Appunti su vecchie e nuove dipendenze

Appunti su vecchie e nuove dipendenze

 

 

 

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Appunti su vecchie e nuove dipendenze

APPUNTI SU VECCHIE E NUOVE DIPENDENZE

  • INTRODUZIONE

Il mio interesse per le dipendenze da sostanze, nasce nel lontano 1985 quando iniziai ad avere i primi contatti con le comunità terapeutiche. A quel tempo ne esistevano già molte, nate alla fine degli anni settanta, prime fra tutte quelle di Don Picchi a Roma e Don Ciotti a Torino, mentre si andava diffondendo con grande rapidità l’uso delle droghe.
La comunità che conoscevo e  frequentavo era quella del Centro di Solidarietà di Firenze, nato sulla scia degli insegnamenti di Joe Luciano al Centro di Solidarietà di Roma. In quegli anni la tossicodipendenza, nonostante la sua rapida diffusione, era qualcosa di abbastanza nuovo, tanto che non si era sicuri se fosse un disturbo del comportamento, una malattia, un vizio. Anche la legislazione rifletteva queste incertezze tanto da punire il tossicodipendente nel 1954 e curarlo come un malato nel 1975.
Per quanto riguarda la terapia, il Sistema Sanitario Nazionale aveva preferito l’approccio prevalentemente farmacologico, mentre le Comunità Terapeutiche privilegiavano quello rieducativo. Così come ogni Unità Sanitaria Locale si dotò di un Servizio per le Tossicodipendenze, un po’ dappertutto in Italia nacquero diversi tipi di Comunità Terapeutiche. Tra queste quelle che, con il CeIS di Roma, scelsero come programma riabilitativo il Progetto Uomo.
Questo tipo di programma prende spunto dalle Comunità Day Top Village americane, nate nel 1963 a New York, derivate a loro volta dalla prima comunità per tossicodipendenti, Synanon, nata a Santa Monica in California. Charles Dederich, il suo fondatore, proveniva dagli Alcolisti Anonimi ove era stato adottato un metodo fondato sull’auto-aiuto e il mutuo aiuto. I gruppi nella sua casa avevano un forte coinvolgimento emotivo ed erano molto democratici in quanto i ruoli erano sospesi, terapista e paziente erano sullo stesso livello, e ogni partecipante sedeva sulla “hot seat” per essere confrontato dagli altri.
In quegli stessi anni, nel ’64, Fritz Perls si stabiliva ad Esalen, al sud di San Francisco, dove organizzava sessioni di Gestalt. La sua foto comparve su Life e fu subito gloria. Perls ogni fine settimana conduceva seminari affollati di pubblico, dove le persone, a turno, si sedevano sulla “hot seat ” e parlavano con genitori, amanti, parti di sé.
Non sono riuscita a trovare qualcosa che indichi un collegamento tra Synanon ed Esalen, se non la breve distanza che separava Clarles Dederich, Esalen e Fritz Perls, ma la “hot seat” mi sembra un buon legame. E nei miei ricordi della comunità, sono molto vivi quelli relativi ai “gruppi dinamici”, nei quali ognuno, operatori e residenti, si “portavano i sentimenti” urlando. Erano gruppi molto intensi ed è lì che ho sentito per la prima volta nominare la parola Gestalt come tipo di approccio che seguivamo nel nostro lavoro di operatori.
Da qui, in questi lunghi 20 anni di lavoro e studio, ho sempre avuto a che fare con la tossicodipendenza e la Gestalt, oltre a sviluppare un interesse per le Nuove Dipendenze. L’entrata nella Scuola di Specializzazione mi ha permesso, una volta per tutte, di “mettere il naso dentro” la Gestalt e di guardare più da vicino il suo legame con la dipendenza. Dato che non ho trovato tanta bibliografia, soprattutto sul legame tra tossicodipendenza e Gestalt, ho deciso di provare a scrivere qualcosa, vista la mia esperienza di lavoro in comunità, al Ser.T. e nel Progetto Giovani e Benessere, che attualmente coordino, nel quale utilizzo prevalentemente l’approccio della Psicoterapia della Gestalt.
Ma perché mai la Psicoterapia Gestalt dovrebbe rappresentare un buon approccio alla cura delle dipendenze, vecchie e nuove? Quello che segue tenta di essere una risposta a questa domanda.

 

2.  LE NUOVE DIPENDENZE

2.1. Generalità

Nella vita di ogni persona esiste la dipendenza; saper dipendere in maniera sana dagli altri e appoggiarsi senza perdere la propria individualità, è una conquista molto importante. In definitiva, a seconda delle varie fasi dello sviluppo, dipendenza e indipendenza sono due aspetti, non in contrapposizione, del nostro rapportarsi all’altro e, per questo, occorre saperli dosare in maniera tale che portino arricchimento alla nostra esistenza. Fin dall’inizio della nostra esistenza, la vita è connotata dalla dipendenza da persone, relazioni, oggetti, comportamenti, tutti mezzi per soddisfare bisogni, desideri e raggiungere obiettivi, ognuno dei quali non è connotato negativamente. Il problema sorge quando uno qualsiasi di questi comportamenti, di queste dipendenze “sane” inizia ad invalidare la persona, la sua vita, le sue relazioni: un affetto può divenire assoluto e simbiotico, staccarsi da un oggetto come il computer o il cellulare diventa impossibile, come smettere di lavorare o fare shopping. In questo senso è importante determinare la forza della dipendenza (quanto è presente nella vita di una persona; ad esempio, nel neonato la dipendenza è massima ma non è problematica), la sua direzione (se passiva o attiva a seconda di chi assoggetta, esercita controllo oppure lo subisce), il suo grado di piacevolezza (segno positivo o negativo dei vissuti affettivi connessi alla relazione; ad esempio, soffrire per la fine di un rapporto non necessariamente indica dipendenza).
Quando si parla di dipendenza il pensiero corre immediatamente a quella da sostanze ma vi sono comportamenti considerati normali che, se esasperati ed enfatizzati, possono divenire problematici.
In tempi recenti è cresciuta l’attenzione sulle forme di dipendenza non da sostanze, delle quali alcune, come il sesso, l’acquisto compulsivo e la dipendenza da lavoro, erano presenti anche in passato e sono soltanto aumentate nel tempo, mentre altre sono esplose via via che aumentavano esponenzialmente le opportunità offerte dalla tecnologia della comunicazione. Le N.D. riguardano qualsiasi persona ma sono maggiormente pericolose per gli adolescenti, proprio per la vulnerabilità data dal loro processo di crescita in atto, connotato da importanti trasformazioni nell’ambito dell’immagine di sé, del rapporto con i familiari e con il gruppo dei pari, della maturazione sessuale e dell’identità di genere. La radicalità e l’irreversibilità di tali cambiamenti porta l’adolescente a bruschi passaggi, all’acquisizione di senso critico, quindi alla messa in discussione di ciò che era assoluto, come le regole e le idee dei genitori, e a vari comportamenti, generalmente non compresi dal mondo degli adulti. Tutto ciò è influenzato dal genere, dall’educazione ricevuta, dalla struttura familiare e dalla cultura di appartenenza. In questo periodo si assiste ad una spinta verso l’autonomia e l’indipendenza dalla quale derivano legami fortissimi con il gruppo dei pari, disillusione e deidealizzazione dei genitori, dai quali si pretende senza negoziare. In un periodo di così alta vulnerabilità, l’adolescente tenta di ristabilire qualcosa che sente di avere perduto: l’illusione dell’infanzia, la sua onnipotenza. Occorre un aiuto nella separazione e nella costruzione della personalità, con sostegno all’autodeterminazione e allo sviluppo dell’autonomia e dell’identità, proprio perché questo è un periodo in cui esiste più rischio per una possibile dipendenza. Alcuni esempi di come un comportamento considerato normale può assumere le caratteristiche di una dipendenza:

  • rapporto con il gruppo dei pari, che è molto utile per il passaggio dalla famiglia alla società, nel processo verso l’autonomia à impossibilità a separarsi, quindi uso eccessivo del cellulare, di Internet, dei legami affettivi, sia di amicizia che di coppia;
  • apertura al mondo, creazione di nuovi legami, anche questi utili nel processo di autonomia à uso eccessivo di Internet come modo per contattare tantissime persone in un attimo, senza esporsi, senza fatica, avere scambi sessuali virtuali che sostituiscono quelli reali, crearsi una nuova identità attraverso giochi virtuali senza trovare il modo di vivere autenticamente la propria vita reale;
  • gioco, utile per sperimentarsi, divertirsi, socializzare à uso eccessivo di giochi virtuali e videogiochi

Il pericolo della dipendenza di questo tipo non tocca solo i giovani, infatti l’uso compulsivo del cellulare, la dipendenza da Internet (chat e cybersesso, borsa e acquisti online), da troppo lavoro, da shopping, dal gioco d’azzardo sono molto e sempre più comuni anche tra gli adulti. La compulsione è uno degli elementi fondamentali delle nuove dipendenze. Il DSM fornisce i criteri per distinguere il comportamento normale da quello compulsivo:

  • il tempo dedicato all’attività o al pensiero, per organizzare la stessa, aumenta progressivamente;
  • per mantenere lo stesso livello di soddisfazione occorre che la persona ci dedichi sempre più tempo;
  • se la persona cerca di ridurre il tempo dedicato all’attività che genera dipendenza, non ci riesce e avverte che questo tentativo è superiore alle sue forze;
  • quando la persona cerca di ridurre il tempo dedicato all’attività che genera dipendenza, diventa irritabile, ansiosa o depressa;
  • l’attività diventa un modo proprio per “curare” il cattivo umore svolgendo un’azione psicoterapeutica vera e propria;
  • particolarmente importante per distinguere questo comportamento da addiction rispetto ad attività di svago innocue è che questo eccessivo impegno produce effetti dannosi sui rapporti familiari, sociali, professionali e amicali. Spesso rendendosene conto la persona inizia a mentire, complicandosi ancora di più la vita.   

2.2. Orientarsi tra le nuove dipendenze

2.2.1 Dipendenza affettiva (Love Addiction) o relazionale e Co-dipendenza

  • Dipendenza affettiva: si tratta di una dipendenza nella quale si ha un amore parassitario, ossessivo che crea una relazione stagnante nella quale non c’è possibilità di cambiamento ed è presente una ricerca continua di sicurezza nel comportamento e nelle parole del partner. La paura principale della persona che dipende affettivamente, in generale le donne, fragili, non autonome, con scarsa consapevolezza di sé e delle proprie risorse, è la separazione, la solitudine e la distanza. In genere, il bisogno di conferme e di continue rassicurazioni, blocca l’evoluzione della coppia e instaura un circolo vizioso di ricerca ossessiva di conferme, rapporto di sottomissione e continue delusioni. La vicinanza con l’altro è idealizzata e il partner è considerato perfetto; la fine di una relazione coincide con l’inizio di un’altra.
    • Co-dipendenza: condizione caratterizzata da bassa autostima e tendenza ad avere una buona visione di sé solo in relazione all’altro. Si tratta di una relazione disfunzionale nella quale una persona accudisce l’altra che in genere ha problemi con sostanze o alcol; questo tipo di dipendenza si osserva anche negli adolescenti fortemente attratti da partner problematici che tentano di “salvare”.

