Storia dell' arte

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Storia dell' arte

Modulo n. 1
Questioni metodologiche

 

1. Estetica e storia dell’arte

La storia dell’arte è una disciplina giovane: ha poco più di un secolo di vita. Benché nel passato non sia mancata una produzione storiografica legata al mondo dell’arte, è solo nella seconda metà dell’Ottocento che la discipina comincia a prendere una fisionomia, per così dire, scientifica. Da questo momento in poi la storia dell’arte delinea in maniera più precisa i suoi contenuti, le sue metodologie e i suoi campi d’azione.
Tuttavia la storia dell’arte può essere vista in molteplici modi: nel corso della sua vita la disciplina è stata affrontata con approcci molto diversi e a volte anche tra loro inconciliabili. Rimandando alla letteratura specifica l’esame più approfondito della questione, cerchiamo di delineare alcune linee di tendenza che possono esserci utili nel percorso successivo.
La storiografia italiana, nel corso del Novecento, si è divisa in due scuole critiche fondamentali che, per semplicità, definiremo dei “conoscitori” e dei “filosofi”. Al gruppo dei “conoscitori” appartengono i primi storici dell’arte, quali Giovanni Morelli e Giovan Battista Cavalcaselle, il cui lavoro, alla metà del XIX secolo, permise la nascita di una moderna scuola storiografica italiana. Il loro era appunto definito “metodo del conoscitore”, perché il loro problema, in quel momento, era di natura ben precisa: riuscire a ricostruire, nell’immensa produzione dell’arte italiana dei secoli precedenti, il catalogo degli artisti e delle principali scuole artistiche italiane.
Allievi del Cavalcaselle furono due dei maggiori storici dell’arte agli inizi del Novecento: Adolfo Venturi e Pietro Toesca. Sarà la generazione successiva a maturare invece una divisione che, con toni a volte anche molto aspri, ha diviso tutta la storiografia del XX secolo. All’origine ci fu quasi un conflitto familiare che divise Adolfo Venturi da suo figlio Lionello; il padre, infatti, invece di favorire l’ascesa accademica del figlio gli preferì un altro suo allievo: Roberto Longhi. Da questo momento in poi, i maggiori storici dell’arte italiani si raggrupparono in questi due “partiti” opposti: i discepoli di Roberto Longhi di contro gli allievi di Lionello Venturi.
Al primo gruppo appartengono famosi storici quali Federico Zeri, Giovanni Previtali, Ferdinando Bologna, Giuliano Briganti; nel secondo troviamo invece altri importanti nomi quali Giulio Carlo Argan, Cesare Brandi, Carlo Ludovico Ragghianti. Ma in cosa si differenziano queste due scuole storiografiche? In pratica, ricorrendo alla classica distinzione tra forma e contenuto, potremmo dire che i longhiani sono più attenti alla “forma”, cioè ai problemi di stile, ritrovando in essi la vera specificità della storia dell’arte. I venturiani sembrano invece preferire i problemi di “contenuto”: ossia guardano alla storia dell’arte come parte di un fenomeno più ampio che è quello della storia della civiltà. In questa seconda posizione, l’arte diviene inscindibile da altre manifestazioni dello spirito umano, in particolare quello del pensiero filosofico: per questo motivo abbiamo definito dei “filosofi” questa seconda scuola storiografica.
Se la forma sia superiore o inferiore al contenuto è uno dei grandi bivi dell’arte, in tutto il suo millenario percorso. Sciogliere il quesito significa comunque assumere una posizione ideologica ben precisa. Se l’arte viene vista come un mezzo, probabilmente il contenuto è più importante della forma; se invece viene vista come un fine, riterremo la forma più importante del contenuto. In quali casi l’arte è vista come un mezzo? Quando essa viene considerata uno strumento utile per l’educazione del popolo o delle masse, quando può servire a veicolare messaggi ideologici di natura laica o religiosa: quando insomma la sua utilità è oltre il suo apparire. In molti periodi della storia umana, sia antichi che recenti, ciò è successo.
L’arte è invece un fine quando la sua specificità è di migliorare il mondo in cui viviamo, nel senso che, a parità di contenuto, una forma “bella” è sempre preferibile ad una “brutta”. In realtà, come poi avremo modo di chiarire, il problema dell’arte non è di scegliere tra bello e brutto, ma tra qualità estetica e non qualità. A volte anche il brutto, nel senso comune, può avere qualità estetiche e diritto di cittadinanza nel mondo dell’arte.
Onde chiarire tutte le premesse, chi scrive ritiene, senza ombra di dubbio, che l’arte è sempre e solo nella forma. In pratica un quadro non è un’opera d’arte se raffigura un santo o un assassino: lo è solo se stilisticamente è fatto bene. Se poi sia giusto fare un quadro ad un assassino è una valutazione etica, che prescinde dal mondo dell’arte.

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Ritornando alle principali scuole storiografiche italiane, rimangono da chiarire alcune connessioni importanti. Il quadro storiografico europeo, nello stesso arco di tempo, presenta situazioni analoghe ma anche di grande originalità, che saranno di riferimento, ovviamente, anche per la situazione italiana. Anche in Europa si ritrovano studiosi che, reciprocamente, guardano all’arte dalle due opposte angolazioni che dicevamo prima: il tedesco Fiedler, con la sua teoria della Pura Visibilità diede un contributo fondamentale al lavoro di molti storici europei, in particolari a quelli della cosiddetta “scuola di Vienna” (Riegl, Wolfflin, Wittkower) e francesi (Focillon). La teoria della Pura Visibilità era ovviamente intesa a comprendere l’arte soprattutto nei suoi aspetti “visivi”, dando quindi ragione al fatto che essa ha un primato formale e stilistico su altre valutazioni.
Lo storico svizzero Jacob Burckhardt, con i suoi lavori sul Rinascimento italiano (da ricordare che fu proprio lui a coniare il termine “rinascimento”), inserì invece il discorso dell’arte nel tutt’uno che era lo sviluppo della civiltà. Era una posizione, se vogliamo, complementare, ma che permetteva alla storia dell’arte di dialogare con altri ambiti storiografici, traendo anche notevoli strumenti critici per ampliare la comprensione dell’arte.
Il metodo storiografico di Burckhardt è quello al quale si ispirano maggiormente gli storici che abbiamo definito “filosofi”, in particolare Argan, autore, come è noto, di uno dei più fortunati manuali di storia dell’arte scritti negli ultimi decenni. Mentre le teorie purovisibiliste furono, in parte, la base teorica sulla quale continuarono a lavorare gli storici “conoscitori”.
Ma, al di là di questi apporti europei, una base comune di fondo è possibile rintracciare in tutta la storiografia italiana del Novecento: una concezione dell’arte di matrice neoidealistica. Come è noto l’idealismo è una corrente di pensiero che può essere fatta risalire a Platone: che l’idea e la realtà siano due fenomeni tra loro opposti è una posizione che informa tutto il nostro pensiero occidentale. Ancora oggi genericamente pensiamo che spirito e materia siano due entità distinte e irriducibili l’una all’altra. L’idealismo conobbe nuova fortuna critica in Europa grazie a Kant e ad Hegel, e, in Italia, grazie soprattutto a Benedetto Croce.
Croce si è occupato molto di estetica, a partire dal 1902 anno di pubblicazione del suo trattato “Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale”, e alcune sue posizioni teoriche sono di grande importanza per tutta la cultura italiana ed europea successiva.
Che l’arte fosse un fenomeno “linguistico” è una intuizione di grande modernità, che poi lo stesso Croce non seppe indagare oltre. Ma il suo contributo più importante fu l’aver affermato l’autonomia dell’arte rispetto a qualsiasi altra attività umana. In pratica, secondo il filosofo napoletano, l’agire umano è indirizzato a quattro obiettivi fondamentali: il vero, il bene, l’utile e il bello. Ad ognuno di essi corrisponde una sfera dell’agire: la filosofia, l’etica, l’economia e l’arte. Secondo Croce ognuna di queste attività è indipendente dall’altra e non si possono confondere tra loro, soprattutto sul piano del giudizio. In pratica, ciò è che è vero, non deve essere necessariamente anche utile, bello e buono. Ciò vale per tutte le quattro attività, e pertanto anche nel giudizio legato all’arte bisogna solo valutare il bello, senza considerazioni legate all’utilità, alla bontà o alla verità. In altre parole sull’arte non si possono dare giudizi di tipo etico, economico o filosofico.
Questa è una posizione più dichiarata che praticata dalla cultura italiana, ma che rimane ancora oggi un punto fermo che non può essere rimesso in discussione. Tuttavia, ciò che di Croce ha più influenzato la cultura storico-artistica italiana non è stato ciò che ha esplicitamente teorizzato, ma ciò che non ha detto perché implicito al suo pensiero: che l’arte fosse creazione dello “spirito” umano. L’arte, in pratica, nasce dal genio individuale di un individuo speciale: l’artista. Ogni altra considerazione, oltre al rapporto esclusivo che esiste tra l’artista a la sua opera, criticamente non esiste.
Rispetto a questa visione che, appunto, possiamo definire “idealistica”, in Europa si venne a definire, soprattutto nel periodo a metà del Novecento, una diversa visione storiografica che viene definita “sociologica”. Essa mosse i primi passi nella cosiddetta scuola di Warburg, ossia dal gruppo di studiosi che si raccolse, prima in Germania e poi in Inghilterra, intorno alla figura dello storico Aby Warburg. Da questa scuola sono emersi straordinari storici quali Erwin Panofsky, Ernst Gombrich o Arnold Hauser. Soprattutto quest’ultimo, autore di una fortunatissima e ancora oggi attuale “Storia sociale dell’arte”, teorizzò che l’arte più che essere il frutto di un individuo (l’artista) è il frutto del contesto nel quale l’artista opera (la società). In pratica, per questa scuola di pensiero, l’artista non è l’individuo che si innalza sugli altri in forza del suo genio creativo, ma è comunque una creatura del proprio tempo (nel senso che è creato dalla società). Allora, se l’opera è creata dall’artista, ma quest’ultimo è creato dal proprio tempo (cioè dalla civiltà in cui opera), in ultima istanza l’opera è comunque una creazione della società in cui essa appare.
Da un lato il risultato a cui giunse Hauser può sembrare assimilabile a quello di Burckhardt, cioè considerare l’arte come un aspetto del più vasto fenomeno di civiltà. In realtà se ne discosta proprio perché la visione di Hauser è meno “idealistica”, cioè le dinamiche della civiltà sono dinamiche della società in cui interagiscono sia aspetti spirituali sia aspetti più decisamente materiali: politici, economici, eccetera.
La storiografia italiana, al di là delle sue divisioni interne, se paragonata al contesto europeo, si caratterizza proprio per questo suo idealismo di fondo che, alla fine, ha portato a privilegiare sempre gli aspetti biografici a quelli collettivi e sociali dell’arte.

