Arte grandi maestri del passato

Arte grandi maestri del passato

 

 

 

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Arte grandi maestri del passato

    GRANDI MAESTRI DELL’ARTE
Andrea del Castagno

 

Nato in un piccolo paese dell'Appennino toscano, giunge a Firenze poco più che ventenne e viene a contatto con i maestri del primo Quattrocento fiorentino, Masaccio, Donatello, Piero della Francesca e Domenico Veneziano, del quale è anche un probabile allievo.
Da queste esperienze trae quell'interesse per la figura umana, per l'anatomia e per la resa volumetrica dello spazio che caratterizzano interamente la sua opera. Dopo un soggiorno a Venezia nel 1442, vive sempre a Firenze realizzando cicli a fresco in chiese e conventi, alcuni dei quali sono perduti. Su di lui ha a lungo pesato la fama di uomo crudele diffusa dal Vasari e definitivamente smentita solo alla fine del secolo scorso. La pittura di Andrea del Castagno, una delle figure più originali del Quattrocento fiorentino, è rimasta pressoché sconosciuta e i suoi affreschi per buona parte coperti da strati di intonaco fino all'Ottocento.
Prima opera a lui attribuita è una Crocefissione e santi, dipinta in Santa Maria Nuova poco dopo il suo arrivo a Firenze. Nel 1442 realizza nella Chiesa di San Zaccaria a Venezia il suo primo ciclo con Dio Padre e i quattro Evangelisti. Rientrato a Firenze fornisce i disegni per la vetrata con la Deposizione in Santa Maria del Fiore e pone mano al suo capolavoro, la decorazione del refettorio del convento di Sant'Apollonia con Crocifissione, Deposizione, Resurrezione e la superba Ultima Cena, piena espressione dello stile individuale di Andrea.
Verso il 1450 realizza nella Villa Carducci di Legnaia la serie di affreschi di Gli uomini illustri, oggi staccata e conservata agli Uffizi. Trascorre gli ultimi anni della sua breve carriera lavorando a tre impegni principali: il ciclo lasciato incompiuto da Domenico Veneziano in Sant'Egidio, purtroppo oggi interamente scomparso; gli affreschi alla Santissima Annunziata, dove è riemersa la sola Trinità con San Girolamo; il celebre monumento equestre di Niccolò da Tolentino, affrescato nella chiesa di Santa Maria del Fiore.

    Giovanni Bellini

 

Nella Venezia della seconda metà del XV secolo, incarna il genio del Rinascimento, ma in modo conforme alle tradizioni e ai gusti dell'ambiente locale. Una lunga carriera e la diversità delle influenze subite spiegano le variazioni del suo stile, che ebbe una lenta maturazione.
Gli inizi e i primi capolavori
G. Bellini apprese il mestiere di pittore nella bottega del padre. Ma non tardò a subire un'influenza che doveva segnarlo profondamente: quella del Mantegna di cui sposò, nel 1453, la sorella Niccolosa.
Attraverso l'arte del cognato, Giovanni conobbe l'ambiente colto e innovatore di Padova, tributario della cultura fiorentina. Del Mantegna adottò la composizione serrata, la prospettiva rigorosa, il disegno preciso e lineare.
Tuttavia, il mondo del Bellini è meno incorruttibile, meno archeologico e meno impassibile di quello del Mantegna. Il suo colore è più profondo, più omogeneo e ha già un ruolo importante nella traduzione del rilievo. C'è più umanità nei sentimenti espressi: tenerezza, gioia o dolore. La natura è rappresentata, fatto del tutto nuovo, con tanta verità quanto amore; spesso le composizioni si stagliano su fondali paesaggistici dove si riconoscono la campagna o le colline di Venezia. Le prime opere, dipinte verso il 1450, sono piccoli pannelli, come la Pietà dell'Accademia Carrara, a Bergamo, che raggruppa, secondo un tema che sarà frequente nel Bellini, le figure a mezzo busto della Vergine, di San Giovanni Evangelista e del Cristo alla tomba. Possono essere datati agli anni successivi la Trasfigurazione, densa e cristallina, della pinacoteca Correr (Venezia) e l'Orazione nell'orto della National Gallery di Londra.
Verso il 1460, si situa l'ammirevole Pietà della pinacoteca di Brera di Milano, dipinta in una gamma di colori smorzati che traduce il sentimento tragico. Bellini comincia a moltiplicare le variazioni su un tema che non smetterà mai di interessarlo: quello della Madonna con il Bambino, per lo più ritratto a mezzo busto, su un fondo a volte neutro, a volte con elementi architettonici o paesaggistici (Madonna dal mantello rosso del Castello Sforzesco, a Milano).
Dopo essersi fatto conoscere con queste opere, Bellini è incaricato, attorno al 1465, di lavori più ambiziosi. Il Polittico di San Vincenzo Ferreri (Venezia, chiesa dei SS. Giovanni e Paolo) è più di ogni altro testimone di una forte personalità. La sua predella porta scene narrative animate: un'illuminazione arditamente contrastata sottolinea la potenza plastica delle figure dei santi del registro principale.
La maturità
Tra il 1470 e il 1475 Bellini dipinge la Pala di Pesaro, che segna una svolta capitale nella sua produzione. L'influenza del Mantegna si affievolisce, mentre si manifesta in modo più accentuato quella di Piero della Francesca. In uno spazio più ampio, le figure acquistano maggiore maestà, e l'aerea atmosfera che ne deriva viene ad attenuare la durezza dei contorni. Il Compianto sul Cristo morto, che formava la parte superiore, si trova nella pinacoteca Vaticana; il museo di Pesaro conserva la predella e il pannello principale, che riunisce le figure dell'Incoronazione della Vergine e quelle di quattro santi su un fondo che associa paesaggio e architettura, magistralmente messo in prospettiva. Gli anni seguenti dovevano dare al Bellini la pienezza dei suoi mezzi. Questo è il periodo dell'equilibrio tra la forma, la cui precisione si lega a un modello più morbido, e i toni che, caldi o freddi, tenui o penetrati di luce, si esaltano gli uni con gli altri. Il clima spirituale è quello di meditazione improntata di gravità. Una poesia profonda emana dal paesaggio, con il quale le figure si integrano in maniera perfetta. La sua importanza è fondamentale in molti pannelli dipinti tra il 1475 e il 1485 circa, come l'Estasi di S. Francesco (collezione Frick, New York) e la luminosa Trasfigurazione della Galleria Nazionale di Napoli: più tardiva è la Sacra allegoria degli Uffizi. Tra il 1480 e il 1490, Bellini dipinge per le chiese veneziane due dei suoi grandi retabli. LaPala di S. Giobbe (Accademia di Venezia) dispone a tre per tre su un solo pannello, in un'architettura simmetrica, sei maestose figure di santi che inquadrano una Vergine col Bambino seduta su un trono, ai piedi del quale giocano tre graziosi angeli musicanti. Bellini fissava così (preceduto da Antonello da Messina, nella Pala di S. Cassiano) un tipo di composizione che lascia ampio spazio al tema veneziano della sacra conversazione e che egli stesso avrebbe ripreso con la Madonna dei Frari, nella chiesa omonima. Nel periodo compreso tra il 1470 e la fine del secolo, sono commissionate al Bellini numerose madonne di piccolo formato, di un sentimentalismo più tenero ancora di quelle dipinte all'inizio della sua carriera (Madonna del prato, National Gallery di Londra). Il tema della sacra conversazione ritorna in diversi quadri. Tra le altre composizioni degli ultimi anni del secolo, di formato piccolo o medio, vanno citate la Circoncisione della National Gallery. Bellini ha anche dimostrato la sua maestria nell'arte del ritratto, con un dono di espressione che lo avvicina ad Antonello.
Gli ultimi anni
Lungi dal consacrarsi alla ripetizione delle formule che gli avevano assicurato il successo, Bellini seppe rinnovare la sua ispirazione e il suo linguaggio, traendo profitto dal contatto con giovani pittori quali Giorgione e Tiziano. Infatti il Battesimo del Cristo della chiesa S. Corona a Vicenza (tra il 1500 e il 1510) lega ancora più strettamente le figure a un paesaggio in cui regna un sentimento elegiaco: il tocco è più sfumato, i toni caldi predominano. LaPala di S. Zaccaria (1505, nell'omonima chiesa veneziana) riprende il tipo di composizione della Pala di S. Giobbe, ma con un modellato più arioso, che utilizza maggiormente le risorse del chiaroscuro. Del 1513 è la Pala di S. Giovanni Crisostomo, dove si avverte l'influenza di Tiziano, come nell'Ebbrezza di Noè del museo di Besançon. Nel 1514 Bellini si accosta al repertorio mitologico con il Festino degli dei (National Gallery di Washington) commissionatogli da Alfonso I d'Este e rimaneggiato da Tiziano. Le stesse influenze si ritrovano nelle madonne di questo periodo come nella Madonna con il Bambino, della pinacoteca di Brera, a Milano. Agli ultimi anni di vita del pittore risalgono alcuni dei più bei ritratti, come il Doge Leonardo Loredan (National Gallery di Londra) e il presunto Pietro Bembo (Hampton Court) di un accentuato romanticismo.
Bellini e la scuola veneziana
Bellini non può essere ritenuto un pittore rivoluzionario, ma la risonanza della sua opera fu enorme. Ai pittori di Venezia, egli insegnò la pienezza della forma, le risorse del colore, il gusto della natura, l'espressione del sentimento. Nella sua bottega, rivale di quella di Alvise Vivarini (1446 ca - dopo il 1503), formò numerosi allievi, alcuni dei quali andarono poi a lavorare sulla terraferma: Andrea Previtali († 1528) a Bergamo, Antonio Solario a Napoli. Nella prima metà del XVI secolo molti pittori avrebbero ancora subito il fascino della sua maniera: Vincenzo Catena (†1554), Francesco Bissolo ( † 1531), Bartolomeo Veneto, Rocco Marconi ( † 1529), e perfino il giovane Tiziano.

     Bernini

 

La fama di Gian Lorenzo Bernini è certamente più legata alla sua attività di scultore, architetto e regista del grandioso spettacolo pirotecnico costituito dal barocco romano, che non a quella di pittore, che si manifesta in poche occasioni, come nel Ritratto di Urbano VIII (Roma, Galleria Barberini), nei tre Autoritratti (uno a Montpellier, Museo Fabre, e due a Roma, Galleria Borghese) e nella Testa di giovane (Firenze, Uffizi).
Tuttavia i suoi rari dipinti incontrano un buon successo e addirittura gli procurano seguaci, tanto da meritargli la commissione di alcune pale d'altare per la basilica di San Pietro, che il Bernini progetterà lasciando la realizzazione al discepolo Carlo Pellegrini.
Testo a cura di: Tribenet - La Tribù italiana

     Boccioni

 

È tra i fondatori e leader incontestabile del futurismo, movimento di cui risulta anche il maggior teorico per quanto riguarda le arti figurative. Viene annoverato tra i grandi distruttori-innovatori che all'inizio del secolo hanno schiuso nuovi orizzonti all'arte moderna generata dalla rivoluzione dell'impressionismo.

Figlio di un impiegato statale (usciere) romagnolo, lo segue, dopo la nascita casuale in Calabria, nel suo vagabondare: Genova, Padova, Catania. Si accosta all'arte da ragazzo, seguendo la passione innata, cominciando a dipingere in maniera abbastanza tradizionale. Alla fine del secolo è a Roma dove stringe grande amicizia con Gino Severini, insieme a cui viene iniziato alla tecnica divisionista da Giacomo Balla. Sarà per sempre povero di quattrini, quanto ricco di talento, come i suoi amici e colleghi salvo rare eccezioni. Ventenne, soggiorna per la prima volta a Parigi con Severini, può seguire da vicino gli sconvolgimenti che tra mille fermenti squassano gli ambienti della cultura intrisi di creatività.
L'Europa sta vivendo il sogno della Belle Époque: niente più guerre; scoperte, invenzioni e progresso apparentemente senza limiti. Per vivere Boccioni insegna disegno a una ragazza russa di cui si innamora in un momento di profonda insoddisfazione. Quando lei torna in patria, la segue in una remota città di provincia della Russia, dalla quale torna portando con sé il colbacco che ha in testa nel famoso Autoritratto del 1908 (Milano, Pinacoteca di Brera).
Nel 1908, Boccioni arriva a Milano e, da allora, l'attenzione ai problemi sociali, ereditata probabilmente da Balla, prende un posto molto importante nella sua opera. Ai ritratti e ai paesaggi, in effetti, si vanno via via sostituendo evocazioni della vita degli umili, dello sviluppo urbano e delle lotte operaie. Alla tecnica divisionista, l'autore aggiunge allora le risorse espressioniste dell'arabesco proveniente dall'Art nouveau e, dal 1909, una punteggiatura colorata molto violenta che, in seguito, si accorderà all'animazione di superfici tagliate secondo linee geometriche.
Il periodo futurista
Boccioni è uno dei primi ad aderire al movimento futurista di Marinetti, all’indomani della pubblicazione del Manifesto. Svolge un ruolo determinante nella redazione dei due manifesti pittorici del 1910 e firma il Manifesto tecnico della scultura futurista. Inoltre, partecipa attivamente alle manifestazioni pubbliche del movimento e probabilmente all'orientamento generale delle imprese futuriste. Il contributo teorico a questo movimento è importante per la comprensione della poetica boccioniana. Boccioni vuole concentrare lo scorrere del tempo nella simultaneità rendendolo eterno. Distrugge, nello stesso momento in cui lo riconosce, il tempo e il suo continuo fluire per mezzo del dinamismo. Il moto, che è tempo, deve essere sintetizzato nella sua continuità ed eternato come tale. Afferma Boccioni: "Quando parliamo di movimento, vogliamo avvicinarci alla sensazione pura, creare cioè la forma nell'intuizione plastica, creare la durata dell'apparizione, vivere l'oggetto nel suo manifestarsi". Un contributo di prim'ordine all'estetica futurista è costituito dagli stati d'animo di cui il pittore fornisce nel 1911 un'ammirevole dimostrazione in un trittico: Gli addii; Quelli che vanno; Quelli che restano (versione definitiva custodita al Museum of Modern Art, New York). Alla fine dello stesso anno, un breve soggiorno a Parigi mette Boccioni al corrente delle conquiste del cubismo che l'aiuteranno a liberarsi dalle costrizioni figurative e a orientarsi verso una rappresentazione schematica, ma energica del dinamismo plastico.
La prima scultura astratta
Le sue ricerche intorno alle tre dimensioni, se sembrano, in un primo tempo, guidate da preoccupazioni pittoriche, lo conducono, poi, ben al di là delle possibilità della pittura nella costruzione di un corpo fatto interamente di movimento (Forme uniche della continuità nello spazio, 1913). In effetti, laddove la pittura non può che sfociare che in una brillante baraonda di forze diversamente colorate (Dinamismo di un corpo umano, 1913), solo la scultura autorizza la percezione chiara di uno spostamento nello spazio, sebbene anche la sua rappresentazione sia irrimediabilmente fissata in statua. Pervaso da un autentico furore creativo, aveva dipinto i capolavori che saranno ammirati nei più rinomati musei internazionali: La città che sale, e Rissa in galleria, 1910; La strada entra nella casa, Studio di donna tra case, La risata, 1911; Elasticità, 1912. Le sue opere sono esposte alle mostre di gruppo e personali anche all'estero dopo la prima così contestata-ammirata del 1910 a Parigi. Irrequieto e tormentato anche sentimentalmente, si lega a varie donne, tra cui Sibilla Aleramo, poetessa e letterata, antesignana del femminismo. A partire dal 1914, Boccioni sembra meno preoccupato dal movimento: numerose sue opere sono improntate a un espressionismo che trarrà sempre più i suoi mezzi al cubismo e a Cézanne. Sebbene, soprattutto attraverso parole in libertà), partecipi sempre all'attività futurista, Boccioni ritorna progressivamente allo spirito delle opere (ritratti, paesaggi) che precedettero la sua adesione a questo movimento. Continua a dipingere ritrovando l'estro dei momenti migliori. Nel 1916 inizia e finisce Ritratto dal maestro Busoni, nel quale i critici rilevano un ritorno a Cézanne): più esattamente, Boccioni torna alle proprie origini per acquistare nuova forza e sicurezza, nuova linfa e poesia. Scrive l'artista nella sua ultima lettera: “Da questa esistenza uscirò con un disprezzo per tutto ciò che non è arte. Non c'è nulla di più terribile dell'arte”..

Muore nel 1916 in seguito a una caduta da cavallo nel corso di un'esercitazione militare.
I dieci quadri per capire la sua opera
Officina di Porta Romana, 1908. È il suo primo quadro sulla vita urbana moderna, tema prediletto. Dipinto poco dopo l'arrivo a Milano, esprime la scoperta di una nuova società.
Rissa in galleria, 1910. Simultaneità e dinamismo in un episodio inquadrato nel “salotto di Milano”.
Bozzetto per la città che sale, 1910. Tenta di conciliare il verismo col simbolismo per descrivere la nuova civiltà industriale.
Visioni simultanee, 1911. Fu tra i suoi dipinti più conosciuti perché esposto nelle mostre futuriste di Parigi, Londra, Berlino, Bruxelles.
La risata, 1911. Esposto subito a Milano, il quadro è “sfregiato” da un visitatore con una lametta. Boccioni, tornato da un soggiorno all'estero, lo ridipinge in parte in stile cubista.
Stati d'animo, 1911. Una trilogia dell'addio, tema particolarmente caro a Boccioni, che accusava la lontananza dalla madre.
Elasticità, 1912. Dipinto dopo una visita alla Pirelli, esalta la scienza, il progresso.
Sviluppo di una bottiglia nello spazio, 1912. La natura morta diventa natura dinamica, viva.
Dinamismo di un corpo umano, 1913. Boccioni tende con quest'opera, nella sua incessante ricerca, all'astrattismo.
Ritratto della signora Cragnolini Fanna, 1916. Un ritorno a Cézanne, al postimpressionismo.