Nella dipendenza relazionale entrambi i partner sono coinvolti e dipendenti (relazione complementare), nel senso che l’interazione rinforza le loro modalità relazionali; nella co-dipedenza c’è una netta differenza tra i partner, infatti è il co-dipendente che rimane imprigionato nella relazione (relazione asimmetrica).

 

2.2.3 Dipendenze tecnologiche
Si tratta di un’eccessiva interazione uomo-macchina che può essere passiva o attiva; riguarda la TV, il computer, Internet, videogiochi, cellulare, linee telefoniche erotiche. Secondo alcuni studiosi, le dipendenze tecnologiche presentano alcuni aspetti simili a quelli di altre dipendenze, come la dominanza sulle attività di pensiero e sentimenti, alterazioni del tono dell’umore, tolleranza, sintomi di astinenza, conflitto con chi è vicino, ricadute. All’adolescente, sia  Internet, i giochi virtuali, ecc. consentono di crearsi una maschera che rappresenta l’interfaccia tra sé e gli altri; questo potrebbe essere anche positivo in quanto potrebbe aiutarlo nella definizione della propria personalità, a patto che il mondo virtuale non prevarichi quello reale. Vi sono alcune personalità più vulnerabili, come quelle caratterizzate da tratti ossessivi-compulsivi, tendenza al ritiro sociale e all’inibizione nei rapporti interpersonali, sentimenti di vergogna. Internet, in questo senso, facilita il contatto senza esporsi, consente senso di appartenenza e riconoscimento sociale, autorealizzazione. Alcuni dati:

  • (La Barbera, 2005) oltre il 20% dei bambini italiani delle elementari naviga su Internet, il 75% usa il computer con regolarità;
  • (Indagine DOXA Junior 2002) 2579 ragazzi tra 5 e 13 anni: il 23% ha il cellulare personale; il 30% dei genitori lamenta un uso eccessivo del cellulare, nel 44% dei casi, nella camera c’è computer, playstation, videoregistratori;
  • (Favaretto, 2004) ricerca su 1075 studenti la larga maggioranza ha dichiarato di navigare almeno 5 ore la settimana.

Esistono vari tipi di dipendenza da macchine:

  • Cellulare: il cellulare ha determinato nuovi stili comunicativi (sms, mms, videochiamate), può essere usato dovunque, in ogni momento, quindi annulla la separazione. Può svilupparsi feticismo, intenso investimento affettivo e piacere del possesso per arrivare a non poterne fare a meno e sviluppare disturbi relativi alla dipendenza (sempre più tempo passato a inviare messaggi, fare e ricevere chiamate, non riuscendo a stare nel presente, in quello che si sta facendo o con le persone che si stanno vedendo).
  • Internet (IAD: Internet Addiction Desorder, termine coniato dallo psichiatra americano Ivan Goldberg): ormai da diversi anni sta emergendo come l'inadeguato utilizzo della rete possa indurre una situazione di dipendenza psicologica con conseguenti danni psichici e funzionali per la persona. L’I.A.D. si manifesta sotto forma di sintomi astinenziali e di tolleranza.

Questi sono i principali sintomi che caratterizzano l’Internet Addiction Desorder:

  • bisogno di trascorrere un tempo sempre maggiore in rete per  
  • ottenere soddisfazione;
  • marcata riduzione di interesse per altre attività che non siano Internet;
  • sviluppo, dopo la sospensione o diminuzione dell'uso della rete, di agitazione psicomotoria, ansia, depressione, pensieri ossessivi su “cosa accade on-line”, classici sintomi astinenziali;
  • necessità di accedere alla rete sempre più frequentemente o per periodi più prolungati rispetto all'intenzione iniziale;
  • dispendio di grande quantità di tempo in attività correlate alla rete e impossibilità di interrompere o tenere sotto controllo l'uso di Internet;.
  • continuare a utilizzare Internet nonostante la consapevolezza di problemi fisici, sociali, lavorativi o psicologici recati dalla rete.
  • la persona tende a sostituire il mondo reale con un oggetto in una sorta di "feticismo tecnologico", con il quale riesce a costruire un proprio mondo personale e in questo caso virtuale. Il tempo passato in rete è sempre di più, il bisogno di rimanere attaccati al computer, di non spengerlo mai, di stare male se non c’è la connessione è tale, che assomiglia a quei fenomeni tipici della dipendenza che sono la tolleranza, l’astinenza e il craving. Attraverso Internet, in definitiva, è possibile fuggire dalla vita reale, provare un senso di onnipotenza, connesso con il superamento di ogni limite personale e spazio temporale. Molte volte le persone che utilizzano le rete, oltre a non rendersi conto del tempo passato davanti allo schermo, tendono ad alterarsi con chi li disturba.

      In rete si possono svolgere varie attività che possono divenire dipendenze:

    • Net Compulsions: (competizione, rischio e raggiungimento eccitazione immediata) gioco d’azzardo, partecipazione ad aste online, commercio in rete.
    • Information Overload: (sovraccarico cognitivo): il bisogno di reperire una quantità smisurata di informazioni, scaricando continuamente materiale da vari siti.
    • Computer Addiction: si riferisce alla dipendenza da giochi virtuali interattivi (MUD), dove i giocatori nascondono la loro vera identità.
    • Videogiochi: possono rappresentare un modo per scappare dalla realtà utilizzando il mezzo elettronico per viverne un’altra, percepita come meno faticosa e più gratificante. Nei videogiochi si può sviluppare una dipendenza sia per la grande quantità di tempo dedicata al gioco vero e proprio, sia per lo spazio psicologico che il videogioco occupa al di là del tempo speso utilizzandolo. L’adolescente è particolarmente esposto al rischio di un uso nocivo dei dispositivi elettronici, in particolare quando il suo contesto relazionale è carente e la comunicazione in famiglia è scarsa. I possibili danni sono: tendenza all’introversione, evasione dalla realtà, isolamento, identificazione con protagonisti, scarso rendimento scolastico, attivazione di comportamenti violenti. Sul piano fisico l’utilizzo prolungato e ripetuto dei dispositivi elettronici porta a disturbi correlati con le posture scorrette che i giocatori assumono, con l’assenza di movimento, con i gesti stereotipati  ripetuti sui comandi di gioco, con l’osservazione prolungata dei display. I sintomi fisici più correntemente riscontrati sono l’affaticamento della vista, le allucinazioni visive, le tendiniti, il dolore alle articolazioni e al collo e non stupisce che vi sia una relazione tra la tendenza all’obesità e l’utilizzo eccessivo dei videogiochi, che costringono i ragazzi a rimanere ore intere seduti o sdraiati.

2.2.4 Disturbi Alimentari (anoressia, bulimia e non altrimenti specificati)
Importanti alterazioni nel rapporto con il cibo e con il corpo. Esiste un maggior rischio per le ragazze, che aumenta dagli 11 ai 15 anni; il rischio di bulimia nervosa è maggiore di quello dell’anoressia nervosa. I soggetti in questione possono presentare comorbilità con altre dipendenze, tratti depressivi come un tono basso dell’umore, ritiro sociale, insonnia, diminuito interesse sessuale, tratti ossessivo-compulsivi, polarizzazione ideativa sul cibo, disagio nel mangiare in pubblico, bisogno di tenere sotto controllo l’ambiente circostante, ridotta spontaneità nei rapporti interpersonali. Il ragionamento, in genere, è del “tutto o nulla” e il comportamento alimentare, nato dall’incapacità a controllare l’impulso (sia l’abbuffata sia l’eliminazione che l’eccessivo sforzo fisico dopo l’assunzione di cibo cattivo) è messo in atto per fronteggiare ansia e stress (ad esempio di fronte alla possibilità della nascita di una relazione intima), compromette aree significative della vita della persona (tendenza a non uscire, scarso rendimento scolastico e lavorativo), comporta vergogna ed una difesa attraverso bugie e mantenimento del segreto.

  • Anoressia nervosa: il rifiuto di mantenere il peso corporeo al di sopra del peso minimo normale, il timore di acquistare peso, accompagnato da dispercezione corporea. Condotte di eliminazione del cibo attraverso vomito e assunzione di lassativi e diuretici, intensa attività fisica per perdere peso. Amenorrea.
  • Bulimia nervosa: è contraddistinta da ricorrenti episodi di abbuffate seguite da sistemi per controllare il peso, cioè condotte di eliminazione del cibo attraverso vomito e assunzione di lassativi e diuretici, intensa attività fisica per perdere peso, oppure solo attività fisica o digiuno.
  •  Disturbi dell’alimentazione non altrimenti specificati: Binge Eating Desorder, sindrome mastica e sputa, pancia gonfia.

2.2.5 Gioco d’azzardo patologico (GAP)
Descritto da Kraepelin nel 1883, è stato riconosciuto come categoria diagnostica dal DSM-III nel 1987 in quanto comportamento appartenente alla categoria dei disturbi del controllo degli impulsi. Tre tipologie: giocatori non problematici, problematici, compulsivi
Il giocatore non gioca per vincere ma per il piacere del gioco; il gioco patologico può compromettere la vita del giocatore a causa del deterioramento dei rapporti affettivi, familiari e lavorativi.
Slot machine e videopoker sono macchine da divertimento che possono condurre a situazioni di abuso e condotte di dipendenza, soprattutto gli adolescenti. Alcuni dati:

  •   (Del Miglio, 2005) 24-40% degli adolescenti gioca d’azzardo (3,5% giocatori patologici, 10% a rischio);
  •  (Stinchfield, 2002) negli adolescenti, i maschi e i più grandi giocano di più delle femmine e dei piccoli;
  •  (Baiocco, 2005) ricerca su 300 adolescenti: 67% dei ragazzi gioca d’azzardo anche se in modo non problematico, 8,4% è a rischio, il 2,3% è patologico; intorno ai 13 anni si evidenziano comportamenti problematici, verso i 17 sindromi da dipendenza.

Caratteristiche del giocatore possono essere l’esibizione di comportamenti aggressivi, tendenza agli atti delinquenziali, isolamento sociale, basso livello di autostima, ricerca di sensazioni forti (sensation seeker: ricerca del rischio per avere sensazioni nuove e sconfiggere la noia, impulsività).