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Dalla scuola di Warburg è emerso un altro storico dell’arte che grande importanza ha avuto soprattutto per la storiografia internazionale della seconda metà del Novecento: Erwin Panofsky. A lui si deve quell’indirizzo critico definito “iconologico”. In pratica secondo Panofsky l’opera deve essere vista da più angolazioni, sia formali che contenutistiche, per cercare di coglierne i significati più complessivi in termini di conoscenze sull’artista e sull’epoca che l’ha prodotta. L’originalità di Panofsky, al di là delle impostazioni di metodo che ora esamineremo, è stata soprattutto di aver messo l’opera al centro dell’indagine dello storico dell’arte. In pratica il lavoro dello storico, così come parallelamente si è sviluppato in altri ambiti storiografici, è soprattutto legato all’interpretazione del testo, cioè all’analisi storico-filologica dell’opera in quanto, innanzitutto, documento materiale della cultura.
In un suo breve scritto, dal titolo “Iconologia e iconografia”, Panofsky ha impostato un metodo per la lettura dell’opera che, nelle sue linee fondamentali, è sicuramente valido ed attuale. Secondo Panofsky sono tre gli aspetti fondamentali di un’opera, e non due (forma e contenuto). Questi tre aspetti egli li definisce come:

  • soggetto primario o naturale: vale a dire tutti quei motivi formali e stilistici che definiscono l’aspetto di un’opera – noi nel seguito chiameremo questo aspetto semplicemente “forma”;
  • soggetto secondario o convenzionale: è quello in pratica che ci porta a riconoscere cosa un’opera rappresenta – in seguito lo definiremo con il termine “soggetto”;
  • significato intrinseco o contenuto: riguarda la comprensione di tutti i significati che un’opera ci può comunicare sulla cultura di chi l’ha prodotta – di seguito lo chiameremo “contenuto”.

Questa triade di significati di un’opera cambia spesso di definizione da un autore all’altro, ma fondamentalmente rimane sempre alla base delle nostre impostazioni metodologiche. In pratica, rispetto alla classica bipartizione del De Santis (forma e contenuto), Panofsky introduce un terzo termine che serve a scindere il contenuto in due parti: una è il soggetto, cioè il tema che l’opera affronta, l’altra è il contenuto vero e proprio, cioè i messaggi espliciti ed impliciti che essa ci comunica. In pratica Panofsky ci avverte che, al di là della forma, bisogna considerare che l’immagine ha sempre due piani di analisi: uno denotativo e l’altro connotativo (usando due termini presi dalla linguistica), cioè uno apparente ed immediato e un altro legato alla comprensione generale anche di ciò che non è immediatamente visibile.
Facciamo un esempio. Un quadro che rappresenta il volto di una persona è un ritratto: grazie alla ricerca iconografica possiamo conoscere chi il ritratto raffiguri (un santo, un personaggio politico, l’autoritratto di un artista, e così via). Con questo abbiamo scoperto il “soggetto”, ossia il significato denotativo. Se poi analizziamo i valori espressivi meno apparenti dell’opera (se cioè il ritratto ci vuole comunicare fede, potere, indagine psicologica, o altro) abbiamo scoperto il vero “contenuto” dell’opera, o significato connotativo.
Il termine “iconologia” fu coniato nel tardo Cinquecento da Cesare Ripa, come titolo di un trattato in cui spiegava il significato nascosto nelle immagini allegoriche. È stato riutilizzato da Panofsky per contrapporlo al termine “iconografia”: mentre quest’ultimo è l’indagine per descrivere un’opera, la “iconologia” serve a comprendere tutti i suoi significati dell’opera. Quindi l’iconografia ci permette di riconoscere il soggetto, l’iconologia di capire il contenuto.
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Veniamo ora ad una più attenta analisi del metodo di descrizione di un’opera d’arte. Abbiamo detto che esso si fonda sulla separazione di tre aspetti fondamentali:

  • soggetto
  • forma
  • contenuto

Vediamo ora di analizzare più attentamente questi tre aspetti.