      Botticelli

 

Figlio del conciatore fiorentino Mariano Filipepi, Alessandro, detto Sandro, venne soprannominato Botticelli per ragioni rimaste oscure. Intorno al 1464, entrò nella bottega di Filippo Lippi dove rimase per circa tre anni. Mise a profitto gli insegnamenti del maestro, creatore di forme piene ed eleganti, tuttavia sembra essere stato influenzato maggiormente da due artisti appartenenti alla seconda generazione del Rinascimento fiorentino: Andrea Verrocchio, del quale fu aiutante per un certo periodo, e Pietro Pollaiolo. Il loro stile, nervoso e raffinato, tendeva a valorizzare l'anatomia e il movimento. Anche Agostino di Duccio (1418 dopo il 1481), con le sue sculture ondeggianti, doveva contribuire alla formazione di Botticelli.
Il Pittore alla ricerca del suo stile
A questo primo periodo appartengono diverse Madonne con Bambino, spesso attorniate da angeli di grazia aristocratica; in questi dipinti, l'influenza del Lippi cede a poco a poco il posto a quella del Verrocchio. Tra queste Madonne, possiamo citare quelle dell'Accademia e della Galleria degli Uffizi a Firenze, della pinacoteca di Capodimonte a Napoli, del museo Fesch di Ajaccio, del Louvre, della National Gallery di Londra, della National Gallery di Washington, ecc. Nel 1470, con l'appoggio di Tommaso Soderini, persona di fiducia dei Medici, Botticelli ottiene la sua prima importante commissione ufficiale, la Fortezza, figura allegorica per il Tribunale della Mercanzia di Firenze. Questo pannello, che si trova oggi agli Uffizi, lascia chiaramente intravedere l'influenza del Lippi e di Pietro Pollaiolo, al quale era stato chiesto di dipingere l'intera serie delle sette Virtù. La Madonna con sei Santi (Uffizi) è stata dipinta in quello stesso periodo e si avvicina notevolmente allo stile della Fortezza. Nel 1472, Botticelli s'iscrive all'Accademia di San Luca. Appartengono a quest'epoca i due piccoli pannelli, preziosi e brillanti, del Dittico di Giuditta (Uffizi). Il San Sebastiano del Museo di Berlino, forse proveniente da Santa Maria Maggiore di Firenze, è considerato di poco posteriore; lo studio dell'anatomia ricorda il Pollaiolo, ma l'espressione meditativa introduce una spiritualità ben più profonda. Nel 1474, Botticelli viene chiamato a Pisa per completarvi il ciclo di affreschi del Campo Santo, tuttavia non può eseguire il progetto.
Il mecenatismo dei Medici
Ritornato a Firenze, Botticelli è incaricato della decorazione, in occasione della giostra del 1475 sulla piazza di Santa Croce, dello stendardo di Giuliano de' Medici con una raffigurazione di Pallade: i pittori dell'epoca non disdegnavano questo genere di lavoro. Così che Botticelli entra nella cerchia dei Medici. Un amico dell'illustre famiglia, Giovanni Lami, gli commissiona, sempre in quello stesso periodo, un pannello per la sua cappella in Santa Maria Novella: è l'Adorazione dei Magi (Uffizi), una composizione di grande pienezza, prima importane opera del maestro, ove egli stesso si ritrae in compagnia di alcuni membri della famiglia Medici: Cosimo il Vecchio, Giovanni, Giuliano, Lorenzo. Accanto a questo dipinto si possono citare altri due ritratti individuali di grande bellezza: quello di un uomo che porta una medaglia di Cosimo ilVecchio (Uffizi), e quello di Giuliano de' Medici (National Gallery, Washington). Nel 1478, Botticelli viene incaricato di ritrarre i membri della congiura dei Pazzi, ma quest'opera non fu mai eseguita. In quel periodo, l'artista dipinge inoltre la Madonna con otto Angeli (museo di Berlino), un tondo proveniente probabilmente da San Salvatore al Monte, e quello che viene definito il suo capolavoro, la Primavera, commissionato nel 1477 da due fratelli della famiglia de' Medici, Lorenzo e Giovanni di Pierfrancesco, e posto nella villa medicea di Castello, nelle vicinanze di Firenze (oggi agli Uffizi). La grazia lineare che vi è soffusa concretizza nell'apparenza sensibile il mondo ideale dei pensatori neoplatonici e attesta che Botticelli aveva ormai trovato un suo linguaggio assolutamente personale. Questa stessa grazia la ritroviamo nei due affreschi allegorici di villa Tornabuoni-Lemmi (oggi al Louvre), ove sono raffigurati un giovane dinanzi all'assemblea delle Arti, personificate da figure femminili, e una fanciulla che riceve doni dalle mani di Venere accompagnata dalle Grazie.
L’intermezzo romano: al servizio del Papa
Il 1481 segna l'inizio del soggiorno romano di Botticelli, periodo di capitale importanza per la sua attività artistica. Secondo i termini del contratto firmato il 27 ottobre 1481, il papa Sisto IV gli offriva di associarsi a Cosimo Rosselli, al Ghirlandaio e al Perugino - ai quali dovevano aggiungersi ben presto Luca Signorelli, il Pinturicchio (1554?-1613) e Piero di Cosimo (1462 c. - 1521) - per affrescare le pareti della cappella che il pontefice aveva da poco fatto costruire in Vaticano, la Cappella Sistina, con storie sacre del Vecchio e Nuovo Testamento che contenessero, nello stesso tempo, riferimenti al ministero del pontefice. La parte dipinta dal Botticelli consiste in tre composizioni: la Giovinezza di Mosé, la Punizione d Korah, Dathan, Abiron e la Tentazione di Gesù Cristo. È da notare che ognuna di queste opere, obbedendo alla tradizione medievale, riunisce diversi episodi. La brillante Adorazione dei Magi, conservata alla National Gallery di Washington, rappresenta un'altra testimonianza dell'attività romana di Botticelli.
Il periodo di gloria a Firenze
A Firenze, l'umanesimo appassionatamente coltivato da Lorenzo il Magnifico e dalla sua corte trova in Botticelli il suo migliore interprete nel linguaggio artistico. Poco dopo il suo ritorno, egli esegue, per Lorenzo e Giovanni di Pierfrancesco, i due celebri dipinti di argomento mitologico della villa di Castello, oggi agli Uffizi: Minerva e il Centauro, La nascita di Venere, e dipinge probabilmente per il Magnifico anche la Storia di Nastagio degli Onesti, in quattro pannelli, tre dei quali si trovano al Prado di Madrid e l'altro è proprietà di una collezione privata negli Stati Uniti. Probabilmente committente del dipinto Marte e Venere (visibile alla National Gallery di Londra) era un'altra illustre famiglia, i Vespucci. Verso il 1485 Botticelli torna al tema della Madonna, ma con la disinvoltura della maturità; le più celebri sono la Madonna del libro, al museo Poldi-Pezzoli di Milano, la Madonna del Magnificat e la Madonna della Melagrana degli Uffizi, dipinte entrambe in tondo, e infine la Madonna Bardi (Berlino), commissionata da Agnolo Bardi per la sua cappella in Santo Spirito a Firenze. Poco prima del 1490, il pittore ottiene un'ordinazione, assai rara lungo il corso della sua attività artistica, di due opere di notevoli dimensioni: la Pala di San Barnaba (Uffizi), per la corporazione fiorentina dei medici e dei farmacisti, che riunisce nel pannello principale, in primo piano su uno sfondo architettonico, la Vergine seduta sul trono, sei santi e quattro angeli, mentre scene diverse sono rappresentate sulla predella; la Pala di San Marco (Uffizi), per la corporazione degli orefici, con il tema dell'Incoronazione della Vergine e quattro santi nel pannello principale, con storie sacre sulla predella, insieme che è stato eseguito con l'aiuto di allievi del maestro.
La crisi finale di Botticelli
La morte di Lorenzo il Magnifico, avvenuta nel 1492, pone fine al periodo più brillante della civiltà fiorentina. Dopo il malgoverno di Piero de' Medici, la dittatura teocratica di Savonarola ebbe ragione dell'Umanesimo. La crisi politica e morale di Firenze segna l'ultima parte dell'attività artistica di Botticelli. Nelle sue ultime opere troviamo un'esaltazione del sentimento religioso cui non è estranea l'influenza di Girolamo Savonarola. È il periodo dei disegni per la Divina Commedia di Dante e di un solo quadro importante di soggetto profano, La calunnia, dipinto per Antonio Segni secondo le descrizioni dell'antico capolavoro di Apelle; anche in quest'opera l'umanesimo è impregnato di meditazione cristiana. L'Annunciazione, dipinta intorno al 1490 per Santa Maria Maddalena dei Pazzi (Uffizi) rinnovava il tema caratterizzandolo con accenti più mossi e drammatici e La Vergine in piedi col Bambino abbracciato da San Giovanni Battista (Palazzo Pitti), posteriore di alcuni anni, offre nuovamente l'esempio di una disposizione particolarmente ardita. Le due Pietà, dipinte intorno al 1495, quella della pinacoteca di Monaco e quella del museo Poldi-Pezzoli di Milano, segnano il culmine della tensione tragica. La figura isolata chiamata La derelitta (Palazzo Rospigliosi, Roma) esprime un sentimento di profonda angoscia. Nello stesso tempo, Botticelli dipinge piccoli pannelli di preziosa fattura, con un linguaggio pittorico meno aspro, seppur sempre adattato alla rappresentazione della vita interiore: Sant'Agostino scrivente, agli Uffizi, l'Annunciazione e la Comunione di San Gerolamo al Metropolitan Museum di New York, le scene della Vita di San Zenobi, raffigurate su quattro pannelli (Londra, New York e Dresda). La predicazione di Savonarola sembra aver direttamente ispirato la Natività mistica della National Gallery di Londra (1501) e La crocifissione al Fogg Art Museum a Cambridge (Massachusetts).
Alla morte di Botticelli, nel 1510, giovani artisti come Michelangelo, Leonardo da Vinci, Andrea del Sarto, Raffaello, davano al Rinascimento un nuovo orientamento. La sua opera cadeva ben presto nell'oblio e soltanto con il XIX secolo sarebbe stata rivalutata.
Linea, movimento e colore
Durante il Rinascimento fiorentino, un'importante corrente artistica, che ha inizio nella prima metà del XV secolo, è quella che fa capo a pittori come Masaccio e Paolo Uccello, la cui principale ambizione è rappresentare un mondo in cui le apparenze sensibili siano sottomesse alle leggi della ragione e in cui densi volumi occupino uno spazio razionalmente organizzato dalla prospettiva geometrica. In linea generale, Botticelli non attribuisce grande importanza a questi principi estetici che giunge addirittura a contraddire, ma non per incapacità tecniche: l'Adorazione dei Magi degli Uffizi e quella della National Gallery di Washington, costituiscono ambedue composizioni magistralmente costruite su calcoli a tre dimensioni, la cui stretta convergenza obbedisce a un principio di unità; il Sant'Agostino, dipinto in affresco nella chiesa di Ognissanti a Firenze (1480 c.), dà prova, col rilievo della figura, di un'autorità in materia che ricorda quella di Andrea del Castagno, mentre la rappresentazione dei dettagli denota un realismo meticoloso e robusto, che si riscontra raramente nelle opere del maestro.
Botticelli avrebbe potuto proseguire in queste ricerche, ma la sua personale visione è quella di un mondo più libero che ha saputo adornare con affascinante poesia. Le figure non sono disposte a diversi livelli secondo le esigenze di uno spazio sovrano, ma piuttosto presentate su un piano molto ravvicinato rispetto allo spettatore con uno sfondo che tende a limitare la profondità e che prende a prestito i suoi elementi dall'architettura, dai paesaggi.
Talvolta le sue figure sposano con grazia la forma circolare del tondo (Madonna del Magnificat), altre volte determinano la composizione di un fregio (Primavera), oppure vengono ordinate secondo una rappresentazione di tipo medievale e l'intenzione teologica (affreschi della Cappella Sistina, la Natività di Londra); ma ciò che le accomuna è il ritmo morbido e quasi musicale che traduce il movimento in una danza che ingentilisce e alleggerisce le forme. Questo movimento, essenziale nell'universo di Botticelli, è impresso soprattutto dal tratto, che assume maggior importanza rispetto al volume.
Nervoso, imprevisto, dotato di una sensibilità originale, il disegno fa muovere la figura umana o talvolta la tormenta, la spezza secondo il capriccio dell'artista; insiste sui contorni, sulle particolarità asimmetriche dei volti; ed è proprio questa irregolarità che lo distingue dagli arabeschi decorativi: è insomma l'espressione stessa del pensiero. Tuttavia, il primato del tratto non implica, in Botticelli, quell'indifferenza alla materia pittorica che si attribuisce ai pittori della scuola fiorentina. La raffinatezza della sua fattura e il suo gusto per il colore si riscontrano soprattutto in una serie di piccoli dipinti, preziosi come delle miniature, dalla Storia di Giuditta alla Vita di San Zenobio. E ciò vale anche per le opere di maggiori dimensioni, siano esse affreschi, tempere oppure all'uovo. Il colore si presenta particolarmente brillante, come nella Madonna del Magnificat, oppure più opaco, come nella Nascita di Venere, o un po' soffuso, come nella Primavera; è sempre, comunque, armonioso e trasparente, tanto da sembrar penetrato da una luce cristallina.
Umanesimo e Cristianesimo
Lo stile lineare e l'inquieta grazia farebbero di Botticelli quasi un precursore dei manieristi del XVI secolo, se non fossero in primo luogo l'espressione delle esigenze spirituali del suo tempo. Componente essenziale dell'opera del maestro è la cultura dell'umanesimo fiorentino, e più ancora il neoplatonismo che fioriva allora nell'ambiente di Lorenzo il Magnifico e di cui Marsilio Ficino era il maggior esponente. La filosofia neoplatonica proponeva di trascendere il mondo sensibile, il mondo dell'esperienza, per approdare all'idea. Nell'opera di Botticelli raramente l'umanesimo si esprime attraverso la raffigurazione storica e archeologica, fatta eccezione per la rappresentazione di alcuni monumenti, quali: l'Arco di Costantino negli affreschi della Cappella Sistina, o per il rifacimento della Calunnia, per il quale si basò sui testi di Luciano e di Leon Battista Alberti. Gli elementi che compongono le sue opere sono, più spesso, miti di cui Botticelli, a volte in modo esoterico e d'accordo con i suoi mecenati, ha cercato di esprimere il contenuto. La Primavera, per esempio, la cui interpretazione è soggetta a molte controversie, sembra contrapporre tra loro, da una parte e dall'altra della figura di Venere, l'amore carnale e le aspirazioni dell'anima.
La Nascita di Venere sarebbe un inno alla fecondità universale, e Minerva e il Centauro rappresentano un simbolo delle contraddizioni della natura umana. Tutto ciò è espresso con un riserbo che testimonia la spiritualità cristiana dell'artista. Si passa così tranquillamente dai dipinti profani alla pittura sacra ove l'approfondimento del soggetto ha la stessa incisività: umanesimo e religione sono per Botticelli i due volti della medesima ricerca spirituale. Tuttavia la serenità dominante delle sue Madonne dipinte in gioventù si trasforma a poco a poco in penosa inquietudine. La Madonna della Melagrana esprime il presentimento della Passione. Il pessimismo si accentua durante gli ultimi anni della vita del pittore, quando questi rimette in discussione il pensiero dell'umanesimo e si esprime in tono tragico nelle due Pietà e la Crocifissione del Fogg Art Museum chiude la sua opera con una sorta di predizione delle disgrazie di Firenze.

Bramante

 