2.2.6 Shopping compulsivo
S’intende il bisogno compulsivo di comprare oggetti, anche di poco valore o inutile, pur di scaricare una tensione impossibile da sopportare. Comprare dà un senso di “riempimento” che dura molto poco, quindi ritorna quasi subito il senso di vuoto, accompagnato da sensi di colpa e perdita della propria capacità di controllo. Da diversi studi emerge che la persona in questione è spesso depressa, ansiosa, con scarsa autostima, senso di colpa, incapacità a reggere la frustrazione. L’adolescente trova nell’acquisto una gratificazione personale ed un sollievo immediato, oltre ad un miglioramento della percezione di sé e del mondo. L’acquisto è un rimedio alla noia e alla tristezza ed è utilissimo nell’acquisizione di uno status sociale di supporto ad un’identità personale ancora incerta e conflittuale. Segnali caratteriali che possono identificare colui che soffre di “shopping compulsivo” (peculiare delle femmine) e “dipendenza da acquisti” (peculiare dei maschi) sono l’impulsività e la compulsione.  Il denaro, la paghetta, che potrebbe essere un strumento positivo per promuovere l’indipendenza, rischia di divenire qualcosa che è molto negativo

2.2.7 Dipendenza da esercizio fisico
Propensione compulsiva a intraprendere attività fisica nonostante che danni fisici o malattie o altro, suggeriscano di non praticarla. Come in altre dipendenze si manifestano sintomi come la tolleranza, l’astinenza, la perdita di controllo, il conflitto con altre attività e la grande quantità di tempo spesa nell’attività fisica. Si tratta di una dipendenza ancora da osservare, anche perché potrebbe essere di tipo secondario, cioè congiunto ad un disturbo alimentare, quindi al controllo del corpo.
Per l’adolescente il cambiamento puberale ha una grossa importanza ed effetti sull’immagine corporea, quindi sulla distanza tra un’immagine attuale ed una ideale.
Sono più a rischio di condotte errate di alimentazione e esercizio:

  • le ragazze (maggiore insoddisfazione verso il proprio corpo)
  • i ragazzi con sviluppo ritardato (si impegnano per raggiungere l’immagine idealeà uso anabolizzanti )
  • le ragazze con sviluppo precoce (il corpo è meno conforme all’ideale socio-culturale à maggiori stati depressivi)


2.2.8 Lavoro eccessivo
La definizione della dipendenza dal lavoro fu introdotta negli anni ‘70 negli Stati Uniti. Attualmente è considerato un sintomo dello spettro ossessivo-compulsivo caratterizzato dall’ossessione per la perfezione, l’ordine e il controllo, a scapito della flessibilità, dell’apertura e dell’efficienza. I criteri in base ai quali si può parlare di dipendenza sono i seguenti:

  • il lavoro diventa il cardine attorno al quale ruota tutta la vita di un individuo che finisce con il considerare il medesimo come prioritario rispetto alla sua salute e alla sua famiglia. Si crea così un circolo vizioso cui consegue un aumento ulteriore dello stress.
  •  Il dipendente sente il bisogno impellente di lavorare perdendo di vista gli hobby o altri interessi arrivando a volte a mentire sul modo in cui passa la giornata. Non sono rari episodi di persone che avendo passato 15 ore al lavoro dicono di essere stati in altri posti, ad esempio in palestra, per coprire questo loro comportamento.
  •  Il dipendente è un perfezionista alla stregua dell’anoressica che si mantiene a dieta nonostante tutti la vedano magra, il workaholic cerca di rendere perfetto il suo lavoro in ogni dettaglio.
  • Il dipendente è caratterizzato da una notevole rigidità comportamentale. Queste persone utilizzano lo stesso pattern comportamentale segnalando una totale assenza di flessibilità e creatività.
  • La dipendenza da lavoro si manifesta a livello fisico perché si instaura una vera e propria dipendenza da adrenalina. Questi valori sempre elevati di adrenalina servono a dare l’illusione di un’energia e una forza infinita.
  •  Il dipendente è spinto al lavorare eccessivamente, avverte una vera e propria compulsione.
  •  Il meccanismo della dipendenza da lavoro si instaura in maniera graduale passando attraverso tre fasi (iniziale: uso, piacere e abuso; critica: abuso, comportamento evasivo, assuefazione; cronica:assuefazione dipendenza)                                                                   

Esiste una differenza tra “dipendenza” e “lavorare sodo”. Si parla di dipendenza quando il luogo di lavoro è confortevole rispetto alla vita ed è utilizzato per porre distanza con sentimenti spiacevoli (es. incapacità ad essere genitore); non esiste confine tra vita personale e professionale; ottenere altri lavori provoca intense esperienze adrenaliniche; è impossibile non lavorare.
Al contrario si ha il lavorare sodo quando il lavoro è necessario ma non è un obbligo; esiste una barriera tra vita personale e professionale; l’esperienza adrenalinica non è vissuta come eccitante; è sentita l’esigenza di non lavorare.

3. GLI ATTORI NELLA DIPENDENZA PATOLOGICA

Prima di affrontare il tema del possibile ruolo della Gestalt nel trattamento delle dipendenze vecchie e nuove sarà opportuno affrontare due temi essenziali per la sua comprensione: l’identikit del dipendente e i trattamenti impiegati per aiutarlo ad uscire dalla dipendenza.

3. 1 Da “brutti, sporchi e cattivi” a “consumatori integrati”

Il disagio giovanile è uno dei problemi all’ordine del giorno della nostra società. Numerose inchieste sociologiche l’analizzano e molti progetti nazionali, regionali e degli Enti Locali, hanno come obiettivo la promozione del benessere dei giovani. In realtà, la società adulta è preoccupata dei comportamenti dei giovani, anche perché si accorge di non conoscerli.
Ammesso che si possa fare un elenco completo dei comportamenti giovanili, dobbiamo chiederci se questi siano una sorta di maschere da attori che indossate una volta non si abbandonano più, oppure se non siano scelte che cambiano continuamente nel tempo. In realtà, ciò che appare del mondo giovanile è una sorta di visione caleidoscopica, senza ruoli fissi, e bisogna, quindi, uscire dall’etichettatura stereotipata e capire che uno stesso giovane può avere comportamenti che variano, anche bruscamente, nel tempo.
Purtroppo, accanto a quelli che camminano con passo spedito sulla “buona strada” ve ne sono altri ancora – e sono forse la maggioranza - che non sanno bene dove andare, né cosa fare e per questo restano indietro, anche perché attorno c’è una società che corre sempre più forte. Questo modo di comportarsi non discende da una scelta di vita, né esprime un’ideologia, è soltanto la conseguenza della totale mancanza di un motivo per fare. Appoggiandosi ad una famiglia che ne garantisce la sopravvivenza, anche con qualche larghezza, si lasciano vivere. Niente li entusiasma, niente li assorbe completamente e, a guardar bene, neppure si divertono più di tanto. Vi sono ragazzi completamente demotivati finché non trovano la spinta giusta per uscire dal punto morto esistenziale e altri che continueranno a vivacchiare.
Ci sono, poi, quelli che vogliono il cambiamento, la metamorfosi ma istantanei, cioè vogliono essere qualcosa di diverso “qui e subito” e per ottenere questo risultato puntano allo “sballo”. Le scorciatoie per lo sballo si acquistano con poche decine di euro e, una volta assunte, compiono la metamorfosi. A questo sballo chi­mico si potrebbero aggiungere i riti ordalici, le sfide tipo rou­lette russa, il vandalismo e via elencando i modi possibili delle metamorfosi immediate, che non esigono progetti e fatica nella loro realizzazione.
Infine, un numero più esiguo di giovani – ma non trascurabile - abbandonano le vie della sicurezza per perdersi negli itinerari impervi della trasgressio­ne, della fuga e della sofferenza acuta.
In questo quadro s’inserisce la sperimentazione prima e il consumo abituale di sostanze poi, che da tempo ha raggiunto cifre preoccupanti, così come si è via via abbassata l’età della prima e del secondo.  Lo affermano a chiare lettere le relazioni annuali della Presidenza del Consiglio dei Ministri al Parlamento e i numerosi studi nazionali e internazionali.
I ragazzi di oggi che usano sostanze come eroina, cocaina, ketamina, extasy, Lsd, anfetamine, ecc., si mimetizzano bene con gli altri, quelli cosiddetti “normali”. Oggi non li vedi in giro a “cercare la roba”, le “piazze” non esistono più, s’intravede solo qualche vecchio tossico ancora fuori dai Ser.T. a pietire qualcosa. Oggi ci sono i ragazzini perbenino, che si trovano per fumare tutti insieme, che sono, a seconda del momento, spacciatore e consumatore, poche dosi, pochi soldi, qualche “storia” ma senza troppo rischio. Addirittura, ci sono quelli che usano cocaina perché “…non sono mica un robboso, io, mica prendo eroina, solo cocaina e ketamina, qualche volta md, poi, che discorsi, le canne, quello è normale!”. Questi piccoli tossici di nuova generazione vivono ancora con “babbo e mamma” e stanno attenti a non farsi scoprire. Se poi succede, si fanno curare, impauriti dal “calo” che non avevano messo nel conto. Questi sono i ragazzi con cui ho a che fare nel Progetto Gulliver, giovani, fragili, che non si sentono “tossici” e, spesso, sono convinti di potercela fare da sé.
Differenti da quelli con cui ho avuto a che fare tanti anni fa: occhi, occhi stanchi, sempre uguali, occhi da animali braccati, a volte furbi, altre tristi, laceranti, vecchi. Occhi che non si dimenticano, ti entrano dentro, sguardi che ti corrono addosso, scivolano via, altro da guardare, mille piccoli frammenti di altro da fare.
Mi scrutavano sospettosi: “…cosa vuole questa qui da me, tanto io non smetterò mai, figurati se faccio una vita normale, come quegli sfigati, casa, lavoro, famiglia, ogni giorno la stessa vita. Io no, io vivo davvero, vivo sensazioni forti, sballo, posso tirare a fare tardi, ballare, stordirmi, musica nelle orecchie, ritmo incessante, corpo che si muove, cervello a duemila!”.
Tante mattine, pomeriggi, giornate, fine settimana passati a parlare, mangiare, stare in gruppo con tossicodipendenti. Le esperienze in comunità, al Centro di Solidarietà di Firenze, dalla fine degli anni ’80 al 2000, e al Ser.T. della ASL 11, dal 2004 al 2007, mi hanno messo in ogni momento della mia vita di fronte a qualcuno che mi guardava sospettoso o si aspettava ricette magiche, idee e metodi per smettere di “farsi”. Ragazzi, ragazze, donne e uomini di tante età, storie tristi, a volte sconvolgenti, frammenti di relazioni che si perdono nei rivoli di una quotidianità sfatta e stanca in un susseguirsi di monotonia e ritualità: buco, ricerca dei soldi, rubare, spacciare, ricerca della roba, buco, ricerca dei soldi, rubare, spacciare, ricerca della roba, buco.
Unica differenza, tra ieri e oggi, il cambio di uso dell’eroina: da bucata a fumata, con la stagnola ed il pippotto, una sorta di cannuccia con cui fumare “chasing the dragon”, inseguendo, rincorrendo il dragone, cioè il fumo che esce dall’eroina bruciata sulla stagnola. “Che sballo, non sento più nulla, gli ostacoli non esistono più, è come se si abbattessero tutte le porte, mi sento forte, non ho più paura, riesco a fare tutto.”.
Queste ed altre sono le parole che più ritornavano nei discorsi dei ragazzi, presi, affascinati, ammaliati dalla Grande Madre, Donna, Amante, Amica, Sposa: Lei, l’eroina, la Signora di tutte le droghe.
Bisogna entrare nel loro cervello, nello schema mentale di un tossico, per capire, sentire, percepire cosa si nasconda dietro quegli occhi spillati, dietro ad un sorriso tirato su denti sciupati, in un viso con la pelle che ha perso ogni luminosità, qualsiasi sia l’età della persona. I gesti lenti, stanchi, rallentati da una dose, oppure l’agitazione, il naso che cola, i brividi, le contrazioni, il giramento di chi è “in calo”, “a rota”, con “la scimmia” sulla schiena. Bisogna starci insieme, conoscerli, entrarci in contatto, amarli, amare la loro scarsa voglia di vivere e il necessario e quotidiano lamento di chi non riesce a vedere via d’uscita se non in una polvere bianca o marrone che sia. “Buona la bianca, la brown di ora è troppo gommosa, spacca le vene, meglio fumata.”. E poi, fumata sembra che faccia meno male, niente siringa, niente buco, niente “fuorivena”, infezioni, flebiti, valvole. Quella era roba da vecchi tossici, seduti su qualche scalino ad aspettare il “tipo”, con tre maglioni d’estate, sudando freddo e sperando solo in una dose, “ …presto, sto male, dammi quello che c’hai.”.
Oggi è tutto diverso, i ricordi di piazza SS. Annunziata e piazza S.Spirito, con i tossici sugli scalini, l’arco di S. Pierino, dove incontravo, andando dal dentista, chi era scappato di comunità, le case minime a Rovezzano, il Ponte di Mezzo, tutto è un po’ sfuocato. Sono tutti luoghi di quei lontani anni, gli anni dell’eroina bucata, delle overdose, della sieropositività, del “viottolo” fatto per andare alle Cappelle del Commiato, perché a quel tempo ne morivano tanti, di overdose, di Aids, di incidenti. Erano gli anni bui della droga, ma erano anche gli anni in cui se ne parlava come di una calamità, di un qualcosa da combattere, lo sanno bene le “madri coraggio” di piazza Tasso!
Oggi è davvero diverso, di droga se ne parla appena, sembra quasi normale fumare una canna, bere fino a vomitare, “…basta non mi tolgano la patente quei bastardi.”, fumare eroina a scuola, usare cocaina al pub, calare pasticche a ballare, “….sennò come l’ascolti quella musica!”.
Oggi i ragazzi che usano sostanze non sono più nemmeno “i drogati”, si mimetizzano bene. Quelli che approdano ai programmi riabilitativi sembrano usciti da scuola, bellini, “ammodino”, con il babbo e la mamma preoccupati che li accompagnano. Sembrano ragazzi normali ma gli occhi no, gli occhi sono gli stessi: diffidenti, da animale braccato, con una nostalgia per quella roba così buona che li spacca dentro. Perché la roba scava, lascia una mancanza, un vuoto. E questo vuoto va riempito, di qualcosa che abbia un buon sapore, che soddisfi, che nutra, che possa far dimenticare quella sensazione meravigliosa di benessere e di oblio che solo la roba dà.

