetto e Virgilio Nucci.
Scesi dalla Cattedrale, per via Venti Settembre si arriva a Porta Romana a doppio arco, una delle 7 porte della cinta muraria del XIV secolo. Fuori dalla porta c’è la chiesa di S. Agostino del 1200 a navata unica con cappelle del 1700. La parte più antica è l’abside con affreschi del 1400 di Ottaviano Nelli rappresentanti le storie di S Agostino e della madre Monica. Dello stesso pittore o suoi allievi è il Giudizio Universale sull’arco trionfale con la porta stretta dei beati e la porta larga dei dannati.
Si ritorna verso il centro per via Garibaldi da dove si vede ancora il palazzo dei Consoli.

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1.22 MANTOVA E SABBIONETA.

24- 26.07.99 - 6:30 - Visita organizzata da ITINERA (Dott. G. Marone).

Mantova, capoluogo di provincia della Lombardia, 40000 abitanti circa, è una città ricca di storia e di arte; posta sulle rive del Mincio, che vicino alla città si allarga a formare dei laghi, era una volta completamente circondata dalle sue acque; nel 1200 si erano formati 4 laghi, su tre lati a nord il lago Superiore, di Mezzo ed Inferiore, che poi si restringe a riformare il corso del Mincio, ed a sud il lago Paiolo; questo si ridusse ad una zona acquitrinosa e malsana e fu prosciugato nel secolo scorso e da questo lato si sviluppò la città moderna. Mantova fu centro rurale al tempo dei Romani e fu nota per aver dato i natali a Virgilio nel 70 a.C.; oscura e turbolenta è la sua storia nel medioevo fino al 1200 quando si forma il comune e numerose famiglie si contendono il potere, fra queste prevalgono i Bonacolsi nel 1273 e ne fanno una signoria, nel 1328, alla loro cacciata, sono sostituiti dai Gonzaga che rimarranno fino al 1707 prima marchesi e poi duchi. I Gonzaga erano in origine dei contadini che bonificarono terreni avuti in dono dai monaci benedettini e li coltivarono a granaglie, allevarono cavalli e, arricchendosi, entrarono nel novero delle famiglie più influenti. Sostituitisi ai Bonacolsi nella signoria, comprarono nel 1403 con 12000 fiorini il titolo di marchesi dall’imperatore Sigismondo; nel 1500 sono già imparentati con tutte le famiglie regnanti d’Europa ed il loro momento d’oro si ha sotto Francesco Gonzaga (1454-1519) e la moglie Isabella d’Este. Il figlio Ferdinando si accaparra il favore di Carlo V che lo fa duca nel 1530. Nel 1627 si estingue il ramo italiano dei Gonzaga ed il ducato passa al ramo francese Gonzaga-Nevers ma siamo nel mezzo della guerra dei Trent’anni e la successione è contestata. Mantova è messa a sacco nel 1630 dalle truppe imperiali (i lanzichenecchi) e segue la peste (quella di Milano del Manzoni). I Gonzaga-Nevers rimangono però duchi di Mantova fino al 1707 quando, durante la guerra di successione spagnola (1701-1714), il ducato di Mantova insieme a quello di Milano passano sotto l’impero degli Asburgo. Nel 1800 Mantova è uno dei capisaldi del controllo militare del Lombardo-Veneto e forma il “quadrilatero” insieme a Legnago, Verona e Peschiera; viene annessa al Regno d’Italia nel 1866.
La città antica è concentrata lungo un asse che comprende in successione diverse piazze: piazza Mantegna, con la chiesa di S. Andrea, piazza delle Erbe, con il palazzo della Ragione, la piccola piazza Broletto, con il palazzo del Podestà detto appunto Broletto, e la piazza Sordello, la più importante, con il Duomo ed il Palazzo Ducale. Decentrato a sud è il palazzo Te, villa suburbana dei Gonzaga, con architettura rinascimentale e decorazioni di Giulio Romano.
La visita non può che iniziare dal palazzo Ducale, un complesso di edifici che copre un’area di 34000 mq da piazza Sordello ai laghi di Mezzo e Inferiore costruito in tempi diversi dal 1200 alla metà del 1600. Su piazza Sordello danno gli edifici più antichi della seconda metà del 1200: il palazzo del Capitano merlato e quella dei Bonacolsi sulla sinistra una volta divisi da uno stretto passaggio e poi riuniti. Alla fine del 1300, con i Gonzaga, viene costruito di fronte ai laghi il castello di San Giorgio, opera di Bartolino da Novara. I Gonzaga ampliarono la loro dimora dietro gli edifici più antichi in funzione di nuove esigenze. Nel 1459 Ludovico Gonzaga ospita Pio II Piccolomini per il concilio che doveva promuovere la guerra santa contro i Turchi e fa allestire gli appartamenti papali; il concilio si riunì al piano superiore del palazzo del Capitano. Nello stesso periodo vengono decorati da Andrea Mantegna gli appartamenti del castello di S. Giorgio. Alla fine del 1400, con Francesco Gonzaga, Luca Fancelli realizza la Domus Nova con tre corpi di fabbrica ad U ancora dietro il palazzo del Capitano. Con Giulio Romano viene aggiunta la Rustica sul fronte del lago Inferiore, un cortile detto della Cavallerizza circondato da un porticato con piano sopraelevato destinato alle raccolte d’arte ed alle feste, infine il complesso dell’appartamento di Troia dedicato a Carlo V da Federico Gonzaga in occasione della sua nomina a duca. Morto Giulio Romano nel 1546 il suo allievo G. B. Bertani si incarica di ristrutturare l’intero complesso realizzando collegamenti fra i vari edifici e con il castello e creando così una città nella città vasta quanto 1/3 della vecchia Mantova, 500 stanze, cortili e giardini. Al centro del complesso viene eretta la chiesa di S. Barbara come cappella Palatina con un alto campanile. Gli appartamenti ducali vengono rimodernati ed abbelliti agli inizi del 1600 sotto Vincenzo I Gonzaga ad opera di Antonio Maria Viani.
La visita dell’interno inizia al primo piano dalla sala del Pisanello con i resti di affreschi di Antonio Pisano detto il Pisanello, allievo di Gentile da Fabriano. Si tratta di un ciclo del 1440 ispirato ai cavalieri della Tavola Rotonda; rimasti nascosti sotto altri dipinti ed intonaci, sono stati riscoperti nel 1969. Segue la camera dei Papi per i dipinti di papi qui raccolti, poi le stanze degli Arazzi dove sono sistemati arazzi fiamminghi dipinti su cartoni di Raffaello con storie dell’Antico e Nuovo Testamento e acquistati dal cardinale Ercole Gonzaga nella metà del 1500. Le camere si affacciano sul cortile d’onore. Si passa alla camera dello Zodiaco dalla volta a padiglione con Diana circondata da segni zodiacali. A sinistra si apre la sala dei Fiumi con loggia aperta su un giardino pensile al livello del primo piano realizzato al tempo di Guglielmo Gonzaga (1550-1587); alle pareti sono figure di giganti a rappresentare i fiumi del mantovano. Alle due estremità della sala si trovano due fontane a forma di grotta ma una è stata aggiunta nel 1700. Tornando indietro alla camera dello Zodiaco si passa alla camera dei Falconi con uccelli e putti dipinti sul soffitto e quadri alle pareti rappresentanti dame del tempo con abiti ingioiellati, veri tesori di cui non sono rimasti esemplari. Un lungo corridoio a grottesche di Giulio Romano segue il lato nord del cortile d’Onore e conduce sul lato est occupato interamente dalla grande sala degli Specchi realizzata dal Viani all’inizio del 1600 e decorata con specchi nel 1700. Dal lato nord si scende una scaletta e si segue un corridoio che guarda sul cortile di S. Barbara con la facciata della chiesa. Alle pareti del corridoio sono disposti bassorilievi di stucco rappresentanti personaggi della famiglia Gonzaga, ma sono solo riproduzioni degli originali che si trovano al palazzo ducale di Sabbioneta. Il corridoio, che fa parte della ristrutturazione di G. B. Bertani alla metà del 1500, prosegue verso nord fra il cortile di S.. Barbara e l’adiacente cortile Prato di Castello e fa da collegamento con l’Appartamento Grande di Castello che occupa l’edificio sulla sinistra del castello S. Giorgio. Si incontra per prima la sala di Manto con alle pareti affrescata la leggenda di Manto, figlia di Tiresia e mitica fondatrice della città. Sulla destra si passa alla camera dei Cavalli con un soffitto a cassettoni di Giulio Romano (1535) ed il dipinto della caduta di Icaro, la stanza è trapezoidale ma il gioco dei cassettoni da l’illusione che sia rettangolare. Segue l’appartamento di Troia perché affrescato con scene della guerra di Troia; sono tre stanze dedicate a Carlo V dopo la concessione del titolo di Duca. Si accede ora alla Rustica, edificio di Giulio Romano che prospetta sul lago ad est e circonda il cortile della Cavallerizza. Sul lato nord del cortile è la loggia dei Marmi o dei Mesi, sul lato lungo ovest la galleria della Mostra destinata alle collezioni di Vincenzo I Gonzaga; da qui si vede il cortile della Cavallerizza e il porticato ed il loggiato sovrastante che lo chiude verso il lago. Passando attraverso un insieme di stanze dette della galleria del Passerino si torna alla camera degli Specchi avendo fatto il giro del nucleo centrale con la chiesa di S. Barbara. Si attraversa la galleria ammirando sul soffitto le quadrighe del Giorno e della Notte guidate da Apollo e Diana, che sembrano convergere o divergere a secondo del punto di vista, e si arriva alla sala degli Arcieri, anticamera degli appartamenti di Vincenzo I che era vigilata dagli arcieri del duca. Alle pareti vi sono opere di Rubens che fu ingaggiato da Vincenzo Gonzaga e lavorò a Mantova per 8 anni. Una sua pala di altare, dipinta su pelle e rappresentante i Gonzaga in adorazione della Trinità, fu tagliata dai Francesi durante l’occupazione napoleonica per asportarla ma fu poi dimenticata ed è rimasta in più pezzi.
Si scende e si attraversano i cortili, quello più ad est detto dei Semplici, con un giardino di erbe officinali ed alberi con significati allegorici: la vita (melograno) e la morte (tasso), poi il cortile di S. Barbara e il Prato di Castello. Da qui lungo un portico ci arriva al castello di S. Giorgio e si sale, con la rampa elicoidale del Bertani praticabile dai cavalli, fino al piano nobile con l’appartamento dei Gonzaga. La stanza più celebre è la camera degli Sposi affrescata dal Mantegna in 9 anni, dal 1465 al 1474, come studio per Ludovico Gonzaga e la moglie Barbara di Brandeburgo. La camera occupa una torre d’angolo, la più esterna, ed è poco illuminata, le due pareti in ombra hanno solo tappezzerie, le altre due e la volta sono completamente affrescate. Sulla parete settentrionale sopra il camino è rappresentato Ludovico seduto con la moglie e circondato da cortigiani; sulla parete occidentale, al lato della porta, è Ludovico con il figlio, cardinale Francesco, e sul fondo una veduta ideale di Roma ancora non vista dal Mantegna. Al centro della volta un occhio sul cielo con balaustra prospettica da cui si affacciano angeli e figura femminili.
Uscendo dal Castello lo si può osservare dal lato del ponte S. Giorgio con le sue torri d’angolo.
Ritornati a piazza Sordello si osserva il Duomo con la facciata barocca del 1700 in marmo di Carrara, ma le sue origini medievali si riconoscono nel lato destro in forme gotiche e nel suo massiccio campanile romanico. Sul lato opposto al palazzo del Capitano, all’inizio della piazza, è il palazzo di Baldassar Carstiglione autore del Cortegiano ed all’angolo la torre della gabbia, un’altissima torre medievale con una gabbia di ferro dove venivano sospesi i condannati. Uscendo da piazza Sordello da questo lato e prendendo a sinistra su via Accademia, a 200 m circa, si trova il Teatro Scientifico, un palazzo medievale poi rinascimentale appartenuto al terzo figlio di Isabella d’Este, Ferrante, uomo d’arme che si era circondato da studiosi e ne aveva fatto un luogo di incontri culturali. Il figlio Cesare aveva poi creato l’Accademia degli Invitti poi Invaghiti ed infine Nazionale Virgiliana; nel 1769 Antonio Bibbiena fu incaricato di ristrutturarlo e ne fece un teatro a scena fissa come in uso nel 1500; per la sua magnifica acustica viene usato anche per concerti, fu inaugurato nel 1757 da Mozart allora quattordicenne. L’interno è tutto in legno dipinto e con intonaci a finto marmo ed è stato recentemente restaurato.
Tornando indietro si trova piazza Broletto con il palazzo del Podestà della seconda metà del 1200, un’alta torre medievale porta una nicchia con la statua di Virgilio in cattedra e un sottoportico su cui danno scale di edifici medievali. Il sottoportico esce su piazza delle Erbe, centro del mercato, fiancheggiata dal palazzo della Ragione del 1200, sede dell’amministrazione della giustizia; accanto è la torre dell’Orologio di Luca Fancelli con orologio astronomico indicante le 24 ore, le fasi della luna e del sole e gli oroscopi. Ancora sulla sinistra è la Rotonda di S. Lorenzo del secolo XI, la più antica della città, prima nascosta da un insieme di case medievali demolite nei primi del 1900. Sul lato opposto della piazza si trova il fianco della chiesa di S. Andrea con case addossate la cui facciata da su piazza Mantegna. Fu eretta alla fine del 1400 su disegno di Leon Battista Alberti in forme classiche con la facciata in forma di arco trionfale; sul posto si trovava una chiesa precedente più piccola e la nuova chiesa ha abbattuto le case intorno in parte appoggiandosi ad esse. La costruzione durò 350 anni interrotta da guerre, pestilenze e rivoluzioni, la cupola, non prevista dall’Alberti, è del 1700, il campanile, che si compenetra sulla sinistra della facciata, è di stile gotico lombardo. L’interno è ad una navata con cappelle laterali, la prima cappella a sinistra contiene la tomba del Mantegna fattagli fare dal duca come compenso per la Camera degli Sposi. Sotto la cupola, al centro, una balaustra segna il posto della cripta dove è conservata la più preziosa reliquia di Mantova, del terriccio imbevuto del sangue di Cristo, che viene esposta solo il Venerdì santo. S. Andrea era stato il depositario della reliquia, da cui il nome della chiesa, ed il ritrovamento si ebbe nel secolo VIII ad opera di un mendicante cieco forse nel luogo della Rotonda di S. Lorenzo. S. Andrea è oggi concattedrale.
Fuori dal centro e di fronte al lago di Mezzo si trova il parco Virgiliano con il moderno monumento a Virgilio.
A bordo dei battelli da crociera che attraversano i laghi fino al parco naturale del Mincio si può avere una panoramica della città dal lago Inferiore ed un’idea della riserva naturistica sulle rive del Mincio.
Un altro capolavoro d’arte di Mantova è il palazzo Te, villa suburbana dei Gonzaga posta fuori dal centro in località Teieto o luogo delle canne che si chiamavano “teia”; questo fatto spiega il nome del palazzo oppure il fatto di trovarsi all’incrocio a T fra due strade. La villa fu opera di Giulio Romano nel 1527-28 per volere di Federico Gonzaga e vi fu ospite Carlo V nel 1530 e nel 1532. Giulio Romano si ispira qui alle grandi strutture romane del Colosseo, di Porta Maggiore e del tempio di Claudio ed adotta lo stile arcaico del bugnato rustico sulle facciate e dell’opera quadrata appena sbozzata sullo zoccolo. La villa è costituita da un corpo principale quadrato con cortile centrale ed un ampio parterre posteriore chiuso da mura ed altri edifici. All’interno della villa si ammirano le stanze affrescate con cartoni di Giulio Romano dalla sua scuola. La prima sala è detta camera di Ovidio per le scene mitologiche tratte dalle Metamorfosi; segue la sala delle Imprese con le rappresentazioni allegoriche delle aspirazioni morali, civili e culturali dei regnanti, stemmi simbolici retti da putti e decorazioni a grottesche. La terza sala è detta del Sole, sul soffitto c’è il carro del Sole guidato da Apollo che entra mentre esce quello della Luna guidato da Diana; sulle pareti medaglioni di stucco. Più avanti la sala dei Cavalli in cui l’illusionismo pittorico con il monocromo da aspetto tridimensionale a statue e busti ed alle formelle con le fatiche di Ercole dipinte sulle pareti. Segue la sala di Psiche con storie dell’Asino d’Oro di Apuleio e la figura di Psiche che riproduce le fattezze di Isabella Boschetto, amante di Federico; poi la camera dei Venti, studiolo privato di Federico, con segni zodiacali sul soffitto, ed infine la camera delle Aquile, camera da letto di Federico, con quattro aquile ad ali spiegate agli angoli, emblema dei marchesi di Mantova; sul soffitto la caduta di Fetonte trasformato nel fiume Po. Finiscono qui gli appartamenti di Federico nell’ala sinistra con la grande loggia di David che collega il cortile interno del palazzo al parco posteriore. La loggia ha una volta a botte splendidamente decorata e una facciata sul parco con colonnato e timpano al centro, serliane ai lati e davanti due peschiere. Nell’ala destra del palazzo sono le stanze dell’ospite Carlo V con un ciclo di pitture di soggetto eroico. Partendo dalla loggia di David, la prima sala è quella degli Stucchi con volta a botte a cassettoni in stucco e figure di Ercole ed eroi; segue la sala di Cesare con le imprese di Federico II in bassorilievo in forme manieristiche, infine c’è la sala dei Giganti sulle cui pareti è rappresentata la caduta dei Giganti, facce e membra gigantesche fra edifici in rovina e, in alto, separati da un manto di nubi, gli dei che osservano la scena. Le ultime stanze, meno importanti, hanno soffitti a cassettoni e bassorilievi a stucco. Il parco, da cui si può ammirare la prospettica della loggia, è chiuso da una grande esedra che richiama le forme del Colosseo. In fondo, sulla sinistra, c’è un casino con piccolo giardino segreto e grotta rustica una volta ricoperta di conchiglie di madreperla e lapislazzuli e dotata di fontane con acqua calda e fredda.