SOGGETTO
La descrizione del soggetto di un’opera è spesso la parte più complessa ed ardua da affrontare. Per essa esiste una sezione specifica della storia dell’arte che viene chiamata iconografia. Siccome le opere sono quasi sempre ispirate alla storia, alla mitologia, alla religione, alla letteratura, per riconoscere il soggetto di un’opera bisogna aver familiarità con tutto l’universo delle discipline umanistiche. Bisogna, in pratica, conoscere le opere letterarie, le vite dei personaggi illustri, le vite dei santi, i racconti mitologici, la Bibbia, la storia e così via. Bisogna aver pratica con un universo di significati simbolici, che è di portata enciclopedica.
Il lavoro fin qui svolto dagli storici ha permesso di riconoscere e catalogare la maggior parte dei soggetti iconografici. Esistono, oggi, numerosi repertori iconografici che sono di grande ausilio al lavoro degli storici. Tra essi val la pena citare anche il repertorio ICONCLASS, elaborato dall’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione (ICCD), del Ministero dei Beni Culturali. Questo repertorio risulta di grande utilità sia per l’opera di catalogazione del patrimonio culturale italiano, sia per l’azione di tutela da parte degli organismi preposti. Esso si basa sugli studi dello studioso olandese H. van de Waal, (Iconclass. An iconographic classification system, Amsterdam 1973-1983). Secondo questo sistema i principali filoni iconografici vengono raggruppati in nove insiemi principali, a loro volta suddivisi in altri sottoinsiemi. Questi novi gruppi principali sono:

  • Religione e Magia
  • Natura
  • Umanità, l’Uomo in generale
  • Società, civiltà, cultura
  • Astrazioni e concetti
  • Storia
  • Bibbia
  • Saghe, leggende e racconti
  • Mitologia classica e Antichità

Questo aspetto della classificazione iconografica è esaurientemente descritto in alcune pubblicazioni dell’ICCD, che possono anche essere visionate e scaricate da internet al sito www.iccd.beniculturali.it. Tuttavia il repertorio ICONCLASS rimane un semplice indice. La capacità di riconoscere quale voce di questo indice descrive l’opera che stiamo esaminando, rimane sempre un problema legato alla familiarità che noi abbiamo con le fonti e con il mondo dei simboli.

FORMA
L’analisi della forma di un’opera può essere affrontata con molteplici strumenti. Da citare, al riguardo, le teorizzazioni di uno dei maggiori storici della scuola di Vienna, Heinrich Wolfflin. Egli, nell’analizzare lo stile di un’opera, distinse cinque coppie di criteri visivi:

  • lineare-pittorico
  • bidimensionale-tridimensionale
  • forma chiusa-forma aperta
  • molteplicità-unità
  • chiarezza assoluta-chiarezza relativa

Queste coppie permettono di percepire alcune caratteristiche di fondo dell’evoluzione stilistica della storia dell’arte. Così, l’arte medievale può essere considerata bidimensionale, mentre quella rinascimentale è tridimesionale. La differenza tra lineare e pittorico riguarda ovviamente gli stili che danno più importanza al disegno o più importanza alla pittura. Queste differenze teorizzate dal Wolfflin sono la base sulla quale si sono poi innestate diverse altre elaborazioni, le quali, tuttavia, nel panorama attuale della storia dell’arte, non hanno più goduto di rinnovata attenzione.
Di seguito si fornisce una breve sintesi di un metodo di descrizione formale che può essere utilmente adottato per casi diversi, ma sempre nell’ambito della produzione storica. L’arte contemporanea utilizza oggi linguaggi totalmente inediti (foto, video, installazioni, performance, happening, body art, e altro) per i quali anche i metodi di descrizione sono da adattare alle esigenze specifiche.
In questa tecnica di analisi formale distinguiamo soprattutto quattro elementi:

  • compositivi (motivo)
  • tattili (forme e spazio)
  • visivi (luce e colore)
  • tecnici (materiali e tecniche di esecuzione)

 

Elementi compositivi. Ogni opera d’arte nasce da una idea base, che possiamo, con termine mutuato dalla musica, definire “motivo”. Il motivo è in genere una o più linee, che definiscono le direzioni fondamentali in cui l’opera organizza i suoi elementi costitutivi. Normalmente i motivi esprimono già nella loro essenzialità la scelta estetica fondamentale dell’autore. Riconoscere il motivo di un’opera non è sempre agevole, ed è suscettibile anche di una certa discrezionalità soggettiva.

Una volta individuato il o i motivi, questi vanno descritti secondo un linguaggio di natura tipicamente geometrica: parleremo pertanto di linee rette o curve, di sviluppo orizzontale, verticale o diagonale, parleremo di tensione dinamica o di sensazione di staticità, valuteremo la simmetria o la dissimetria, e così via. Ovviamente ognuno di questi termini deve avere la sua pregnanza significativa, e deve in qualche modo contribuire alla comprensione dell’opera.

Elementi tattili. Gli elementi tattili sono quelli che ci danno il senso del “pieno” e del “vuoto”. Normalmente l’occhio percepisce luci che vengono associate a colori; successivamente il cervello, facendo tesoro anche dell’esperienza sensoriale del tatto, trasforma le luci e i colori in forme piene e spazi vuoti. “Forme” e “spazio” sono quindi i due parametri da valutare.

Ovviamente un artista, nel definire un’immagine sia pittorica sia plastica, non può prescindere dalla forma e dallo spazio. Esse sono sempre presenti in qualsiasi opera, e si presentano in infinite varianti.
Nell’analizzare una pittura o una scultura, le valutazione sulla forma e sullo spazio saranno diverse. Nel caso delle forme, considerando che esse sono essenzialmente volumi, le definiremo: regolari, irregolari, spigolose, tondeggianti, allungate, allargate, e così via.
Bisogna quindi decrivere il rapporto tra i singoli volumi nell’ambito della scena rappresentata, descrivendo in pratica se i volumi si addensano solo in un settore, o se sono invece equamente distribuiti rispetto a qualche asse di equilibrio, che può essere orizzontale, verticale, diagonale, eccentrico a destra, eccentrico a sinistra, eccetera.
Se si tratta di immagine, bisogna annotare se i volumi hanno apparenza tridimensionale o no. Se sì, bisogna dire se la tridimensionalità è ottenuta con il chiaroscuro o con le lumeggiature.
Bisogna inoltre, soprattutto se si tratta di opere scultoree, descrivere anche il trattamento delle superfici dei volumi. In questo caso si parlerà di superfici lisce, frastagliate, levigate, ruvide, ondulate, rigate, eccetera.
Anche lo spazio va giudicato in maniera diversa se l’opera è pittorica o scultorea. Nel caso di immagine, dipinto o bassorilievo, che quindi si articola nella bidimensionalità, bisogna innanzitutto notare se lo spazio di profondità è presente o no. Se non è presente si dirà che l’immagine contiene un solo piano di rappresentazione, in questo caso coincidente con il piano fisico della rappresentazione. Se invece l’immagine contiene più piani di rappresentazione, si dovrà innanzitutto notare se la profondità è correttamente costruita o no. Nel caso la profondità è visivamente corretta, si dovrà notare se essa è ottenuta per scansione dei piani (metodo discreto) o per prospettiva geometrica (metodo continuo). Nel caso di prospettiva, questa va descritta nei suoi elementi fondamentali, riportando se è centrale, eccentrica, a volo d’uccello, con uno o più punti di fuga, ecc.
Oltre alla descrizione tecnica del metodo di rappresentazione dello spazio, bisogna descrivere gli elementi costituitivi dell’immagine spaziale percepita: vi sono uno o più piani di giacitura, vi sono più ambienti chiusi e/o aperti, vi è grande profondità visiva o viceversa lo spazio appare poco profondo, e così via.
Nel caso di scultura tridimensionale, lo spazio va invece descritto su parametri completamenti diversi. In questo caso si descrive lo spazio soprattutto come relazione pieno-vuoto. In pratica si considera il vuoto come una massa virtuale, e si cerca di capire in che modo questa massa virtuale interagisce con la massa reale del pieno. Si può avere quindi una situazione di equilibrio, di prevalenza dei pieni sui vuoti o viceversa, di simmetria, di ritmo, di dinamicità, di ordine, di disordine, eccetera.