 

 

3.2 Il trattamento del consumo di sostanze

Quando si affronta il recupero dei dipendenti patologici che vivono nel territorio – come è il mio caso - non si possono dimenticare due condizioni derivanti dalla situazione nella quale si opera: la collaborazione con gli operatori del SSN e la mancanza di un valido sistema di contenimento. In questo senso è opportuno riferire, sia pure in breve, i due approcci tradizionali: il trattamento farmacologico e quello comunitario.

 

3.2.1 La somministrazione di farmaci

Abbiamo già detto che la scelta, prima in ordine di tempo, del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) fu il trattamento farmacologico, eventualmente sostenuto da un counseling psicologico. Si tenga presente che il SSN operava su giovani che continuavano a vivere nel territorio, senza quindi alcuna forma di contenimento, né per i maggiorenni, allora preponderanti, era possibile informare le famiglie e chiedere il loro aiuto.
Ricordo brevemente che la tossicodipendenza si caratterizza per la presenza dei seguenti sintomi:

  • dipendenza psicofisica, cioè l’impossibilità di condurre la propria esistenza senza usare la droga;
  • tolleranza, cioè la necessità di aumentare progressivamente la quantità di droga assunta per determinare l’effetto desiderato;
  • sindrome astinenziale, cioè la manifestazione di un quadro clinico specifico con profondo malessere organico e psichico al momento dell’improvvisa cessazione dell’uso di droga
  • craving, cioè l’istaurarsi di un desiderio irresistibile/insopprimibile/inarrestabile per l’assunzione della droga. Il craving è talmente condizionante la quotidianità del tossicodipendente da essere considerato un sintomo psichiatrico specificamente definito. Esso è un pensiero intrusivo che si instaura nella mente determinando mania cioè ossessione rivolta al procurarsi la droga e fobia cioè terrore di non riuscire a procurarsela.

I farmaci utilizzati per contrastare e risolvere la tossicodipendenza sono di tre tipi: farmaci antiastinenziali, farmaci anticraving, detti anche sostituivi; farmaci avversivanti
I primi sono usati per contrastare il dolore nell’astinenza, o gli antidepressivi per contrastare il dolore nell’astinenza da oppiacei, o gli antidepressivi usati per contrastare la depressione da astinenza da cocaina o, infine, il valium per risolvere i tremori e la probabile crisi epilettica da astinenza da alcol.
I farmaci anticraving (metadone e buprenorfina per la dipendenza da oppiacei e l’acido gammaidrossibutirrico per l’alcol) si sostituiscono alle droghe, mimandone l’uso e facendo credere al cervello che la droga sia stata assunta nuovamente. Nelle dipendenze da cocaina, anfetamine, cannabis, non esistono ancora farmaci sostitutivi.
I farmaci avversivanti sono quelli che si posizionano sui recettori della droga, occupando lo spazio al posto della sostanza.: naltrexone per gli oppiacei e disulfiram per l’alcol.
Il trattamento farmacologico ha una sua insostituibile utilità nei primi contatti con il tossicodipendente ed è prezioso nel caso in cui la persona rifiuti altre forme di intervento e continui a vivere nel territorio. Naturalmente perché i farmaci funzionino, occorre il periodico controllo urinario per monitorare l’andamento dell’astinenza.

3.2.2 Il trattamento comunitario               
Mi soffermerò più a lungo su questo tipo di trattamento sia perché è quello che ha più stretti legami con la psicologia e sia perché molti dei suoi strumenti possono essere usati anche con giovani che non dispongono del contenimento della comunità.
Il trattamento comunitario ha alcune caratteristiche generali insite nel concetto stesso di comunità e quindi simili in tutte le strutture di questo tipo:

  • ha le peculiarità di un setting collettivo, in alternativa ad un setting individuale;
  • è intensivo ed ha una durata non breve;
  • fornisce un codice materno (accoglienza ed accettazione) e un codice paterno (norme e organizzazione);
  • offre un ambiente dove le relazioni interpersonali sono vissute in uno stato di coscienza (astinenza dalle sostanze), con costanza e coerenza;
  • mediante la vita comune, offre l’opportunità di creare molteplici relazioni umane e la possibilità di sperimentare nuovi modi di essere e nuovi ruoli spesso alternativi ai precedenti; la vita comune con le sue regole, le sinergie e il clima, diventa strumento terapeutico;
  • attua una strutturazione del tempo (ordine e sequenza degli avvenimenti della giornata, organizzazione delle attività, ritualità), favorendo la creazione di un tempo interiore ordinato;
  • permette un’osservazione costante e allargata da parte di più persone e in situazioni diverse, facilitando anche l’autosservazione.

Entrando nel vivo della descrizione degli strumenti comunitari bisogna ricordare prima di tutto che la tossicodipendenza si manifesta con alcune caratteristiche comuni a tutti i tipi di abuso e che costituiscono altrettante barriere, che da un lato riducono o annullano la motivazione al cambiamento, dall’altro danno adito a tutti i comportamenti tipici del tossicodipendente, il quale:

  • ha bisogno di dipendere da qualcuno e/o qualcosa;
  • ha un atteggiamento distruttivo verso la propria vita, le relazioni e i sentimenti;
  • dietro un'immagine o falso , nasconde, anche a se stesso, la verità della propria persona (sentimenti, pensieri, comportamenti), e stabilisce una relazione distorta con la realtà.

A queste caratteristiche della tossicodipendenza, la comunità risponde con una serie di strumenti suoi propri.

  • a - La struttura, che comprende:
    • norme e regolamenti utili per apprendere l’autocontrollo e sperimentare la protezione;
    • valori che fungono da linee guida per un impegno personale e un corretto modo di vivere;
    • organizzazione delle attività e attribuzione dei compiti per apprendere la responsabilità sociale e l’interdipendenza degli interessi individuali;
    • uso di ruoli partecipanti che permettono ai residenti di contribuire alle attività comuni ed offrono alcune opportunità di apprendimento attraverso l’assunzione di vari ruoli sociali;
    • attività costruttive per sviluppare competenze e abilità sociali, rafforzando l’autostima e una positiva abitudine al lavoro.
  • b - Il setting collettivo (gli Altri e il Gruppo), che non è una semplice convivenza ma un clima che crea caratteristiche d’intervento tipiche delle comunità:
    • metodologia cooperativistica: tutte le attività sono programmate e svolte in contesti di gruppo, anche per favorire l’apprendimento sociale;
    • aiuto reciproco: l’aiuto agli altri come modo efficace per aiutare se stessi;
    • pressione positiva dei pari: la presenza degli altri residenti come fattore di controllo e spinta a resistere e progredire nel programma;
    • confronto: un tipo di feedback sociale mediante il quale si comunica all’altro come i suoi atteggiamenti e comportamenti vengono recepiti e come possono influenzare gli altri.
  • c - Le figure di riferimento, cioè tutti coloro che hanno con i residenti un rapporto stabile e protratto nel tempo: operatori, consulenti, animatori culturali, formatori professionali, volontari, gli stessi residenti. Ogni figura di riferimento offre un modello di atteggiamenti e comportamenti; è un interlocutore attendibile. Queste caratteristiche sono necessarie soprattutto nella figura dell’operatore, che deve fungere da guida e da catalizzatore delle nuove esperienze, perché queste acquisiscano progressivamente ordine e significato.
  • d - Il programma, che è l’insieme degli strumenti terapeutici che ogni comunità adotta e che completano quelli comuni a tutte le comunità terapeutiche.

 

3.2.3 Un esempio di comunità: il Progetto Uomo

Nel caso del Progetto Uomo, il programma adottato dal CSF, la persona è presa in considerazione nelle sue manifestazioni essenziali (relazione con gli altri, col proprio corpo e con la realtà) per correggere le distorsioni indotte dalla dipendenza (incapacità di relazioni autonome, autodistruttività, tendenza al nascondersi), e che si estrinsecano nei vari ambiti di vita.
Il programma riabilitativo, oltre agli strumenti tipici della vita comunitaria già indicati, si avvale di interventi preordinati che servono sia a guidare e determinare il processo di cambiamento, sia a verificare il cammino percorso.
Il primo intervento è quello dell’Inquadramento Diagnostico Iniziale (IDI), consistente nell'esplorazione collegiale della persona mediante una serie di interventi di tipo medico, psichiatrico, psicologico e sociocomportamentale, affidati separatamente a competenze diverse, ma con una successiva integrazione dei risultati e che comprende l’anamnesi, la somministrazione di un test psicometrico (Minnesota Multiphasic Personality Inventory, MMPI-2) e l’osservazione etologica sul campo.
L’attività riabilitativa prosegue attraverso i seguenti tipi d’intervento:
Gruppi
I gruppi, condotti generalmente dagli operatori, sono organizzati secondo il seguente schema:

  • tematici.  di tipo intensivo di un'intera giornata che affrontano argomenti specifici quali l'immagine sociale e i meccanismi di difesa, le relazioni familiari, la sessualità, l'affettività e l'autovalutazione;
  • statici (i componenti del gruppo sono fissi per un lungo periodo): gruppi d'incontro settimanali qui e ora dove si attua la verifica della crescita personale, relativamente alle modifiche dei comportamenti e al rispetto degli impegni presi;
  • dinamici (i componenti variano di volta in volta a seconda delle esigenze della comunità): gruppi di espressione emotiva dove i sentimenti sono esplicitati in maniera chiara e diretta, e servono a conoscere le proprie emozioni e a migliorare così i rapporti reciproci;
  • uscite: gruppi settimanali nei quali si analizzano le difficoltà incontrate nei rapporti con l'esterno;
  • misti: gruppi a cadenza periodica, con la presenza degli utenti e dei loro familiari che si confrontano reciprocamente e verificano i cambiamenti nelle loro relazioni.