Sabbioneta, 33 km a sud-ovest da Mantova, è un’antica cittadina cinta da una cerchia esagonale di mura lunga 4 km che fu ducato di un ramo cadetto dei Gonzaga. Il luogo era proprietà dei benedettini e poi di nobili del luogo, nel 1300 i Gonzaga se ne impadronirono e costruirono un primo castello. La città fu praticamente fondata con la sua cinta di mura nel 1556 da Vespasiano Gonzaga Colonna (1531-91) figlio di Luigi Gonzaga e di Isabella Colonna. Vespasiano, educato dalla zia Giulia fra Roma, Fondi e Napoli, a 10 anni fu mandato alla corte di Filippo II e si sposò tre volte, a 19 anni con Diana Carboni nobile siciliana ma rimase senza eredi e la moglie, accusata di adulterio e imprigionata, morì suicida. Sposò poi Anna d’Aragona cugina di Filippo II ancora dodicenne, ebbe due figlie e un figlio ma la moglie morì a 18 anni ed il figlio a 10 anni, rimane così senza discendenti maschi benché si sposasse per la terza volta con Margherita Gonzaga. Il secondo matrimonio è quello che gli diede prestigio e nel 1577 la contea di Sabbioneta venne elevata al rango di Ducato, anche senza essere sede vescovile, e Vespasiano poté battere moneta. Per i servigi resi a Filippo II, Vespasiano ricevette l’onorificenza del Toson d’oro nel 1585 ed il privilegio di portarlo nella tomba. Malato di sifilide, negli ultimi 10 anni subì tre volte la trapanazione del cranio per esportargli un tumore ma morì ucciso all’assedio di Vicovaro.
All’interno della sua cerchia di mura Sabbioneta fu costruita come città ideale con strade ad angolo retto e completamente autonoma in modo che la vita potesse continuare anche durante gli assedi. Al centro della città è la piazza Ducale con il palazzo Ducale, sede del potere, eretto nel 1568; la facciata rinascimentale ha un portico in basso, il piano nobile ed una torretta in alto. Salendo al piano nobile le sale hanno soffitti originali in legno di quercia e cedro del Libano immune dai tarli. Nella prima sala quattro statue equestri in legno dei Gonzaga, le uniche salvatisi da un incendio agli inizi del 1800 insieme a quattro busti. Segue la sala degli Stemmi con angeli che reggono lo stemma aragonese della seconda moglie, poi la galleria degli Antenati con volta a botte e statue in stucco di personaggi della famiglia Gonzaga le cui copie si trovano nel palazzo ducale di Mantova. Sulla volta è si vede Fetonte sul carro del sole, con effetto illusionistico perché da dietro sembra in piedi sul carro e davanti sembra che precipiti colpito da Giove.
Dietro il palazzo Ducale si trova la chiesa dell’Incoronata, a pianta ottagonale in mattoni, copia dell’Incoronata di Lodi, costruita nel 1586-88 come cappella privata di corte. Alta 36 m al lanternino, all’interno un effetto prospettico fa apparire la cupola più alta. Contiene il monumento sepolcrale di Vespasiano Gonzaga con la sua statua bronzea che lo rappresenta come un imperatore romano, opera di G. B. della Porta. Nel 1988, scavando ai piedi del monumento sono state rinvenute le ossa del duca, della moglie e del figlio, il rinvenimento del Toson d’oro ed il cranio trapanato ha dato la certezza dell’identificazione.
Un altro edificio storico importante di Sabbioneta è la Sinagoga e si trova vicino a piazza Ducale. Molti Ebrei espulsi dalla Spagna nel 1492 e poi dalla Francia e dalla Germania trovarono ospitalità nei domini dei Gonzaga e furono autorizzati ad abitare a Sabbioneta fin dalla sua fondazione nel 1556 raggiungendo anche il 10% della popolazione; gli Ebrei vi crearono una raffinata stamperia che fece la fortuna della città ed agli Ebrei si deve la conservazione della città quando alla fine del 1700 tutto l’abitato doveva essere messo all’asta e demolito e fu salvato da un ricco ebreo che l’acquistò e lo donò al comune. Sotto il dominio austriaco, nel 1800 quando iniziarono i moti di indipendenza, gli Ebrei furono concentrati in un quartiere e nel 1823-24 fu rifatta la Sinagoga su progetto dell’architetto Carlo Visiola. Oggi non ci sono più ebrei a Sabbioneta e la sinagoga appartiene alla comunità ebraica di Mantova; è aperta al pubblico come museo ma vi si tengono anche cerimonie e sposalizi.
In un edificio vicino alla Sinagoga si trova il museo di Arte Sacra dove è conservato il Toson d’oro di Vespasiano Gonzaga, preziose pianete fra cui una di cuoio pettinato con impressi fregi d’oro e d’argento, un calice dei Colonna e monete antiche. In altre stanze si trova un archivio pieno di antichi documenti del tempo dei Gonzaga, una raccolta di strumenti musicali ed una quadreria dove sono stati raccolti quadri provenienti da chiese del circondario per salvarli dai continui furti.
Sabbioneta ha anche un teatro detto all’Antica costruito nel 1588-90 su progetto di Vincenzo Scamozzi come teatro di corte, è uno dei primi esempi di teatro coperto. Ha una concezione moderna per repliche in continua con camerini per gli attori e un foyer per gli intervalli. Il tetto, in origine a carena di nave rovesciata, crollò nel 1700 ed è stato rifatto a capriate e cassettoni; il teatro ha una cavea con gradinate ad emiciclo ed una scena che dopo l’ultimo restauro del 1996 riproduce edifici di Sabbioneta, dietro, un colonnato ad emiciclo con statue. I materiali usati sono gesso a finto marmo e legno che assorbono il suono favorendo l’acustica.
La villa privata del principe è il Palazzo Giardino sulla grande Piazza d’armi vicino alla cinta muraria, era destinata ad ospitare le collezioni d’arte del Gonzaga, le sale sono decorate dalla scuola di Giulio Romano con dipinti e grottesche. Al primo piano la prima sala è detta dei Cesari per le figure di condottieri, la seconda è quella dei Circhi con le viste del Circo Massimo e del Circo Flaminio, segue la sala delle Mitologie con i miti di Dedalo e Icaro, Aracne, Fetonte e Apollo che scortica Marsia. La sala più ampia è quella degli Specchi con 5 specchi veneziani rettangolari sul soffitto. Il palazzo Giardino ha come appendice un lungo edificio detto Galleria degli Antichi, un salone lungo 96 m sopra un porticato; come grandezza è la terza in Italia dopo la galleria degli Uffizi e quella delle Carte Geografiche in Vaticano. Le pareti sono tutte decorate in affresco con colonnati prospettici e statue dagli effetti illusionistici che sembrano muoversi con l’osservatore.
Sulla cinta muraria della città sono aperte due porte: la porta Vittoria, la più antica (1565) con una loggia a pilastri sul lato est, e la porta Imperiale sul lato ovest (1579) in origine uguale alla prima ma modificata con un timpano al posto del loggiato nella prima metà del 1800.

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1.23 CAMPANIA FELIX: GLI ASTRONI E L’ANTRO DELLA SIBILLA A CUMA.

10.10.99 - 7:00 - Visita organizzata da PALLADIO (Arch. G. Ametrano e Dott. P. Jacovacci).