Elementi visivi.Gli elementi visivi di un’opera d’arte sono ovviamente quelli che si danno in forma immediata alla percezione visiva. L’occhio quando guarda percepisce onde luminose, queste onde luminose vengono poi trasformate dall’occhio in colori. Pertanto gli elementi visivi sono fondamentalmente “luce” e “colore”.
Anche in questo caso la luce va diversamente valutata se si tratta di oggetto tridimensionale o di immagine. Nel primo caso la luce è soprattutto il rapporto che l’opera ha con l’atmosfera circostante, e di come la luce esalta o deprime superfici e volumi.
Nel caso di immagine bidimensionale, bisogna valutare innanzitutto se l’artista ha inserito fonti luminose o no. Se non ci sono fonti luminose, avremo il caso di luminosità diffusa e omogenea. Nel caso che invece l’artista ha dialogato con la luce, avremo i seguenti casi fondamentali:

  1. la luce proviene dalle spalle di chi guarda: in questo caso diremo che c’è illuminazione frontale;
  2. la luce proviene da un lato: avremo quindi una illuminazione radente;
  3. la luce proviene da una fonte posta di fronte a noi: in questo caso diremo che l’opera è in controluce. Spesso si possono anche avere contemporaneamente più situazioni presenti nella stessa immagine.

Si deve poi passare a descrivere la qualità della luce, dicendo se essa è intensa, fioca, bianca, colorata, artificiale, naturale, dolce, violenta, accecante, brillante, diffusa, eccetera.
Il colore, se presente, va descritto innanzitutto nelle sue qualità generali, cioè se esso è freddo, caldo, saturo, non saturo, piatto, sfumato, netto, composto, eccetera. Quindi il colore va valutato nell’accordo cromatico che si viene a creare nell’opera. Si dirà quindi se c’è prevalenza di toni chiari o toni scuri, se alcune tinte prevalgono su altre, se i colori si alternano per contrasto tonale o no, e così via.
Ovviamente vanno valutati anche i casi in cui i colori vengono utilizzati in senso simbolico, e non come proprietà visiva degli oggetti.

Elementi tecnici. Un’opera è sempre una realizzazione materiale: essa pertanto si compone sempre di materia che richiede una opportuna tecnica di lavorazione. Comprendere gli aspetti tecnici della realizzazione di un’opera è sempre fondamentale, soprattutto per non incorrere in facili equivoci. Molto spesso le conoscenze tecniche proprie di un artista in un certo periodo sono condizione, e spesso limite, anche per le sue possibilità espressive. Pertanto la conoscenza dei materiali e delle tecniche non può prescindere da una completa analisi sull’opera d’arte. Oltre a rimandare alla bibliografia specifica, si segnala il Vocabolario controllato del campo “Materia e Tecnica”, reperibile anch’esso sul sito dell’ICCD sopra segnalato.

CONTENUTO
Con il termine contenuto ci riferiamo a tutti i significati che un’opera contiene. Per questo tipo di analisi dobbiamo anche qui considerare tre contenuti fondamentali:

  • i contenuti diretti
  • i contenuti indiretti
  • i contenuti interpretativi

Contenuti diretti. Per contenuti diretti si intendono tutte quelle informazioni che esplicitamente l’artista o il committente ha voluto comunicarci attraverso l’opera realizzata. Normalmente esse costituiscono il motivo per cui l’opera è stata realizzata, la causa che l’ha originata. In genere, se l’opera è stata realizzata su commissione, i contenuti diretti sono esplicitamente richiesti dal committente all’artista. Se l’opera è realizzata dall’artista in maniera autonoma, i contenuti diretti appartengono solo a lui.

Contenuti indiretti. I contenuti indiretti sono le informazioni più generali che noi possiamo ricavare dall’opera circa la poetica dell’artista, o del movimento culturale al quale apparteneva, indicazioni di cultura materiale del periodo in cui l’opera è stata realizzata, posizioni di carattere ideologico, una visione generale del mondo che si può cogliere come atteggiamento fondamentale dello spirito umano in quel particolare contesto storico. In genere li definiamo contenuti indiretti, perché sono tutte quelle informazioni che, senza volerlo, un artista ci comunica riguardo al suo tempo.

Contenuti interpretativi. I contenuti interpretativi sono quei contenuti che si sono stratificati sull’opera attraverso le letture critiche, che si sono succedute nel tempo, e che oggi arricchiscono il significato complessivo dell’opera. I contenuti interpretativi appartengono pertanto ai critici e ai fruitori. Oggi, nel contesto dell’arte contemporanea, questi contenuti sono spesso più importanti di quelli diretti o indiretti.

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Un’ultima conclusione per ciò che riguarda gli elementi critici in cui abbiamo separato un’opera d’arte: soggetto, forma e contenuto.
Considerando al plurale questi tre elementi abbiamo tre concetti che ci saranno utili nelle indagini successive. In pratica tutte le opere che hanno la stessa classe di soggetti definiscono un “genere”. Le opere che invece sono omogenee per forma, definiscono uno “stile”. Infine le opere che presentano gli stessi contenuti definiscono una “poetica”.
Abbiamo quindi la seguente corrispondenza:

soggetto               genere
forma                   stile
contenuto             poetica

I generi più diffusi, nel passato, erano il paesaggio, la natura morta, i ritratti, le pitture di storia, le scene di genere (con tale termine si indicavano le rappresentazioni di vita quotidiana), il nudo, eccetera. Il genere ha avuto nel passato una considerazione notevole, avendo ognuno una sua precisa grammatica compositiva. Oggi che i soggetti sono praticamente scomparsi dall’arte contemporanea, anche il concetto di genere ha perso la sua specificità.
Con il concetto di stile, intendiamo ovviamente quelle scelte formali che sono comuni a un’epoca, a una civiltà, o a una scuola artistica: ad esempio la pittura rinascimentale è uno stile perché presenta sempre la prospettiva, l’architettura gotica si definisce stilisticamente per l’uso incondizionato dell’arco a sesto acuto, e così via.
È da considerare che l’arte è scandita sempre, o quasi, proprio dalle successioni stilistiche. Romanico, gotico, rinascimentale, barocco, neoclassico, sono termini che definiscono dei periodi storici, ma soprattutto degli stili. Su questo argomento ritorneremo nella quarta lezione.
Infine il concetto di poetica (che Panofsky preferisce definire “temi” o “concetti”, forse per evitare pericolose confusioni) ci rimanda a quel complesso di idee o sensazioni che le opere ci comunicano. Il rapporto tra arte e poesia sarà argomento affrontato nella prossima lezione.


2.Realtà e rappresentazione

Le funzioni che l’arte può svolgere sono molteplici, e su questo argomento torneremo in seguito. Tuttavia è, a mio parere, inconfutabile che l’arte sia nata con la funzione di rappresentare la realtà. Poi l’arte è divenuta un linguaggio per comunicare con gli altri, ma inizialmente essa servì a conoscere la realtà attraverso la rappresentazione.
Lo schema che sintetizza il rapporto tra realtà e rappresentazione è il seguente:

In pratica l’Artista compie due processi fondamentali: 1) percepisce la realtà; 2) la interpreta facendosene un’idea. A questo punto nasce la rappresentazione. Essa può essere anche solo una immagine mentale, ma nel caso che a noi interessa questa rappresentazione diviene o un’immagine concreta o un oggetto.
A prescindere dal campo artistico, qualsiasi rappresentazione è sempre una conoscenza della realtà. E la conoscenza è sempre una rappresentazione.

A questo punto vale la pena capire come si suddividono le rappresentazioni. Esse sono di due tipi fondamentali: le rappresentazioni analogiche e le rappresentazioni logiche. Le prime nascono da un rapporto di analogia con la realtà (imitano le forme che percepiamo guardando), le seconde si affidano al logos (alla parola quale simbolo che descrive la nostra idea della realtà).