Per rispondere nei vari campi dell'arte alle aspirazioni artistiche dell'Umanesimo, si era diffusa in quell'epoca la tendenza a un ritorno alle origini nel tentativo di conciliare il mondo cristiano con quello dell'età che l'aveva preceduto: nell'ambito dell'architettura, il maggiore artista di questo gusto dev'essere considerato il Bramante. Prima di lui, Brunelleschi e Alberti avevano creato o diffuso una nuova tipologia strutturale. Col Bramante, questo linguaggio raggiunge la sua piena maturità, e il Rinascimento si modella sullo spirito classico. La sua vocazione autentica si manifesta tardivamente: fino all'età di trentacinque anni Bramante presta la propria opera in qualità di pittore al servizio di Ludovico il Moro, al quale era stato ceduto sette anni prima (1472) dal duca di Urbino.
Come era avvenuta la sua prima formazione? Ci si attiene soltanto a ipotesi; l'artista avrebbe preso parte alla trasformazione del Palazzo Ducale di Urbino (a partire dal 1466) dove sarebbe stato influenzato dal dalmata Luciano Laurana (1420 - 1479). Le sue rare opere pittoriche a Milano (al Castello Sforzesco, in casa Fontana e, soprattutto, in casa Panigarola, queste ultime ora conservate alla pinacoteca di Brera) mostrano un Bramante assai vicino alla maniera di Melozzo da Forlì (1438-94); vi si riscontrano lo stesso vigore di colori e la medesima grandezza monumentale dell'allievo di Piero della Francesca. Bramante conosceva certamente il trattato di prospettiva pittorica di quest'ultimo, complemento del Della pittura di Alberti.
Sulla facciata della chiesa di Abbiategrasso, la profonda nicchia, con i suoi due ordini sovrapposti, ricorda infatti il tempio di Rimini; anche Santa Maria presso San Satiro subisce l'influenza di Sant'Andrea di Mantova; quest'opera lo occuperà per vent'anni e verrà interrotta soltanto dalla sua partenza da Milano. Qui l'artista ovvierà alla mancanza di spazio creando una finta prospettiva; ma non ha ancora raggiunto la sobrietà che caratterizzerà il suo stile romano, e la deliziosa sagrestia ottagonale appartiene allo stile fiorito e delicato del milanese, dal quale trarrà ispirazione il Rinascimento francese. A motivo della sua fama, viene chiamato come consigliere per la fabbrica del duomo di Milano, e il duca gli affida diversi lavori.
Ricordiamo, per la fine policromia dei mattoni e del marmo, Santa Maria delle Grazie e il suo chiostro e, come esempio di sistemazione di piazza, la Piazza Ducale a Vigevano. Il re di Francia, frattanto, conquista il Milanese e, nel 1499, Bramante, come anche Leonardo da Vinci, al quale è legato da profonda amicizia già da diciassette anni, fugge l'invasore e si trasferisce a Roma; ha, ora, cinquantacinque anni. A contatto con le rovine romane, gli si rivela un nuovo ideale artistico; l'eleganza raffinata del suo stile cede dunque il posto a una sobrietà e a un rigore che lo indurranno a realizzare opere di rara bellezza e maestria. Il chiostro di Santa Maria della Pace (1500-04) è tra le sue prime opere di questo nuovo periodo, e attira su di lui l'attenzione di molti; poi esegue un'opera di notevole rilievo, il Tempietto di San Pietro in Montorio (1502), a pianta circolare come gli antichi tholos o i battisteri. Nel 1503, Giulio II succede a Pio III. Il nuovo papa desidera riunire intorno a sé artisti capaci di costruirgli opere colossali, e Bramante si dimostra all'altezza del compito. Nella basilica di San Pietro, in mezzo alle rovine del vecchio edificio, il papa vuole che sia edificata la sua tomba. Questo programma funerario basterebbe a motivare l'adozione di una planimetria centrale, tanto cara al Bramante, ossessionato (come lo saranno altri architetti) dalla visione del Pantheon. Il progetto comporterà una cupola, all'incrocio di quattro navate uguali che termineranno con absidi; tra le nervature, piccole cupole e campanili. Il complesso, equilibrato e leggero, ricorda un progetto eseguito nel 1488 (con la partecipazione dello stesso Bramante) per la cattedrale di Pavia, ove si risente l'influenza bizantina e ottomana. Eppure l'essenza resta soprattutto romana: è quella stessa delle grandi terme e della villa di Adriano a Tivoli. Michelangelo riprenderà il tema del duomo, ma dopo di lui San Pietro tornerà a essere concepita come basilica. Giulio II volle anche avere un suo palazzo, e Bramante gli presentò un progetto grandioso, realizzato solo parzialmente. Vennero eretti tre piani di logge per la corte di San Damaso, che sarebbero state decorate da Raffaello; poi il palazzo di Nicola V e di Sisto IV venne ricongiunto alla villa Belvedere, situata su un'altura, a trecento metri di distanza, tramite due gallerie che racchiudevano un immenso cortile. Per dissimularne la posizione (era posta “di sbieco”), la villa fu mascherata con una facciata scavata da un'enorme nicchia ove, su un piedistallo, si ergeva la pigna che dà il nome al cortile, nel quale era previsto lo svolgimento di tornei. Il dislivello venne magistralmente corretto con una serie di scalinate, accorgimento, questo, che verrà ripreso a villa d'Este. Tramontata la moda dei tornei, le scalinate vennero sostituite da un complesso trasversale che rende inintelligibile la composizione del Bramante.
Tutta Roma seguì l'esempio del pontefice: i vecchi palazzi feudali cedettero il posto alle ville (alla romana), edificate dal vecchio maestro o dai suoi discepoli. Si manifestava con urgenza la necessità di pianificare la città e di assicurare al già rinnovato Vaticano vie d'accesso più agevoli. Bramante sfondò interi vecchi quartieri, non esitando a demolire antiche vestigia, anche al fine di recuperare il materiale di cui aveva bisogno. Per soddisfare le velleità di Giulio II, Bramante lavorò in tutte le direzioni, ma non poté portare a compimento i suoi grandiosi progetti: si spense nel 1514, dopo un lavoro incessante durato dieci anni.
L’artista e la sua epoca
Il Bramante fu, come uomo e come artista, un genio caratteristico del Cinquecento, il secolo delle riforme, della rivalutazione dell'individualità contro lo strapotere centrale, della trasformazione di tanti valori sui quali è destinata a nascere l'Europa culturale moderna. La rivolta di Lutero costringe la Chiesa romana a rivedere le proprie posizioni sino a cercare di continuo l'impronta di Dio nel cuore di ogni uomo anziché praticare una religione che si accontenti semplicemente di verità rivelate valide per l'eterno. Anche l'arte diventa indagine, ricerca, confronto. L'artista non si accontenta più di dipingere o di scolpire gli elementi del creato ma si interroga sul suo modo d'essere nella vita e nella storia, quanto di concorrere al fine ultimo della salvezza spirituale. Un periodo definito “il più famoso dell'arte italiana e uno dei più splendidi d'ogni tempo”. L'epoca di Leonardo, ma anche di Michelangelo, Raffaello, Tiziano, Correggio e Giorgione, mentre a Nord fioriscono Holbein e Dürer. Giorgio Vasari, che per primo postula che il Cinquecento sia il secolo classico per eccellenza identificando in Michelangelo il vertice dello spirito e della cultura, ci descrive la personalità del Bramante (molto allegra e si dilettò di giovare a prossimi suoi). Modesto nonostante i grandissimi meriti, schietto e generoso, amava la musica e la matematica, studiava e conosceva alla perfezione la Divina Commedia: trascorse l'inverno 1510-11 commentando il capolavoro dantesco con papa Giulio II. Bramante e Giulio II: due giganti che sapevano comprendersi. Il primo conosceva le regole antiche, le proporzioni e le misure delle colonne e dei cornicioni dorici, ionici, corinzi. Trascorreva il tempo a misurare le rovine antiche, a studiare i manoscritti dei classici, come Vitruvio, in cui erano illustrate le norme degli architetti greco-romani. La sua vera aspirazione era di progettare un edificio senza preoccuparsi dell'uso cui fosse destinato, soltanto per l'armoniosa bellezza delle proporzioni, per la spaziosità dell'interno e la grandiosità imponente dell'insieme, per la possibilità di innovare. Dal canto suo Giulio II già nel 1506 aveva deciso di abbattere la venerabile basilica di San Pietro che sorgeva nel luogo in cui, secondo la tradizione, era stato sepolto il primo papa. Intendeva riedificarla in modo da sfidare le consuetudini e le funzioni secolari dell'architettura ecclesiastica. Quasi una sfida in previsione della fama che avrebbe ottenuto con una costruzione capace di superare le sette meraviglie del mondo. Ossia, un'autentica meraviglia del cristianesimo. Da qui la scelta del Bramante, che aveva dimostrato di aver assimilato e riproposto con personalità inimitabile la lezione dell'architettura classica. Bramante disegnò una chiesa circolare con una serie di cappelle disposte intorno alla gigantesca sala centrale, che a sua volta doveva essere coronata da un'alta cupola sostenuta da archi colossali. Quindi contravvenendo alla millenaria tradizione dell'Occidente in base alla quale una chiesa di questo genere avrebbe dovuto avere forma rettangolare: i fedeli, guardando verso l'altare maggiore al momento della celebrazione della messa, si sarebbero allora trovati rivolti verso oriente. Ma è proprio la grandiosità dell'opera a rendere necessario tanto danaro da dover ricorrere alla vendita delle indulgenze in maniera così smaccata da suscitare la prima protesta pubblica di Lutero in Germania, anche se la ribellione avverrà soltanto nel 1520. Il progetto viene avversato quindi nella stessa Roma, negli ambienti più vicini al pontefice. Quando la costruzione è già in fase piuttosto avanzata, l'idea di un edificio circolare (più esattamente: una croce greca inscritta in un quadrato) viene accantonata. Resta il fatto che il Bramante aveva avuto l'ingegno e il coraggio di elaborare un piano ardimentoso all'altezza dei compiti e del tempo: l'epoca in cui, alla scoperta dell'America, segue la riscoperta dell'uomo quale centro di ogni interesse e iniziativa. L'uomo eterno, Ulisse, che sfida i misteri dell'oceano sconosciuto e carpisce alla natura i reconditi meccanismi dell'armonia. Il Bramante, la cui sapienza nel costruire coincide con la visione pittorica di Raffaello, riuscì comunque a condizionare il fulcro di San Pietro con i quattro piloni e gli arconi di raccordo che egli eresse nell'ambito della pianta centrale, passata alla storia come la concezione architettonica più grandiosa e più originale dell'intero Rinascimento. Fu calunniato, proprio come capita ai grandi, e collocato in posizione di rivalità nei confronti di Michelangelo. Invece fu suo precursore nel concepire l'architettura come monumento e simbolo: un segno lasciato dagli uomini del suo tempo alle generazioni future.

      Duccio di Buoninsegna

 

Le prime notizie relative a questo grande pittore senese lo rammentano (1278) intento a dipingere dodici casse per la custodia di documenti dell'Ufficio della Biccherna del Comune di Siena, andate successivamente perdute. Negli anni seguenti continua ad essere citato come esecutore di opere per il Comune, nonostante sia conosciuto come un cittadino particolarmente turbolento: restio a partecipare ad azioni di guerra in Maremma, a prestare giuramento agli ordini del Capitano del Popolo, e persino collegato a pratiche di stregoneria per le quali gli viene comminata una multa nel 1302. Non sono invece documentati gli eventuali spostamenti ipotizzati dagli studiosi per spiegare le diverse componenti della sua cultura; se i viaggi ad Assisi e a Roma sembrano molto probabili è più difficile sostenere la sua permanenza nel Mediterraneo orientale e a Parigi dove il Duch de Sienne o il Duch le Lombard citati in un testo potrebbe essere un omonimo del nostro pittore. La data di morte, tra il 1318 e il 1319, va collegata verosimilmente all'atto di rinuncia da parte dei sette figli all'eredità paterna. Perduti i primi lavori per il Comune di Siena, l'opera più certa di questa fase giovanile è la piccola Madonna di Crevole, oggi al Museo dell'Opera di Siena. Seguono: la grande tavola con Maestà conosciuta coma Madonna Rucellai, oggi agli Uffizi e per molti secoli ritenuta opera di Cimabue, una vetrata circolare nell'abside del Duomo di Siena, la Madonna dei francescani (Siena, Pinacoteca), la Maestà di Berna (Kunstmuseum), la Madonna col Bambino e sei angeli della Galleria Nazionale di Perugia. Del 1308 è invece il primo documento che menziona la commissione della grande tavola con Maestà conclusa nel 1311 per il Duomo di Siena, senza dubbio il capolavoro assoluto di questo pittore; tenuto conto però dell'impegno richiesto da un'opera di tale complessità, la critica attuale tende ad anticiparne la data di inizio. Rimossa dall'altare maggiore del Duomo e successivamente smembrata nel corso del Settecento, risulta sparsa nei musei di tutto il mondo mentre il corpus principale è nel Museo dell'Opera di Siena. Esso mostra un artista capace di rinnovare profondamente la trama della pittura bizantina, attento al dato quotidiano e naturale reso con una gamma cromatica di grande intensità. Sono ascrivibili agli ultimi anni il Trittichetto della National Gallery di Londra e il Polittico n° 47 della Pinacoteca di Siena, molto compromesso quanto a conservazione e con larghi apporti di bottega.

     Canaletto

 

Canaletto si formò alla bottega del padre, dove collaborò alla creazione di scenografie teatrali. Ma presto iniziò a dipingere vedute raffiguranti paesaggi urbani, che furono principalmente quelli della sua città natale. In questo nuovo genere di pittura, il cui rappresentante era a quei tempi a Roma Pannini (1691 ca - 1765), e il cui lontano precursore era stato, a Venezia, Gentile Bellini, si cimentavano anche Luca Carlevarjis (1655-1731) e un temibile rivale: Francesco Guardi. È facile contrapporre la fantasia, la sensibilità, il tocco vibrante di Guardi all'impassibile visione di Canaletto, alla sua abilità meticolosa e volontariamente impersonale. Una prospettiva rigorosa, la cui perfezione tradisce l'impiego della camera oscura, ordina lo spettacolo veneziano dei canali e dei palazzi, cui l'ambientazione luminosa conferisce un tono di poesia soffusa. I contrasti chiaroscurali, che segnano la successione dei piani, e le numerose piccole figure, talvolta raccolte con il pretesto di qualche festa, animano la composizione e danno un'idea della dimensione degli edifici. Il successo consentì a Canaletto di assicurarsi la collaborazione di una bottega, come è possibile notare da numerose sue opere. Alcune vedute tuttavia appaiono più personali, come per esempio Chiesa della Carità dal laboratorio dei marmi di San Vitale, considerata il suo capolavoro (National Gallery, Londra).
All'inizio italiana, la clientela di Canaletto fu poi essenzialmente inglese. Il console John Smith fu il suo «impresario» presso i collezionisti interessati alle vedute veneziane, spesso come ricordo di un viaggio. L'artista ebbe rapporti ancor più stretti con l'Inghilterra, dopo avervi soggiornato a lungo per tre volte, nel periodo tra il 1746 e il 1755. Rappresentò la campagna inglese con la stessa minuziosità e il senso dello spazio dimostrati a Venezia; seppe rendere, con l'impasto trasparente dei colori, la luminosità diffusa dei paesaggi. Dipinse anche vedute di Londra, di Oxford, di Cambridge, di Windsor, ecc., che si trovano in numerose collezioni inglesi. Canaletto praticò l'arte del capriccio, dipingendo insiemi architettonici compositi o immaginari. È curioso constatare che proprio un quadro realizzato secondo questo genere pittorico, e non una veduta realista, gli consentì, nel 1763, di entrare a far parte dell'accademia di pittura della sua città natale. Canaletto eseguì anche alcuni disegni a penna, molto luminosi che sono serviti come studio per i dipinti. Le acqueforti, che costituiscono una raccolta di vedute di Venezia e dintorni, commissionategli da John Smith, rivelano, più di ogni altra opera, la sensibilità dell'artista. Una Venezia scenografica e affascinante, riflessa nell'acqua che si muove di continuo dando alla città una sensazione di perenne movimento e che, durante il Settecento attirava viaggiatori da ogni parte d'Europa desiderosi di ammirare le vestigia del passato e di portare con sé ricordi di quanto avevano veduto. Già gli artisti italiani dell'epoca erano famosi all'estero per la loro abilità quali decoratori di interni, per gli stucchi e gli affreschi capaci di trasformare qualunque salone in un ambiente fastoso.
A Venezia, in particolare, sorse una scuola di pittura proprio per accontentare le richieste dei visitatori stranieri. Canaletto, in questo ambito, ebbe il grande merito di inserire il «vedutismo» veneziano nel cuore della cultura illuministica, della ragione che trionfa sul secolo delle ciprie e delle parrucche. Dopo il periodo giovanile del chiaroscuro elaborò una pittura che si basava da un lato sul colore dalle tonalità più diverse, comunque già cariche di luce, e dall'altro sull'uso della prospettiva quale elemento scientificamente semplificatore. Usò la prospettiva non per creare un'immagine che si allontana bensì un'immagine che si avvicina. Il punto di fuga all'orizzonte non respinge nel mare della distanza i palazzi e i canali, il paesaggio, ma sembra sospingerli verso chi guarda, in primo piano. Questa intuizione raggiunse il massimo dell'efficacia con le vedute inglesi, che per lungo tempo sono state considerate inferiori alle vedute veneziane: la critica più recente ha invece ribaltato la valutazione, almeno per quanto riguarda la tecnica pittorica. Certo, il fascino di Canaletto, il suo nome e la sua opera sono indissolubilmente legati alla città natale, al punto da potersi chiedere se egli sarebbe stato altrettanto grande qualora non avesse mai potuto conoscere Venezia.
La superba e prospera Venezia, che infiniti traffici legavano all'Oriente, era stata a suo tempo più lenta degli altri centri italiani ad accettare lo stile rinascimentale e l'applicazione brunelleschiana delle forme classiche restituite all'architettura. Ma, una volta accettata la nuova moda e il nuovo stile, vi aggiunge di suo una gaiezza e un calore che evocano la grandiosità delle famose città mercantili del periodo ellenistico da Alessandria ad Antiochia. Mentre l'atmosfera lagunare, che sembra sfumare i contorni troppo netti delle cose e fondere il loro colore in una luminosità diffusa, insegna ai pittori veneziani a usare il colore forse con maggiore consapevolezza e attenzione di quanto avessero mai fatto in passato i pittori sia nel resto dell'Italia sia all'estero. Canaletto approfondisce le ricerche sulla prospettiva dando nuove dimensioni e possibilità al genere paesaggistico.
Egli non inventa, piuttosto risolve il problema con accenti molto personali. Prima di lui il già citato Carlevarijs, figlio di un matematico, nel dilemma tra veduta esatta e veduta di fantasia aveva rifiutato di usare la prospettiva solo come mezzo di illusione spaziale. Canaletto ordinò e approfondì, conservando un primato di rigore anche nella considerazione dei contemporanei, che sotto questo profilo lo preferirono al grandissimo virtuoso Francesco Guardi (1712-93). Suo nipote, Bernardo Bellotto, chiamato anch'egli il Canaletto, (Venezia, 1720 - Varsavia, 1780), fu suo discepolo ma ben presto si allontanò dallo stile dello zio, come è dimostrato dallo stile delle vedute dell'Italia settentrionale. Sviluppò la sua arte lontana dalla patria, presso le corti dell'Europa centrale. Dal 1747 fino alla morte lavorò a Dresda, a Vienna, a Monaco e infine si stabilì a Varsavia a servizio del re di Polonia. Nelle vedute di queste città, generalmente di grande formato, l'esigenza di precisione è spinta all'estremo come in Canaletto, e i magnifici ordini dell'architettura barocca sono rappresentati, come le folle che li animano, con tale profusione di dettagli da dare l'illusione della realtà. L'aspetto vetrificato dell'impasto è caratteristico di Bellotto, come la luce fredda, che evoca a meraviglia quella dell'Europa centrale.

     CARRACCI

 

La vicenda artistica di Annibale Carracci si articola in due fasi ben distinte. Una prima legata all'attività con il fratello Agostino e il cugino Ludovico, coi quali fonda a Bologna una celebre accademia e realizza grandi cicli decorativi, come le Storie di Giasone in Palazzo Fava e le Storie di Romolo in Palazzo Magnani, legati alle suggestioni dell'ambiente manierista dell'Italia settentrionale.
Contemporaneamente, in dipinti di genere quali La bottega del macellaio (Oxford, Christ Church), Il mangiafagioli (Roma, Galleria Colonna), l'Uomo con scimmia (Uffizi) o mitologici come Venere, satiro e amorini (Uffizi), Annibale tenta una propria e originale ricerca in direzione spiccatamente naturalistica.
Il 1595 rappresenta una drastica svolta per l'artista, che si trasferisce a Roma, dove negli affreschi del Palazzo Farnese con Le storie di Ercole e Gli amori degli dei si esibisce in grandiose e animate composizioni, che si aprono su squarci architettonici e cieli azzurri, prime codifiche della rutilante decorazione barocca.