Al centro della zona Flegrea in Campania, nel territorio del comune di Pozzuoli, si aprono una serie di crateri fra cui quello della Riserva degli Astroni già conosciuto al tempo dei Romani per le fonti di acqua termale dalle proprietà salutari. Le fonti scomparvero con l’eruzione del Monte Nuovo nel 1538 e Alfonso I d’Aragona trasformò gli Astroni in Riserva Reale di Caccia cinta alla sommità da un terrapieno; nel 1800 Carlo I di Borbone lo cinse con un muro di tufo con torri di guardia, da allora la corte di Napoli vi tenne feste e battute di caccia ed a questo scopo vi furono introdotte diverse specie di animali. La riserva dopo i Borboni passò ai Savoia e dal 1919 al 1980 passò in gestione all’Opera Nazionale Combattenti che ne fece un uso disordinato favorendone il degrado. Scomparsa l’Opera Nazionale Combattenti, divenne patrimonio della Regione Campana. Nel 1969, su proposta del WWF, il Ministero dell’Agricoltura istituì qui l’Oasi di protezione per la fauna stanziale che diviene nel 1987 riserva con il nome di “Cratere degli Astroni”.
I Campi Flegrei sono una zona di vulcanismo aperto con numerosi crateri indipendenti da cui nel passato sono uscite le lave. Una volta svuotatasi le camere magmatiche, le infiltrazioni di acqua possono generare un’esplosione idromagmatica seguita dal collasso del fondo del cratere e dalla formazione di una caldera. L’ultima attività eruttiva nell’area si è avuta con la formazione del Monte Nuovo nel 1538 vicino al lago di Averno. Attualmente si hanno attività vulcaniche nella Solfatara di Pozzuoli con fumarole, fanghi caldi e getti di vapore e gas. Fenomeni di bradisismo sono evidenti nel Serapeo di Pozzuoli che ha periodi di innalzamento ed abbassamento Gli Astroni si sono formati alcune migliaia di anni a.C., il bordo degli Astroni è alto 255 m s.l.m., il fondo del cratere è a 9 m s.l.m. e nel punto più basso vi sono tre laghetti: il Lago Grande, il Cofaniello Piccolo ed il Cofaniello Grande.
Arrivando dalla Tangenziale a circa 16 km da Napoli si esce per gli Astroni e si raggiunge l’ingresso con la Torre Centrale, un edificio cinquecentesco rimaneggiato fino ai giorni nostri, ed il Centro Visite. Si scende al cratere lungo una strada asfaltata in leggera pendenza che permette di osservare la vegetazione tipica. Qui l’habitat presenta il fenomeno della inversione vegetazionale, tipico delle valli strette, dove le specie botaniche attecchiscono in modo inverso all’altitudine con le parti più alte ricoperte dalla tipica macchia mediterranea e da lecci ed erica mentre nella zona più bassa, per effetto della maggiore umidità e la minore insolazione, crescono le specie submontane a foglia caduca come il castagno, l’olmo, il rovere, la quercia l’acero ed i pini, tipici dei climi più freddi. Si ha modo di osservare le caratteristiche delle varie piante: i noccioli con le foglie larghe seghettate con punta terminale, l’olmo la cui foglia parte in modo asimmetrico ed è zigrinata, l’acero campestre con le foglie a 5 lobi, divenute il simbolo del Canada, che nascono a coppie in opposizione dallo stesso nodo del ramo. Una pianta caratteristica è la Fitolacca dalle bacche rosse che venivano utilizzate per colorare il vino
Arrivati al fondo del cratere la strada ne percorre il perimetro; una piccola voliera ospita alcuni uccelli che non sono più capaci di volare avendo subito ferite inguaribili. Proseguendo si arriva in vista del Lago Grande dove si possono osservare il Germano reale maschio dalla testa verde con le femmine dal collo marrone ed il Fistione turco dalla testa rossa.
Si risale al Centro Visite da una scorciatoia più ripida.

Baia è un piccolo centro marinaro nel golfo di Pozzuoli, famoso per i bagni al tempo dei Romani; secondo la tradizione deve il nome al timoniere di Ulisse, Bajo, che vi morì. La zona archeologica è all’interno; di fronte al molo si trovano le rovine del Tempio di Venere, in realtà edificio termale del III secolo a.C., ottagonale all’esterno e circolare all’interno con 26 m di diametro, la volta è crollata e vi sono finestre e nicchioni. Dal molo di Baia si scorge la mole quadrata del Castello fatto costruire nel 1500 da Pedro di Toledo a difesa dai corsari.

La zona archeologica di Cuma si trova su una collina di fronte al mare a nord-ovest del lago di Averno. Cuma fu la più antica colonia greca del Mediterraneo fondata forse prima del 740 a.C., resistette agli Etruschi che erano arrivati fino a Capua ma alla fine fu conquistata dai Sanniti nel 421. Con la sconfitta dei Sanniti da parte dei Romani nel 295, anche Cuma entrò nell’orbita di Roma e fu importante scalo commerciale nel Tirreno. A differenza di Capua, rimase fedele ai Romani all’arrivo di Annibale. Nel VI secolo d.C. fu teatro della guerra greco-gotica, nel X secolo i Saraceni occuparono l’Acropoli e vi rimasero per quasi tre secoli. Nel 1207 il duca di Napoli scacciò i Saraceni e distrusse a città. L’interesse archeologico su Cuma iniziò nel 1600 con la scoperta di molte statue ma scavi sistematici iniziarono solo nel 1800.
Il santuario della Sibilla cumana era molto venerato nell’antichità e ne parla Virgilio nell’Eneide, tuttavia molte sono le grotte della zona che si contendono questo nome (due si trovano sul lago di Averno). Questa grotta, ai piedi dell’Acropoli di Cuma, è quella ufficiale ma è in realtà una struttura militare difensiva romana che utilizzava una struttura precedente greca, è un camminamento sotterraneo con cisterna e canali di raccolta delle acque. Si entra nel tunnel della Sibilla lungo 135 m scavato nel tufo con sezione trapezoidale e si arriva in un ambiente con volta a botte usato dai primi cristiani per funzioni religiose e per inumazioni; questo è considerato la grotta della Sibilla dove avvenivano i vaticini, erano i sacerdoti che li riportavano e nessuno vedeva mai la Sibilla considerata uno spirito che vagava nelle grotte, i vaticini erano inoltre ambigui o incomprensibili e si prestavano a tutte le interpretazioni.
Prima di entrare nella galleria del santuario, sulla destra, in un profondo avvallamento si vede l’ingresso di una galleria, è la Cripta Romana di epoca augustea, un tunnel che attraversava il monte e collegava con il lago di Averno.
Si sale all’Acropoli seguendo l’antica via Sacra basolata e si incontra la Torre bizantina o di Narsete del VI secolo ed in basso una cisterna ed una fontana; oltrepassata una terrazza panoramica, si raggiunge la spianata inferiore dell’Acropoli con il tempio di Apollo costruito, secondo la tradizione da Dedalo arrivato qui da Cnosso, in realtà la costruzione risale al VI secolo a.C. ed il tempio era dedicato ad Era Argiva dea della fertilità, quello che è rimasto è però di epoca romana e bizantina, quando fu trasformato in basilica cristiana. Si sale ancora fino alla sommità dell’Acropoli dove si trova il tempio di Giove che si pensa in origine dedicato ad Atena. Anche qui le rovine sono di epoca romana e bizantina; di quest’ultimo periodo è una vasca battesimale circolare con resti di marmi colorati. Nel VI secolo il tempio era una basilica cristiana a 5 navate dedicata a S. Massimo.
Dall’alto dell’Acropoli si gode il panorama dei dintorni e del mare.

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1.24 RAVENNA E COMACCHIO.

30.10 - 01.11.99 - 6:30 - Visita organizzata da ITINERA (Dott. B. Mazzotta).