Facciamo un semplice esempio: la fotografia di una sedia è una rappresentazione analogica, la parola «sedia» è anch’essa una rappresentazione, ma di tipo logico. In pratica se la rappresentazione è principalmente rappresentazione degli elementi percettivi (ciò che si vede) diciamo che essa è analogica. Se invece la rappresentazione tiene più conto della nostra idea o concettualizzazione della realtà (ciò che pensiamo) essa diviene di tipo logico. Le rappresentazioni logiche ricorrono in genere a simboli o segni di tipo linguistico (parole) o matematico (numeri e formule). Le rappresentazioni analogiche usano quasi esclusivamente le immagini.
Ma l’immagine non sempre è analogica: può anch’essa essere di tipo logico. Ma prima di proseguire bisogna introdurre un altro concetto: quello di naturalismo. Definiamo una rappresentazione naturalistica quando essa è uguale alla percezione. Viceversa una rappresentazione è antinaturalistica quando è diversa dalla percezione. Facciamo un esempio. Un ritratto eseguito da Raffaello è un’immagine naturalistica; la scomposizione cubista di un volto come realizzata da Picasso è una rappresentazione antinaturalistica.

In pratica anche nella costruzione dell’immagine si può dare prevalenza o agli elementi della percezione o a quelli dell’interpretazione. Nel primo caso diciamo che l’immagine è di tipo naturalistico, e quindi l’arte che la produce si muove in un sistema ottico. Nel secondo caso diciamo che l’immagine è di tipo antinaturalistico, e quindi l’arte che la produce si muove in un sistema concettuale.
Tutta la storia dell’arte si è mossa in questi due ambiti fondamentali: il sistema ottico e il sistema concettuale, producendo opere che sono variamente collocabili tra rappresentazioni naturalistiche e rappresentazioni antinaturalistiche.
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Da quando la rappresentazione si è differenziata tra immagini e parole, il rapporto tra questi due ambiti è stato spesso conflittuale. Già presso gli antichi greci la parola prese una prevalenza che di fatto non ha più perso fino ai giorni nostri. I motivi sono semplici: attraverso le parole è più semplice rappresentare anche concetti astratti, che con le immagini non è sempre agevole. Ciò ha portato a considerare la rappresentazione logica talmente superiore a quelle analogiche (cioè per immagini) che la differenza appare quasi come l’opposizione tra verità e falsità. In pratica, seguendo lo sviluppo del pensiero occidentale, appare evidente che la verità, se è possibile coglierla, può essere colta solo attraverso il pensiero astratto, non certo attraverso i sensi.
Tuttavia, considerando che il problema della verità è in ogni caso relativo, parole e immagini sono sempre rappresentazioni e quindi conoscenze. In sostanza la verità della realtà sarà sempre separata da noi dal fatto che la nostra conoscenza è sempre rappresentazione.
Tuttavia, senza addentrarci in sottili questioni filosofiche, che parole e immagini abbiano potenzialità diverse per rappresentare la realtà è fin troppo evidente. In particolare, le immagini sono funzionali a rappresentare la fisicità della realtà, mentre le parole sono più idonee a rappresentare le storie, cioè il succedersi nel tempo delle azioni umane.
Un celebre verso di Orazio a tutti noti, «ut pictura poesis», ha spesso ingenerato spesso la confusione che in fondo, poesia e pittura, fossero cose simili o analoghe. Nel Settecento il filosofo tedesco Lessing, nel suo celebre saggio dal titolo “Laooconte”, ha definitivamente chiarito la irriducibile differenza tra poesia e pittura, nel senso che la prima ha uno sviluppo diacronico che la seconda non potrà mai avere, mentre la pittura ha una capacità di descrivere gli aspetti percettivi della realtà che la poesia non potrà mai imitare.
Sulla questione è importante segnalare anche il pensiero, espresso negli stessi anni, da un altro filosofo tedesco: Schelling. Secondo Schelling arte e poesia sono diverse, ma per una visione molto diversa: la prima rappresenta gli aspetti tecnici del rappresentare, mentre la seconda concerne gli aspetti contenutistici o espressivi. Da quanto abbiamo detto precedentemente, è evidente che il pensiero di Schelling anticipa una concezione decisamente moderna dell’opera d’arte.
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Chiarita la differenza tra arte e poesia, appare importante chiarire un ulteriore aspetto della rappresentazione. Il fluire degli eventi è una catena ininterrotta che non sempre è facile decifrare. Per meglio comprendere questo susseguirsi di eventi, anche qui bisogna ricorrere ad una forma di rappresentazione. Nel caso della “storia”, la forma di rappresentazione è il “racconto”: cioè quella unità espositiva che trova un senso nel costruire una catena logica tra i tre momenti dell’inizio, dello svolgimento e della fine.
In pratica, scegliere un momento e una fine per una storia è sempre una scelta soggettiva, che operiamo per meglio dare un senso alla comprensione degli eventi storici. Ma, anche in questo caso, lo iato tra realtà e rappresentazione rimane un dato imprenscindibile, che inficia la possibilità di giungere alla obiettiva assoluta: cioè alla verità storica.
Anche in questo caso non vogliamo discutere sulla possibilità che si ha di conoscere la verità, in senso filosofico, ma di comprendere che la rappresentazione delle storie, cioè i racconti, sono possibili solo con lo strumento delle parole. In questo campo le immagini si muovono con una certa difficoltà e spesso anche con qualche ambiguità.
Per rappresentare le storie i pittori devono in genere ricorrere o a dei cicli di immagini (come se fossero una serie di fotogrammi staccati di un film) oppure devono sintetizzare la storia in un’unica immagine. Se racchiudono la storia in una sola immagine, questa prende il nome di “momento pregnante”.
Il momento pregnante di una storia non è dato in assoluta: è sempre una scelta dell’artista, che viene operata in base al senso finale che si vuole cogliere nella storia. Facciamo un esempio. La storia di Gesù è fatta di molti momenti diversi. Un artista può scegliere di costruire una sequenza dei fatti più noti o salienti (come in tanti cicli di affreschi o su molti polittici, soprattutto medievali) o può sintetizzare la vita di Cristo in una sola immagine. La cultura bizantina per rappresentare Gesù in una sola immagine ricorre a quella del Pantocrator, cioè il Gesù risorto che è assiso in cielo e, come un giudice, premia o punisce. Questa visione è determinata dalla cultura bizantina che si muove in un ambito di pensiero assolutistico (la verità è stata rivelata e non possiamo che attenerci ad essa) e di una società teocratica. In occidente, invece, specie presso l’ordine francescano, la vita di Cristo viene sintetizzata nella immagine del Crocefisso. Gesù è visto nel momento della morte e non in quello della resurrezione. Perché la scelta di un momento pregnante così diverso? Perché nella visione religiosa francescana, di Gesù dobbiamo cogliere soprattutto l’insegnamento del sacrificio e della sofferenza, e quindi, in una condizione non assoluta ma relativa (perché esiste il libero arbitrio) Gesù si presenta a noi soprattutto come un esempio da seguire. Come si vede la differenza di rappresentazione (cioè la differente scelta del momento pregnante) cambia completamente la prospettiva del messaggio che si vuole cogliere in una storia.
Nei quadri che rappresentano le storie, bisogna sempre fare attenzione al momento che l’artista ha scelto di rappresentare: già questa scelta deve farci comprendere qual è il contenuto diretto dell’opera.
A differenza del momento pregnante, l’artista può anche scegliere di rappresentare un attimo fuggente. In questo caso il problema che l’artista si pone non è tanto di raccontarci una storia, con la sua morale, ma di comunicarci una sensazione. L’attimo fuggente è quello che noi cogliamo in un quadro come sensazione di trovarci in un posto e in un tempo preciso.
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Oltre alle storie, le parole sono molto funzionali a rappresentare concetti astratti quali l’amicizia, l’amore, il dolore, la felicità, la giustizia, l’invidia, eccetera. In questi casi per un artista il problema non si risolve con una semplice parola, ma per rappresentare concetti astratti deve ricorrere ad un espediente: far divenire i concetti astratti delle allegorie. Con il termine “allegoria” intendiamo in genere la rappresentazione in immagini di concetti che, in genere, non hanno immagine. Si ricorrere così alla personificazione del concetto, arricchito da una serie di simboli che ne specificano il significato.
Ad esempio, una donna, con una bilancia in una mano e la spada in un’altra, è una rappresentazione allegorica della giustizia, in quanto i due simboli specificano due funzioni proprie del giudicare: misurare con equità (la bilancia) ed eventualmente punire gli errori compiuti (la spada).
Nel caso delle rappresentazioni allegoriche, per farci capire che una donna, ad esempio, è un concetto astratto e non una persona reale in carne ed ossa, gli artisti ricorrono spesso al nudo. La nudità, secondo il contesto dell’immagine, può infatti essere già un attributo allegorico. Nel caso del quadro di Gericault “La libertà guida il popolo”, l’immagine femminile è appunto un’allegoria (la libertà) e per questo motivo l’artista la rappresenta parzialmente nuda. Se fosse stata vestita poteva essere scambiata per un personaggio storico, così è invece evidente la sua “astrazione”.
Nel caso delle immagini che hanno un significato non apparente, c’è da distingure tra “allegoria” e “metafora”. Con il primo termine abbiamo indicato, in genere, il processo di personificazione di concetti astratti. Il caso della metafora è quando un’immagine, oltre ad un significato immediato e reale, può contenere anche un significato più nascosto, e che per essere interpretato necessita di particolari conoscenze. In molti casi un artista può raccontare un episodio storico realmente successo (ad esempio “I vespri siciliani” come fatto da Hayez), ma il vero significato della sua genesi va letto più in profondità come se fosse una metafora: ricordare, nel 1821, agli italiani, che già altre volte si erano ribellati agli invasori stranieri. Quindi il quadro, inserito nel clima risorgimentale di quegli anni, ha un significato duplice: uno immediato ed uno metaforico.
In ogni caso, allegorie e metafore, sono tecniche che gli artisti utilizzano comunemente per costruire le loro opere. Ci sono stati periodi storici, in cui ciò è stato molto diffuso: i quadri si presentavano come degli indovinelli da risolvere. Ciò, tuttavia, con il passare del tempo è divenuto sempre più problematico, al punto che oggi i veri significati di capolavori notissimi, come “La primavera” di Botticelli, “La flagellazione” di Piero della Francesca o “La tempesta” di Giorgione, ci sono ancora ignoti, e oggetto di continue revisioni critiche.