      Caravaggio

 

Caravaggio occupa un posto di primo piano tra i pittori che hanno provocato una rivoluzione, una rottura nelle teorie e tecniche artistiche del suo tempo. Il suo destino particolare - una gloria precoce, una fine prematura, solitaria e miserabile - contrappone, come avviene nelle sue grandi tele, ombre e luci; il crudo realismo nell'interpretazione degli episodi religiosi, e la forza del gusto tenebroso hanno suscitato, quando il pittore era ancora vivo, aspre critiche e grandi entusiasmi. Si è così formata un'immagine leggendaria e romanticamente semplificata dell'artista, tramandata di generazione in generazione per tre secoli. Soltanto ai nostri giorni, con la rivoluzione del barocco, le ricerche degli storici italiani e stranieri - primi fra tutti Hermann Voss, Lionello Venturi, Roberto Longhi, René Jullian - hanno sensibilmente modificato il giudizio sull'opera del pittore. Per quanto riguarda la biografia, gli storici dell'arte hanno corretto o precisato molti punti essenziali della sua vita. Di natura violenta, impulsiva, girovago impenitente, provocatore di risse, sempre pronto a metter mano alla spada: i documenti conservati negli archivi non ci lasciano alcun dubbio in merito alla sua indole. Ebbe influenti protettori e amici fedeli che non poterono però evitare le tragiche vicende degli ultimi anni della sua vita.
La vita
Se l'ultimo periodo della vita di Caravaggio è conosciuto, poco si sa degli anni della formazione. Nato a Caravaggio, appartiene a una famiglia stimata e abbastanza agiata: suo padre è architetto e intendente del marchese di Caravaggio. La sua vocazione deve essersi manifestata molto presto, poiché già nel 1584 entra come allievo nella bottega del pittore bergamasco Simone Peterzano, allievo di Tiziano. Dodici anni dopo ripara a Roma, dove lavora presso Giuseppe Cesari (il cavalier d'Arpino [1568-1610]), pittore specializzato nelle composizioni di fiori e frutta, nonché pittore di temi religiosi. Si avvale di alcuni protettori, come per esempio il cardinale Del Monte, che lo alloggia nel suo palazzo e gli commissiona nature morte. Ma gli episodi della vita dell'artista durante questi primi anni romani rimangono oscuri. Nel 1597 gli viene chiesto di dipingere alcune tele per la cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi (Vocazione e martirio di San Matteo, San Matteo e l'angelo) che lo rendono celebre e contestato. Di quest'ultima opera dovrà fornire una nuova versione, poiché era stata giudicata volgarmente irriverente. Da allora e fino al 1606, la storia di Caravaggio è costellata da vari avvenimenti che si sovrappongono. Da un lato realizza numerose opere di notevole importanza che sottolineano la fecondità e la potenza creativa: tra il 1600 e il 1601 Caravaggio dipinge la Crocifissione di San Pietro e la Conversione di San Paolo (Santa Maria del Popolo, Roma); nel 1604 la Madonna dei pellegrini o di Loreto (Sant'Agostino, Roma); nel 1605, la Morte della Vergine (museo del Louvre, Parigi), rifiutata dai religiosi di Santa Maria della Scala e acquistata invece dal duca di Mantova, su consiglio del giovane Rubens. Sin dal 1604, nel Libro della pittura, Karel Van Mander include Caravaggio tra i pittori celebri. Ma nello stesso tempo, a partire dal 1603, si succedono senza interruzione denunce alla polizia, risse, processi: nel 1605 Caravaggio si rifugia a Genova, dopo aver ferito un cancelliere in tribunale. Nel maggio del 1606, un duello si conclude tragicamente: l’artista, ferito, uccide il suo avversario ed è costretto a fuggire, prima a Palestrina e poi nell’Italia meridionale. Comincia allora una vita da fuggiasco, in cui si alternano successi e sventure. Nel 1607 si reca a Napoli dove esegue per chiese e conventi alcuni capolavori: la Flagellazione di Cristo (San Domenico Maggiore, Napoli), le Sette opere di misericordia. A Malta, ove giunge all'inizio del I608, il ritratto del gran maestro Alof de Wignacourt (Louare) gli vale altre ordinazioni, in particolare il grande «notturno» della Decollazione di san Giovanni Battista(duomo di La Valletta). Caravaggio è accolto nell'ordine dei Cavalieri, ma notizie provenienti da Roma. riguardanti i motivi del suo esilio, provocano un'inchiesta e quindi la fuga del pittore... In autunno si reca in Sicilia. dove, spostandosi da una città all’altra lascia numerosi esempi del suo genio: il Seppellimento di Santa Lucia, eseguito a Siracusa per l’omonima chiesa; la Resurrezione di Lazzaroe l’Adorazione dei pastori oggi esposte al museo di Messina; una Natività (oratorio di San Lorenzo a Palermo). Ritornato a Napoli nell’ottobre del 1609, è aggredito e gravemente ferito. Nel contempo i suoi protettori romani si adoperano per ottenergli la grazia. Ancora convalescente si imbarca nel luglio del 1610 per lo Stato pontificio. Arrestato per errore alla frontiera di Porto Ercole e liberato due giorni dopo, vaga lungo le spiagge alla vana ricerca della barca che lo aveva trasportato lì. Colpito dalla febbre, si spegne in una locanda, in solitudine, qualche giorno prima che fosse annunciata l’approvazione della domanda di grazia.
L'opera
Recentemente, l'evoluzione della carriera clamorosa e tormentata del pittore è stata definita con maggior precisione. Le grandi opere romane si inquadrano tra il periodo giovanile, ricco e contrastato, e il periodo del profondo rinnovamento artistico, interrotto dalla sua morte improvvisa. Il primo periodo romano è dominato dall'influenza del realismo popolare e dal luminismo lombardo-veneto della seconda metà del XVI secolo (Peterzano, i Campi, Lattanzio, Gambara, ecc.) Caravaggio dimostra la padronanza perfetta della tecnica realista. Giovanni Pietro Bellori ha scritto: «Per lui non vi è nulla di meglio che seguire la natura: non vi è tratto che non sia eseguito direttamente secondo un modello vivente». Nature morte di fiori e frutta, pittura di genere (suonatori di liuto, indovine, musicisti, bevitori e bari e quel Bacco sensuale e melodico esposto agli Uffizi), soggetti sacri su sfondi paesaggistici (Riposo nella fuga in Egitto, esposto a Roma nella galleria Doria Pamphili), pongono in evidenza la genialità dell'artista, la cui ambizione non supera però il «ritratto» di personaggi. A partire dalle opere realizzate per San Luigi dei Francesi, si rivelano intendimenti più elevati, con la creazione di un nuovo stile. La composizione semplice e potente, la volgarità grandiosa degli atteggiamenti e dell'espressione, l'ardita interpretazione realistica degli episodi religiosi (il corpo gonfio di Maria, simile a quello di un corpo annegato, rappresentato nell'opera la Morte della Vergine, i piedi sporchi dei pellegrini, in primo piano nel dipinto la Madonna di Loreto), l'incisività dell'illuminazione artificiale, che sottolinea violentemente i rilievi, i colori vivaci (i rossi) sugli sfondi scuri, sono i mezzi tecnici caratteristici dell'arte caravaggesca, che affermano il genio innovatore di un artista pienamente cosciente delle proprie possibilità. Ma la pittura degli anni successivi si fa sempre più incerta, sfuggente, misteriosa: il fremito della luce, proveniente da fonti moltiplicate, la disposizione dei personaggi, il vuoto inquietante dei grandi spazi pieni d'ombre (Decollazione di san Giovanni Battista) creano un'atmosfera poetica e quasi fantastica, nuova e ossessiva. Se Caravaggio fosse vissuto più a lungo, sarebbe divenuto un altro Rembrandt? Sembra che l'interpretazione di Caravaggio e della sua collocazione storica abbiano compiuto sensibili progressi. Parlare di realismo e di tenebrismo non è più sufficiente per definire questo grande e geniale pittore. Infatti i brani di vita popolare e gli effetti dei suoi «notturni» sono caratteristici di tutta la pittura della fine del XVI secolo, e in particolare dell’Italia del Nord, nell'opera di artisti di primo piano quali Bassano e perfino Tintoretto. L'originalità di Caravaggio consiste nell'uso della luce per affermare la pienezza delle forme e dei volumi, ma anche per drammatizzare i personaggi più umili. Soprattutto questo aspetto eroico ha colpito l'attenzione degli storici dell'arte contemporanei: quest'arte plastica, espressiva, diretta, che esprime un sentimento semplice e profondo della vita umana, rispondente alle aspirazioni della Controriforma. Tale arte non è necessariamente iconoclastica: l'influenza di Michelangelo è spesso percettibile nella pittura del suo giovane omonimo. E la reazione umanista dei Carracci contro gli artifici del manierismo è più affine, che non contraria, al caravaggismo.
La fortuna
L'enorme successo ottenuto da questa pittura dimostra che corrispondeva alle esigenze e agli ideali del tempo. Il caravaggismo si manifesta come un fenomeno internazionale fin dal suo primo apparire, e si diffonde in tutta Europa grazie agli artisti girovaghi che transitano da Roma. Questa corrente artistica annovera in Italia diverse personalità, tra le quali vanno ricordate, tra il 1600 e il 1610, le figure di Bartolomeo Manfredi (1580 c.a - 1624), Carlo Saraceni (1585 c.a - 1620), Giovanni Battista Caracciolo (1570 ca - 1637) che contribuisce a diffondere il nuovo stile a Napoli, Orazio Borgianni (1578 - 1616) che lo introduce in Spagna. Seguaci del caravaggismo saranno anche artisti olandesi e fiamminghi come Karel Van Mander (1548 - 1606) e alcuni pittori francesi, come Jean De Boullongne, detto Valentin. Con la successiva generazione e durante i primi due terzi del secolo, cioè attorno al 1630, il caravaggismo si diffonde in tutta Europa; ma anche i pittori che, come i fratelli Carducho (di origine italiana), a causa della loro formazione accademica, considerano questa corrente pittorica come l’opera dell’anticristo della pittura, devono pur riconoscere il valore universale del suo insegnamento. La scuola pittorica ispano-italiana di Napoli, guidata da Ribera, la scuola di Siviglia con Zurbarán, quella della Linguadoca di Tolosa rappresentata da Nicolas Tournier (prima del 1600 - dopo il 1660), la scuola della Lorena con Georges de La Tour, il gruppo olandese di Utrecht con Gerard Van Honthorst (1590 - 1656) ed Hendrik Terbrugghen (1588 - 1629) sono i maggiori interpreti del caravaggismo: poche rivoluzioni pittoriche hanno avuto una tanto grande risonanza.

     Cimabue

 

Le notizie attualmente in nostro possesso non permettono di conoscere con precisione la vita dell'artista nella seconda metà del XIII secolo. Due date giunteci attraverso documenti dell'epoca sono in pratica i soli indizi in grado di indicarci l'arco cronologico della sua produzione: Cimabue è menzionato in un documento romano del 1272 e si testimonia inoltre la sua presenza a Pisa negli anni 1301-02 allorché egli assume l'incarico di eseguire, oltre ad altre commissioni, la figura a mosaico di San Giovanni nell'abside della cattedrale. Si sa inoltre che lavorò, intorno al 1285, alla decorazione delle basiliche superiore e inferiore di San Francesco in Assisi. È necessario usare grande precauzione nel ricostruire la genesi della sua opera, diffidando di interpretazioni fantastiche di alcuni periodi oscuri della sua vita o di valutazioni troppo schematiche; lo stesso atteggiamento va tenuto nei confronti delle affermazioni del Vasari, tendenti a mitizzare la figura artistica e umana del grande pittore toscano. Tuttavia non è impossibile tracciare un quadro generale dell'evoluzione artistica di Cimabue. Risale verosimilmente al periodo del viaggio romano (1270-75) l'elaborazione di uno stile originale sorto come reazione alla «maniera greca» bizantineggiante assai diffusa in quel periodo a Firenze e in numerose città italiane. Lo stile di Costantinopoli si era diffuso in Italia con l'afflusso degli artisti orientali che emigravano a causa dell'affermazione degli iconoclasti. Alla fine del XIII secolo la fonte ispiratrice della loro arte, i cui modelli erano stati tramandati di generazione in generazione senza che vi si apportassero sostanziali innovazioni, appariva ormai inaridita. Il giovane Cimabue compie il suo apprendistato di pittore e mosaicista in questo ambiente. L'aneddoto del piccolo Cenni che si allontana dalla scuola per ammirare i Greci venuti a restaurare le decorazioni della cattedrale fiorentina testimonia assai bene, pur nei toni leggendari del racconto vasariano, l'atmosfera culturale della Firenze di quegli anni. Cimabue prende così a prestito dalla tradizione bizantina i diversi modelli iconografici: i grandi crocifissi, le ieratiche immagini della Vergine e i «dossali» d'altare. I crocifissi sono le opere più antiche; in quello conservato al museo dell'Opera di Santa Croce a Firenze, gravemente danneggiato dall'inondazione del 1966, la disposizione a «S» della grande figura dolorosa del Cristo sembra staccarsi dalla croce le cui estremità hanno la forma di piccole icone raffiguranti la Vergine e San Giovanni; l'impassibile solennità dei modelli orientali sembra ripiegarsi su se stessa assumendo, come il volto dell'evangelista, un atteggiamento pensoso. L'originalità di questa visione iconografica può forse essere messa in relazione col soggiorno romano dell'artista; in molti centri italiani infatti (la Siena di Duccio, la Pisa dei nuovi scultori, la Roma di Pietro Cavallini, attivo tra il 1270 e il 1330) fervevano intense ricerche artistiche. Ad Assisi, dove vari importanti pittori partecipano alla decorazione della basilica di San Francesco, Cimabue entra in contatto diretto con l'architettura (si tratta infatti di dipingere a fresco) inserendo in essa le immagini a lui più congeniali: un disegno più morbido determina forme più ampie ed espressive non senza una certa influenza dei ritmi gotici. La Vergine in trono con angeli e profeti, dipinta per Santa Trinità di Firenze e oggi agli Uffizi, risale probabilmente al 1285. In essa l'unità plastica non è ancora perfettamente realizzata ma il linguaggio formale, ormai delineato, preannunzia l'arrivo di un nuovo artista, Giotto, iniziatore di una lunga gloriosa stagione dell'arte italiana. Come nel Giudizio e nella Crocifissione, un abisso separa queste immagini dalle interpretazioni bizantineggianti dei pittori della stessa generazione. Del resto i contemporanei furono i primi a dare alla personalità del Cimabue lo spessore di un maestro, giustamente collocandolo in una posizione superiore rispetto a quelli che erano venuti prima di lui e insieme con lui. Con il mosaico di San Giovanni nell'abside della cattedrale di Pisa si chiude il ciclo delle opere attribuite a Cimabue lasciando tuttavia aperto un problema riguardante ancora una volta la città di Roma e l'inizio della carriera del pittore: la sua opera non si ispira in qualche punto all'arte dell'antichità? La lenta riscoperta dell'arte classica, verso cui la città di Firenze prima e in seguito tutta la civiltà rinascimentale avranno debiti notevoli, compie i suoi primi passi nell'arte del XIII secolo.

Ragazzo prodigio nel racconto di Vasari

«... crescendo, per esser giudicato dal padre e da altri di bello e acuto ingegno, fu mandato, acciò si esercitasse nelle lettere, in S. Maria Novella a un maestro suo parente, che allora insegnava grammatica a' novizi di quel convento; ma Cimabue in cambio d'attendere alle lettere, consumava tutto il giorno, come quello che a ciò si sentiva tirato dalla natura, in dipingere, in su' libri et altri fogli, uomini, cavalli, casamenti et altre diverse fantasie; alla quale inclinazione di natura fu favorevole la fortuna; perché essendo chiamati in Firenze, da chi allora governava la città, alcuni pittori di Grecia, non per altro, che per rimettere in Firenze la pittura più tosto perduta che smarrita, cominciarono, fra l'altre opere tolte a far nella città, la cappella de' Gondi, di cui oggi le volte e le facciate sono poco meno che consumate dal tempo, come si può vedere in S. Maria Novella allato alla principale cappella, dove ell'é posta. Onde Cimabue, cominciato a dar principio a questa arte che gli piaceva, fuggendosi spesso dalla scuola, stava tutto il giorno a vedere lavorare que' maestri; di maniera che, giudicato dal padre e da quei pittori in modo atto alla pittura, che si poteva da lui sperare, attendendo a quella professione, onorata riuscita; con non sua piccola soddisfazione fu da detto suo padre acconciò con esso loro; là dove di continuo esercitandosi, l'aiutò in poco tempo talmente la natura, che passò di gran lunga, sì nel disegno come nel colorire, la maniera de' maestri che gli insegnavano». Giorgio Vasari.

   Correggio

 

Figlio di Pellegrino e di Bernardina Piazzoli detta Degli Aromani, di cultura modesta ma economicamente benestanti, tra l'altro proprietari della casa in cui vivono, sposa Girolama Merlini, che muore giovane, nel 1529, sette anni dopo la nascita del loro unico figlio, Pomponio. Studia arte dapprima nell'ambito familiare, presso uno zio e un cugino, quindi nella Mantova dominata dalla personalità del Mantegna. È comunque in contatto con le principali correnti della cultura figurativa del suo tempo. Il suo cammino artistico viene solitamente suddiviso dagli studiosi in tre periodi: quello dei dipinti giovanili su temi e forme tradizionali dell'Emilia e del Mantegna; quello delle opere cosiddette di ricerca personale tra il 1513 e il 1518, prima del viaggio a Parma; e, infine, quello dei cicli trionfali di Parma, compimento dello sviluppo della sua personalità con il passaggio alla decorazione monumentale (dopo il 1518).

Gli affreschi della Camera della Badessa

Tra le sue prime opere ricordiamo gli affreschi in Sant'Andrea a Mantova e alcuni dipinti come Madonna con bambino e angeli (Firenze, Uffizi) e Natività (Milano, Brera): con quest'ultima dimostra di aver assimilato la lezione leonardesca del chiaroscuro elaborando soluzioni personali che influenzeranno le scuole successive. L'opera è dapprima dominata dalla figura del pastore che ha appena avuto la visione degli spazi celesti spalancati con gli angeli che cantano: «Gloria a Dio nell'alto dei cieli». Per contrapposizione la stalla, in basso, è oscura, rischiarata solo al centro dal Bambino appena nato che irradia luce tutt'intorno, illuminando anche il volto bellissimo della madre felice. Ecco due servette, una abbagliata dalla luce che proviene dalla mangiatoia trasformata in culla e l'altra intenta a osservare il pastore. Intanto san Giuseppe, nell'oscurità fitta dello sfondo, rigoverna l'asino. Correggio, tra il 1514 e il 1515, realizza la pala della Madonna di San Francesco (Dresda, Staatliche Gemaeldegalerie) quindi compie un viaggio a Roma ammirando la magnificenza delle Stanze Vaticane e della Cappella Sistina. Viene chiamato a Parma, per suggerimento di Scipione Montino della Rosa, da una nobile piacentina, Giovanna Piacenza, badessa del monastero di San Paolo. Riceve l'incarico di decorare la camera in cui la badessa accoglie abitualmente le rappresentanti dell'aristocrazia cittadina intrattenendole in alati conversari, in dotte disquisizioni religiose. Correggio trasforma la volta della Camera della Badessa in un padiglione a tralicci, con fronde e ghirlande di frutti, sostenuto da un fregio e da un giro di lunette con figurazioni mitologiche monocrome dentro delle nicchie. Le finte sculture sono animate da luci argentee come se le figure prendessero vita. L'artista si ispira al mito di Diana-Artemide, dea della caccia, ma anche protettrice delle vergini e della castità. Veramente memorabile è la raffigurazione della dea sul carro trainato da cervi veloci, che torna alla sua dimora dopo una battuta di caccia. L'antica favola della bellissima fanciulla e delle sue ninfe trova qui una seconda giovinezza. Di questo ciclo, la cui grandezza non viene subito intesa appieno, si scriverà che «è uno dei più violenti trapassi tra il vecchio e il nuovo mai veduti in arte».