La città di Ravenna, in Romagna a pochi chilometri dal mare Adriatico, è oggi una città industriale di importanza primaria che ha però conservato i tesori d’arte del suo splendido passato quando è stata capitale dell’Impero d’Occidente con Onorio e poi capitale del regno d’Italia sotto i Goti di Teodorico.
In origine città umbra ed etrusca, la storia di Ravenna inizia con la colonizzazione romana nel II secolo a.C.; per la sua posizione sul mare Augusto la scelse come sede della flotta costruendo il porto di Classe. Il periodo più importante della sua storia si ebbe nel 402 quando Onorio, imperatore di Occidente, non sentendosi sicuro a Milano, trasportò la capitale a Ravenna. Dopo di lui regna la sorellastra Galla Placida ma il potere effettivo è ormai nelle mani delle milizie barbariche dei Goti. Nel 476 Odoacre, proclamato re dai suoi soldati, depone l’ultimo imperatore di Occidente, Romolo Augustolo, e invia le insegne imperiali all’imperatore d’Oriente, Zenone, governando in sua vece. Nel 493 Ravenna è occupata dai Goti di Teodorico, allevato alla corte di Bisanzio ed inviato in Italia dall’imperatore Zenone. Teodorico regna sull’Italia come rappresentante imperiale e come re dei Goti arricchendo Ravenna di monumenti; muore nel 526 e lascia la figlia Amalasunta reggente per il figlio Atalarico ma, quando Teodato la fa uccidere, l’imperatore Giustiniano prende l’occasione per mandare Belisario e Narsete a riconquistare l’Italia iniziando la guerra greco-gotica. Nel 540 Belisario entra a Ravenna ed impone il governo degli Esarchi e da questo momento inizia la decadenza della città che sarà infine occupata dai Longobardi nel 751. Il porto di Classe è ormai insabbiato, inizia per la città il medioevo e l’età feudale poi quella dei comuni e delle signorie. Nel 1431 Ravenna cade sotto il dominio della Repubblica veneta poi, ai primi del 1500, entra a far parte dello Stato pontificio fino all’unità d’Italia.
Fuori città, unico resto dell’antico abitato del porto romano di Civitas Classis creato da Augusto, si trova isolata la basilica di S. Apollinare in Classe consacrata nel 549 dal vescovo Massimiliano e dedicata a S. Apollinare venuto da Antiochia nel I secolo, primo vescovo della comunità cristiana, qui sepolto. La costruzione fu finanziata da un certo Giuliano l’Argentario, ricco banchiere di Ravenna, è semplice, in mattoni rossi, bassi e lunghi detti giulianei, intervallati da un uguale spessore di malta, vi lavorarono sicuramente maestranze bizantine. Accanto si alza il campanile cilindrico del X secolo in mattoni rossi e gialli, nella forma tipica delle torri campanare ravennati. Il campanile è alto 38 m, ha 8 piani ed è abbellito da bifore e trifore negli ultimi quattro mentre i primi hanno feritoie di ampiezza crescente. L’interno della basilica è grandioso, a tre navate divise da due file di 24 colonne di marmo greco venato con capitelli bizantini e pulvino e la navata centrale doppia di quelle laterali. La basilica era in origine tutta ricoperta di marmi preziosi e con il pavimento in mosaico, nel 1500 i marmi furono asportati dai Malatesta per decorare il Tempio Malatestiano di Rimini. La decorazione a mosaico più antica è quella del catino absidale del VI secolo. Al centro la grande croce gemmata a rappresentare la Trasfigurazione su uno sfondo di 99 stelle, “alfa” e “omega” ai lati e le scritte “IKTUS” e “SALUS MUNDI” in alto ed in basso. Sopra la croce la mano del Padre che scende e sotto S. Apollinare con il manto ricoperto di api, simbolo dell’eloquenza. I mosaici del frontone dell’arco trionfale sono del VII secolo e rappresentano Cristo fra i simboli degli Evangelisti e gli apostoli come pecorelle che escono dalle porte di Gerusalemme e Betlemme. Lungo i muri della navata centrale, sopra gli archi, vi sono i medaglioni dei vescovi di Ravenna in ordine cronologico, dipinti nella metà del 1700. Allineati lungo le navate laterali vi sono dei sarcofagi dal V all’VIII secolo decorati e con copertura a botte. All’estremità della navata sinistra si trova un ciborio marmoreo del IX secolo proveniente da una chiesa distrutta verso l’anno mille. Il presbiterio è sopraelevato per la presenza di una cripta soggetta attualmente ad infiltrazioni di acqua.
Il centro di Ravenna conserva numerosi monumenti e chiese del suo periodo aureo. Vicino alla stazione ferroviaria si trova la chiesa di S. Giovanni Evangelista, la più antica, fatta costruire da Galla Placida nel 430-440 per un voto al suo ritorno da Costantinopoli. La chiesa è all’interno di un recinto con portale gotico marmoreo e accanto si alza un campanile romanico del X secolo con campane del 1200. La chiesa è stata ricostruita nel 1960 dopo i danneggiamenti della guerra. La facciata ha un profilo altissimo, l’interno ha colonne originali con capitelli e pulvini bizantini; molti mosaici pavimentali sono stati portati sulle pareti, hanno motivi decorativi astratti o cortesi e sono del periodo della 4° crociata. Una cappellina nella navata sinistra è del 1300 con affreschi giotteschi molto mancanti ed alcune sinopie (affreschi preparatori). Il pavimento è stato sollevato di circa 2 m per la presenza di acqua. Ugualmente antica, della fine del V secolo, e poco distante è la chiesa dello Spirito Santo, antica cattedrale ariana del tempo di Teodorico dedicata alla Resurrezione (Anastasis) poi convertita al culto ortodosso dedicandola allo Spirito Santo che gli ariani non ammettevano. La chiesa ha un portico rinascimentale con colonne di cipollino grigio; l’interno ha belle colonne, un ambone del V secolo ed un soffitto del 1500. All’esterno, sulla destra, sorge il Battistero degli Ariani di forma ottagonale interrato di più di 2 m rispetto al livello attuale della piazza. L’interno conserva solo il mosaico della cupola con al centro il battesimo di Cristo ed intorno la processione degli Apostoli per la prima volta rappresentati con un nimbo.
La chiesa di S. Apollinare Nuovo è stata fatta costruire pure da Teodorico all’inizio del VI secolo per gli ariani e come cappella palatina ma, con l’arrivo dei Bizantini nel 540, fu convertita al culto ortodosso e dedicata a S. Martino di Tours oppositore degli ariani. L’esterno è semplice ed essenziale in mattoni rossi e con un portico rifatto nel 1500. L’interno aveva in origine uno splendido soffitto dorato, che aveva valso alla chiesa l’appellativo di S. Martino in cielo d’oro, ma quello attuale è un rifacimento a cassettoni del 1600. La chiesa prese il nome di S. Apollinare nel IX secolo quando si disse che le spoglie del primo vescovo erano state qui traslate da S. Apollinare in Classe ma la cosa fu smentita poi da Alessandro III (1159-1181). Le pareti della navata centrale sono tutte in mosaico. Nella fascia sopra le grandi finestre sono dipinti episodi della vita di Cristo, fra le finestre Apostoli, sotto a sinistra il corteo delle vergini con le vesti ricchissime, all’inizio il porto di Classe ed alla fine la Madonna in trono con il bambino fra angeli ed i Magi; a destra è invece il corteo dei martiri preceduto dal palazzo imperiale e concluso dal Cristo in trono. L’abside ed il presbiterio sono barocchi. All’esterno la torre campanara cilindrica del X secolo è ornata da bifore e trifore negli ultimi 5 piani e da feritoie di larghezza crescente nei primi 4.
Vicino, lungo la via Roma, si incontra la facciata di un palazzo con archi e loggette cieche detto palazzo di Teodorico, in realtà si tratta di un portico o edificio civile del tempo degli Esarchi del VII-VIII secolo; il palazzo di Teodorico doveva trovarsi da queste parti ma fu spogliato e distrutto al tempo dei carolingi.
L’edificio più importante che ricorda il re goto è il Mausoleo di Teodorico a circa 2 km a NE dal centro; sorge in un’area una volta adibita a cimitero dei Goti, fu eretto nel 520 in pietra calcarea d’Istria, la cupola è un blocco monolitico di 1 m di spessore e 11 m di diametro pesante circa 500 ton portato dall’Istria su uno zatterone. L’edificio ha pianta poligonale a 10 lati ed ha due piani. Al piano inferiore c’è un ambiente a forma di croce, forse una cappella; al piano superiore si accede da una scala esterna con una passerella moderna, ha intorno un cornicione protetto da una ringhiera e si entra in un vano circolare dove si trova un sarcofago di porfido aperto, non sono state trovate le spoglie del re certo rimosse al tempo dei Bizantini; il blocco della cupola mostra una frattura. La cupola ha in alto dei grossi maniglioni ed il tamburo è decorato con un fregio detto a tenaglia, motivo trovato anche in una corazza di cavallo.
Del VI secolo è anche la basilica di S. Vitale che si trova nella parte NO della città insieme al complesso di edifici del monastero benedettino, oggi sede del Museo Nazionale e della Scuola per il Restauro del Mosaico. Il monastero ha tre chiostri, due rinascimentali ed uno barocco dove si trova una raccolta di lapidi. La basilica ha una pianta ottagonale di ispirazione bizantina coperta da una cupola di 16 m di diametro che si presenta all’esterno pure ottagonale con copertura a piramide, nella costruzione dalla volta si sono usati tubi fittili in terracotta di forma conica per innestarsi e formare la struttura portante; un campanile cilindrico fiancheggia la basilica. La chiesa fu eretta nel 525, vivente ancora Teodorico e fu finanziata da Giuliano l’Argentario, lo stesso di S. Apollinare in Classe, fu poi consacrata nel 548 dal vescovo Massimiano dedicandola a S. Vitale, martire nelle prime persecuzioni. L’interno ha un nucleo centrale ottagonale con otto pilastri ed archi altissimi che reggono la cupola e si aprono su cappelle radiali. Le cappelle hanno due ordini di archi su colonnine ed il livello superiore costituisce il matroneo. La cupola è ricoperta da affreschi del 1600, tutte le pareti, la volta dell’abside ed il catino absidale sono ricoperti invece da mosaici ancora originali. Nel catino absidale, su fondo d’oro, c’è Cristo su un globo fra due angeli, a sinistra S. Vitale ed a destra il vescovo Eclesio che presenta il modello della chiesa. In basso a destra è il mosaico dell’imperatrice Teodora con il suo seguito di dignitari e di dame, sul lato opposto l’imperatore Giustiniano, il vescovo Massimiano, patrizi e la guardia imperiale. Il presbiterio è profondo, con due ordini di colonnine con capitelli a paniere traforati e pulvini, ed alle pareti ha mosaici con soggetti del vecchio Testamento. Nell’intradosso dell’arco trionfale clipei con gli Evangelisti e delfini intrecciati, simbolo di salvezza.
Vicino alla basilica ma più antico di questa è il mausoleo di Galla Placida, figlia di Teodosio morta nel 450 a Roma dove sono rimaste le sue spoglie. Il mausoleo era stato fatto costruire dalla stessa Galla Placida negli anni 420-430, è di forme semplici, oggi parzialmente interrato di circa 1,5 m, pianta a croce latina con cupola centrale che si presenta all’esterno quadrata con tetto a piramide sormontato da una pigna, simbolo funerario. L’interno è ricoperto da mosaici che sono fra i più antichi e più belli. I bracci sono coperti a botte, la cupola si raccorda alla base quadrata con quattro pennacchi, è ricoperta da stelle d’oro in fondo blu le cui dimensioni si riducono verso il vertice aumentando la profondità prospettica, al centro una croce d’oro, agli angoli i simboli degli Evangelisti. Nella lunetta sopra l’ingresso è rappresentato il Buon Pastore, in quella opposta il martirio di S. Lorenzo. Nella lunetta del braccio sinistro è raffigurato un armadietto con i quattro Vangeli, in quella del braccio destro due cervi fra girali e festoni di frutta. Vi sono tre sarcofagi ma non si sa quali spoglie avessero conservato.
Al centro della città la chiesa di S. Francesco risale pure al V secolo; fu fatta costruire dal vescovo Neone ma è stata rifatta nel X e fu aggiunto il campanile. L’interno è a tre navate divise da 12 colonne per parte, il soffitto è a carena di nave rovesciata, l’altare un sarcofago del IV secolo, sotto, la cripta sotto il piano stradale è sempre invasa dalle acque. La chiesa fu dedicata a S. Francesco nel 1261 dai frati francescani e nel 1321 vi furono tenuti i funerali di Dante morto a Ravenna ospite di Guido da Polenta. Accanto alla chiesa vi è un bel chiostro rinascimentale e la tomba di Dante del 1780 a forma di tempietto dove si trovano le ceneri del poeta.
Il Duomo sulla piazza omonima è la prima cattedrale di Ravenna fu innalzata dal vescovo Orso nel V secolo ma nel 1700 fu demolita e completamente rifatta con facciata barocca e portico con tre grandi arcate. L’interno a tre navate conserva parti dell’antica chiesa, un ambone del vescovo Agnello e due sarcofagi uno dei quali è di S Barbaziano, confessore di Galla Placida, il pavimento è rifatto con materiali originali ed anche qui la cripta è allagata. Fra le opere più moderne una pala di Guido Reni in una cappella a sinistra, una cappella del Maderno a destra ed affreschi del Barbieri sulla cupola. Fuori fa contrasto il campanile cilindrico del X secolo. Vicino al Duomo si trova il Battistero degli Ortodossi in laterizi, a pianta ottagonale, iniziato dal vescovo Orso insieme alla cattedrale all’inizio del V secolo. I mosaici all’interno sono stati fatti eseguire dopo il 450 dal vescovo Neone per cui il battistero ha preso anche il nome di Neoniano. Il mosaico della cupola rappresenta il Battesimo di Cristo ed intorno gli Apostoli alternati con tuniche bianche e mantelli dorati. Al centro del battistero si trova una vasca, ninfeo o bagno romano, di 3 m di profondità. Il pavimento è stato più volte rialzato e l’attuale è il quarto livello.
Annesso al Duomo è il palazzo Arcivescovile che ospita un museo dove sono raccolti molti reperti dall’antica cattedrale demolita ed oggetti sacri di grande valore. C’è una croce processionale d’argento sbalzato del VI secolo, al tempo del vescovo Agnello. Si tratta di una croce greca con al centro l’immagine di Cristo da un lato e della Madonna dall’altro. Poi si trova un mosaico con una Madonna in preghiera e la cattedra del vescovo Massimiano, forse dono dell’imperatore Giustiniano, ricoperta da formelle di avorio su uno scheletro che una volta era di legno ed ora è di plastica. Le formelle sono decorate in bassorilievo con storie di Gesù tratte dai vangeli, anche quelli apocrifi. Il museo comprende anche la cappella di S. Andrea, cappella privata dei vescovi costruita fra il V ed il VI secolo. Il mosaico della volta rappresenta quattro angeli che sostengono il monogramma di Cristo in un cerchio e fra di essi i simboli degli Evangelisti.
Altre chiese minori sono S. Agata Maggiore su via Mazzini, pure del V secolo, con colonne tutte diverse, certo di spoglio cosa rara a Ravenna, e soffitto a capriate; la affianca un tozzo campanile cilindrico; S. Maria in Porto su via Roma con una facciata barocca ed un’alta cupola rifatta su una chiesa più antica. All’interno, in una cappella a sinistra, è conservato un bassorilievo in marmo del X secolo raffigurante una Madonna in atteggiamento orante che la tradizione vuole sia giunta miracolosamente da Costantinopoli. Un convento annesso alla chiesa fu trasformato in caserma dai Francesi e poi in magazzino di pinoli; ora è sede dell’Accademia di Belle Arti e di una Pinacoteca civica. Al centro dell’edificio c’è un bel chiostro e, sul fronte est che da sui giardini, la splendida Loggetta lombardesca, un porticato a cinque arcate in due ordini dei primi del 1500.
Delle fortificazioni che circondavano Ravenna durante il dominio veneto sono rimaste solo nove porte della cerchia muraria ed una cittadella fortificata del XV secolo, detta la Rocca Brancaleone, formata da quattro torrioni angolari che creano un quadrilatero e da una cittadella di forma trapezoidale cinta da mura, piazza d’arme ed alloggiamento di truppe.

La cittadina di Comacchio in provincia di Ferrara è il centro principale delle valli di Comacchio a nord di Ravenna e sorge su un gruppo di 13 isolette separate da 22 canali. In origine città etrusca poi romana, fu contesa fra Goti e Longobardi. Nell’854 i Veneziani la saccheggiarono a causa delle sue saline, nel 1504 fu occupata da Venezia e nel 1598, insieme a Ferrara passò sotto il dominio pontificio. Durante la guerra di successione spagnola (1701-1714) viene occupata dall’Austria ed è restituita allo Stato pontificio solo nel 1724. Nell’ultimo secolo è stata zona depressa fra le due guerre, oggi ha riacquistato una certa agiatezza come centro della pesca delle anguille e come centro turistico.
Il punto più caratteristico della città è Trepponti, un ponte a 5 arcate a tutto sesto e 5 uscite a scalinate, tre anteriori e due posteriori in un punto dove convergono tre canali; è stato costruito nel 1634. Uno dei tre canali è quello della Pescheria che finisce sul canale Maggiore, qui si trova un altro ponte detto degli Sbirri perché vicino si trovavano le carceri. Seguendo sulla destra il canale Maggiore si va verso il centro. Si incontra la torre dell’Orologio del 1330, crollata nel 1816 per un terremoto e rifatta nel 1824, e vicino la loggia dei Mercanti del grano del 1621 con colonne di marmo. Sulla sinistra si arriva a piazza XX Settembre dove si trova la Cattedrale di S. Cassiano e, isolato, il Campanile costruito nel 1751, crollato nel 1757 e riedificato nel 1868. Dalla piazza si imbocca verso est corso Mazzini fiancheggiato da un lungo porticato detto dei Cappuccini con 143 archi con colonne in marmo che conduce al santuario di S. Maria in Aula Regia. Tornando alla torre dell’Orologio si può passeggiare tra strade e canali scoprendo piccole chiese ed antichi palazzi. Per iniziativa dell’azienda turistica locale, vecchi barcaioli fanno fare un giro dei canali raccontando la storia del posto ed illustrando i punti caratteristici.

A nord di Comacchio, presso il comune di Codigoro (Ferrara), si trova l’Abbazia di Pomposa con il campanile, bellissimo esempio di arte romanica. L’abbazia fu fondata dai Benedettini verso il VII secolo e divenne qui centro di aggregazione della vita economica. Lo spostamento della linea di costa provocato dal Po portò la zona ad un lento decadimento dopo il 1300.
Il campanile del 1063 è alto 48 m, a 9 piani tutto in mattoni con marcapiani decorati da scodelle di maioliche islamiche, i primi 4 piani hanno feritoie di dimensioni crescenti e nei 5 piani successivi una bifora, due trifore e due quadrifore. La chiesa attuale è del 1026 preceduta da un atrio con ingresso a tre archi. L’interno è a tre navate con colonne di spoglio capitelli e pulvini. Sulle pareti affreschi del 1300 con un ciclo del Vecchio Testamento, storie di Gesù e dell’Apocalisse. In controfacciata un Giudizio universale; vi si sente l’influenza di Giotto che lavorò a Rimini nella metà del 1300. Nell’abside è dipinto Gesù dentro una mandorla.
Di fronte alla Basilica c’è il palazzo della Ragione con due ordini di logge dove c’era l’amministrazione dei Priori.