3. Esercitazioni di lettura di opere d’arte

 

Apollo e Dafne, di Gian Lorenzo Bernini
Il gruppo di Apollo e Dafne è una delle prime opere realizzate da Gian Lorenzo Bernini, ed è già un esempio altamente mirabile della sua grande padronanza dei mezzi espressivi della scultura, che ne faranno uno dei più grandi scultori non solo del Seicento ma di tutti i tempi. La storia rappresentata riprende ovviamente il mito di Dafne, la fanciulla che per sfuggire ad Apollo chiese aiuto alla madre Gea che la trasformò in pianta di alloro. Bernini concentra la sua attenzione sull’istante nel quale avviene la metamorfosi. Lo slancio di lì a qualche istante si bloccherà nella fermezza più assoluta, tuttavia Bernini riesce a farci sentire con tutta la struggente intensità possibile l’ultimo palpitante istante di vita. Tutto il monumento è come un arco teso per far scoccare una freccia, che in realtà non parte, ma che ci trasmette la sensazione di quell’attimo fuggente che è la dinamica stessa della vita. Da notare che in questo svolgersi secondo un motivo ad arco, il gruppo ha visivamente uno sbilanciamento in avanti che lo rende altamente instabile. Si tratta ovviamente solo di un effetto ottico ma ottenuto con grande virtuosismo. Ciò rientra in pieno in quella nuova estetica diffusasi con il barocco, che ricerca sempre le linee curve, di contro a quelle rette, per esprimere slancio, vitalità, eleganza e movimento. Tutte qualità che ritroviamo in pieno nel monumento realizzato da Gian Lorenzo Bernini.

 

Amore e Psiche, di Antonio Canova
Il gruppo, oggi conservato al Louvre, appartiene alle allegorie mitologiche della produzione canoviana. Esso rappresenta Amore e Psiche nell’atto di baciarsi. Eseguita in marmo bianco, la scultura ha superfici levigate ed un modellato molto tornito. La composizione ha una straordinaria articolazione: la donna, Psiche, è semidistesa, rivolge il viso e le braccia verso l’alto e, per far ciò, imprime al corpo una torsione ad avvitamento; l’uomo, Amore, si appoggia su un ginocchio mentre con l’altra gamba si spinge in avanti inarcandosi e contemporaneamente piegando la testa di lato per avvicinarsi alle labbra della donna. Il soggetto è probabilmente tratto dalla leggenda di Apuleio, secondo la quale Psiche era una ragazza talmente bella da suscitare l’invidia di Venere, così che la dea le mandò Amore per farla innamorare di un uomo brutto. Ma Amore, dopo averla vista, se ne innamorò e, dopo una serie di vicissitudini, ottenne che Psiche entrasse nell’Olimpo degli dei, per restare con lui. Il soggetto è qui utilizzato come allegoria del potere dell’amore, visto soprattutto nell’intensità del desiderio che riesce a sprigionare: da qui la scelta di fermare la rappresentazione all’istante prima che il bacio avvenga ed il desiderio si consumi.
Per comprendere lo spirito della cultura neoclassica è utile confrontare il gruppo scultoreo di Amore e Psiche con un’altra famosa allegoria mitologia: l’«Apollo e Dafne» di Gian Lorenzo Bernini. Quest’ultimo gruppo scultoreo fu realizzato tra il 1622 e il 1625, agli inizi della diffusione del barocco, e rappresenta indubbiamente uno dei maggiori esiti di questo stile di cui Bernini fu uno dei maggiori rappresentanti. Dafne, secondo la mitologia, era una bellissima fanciulla di cui si era innamorato Apollo. Dafne, per sfuggirgli, scappò ai piedi del Parnaso e qui, nel momento in cui stava per essere raggiunta da Apollo, chiese aiuto alla madre che la trasformò in una pianta di alloro.
Il gruppo del Bernini rappresenta indubbiamente un attimo fuggente: Dafne viene appena sfiorata da Apollo ed ha già i capelli che stanno divenendo dei rami di alloro. È giusto un attimo: l’istante successivo Dafne non ci sarà più. Per enfatizzare ciò Bernini dà al gruppo un’apparenza di equilibrio instabile, evidente soprattutto nella curva ad arco che forma il corpo di Dafne. Il gruppo del Canova ha invece una fermezza ed una staticità molto più evidenti. Lo si osservi soprattutto nella visione frontale. Il corpo di Psiche insieme alla gamba e alle ali di Amore formano uno schema ad X simmetrico. Al centro di questa X le braccia di Psiche definiscono un cerchio perfetto che inquadra al centro il punto focale della composizione: quei pochi centimetri che dividono le labbra dei due. In quei pochi centimetri si gioca il momento pregnante, ed eterno, del desiderio senza fine che l’Eros sprigiona.
La differenza tra le due sculture non è da ricercarsi sulla differenza stilistica o formale, risultando entrambe di notevolissima fattura per tecnica esecutiva, ma sulla diversa cultura che le ispira. Lo sforzo del Bernini è di cogliere la vitalità della vita in continuo movimento, e per far ciò cerca di annullare la materia per lasciare solo la sensazione del divenire. Canova mostra invece tutta a tensione neoclassica di giungere a quella perfezione senza tempo in cui nulla più può divenire, e per far ciò pietrifica la vita dando alla materia una forma definitiva ed eterna.