Le opere della maturità

Durante le pause tra i viaggi e le commissioni il maestro torna volentieri nella terra natale. Ama la campagna e vi investe quasi tutti i guadagni. Per uno dei suoi dipinti più belli, La Madonna di San Girolamo, accetta a completamento dei pagamenti una partita di maiali e di fascine di legna. Dopo i quadri del periodo di transizione come La Madonna Campori (ora custodito nella Galleria Estense di Modena), come Madonna col Bambino e San Giovannino (Madrid, Prado) e Zingarella (Napoli, Pinacoteca di Capodimonte), ecco la serie della maturazione, ricchezza di colori e raffinata armonia di composizione: Sposalizio mistico di Santa Caterina (Parigi, Louvre); Madonna di San Sebastiano (Dresda, Staatliche Gemaeldegalerie), Ecce Homo (Londra, National Gallery), Martirio dei Santi Flavia e Placido (Parma, Galleria nazionale). Nel 1520 è di nuovo chiamato a Parma, stavolta per decorare l'abside (che sarà abbattuta nel 1587) e la cupola di San Giovanni Evangelista con Ascensione di Cristo. I lavori per questa commissione durano un triennio. Alla fine si grida al miracolo. Intanto, la cupola è stata affrescata non più suddivisa in tanti scompartimenti, come usava a quei tempi, ma mediante un'unica composizione. Inoltre, le figure, per il senso audace dello scorcio e del loro moto vorticoso, raggiungono un effetto molto singolare di prospettiva aerea. Correggio sarà imitato nei secoli successivi per la sua tecnica intesa a dare ai fedeli, raccolti nella navata sottostante, l'illusione che la cupola si fosse spalancata sulla visione della gloria dei cieli. La padronanza degli effetti di luce gli consente di riempire la volta di nubi illuminate dal sole e fra le quali paiono librarsi stuoli celesti, con le gambe penzoloni. La figura di Cristo sembra quasi risucchiata nel vuoto. Per usare un'espressione moderna: «pedala nel vuoto», cioè partecipa con lo scorcio delle gambe (ma anche delle braccia) al moto e alla prospettiva delle figure in basso, con la veste chiara svolazzante nella luminosità delle nubi e del cielo. Intanto stende il contratto per la decorazione pittorica della cupola del duomo, sempre a Parma, sul tema Assunzione della Vergine. È la prima risposta del mondo cattolico latino ai fermenti della Riforma, che con Lutero e Calvino esige tra l'altro l'abolizione del culto della Madonna. Chiede e ottiene un compenso di mille ducati d'oro. Il contratto viene firmato con grande solennità e alla presenza di molti testimoni, tanta era la convinzione che ne sarebbe scaturito una sorta di prodigio pittorico. I diametri dell'opera nel suo complesso sono di metri 10,93 e 11,55. Si tratta in sostanza di affrescare una superficie pari a circa 250 metri quadrati. I lavori iniziano effettivamente nel 1526 e si concludono nel 1530, date entro le quali risultano effettuati, secondo documenti giunti sino a noi, i pagamenti previsti. Il maestro riprende qui l'impianto compositivo già messo a fuoco per affrescare la cupola della chiesa di San Giovanni Evangelista moltiplicandolo e complicandolo. Dopo aver aumentato, dando loro la forma di grandi conchiglie, la cavità e lo slancio dei pennacchi (strutture portanti della cupola), nasconde gli spigoli del tamburo ottagonale dietro grandi figure dipinte di scorcio. Figure che hanno le vesti agitate dal vento: l'insieme dà la sensazione di una rotazione sempre più rapida dei giri alternati di figure e di nuvole. Tra queste nubi i personaggi sembrano letteralmente nuotare muovendo con forza le gambe e le braccia. Un altro accorgimento consiste nell'accentuare il chiaroscuro sfumato dei corpi la cui sostanza viene a imparentarsi con quella soffice e luminosissima delle nuvole. Insomma, se Raffaello e Michelangelo contengono le figure e lo spazio entro precisi ordini architettonici, il Correggio rovescia qui l'ideologia del tempo: inventa cioè uno spazio dominato dalla luce e dal movimento, dipingendo per primo non solo le figure ma l'aria che si interpone tra queste e l'occhio.

Il commento ammirato del grande Tiziano

Correggio ha l'audacia e la personalità del precursore, la cui influenza è destinata a durare a lungo nel tempo (il barocco, per esempio, guarderà più a lui che a Raffaello). «Mai in nessun tempo è stato rilevato» e «in nessun paese la pittura aveva raggiunto altrettanti movimento, varietà e coraggio d'atteggiamenti». Ma non tutti comprendono, non subito. Un canonico del duomo riferendosi alla danza frenetica degli angeli che la luce del paradiso sembra strappare verso gli abissi celesti la paragona a un disgustoso «brodetto di rane». Eppure il contemporaneo Tiziano passando per Parma al seguito dell'imperatore Carlo V dopo aver ammirato la volta dice ai cittadini che lamentano il prezzo pagato: «Rovesciate la cupola, riempitela d'oro e non sarà pagata abbastanza». Mentre all'incirca due secoli e mezzo più tardi il famoso tipografo-editore Giambattista Bodoni propone questa immagine: «Il Correggio cammina a grandi passi sull'orlo del precipizio, senza tema di sdrucciolare e di cadere».

Come attirare l’attenzione dello spettatore

Nella parte finale della sua non lunga esistenza il Correggio continua anche la pittura di cavalletto. Accanto a soggetti religiosi come La Madonna di San Giorgio (Dresda, Pinacoteca) dipinge per il duca Federico Gonzaga di Mantova la famosa serie mitologica dedicata agli amori di Giove: Antiope (Parigi, Louvre); Ganimede, Io (Vienna, Kunsthistorisches Museum); Danae (Roma, Galleria Borghese); Leda (Berlino, Staatliche Museun).Il nucleo principale dei quadri religiosi e dei dipinti mitologici appartiene allo stesso periodo delle due cupole. E come nelle due cupole, ma con tecnica ancora più elaborata, il maestro cerca di attirare l'attenzione dello spettatore «trasportandolo» nello spazio pittorico: facendo affiorare al piano-limite figure che poi sfuggono con rapido scorcio verso l'interno in uno spazio reso come sdrucciolevole dalle prospettive rapide, dall'atmosfera morbida dello sfumato, dai colori cangianti. Dall'interno proviene anche il sentimento, l'amore, impulso degli uomini verso gli altri uomini o verso Dio (non c'è confine tra i due tipi di amore). Un concetto, questo, che ha le sue origini nelle teorie leonardesche (i moti del corpo in relazione e sintonia con i moti della mente) e che sarà sviluppato in epoca barocca soprattutto dal Bernini. Il Correggio fa appena in tempo a esprimersi compiutamente, a concludere il messaggio antesignano della sua magica pittura. Nel 1534, quando ha soltanto 45 anni, rimane vittima di una disavventura che il Vasari collega maliziosamente alla sua avarizia. Dunque: il maestro riceve in Parma un sacco di monete in pagamento di un'opera e subito si affretta al paese dove lo attendono delle scadenze economiche. A piedi, carico, sotto il solleone. Strada facendo, accaldato, si ferma più volte alla fontana in cerca di ristoro. Giunto a casa, viene colto da una febbre violenta e si mette a letto con il corpo squassato dai brividi. Non si riprenderà più. Spira nel volgere di pochi giorni dopo aver raccomandato Pomponio, il suo unico figlio, agli anziani genitori. Le cronache riferiscono di funerali piuttosto miseri avvenuti il giorno 6 del mese di marzo e della sepoltura nella chiesa di San Francesco. Ma della sua salma i posteri non troveranno traccia alcuna.

      Filippo Lippi

 

Pronuncia i voti nel 1421 nel convento di Santa Maria del Carmine a Firenze, e vi rimane dieci anni. Il suo esordio come pittore risale probabilmente al 1432, anno in cui realizza l'affresco Conferma della regola dei Carmelitani, in cui l'artista mostra di seguire gli insegnamenti di Masaccio e di Masolino da Panicale; l'influenza di quest'ultimo è ancor più evidente nella Madonna Trivulzio, anch'essa del 1432, conservata al museo del Castello Sforzesco a Milano, nel quale l'uso vigoroso del colore sostiene il plasticismo delle figure. Nel 1434 è attivo a Padova, per attendere a un nuovo lavoro andato perduto, nella Basilica del Santo. La Madonna di Corneto Tarquinia (1437, Museo di palazzo Barberini, Roma) e la Pala Barbadori (1437-38, Louvre), al contrario dell'affresco della Consegna, hanno uno sfondo cupo, che ricorda le opere degli artisti fiamminghi, e il cui stile è ancora vicino a quello delle opere veneziane tardogotiche. Ma l'interpretazione dei volumi attraverso il filtro cangiante dei colori e delle linee dinamiche, segna, rispetto a Masaccio, l'evoluzione che farà di Lippi uno dei più grandi artisti del suo tempo. Tale sviluppo si coglie decisamente nell'Incoronazione della Vergine (1441-47, Uffizi, Firenze), in cui il ritmo decorativo si impone sui volumi. Nel 1447, in seguito a una commissione della signoria fiorentina, Lippi realizza l' Apparizione della Vergine (National Gallery, Londra), dai colori vivaci che traducono un naturalismo ancora vicino a quello del Beato Angelico. Nel 1452 Lippi viene nominato cappellano nel convento di San Niccolò di Frieri a Firenze: vi dipinge il tondo con la Madonna col Bambino e storie di sant'Anna (Palazzo Pitti, Firenze). Entra così nel periodo più fecondo della propria vita artistica: sostituendo il Beato Angelico, esegue la decorazione della cappella maggiore del duomo di Prato con gli affreschi delle Storie di santo Stefano e di san Giovanni Battista (1452-64), coadiuvato da fra' Diamante (1430-98). Questo lavoro, interrotto più volte, impegnerà Filippo Lippi sino al 1464. Qui l'artista si dimostra maestro nell'uso del linguaggio plastico, conferendo alla Morte di santo Stefano un coerente equilibrio spaziale. L'abilità nella narrazione drammatica che traspare nella Pietà (Museo Poldi Pezzoli, Milano), permette di datare a questo stesso periodo di grande attività e successo tale opera. Alla piena maturità appartengono le due Adorazioni del Bambino conservate agli Uffizi e la Madonna del Museo Mediceo di Firenze. Nel 1458, Lippi completa il lavoro incompiuto di Francesco Pesellino (1422-57) della predella della Trinità di Pistoia (National Gallery, Londra). La ricerca della bellezza pura e di una lirica spirituale segnano gli ultimi lavori di Filippo Lippi, come testimonia la Madonna col Bambino e due angeli degli Uffizi, ove la Vergine, davanti a una finestra aperta, si staglia sullo sfondo di un paesaggio minuziosamente descritto. La sua attività artistica si chiude con gli affreschi delle Storie della Vergine nell'abside del duomo di Spoleto, iniziati nel 1467 e nei quali si preannuncia la lirica di Botticelli e del figlio, Filippino.

      Giotto

 