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1.25 I CAMPI FLEGREI: BAIA E BACOLI.

16.01.2000 - 7:00 - Visita organizzata da ITINERA (Dott. G. Marone).

Baia, insenatura nel golfo di Pozzuoli che prese il nome da Bajos, il timoniere compagno di Ulisse qui sepolto, era una località famosa per la sua naturale bellezza e per la ricchezza di acque idrominerali calde che vi sgorgavano abbondanti. Qui nacque l’idea delle terme, un secolo prima che Roma avesse quelle di Agrippa costruite nel 33 a.C., e si trattava di terme con acque ed aria calde naturali. Dai tempi di Cicerone la zona divenne luogo di villeggiatura esclusiva delle più ricche famiglie romane. Le ville avevano intorno anche vaste tenute coltivate che erano ad alto reddito per la fertilità del suolo e lungo le coste era diffusa la piscicoltura. In età imperiale, da Augusto in poi, fu preferita dagli imperatori e, con il tempo, tutte le proprietà passarono, o per testamento o per confisca, al fisco imperiale; al tempo di Adriano, che qui morì nel 136, tutta la zona apparteneva ormai all’imperatore. Di Baia parla Giuseppe Flavio (I-II sec. d.C.), che faceva parte della corte dei Flavi, e ne magnifica le bellezze. Nel IV sec. d.C. ne parla Ammiano Marcellino che critica con ironia la vita fatua dei frequentatori. Anche nel VI secolo, quando ormai le ville sono abbandonate, Cassiodoro, al tempo degli Ostrogoti, ne ricorda l’antica grandezza.
Dietro l’odierno abitato di Baia si trova un grande parco archeologico con i resti del Palatium imperiale, un insieme di quattro ville con impianti termali disposte a terrazze artificiali dalla sommità della collina fino al mare; in alto stava la parte residenziale, in basso le terme e l’acqua scendeva dall’alto; mancano le terrazze più basse, quelle vicine al mare, sia per la presenza dell’abitato odierno, sia perché si trovano ormai sommerse dal mare per fenomeni di bradisismo che hanno fatto arretrare la linea di costa di circa 400 m abbassando il terreno di circa 15 m; in epoca imperiale davanti a Baia c’era solo un’insenatura ellittica, un sinus quasi chiuso collegato al mare. L’origine delle ville è della fine II inizio I secolo a.C., appartenevano a famiglie romane fra cui un certo Ortentio oratore, cioè avvocato del foro, ma non ci sono certezze perché mancano documenti o iscrizioni risalenti a questo periodo. Le datazioni derivano dal tipo di costruzione, le più antiche in opus reticulatum e successivamente misto e in laterizio.
Si entra sul lato nord al livello della seconda terrazza della villa più grande detta dell’Ambulatio, all’ingresso una scritta su marmo riporta un famosa frase delle Epistole di Orazio: “Nullus in orbe sinus Bajis praelucet amoenis”; la terrazza è molto lunga con archi longitudinali e costituiva una passeggiata con vista sul mare; sul lato del mare era probabilmente chiusa da un muro con grandi finestre e c’è un centro di simmetria dove si godeva la vista migliore. Si vedono ancora resti di marmi, stucchi e decorazioni. All’altra estremità dell’ambulacro si trova la scala privata che collegava le terrazze. Si scende alla terza terrazza forse lasciata a giardino con una grotta centrale a volta in opera cementizia. Le prime volte in opera cementizia vengono realizzate qui prima che a Roma con l’uso della pozzolana che, essendo un materiale leggero, permette la riduzione dei pesi nelle strutture. Scendendo alla quarta terrazza si trovano una serie di cubicoli ed una latrina; dalla quinta terrazza, decorata con semicolonne, si passa al secondo complesso più a nord detto delle Terme di Mercurio formato da grandi ambienti fra cui uno circolare di 21,55 m di diametro coperto da una calotta sferica come il Pantheon con apertura sulla volta (lumen) e quattro finestroni intorno. Si tratta di una piscina coperta, una volta alimentata con acqua calda; anche oggi l’ambiente è invaso dall’acqua ma i livelli pavimentali in origine erano circa 2 m più bassi. Dietro vi sono gli ambienti chiusi del calidarium e le fumarole cioè le uscite dell’aria calda per la sauna.
Si torna indietro e si attraversa la villa dell’Ambulatio sotto un criptoportico, si risale la scala e ci si sposta a sud nella terza villa detta della Venere Sosandra, da una statua di Venere, copia della Venere greca Sosandra trovata in una nicchia e ora al museo Archeologico di Baia, nel Castello aragonese. Nella terrazza principale si trova la nicchia della Venere ed un’altra nicchia con la statua acefala di un Apollo. Questa è l’area residenziale ed alcuni ambienti panoramici erano probabilmente dei triclini. Un’altra scala sul lato sud scende ai livelli inferiori fino ad un vasto cortile, ora lasciato a prato, che doveva essere una grande piscina circondata da ambienti a volta ancora ricchi di decorazioni a stucco; il livello della piscina doveva essere almeno 2-3 m sotto l’attuale come si vede dalle arcate intorno parzialmente interrate. Sul lato sud sono conservate ancora pareti dipinte nel terzo stile pompeiano (epoca di Nerone), i dipinti più recenti sono invece del III secolo.
L’ultimo complesso, più a sud, è detto villa di Venere e delle piccole Terme; è la parte più recente, costruita sotto Adriano ed Antonino Pio, l’unica dove si trovano terme ad ipocausto, riscaldamento artificiale con aria calda sotto il pavimento. Vi sono ambienti per la sauna ed altri per tepidarium e frigidarium.
Fuori dal recinto del parco archeologico vi sono altre grandiose costruzioni; a nord-est una grande cupola per metà crollata a volta ogivale, detta il tempio di Diana, ed a sud-est un edificio circolare a cupola detto Tempio di Venere. Non si tratta in realtà di templi ma di edifici termali. Sempre a sud-est, più lontano, si vede la mole del castello Aragonese fatto costruire nel 1500 dal viceré spagnolo Pedro de Toledo a difesa dai corsari, oggi è sede del Museo Archeologico di Baia; sembra che in questo posto si trovasse una villa di Cesare.

Il lago di Averno si trova a nord di Baia nell’area flegrea vicino al Monte Nuovo, sorto con l’eruzione del 1538, è un luogo famoso nell’antichità per essere stato indicato da Omero e Virgilio come ingresso dell’Ade. Si tratta di un lago vulcanico che Agrippa fece collegare al mare, attraverso il vicino lago Lucrino, con un canale per creare il Portus Julius. Sulla riva si trovano i resti di un grandioso edificio termale, detto Tempio di Apollo, con una cupola di 38 m di diametro, di poco inferiore a quella del Pantheon.

A sud di Baia si trova Bacoli in vista di Capo Miseno, l’estrema punta della penisola dove Agrippa aveva fatto installare la base principale della flotta del Tirreno: la Classis Praetoria Misenensis. A Bacoli si trovano due grandi cisterne costruite dai Romani: la Piscina Mirabile e le Centocamerelle o Centumcellae.
La Piscina Mirabile è una delle più grandi cisterne d’Italia; costruita in età augustea per il rifornimento idrico della flotta di Capo Miseno, era il punto terminale dell’acquedotto del Selino proveniente dall’Irpinia anche questo costruito sotto Augusto. L’acquedotto fornì acqua potabile all’area campana ed a Pompei che da questo momento non ebbe più bisogno di impluvium nelle case per raccogliere l’acqua piovana. La Piscina è scavata nella roccia, è profonda 15 m ed ha dimensioni di 70 x 25 m. All’interno vi sono 48 pilastri con sezione a croce greca che sorreggono la copertura e formano una specie di basilica a 5 navate. Si scende con una scala originale che serviva per le pulizie periodiche; al centro si trova un corridoio con livello più basso dove si raccoglieva il limo, detto appunto piscina limaria che durante le pulizie veniva svuotata per ultima a mano; il pavimento della cisterna era leggermente inclinato verso la piscina limaria per agevolare la raccolta dei sedimenti. Pareti e pavimento erano in coccio pesto per l’impermeabilizzazione e non ci sono spigoli vivi. Sul lato nord, in alto, si vedono le bocche di arrivo dell’acquedotto, di cui non ci sono più resti, e non si sono trovati canali di uscita; si pensa che l’acqua venisse attinta dall’alto con apposite, macchine di sollevamento.
Di origini più antiche è la cisterna delle Centocamerelle su due piani con numerose camere intercomunicanti posti su assi diversi. Il piano inferiore è del periodo repubblicano: il piano superiore fu costruito nel I secolo d.C. al tempo di Nerone. Qui si trovava un villa dove sembra sia stata fatta uccidere Agrippina, madre di Nerone. La cisterna serviva le ville della zona e la proprietà era passata alla famiglia imperiale di Claudio tramite Antonina Minore.

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1.26 ASSISI.

20.02.2000 - 7:00. - Visita organizzata da ITINERA (Dott.ssa M. Dalesio).