 

Colloqui individuali.
I colloqui individuali con gli operatori hanno diversi scopi: a. di supporto per affrontare problemi contingenti degli utenti; b. di preparazione ai gruppi per superare certe difficoltà personali; c. di confronto sulla condotta in comunità.

Interventi degli specialisti

  • Consulenza psichiatrica e psicologica:  secondo le necessità, nel corso del programma sono previsti interventi terapeutici di psichiatri e psicologi per affrontare particolari problematiche relative alla salute mentale.
  • Attività psicomotoria: con incontri almeno settimanali si utilizzano diverse tecniche motorie che hanno come obiettivo: il recupero dell'efficienza fisica; il ripristino o la costruzione di un rapporto positivo con il proprio corpo; la presa di coscienza e l'accettazione dei propri limiti; la capacità di gestire la fatica e la depressione nonché di rilassarsi; partecipazione costruttiva ad un gioco sportivo; trasferimento dei valori della comunità in situazioni dove la forma espressiva non è verbale ma fisica.
  • Recupero scolastico: attualmente è effettuato solo per il diploma di terza media.

3.2.4 Il coinvolgimento dei familiari.
Un punto di forza del programma riabilitativo del CSF è il coinvolgimento diretto della famiglia nel percorso riabilitativo del figlio, non solo per collaborare adeguatamente con gli operatori, specialmente nella fase iniziale, ma anche per sottoporre a revisione la convivenza e talvolta la vita di ogni membro. Tale collaborazione è così importante che, se manca, il programma riabilitativo è molto più faticoso per il ragazzo e più incerto è l'esito globale nel tempo.
E’ noto che l’atteggiamento della famiglia può essere determinante nel motivare un tossicodipendente ad abbandonare la droga. Per questo, ogni giovedì sera si tiene in via dei Pucci un incontro per i familiari di tossicodipendenti, con scopi informativi e orientativi. Nella stessa sede è funzionante tutti i giorni un Centro di ascolto per familiari.
Per i familiari degli utenti degli utenti del programma vi sono poi gruppi di auto-aiuto settimanali, per esaminare problematiche proprie e le relazioni intrafamiliari. Infine, per potersi coinvolgere meglio nel processo riabilitativo del figlio, questi familiari sono seguiti con interventi specifici denominati "Attività Familiare Parallela" che comprende: colloqui di conoscenza dei familiari, individuali o con più nuclei familiari; sostegno a nuclei familiari con difficoltà comuni; stimoli al cambiamento delle relazioni familiari attraverso un processo di autoconsapevolezza, assunzione di responsabilità e maturazione personale. In questa attività è coinvolto anche l’eventuale partner.

 

  • LA PSICOTERAPIA DELLA GESTALT E LA DIPENDENZA

Riprendendo la domanda formulata nell’introduzione “Ma come mai la Psicoterapia Gestalt dovrebbe rappresentare un buon approccio alla cura delle dipendenze, vecchie e nuove?”, posso rispondere che è perché la Psicoterapia della Gestalt è un approccio mirato al miglioramento della qualità della vita, che si basa sul qui e ora, sul passaggio dal sostegno all’autosostegno, sull’aiutare una persona ad andare nella vita sulle sue gambe assumendosi la responsabilità delle proprie scelte. Ed è anche una terapia che si basa sull’autoregolazione organismica, tutte facoltà che il tossicodipendente e il dipendente in generale, hanno dimenticato o non hanno mai conosciuto. Conoscendo molto bene i tossicodipendenti, poi, mi ha sempre colpito la loro grande creatività nel inventarsi modi per trovare soldi, sostanze, scuse per giustificare il loro comportamento. Questo significa, a mio parere, che se la creatività usata a scopo distruttivo può essere incanalata in qualcosa di costruttivo, allora tutti loro possono fare grandi cose e trovare modi creativi e fantasiosi di stare al mondo. Ecco, allora, che si delinea il legame tra Psicoterapia della Gestalt e dipendenza, in special modo nella tossicodipendenza, principalmente per tre aspetti: la creatività, la modalità esperienziale e l’assunzione di responsabilità per elaborare scelte per la propria vita.
Qualche spiegazione: quando parlo di creatività intendo la capacità di inventare qualcosa per mettere d’accordo due cose diverse che non riescono a stare insieme. Utilizzerò le parole di Paolo Quattrini e altri autori (articolo Comunicazione e Creatività di A.A.V.V.), per illustrare questo concetto, in modo da evitare di storpiarle attraverso un loro riassunto:
La creatività è facilitata dal rispetto per la diversità: essendo ricomposizione, ha bisogno di cose diverse da ricomporre.
La diversità, quando non solo è accettata e rispettata ma è amata, è la base per qualunque atto creativo: quando A, tesi, invece di combattere contro B, antitesi, comincia ad interessarsene e finisce per innamorarsi di B, A e B possono comporsi in un qualcosa di nuovo. Non basta che A e B stiano ognuno dalla sua parte, immobili e senza energia, ci vuole una tensione vitale per fare di A e B qualcosa di nuovo…..Per essere creativi è necessario dunque partire da due realtà inconciliabili, cioè che non si possono semplicemente ridurre una all’altra…..Per cominciare sono necessarie due cose diverse: poi si passa da tesi e antitesi alla sintesi. E alla sintesi non ci si arriva obbligatoriamente: tesi e antitesi possono stare, come molte coppie, in un conflitto immobilizzante che in psicopatologia si chiamerebbe sintomo, cioè un collasso in cui le due persone annullano le loro energie…..La vera soluzione è la sintesi. Ma la sintesi è un’invenzione, e ovviamente non ci sono ricette per inventare. L’invenzione arriva da sola, non è programmabile, non si può dire ”domani inventerò”….Se si è solo A e si guarda B dall’alto in basso non succede nulla: si rimane A e si continua a guardare B con un certo disprezzo. E’ solo quando si è disperatamente A e disperatamente B e non si può cedere a nessuna delle due posizioni perché si è tutte e due, che a un certo momento si fa il salto e s’inventa.
E allora c’è posto contemporaneamente per A e per B, c’è una cosa che non c’era prima, una realtà che trascende quelle di partenza. Inventare allora non significa solamente trasformare, ma anche trasformarsi: non si può inventare rimanendo come prima….Si può inventare solo stando dentro alle proprie specifiche esperienze, emozioni, vissuti….Nella comunicazione, vivere la creatività in pratica significa non dire sempre le stesse cose ma prendersi il rischio di dire qualcosa di nuovo. Dire qualcosa di nuovo sembra un gran problema, ma in realtà non lo è: creare qualcosa non implica che quello che viene creato interessi a qualcuno oltre a chi lo crea e all’interlocutore. A chi lo crea però deve interessargli, deve cioè essere piacevole, interessante come esperienza, e allora avere interlocutori significa avere persone con cui si può inventare, dire e fare cose nuove, giocare. Questo è il termine esatto: gioco. La creatività è gioco. Giocare da piccoli è facilissimo: gli adulti invece davanti al gioco fanno sempre delle facce strane...Il fatto è che è difficile giocare sul piano della realtà strutturata:  non ci sono molte cose a cui si possa giocare oltre a competizione e seduzione. Per poter giocare veramente ci sarebbe bisogno invece di farlo con elementi che non siano strutturati, cioè di scendere a livelli prepulsionali. Le cose strutturate sono quelle che hanno un senso ed un fine: per esempio vincere, guadagnare, avere una relazione sentimentale, ecc. Sono cose che hanno senso per chiunque, ma che hanno costi alti: se qualcuno vince per esempio, qualcun altro ha sicuramente perso, e quello che ha perso non si è divertito. Giocare con elementi non strutturati significa invece per esempio scherzare, dire sciocchezze, fare versacci, mettere in scena situazioni. La  difficoltà dipende da un motivo molto semplice: combinando elementi non strutturati non si sa in anticipo se viene fuori qualcosa di accettabile o no, e una delle istanze fondamentali dell’animo umano è il cosiddetto narcisismo, cioè il bisogno di piacere. Piacere e piacersi….D’altra parte la creazione è in sé una cosa straordinaria, è una delle cose che più riempie la fame del cuore. Quando uno crea è come se l’anima si nutrisse; a volte è l’unico nutrimento che l’anima veramente accetta: anche le gratificazioni narcisistiche più forti, la gloria, la fama, in definitiva vanno e vengono, invece il piacere di creare è l’unico che lascia l’anima soddisfatta….La creatività non è qualcosa che qualcuno ha e qualcuno no: la creatività non dipende dalla personalità del soggetto, è piuttosto una situazione, in cui ognuno si può mettere o non mettere. Mettercisi richiede un certo sforzo, perché bisogna mantenere dentro di sé la tensione e sopportarla: non si può essere creativi senza una tensione interna. Se non si regge questa tensione e per trovare pace si sopprime una delle due parti in gioco, viene a cadere la creatività: quello che compare non è più animato dalla tensione tra i due poli, non ha la freschezza e la vivezza di una cosa inventata. Se la creatività è una situazione in cui mettersi, per potercisi mettere bisogna imparare come si fa: oggi si sa abbastanza di psicologia da poter aiutare una persona a diventare creativa, e il lavoro psicoterapeutico consiste fondamentalmente nel passaggio dalla produzione di sintomi a quella di sintesi. Le persone collassano facilmente nel sintomo perché è la via più facile, e l’aiuto psicologico serve a risalire perlomeno verso il compromesso, che è già meglio del sintomo, e su verso la sintesi, che è l’operazione creativa….Hoelderlin, uno dei maggiori poeti tedeschi, sosteneva che la cosa più importante è parlare parole vive piuttosto che parole morte: le parole sono contenitori, come le valigie, e possono essere piene o vuote, vive o morte. Spesso gli esseri umani si scambiano parole vuote, come valigie vuote: uno dà le sue valigie vuote in cambio di altre valigie vuote, e alla fine ritorna a casa portandosi dietro nient’altro che valigie vuote.
La parola è viva quando è costruita col sangue e con la  carne, quando emerge da una tensione interna.
Questo non significa che sia per forza doloroso: noi abbiamo la tendenza a considerare negative tutte le tensioni, ma per esempio la tensione sessuale non è affatto spiacevole, e così anche la tensione creativa non è spiacevole. Solo che facilmente la si può scambiare con l’ansia.
Essere creativi significa imparare a sopportare e a trovare piacevole, affascinante, appassionante questa sensazione, questo stato d’animo musicale di cui parlava Schiller: così la comunicazione diventa un po’ più creativa e la vita un po’ più interessante.
Ecco, la creatività di cui si parla nell’articolo è quella che si utilizza nei colloqui e nei gruppi all’interno del lavoro con i tossicodipendenti e dipendenti in generale. E questa creatività, strumento principe di ogni operatore, è esperita all’interno di ogni esperienza vissuta nel lavoro terapeutico. “Si può inventare solo stando dentro alle proprie specifiche esperienze, emozioni, vissuti”, ecco come si lavora con la Psicoterapia della Gestalt con persone che hanno dipendenze, come con tutte le altre persone, solo che con chi tende a dipendere e a delegare, è ancora più vitale creare e prendere consapevolezza dei propri meccanismi distruttivi per poter poi scegliere diversamente per la propria vita, assumendosene la responsabilità. In più, soprattutto con i tossicodipendenti, è di basilare importanza lavorare nel qui e ora, guardando cosa fare “adesso” del proprio passato, all’interno di un contesto dove vige l’epochè, la sospensione del giudizio e che esprima benevolenza e amore. Come dice Paolo Quattrini “Si ama le persone che, miracolosamente per misteriose ragioni, ci vogliono bene e da questi si impara a trascendere il dolore e la paura che la vita comporta.”.