Considerato il padre della nuova pittura dopo il conservatorismo bizantino, Giotto nacque da Bondone, poverissimo «lavoratore di terra». Vasari, primo scrittore di biografie di artisti, nelle sue Vite, (1555, 1568), racconta che all'età di dieci anni gli furono affidate in custodia dal padre alcune pecore ed egli, spinto da una naturale inclinazione, andava tracciando vari disegni sulle pietre o in terra. Un giorno passò dalle sue parti Cimabue che lo vide intento a ritrarre una pecora; stupito dalla sua bravura chiese al padre di poterlo condurre con sé a Firenze nella sua bottega. Questo racconto, preso dai Commentari, (1447-55) di Ghiberti, sembra una favola, tale da confermare e sottolineare la fama di un artista che da umili origini salì per merito del proprio ingegno a grandi altezze. In un Commento anonimo della Divina Commedia scritto alla fine del XIV secolo, pubblicato a Bologna (1866-74), si legge invece che il padre di Giotto l'aveva messo a bottega per apprendere l'Arte della lana. Egli, invece di recarsi al lavoro, andava nella bottega di Cimabue dove infine rimase per le pressioni del maestro e con il consenso paterno. L'anonimo ne sottolinea anche l'eloquenza con un altro episodio. Mentre Giotto dipingeva a Bologna, un cardinale lo andava a trovare spesso intrattenendosi con lui. Un giorno gli domandò come mai si ritrassero i vescovi con la mitra. Giotto rispose che le due corna dimostravano che i vescovi dovevano conoscere il Vecchio e il Nuovo Testamento. Il cardinale compiaciuto gli domandò allora il significato delle due bende che pendevano dietro il copricapo liturgico; e Giotto, accortosi della trappola, rispose che esse significavano l'ignoranza che a quel tempo dimostravano i pastori della chiesa e del Nuovo e del Vecchio Testamento. Questi aneddoti sul suo ingegno e sulla sua abilità rientrano nelle leggende che Firenze stessa diffuse sulla fama di Giotto manifestando l'orgoglio comunale per la grandezza di questo suo cittadino.
Consapevolezza di un'arte nuova
I contemporanei si convinsero immediatamente dell'importanza della sua pittura. Dante nella Divina Commedia celebra l'amico con la nota terzina: «Credette Cimabue nella pittura/ tener lo campo, e ora ha Giotto il grido/ si che la fame di colui oscura» (Purgatorio, XI, 94-96). Boccaccio nel Decameron (1349-53) dice che per merito di Giotto «quella arte ritornata in luce, che molti secoli sotto gli error d'alcuni, che più a dilettar gli occhi degli ignoranti che a compiacere allo 'ntelletto de' savj dipingendo, era stata sepulta» (Novella V, giornata VI). È questo un esplicito riconoscimento della lucida coscienza di una nuova era, opposta al mosaico bizantino, tutto luce e oro, che affascinava chi non si lasciava guidare dalla ragione ma solo dal piacere della vista. Nella Lettera ai posteri (1370-71) Petrarca afferma che la bellezza dell'arte di Giotto si comprende più con l'intelletto che con gli occhi. Cennino Cennini con chiaro senso critico scrive che «Giotto rimutò l'arte del dipingere di greco in latino e ridusse al moderno; ed ebbe l'arte più compiuta che avesse mai più nessuno» (Il libro dell'arte 1370), rifiutando quindi la tradizione bizantina (greco) per adottare un linguaggio moderno fondato sulla cultura latina Per Filippo Villani, nel libro che scrisse in lode di Firenze (1381-82), Giotto è diventato uguale per fama ai pittori antichi e anche superiore, affermandone il valore assoluto e determinandone il carattere, che è significato dalla sua cultura storica e dal suo desiderio di gloria: segni evidenti della sua modernità. È da tutti accettato che Giotto fu discepolo di Cimabue e in poco tempo non solo eguagliò lo stile del maestro, ma lo superò allontanandosi dai modi ieratici e statici della pittura precedente per ritrarre le figure con più naturalezza e gentilezza. Fu Lorenzo Ghiberti nel Commentario secondo a scrivere infatti che egli «lasciò la rozzezza de' Greci... arrecò l'arte naturale e la gentilezza con essa, non uscendo dalle misure». Abbandonò quindi la rigidità d'espressione dell'arte bizantina proponendo una novità che non esce però da un senso di misura morale, che non lascia cioè esasperare i sentimenti. La sua naturalezza non significa osservazione diretta del vero; essa «è recuperata dall'antico attraverso il processo intellettuale del pensiero storico» (G. C. Argan). La lezione non propone quindi modelli da seguire, ma è esperienza storica da rivivere nel presente. Nonostante la coscienza di un'arte nuova, E. H. Gombrich fa rilevare che Giotto nei suoi metodi è molto debitore dei maestri bizantini, e nelle finalità e negli orientamenti della sua arte deve molto anche agli scultori delle cattedrali del Nord, cioè la sua novità è pur sempre inserita in un divenire storico.
Gli affreschi della cattedrale di Assisi
Non si hanno notizie certe sulle prime attività di Giotto. Negli affreschi della basilica superiore di San Francesco ad Assisi per esempio, nella parte alta della navata, le storie dell'Antico e del Nuovo Testamento mostrano una qualità pittorica così diversa, una sintesi tra l'esperienza lineare di Cimabue e il colore plastico di Pietro Cavallini, che la critica ha creduto di riconoscervi il giovane Giotto. Subito dopo il 1296 il nuovo ministro generale dei Francescani, fra' Giovanni di Muro, lo chiamò a dipingere nella chiesa superiore affidandogli l'incarico del ciclo delle Storie di San Francesco (1296-1300) nella parte inferiore della navata. Sono 28 riquadri sottostanti le finestre che si rifanno alla Leggenda maior di san Bonaventura come tema e come ispirazione. L'episodio di L'omaggio dell'uomo semplice che «ispirato da Dio», ogni volta che incontrava Francesco subito stendeva ai suoi piedi il mantello, proclamando che sarebbe diventato un giorno degno di ogni riverenza», mostra sullo sfondo la Torre del popolo di Assisi incompiuta, particolare prezioso per la datazione di questo ciclo di affreschi poiché essa fu terminata nel 1305. Giotto narra gli episodi più popolari della vita di Francesco, come Il dono del mantello al povero: «Or avvenne che si incontrò con un cavaliere nobile, ma povero e malvestito; mosso a compassione, spogliatosi lo rivestì»; Il miracolo della fonte: «Trovandosi il Santo su un arido monte con un povero stremato dalla sete, mosso a compassione, implorò e ottenne dell'acqua fresca e zampillante da una roccia; La predica agli uccelli: «Un'altra volta incontrando una moltitudine di uccelli, salutandoli li esortò: «Fratelli miei uccelli, lodate grandemente il vostro creatore che vi diede penne per volare e vi concesse di dimorare nella limpidezza dell'aria e nei cieli»». Ma il pittore trasferisce con una nuova dimensione lo spazio e l'umanità dei personaggi nella concretezza della vita quotidiana dando spazio reale al leggendario. L'azione non si esprime in gesti concitati, ma in un equilibrio che riporta alla classicità. Lo spazio è costruito e disposto in tutto il riquadro e l'azzurro del cielo ne è suggello. Non c'è tra le varie storie una continuità di narrazione: ogni rapporto consiste tra lo spazio del dipinto e quello architettonico della navata. Le città medievali con gli edifici e i personaggi reali negli abiti del tempo di Giotto, appaiono in La rinuncia ai beni paterni: «L'amante vero della povertà non indugiò un minuto. Eccolo dinanzi al Vescovo. In un baleno, alla presenza di tutti si spoglia e ridona le vesti a suo padre»; in La cacciata dei demoni da Arezzo: «Trovandosi ad Arezzo quando la città era tutta sconvolta da lotte, vide demoni esultanti che incitavano i cittadini all'odio. Mandò allora frate Silvestro alla porta della città perché li cacciasse. Questi cominciò a gridare: «In nome di Dio, via di qui demoni tutti»; in La predica dinanzi a Papa Onorio III: «una volta, indotto dal Signore di Ostia, il Santo aveva imparato a memoria un discorso con tutti gli artifici della retorica da recitare al cospetto del Papa e dei cardinali. Quando però si trovò in loro presenza, dimenticò tutto. Allora sorridendo, confessato pubblicamente com'erano andate le cose, invocò lo Spirito Santo, ed eccolo pronunziava parole così efficaci da commuovere i presenti»; in L'improvvisa morte del cavaliere di Celano: «Un giorno il Santo fu invitato a pranzo da un cavaliere. Entrato nella casa, prima di prender cibo Francesco compì la preghiera e rimase un po' con gli occhi al cielo. Tornato in sé, chiamò in disparte l'ospite dicendogli:«Ecco, fratello, ascolta prontamente i miei consigli, giacché non è qui che mangerai. Confessa i peccati pentendoti». Il cavaliere obbedì, mise in ordine la sua casa e si preparò. Sedutisi a tavola d'improvviso spirò; secondo la parola del Santo». I vari episodi della vita di Francesco sono descritti in modo tale che rivelino la storia: la realtà borghese e mercantile della Firenze dell'Arte della lana e dei banchieri; la Chiesa che, travagliata da crisi interne, aveva bisogno di un nuovo spirito evangelico: Francesco ripara la mia casa, sono le parole del Crocifisso a Francesco: «mentre era presso la chiesa di San Damiano che decrepita minacciava di crollare». Tuttavia non è quell'edificio ma la Chiesa di Roma ad aver bisogno di lui, così come in Il sogno di Papa Innocenzo III: « papa Innocenzo III vide in sogno la basilica del Laterano sul punto di crollare, e un tale, un poverello che la sosteneva con le sue spalle perché non cadesse». L'apparizione al capitolo di Arles: «Ai capitoli provinciali Francesco non poteva essere presente di persona, ma inviava sollecite direttive. Qualche volta vi compariva però in forma visibile», rivela ormai la stabilità dell'Ordine fondato dal Santo che preferì invece l'umiltà di una vita vissuta secondo il Vangelo preso alla lettera. Il presepe di Greccio: «Onde però non esser tacciato di stranezze, chiesta licenza al Papa, fece allestire un presepe con fieno e accanto un bue e un asino. Un cavaliere affermò di aver veduto nella greppia un fanciullo addormentato e Francesco che lo spingeva fra le braccia»; La prova di fuoco davanti al Sultano: «Meravigliato di tanto ardire, chiese da chi fosse stato mandato. Il Poverello rispose che non un uomo, ma Dio stesso lo inviava»; Francesco riceve le stigmate: «Pregando lassù al monte della Verna, vide Francesco il Cristo in aspetto di Serafino crocefisso il quale gl'impresse nel corpo le stigmate della passione. Queste scene vogliono rappresentare dei fatti storici di un Santo che ebbe un ruolo storico ben stabilito in una realtà precisa e individuabile. A questo stesso periodo appartiene il dipinto su tavola con il Cristo crocifisso (1296-1300) per la chiesa di Santa Maria Novella a Firenze ormai lontano dagli schemi iconografici bizantini del maestro Cimabue e più teso invece alla rappresentazione naturale del dolore fisico.
L'attività' nella capitale e a Padova
Nel 1300 Giotto si recò a Roma chiamato dal papa Bonifacio VIII in occasione del giubileo. Vi dipinse un affresco nella basilica di San Giovanni in Laterano con la scena del papa che indice l'anno giubilare; compose un mosaico per la facciata di San Pietro con la Navicella degli Apostoli, opere che purtroppo sono entrambe pervenute in maniera frammentaria e in pessime condizioni per i vari rifacimenti delle due chiese. A Roma Giotto tornò più volte; nel frattempo la sua fama gli procurava importanti commissioni. Enrico degli Scrovegni lo chiamò a Padova per decorare le pareti della cappella (1303-10), che egli aveva fatto costruire sui ruderi della arena romana, dedicandola alla Madonna della Carità in espiazione delle colpe del padre che era stato finanziere e usuraio, tanto famoso da essere ricordato da Dante nel canto XVII dell'Inferno. I muri nudi della cappella, privi di membrature architettoniche, presenti invece nella basilica di Assisi, furono ricoperti interamente da dipinti: sulle pareti, le Storie della Vergine e di Cristo con i vari episodi dalla Cacciata di Gioacchino dal tempio fino alla Pentecoste, sono disposte su tre ordini sovrapposti, incorniciate da fasce dipinte con medaglioni di santi e profeti, al di sopra di uno zoccolo con riquadri di finto marmo, alternati a figure allegoriche di Virtù e Vizi. La volta a botte, azzurra e stellata, accoglie altri tondi; nella controfacciata la scena del Giudizio finale con il ritratto di Enrico Scrovegni che offre alla Madonna il modello della cappella. Fra gli affreschi dell'arco trionfale, disposti simmetricamente, vi sono dipinti due spazi senza figure, detti coretti o cappelle segrete che nella finzione di due vani coperti a crociera danno l'illusione della profondità spaziale. Una conquista senza paragoni che era già stata tentata negli affreschi di Assisi: Il presepe di Greccio infatti, con i vari elementi del ciborio e del leggio da una parte e l'ambone e il crocifisso dall'altra, vogliono appunto suggerire la profondità dello spazio. La ricerca giottesca a Padova si approfondisce in valori spaziali e plastici: le figure dipinte ricordano le sculture gotiche poiché su una superficie piatta egli crea con i colori graduati dalla luce l'illusione della profondità. Nel Compianto su Cristo morto la scena è descritta in modo tale che allo spettatore sembra di essere testimone di un fatto vero i cui personaggi rivelano l'intensità drammatica e si muovono in uno spazio libero e reale, pur senza trascendere il senso di misura. La continuità fra Antico e Nuovo Testamento trova il suo punto espressivo nel rapporto tra la Madonna e il Cristo; ma per Giotto è anche il punto culminante della storia dell'umanità cui la presenza reale di Cristo pone l'alternativa morale del bene e del male, come sottolinea Argan. Per far fronte ai numerosi lavori Giotto si avvaleva di aiuti ai quali talvolta affidava la stesura pittorica, riservandosi però le parti più importanti e difficili. Così l'invenzione resta sua e la novità è immediatamente rivelabile come nella Maestà degli Uffizi (1305-10), proveniente dalla chiesa Ognissanti. Non c'è più il tono distaccato, ieratico delle Madonne bizantine, ma l'umanità e la realtà fisica della Vergine.
Le ultime opere di Giotto
Firenze rimase pur sempre il centro dell'attività di Giotto nonostante le sue permanenze a Roma, Assisi, Rimini e Padova. Nel 1328 si recò anche a Napoli e quindi a Milano (1335-36), ma non resta più traccia della sua opera anche se gli furono attribuiti molti lavori data la fama e la sequela di vari artisti che si rifecero al suo stile. Molti dipinti su tavola riportano anche il suo nome ma sono completamente o in parte opere di bottega. Le fonti, fra cui quella di Vasari, riportano la notizia di affreschi per quattro cappelle nella Chiesa di Santa Croce a Firenze. La decorazione di due di esse è andata completamente distrutta, mentre, nonostante i vari restauri, restano in condizioni non certo ottimali gli affreschi della cappella Peruzzi con le Storie di san Giovanni Battista e san Giovanni Evangelista (1315-20) e quelli della cappella Bardi con Storie di san Francesco (1325). Anche questa volta i committenti, i Bardi e i Peruzzi, ricchi banchieri fiorentini, sono rappresentanti altolocati della società del tempo e le opere sono senz'altro di alta qualità. La lezione di colore appresa nel Veneto ormai è una sicura acquisizione che Giotto approfondisce fondendola con la visione spaziale che conferisce un senso di serenità e coralità al tempo stesso. Negli affreschi della cappella Bardi egli riprende il tema di Assisi con maggiore commozione umana comunicandolo in un linguaggio pittorico che da poesia si fa prosa.