Cittadina dell’Umbria in provincia di Perugia, posta su uno sperone del monte Subasio di fronte ad una fertile pianura, Assisi è soprattutto famosa come patria di S. Francesco in grazia del quale è diventata anche città d’arte, centro religioso e simbolo della pace nel mondo.
Del suo passato come municipio romano, con il nome di Asisium, ha conservato l’imponente facciata del tempio di Minerva sulla piazza del Comune e resti di un anfiteatro. Nel medioevo ebbe storia travagliata come comune, poi, fino al XII secolo, fece parte del ducato svevo di Spoleto ma sempre oggetto di contese con Perugia ed il papato e fra guelfi e ghibellini. Del XII secolo è la costruzione della Rocca Maggiore, sul punto più alto dello sperone, voluta da Federico Barbarossa per controllare i centri umbri, ma la rocca fu subito dopo abbattuta dai Perugini (1194). Nel 1367, per liberarsi dall’odiata Perugia, la città si diede al cardinale Albornoz che ricostruì la fortezza e le ridiede le sue libertà comunali. Presto le fazioni ripresero violenza, la città passò da una tirannia all’altra fino a cadere nelle mani dei Visconti di Milano nel 1400. Il 1300 fu però anche il secolo d’oro di Assisi dal punto di vista economico ed artistico. Per tutto il 1400 la città passa da una signoria all’altra, nel 1500 è contesa fra i Baglioni di Perugia ed il Valentino, solo con Paolo III Farnese (1534-1549), che riduce tutta l’Umbria sotto il dominio pontificio, la città viene pacificata ma è ormai in decadenza. Non ci sono altri avvenimenti importanti fino all’annessione al Regno d’Italia nel 1860. Dalla fine dell’800 la città si riappropria delle sua memorie artistiche privilegiando il periodo medievale.
I terremoti del settembre ed ottobre 1997 nell’Umbria hanno apportato seri danni alla città e alla basilica di S. Francesco ma il restauro è stato condotto con rapidità e perizia ed oggi la maggior parte degli edifici danneggiati è di nuovo aperta al pubblico.
Si entra in città da viale Marconi passando la porta di S. Francesco, una massiccia arcata che si apre sulla cinta delle mura merlate medievali lunghe 5 km; la salita di via Frate Elia porta alla piazza inferiore di S. Francesco fiancheggiata da due semplici porticati a crociere costruiti nel 1400 per accogliere le folle di pellegrini che venivano a venerare il Santo. Guardando verso il fondo della piazza si ha la prima visione dell’imponente complesso dedicato a S. Francesco, il convento e le due chiese su due livelli, l’Inferiore e la Superiore, dominate dall’alto campanile romanico. Di fronte c’è l’ingresso principale del convento ed a destra il portale gemino di ingresso alla Chiesa Inferiore con archi ogivali multipli e rosone in alto; l’ingresso è preceduto da un protiro rinascimentale del 1487. Sul fianco destro della piazza una doppia rampa supera il dislivello con il piazzale superiore occupato da un vasto prato su cui prospetta la facciata della Chiesa Superiore. La costruzione del primo edificio iniziò nel 1228, due anni dopo la morte del Santo ed il giorno seguente alla sua canonizzazione avvenuta il 16 luglio, fu seguita da frate Elia, successore del Santo alla guida dell’ordine, con il contributo di papa Gregorio IX (1227-1241) e di tanti devoti. Ambedue le chiese sovrapposte furono costruite in due anni in forme gotiche, e l’Inferiore aveva la funzione di cripta di quella Superiore per accogliervi le spoglie del Santo portatevi nel 1230. La consacrazione avvenne solo nel 1253 e da questo momento iniziò la fase decorativa che si protrasse dal ‘200 al ‘300 con la partecipazione dei migliori pittori del tempo: Cimabue, Giotto e le loro scuole e poi Simone Martini, Lorenzetti e tanti altri. Solo qui si possono vedere a confronto gli stili e l’evoluzione di questi artisti. Gli episodi della vita di S. Francesco affrescati sulle pareti si rifanno alla biografia scritta da Bonaventura da Bagnoreggio, detta la Leggenda Maior, che si impose nell’ordine Francescano facendo scomparire tutte le altre e deformando la realtà storica in senso agiografico.
Si entra nella Chiesa Inferiore su un braccio trasversale che sulla sinistra si apre sulla navata centrale unica, coperta con bassi archi a tutto sesto ed ogivali e grandi costoloni affrescati con motivi geometrici. Sulle pareti ci sono gli affreschi più antichi con Storie di Cristo e S. Francesco, attribuite ad un Maestro di S. Francesco da alcuni identificato con Giunta Pisano. Ai lati si aprono delle cappelle sopraelevate interconnesse a formare delle navatelle e precedute da arcate gotiche. A sinistra c’è la Cappella di S. Martino con le storie del Santo, è la più famosa, fu affrescata da Simone Martini nel 1322-26 con personaggi nei costumi del tempo e rappresenta la sua opera più completa ed articolata. Anche le vetrate sono probabilmente su disegno di Simone Martini. A destra della navata la cappella più importante è quella della Maddalena di Giotto e della sua scuola eseguita dopo quella degli Scrovegni di Padova; fra gli episodi della Maddalena il Noli me tangere dello stesso Giotto. Nei bracci del transetto si trovano a confronto i massimi pittori dell’epoca. Nel braccio destro c’è la Madonna con Bambino, Angeli e S. Francesco di Cimabue e subito a fianco una deposizione di scuola giottesca, in basso sulla parete di fondo 5 Santi di Simone Martini fra cui una S. Chiara (o S. Margherita). Sul lato sinistro del transetto c’è una crocifissione di Pietro Lorenzetti, molto rovinata, con le tre croci ed una folla di personaggi in basso, cavalieri, cavalli, popolani in una scena di grande spazialità. Dello stesso Lorenzetti c’è accanto una Deposizione e una Madonna con Bambino e Santi detta la Madonna del Tramonto per la luce che la illumina al tramonto. Dalla navata centrale si scende alla cripta sotterranea sotto l’altare dove si trova la tomba di S. Francesco in una grande urna marmorea. Alle pareti intorno sono le tombe dei suoi più stretti seguaci, in senso antiorario da destra i frati Rufino, Angelo, Masseo e Leone.
Dal piazzale sovrastante si entra nella Chiesa Superiore che contrasta per la sua luminosità e lo slancio della sua navata divisa in 4 campate da alti pilastri a fasci di sottili colonne da cui partono i costoloni della volta. La chiesa ha un’unica navata con transetto e abside poligonale. Tutte le pareti sono affrescate, opere di Cimabue, Giotto e dei loro seguaci. Troviamo Cimabue nel transetto sinistro con una Crocifissione un po’ inscurita dal tempo e con le forme ancora bizantineggianti ma di grande drammaticità. Simmetrica sul transetto destro è un’altra Crocifissione e sulla parete destra storie di S. Pietro e la sua crocifissione con lo sfondo della Piramide Cestia e della Meta Romuli fuori proporzioni come simboli di Roma. Nella navata, sulle pareti in alto fra le splendide vetrate, è un ciclo di storie dell’Antico e Nuovo Testamento che stilisticamente vengono attribuiti alla scuola romana del Torriti e Cavallini. Sulla fascia inferiore nelle 4 campate fra i pilastri c’è il famoso ciclo degli affreschi di Giotto; sono in tutto 26 episodi della vita di S. Francesco, 13 per lato, e si inizia dal lato destro vicino al transetto proseguendo verso l’ingresso e poi tornando indietro sul lato sinistro. Giotto le dipinse nel 1296 con l’aiuto della sua scuola. Gli episodi sono sintetici ed essenziali e per la prima volta si introduce spazialità e prospettiva. Nel primo episodio siamo nella piazza di Assisi riconoscibile dalla Torre Civica e dal Tempio di Minerva con 5 colonne invece di 6. Episodi particolarmente espressivi sono il 4° con S. Francesco che prega davanti al crocifisso della chiesa di S. Damiano dove è evidente lo studio della prospettiva, il 5° dove si spoglia degli averi e delle vesti, qui per la prima volta c’è anche la presenza di bambini e lo studio dell’anatomia, il 6° con il sogno di papa Innocenzo III che vede il Santo nell’atto di sostenere dal crollo la chiesa di S. Giovanni, simbolo di tutta la Chiesa, il 13° dove S. Francesco istituisce il presepio di Greggio, il 15° con la predica agli uccelli, capolavoro di lirismo nel paesaggio e nelle immagini, ed infine il 20° con la morte del Santo sulla nuda terra.
Convento e chiesa di S. Francesco si trovano all’estremo ovest di Assisi, da qui si imbocca via di S. Francesco che è la principale arteria della cittadina fra palazzi e resti medievali. Al n. 14 è a casa dei Maestri Comacini del 1400; questi erano maestri marmorari provenienti dal comasco che furono attivi in molte parti d’Italia diffondendo le tecniche costruttive dell’arte lombarda. Più avanti è il portico del Monte Frumentario con il fronte ad archetti su un edificio usato nel 1200 come ospedale dei poveri. Si passa un’arcata del 1200 e si continua su via del Seminario fino a sboccare sulla Piazza del Comune. La piazza è il centro della città, luogo dell’antico foro romano e di romano è rimasto il frontone del Tempio di Minerva con 6 colonne corinzie scanalate del periodo di Augusto. Trasformato in chiesa, ha l’interno in forme barocche. A sinistra c’è il palazzo del Capitano del Popolo con l’alta torre merlata, ambedue in origine del 1200; una bella fontana poligonale si trova in fondo alla piazza.
Si sale lungo la via di S. Rufino e si arriva alla piazza omonima dove si trova il Duomo dedicato a S. Rufino, patrono di Assisi, in origine del secolo VIII su fondazioni romane ma attualmente nelle forme della ricostruzione del 1144. L’architettura è romanico-umbra, la facciata è divisa in tre parti, l’inferiore ha tre magnifici portali con raffinate decorazioni ed un gioco di paraste verticali ed orizzontali. Un loggiato con archetti pensili fa da separazione con la zona mediana dove si trovano tre magnifici rosoni; la parte superiore, separata da una cornice ad archetti pensili, è a capanna ed è decorata con un arco ogivale cieco. Sulla sinistra della chiesa un massiccio campanile con un loggiato nella parte superiore. Il Duomo fu il luogo della predicazione d S. Francesco.
Sulla destra della piazza di S. Rufino si scende lungo una serie di strade fino alla basilica di S. Chiara, la santa fondatrice dell’ordine delle Clarisse, contemporanea e conterranea di S. Francesco. La facciata a fasce di pietra bianca e rosa ricorda quella della basilica di S. Francesco, ha un bel portale ed un rosone. Sul fianco appoggiano tre arconi rampanti con funzione di sostegno. All’interno, attualmente in restauro, si trova la Pala di S. Chiara con la Santa e le sue storie attribuita al Cimabue, ed un famoso Crocifisso, detto di S. Damiano, perché la tradizione vuole che abbia parlato a S. Francesco nella chiesa di S. Damiano, lo stesso che viene raffigurato in uno degli episodi del ciclo di Giotto nella chiesa Superiore di S. Francesco.
Dalla piazza belvedere di S. Chiara si vede una parte del panorama di Assisi con i campanili di S. Maria Maggiore e della Chiesa Nuova.
A 5 km da Assisi, nella pianura ai piedi della città, sorge la basilica di S. Maria degli Angeli santuario francescano eretto alla fine del 1500 intorno ad alcuni edifici legati alla vita del Santo. La chiesa è stata ricostruita nel 1800 ed una nuova facciata fu realizzata nel 1900. All’interno racchiude nel presbiterio la Porziuncola, una piccola cappella del IV secolo appartenuta ai Benedettini dove S. Francesco iniziò il suo apostolato, la sua facciata è stata affrescata nel 1800 da Overbeck, uno dei Nazareni, mentre all’interno vi sono affreschi del 1400. Sulle pareti esterne vi sono poi altri resti di affreschi, restaurati di recente, attribuiti al Pinturicchio. Sul lato destro del presbiterio si trova la cappella del Transito, infermeria della comunità e luogo della morte del Santo; trasformata in cappella, vi si trova una grande statua in terracotta di S. Francesco di Andrea della Robbia. In un cortile della chiesa si trova poi il roseto senza spine, altro luogo della leggenda del Santo.

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1.27 SPELLO E FOLIGNO.

19.03.2000 - 7:00. - Visita organizzata da ITINERA (Dott.ssa R. Tomassetti).

Spello è una piccola città della provincia di Perugia fra Foligno ed Assisi alle falde del monte Subasio che guarda sulla vasta pianura umbra attraversata dal Topino. Si raggiunge dalla via Flaminia deviando a Foligno sulla statale N.75. Città etrusca e poi romana con il nome di Hispellum, fu colonia Iulia al tempo di Augusto ed i territori sotto la sua giurisdizione si estendevano fino alle fonti del Clitumno; secondo un’iscrizione del IV secolo (Rescritto), Costantino le concesse l’appellativo di Flavia Constans e di essere annualmente sede dei ludi scenici e gladiatori umbro-etruschi e vi fu costruito un tempio dedicato alla gens Flavia. Una tradizione vuole che Properzio sia oriundo di Spello ma una prova legata ad un’iscrizione rinvenuta nel 1700 che nominava Properzio si è rivelata un falso storico. Nel medioevo fece parte del ducato svevo di Spoleto, divenne Comune nel 1360, dal 1389 al 1583 fu sotto il dominio dei Baglioni di Perugia poi fu assorbita dallo Stato della Chiesa. L’economia di Spello è stata sempre basata sull’agricoltura con la coltivazione della vite e dell’olivo. Etruschi e Romani operarono molti interventi per bonificare il bacino paludoso nella piana del Topino ma un assetto idrografico definitivo si ebbe solo nel 1400.
Spello è nota per la tradizione delle ”infiorate” che risale al 1266; nel giorno del Corpus Domini, lungo il passaggio della processione, le strade vengono decorate per oltre un chilometro con un tappeto di fiori che rappresentano soggetti religiosi, vere opere d’arte che richiedono settimane di preparazione nel progetto, nella raccolta dei fiori e nelle opere accessorie di protezione ed illuminazione. La decorazione è disposta la notte precedente ed al mattino il Vescovo per primo con l’Ostensorio seguito dalla processione e dai cittadini passeranno sopra calpestandola.
Recentemente Spello ha subito danni durante i terremoti del settembre ed ottobre 1997 e sono ancora in corso le opere di restauro e consolidamento.
La città è circondata da una cerchia di mura romane ricostruita ed allargata nel medioevo. Sul lato sud l’ingresso principale alla città è segnato dalla monumentale Porta Consolare a tre fornici dove si notano tre livelli di costruzione il più basso dei quali è quello romano augusteo sotto il fornice centrale. Sulla facciata sono state applicate tre statue nel 1500 ed a fianco si solleva un’alta torre medievale sulla cui sommità sono piantati degli ulivi. Dalla Porta Consolare parte via Cavour, l’asse principale della città che nel medioevo fu divisa in tre terzieri: Borgo, Mezzora e Postella, da sud a nord. Salendo si incontra la cappella Tega dal nome di un sarto, Pietro Tega, che la fece costruire e decorare nel secolo XIV. All’interno si trova una Crocifissione di Niccolò da Liberatore detto l’Alunno precedente al Pinturicchio. Più avanti è la chiesa di S. Maria Maggiore che risale al XII-XIII secolo ma è stata rinnovata alla fine del 1600. Del periodo romanico è il campanile a cuspide ed il fregio del portale che per il resto è del 1694. In origine davanti c’era un portico di cui rimangono due colonne scanalate sotto il campanile. L’interno della chiesa è appesantito da decorazioni a stucco della fine del 1600 ma vi sono conservate molte opere del Pinturicchio che lavorò qui fra il 1501 ed il 1508 prima di andare a Roma. Due affreschi si trovano ai lati del ciborio, i più importanti si trovano nella cappella Baglioni sul lato sinistro. Nella parete di fondo è dipinta una Natività, sulla parete sinistra l’Annunciazione e su quella destra la Disputa con i Dottori con un Gesù giovinetto al centro e nel fondo un edificio classico a pianta centrale con paesaggio stilizzato, sulla volta a crociera vi sono le quattro Sibille. Il recente restauro ha restituito la bellezza dei colori e risalta l’atmosfera raffinata e la varietà delle scene e dei personaggi nei costumi del tempo che richiamano Benozzo Gozzoli e Gentile da Fabbriano.
Seguendo sempre via Cavour si incontra la chiesa di S. Andrea del 1200 con portale ligneo, interno rimodernato in neogotico nel 1900. Sul transetto destro c’è una pala d’altare del Pinturicchio rappresentante una Madonna in trono con Bambino e santi. Altri dipinti nelle cappelle sono della scuola folignate. A piazza della Repubblica c’è il palazzo Comunale del 1270 dove sono conservati reperti archeologici ed il Rescritto marmoreo costantiniano. La ripida salita di via del Belvedere porta al punto più alto della città dove si trovava l’acropoli romana e passava l’antica cerchia delle mura poi inglobata in quella medievale più ampia. Qui si trovano un belvedere con il miglior panorama dei dintorni, i resti romani della Porta dell’Arce ed i resti della Rocca di Albornoz del XIV secolo. Si scende quindi verso la cinta ovest delle mura fino a raggiungere la Porta Venere, anche questa porta romana del periodo augusteo poi rinforzata nel medioevo da due alte torri laterali dodecagone dette torri di Properzio. La strada che usciva da questa porta andava verso un’area sacra dove si trovava un impianto termale ed un sacello dedicato a Venere ora occupato dal Monastero delle suore Missionarie d’Egitto adiacente a Villa Fidelia. Seguendo ancora le mura si esce dalla Porta Urbica, ora sotto le alte mura medievali, non lontana dalla Porta Consolare.
Un po’ fuori l’abitato si trova Villa Fidelia adiacente all’area sacra di Venere riscoperta nel XVI secolo quando la zona era di proprietà della famiglia Urbani che per un certo periodo governò su Spello. Agli Urbani si deve la costruzione della villa al centro delle loro tenute che ebbe nome di Fidelia. Estintisi gli Urbani, agli inizi del 1700, la villa passò a Donna Teresa Pamphili Grillo che la ampliò e rinnovò aggiungendo un galoppatoio ed un giardino all’italiana sopra una delle sostruzioni romane delle terme e del santuario. Dopo la morte di Donna Teresa la proprietà finì alla famiglia folignate dei Piermarini nella seconda metà del 1700 e, anche se non è provato, si pensa che la nuova sistemazione della villa come casino di villeggiatura con il giardino barocco si debba all’architetto Giuseppe Piermarini. Gli ultimi proprietari della villa furono i Costanzi che vendettero l’area del tempio di Venere alla suore Missionarie d’Egitto ed il resto della villa alla Provincia di Perugia nel 1974; oggi è utilizzata come sede espositiva con la collezione Straka-Coppa, opere dalla fine del 1800 ad oggi, ed altre mostre temporanee.