5. TRA VECCHIE E NUOVE DIPENDENZE…LA GESTALT!

Concludo questo mio lavoro sul possibile ruolo della terapia gestaltica nelle dipendenze patologiche con i due esempi, interamente operativi, relativi ai programmi di trattamento di giovani in situazioni di disagio marcato che vi afferiscono: il Progetto Gulliver e il Progetto Punto Giovani che insieme costituiscono il Progetto Giovani e Benessere.

5. 1 Il Progetto Giovani e Benessere, un esempio di cura e riabilitazione della    tossicodipendenza e di altri tipi di dipendenze attraverso un percorso di Psicoterapia della Gestalt
Il Progetto Giovani e Benessere del Centro di Accoglienza di Empoli, è iniziato nel 2000 come Progetto Gulliver, finanziato dal Fondo Nazionale di Lotta alla droga e, in seguito, dai Piani di Zona del Circondario Empolese Valdelsa. Nel 2003 il Progetto Gulliver ed il Progetto Punto Giovani sono stati riuniti sotto il Progetto Giovani e Benessere, finanziato anch’esso dai Piani di Zona del Circondario Empolese Valdelsa. 
Il Progetto Giovani e Benessere si rivolge a giovani che, per vari motivi, presentano segni di disagio e intendono proiettarsi verso una dimensione di benessere psicofisico. L’aiuto che il progetto può dare ai giovani è rappresentato dall’offerta di due diversi percorsi, il Progetto Punto Giovani e il Progetto Gulliver, che hanno come obiettivo la crescita personale, attuata attraverso proposte di cambiamento di alcuni aspetti del proprio stile di vita.
Non è questo lo spazio per parlare del progetto, ampiamente spiegato nel libro in allegato alla tesi. In questo ambito, m’interessa portare due esempi di come la Psicoterapia della Gestalt possa essere utilizzata per fare esperienza, anche di vita quotidiana, con ragazzi che hanno usato sostanze, in modo da aprire delle finestre su modalità diverse di stare al mondo, da utilizzare, poi, per abitare nel proprio mondo. Il primo esempio è quello del lavoro con i tossicodipendenti, all’interno del Progetto Gulliver, il secondo riguarda, invece, il racconto della mia esperienza con i ragazzi cosiddetti “normali” che hanno vari tipi di dipendenze, principalmente affettiva, da cibo, da fame. Questi sono i ragazzi del Progetto Punto Giovani.
Prima di portare gli esempi, due parole su come lavorare con le persone dipendenti usando la dipendenza, in maniera gestaltica. In questa prospettiva, hanno un senso le parole di J. Keats: “… quella capacità propria dell’uomo quando riesce a permanere nelle incertezze, i misteri, i dubbi, senza lasciarsi andare ad un’ansiosa ricerca di fatti e ragioni.”, rispetto al rischio che un operatore corre in un colloquio, quando vorrebbe avere una risposta pronta ad una domanda già prevista. Un altro pensiero mi ha sempre colpito perché illustra chiaramente l’avventurarsi in quel mare così insidioso e sconosciuto che è il lavoro con i giovani che usano sostanze: “Allora se si deve tentare di non essere né Edipo, né la Sfinge, cosa ci resta se non la saggezza di Ulisse? Di colui che sa bene di dover navigare tenendo conto della forza dei venti e della volontà degli dei e che per raggiungere Itaca e Penelope (in altre parole ritrovare se stesso) deve accettare di sottomettersi ad un lungo viaggio irto di insidie e di pericoli; di colui che conosce per esperienza l’importanza di ogni momento, di ogni evento e affronta come può lo sconosciuto, il nuovo; colui che apprenderà di non poter essere se stesso che accettando di essere sviato, messo in causa, disfatto a più riprese e di poter trionfare solo assumendo queste sconfitte e queste cadute. La saggezza di Ulisse è l’accettazione del temporaneo, dell’effimero, del lavoro che va sempre ricominciato come metaforicamente indica l’immagine del lavoro di Penelope.”,
Tutto ciò, per me, significa che l’operatore, pur basandosi su determinate teorie, lavora con gran creatività, estrosità, talvolta perfino correndo il rischio di non essere compreso perché in qualche modo esce dai canoni consueti. Conseguentemente, non può pensare di utilizzare un setting ed un tipo di modalità relazionale classica, stereotipata, definita “a tavolino” in partenza, ma deve essere sufficientemente flessibile in modo da adattarsi alla persona che ha davanti e alla situazione che deve fronteggiare. Per esempio, con alcune persone ci rendiamo conto che è il caso di cambiare setting, di non stare seduti dietro una scrivania, ma di girare la sedia dall’altra parte perché la persona con la quale parlo non ha bisogno di avere una barriera, un ostacolo fra noi. In altri casi, invece, ci accorgiamo che è proprio una barriera, una maggiore distanza che occorre in quel momento. Talvolta, il setting si può addirittura spostare fuori stanza, andando a fare una passeggiata o a prendere un caffè. Questo può accadere quando un ragazzo è talmente “difficile” che occorre trovare un setting non definito dove l’operatore si muova continuamente tra le figure del genitore, dell’amico, dell’insegnante o di altri adulti di riferimento.
Lavorare con i ragazzi che usano sostanze ricreazionali non è facile; nel mio caso, abituata da venti anni a lavorare con gli eroinomani, mi sono trovata davanti adolescenti, a volte non ancora maggiorenni, portati “per un orecchio” dai genitori, quindi senza voglia e motivazione a cambiare ma, anzi, con tanta rabbia e resistenza. Agganciarli è la sfida maggiore; generalmente il mio sguardo è attento, profondo, ma mai fisso, in modo da non imbarazzare; è il classico sguardo “fluttuante” che osserva, ma lascia anche lo spazio per non sentirsi scrutati come un batterio al microscopio. Cerco di tenere sempre presente chi sono io e chi è l’altro in modo da non far dimenticare il ruolo di ognuno e la distanza terapeutica che esiste; anche se si passa insieme un week-end, l’uno è sempre l’operatore e gli altri gli utenti. La distanza tra noi può accorciarsi secondo le situazioni, ma esiste sempre e va sempre ripristinata appena passato il momento di maggior vicinanza. È chiaro che se sto abbracciando una persona dopo un gruppo, la distanza sarà minore, aldilà del contatto fisico, proprio per il coinvolgimento emotivo; sarà mia cura, però, ristabilirla immediatamente, in modo da mantenere comunque il mio ruolo di adulto e professionista di riferimento. Per certi aspetti è un po’ come dovrebbe comportarsi un genitore “sufficientemente buono”, con quel giusto equilibrio di “sì” e di “no”, di vicinanza e di lontananza, di affetto e di norme. Ed è proprio in questo difficile equilibrio che si struttura, tra l’operatore ed il giovane, il primo legame utile a tutto il lavoro: la dipendenza. In effetti, sembra assurdo combattere la dipendenza con la dipendenza, ma in realtà è proprio così. All’inizio l’importante è creare la dipendenza da un operatore; in seguito questa dipendenza si diffonderà anche agli altri operatori e agli utenti per poi, piano piano, disperdersi sempre di più fino quasi a scomparire; è quello il momento in cui il giovane è pronto per andarsene.
Molto del lavoro riguarda la scoperta dei modi e dei mezzi con i quali i ragazzi provvedono a nutrire o, al contrario, ad impoverire, le proprie forze vitali. Per spiegarmi: al di là delle circostanze esterne più o meno favorevoli, ognuno di noi, con i propri schemi di comportamento e le proprie modalità interattive, può esporsi ad esperienze gratificanti e nutrienti oppure contribuire attivamente ad imprigionarsi nella ripetizione di esiti frustanti. In questo senso, diventare consapevoli del “come-quando-con-chi” ci impoveriamo e del “come-quando-con-chi” troviamo alimento, ci offre la possibilità di ricostruire la nostra esistenza e di ascoltare le forze vitali dentro di noi che ci parlano di vita nella profondità del nostro essere, là dove corre la linea di contatto tra l’universo interno e quello esterno. Purtroppo, molto spesso tali forze fanno più paura del dolore e della sofferenza, quindi tendiamo a nasconderle, sopprimerle, impoverirle; scoprirle può essere minaccioso, come, del resto, tante delle nostre sensazioni interne che sempre di più tendiamo a reprimere e nascondere. Il gruppo rappresenta un contenitore sicuro che permette ai ragazzi di esplorare le sensazioni, i meandri interni, i pensieri più reconditi, le paure, consentendo loro, inoltre, di provare a cambiare gli inadeguati schemi comportamentali in modo da vivere con maggior consapevolezza e serenità. Ciò significa realizzare cosa significhi essere "consapevoli" in relazione al "qui ed ora"; il prestare attenzione a quello che sono e che stanno compiendo e, soprattutto, a ciò che provano in quel momento, permette loro di entrare in risonanza con una dimensione di se stessi alla quale, generalmente, danno poco ascolto ma che è necessaria per un’adeguata integrazione delle proprie parti interne. Durante i gruppi e in qualsiasi momento d’incontro, la nostra attenzione nei confronti di posture, tic, movimenti ripetuti da ogni ragazzo, è costante perché qualsiasi piccolo segnale che la persona manda ci offre la possibilità di dar voce a qualche cosa di nascosto, di non detto, che altrimenti rimarrebbe per sempre latente. In questo senso è importantissimo aiutare i membri del gruppo a contattare direttamente e chiaramente il proprio stato interno, in modo da instaurare un dialogo che possa essere utile nella relazione con loro stessi e con gli altri.
Il gruppo permette di esplorare ed osservare se stessi e gli altri, imparare ed insegnare; aiuta a guardarsi dentro, a non avere paura o, almeno, ad averne meno. Aiuta anche ad avere pietà di se stessi e degli altri, a non giudicare, primi fra tutti, se stessi, attraverso le parole, i pianti, la rabbia, la paura, il dolore, ma anche la gioia, il senso della vita, le lacrime che si asciugano e il sorriso che ritorna! E poi, quando chi alza gli occhi e prova solo paura e vergogna, trova gli sguardi degli altri che, in un abbraccio silenzioso, ma caldo, lo accarezzano e gli dicono che va bene così!
Condurre un gruppo non è facile, ma, proprio per imparare, li abbiamo fatti noi per primi, provando in prima persona tutto ciò che sentono coloro con i quali lavoriamo; è difficile spiegare tutto ciò che si vive per imparare a lavorare bene con gli altri, apprendendo ad usare strumenti che ogni psicologo, educatore, operatore dovrebbe portare con sé nel proprio bagaglio esperienziale: ascolto, accoglienza, sospensione del giudizio, fermezza, capacità di rimanere al di fuori delle parti, di mediare, di lenire la sofferenza e liberare le forze vitali. In poche parole, posare un seme di vita nel cuore degli altri ed aiutarli a farlo crescere. Potrebbe sembrare una visione romantica e poco reale ma devo riconoscere che in tanti anni di lavoro ho visto quei semi crescere, magari prendere strade diverse ma, sempre, donare linfa vitale alle persone e liberarne le energie.
I gruppi di questo genere, così emotivamente coinvolgenti, sono effettuati generalmente nei fine settimana in modo da avere tempo per lavorare con calma, in modo esperienzale, nel senso che per la prima volta una persona può esperire una sensazione nuova, un comportamento diverso e, in un ambiente protetto e accogliente, verificare se sia possibile ripeterlo anche fuori. Quindi non si tratta di andare a toccare parti troppo interne e vulnerabili ma vivere esperienze mai provate per la paura, aiutati dagli operatori e dagli altri ragazzi che sostengono, proteggono, aiutano, incitano, ascoltano, consolano.
Lavorare con questo tipo di utenti significa essere un modello di riferimento e proporre uno stile di vita coerente a quello vissuto da noi stessi. I momenti di quotidianità, dove ognuno di noi è comunque un essere umano, e le occasioni di coinvolgimento nella nostra vita, hanno da sempre offerto l’opportunità di una osservazione sul campo; in questo senso ci è stato permesso di osservare i comportamenti degli utenti in situazioni a valenza terapeutica molto bassa, quindi di poter operare in seguito, nel gruppo, rispetto a certe situazioni di cui, altrimenti, non avremmo avuto conoscenza. Considero, quindi, tali momenti irrinunciabili e in questa prospettiva, considero i rischi opportunità di riflessione e, insieme agli operatori, credo fermamente che valga la pena correrli. Mi piace, come sostegno alla mia tesi citare alcuni passaggi dal libro “La Gestalt – Terapia della consapevolezza” di Riccardo Zerbetto, Xenia tascabili, Milano, 1998:
[…] Ciò significa correre il rischio di sperimentare nuove vie ed eventualmente anche di commettere errori. Ma è per tentativi ed errori che procede l’evoluzione e la crescita. Il resto è immobilismo, fissazione, bisogno nevrotico di rassicurazione attraverso l’adeguamento a norme esterne anche a costo di sacrificare la coscienza di noi stessi […] Il rigore scientifico, la serietà professionale, la significatività dell’intervento curativo non trovano tanto il loro fondamento nello scrupolo del terapeuta nell’affinare l’applicazione della propria tecnica in modo rigido o ripetitivo […], quanto nella reale disponibilità del terapeuta ad entrare nella dimensione che è paura e rabbia, fusione ed isolamento, impotenza e strapotere, nascita ed annientamento, creatività e paralisi, eccitamento e depressione, fantasia suicida ed omicida, integrazione e dissolvimento, in una parola la follia propria e degli altri, quella degli altri che è in noi, quella nostra che ravvisiamo negli altri.