Il campanile di Santa Maria del Fiore

Nel 1334 Giotto, che aveva già dimostrato interesse e una certa competenza in campo architettonico, avvertibile anche in alcuni affreschi, fu nominato magister et gubernator dell'Opera del duomo e il suo interesse si appuntò sulla costruzione del campanile accanto alla cattedrale. Egli progettò il modello, «che fu di quella maniera tedesca che in quel tempo s'usava, disegnò tutte le storie che andavano nell'ornamento, e scompartì di colori bianchi, neri e rossi il modello in tutti que' luoghi, dove avevano a andare le pietre e i fregi, con molta diligenza» (G. Vasari, Vite). L'idea fu completamente nuova rispetto ai modelli tradizionali e, nonostante la morte di Giotto che ne diresse personalmente la costruzione fino alla prima cornice, la torre con gli spigoli sottolineati dai torrioncini poligonali e l'apertura progressiva e finale verso l'alto delle bifore fu compiuta successivamente da Francesco Talenti. Al riguardo di quest'opera è interessante l'annotazione dell'anonimo del XIV secolo, secondo il quale Giotto vi commise due errori: «L'uno che non ebbe ceppo da piè, l'altro che fu stretto»; perciò si afflisse tanto che si ammalò e morì. Villani ne registra la morte di ritorno dal suo viaggio a Milano, presso Azzone Visconti, dove era stato inviato dal Comune di Firenze.

Vincent Van Gogh

 


L'immagine del genio folle e sfortunato che avvolge una certa idea dell'arte e degli artisti, ha trovato in Van Gogh una delle incarnazioni più convincenti. La sua vita, tragica e breve, è stata trasformata in mito da una copiosa letteratura. È vero però che, figlio di un pastore protestante, con una madre portata per le lettere e le arti, cerca di realizzarsi, prima nella religione poi nella pittura, con una intensità dolorosa e violenta che arriva al parossismo.
Dopo un'infanzia taciturna e sognatrice, deve mettersi a lavorare (1869) e trova un lavoro all'Aia, poi a Londra e a Parigi, presso un mercante d'arte che lo licenzia nel 1876. Si sente chiamato a una missione più alta, ma anche più dura: si mette al servizio di un altro pastore di un quartiere popolare di Londra, poi, dopo essersi cimentato negli studi teologici, viene mandato nel Borinage come predicatore, presso una comunità di minatori. Spingendo la dedizione fino all'estremo sacrificio, raggiunge il fondo della sua crisi interiore e rinuncia all'incarico, disapprovato dalla Chiesa (1879). Rivolge allora tutte le sue energie al disegno, cercando attraverso ritratti e paesaggi di nature morte la verità sull'uomo e sulla sua condizione disperata.
Gli inizi, 1880-85
Comincia con fiducia il suo apprendistato di artista, aiutato finanziariamente e moralmente dal fratello Thèo (1857-91), con il quale intrattiene una corrispondenza eccezionale, sia per l'abbondanza sia perché rivela la sua sensibilità, i suoi pensieri, la sua esistenza e il suo modo di lavorare. Oltre allo studio di raccolte di incisioni e di opere tecniche, copia le opere di Millet e ne riprende incessantemente i temi (il seminatore), acquisisce l'arte dei maestri fiamminghi e olandesi e le leggi della prospettiva, disegna in modo naturalistico (presso i suoi genitori, a Etten, nel 1881) paesaggi, strumenti agricoli, laboratori artigiani e ritratti. Questo ardore nel lavoro è dovuto a un crescente sconforto: dopo una crudele delusione sentimentale con sua cugina Kee, una violenta disputa con il padre (Natale 1881) e la sua partenza per L'Aia (dove un parente, il pittore Anton Mauve [1838-88], lo inizia alla pittura a olio), ha una relazione con una prostituta, da lui vista come incarnazione del declassamento che corrisponde alla sua volontà di rottura. Passato il periodo dell'entusiasmo l'avventura termina, nel 1883, nella solitudine, nel cuore della selvaggia regione della Drenthe; poi, con l'avvicinarsi dell'inverno, a Nuenen presso i suoi genitori. Qui, riprende le sue letture, specialmente Zola, e il suo lavoro, con figure di contadini, con serie di scene con personaggi (tessitori ricurvi nella penombra sul loro telaio) e di nature morte. Le tematiche, le modalità di composizione, l'amore dei dettagli e dei volumi squadrati da luci violente indicano il suo ritrovare la lezione del realismo olandese ( Mangiatori di patate, 1885, Museo Van Gogh, Amsterdam). Ma presto, sotto l'influenza di Rembrandt, Hals, Delacroix, Chardin (che egli avvicina a Vermeer) e soprattutto di Rubens (scoperto ad Anversa nel 1885), per il giovane pittore il problema del colore diventa fondamentale: rischiara la sua tavolozza, addolcisce il suo stile e, contemporaneamente, privilegia il ritratto. A Parigi può, tuttavia, trovare, oltre alla presenza del fratello Thèo, che lo rassicura, un clima di fermento artistico che lo stimolerà in modo decisivo. Vi arriva, all'inizio del 1886, già libero dagli obblighi dall'apprendistato.
Parigi, 1886-87
Il soggiorno a Parigi, è quello delle scoperte: quando vengono pubblicati Les illuminations di Rimbaud e l'Oeuvre di Zola, gli impressionisti fanno nel 1886 la loro ultima esposizione (la Grande Jatte di Seurat è accanto alle tele di Signac, Pissarro, Redon, Degas, Gauguin, Guillaumin); l'anno seguente, l'opera di Millet è oggetto di una retrospettiva. È anche il momento degli incontri e delle amicizie fruttuose: nel laboratorio di Fernand Cormon (1845-1924), dove lavora in base a modelli viventi e a gessi, Vincent si lega a Toulouse-Lautrec, a Louis Anquetin (1861-1932) e a Emile Bernard (1868-1941). Con Pissarro impara le nuove idee sulla luce e il trattamento divisionista del colore. Tramite Thèo, conosce Gauguin, mentre tramite il pére Tanguy, la cui bottega di colori racchiude anche opere come quelle di Cézanne, si lega a Signac. In questo ambiente creativo, i mazzi di fiori ispirati da Adolphe Monticelli (1824-86) seguono presto gli studi accademici e i paesaggi passano dai marroni compatti e dai grigi vaporosi ai colori puri. Nelle vedute di Montmartre, così caratteristiche con le viuzze in pendenza, i riverberi e i mulini a vento, la vibrazione luminosa acquisita dall'impressionismo arricchisce la sensibilità grafica propria di Vincent (Montmartre, Stedelijk Museum, Amsterdam). Con la tecnica divisionista, cerca il suo personale approccio al colore (Interno di ristorante, 1887, museo Kroller-Muller, Otterlo), e allo stesso tempo cerca nei sobborghi parigini e presso gli argini della Senna gli stessi motivi di Signac e di Emile Bernard. Abbandona a poco a poco la frammentazione impressionista e tende a semplificare la forma e il colore per concentrarsi meglio sull'unità strutturale della superficie e per mantenere la caratterizzazione espressiva degli oggetti (Natura morta con libri e gesso, 1887, Otterlo). In questa direzione, nella ricerca di uno stile veramente personale, l'influenza della stampa giapponese, tanto ammirata e copiata da Vincent, segna una tappa importante. Se ne ritrova la presenza nel ritratto del pére Tanguy (1887, Museo Rodin, Parigi), il cui sfondo è completamente tappezzato con queste stampe. Il ritratto, genere prediletto da Van Gogh, trova il suo profondo significato nei numerosi autoritratti, contemporaneamente analisi di se stesso e bilancio della sua arte (Museo nazionale Vincent van Gogh). In questo soggiorno parigino, fondato sulla fraternità senza contrasti tra Vincent e Thèo, il prossimo matrimonio di Thèo getta un'ombra di ambiguità. Vincent preferisce lasciare Parigi, trovando una scusa nell'attrazione che esercita su di lui la Provenza, già sognata attraverso le tele di Monticelli e di Cézanne, le opere di Zola e di Alphonse Daudet. Nel 1888 si stabilisce ad Arles.
La Provenza, 1888-90
Affascinato dalla natura provenzale, Vincent ne sposa il ritmo e le stagioni nelle serie successive dei Frutteti (dipinti nel rosa e nel bianco), delle Mietiture (nei gialli aranciati) e dei Giardini (nei verdi). L'inverno scompare davanti al trionfo dell'estate: lo splendore del sole, la fascinazione violenta dei gialli costituiscono la scoperta fondamentale. In questo chiarore torrido del Mezzogiorno dove la realtà delle cose appare senza il velo atmosferico che altrove le avvolge, l'arte della stampa giapponese subisce una vera trasmutazione (Il ponte di Langlois, maggio 1888, Wallraf-Richartz Museum, Colonia e altre versioni). Gli stessi disegni, attraverso la loro eccezionale qualità pittorica arrivano con semplici elementi a trascrivere la trama della colorazione luminosa degli oggetti. La rapidità di esecuzione, che gli sembra indispensabile, richiede a Vincent una grande tensione che egli tiene alta - per «meditare il colpo» - con il caffé e l'alcool. Raggiunge presto un livello di sovraffaticamento che influirà pesantemente sulla crisi imminente. Ripone tutte le sue speranze nella «casa gialla» che ha affittato per creare l'associazione degli artisti che sogna fin dall'Olanda. Per mediazione di Thèo, invita Gauguin a stabilirsi con lui, ma la loro grande diversità, mirabilmente espressa nel contrasto tra La sedia di Van Gogh (con pipa) [Tate Gallery, Londra] e La sedia di Gauguin (con libri e candela) [Museo nazionale Vincent van Gogh] , sfocia nella notte di Natale del 1888 in un grave alterco. Sconvolto, Vincent si amputa il lobo dell'orecchio sinistro e lo offre a una prostituta che frequenta. Curato in ospedale, si ristabilisce e dipinge ancora parecchi quadri, come il suo Autoritratto del gennaio 1889, col capo bendato (1889, collezione Block, Chicago). Internato per un certo periodo in seguito a una petizione, attanagliato dall'angoscia e dalla solitudine all'annuncio del matrimonio del fratello, pensa al suicidio e preferisce farsi ospedalizzare lui stesso a Saint-Rèmy-de-Provence. Il periodo di Arles rimase sotto la duplice influenza del blu e del giallo, cielo e terra sotto il sole dei precedenti Covoni (1885, Otterlo) o notte illuminata dalle stelle della Notte stellata sul Rodano (1888, collezione Moch, Parigi, che Vincent dipingerà con una corona di candele intorno al cappello), o ancora scene notturne dove le passioni umane si esprimono in ciò che hanno di più esasperato dallo sconforto (Caffé di notte, 1888, Yale University Art Gallery, New Haven). Il punto estremo di questa tensione e allo stesso tempo di questa ebbrezza è raggiunto nella serie dei Tornasole, trattati senza ombre né modellati, con gialli spinti al limite estremo: il pittore diviene colui che si avvicina al fuoco solare e che, in questo stesso modo, si brucia e si consuma. Come nei ritratti, dove i toni verdi creano una certa temperanza ( L'Arlesiana, Metropolitan Museum of Art, New York), il colore unito strettamente alla luce, incarna la presenza reale delle cose e il loro destino spirituale. Dopo l'arrivo di Vincent a Saint-Rèmy, nel 1889, la malattia, ma anche il carattere tormentato della Provenza delle Alpille e di Baux portano modifiche nel suo stile. Il tocco si fa più veemente e furioso e le ocre tendono a sostituire i colori di Arles, ancora presenti nella seconda bellissima versione della Notte stellata (Museum of Modern Art, New York). Il lavoro di Van Gogh in ospedale dipende dal suo stato di salute e, a seconda che sia obbligato a rimanere in camera o autorizzato a uscire nella proprietà o anche ad andare a passeggiare, dipinge i cespugli di fiori del giardino, i campi scorti dalla finestra, gli ulivi e i cipressi della campagna circostante (Campo di grano con cipressi, National Gallery, Londra e altre versioni). Dopo la crisi che segue l'annuncio di una prossima nascita nella casa di Thèo, ricercando nel lavoro il «miglior rimedio alla malattia», esegue alcune copie in base a delle incisioni dei suoi maestri preferiti ( Pietà secondo Delacroix, Museo nazionale Vincent van Gogh). Nuovamente stroncato verso Natale, si raffigura nella Prigione (Il giro dei carcerati ) secondo Gustave Dorè (1890, Museo Puskin, Mosca). Vuole ancora sperare e credere in una ripresa quando nasce suo nipote Vincent (Rami di mandorlo in fiore, Museo nazionale Vincent van Gogh) e quando gli giungono buone notizie riguardo l'attenzione prestata alla sua opera (un articolo di Albert Aurier [1865-92] apparso nel «Mercure de France», su Vigneto rosso, la sola tela venduta quando è in vita, a Bruxelles). Ma quando i frutteti sono in fiore un altro incubo lo condanna all'inazione per due mesi. Ritornato in sé (la Resurrezione di Lazzaro, secondo Rembrandt, dove si riconosce il suo viso livido, Museo nazionale Vincent van Gogh), chiede di lasciare l'ospizio. Su consiglio di Pissarro, Thèo pensa al suo trasferimento presso il dottor Gachet, medico e amatore d'arte stabilitosi a Auvers-sur-Oise. Saint-Rèmy, periodo di crisi acuta, resta segnato dagli ulivi e dai cipressi di cui le fiamme e le torsioni trascinano cielo, terra e astri nello stesso movimento: Van Gogh è ossessionato da «le forme convulse e contorte, [...] un universo di tumulto e di tempesta nel quale si proiettano i suoi tormenti, come se le forze motrici del suo essere, inibite dalla malattia e dall'internamento, scoppiassero bruscamente in liberazioni angosciate» (Jean Leymarie). L'intensità non si concentra più nel colore, ma nel movimento delle forme, mentre un'armonia smorzata dai grigi e dalle ocre conferisce una risonanza tragica a tele come Il parco dell'asilo Saint-Paul (Saint-Rèmy 1889, Folkwang Museum, Essen).
Auvers-sur-Oise, 1890
Dopo un breve soggiorno a Parigi per rivedere Thèo, Vincent raggiunge Auvers-sur-Oise nel maggio 1890. Alloggia nella modesta pensione del Cafè Ravoux, frequenta il dottor Gachet, che lo invita e posa per lui. Appassionato di incisioni e amico degli artisti, Paul Ferdinand Gachet (detto Paul van Rijssel, 1828-1909), ha saputo attirare artisti come Cézanne, Guillaumin e Pissarro. L'ambiente e il clima fanno dimenticare a Vincent le sue recenti crisi e ritrova piena fiducia. Riprende i suoi temi rurali, con i campi, i giardini, le stoppie, le vedute del villaggio (La chiesa d'Auvers , museo del Louvre) in toni lattiginosi, verdi, viola e blu scuro. Disponendo di nuovi modelli ridà importanza ai ritratti. Una certa tensione si sviluppa fra Thèo e Vincent. E quando Thèo, di salute malferma, vuole condurre suo figlio convalescente e la moglie in Olanda, Vincent si sente abbandonato. L'artista esprime la sua tristezza e la sua estrema solitudine in immense distese di grano sotto dei cieli minacciosi, come Corvi sul grano (Museo nazionale Vincent van Gogh), la sua ultima tela. Domenica 27 luglio 1980, si avvia nei campi e si spara un colpo di pistola al petto, ma il colpo non lo uccide. Ritorna nella sua camera, dove viene trovato insanguinato. Sopravvive ancora due giorni, poi muore nella notte del 29 luglio, di una morte voluta in tutta coscienza. Senza entrare nelle diverse ipotesi mediche emesse sulla malattia di Van Gogh e che nascondono spesso l'essenziale, si può vedere nella sua opera l'intensa lotta condotta da un individuo contro un mondo che lo rifiuta, una società che produce, con l'industrializzazione e le sue conseguenze sociali conflittuali, l'asservimento e la distruzione dell'uomo. Chi altro poteva parlare meglio di Van Gogh, delle sue spaventose crisi di angoscia e della soffocazione umana, se non Antonin Artaud (Van Gogh , il suicida della società [ Van Gogh, le suicidè de l a sociètè ]). Distinguendosi dai freddi specialisti, Artaud ha saputo affermare che «un giorno la pittura di Van Gogh armata di calore e di buona salute ritornerà per gettare all'aria la polvere di un mondo oppresso che il suo cuore non poteva più sopportare».