La cittadina di Foligno sulla Flaminia, allo sbocco della valle del Topino sulla pianura umbra è famosa per le sue cartiere retaggio di un’antica tradizione avendone avuto una già nel 1265 e essendo stata sede di una delle prime tipografie d’Italia dal 1470. Il centro gravita intorno al Duomo ed a piazza della Repubblica. Il Duomo, in origine del 1100, è stato largamente rimaneggiato. Il periodo d’oro di Foligno fra il 1300 ed il 1400 è documentato dal palazzo Trinci, la famiglia che ebbe la signoria della città in questo periodo. Il palazzo è oggi sede di una pinacoteca e conserva molti ambienti affrescati. Si sale al piano nobile da una grande scala nell’ampio cortile e si possono ammirare diverse sale recentemente restaurate; in una grande sala, in origine terrazzo poi coperto a cassettoni, vi sono gli stemmi di un vescovo e della famiglia Medici e su un lato storie di Romolo e Remo. Una piccola cappella è completamente affrescata con storie della Madonna dipinte dal Nelli nel 1400; poi la sala degli Imperatori o dei Giganti affrescata nei primi del 1400 con grandi personaggi di imperatori e condottieri in abiti sontuosi; segue la sala delle Arti Liberali che in una metà ha le personificazioni delle Arti del Trivio, Retorica, Grammatica e Dialettica, e quelle del Quadrivio, Musica, Geometria Astronomia e Matematica, e nell’altra metà la rappresentazione dei sette Pianeti con la loro influenza sulle età dell’uomo e sulle ore del giorno. In un corridoio che collega il palazzo con il Duomo vi sono dipinti i grandi dell’antichità: Romolo, Scipione, Giosué, David e Giuda Maccabeo, Alessandro Magno e Re Artù, un tema a sfondo politico che alludeva alle virtù dei committenti. In un’altra sala sono esposti pale di artisti della scuola di Foligno e di Bartolomeo di Tommaso e Niccolò Liberatore detto l’Alunno di stile tardogotico.

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1.28 URBINO ED IL MONTEFELTRO.

24-26.03.2000 - 7:00 - Visita organizzata da PALLADIO (Dott. A. Mosca).

Urbino, patria di Raffaello e capitale insieme a Pesaro della provincia più settentrionale delle Marche, si trova sopra la valle del Metauro su una collina a 450 m s.l.m.; il nome deriva da urvum, il manico ricurvo dell’aratro, forse per la forma del colle, oppure da Urbs bina (doppia) essendo formata da due parti, a nord il colle Monte ed a sud il colle Poggio. Anticamente fu abitata dagli umbro-piceni, divenne municipio romano e, dopo la battaglia del Metauro del 207 a.C. dove fu ucciso Asdrubale, prese il nome di Urvinum Mataurensis. Nel secolo VIII entrò nell’orbita dello Stato pontificio poi fu coinvolta nelle lotte di predominio imperiale e fu comune ghibellino. Nel XII secolo entrano in scena i Montefeltro con Antonio da Montefeltro che, appoggiando il Barbarossa ebbe il titolo di conte e divenne vicario imperiale in Urbino. I Montefeltro discendevano dalla famiglia dei Carpegna di origine germanica ed il loro nome deriva dal Mons Feretro, oggi S. Leo, dove esisteva un santuario a Giove Feretro a cui erano dedicate le spoglie dei nemici. Con alterne vicende i Montefeltro si affermarono nella regione estendendo il loro potere da S. Leo a Cagli, a volte in contrasto ed a volte a sostegno del papato. Nel 1444 Federico successe al fratellastro Oddantonio ucciso in una congiura e, benché figlio illegittimo, con l’aiuto di papa Pio II Piccolomini (1458 - 1464) e con un’accorta politica, affermò la sua signoria su Urbino, ne divenne duca nel 1474 e si circondò di artisti e letterati. Il figlio Guidobaldo costruì la cinta muraria e fondò l’università, fu cacciato dal duca Valentino fra il 1499 ed il 1503 ma dopo la sua morte riprese il ducato. Morto senza eredi nel 1504, il ducato passò a Francesco della Rovere, figlio di una sorella. Dal 1516 al 1521 Urbino fu occupata dai Medici di Firenze ma poi tornò ai della Rovere fino all’estinzione della famiglia nel 1631 quando Urbano VIII (1623 - 1644) inglobò il ducato nello stato della Chiesa. La città si trovava in un grave stato di abbandono e degrado e solo con l’elezione a pontefice di Clemente XI Albani (1700 - 1721) che era di Urbino si ebbe una nuova rinascita e chiese e palazzi vennero restaurati. Il resto della storia di Urbino è comune a quello delle altre città dello stato della Chiesa.
Ad Urbino si tengono ogni anno la Festa dei Duchi ed il Torneo della Contessa il 16-17 agosto e la Festa dell’Aquilone in omaggio a Giovanni Pascoli a settembre.
Ai piedi della città e fuori dalle mura è il grande parcheggio di piazza Mercatale, l’antico mercato del bestiame e dei prodotti agricoli. Da qui si ha una vista delle mura, del torrione cilindrico contenente la rampa elicoidale, che saliva alle scuderie ducali e su cui nel 1800 è stato sopraelevato il Teatro Sanzio, ed il lato posteriore del Palazzo Ducale con la facciata dei Torricini. Si entra in città da porta di Valbona, sulla sinistra della piazza e, salendo lungo via Mazzini, si arriva a piazza della Repubblica sull’asse principale della città. All’angolo nord della piazza, dove inizia la via Raffaello, si vede la chiesa di S. Francesco del 1300 di stile romanico-gotico, campanile a cuspide e nartece a portico con colonne. Una visione completa della chiesa si ha da via Raffaello e piazza delle Erbe, sul lato nord. Da piazza della Repubblica, sulla destra, inizia via Vittorio Veneto che conduce con via Puccinotti al Duomo ed a piazza Risorgimento nel cuore della città. Il Duomo, iniziato da Federico di Momtefeltro e lasciato incompiuto, subì nel tempo una serie di danneggiamenti e crolli per terremoti e problemi statici ed è stato ricostruito in forme neoclassiche dal Valadier nel 1801. Fra il Duomo ed il Palazzo Ducale si apre, chiusa da un’ala del palazzo, la piazzetta del Duca Federico dove si trova l’ingresso del palazzo. Il duca Federico fece costruire il palazzo su un nucleo primitivo a partire dal 1465 chiamando da fuori artisti italiani e fiamminghi; l’incarico fu affidato all’architetto dalmata Luciano Laurana che sviluppò il palazzo intorno al cortile centrale e fece la facciata ovest dei Torricini di gusto francese. Nel 1472 Laurana abbandona per andare a lavorare alla corte di Napoli ed è sostituito dal senese Francesco di Giorgio Martini, ingegnere militare, che completò il palazzo nei dettagli strutturali e funzionali facendone, come disse Baldassar Castiglione, un palazzo in forma di città. La facciata principale da tutta sulla lunga piazza Rinascimento; è in laterizio con le finestre a bifore goticheggianti del nucleo più antico e quelle rettangolari rinascimentali. Le merlature in alto sono sparite con la sopraelevazione del secondo piano fatta sotto i della Rovere nel 1500. Sul lato della piazzetta del Duca la facciata, è incompleta e solo in parte ricoperta in pietra bianca, in basso correva una serie di formelle scolpite, rimosse e portate all’interno per meglio conservarle. Si entra da un portale in travertino decorato e si passa al cortile d’onore rettangolare porticato ad archi su leggere colonne con capitelli corinzi e pilastri d’angolo; mattoni e travertino al piano nobile con finestre rettangolari fra lesene lisce. A sinistra dell’ingresso vi sono i locali della Biblioteca del Duca che conteneva 700 libri e codici tutti portati alla biblioteca Vaticana dopo il 1631; oggi in questi locali sono conservate più di 70 formelle che si trovavano all’esterno, scolpite su disegni di Francesco di Giorgio Martini e che riproducono macchine di pace e di guerra. Si sale lo scalone d’onore con l’aquila dei Montefeltro e la statua di Federico come guerriero romano. Al piano nobile si trova dal 1912 la Galleria Nazionale delle Marche con gli appartamenti e le raccolte d’arte. Sul fronte di piazza Rinascimento ci sono gli appartamenti di Iole dal nome della prima stanza dove si trova un camino decorato con le statue di Ercole e della sua amante Iole, opera di Giovanni da Fiesole; sulla parete è una terracotta di Luca della Robbia con Madonna e santi. Le stanze sono coperte da affreschi rovinati rappresentanti uomini d’arme nello stile gotico cortese francese senza prospettiva, diffuso dal nord e nord-est d’Italia mentre già si irradiava il rinascimento da Firenze. L’ultima stanza è quella da letto di Federico con un’alcova in legno decorata a tempera. C’è una Madonna in trono con Bambino e angeli su sfondo dorato di Girolamo di Giovanni che mostra i segni delle transizione e l’influenza di Piero della Francesca; poi dei polittici del 1300-1400 ancora medievali e statue lignee di Madonne. Lungo gli altri due lati del cortile ci sono gli appartamenti degli ospiti e fra questi la saletta del re d’Inghilterra che ospitò Giacomo III Stuart nel 1700, in visita a papa Clemente XI. Le stanze contengono molte opere interessanti fra cui una Sacra Conversazione di Giovanni Bellini con Madonna, S. Giovanni Battista e Sant’Anna; preziose sono le porte lignee a intarsio. Segue l’ala corrispondente alla facciata dei Torricini che comprende gli appartamenti del Duca ed è la parte meglio conservata. Nella Sala delle Udienze sono esposti due lavori di Piero della Francesca: la Madonna di Senigaglia e la Flagellazione che si trovava prima nel Duomo e la cui interpretazione ha fatto molto discutere. Il quadro è diviso in due parti, a sinistra la scena della flagellazione, con il Cristo in secondo piano, ed a destra, in primo piano, tre personaggi con al centro un giovane biondo; in questo si è voluto vedere Oddantonio, fratellastro di Federico ucciso in una congiura facendone un raffronto con il Cristo flagellato, oppure, per la scritta che si legge in basso: “convenerunt in unum” (si accordarono), vuole alludere al concilio del 1459 per combattere gli infedeli che perseguitavano la Chiesa (il Cristo) ed in questo caso i tre personaggi sono Tommaso Paleologo, Mattia Corvino (al centro) e un Gonzaga. Un gioiello è lo studiolo del Duca con le pareti lignee ad intarsio con 27 tipi di legno diversi, opera di Baccio Pontelli ma il disegno è forse del Botticelli o di Francesco di Giorgio Martini; vi sono 28 tavole rappresentanti le arti e la cultura e personaggi illustri, laici ed ecclesiastici, cristiani e pagani; 14 tavole sono finite al Louvre e sono state sostituite da copie. Il soffitto è a lacunari anche questi in legno intagliato e dorato. Nella stanza da letto del Duca c’è il suo ritratto con il figlioletto Guidobaldo. Il duca è sempre ritratto di profilo mostrando la parte sinistra del volto perché aveva perso in battaglia l’occhio destro e si era fatto tagliare la parte superiore del naso per vedere meglio con l’occhio rimasto. La sala più grande degli appartamenti ducali è quella degli Angeli con al centro un magnifico camino che porta un fregio di angioletti, bellissime le porte di legno intarsiato sovrastate da lunette decorate. Sulla parete di fronte si trova il dipinto della Città Ideale come un modello di sfondo teatrale con unico punto di fuga centrale che propone l’ideale architettonico di Leon Battista Alberti e del Brunelleschi; l’autore però non è stato identificato. Si passa al salone d’Onore o del Trono, sul lato della facciata dell’ingresso; qui vi sono esposti arazzi fiamminghi di Lefebvre del 1600, replica di quelli eseguiti su cartoni di Raffaello per la Cappella Sistina. L’ala nord del palazzo, contigua al Duomo e realizzata da Francesco di Giorgio Martini, comprende il salone delle Veglie e gli appartamenti della Duchessa; il primo era il luogo degli intrattenimenti di corte ed oggi vi sono esposti, fra gli altri, l’Incoronazione della Vergine di Giovanni Santi, padre di Raffaello, e la Crocifissione di Luca Signorelli. Fra le stanze della Duchessa, dalle decorazioni raffinate, si ricorda il salotto dove è esposto il Ritratto di gentildonna di Raffaello detto “la Muta”, personaggio non identificato di stile leonardesco, e la cappellina decorata a stucchi dal Bradano.
Tornando indietro allo scalone d’onore si sale al secondo piano, sopraelevato nel 1500 al tempo dei della Rovere. Qui sono raccolti dipinti del Barocci, di Orazio Gentileschi ed altri della corrente manierista e dei caravaggeschi. C’è anche una collezione di ceramiche di Pesaro ed una raccolta di disegni e bozzetti.
Si completa la visita del palazzo scendendo anche nei locali seminterrati restaurati di recente che occupano il dislivello naturale sul lato ovest. Qui Francesco di Giorgio Martini sistemò tutti i servizi del palazzo: le cucine, le lavanderie, le scuderie, depositi e locali della servitù e una neviera, un pozzo conico dove si conservava la neve tutto l’anno; c’è un efficiente sistema di raccolta delle acque piovane con cisterne munite di filtri con ghiaia e carbone e di condutture per lo scarico delle acque di rifiuto e per le fognature. In un’ala si trovano i bagni per la corte come terme romane.
Lasciato il Palazzo ducale si fa un giro alla scoperta della città; scendendo per via Saffi fra palazzi rinascimentali, oggi sedi delle università, e stradine laterali di aspetto medievale come via S. Agostino, si arriva al bastione nell’estremità sud-ovest della città da cui si ha un bel panorama della campagna urbinate. Seguendo i bastioni verso nord lungo via Matteotti, si raggiunge la zona delle antiche scuderie ducali sopra la piazza Mercatale; attiguo è il Teatro Sanzio del 1800 sopra la rampa elicoidale. Da qui, alzando lo sguardo sulla destra, si ha una visione completa della facciata dei Torricini di Francesco di Giorgio Martini con al centro la loggia rinascimentale a tre ordini. Si prosegue su via Garibaldi dotata di un lungo portico che parte dal teatro Sanzio e finisce a piazza della Repubblica; da qui, deviando per via Barocci, si può visitare l’Oratorio di S. Giuseppe dove si trova una cappella dedicata alla Natività rivestita come una grotta e con in fondo un Presepe con figure in stucco di grandezza naturale. L’opera fu finita nel 1550 da Federico Brandani per incarico del duca Guidobaldo. Vicino è l’Oratorio di S. Giovanni Battista, antico Ospizio, la cui chiesa contiene un ciclo di affreschi dei fratelli Lorenzo e Jacopo Salimbeni eseguito nel 1416 nello stile gotico internazionale o “fiorito” delle corti europee. Nell’abside una Crocifissione di iconografia medievale ma arricchita da una folla di personaggi ed aneddoti di vita comune. Sulle pareti episodi della vita di S. Giovanni Battista e Madonna in trono. A Lorenzo, il maggiore dei fratelli, si devono le scene più importanti di carattere religioso mentre il fratello Jacopo è l’autore delle scene aneddotiche con i personaggi nei costumi del tempo; il soffitto della chiesa è a carena di nave. Ritornati su via Barocci dalle strade laterali si ha una bella vista dall’alto del Palazzo Ducale e del Campanile e della Cupola del Duomo.
Si imbocca poi via Raffaello che sale a colle del Monte e subito sulla destra si trova la casa di Giovanni Santi, padre di Raffaello che era un pittore affermato e vi aveva anche la sua bottega trasformata in museo dal 1862. Raffaello, nato nel 1483, iniziò qui la sua formazione ma nel 1504 partì per Firenze e nel 1508 era già a Roma dove iniziò le Stanze in Vaticano. La casa aveva al piano inferiore i locali della bottega ed un cortiletto con portico dove si preparavano i colori; nel salone di ingresso è esposta un’Annunciazione di Giovanni Santi nello stile di Piero della Francesca e della pittura umbra. Ai piani superiori vi sono copie di opere di Raffaello come la Madonna del Cardellino.
Proseguendo su via Raffaello si raggiunge il punto più alto della città: Piazzale Roma, fuori la cerchia delle mura, con il monumento a Raffaello. Sulla sinistra, chiude la cerchia muraria nel punto più alto la Rocca di Albornoz, che risale alla metà del 1300, con il parco panoramico da cui si ha la vista del centro cittadino.
A circa 2,5 km dal centro cittadino, su una collina, si trova la chiesetta di S. Bernardino del 1472 che viene attribuita a Francesco di Giorgio Martini ma per alcune caratteristiche si è pensato anche al Bramante anche lui di Urbino. Qui sono stati sepolti Federico e Guidobaldo da Montefeltro. La chiesa è tutta in laterizio con cornici dentellate, il portale ha colonne scanalate e capitelli con volute vegetali e zoomorfe, è sormontata da un tiburio cilindrico e da un lanternino. L’interno a navata unica è del 1700, i sarcofagi in marmo nero dei due Montefeltro sono del 1620 e si trovano di fronte sulle due pareti. Sull’altare si trovava una pala di Piero della Francesca rappresentante la Madonna con Bambino e santi e Federico da Montefeltro inginocchiato al lato. La pala, trafugata dai Francesi nel 1811, fu più tardi recuperata e si trova ora nella Pinacoteca di Brera a Milano ed è ormai nota come Pala di Brera.
Vicino alla chiesa è il chiostro e convento di S. Donato, opera pure di Francesco di Giorgio Martini, ed il cimitero monumentale di Urbino.