5.2 Esempio n° 1: Il Progetto Gulliver
Per parlare del tipo di lavoro svolto attraverso la Psicoterapia della Gestalt, mi riallaccio alle ultime parole del paragrafo 2.2.1 Da “brutti, sporchi e cattivi” a  “consumatori integrati”, “….E questo vuoto va riempito, di qualcosa che abbia un buon sapore, che soddisfi, che nutra, che possa far dimenticare quella sensazione meravigliosa di benessere e di oblio che solo la roba dà.” Questo è il nostro lavoro, trovare qualcosa di buono, di allettante, per cui valga la pena lasciare una sostanza così magica. Questa è la nostra scommessa.
Per dare un’idea del lavoro svolto nel progetto, vorrei portare due diversi tipi di narrazione che riguardano il periodo residenziale estivo, il primo del 2008 e il secondo del 2009, perché questi rappresentano uno dei momenti più importanti del lavoro, un periodo di nove giorni denso di vita e di emozioni che arricchisce e offre la possibilità di un cambiamento di prospettiva sul proprio modo di stare al mondo.
Lo scorso anno, il 2008, eravamo in una casa in campagna dove, vivendo insieme, abbiamo potuto osservare i ragazzi anche nella vita quotidiana. Tutti i lavori di casa erano fatti insieme, con turni e compiti assegnati ad ognuno, proprio come in una comunità.
Dalla sveglia alle 7.30 alla buonanotte, a mezzanotte circa, ogni momento è stato vissuto intensamente, sia che si lavorasse in gruppo, che si cucinasse o si guardassero le stelle cadenti.
Ogni giorno avevamo in programma un’attività che fosse creativa ed aprisse mente e cuore: “Percussioni e dintorni”, laboratorio musicale con esibizione finale, “Raccontare costruendo”, laboratorio di burattini con spettacolo finale sul lavoro terapeutico effettuato, “Pizza e pasta fatte in casa”, laboratorio di cucina con cene a tema.
Nella mattinata o in giornate intere, a seconda del gruppo, avevamo il momento del lavoro terapeutico che iniziava con una meditazione seguita da una canzone le cui parole avevano riferimenti per il lavoro di quel giorno. La meditazione, il sentire cosa stia accadendo all’interno e all’esterno di noi, facilita la “presenza”, lo stare nel “qui e ora”, permette di poter lavorare su un’emozione, un bisogno, un’immagine che emergono da una parte indistinta, “lo sfondo”, per arrivare in primo piano, “in figura”.
Il lavoro, impostato così, a seconda delle esigenze di quel momento, proseguiva secondo ciò che emergeva dal vissuto di ognuno, utilizzando varie modalità tipiche della terapia della Gestalt, come il dialogo con le persone assenti o con parti di sé, la messa in scena di un fatto del passato o del presente, di un evento che è rimasto aperto e che ancora provoca sofferenza, oppure l’esasperazione di un comportamento che permetta alla persona di “sentire” che cosa le succede quando si mette in una determinata situazione.
Un gruppo molto intenso è stato quello del lavoro sulla famiglia, nel quale, attraverso alcune foto, i ragazzi hanno contattato emozioni sopite, negate, parti di sé lasciate, perdute, rifiutate. E’ stato, come ogni volta che lavoro, una meraviglia osservare i cambiamenti di umore, dell’espressione del viso, delle mani, le lacrime, la rabbia espressa con un pugno a un cuscino o con un urlo bloccato lì chissà da quanto! Ogni volta mi emoziona sentire tutto ciò risuonare dentro di me e sentire che il mio cuore è vicino a quello della persona che ho davanti, un essere umano, spesso molto più giovane di me, considerato uno scarto della società, rassegnato alla sopravvivenza e a vivere ai margini. Mi emoziona vedere la fatica di provare ad uscire fuori da una gabbia, a mettere insieme parti di sé perennemente in conflitto, a sorridere e ridere di cuore, ritrovando il sapore dell’ironia e della spensieratezza di un ragazzo di vent’anni.
Questi nove giorni sono stati vissuti a cavallo di un’onda di sentimenti, prese di coscienza, acquisizione di consapevolezza, in un’alternanza di momenti di gioia, baratri di disperazione, “lacrime, sudore e sangue”, per finire con canti spensierati con la chitarra, improvvisazione con le percussioni, pizza e pasta fatte in casa, uno spettacolo di burattini creati con mestoli di legno, stoffa, lana e tanta fantasia e creatività. E poi serate concluse con la meditazione Kundalini, musica e silenzio davanti ad un tramonto, visto, forse, per la prima volta per tutto ciò che può rappresentare. La musica come filo rosso di tutti i nove giorni: un tema musicale che ritorna, ogni volta con l’aggiunta di un nuovo strumento, una musica struggente che evoca immagini di passi danzanti sulla strada della vita. E poi un altro suono, una musica per meditare, tornare alle origini, alla terra, cogliendo l’energia del sole, la sua luce, la sua forza. E ancora parole di canzoni italiane, scelte per i loro testi che evocano l’importanza di essere persone, di avere cura di sé, di guardare ciò che conta, anche se sono piccole cose, inviti a far circolare l’amore, a non arrendersi, a non rassegnarsi.
Riascoltarle fa venire i brividi, è come rivedere e risentire l’intensità di attimi nei quali sembra che si fermi il tempo, giusto per recuperare un’esperienza, e, con il potere dell’immaginazione, riviverla nel qui e ora, esprimendo le emozioni vissute e assumendosene la responsabilità. Tutto questo, benché sia difficile e possa spaventare, significa darsi la possibilità di chiudere situazioni lasciate aperte da anni, salutare, lasciare andare, perdonare, permettersi di sperimentare nuove modalità comportamentali e relazionali.
Questi giorni hanno visto aprirsi cuori, snebbiarsi menti, per diventare esseri umani con la propria dignità, liberi di andare e venire nella loro intimità, intrecciandola con quella di altri simili, attraverso cose semplici come una colazione insieme, un buongiorno dato con il cuore, un occhio attento all’espressione dell’altro ed ai suoi bisogni.
Sono stati giorni di duro lavoro, chiusi nell’abbraccio protettivo del gruppo, vedendosi “brutti, sporchi e cattivi”, non degni, doloranti, arrabbiati, sconfitti, delusi, impotenti di fronte a se stessi, al limite della rassegnazione. Guardando i ragazzi, la loro difficoltà nell’uscire dal proprio bozzolo che, anche se distruttivo, è comodo, spontaneo e si muove in automatico, mi venivano in mente le parole di Krishnamurti: “Ciò che per il bruco è la fine del mondo, per il resto del mondo è una bella farfalla”. E sì, erano lì, quei piccoli bruchi che si contorcevano e soffrivano pensando di morire di rabbia e dolore, mentre noi tutti vedevamo le loro ali che piano piano si staccavano, uscivano dal bozzolo, con tanta fatica, ma…quanta bellezza!!!! Vedevamo quello che loro ancora non vedono, il loro essere delle meravigliose farfalle che, solo se usciranno completamente dal bozzolo, potranno volare libere e vedere tante parti del mondo, della realtà, da altezze, angolazioni e prospettive diverse! E tutto questo, come dice Paolo Quattrini, può accadere solo in un clima di amore e benevolenza: “Si ama le persone che, miracolosamente, per misteriose ragioni, ci vogliono bene e da questi si impara a trascendere il dolore e la paura che la vita comporta”.
Chi ha assistito all’uscita di una farfalla dal bozzolo sa bene che è un’operazione lunga e faticosa. Così come nella metafora della farfalla e del bozzolo, anche il processo di liberazione da una dipendenza è un cammino lungo e faticoso, ma ci sostiene la certezza che è una strada che si può percorrere e nove giorni sono solo l’inizio.