       Leonardo

 


Le opere dipinte, disegnate, scritte di Leonardo rivelano tre aspetti della sua attività: l'arte, la ricerca scientifica, la tecnologia. Nelle sue carte non si legge purtroppo nulla della sua vita privata e dei suoi affetti; da altre fonti si ricavano notizie, in particolare da Giorgio Vasari che nelle sue Vite (1550; 1568) traccia la biografia di Leonardo offrendone un ritratto idealizzato. «Mirabile e celeste», infatti, definisce il figlio di ser Piero, notaio; in lui si trovano bellezza, grazia, virtù, forza, destrezza, valore e bontà, tali che nessuno gli fu pari. Accolto nella casa del padre di cui era «figliuolo non legiptimo» e della matrigna, lontano dalla madre, una certa Caterina andata poi sposa a Cattabriga o Accattabriga, dimostrò in modo precoce interesse a molte cose senza tuttavia portarne a termine alcuna. Frequentando poi la scuola di abbaco del paese, come riporta Vasari, apprese così in fretta, da confondere spesso con i suoi dubbi, le sue domande e le sue obiezioni il maestro stesso. Dopo il trasferimento a Firenze, il padre, constatata la sua costante passione per il disegno, lo mandò a bottega da Andrea del Verrocchio, suo amico, che era artista completo. Allora Leonardo doveva avere 17 anni e imparò tutte le nozioni che a quel tempo si richiedevano a un artista: scultura e pittura, ma anche architettura di chiese, di edifici, di mulini, di macchinari idraulici e per ogni tipo di lavoro. Non studiò il latino e i classici, cosicché a ragione Leonardo si definiva «uomo senza lettere» in una città, Firenze, dalla cultura neoplatonica e dedita alle arti «liberali», indirizzate cioè alla contemplazione della verità; si applicò invece alle arti «meccaniche», considerate all'epoca vili. In bottega egli apprese tutto quanto concerneva l'attività manuale e i precetti raccolti nel «libro di bottega», che in forma concisa e con discorso spezzato il maestro compilava a mano a mano annotandovi anche i fatti più salienti. Un modo che Leonardo fece proprio nelle sue carte e dal quale non poté mai distaccarsi, nonostante le sue speranze di organizzare tutto il materiale frammentario; qui il passaggio da un argomento all'altro, più che a una conoscenza febbrile, è imputabile al particolare modo di annotare i vari argomenti anche a lunghi intervalli di tempo gli uni dagli altri, senza poter ricordare quanto già scritto in precedenza.
Gli anni fiorentini del giovane Leonardo
Il suo apprendistato iniziò con la raffigurazione di «teste di femmine che ridono [...] e teste di putti», riproduzioni di sé stesso com'era nell'infanzia e repliche della madre, come interpreta Sigmund Freud nel suo saggio su Leonardo (1910), che mette in rilievo tre caratteristiche della sua personalità: l’insaziabile curiosità per l'investigazione scientifica e la sete di sapere che impedisce talvolta la sua attività artistica; la lentezza nell'esecuzione delle sue opere pittoriche; il rifiuto della sessualità, inconsueto in un uomo «piacevole nella conversazione, che tirava a sé gli animi delle genti», affabile e amante della bellezza e della vita raffinata. Il suo ingegno lo portava a non accontentarsi di una conoscenza superficiale della realtà, ma a dare valore all'esperimento e all'osservazione diretta: «I'esperientia» sola «è madre di ogni certezza». I suoi primi disegni nascono da questo metodo di lavoro: l'Arno (5 agosto 1473) che si restringe alla stretta della Gonfolina è un paesaggio osservato nelle sue singole componenti e ricreato nella sua suggestione atmosferica. In collaborazione con il Verrocchio dipinse una tavola con il Battesimo di Cristo (147075) in cui è ravvisabile la mano leonardesca nel paesaggio e nell'angolo di sinistra. Vasari racconta che questo fu dipinto così da superare l'abilità del maestro che non volle più toccare i colori, «sdegnatosi che un fanciullo ne sapesse più di lui». Certo il racconto è poco verosimile per alcuni elementi contraddittori, ma evidenzia il fatto che ben presto Leonardo mutò i consueti rapporti tra allievo e maestro: si può pensare che diventassero presto colleghi seppure con esperienze e fama differenti. Lo conferma il fatto che già dal 1472 il nome di Leonardo appare nella lista dei pittori di Firenze. Il primo dipinto di lavoro autonomo è l'Annunciazione (1475 c.ca), oggi conservata agli Uffizi, in cui però è ancora evidente l'influenza della scuola verrocchiana, come pure nell'altra Annunciazione, oggi al Louvre, che faceva parte della predella di un'opera dipinta da Lorenzo di Credi (1459‑1537), anch'egli a bottega dal Verrocchio. Molti critici sono concordi nel far rientrare in questo primo periodo il Ritratto di donna, che dovrebbe essere quello di Ginevra Benci, figlia di quel Benci al quale Leonardo dice di aver dato un suo libro e un mappamondo. Il rametto di ginepro sul retro della tavola sembrerebbe alludere al nome della giovane, ritratta su uno sfondo di alberi e di acque, dominato da una grande conifera in controluce. Pur lavorando autonomamente, Leonardo aveva continuato ad abitare con il Verrocchio fino al 1478, anno in cui gli fu commissionata una tavola per l'altare della cappella della Signoria. Invece di preoccuparsi di quest’opera, egli si dedicò ad altri dipinti il cui soggetto lo attraeva di più: la Madre e il Bambino, sui quali impostò parecchi schizzi. È probabile che le due Vergini Maria annotate da Leonardo in una delle sue carte siano la Madonna del Fiore, oggi all'Ermitage di Leningrado, e la Madonna del garofano di Monaco, dai tratti molto più umani e poco divini, colte nella gioia del loro compito materno. Leonardo aveva però bisogno di guadagnare e accettò ben volentieri la commissione dei monaci di san Donato a Scopeto presso Firenze, che integravano il pagamento con offerte di prodotti della campagna, dell'Adorazione dei Magi (1481). La impostò in numerosi disegni, studiandone rigorosamente i piani prospettici e le espressioni dei personaggi, così che il momento dell'esecuzione poi sulla tela dovette sembrare svuotato di interesse creativo, se egli abbandonò improvvisamente il convento e non terminò più il quadro. L'opera è assolutamente originale sia per il tema dell'adorazione risolta come epifania, cioè manifestazione del divino, non in un'idea astratta ma nel fenomeno che coinvolge la natura, gli animali e gli; uomini, le cui emozioni e pensieri si esprimono mediante i gesti e le espressioni del viso; ma anche per l'attenzione alle forme anatomiche e alla prospettiva resa dalla linea e dal rapporto luce-ombra. Fra i personaggi che fanno corona alla Vergine, si presume che il primo a destra sia l'artista stesso. All'ultimo periodo della permanenza di Leonardo a Firenze risale il San Gerolamo, anch'esso incompiuto, che esprime la stessa preoccupazione per la forma anatomica e la gestualità che si ritroveranno poi sempre nei dipinti dell'artista. Le altre opere menzionate da Vasari sono la Rotella, la Medusa, il Nettuno per Antonio Segni suo amico, il cartone di Adamo ed Eva.
Leonardo a Milano
Diversi motivi concorsero probabilmente a che Leonardo lasciasse Firenze, che aveva attraversato momenti di gravi tensioni politiche: la congiura dei Pazzi e la conseguente repressione da parte di Lorenzo de' Medici doveva essere apparsa feroce anche ai suoi occhi. Vasari riporta la notizia di un concorso per musici cui avrebbe partecipato superando gli altri concorrenti, con una lira d'argento «in forma d'un teschio di cavallo», strana, ma tale da essere più sonora e armoniosa, come egli stesso aveva voluto costruirla. Non è inverosimile una siffatta invenzione, anche se la notizia non è più ripresa altrove. Un altro motivo poteva essere stato offerto dalla volontà di Ludovico Sforza, detto il Moro, di erigere un monumento equestre a Francesco Sforza suo padre. E fosse stato Leonardo richiesto dal duca stesso o presentato da Lorenzo il Magnifico, che riteneva il signore di Milano un alleato importante, alla fine del 1482 egli giunse a Milano. Presentandosi al duca gli offrì i suoi servigi con una lettera in cui si descriveva capace di qualsiasi opera di ingegneria militare; mentre il Moro, secondo Vasari, ne conosceva già il talento artistico attraverso uno strano dipinto. Egli aveva infatti comprato da alcuni mercanti una rotella di legno di fico consegnata da un contadino al padre di Leonardo, ser Piero, perché la facesse dipingere. L'artista vi aveva rappresentato un animalaccio orribile e spaventoso ricavato dall'insieme di molti animali. In seguito il padre, anziché ridarla al contadino, l'aveva venduta. Gli inizi a Milano, dominata dal potere e dallo sfarzo ducale, furono difficili per Leonardo, che non era stato accettato immediatamente nella cerchia degli artisti milanesi. Solo nel 1483, assieme ai fratelli De Predis, ebbe una commissione importante, la Vergine delle rocce, di cui si conservano due versioni, una esclusivamente di Leonardo, oggi al Louvre, l'altra di mano leonardesca a Londra. Lo sfondo naturalistico imponente e preciso accoglie i personaggi composti secondo uno schema piramidale e soffusi di una quieta serenità. La consegna del dipinto, data la lentezza dell'artista, avvenne in ritardo rispetto agli impegni presi, cioè nel 1490, e ciò comportò strascichi legali. Di lui si diceva che fosse lentissimo e dubbioso e severo critico di se stesso. Nel 1495 iniziò a dipingere a fresco nel Castello, che il duca stava ampliando e abbellendo, i «camerini»: è rimasta integra la volta della Sala delle Asse, con il fitto intrico del pergolato. Ma l'8 giugno del 1496 il lavoro s'interruppe bruscamente; da una minuta purtroppo frammentaria si conosce la lamentela di Leonardo con il duca, dal quale non riceveva il salario da due anni. Il dissidio comunque si compose con la ripresa dei lavori e la donazione di una vigna all'artista nel quartiere di san Vittore. L'episodio può inserirsi in quel rapporto difficile e strano del duca, mecenate e signore, da una parte, e Leonardo, artista libero nelle sue attività e tuttavia legato alla vita di corte e ai desideri del signore, dall'altra. Nei primi anni (1483-89), dipinse per lui le donne che aveva amato: Cecilia Gallerani, probabilmente nella Donna con l'ermellino, oggi a Cracovia; Lucrezia Crivelli; in seguito anche la moglie nel Ritratto di Beatrice d'Este della Pinacoteca ambrosiana. Il problema della statua equestre, che Leonardo avrebbe dovuto realizzare per onorare la memoria di Francesco Sforza, sembra che fosse stato affrontato già nei primi mesi dopo il suo arrivo a Milano. Più che dalla figura del cavaliere, egli fu attratto da quella del cavallo: e schizzò minuziosamente i movimenti e le pose dopo averle osservate dal vero in alcune scuderie. Il progetto era ambizioso: Leonardo avrebbe voluto fermare il cavallo ritto sulle zampe posteriori, al momento dell'impennata: il disegno a sanguigna nel foglio 12336 di Windsor esprime tutto il dinamismo dell'animale. Nel frattempo affrontava anche il problema della fusione, come si ricava anche da un altro disegno del Codice di Madrid II. Abbandonò per qualche tempo il progetto e lo riprese il 23 aprile 1490 quando iniziò un nuovo quaderno, il Codice C, con l'idea del cavallo. La monumentalità dell'opera doveva essere un'impresa difficile anche per la difficoltà della fusione. Vasari ne ricorda la realizzazione solo in un modello di «terra» che durò fino all'entrata in Milano dei Francesi, che lo distrussero. Così pure si smarrì un piccolo modello in cera che era ritenuto perfetto.
Attività teatrali
Nel frattempo Leonardo fu uno dei grandi protagonisti della corte di Ludovico il Moro. Paolo Giovio, che scrisse una breve biografia su di lui verso il 1527, ma pubblicata solo nel 1796, lo definisce esperto di eleganza e raffinatezze e soprattutto creatore di spettacoli teatrali. Alcuni di questi sono documentati e datati, ma senza i disegni preparatori. Nell'allestimento del Paradiso di Bernardo Bellincioni, in occasione della festa del 13 gennaio 1490 per le nozze di Gian Galeazzo Sforza e Isabella d'Aragona, è ricordato non solo come pittore sublime, un altro Apelle, ma anche come tecnico teatrale. La gloria del Paradiso con i sette pianeti, rappresentati da attori che giravano, doveva aver superato in splendore gli altri aspetti della festa se ne conserviamo ancora una precisa relazione di un testimone oculare. Come scenografo dovette senz'altro abbagliare il suo pubblico con luci, suoni e l'arditezza del volo simulato in scena durante la rappresentazione della Danae di Baldassarre Taccone, l'ultimo giorno di gennaio del 1496 in casa di Giovan Francesco Sanseverino, conte di Caiazzo, a Milano. Da una lista si apprende che i personaggi erano impersonati da ben noti cortigiani. Particolari e disegni teatrali completi ci sono pervenuti attraverso il Codice Arundel, in cui Leonardo aveva progettato un sistema di palcoscenico mobile; manca però la documentazione che sia mai stato costruito e rimane in forse l'identificazione con la rappresentazione dell'Orfeo del Poliziano. Fu anche animatore instancabile di feste, che rendeva vivaci con le Profezie, indovinelli che scrisse per essere recitati «in forma di frenesia e farnetico, d'insania di cervello», come quello che è così presentato: «Qual è quella cosa che dalli omini è molto desiderata e, quando si possiede, non si pò conoscere?» per significare il dormire. Disegnò Rebus, raccontò Facezie agli amici, scrisse Favole i cui protagonisti sono animali e piante; mentre il Bestiario, definendo i vizi e le virtù degli animali, poteva ben servire alla composizione di figure allegoriche assai diffuse a quel tempo.
Il Cenacolo
Nel 1495 Ludovico il Moro decise di affidare a Leonardo l'incarico di affrescare il refettorio del convento di Santa Maria delle Grazie, chiesa cara alla famiglia Sforza. Lo scrittore Matteo Bandello, che aveva tra i monaci uno zio, si recava spesso a vedere i lavori e ne descrive i ritmi discontinui. Vasari racconta che il priore sollecitava spesso l'artista perché terminasse l'opera, sembrandogli strano che stesse parecchio tempo a meditare ozioso. Non riuscendo nell'intento, si lamentò con il Duca, il quale lo fece chiamare. Leonardo parlò a lungo con lui della sua arte, sostenendo che è proprio degli ingegni elevati concepire quelle idee perfette che poi esprimono con l'attività manuale. Aggiunse che gli mancavano da fare due teste: quella di Cristo e di Giuda, per la quale, non trovando di meglio, avrebbe ritratto il priore tanto importuno e indiscreto. La cosa fece ridere il Duca che gli diede ragione. Nel dipinto, Leonardo fissa il momento successivo alle parole profetiche di Cristo sul tradimento da parte di uno degli apostoli: stupore e indignazione movimentano la scena al di là di una lunga tavolata su cui l'unico ad appoggiarsi è Giuda, quasi a tradire la sacralità del convito. L'opera si deteriorò rapidamente e fu più volte restaurata in passato. Il restauro, iniziato nel 1979 e affidato a Pinin Barcilon Brambilla, ha rimosso lo sporco, i fissaggi e le muffe, avvalendosi di tecniche avanzate, che hanno evidenziato particolari sconosciuti e filmato i vari momenti. Si sono scoperti tocchi raffinati e volti già presenti e noti agli studiosi attraverso i disegni. Carlo Pedretti, ultimo e assiduo curatore delle carte vinciane, ha affermato di aspettarsi grandi sorprese.
Leonardo e la scienza
Milano lo ospitò per diciotto anni e questa permanenza segnò una svolta importante nella sua ricerca, volta agli studi matematici, fisici e ingegneristici di cui la città conserva ancora numerose testimonianze. Mentre partecipava alle discussioni dei letterati lombardi. Leonardo si accorgeva che le loro dotte affermazioni e il loro sapere risultavano tanto più ricchi quanto era loro permesso attingere alla tradizione degli autori antichi. D'altra parte si accorgeva che il loro metodo era lontano dalla certezza scientifica e manteneva in vita per secoli falsità e ignoranza, mentre solo «con isperienzia ognora si possono chiaramente conoscere e trovare». Dalla coscienza della propria superiorità metodologica, osserva Augusto Marinoni, studioso delle carte vinciane, scaturisce in Leonardo la decisione di scrivere un gruppo di trattati che poggiano su basi scientifiche. Nessun libro fu mai terminato da lui, neppure il Trattato della pittura che pure Luca Pacioli menziona, dedicando nel 1498 a Ludovico il Moro la sua opera De divina proportione, pubblicata nel 1509 e corredata da 60 poliedri disegnati da Leonardo, i cui studi preparatori si ritrovano anche nel Codice atlantico, così chiamato dal formato intero del foglio. Si deve perlopiù all'opera del suo allievo ed esecutore testamentario Francesco Melzi la raccolta e sistemazione dei numerosi appunti, che andarono a formare il trattato sulla pittura. All'antica affermazione di una imitazione ignorante della realtà, Leonardo rivaluta la pittura, difesa come scienza, perché fondata su principi veri, basata sulla prospettiva matematica e sullo studio della natura. Non solo: egli afferma anche che la pittura è l'arte più nobile perché «fa con più verità le figure delle opere di natura che il poeta». Il pittore, intento a imitare fedelmente la natura, non si deve porre alcun limite, perché essa mostra la bellezza in ogni suo aspetto. Scienziato, quindi, ma anche creatore: «Possiamo esser detti nipoti a Dio»; e ancora: «La deità, ch'a la scientia del pittore, fa che la mente del pittore si trasmutta in una similitudine di mente divina», che supera la natura «nelle fintioni d'infinite forme d'animali et erbe, piante e siti». Questa doppia funzione, di scienziato che osserva attentamente la natura e di artista che la ricrea con la fantasia, è poi espressa nei suoi dipinti. Da qui si evidenzia la differenza tra Leonardo e gli altri pittori del Quattrocento, che pure avevano riprodotto, nei loro quadri, fiori, piante e paesaggi, utilizzando però le forme naturali come sfondo, mentre Leonardo le guardò con occhio da botanico. Ramo di more, Ghiande, Stella di Betlemme, Paesaggio montano, Tempesta sopra una vallata sono esempi pieni di fascino di copie dal vero. La necessità di consultare testi scientifici costrinse Leonardo a studiare il latino. Ci sono pervenuti alcuni specchietti e un glossarietto che indicano la sua volontà di superare l'ostacolo di una lingua di cui non raggiunse però mai una sicura conoscenza. Sotto la guida di Luca Pacioli, matematico, cercò di chiarirsi, pur attraverso questa lingua ostica, gli elementi di geometria euclidea, con passione e puntiglio tali, da allontanarsi persino dalla pittura; è una nuova passione che lo condurrà poi a scrivere nel 1505 un Libro titolato de strasformazione, cioè d'un corpo 'n un altro senza diminuzione accrescimento di materia, forse il più organico tra gli scritti vinciani, fondato su una visione dinamica della geometria. Come dal punto mobile, generatore della linea che genera la superficie e a sua volta la forma dei solidi, così le forme geometriche si trasformano: i rettangoli in quadrati, i cubi in parallelepipedi e piramidi e viceversa. Ma Leonardo va oltre: il moto curvilineo, «linea flexuosa, linea spiralis» aggiunge alla vivacità dell'atto una fluidità graduata, requisito della grazia; la verità e la bellezza si fondono così insieme. E la «notte di sant'Andrea» del 1504 raggiunge «il fine della quadrature del cerchio»: in un milionesimo di circonferenza la differenza tra l’arco e la sua corda sarà una «grandezza vicina al punto matematico», cioè, come diremmo oggi, e tende a zero, principio del calcolo infinitesimale.
La figura umana
Il 2 aprile 1489 Leonardo iniziò il libro intitolato De figura umana : è quindi il primo tema trattato dall'artista in relazione all'attività pittorica; il pittore deve, secondo lui, conoscere «la notomia di nervi, ossa, muscoli e lacerti». Com'è noto, fu egli stesso attivo anatomista secondo il procedimento di studio ricordato da Carlo Pedretti: prima la prospettiva e poi disegnare da figure (fatte da buoni maestri per assuefarsi a bone membra) e infine disegnare dal vero. Il modello condiziona la riuscita del dipinto. «E se questo modello non mostrassi bene i muscoli dentro ai termini delle membra, non monta niente». Da atteggiamenti simili negli animali e nell'uomo, Leonardo passa a concepire l'uomo dotato di intelligenza razionale, l'unico strumento che può riscattare un'esistenza altrimenti ferina. La sapienza è raggiunta attraverso l'esperienza e forse per questo motivo l'uomo leonardesco si identifica nell'uomo maturo che alla bellezza fisica unisce l'esperienza intellettuale; ne è un esempio l' Uomo Vitruviano. Ma in natura esiste anche la bruttezza e la bizzarria fisica: le Figure grottesche, che a lungo furono scambiate per caricature, descrivono invece la degenerazione fisica che accompagna la vecchiaia. Alla concezione quattrocentesca dell'uomo come misura di tutte le cose, corrisponde un interesse per lo studio delle proporzioni che portò Leonardo a conoscere l'interno e scoprire il funzionamento della macchina-uomo. La maggior parte dei disegni anatomici è conservata a Windsor; essi sono databili variamente dal 1489 al 1513. Commozione e stupore destano ancora oggi il disegno del Feto umano nell'utero; in tutto circa 600 disegni, che illustrano gli apparati e i sistemi dell'anatomia dell'uomo, che egli aveva cominciato a raccogliere prima della partenza per Milano, come testimonia il materiale che portava con sé al momento di lasciare Firenze.
Scienza e tecnica
Attratto dal dinamismo dei corpi nello spazio e nel tempo, Leonardo tentò di definire la forza: «Forza dico essere una virtù spirituale, una potenzia invisibile la quale per accidentale violenza è causata dal moto e collocata e infusa nei corpi». Ogni tipo di movimento affascinò l'artista: l'acqua, i venti, il volo degli uccelli furono studiali anche nelle loro cause. Così l'acqua, oltre a essere paragonata al corpo umano, gli diede lo spunto per immaginare barche a pale, meccanismi a manovella e pale per la propulsione di natanti fino a programmare un'attività sott'acqua a opera di un palombaro che respira attraverso tubi tenuti fuor d'acqua da un galleggiante a forma di campana. Lo scafandro con un contenitore metallico destinato ad accogliere un otre con la riserva d'aria e le apparecchiature per camminare sott'acqua con scarpe e racchette galleggianti anticipano nei disegni e nella scrittura speculare leonardesca progetti già intuiti anche prima di lui ma realizzati sulle sue precise osservazioni. Il volo degli uccelli, che sembra liberasse dalle loro gabbie già nei primi anni a Firenze per studiarli meglio, gli fece intuire la possibilità per l'uomo di volare: ali meccaniche, combinando la forza delle braccia e delle gambe, macchine ad ali per l'uomo sono anticipazioni delle macchine moderne. La canalizzazione delle acque dei Navigli, cui era stata data particolare cura nel Milanese da parte delle autorità e delle persone competenti, lo avviarono a studi per risolvere alcuni problemi di ordine tecnico quali le chiuse, o la ristrutturazione di tutta una zona come quella della Sforzesca, vicino a Vigevano, dove Ludovico il Moro aveva deciso di iniziare la coltura del riso.
Architetto e urbanista
Quando Leonardo giunse a Milano, in città fervevano i lavori in vari cantieri; così la povera gente poteva guadagnarsi mezza lira una razione di vino e talvolta anche di pane al giorno. Per il Duomo, Leonardo fu chiamato nel 1487 a dare un parere per la costruzione del tiburio. Intervenne con una lettera appassionata ai fabbriceri perché eleggessero un «medico architetto al malato domo», dopo aver studiato il mezzo per irrobustire i piloni e impiegare archi capaci di sostenere le spinte laterali. Presentò anche un modello in legno che poi ritirò; il Codice trivulziano ne raccoglie i numerosi schizzi. Questi studi lo portarono ad analizzare le chiese a pianta centrale. I riferimenti culturali sono evidenti: Vitruvio e Leon Battista Alberti; mentre si evidenzia uno scambio di esperienze con Bramante, che lavorava per abbellire e terminare la chiesa di Santa Maria delle Grazie; il progetto realizzato in seguito da Bramante per la fabbrica di San Pietro a Roma ricorderà in modo straordinario i progetti di Leonardo, che però rimasero tutti allo stadio di disegni senza che ne seguisse la realizzazione. Luigi Firpo, che ha studiato Leonardo (1963) sotto questo profilo, ha tentato di rimuovere l'accusa di utopismo visionario di alcuni interpreti, in nome di uno studio minuzioso di carpenterie, ponteggi, travi, centine, coperture di tetti, conche, canali e ponti, che non si dissocia mai da un ideale di conoscenza simultanea e totale. Egli è un teorico che si accompagna a interessi tecnici e operativi, ma non si allontana mai dalla ricerca d'arte. L'assoluto realismo dei progetti ne garantisce la capacità professionale. Le concezioni più suggestive di Leonardo sono di urbanistica, adunate nel Manoscritto B dell'lstituto di Francia, riletto ultimamente da Eugenio Garin (La città di Leonardo, 1971), che ha saputo superare le contrastanti opinioni di coloro che hanno sempre voluto leggere Leonardo solo in chiave utopistica senza far emergere le fondamentali esperienze concrete. Della città di Milano Leonardo ebbe un'impressione sgradevole se nel Codice atlantico esprime il proprio disgusto per gli uomini che vi si affollano «a modo di torme di capre», abbandonata la vita solitaria e contemplativa, mettendosi «infra i popoli pieni d'infiniti mali», come la pietra della favola, calpestata e coperta di fango e di sterco, che ha lasciato la compagnia di erbe e di fiori. Da qui il desiderio e il progetto di una città spaziosa e luminosa, con i canali d'acqua che servono da mezzi di comunicazione, di irrigazione, di igiene e di inserimento nella vita e nel ritmo della natura. La città di Leonardo è pensata in corrispondenza fra uomo e mondo: schema antropomorfico e immagine cosmica esprimono l'adesione alla vita e ai bisogni dell'uomo e le strutture del corpo umano. È costruita su due piani diversi: le strade alte «solamente per li gentili omini»; le strade basse per «i carri e altre some a l'uso e comodità del popolo». Fiumi e canali separano la zona dei signori da quella del popolo, con una netta distinzione, dovuta al clima lombardo ancora feudale, come sottolinea Corrado Maltese nel suo saggio Il pensiero architettonico e urbanistico di Leonardo ( 1954). Una città comunque completamente nuova: risanata, con strade e cortili spaziosi, acque correnti, zone rurali e dimore signorili, concezione forse non del tutto aliena dallo spirito signorile di Leonardo, che contempla la natura per spiegare la vita del mondo e la sua, nella piena e sempre rinnovata consapevolezza della irresistibile compagine in cui tutto il mondo vive e si trasforma. Come la storia delle conchiglie marine, che «ci testificano la mutazione della terra intorno al centro de' nostri elementi». Esse ora sono diventati fossili «ricoperti di tempo in tempo dalli fanghi di varie grossezze, condotti al mare dalli fiumi con diluvi di diverse grandezze»; prima le conchiglie, «li nichi», stavano sul fondo marino, ma «ora questi tali fondi sono in tanta altezza, che son fatti colli o alti monti». E le conchiglie son diventate fossili; nel divenire del tempo «quello che è detto niente si ritrova nel tempo e nelle parole. Nel tempo si trova infra 'I preterito e 'I futuro, e nulla ritiene del presente, e così infra le parole che si dicano che non sono, o che sono impossibile». Non esiste il nulla che è «privazione dell'essere», conclude la meditazione metafisica di Leonardo, che si accompagna alle riflessioni più profonde insieme alle osservazioni più particolari.
Gli ultimi anni
L'ultimo mese dell'anno 1499 e del secolo Leonardo preferì andarsene da Milano piuttosto che restare dove i Francesi avevano seminato brutture e devastazioni facendo prigioniero il Duca: «Il Duca ha perso lo Stato, la roba e la libertà», è il suo essenziale commento. Se ne andò con i suoi allievi e Luca Pacioli verso Venezia, dove sperava poter svolgere qualche attività. Si fermò a Vaprio d'Adda, nella casa dei Melzi, e a Mantova, dove la duchessa Isabella d'Este avrebbe voluto trattenerlo. Ma il soggiorno a Venezia fu di breve durata, ed egli ritornò a Firenze carico di esperienze e di fama, tanto che gli fu offerta subito una commissione: la Sant'Anna con la Madonna, il Bambino e san Giovannino, per la quale preparò in fretta il cartone, esposto nel 1501 e ammirato da tutti. Lasciò Firenze per impegnarsi come architetto e ingegnere generale sotto Cesare Borgia, detto il Valentino, signore di Romagna, figlio di papa Alessandro VI. Ma già nel marzo 1503 era di ritorno a Firenze. I tre anni successivi furono molto intensi e proficui. Riprese i vari studi iniziati a Milano e dipinse nella Gioconda il ritratto di Lisa del Giocondo, moglie di un borghese fiorentino, che sintetizza le concezioni leonardesche sull'arte, la bellezza e il mondo. Freud spiega che il suo sorriso seducente ed enigmatico sia dovuto al risveglio, in Leonardo ormai maturo, del ricordo della madre dei suoi primi anni. La tecnica dello sfumato, in cui il contorno è irreale e invisibile, gli permette di ritrarre la donna su cui si riflettono i colori delle acque e degli alberi dello sfondo. La figura umana è immersa nell'atmosfera: Leonardo realizza la sua visione dell'uomo inserito nell'universo della natura e l'elemento d'unione è l'ombra, che non è nera ma azzurra; tecnica di un artista ormai padrone di sé, che ha stabilito due punti di osservazione: uno per la figura, che è vista dal basso; l'altro per il paesaggio, visto dall'alto. Vasari narra che Leonardo, mentre ritraeva Monna Lisa, la divertisse con canti, musiche e facezie di buffoni. Di altri dipinti non rimane traccia sicura, neppure della Battaglia di Anghiari, che avrebbe dovuto decorare la Sala del Consiglio di Palazzo Vecchio. Il 9 luglio 1504 morì il padre, ser Piero, all'età di 80 anni, lasciando 10 figli maschi e 2 femmine. Sorsero contrasti per l'eredità e Leonardo accolse l'invito del governatore francese Carlo d'Amboise a recarsi a Milano, dove rivide gli amici e ritrovò quel clima di lavoro che gli permise di dedicarsi ancora all'anatomia, alla canalizzazione delle acque, agli studi per la statua equestre in onore di Gian Giacomo Trivulzio, capitano dei Francesi alla conquista di Milano. Ritornò a Firenze, si recò a Roma e di nuovo a Firenze, dove preparò un leone automatico per accogliere Francesco I re di Francia, che lo invitò alla sua corte. Leonardo si rimise in viaggio con l'allievo prediletto, Francesco Melzi, per raggiungerla nel 1516, e fu nominato «primo pittore, architetto e ingegnere del re». Trascorse gli ultimi anni studiando, annotando e disegnando.

 

Fonte: http://www.scicom.altervista.org/storia%20sociale%20arte/GRANDI%20MAESTRI%20ARTE%20(appunti%20Stefania).doc

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Autore del testo: Stefania

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