Il paese e la Rocca di S. Leo su una collina rocciosa dominante la valle della Marecchia vicino al confine con la Romagna, fu dal 1200 possedimento dei Montefeltro ed una delle loro roccaforti. Per la sua posizione il luogo fu fortificato già al tempo dei Romani e qui era il santuario di Giove Feretro da cui venne il nome dei Montefeltro; nel III secolo vi giunse l’evangelizzatore dalmata S. Leone, contemporaneo di S. Marino, che si rifugiò invece sul vicino monte Titano, ed il cristianesimo si diffuse nella regione. Il posto fu conteso da Bizantini, Goti, Franchi e Longobardi, alla fine del primo millennio la rocca fu conquistata da Ottone I di Sassonia. Nel secolo XI vennero i Carpegna e dal nome del luogo derivò il ramo dei Montefeltro. Nel 1479 il duca Federico fece ricostruire la fortezza da Federico di Giorgio Martini per adeguarla alle nuove armi da fuoco e farne un baluardo contro i Malatesta. La rocca ebbe 4 torrioni circolari ed un sistema difensivo che permetteva tiri incrociati contro tutte le direzioni di attacco. Oggi due torri sono sparite perché crollate nel 1600 per il cedimento della roccia di arenaria sul lato a strapiombo. Nel 1502 la rocca fu conquistata con uno stratagemma dal Valentino, poi vi ritornò Guidobaldo da Montefeltro; fu conquistata ancora una volta nel 1516 dai fiorentini dei Medici strappandola ai della Rovere, poi questi la riebbero nel 1527. Dopo che il ducato di Urbino passò allo Stato Pontificio nel 1631, la rocca fu trasformata in carcere, nel 1791 vi fu imprigionato Giuseppe Balsamo, detto Conte di Cagliostro, condannato a vita come eretico e sedizioso; vi morì nel 1795 a 53 anni per un colpo apoplettico, non è stato ritrovato il cadavere e sono sorte numerose leggende. Nel 1800 vi furono imprigionati numerosi carbonari e Felice Orsini, l’attentatore di Napoleone III, prima di essere ghigliottinato. Anche durante il Regno d’Italia fu usata come prigione fino al 1911, poi fu caserma e dal 1960 è museo e pinacoteca; di recente è stata restaurata.
Il paesino di S. Leo, ai piedi della Rocca è la parte più antica ed ha circa 200 abitanti ma con le frazioni a valle il comune ne conta circa 2800. Si entra da una porta aperta sulla cinta muraria. Sopra l’area dei templi romani dedicati a Giove Feretro si trova la cattedrale protoromanica di S. Leone ricostruita su una chiesa del VII secolo nello stile romanico-lombardo; la data di riconsacrazione (1173) è riportata in un’iscrizione. La costruzione è in pietra arenaria, le mura sono scandite da alte lesene, la facciata è senza ingresso con tre piccole bifore. Si entra sul fianco, la pianta è a tre navate a croce latina con pilastri a fascio e colonne, il presbiterio è sopraelevato e con tre absidi, sotto c’è la cripta del Santo ma non si trovano più i suoi resti che furono traslati per portarli in Germania, la tradizione dice che i cavalli si fermarono vicino Ferrara e le spoglie sono ora a S. Leo di Romagna. Separato è l’alto campanile quadrato del 1200, antica torre civica. Vicina alla Cattedrale è la Pieve del IX secolo dedicata all’Assunta anche questa con ingresso laterale e con l’abside sulla piazza principale del paese. L’interno è pure a tre navate divise da pilastri e colonne di riuso del I e II secolo, il ciborio del IX secolo in posizione sopraelevata è dono del signore del luogo, Orso. Sulla piazza del paese danno gli edifici pubblici con una serie di targhe commemorative; tra le altre una ricorda che S. Francesco è passato di qui il 7 maggio 1213 e vi predicò, un’altra ricorda il passaggio di Dante Alighieri durante il suo esilio, una terza la resa del forte ai rivoluzionari il 24 settembre 1860, un’altra le sanzioni all’Italia del 18 novembre 1935. Un piccolo museo di Arte sacra si trova all’interno del palazzo Mediceo. La Rocca sovrasta il paese e si vede da ogni luogo aperto.
Si sale alla Rocca con un piccolo pullman che porta al piazzale davanti alle due torri, la Piccola e la Grande da cui si entra in un primo cortile, piazza d’arme, si sale sul terrazzo delle torri da dove si vede il paese di S. Leo e la campagna. La visita dell’interno inizia dalle prigioni. I locali più in basso erano le celle di punizione costruite nel 1600 e scavate nella roccia viva senza finestre, erano destinati ai prigionieri più ribelli e venivano allagate in modo che l’acqua arrivasse alle ginocchia, l’acqua veniva cambiata una volta al mese ma la mortalità era molto alta e chi vi veniva tenuto per un mese difficilmente sopravviveva. Le celle normali erano al primo piano dove una volta si trovavano gli appartamenti usati dai duchi di Montefeltro che sono stati restaurati recentemente ed arredati con mobili dal 1400 al 1800. Una delle celle era usata dai Montefeltro come camera del tesoro essendo la più sicura e dotata di una botola a trabocchetto. In una stanza c’è il modellino della Rocca costruito nel 1932 nello stato del 1800. La cella occupata da Giuseppe Balsamo dopo i primi 6 mesi è quella detta del “pozzetto” perché il prigioniero vi veniva calato da una botola, c’è una finestrella con tripla inferriata che guarda verso la Cattedrale e la Pieve di S. Leo, ora è stata aperta anche una piccola porta. Al secondo piano c’erano i locali della servitù e poi quelli delle guardie ed altre celle, ora vi sono tenute esposizioni temporanee ed in una stanza c’è una raccolta di armi e fucili del 1800 ed arabi. Da un terrazzo si guarda verso est con la vista del monte Titano.

Ritornando verso Roma sulla via Aurelia antica si passa per la gola del Furlo dove scorre il Candigliano e la strada passa sotto una galleria di origine etrusco-romana; la nuova Aurelia passa invece un po’ più a nord tutta in galleria. Qui un piccolo bar, luogo di sosta e ristoro, è ancora famoso per essere stato frequentato da Mussolini e la Petacci.

Anche la cittadina di Cagli più a sud, sulla Flaminia nella valle del Burano, ha fatto parte dei possedimenti dei Montefeltro che la fecero fortificare da Francesco di Giorgio Martini. La fortezza fu poi distrutta perché non cadesse nelle mani del Valentino ed è rimasto solo un torrione ellittico una volta collegato al resto della fortezza da una galleria sotterranea. Nella piazza principale il municipio ha origini nel 1200. Anche del 1200 è la chiesa di S. Domenico con facciata a capanna e portale rinascimentale in pietra; all’interno c’è la cappella Tiranni con una Pietà dipinta da Giovanni Santi (padre di Raffaello). Nella cripta vi sono dipinti manieristi della scuola di Cagli ora in restauro. Cagli e nota per la festa del palio dell’Oca che si tiene nella seconda metà di agosto.


Fonte: http://www.travelphotoblog.org/ArchivioPersonale/ITALTOUR.doc
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