5.3 Esempio n° 2: Il Progetto Punto Giovani

Quando li guardo, vedo ragazzi di varia età, dai 20 ai 30 anni; rifletto, è cresciuta l’età, è proprio vero, l’adolescenza si è allungata, giovani lo sono fino a oltre 30 anni, la vita sembra sempre più difficile da vivere. Osservo questi ragazzi, alcuni professionalmente capaci, alla soglia di carriere che sembrano promettere bene, con progetti di coppia, genitorialità. Li guardo e vedo i loro occhi perduti dietro a mille problemi, la stima di sé inesistente, paure, rabbie, incomprensioni, corpi non desiderati, rifiutati, abusati da loro stessi. Sono lì, non hanno usato sostanze ma si sono fatti comunque del male e il loro tarlo è lì si vede, si può sentire camminare, scalfire lo smalto narcisistico che salva dalla frustrazione e dal senso di fallimento, allargando quella ferita così difficile da sanare.
E allora si parte, ci mettiamo in cerchio, ci guardiamo, ascoltiamo. Voci dolenti, occhi colmi di lacrime, alcune trattenute, altre versate a fiumi, ininterrotte. Voci rotte dal pianto, smorzate dal dolore, alzate dalla rabbia, rese velluto dalla tenerezza di volersi un po’ di bene. Sì, dal volersi un po’ di bene, perché è questo l’obiettivo, ritrovare un po’ di bene, di tenerezza, di compassione per sé, di benevolenza. E poi, imparare a mettere d’accordo quelle parti che spesso sono in conflitto, in un’eterna lotta tra essere vivi o morti: lottano sempre Eros e Tanatos, l’istinto di vita e l’istinto di morte. Lottano e lasciano lì, sfiancata, la persona, provocandole sintomi, dolori, angosce.
E allora, eccoci qua, con i nostri artifici e trucchi del mestiere, che usiamo per far sì che la persona scopra qualcosa di nuovo, di creativo, che la aiuti a trovare quella sintesi di hegeliana memoria, tra una tesi ed un’antitesi che lottano tra loro.
Molto del nostro lavoro è creativo, simile a quello utilizzato per i ragazzi del Progetto Gulliver; le tecniche sono le stesse, come l’approccio e il modo di stare insieme. C’è sicuramente meno lavoro riguardo alle sostanze ma troviamo le stesse difficoltà che hanno gli altri ragazzi rispetto al ritrovare il gusto delle piccole cose e nel concedersi momenti di serenità e piacere. E poi dobbiamo lavorare con gli aspetti di timidezza e difficoltà nel gestire i rapporti con le altre persone, soprattutto del sesso opposto o in famiglia.
Vista la difficoltà ad entrare in contatto con le proprie emozioni e con i propri sentimenti, anche in questo progetto, come nel Progetto Gulliver, viene proposto un percorso di tipo psicoeducativo, anche se con aspetti più psicologici che educativi. La metodologia utilizzata è la stessa nonostante il numero degli interventi sia minore ed esista più libertà rispetto all’aderire o meno alle diverse iniziative proposte. In definitiva, il Progetto Punto Giovani è uno spazio di lavoro abbastanza aperto dove ogni utente ha la libertà di partecipare assumendosi la responsabilità delle proprie scelte. Il percorso è definito dalla richiesta effettuata e dagli obiettivi da raggiungere.
A tutti gli utenti viene proposto inizialmente un periodo di colloqui che può evolvere nella partecipazione al gruppo settimanale il mercoledì dopocena o in un percorso individuale, molto indicato per persone giovani o che hanno difficoltà ad inserirsi in un gruppo. In questo senso, il percorso individuale può rappresentare un intervento mirato oppure la preparazione all’entrata nel gruppo. Inoltre, possono essere organizzati momenti insieme ai ragazzi del Progetto Gulliver, generalmente lo spazio del Culturale o dei fine settimana a tema.
Negli ultimi anni sono arrivati un discreto numero di adolescenti insieme ai genitori, tanto da far ipotizzare la creazione futura di un gruppo di genitori che lavori sulle tematiche adolescenziali.
Le tematiche adolescenziali, gli adolescenti: capelli lunghi, sugli occhi, tanto da non riuscire a vederli; pance di fuori, pantaloni bassi, piercing, felpe con il cappuccio tirato su, a nascondere quella faccia con i primi accenni di barba o un’acne imperante che deturpa il volto. Questi sono gli adolescenti che arrivano, silenziosi, diffidenti, arrabbiati, con me, con i genitori, con il mondo. Desiderosi di rientrare nell’utero materno per quella fanciullezza perduta e mai dimenticata, trattano male la mamma e a volte anche il babbo in una sorta di delirio di autonomia ed indipendenza. Vogliono crescere, uscire, fare come gli pare, ma hanno una paura fottuta del mondo e non hanno il coraggio di chiedere ancora protezione. Mi guardano “sfavati”, ma che vuole questa, un’altra vecchia, già ci sono i miei che rompono! Non si fidano, sembra strano che un adulto li capisca, comprenda il loro malessere; racconto loro, di tanto in tanto, punteggiando la conversazioni con piccoli ricordi, di quando avevo la loro età, di quanto non sopportassi il mondo degli adulti, soprattutto il mondo dei miei genitori, di come mi sentissi fuori luogo, in un corpo lievitato troppo in fretta, che non riconoscevo, con la paura di non piacere, troppo grassa, brutta, bassa. In un attimo lo sguardo si fa più attento, ma guarda questa, è stata giovane anche lei, però, ganza, mica come mì pà e mì mà! Me le gioco tutte le mie carte, a volte baro, ma il fine giustifica i mezzi, ho bisogno che si fidino di me, che mi permettano di creare quell’alleanza terapeutica senza la quale è inutile andare avanti.
Non sempre è possibile, a volte mi sento sconfitta, non riesco proprio; provo, con mille mezzi, disegno, musica, racconti. A volte va bene, altre no, tocca mollare.
In tutto questo cerco di coinvolgere i genitori, lasciandoli all’operatore che se ne occupa, in modo da fare un lavoro su due binari separati che a volte si incontrano, magari per un confronto che possa aiutare la comunicazione all’interno della famiglia.
I genitori di questi ragazzi sono generalmente piuttosto giovani, sono quelli della mia generazione o di quella appena prima, i 40/50enni che hanno lottato per affrancarsi dalla famiglia ed essere indipendenti. Sono quelli del ’77, strascico del ’68, figli della contestazione e del femminismo, contro tutto e tutti, soprattutto l’autorità.
Ed ecco che questi rivoluzionari, contestatori, quelli che hanno, freudianamente parlando, “ucciso il padre”, figli e figlie di “padri padroni”, tremano di fronte a questi figli, incapaci di dire un “NO”, impauriti dalla possibilità di un rifiuto, resi ansiosi dalle minacce del mondo che li circonda.
E i loro figli, eccoli lì, “fragili e spavaldi”, come direbbe Gustavo Pietropolli Charmet, pieni di presunzione, convinti di dover avere qualsiasi cosa, “tutto dovuto”, immediatamente, senza colpo ferire!
Meno male che ai colloqui sono arrivate anche coppie di giovani con figli piccoli, madri con figli piccoli o adolescenti, con la difficoltà di essere persone ancora molto giovani con tutte le problematiche relative alla crescita, e nello stesso tempo genitori con problemi relativi alle capacità genitoriali. Meno male perché forse riusciamo a lavorare con loro e a far sì che possano imparare a rispettarsi, a sostenere il disagio di vedere due occhi che per un momento provano odio nel sentirsi rifiutare qualcosa, a reagire di fronte ad insulti ed offese, così frequenti negli adolescenti di oggi.
Si, meno male. Forse possiamo fare qualcosa, aiutare genitori e figli a comunicare, a volersi bene, ad esprimere emozioni e non agirle, imparando a sentirle, ascoltarle, in una nuova alfabetizzazione emotiva, così difficile ai tempi di oggi!
Una nuova alfabetizzazione emotiva, un  nuovo modo di stare al mondo, di relazionarsi con gli altri, attraverso l’accettazione della paura, della rabbia, della gioia, del dolore, da parte di entrambi, genitori e figli. Perché anche i genitori hanno paura, come i figli provano rabbia, dolore, gioia, ed è solo su questo livello che tutti possiamo ritrovarci e comprenderci, in un clima di compassione e benevolenza che ci aiuti a tirare fuori le nostre risorse e potenzialità e, nello stesso tempo, ad accettare i nostri limiti.

 

TESTI UTILIZZATI

Baker P., L’uso della metafora, Ed. Astrolabio, Roma, 1987
Biavati M., La relazione che cura - Gestalt Counseling e Art Therapy, Ed.EDB, Bologna, 2006
Callieri B., Di Petta G., Maldonato M., Lineamenti di psicopatologia fenomenologica, Ed. Guida, Napoli, 1999
Couyoumdjian A., Baiocco R., Del miglio C., Adolescenti e nuove dipendenze - Le basi teoriche, i fattori di rischio, la prevenzione, Ed. Laterza, Roma-Bari, 2006
Di Petta G., Il mondo tossicomane, Franco Angeli, Milano, 2004
Ginger S., Terapia del con-tatto emotivo, Ed. Mediterranee, Roma, 2004
Nizzoli U., Pissacroia M., Trattato completo degli abusi e delle dipendenze, Ed. Piccin, Padova, 2004
Perls F., La terapia gestaltica parola per parola, Ed. Astrolabio, Roma, 1980
Perls F., Hefferline R., Goodman P., La terapia della Gestalt. Eccitamento e accrescimento nella personalità umana , Ed. Astrolabio, Roma, 1971
Picchi M., Progetto Uomo – Un programma terapeutico per tossicodipendenti, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo, Milano, 1985
Polster E. Polster M., Terapia della Gestalt integrata - profili di teoria e pratica, Giuffrè Editore, Milano, 1986

Quattrini P., Fenomenologia dell’esperienza, Zephiro Edizioni, Milano, 2006

Zerbetto R., La Gestalt – Terapia della consapevolezza”, Xenia tascabili, Milano, 1998

 

 

Letteralmente “sedia calda” ma in gergo “sedia elettrica” del condannato a morte

Firenze è il luogo dei miei ricordi di quei tossici

A cura della dott.ssa Maura Tedici, Responsabile Ser.T. ASL 11

Nel progetto, infatti, vengono effettuati gruppi residenziali nei fine settimana ed in un periodo di 7/9 giorni durante l’estate. Generalmente questi gruppi si svolgono in case situate in campagna, dove sia possibile trovare un clima di intimità, coesione e apertura alle emozioni.

Libero pensatore indiano, che non volle appartenere a nessuna organizzazione, nazionalità o religione. Krishnamurti nacque in India nel 1895 e morì negli Stati Uniti nel 1986.Tenne discorsi per tutta la vita in molte parti del mondo, parlando sia ad un pubblico numeroso che con singole persone, inclusi scrittori,scienziati, educatori e filosofi.

 

Fonte: http://www.igf-gestalt.it/wp-content/uploads/2012/11/Appunti-sulla-tossicodipendenza-Giulia-Checcucci.doc

Sito web da visitare: http://www.igf-gestalt.it

Autore del testo: G.Checcucci

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