 

Concerto campestre, di Tiziano Vecellio
«Il concerto campestre» è una tela che ha sempre posto notevoli problemi di attribuzione, dato che la critica si è spesso divisa tra l’attribuzione a Giorgione o a Tiziano. In realtà, per il contenuto che esso esprime, sarebbe facile attribuirlo a Giorgione, ricordando che questo artista fu anche appassionato di musica. Da un punto di vista stilistico l’opera ha caratteristiche più tizianesche, così che non è da escludere che il quadro è stato probabilmente ideato da Giorgione ma poi realizzato (o finito) da Tiziano. Il contenuto del quadro va letto come un’allegoria sulla dimensione trascendentale della musica. La ninfa nuda di spalle, con il flauto in mano, sta insegnando la musica ai due pastorelli innanzi a lei. L’altra sta versando dell’acqua in una vaschetta, per simboleggiare un rito di purificazione. Le due donne sono nude perché appartengono alla natura, mentre i due uomini appartengono alla civiltà e perciò sono vestiti. Il significato allegorico dell’immagine sta in ciò: l’uomo civile riceve dalla natura il dono della musica, che rimane la più trascendentale tra le arti, solo dopo essersi purificato.

 

Pellegrinaggio a Citera, di Antoine Watteau
Nel 1717 Jean-Antoine Watteau, da quindici anni a Parigi, chiese di essere ammesso all’Accademia di Belle Arti. Come saggio di ammissione realizzò questa tela, che oltre ad essere la sua opera più famosa, è anche uno dei più celebri quadri di tutto il Settecento europeo. Di questo quadro esiste anche una seconda versione, oggi conservata a Berlino.
Il quadro è apparentemente semplice, in realtà si rivela molto più enigmatico ad una attenta lettura. Come il titolo ci suggerisce, le persone che sono raffigurate si apprestano ad imbarcarsi per l’isola di Citera, la mitica isola di fronte alla quale nacque dal mare Venere. L’imbarcazione che li attende ha un aspetto decisamente irreale: oltre ai due rematori, personaggi che sembrano usciti dalla Divina Commedia, vi è una schiera di puttini che dall’imbarcazione si alzano verso il cielo.
In realtà il viaggio che si apprestano a fare è solo una metafora, la cui interpretazione rimane però dubbia. Si può protendere per un significato felice: le coppie si apprestano a convolare verso un ideale luogo che solo chi è innamorato può realmente sapere, perché quella è una condizione che tutto trasfigura. Oppure il significato può essere più malinconico: in realtà quell’imbarco è qualcosa che assomiglia di più ad una uscita di scena.
In realtà il fascino di questo quadro è proprio in questa ambiguità, che sembra unire gli opposti in una struggente sintesi: il momento dell’innamoramento e il momento del suo ricordo, la felicità e il suo nostalgico abbandono. Dalla coppia posta sulla destra, che è indubbiamente il punto dal quale partire, il procedere verso l’imbarcazione crea un movimento che non è solo spaziale ma anche temporale. Come se le diverse coppie rappresentino diverse fasi della stessa storia: da quella iniziale del corteggiamento, a quelle intermedie dell’unione, a quella finale dell’«imbarcarsi».
Il tutto si svolge in una cornice naturale che è anch’essa estremamente struggente: un posto che appare solo nei territori del sogno. La vegetazione, la rovina sulla destra, l’acqua del fiume, ma soprattutto i colori del cielo, creano un’atmosfera irreale, dolce e malinconica allo stesso tempo. Vi è qualcosa di difficilmente definibile in questo paesaggio, che rende questo quadro davvero unico rispetto a tutta la produzione pittorica coeva.

 

L’altalena, di Jean-Honoré Fragonard
Questa opera può essere considerata una delle più emblematiche del gusto rococò. Protagonisti della scena sono tre persone: una donna che dondola sull’altalena, un uomo che la spinge, ed un secondo uomo che è posto semisdraiato a terra per poter sbirciare tra le gonne della donna. In realtà il committente del quadro aveva chiesto esplicitamente che fosse rappresentato questo momento voyeuristico. Anche questo è un segno dei tempi dei quali la pittura rococò si fece interprete.
Tuttavia, al di là del soggetto dell’opera, il quadro ha un fascino molto evidente. L’immagine ha un aspetto sfavillante, dove i colori creano una trama cromatica di grande sensualità. Il tutto vuole essere una festa per gli occhi, senza alcuna preoccupazione per significati ideologici. È un quadro, in sostanza, che parla agli occhi e al cuore, non certo alla mente degli spettatori.
Da un punto di vista stilistico il quadro ha una ricchezza di toni assolutamente straordinaria. La luce sembra far vibrare ogni foglia che tocca. Se ciò avviene è soprattutto perché Fragonard adotta una tecnica basata solo sul contrasto tonale. In pratica vi è un’alternarsi continua e fitta di piccoli tocchi di colori, alcuni molto saturi altri molto chiari, creando così questa sensazione di riflessi e rifrazioni che danno vitalità all’immagine.
Il motivo fondamentale del quadro è dato dall’incrocio delle due diagonali. Una è il fascio di luce, che penetra nella fitta vegetazione, l’altra è quella creata dal movimento dell’altalena che si prolunga in basso nella figura dell’uomo semidisteso. Il quadro ha quindi una composizione decisamente dinamica, in quanto le due diagonali sono molto immateriali, quali la luce e il movimento. Non solo, diagonale dell’altalena ha un deciso scarto in avanti verso lo spettatore, così che l’altra diagonale sembra crearle uno spazio vuoto posteriore. Ciò arricchisce l’immagine di una spazialità che a prima vista non appare in maniera immeditata, in quanto lo spazio sembra quasi annullarsi nell’ombra creata dalla fitta vegetazione.
Il quadro è decisamente un attimo fuggente. Esso non racconta una storia, ma vuole solo rappresentare una sensazione. Il gusto pittoresco è molto evidente: la natura è sicuramente irregolare e spontanea, e non mancano neppure le rovine classiche. In sostanza, con questo quadro il gusto rococò conosce una delle sue punte più alte, nonché il suo canto del cigno.

 

Il giuramento degli Orazi, di Jacques-Louis David
Il giuramento degli Orazi è di certo il quadro neoclassico più famoso e quello che meglio sintetizza le nuove concezioni artistiche di David. L’immagine è costruita con perfetto equilibrio, con linee nette e colori freddi. La scena è collocata in un ambiente di severa e spartana solidità. L’ambiente è raffigurato secondo i principi della prospettiva centrale. Ciò dà un senso di equilibrio orizzontale che accentua la solennità del momento rappresentato. Il quadro si divide idealmente in tre riquadri distinti, segnati dai tre archi a tutto sesto dello sfondo. Nel primo riquadro ci sono i tre fratelli Orazi. Sono visti di scorcio così che sembrano quasi formare un corpo solo. Hanno le gambe leggermente divaricate in avanti, il braccio proteso. I loro lineamenti sono tesi, le espressioni sono concentrate: esprimono tutta la determinazione che li porta a sacrificare la loro vita per la patria. Al centro, nel secondo riquadro, c’è il padre. Ha un aspetto solenne. Ha in mano le tre spade che sta per consegnare ai figli dopo aver raccolto il loro giuramento. L’altra mano è sollevata in alto, a simboleggiare la superiorità del principio per il quale vanno a combattere: la difesa della patria e delle loro famiglie. Nel terzo riquadro ci sono le moglie degli Orazi con due figli. Sono accasciate ed addolorate anche se non compiono gesti di teatrale disperazione. Non piangono neppure. La loro sofferenza è intensa ma composta. Sopportata con grande dignità, perché comprendono la necessità del sacrificio dei loro uomini.
Il soggetto storico è qui utilizzato con un unico contenuto: l’esaltazione dell’eroismo. Eroi sono coloro che volontariamente scelgono di mettere a rischio la propria vita per il bene comune dei propri familiari e della propria terra. L’eroe, in questo quadro, ha caratteri di intensa virilità che contrastano con i molli caratteri dei tanti damerini che affollavano la società aristocratica del Settecento. Ma non è un attributo solo degli uomini. Eroiche sono anche le donne che devono pagare il prezzo del dolore. La differenza psicologica dei personaggi viene resa in forme visibile dalle loro pose: diritte e tese le linee che formano gli uomini, curve e sinuose le linee che disegnano le donne.
Rispetto alla pittura rococò, che cercava la sensualità della visione con colori tonali, luci calde e ombre accoglienti, la pittura di David si mostra al contrario fortemente idealizzata. La luce che illumina la scena è netta e tagliente, le forme sono disegnate con grossa precisione, il rilievo dei corpi è affidato al più classico del trattamento chiaroscurale. Nulla deve essere seducente per l’occhio o i sensi. L’immagine deve invece colpire la coscienza dell’osservatore. Non deve offrirgli consolanti sensazioni estetiche ma deve smuovergli il cuore. Deve richiamarlo a valori forti. Valori come l’eroismo. Valori tanto necessari in una fase storica come questa in cui la società francese si prepara a quella rivoluzione destinata a cambiare il corso della storia europea.
Il richiamo all’eroismo è il grande contenuto di questo quadro. Un contenuto etico. Un contenuto forte. E, per far ciò, il David abbandona del tutto quella sensazione di attimo fuggente che caratterizza tutta la pittura del Settecento rococò. Egli sceglie di rappresentare la vicenda secondo la tecnica del momento pregnante. Il momento eterno. Quel momento in cui la coscienza cambia per sempre per una scelta che non può più farci tornare indietro. Quel momento da consegnare per sempre alla storia.
Il quadro di David fu realizzato a Roma e poi trasportato a Parigi. Il successo che ebbe fu immenso e decretò la fama di David. La data della sua esecuzione, a soli quattro anni dallo scoppio della Rivoluzione Francese, fanno sì che questo quadro ben rappresenti il clima prerivoluzionario della Francia. Un clima in cui, anche grazie ai quadri di David, si avvertiva la necessità di un ritorno ai valori etici forti che avrebbero consentito ai francesi il sacrificio di tante vite umane pur di affermare i nuovi valori di libertà, uguaglianza e fraternità.
Il David ha utilizzato la storia classica per altri quadri simili a questo. Ricordiamo «Belisario riconosciuto» (1781), «Il dolore di Andromaca», «Le Termopili», «I Littori portano a Bruto i corpi dei suoi figli» (1789), e «Il Ratto delle Sabine» (1799). Ma in nessuno di questi quadri David riesce a raggiungere un uguale livello di comunicatività e di sintesi tra contenuto e forma. Nelle sue altre opere di soggetto storico si avverte un’ispirazione più di maniera ed una eccessiva teatralità scenica che stemperano l’emozione che l’immagine vuole trasmettere.

 

La zattera della Medusa, di Théodore Géricault
Il quadro di Gericault, la zattera della Medusa, prende spunto, nel suo soggetto, da un fatto di cronaca successo nel 1816: l’affondamento della nave francese Medusa. Gli occupanti della nave si rifugiarono su una zattera che rimase abbandonata alle onde del mare per diverse settimane. Gli sfortunati occupanti di quella zattera vissero una esperienza terribile che condusse alla morte la gran parte di loro. Solo una quindicina di uomini furono tratti in salvo da una nave di passaggio, dopo che su quella zattera era avvenuto di tutto, anche fenomeni di cannibalismo. L’episodio colpì molto l’immaginazione di Gericault che, immediatamente, si mise al lavoro per la realizzazione di questa che rimane la sua opera più famosa.
Bisogna ricordare il periodo storico in cui è nata questa tela. La Francia era appena uscita da una esperienza storica che l’aveva profondamente segnata: prima la Rivoluzione e poi l’impero napoleonico. Napoleone, nel 1815, a Waterloo era stato definitivamente sconfitto e confinato nell’isola di Sant’Elena. Nel 1816, con il Congresso di Vienna, gli stati europei avevano ripristinato la situazione geo-politica antecedente la Rivoluzione Francese. Tutto ciò che era successo con questa esperienza francese sembrava definitivamente cancellato con un colpo di spugna.
Lo stato d’animo dei francesi, in quegli anni, era soprattutto di sconforto e di delusione. Sentimenti originati dalla constatazione che ciò che essi avevano fatto non era servito a nulla. Il senso di disagio e di deriva finiva per rispecchiarsi direttamente in un quadro che rappresentava appunto un naufragio. Così, volutamente o casualmente, la zattera della Medusa divenne la metafora di un naufragio che, simbolicamente, vedeva coinvolta tutta la nazione francese. Se «Il giuramento degli Orazi» di David rappresenta la Francia prima della Rivoluzione, «La zattera della Medusa» dà l’immagine psicologica della Francia dopo che la Rivoluzione si è conclusa con il fallimento dell’impero.
Il quadro di Gericault, dunque, usa un episodio di cronaca quotidiana per esprimere un contenuto preciso: la vita umana in bilico tra speranza e disperazione.
Formalmente il quadro è costruito secondo il classico sviluppo piramidale. Nel quadro di Gericault le piramidi sono in realtà due ed esprimono due direzioni che si incrociano tra loro opponendosi. La prima piramide parte dall’uomo morto in basso a sinistra ed ha il vertice nell’uomo che, di spalle, sta agitando un panno. È la direzione umana cha va dalla disperazione, di coloro che sono morti, alla speranza di chi ha ancora la forza di agitarsi con la speranza di essere visto da qualcuno che vada a salvarli. La seconda piramide parte dalle onde del mare per giungere all’albero che sorregge la vela. Questa è la direzione del mare che spinge in direzione opposta rispetto alla direzione delle speranze umane. È proprio la tensione visibile tra queste due forze opposte a dare un primo tratto drammatico alla scena.
Nei primi studi, preliminari alla realizzazione finale del quadro, Gericault mise una nave all’orizzonte nella direzione in cui guarda l’uomo che agita il panno. La presenza della nave all’orizzonte dava in realtà la sensazione del lieto fine. La sensazione che oramai, per i sopravvissuti, la brutta avventura stava per volgere all’epilogo. Ciò comportava lo scioglimento della tensione psicologica.
Nella stesura definitiva la nave all’orizzonte scompare, proprio per aumentare il senso del phatos. Chi guarda non sa come la vicenda andrà a finire e quindi deve cogliere la sensazione drammatica di chi ancora non sa se verrà salvato o meno. E lo spettatore non può saperlo, anche perché vede lo stesso orizzonte che guarda l’uomo che agita il panno. Se la composizione fosse stata ruotata di 180 gradi, e l’uomo guardava verso lo spettatore del quadro, avrebbe idealmente chiesto a lui aiuto. In questo caso si sarebbe aumentato il senso di pietà da parte dello spettatore nei confronti di chi, dal quadro, gli chiedeva aiuto. Invece, vedendo l’uomo di spalle, è costretto a compenetrarsi nel suo punto di vista. E all’orizzonte di quel punto di vista lo spettatore non vede, e non potrebbe vedere, nulla. Così che deve vivere totalmente il dubbio dell’uomo che non sa quale sarà il finale, la morte o la salvezza, che lo aspetta.
In quest’opera, di altissima tensione drammatica, Gericault usa più riferimenti alla storia dell’arte. L’atmosfera e i contrasti luministici rimandano inevitabilmente a Caravaggio. Anche il braccio abbandonato nell’acqua, dell’uomo morto in basso a sinistra, è copiato da Caravaggio. Lo stesso braccio che copiò David nella «Morte di Marat». Le figure hanno una tensione muscolare, e una torsione, che rimandano immediatamente a Michelangelo. Le figure in basso a sinistra, del ragazzo morto e del padre che lo sorregge pensoso, sembrano due statue greche. Da notare il particolare del ragazzo che, benché nudo, ha le calze arrotolate ai piedi. Questo particolare, di crudo realismo, sgombera il campo da qualsiasi lettura mitologica o idealizzata. Quelle calze, così comuni e banali, danno il senso tragico della umanità violata, ossia della morte vera che spegne le persone vere in carne ed ossa.

 

Fonte: http://www.liceolaurabassi.it/wp-content/uploads/2012/12/dispensa1Estetica-e-Storia-dellarte.doc

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