Calcio e potere

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Calcio e potere

 

Calcio e potere / A proposito dei Mondiali in Sudafrica

 

Calcio e Moschetto,
fascista perfetto…

 

Barometro diplomatico e strumento di propaganda, da tempo il calcio è molto più d’un semplice gioco. Il primo a comprenderne le implicazioni politiche fu il Fascismo. Che ne fece un mezzo – soprattutto con i Mondiali del 1934 e del 1938 – con cui diffondere la propria ideologia, ottenere il consenso popolare e vantare orgoglio nel mondo intero. Ma con qualche “effetto collaterale” non previsto e non gradito...

 

di Paolo Sidoni

Non è certo un caso che negli anni Venti le passioni sportive fossero battezzate con il nome di “tifo”. In quel periodo il tifo era infatti una malattia talmente diffusa e contagiosa che i suoi tipici effetti – offuscamenti  e alterazioni mentali – dovettero  prestarsi facilmente all’analogia tra i due fenomeni. Secondo Gustave Le Bon, autore a fine Ottocento di un saggio sulla psicologia delle folle, le passioni collettive potevano essere manipolate per scopi politici. Stando a questa teoria, la comprensione della natura emotiva, violenta e distruttiva della folla, avrebbe permesso ai politici di assurgere a guide carismatiche delle masse. Di Le Bon, Mussolini fu un fervente ammiratore. E applicando con capacità le sue teorie diede vita a un mondo di miti, simboli e liturgie, attraverso cui radicò e consolidò il potere in tutto il paese. Nell’ambito della “fabbrica del consenso”, felice definizione che lo storico Phillip Cannistraro diede del complesso massmediatico fascista, l’utilizzo dello sport professionale come instrumentum regni assunse un peso considerevole. I tempi erano maturi. La cultura del corpo fisico e del tempo libero, non ultima fra le grandi rivoluzioni sociali dell’Ottocento, avevano raggiunto un tale spicco che già negli anni Trenta gli assi dello sport avevano scalzato poeti, scienziati, santi e trasmigratori, dai primi posti nel pantheon degli eroi dei tempi moderni. Tra gli sport che maggiormente riscossero l’interesse di un vastissimo pubblico, accanto a ciclismo, boxe e alle discipline motoristiche, si andò facendo largo il calcio, spesso chiamato ancora football, all’inglese. Inizialmente gli appassionati di calcio erano di ben poco conto, ma l’impennata di presenze alle partite lasciava intravedere la tendenza ad un significativo incremento: se nel 1910 l’incontro Internazionale-Bologna non richiamò più di trecento spettatori, lo stesso anno per Italia-Francia i presenti si contavano già in quattromila per quadruplicarsi, in occasione dello stesso match, quattro anni più tardi.

Che il pubblico degli stadi richiamasse l’immagine delle folle minacciose di Le Bon sembrò probabilmente un’esagerazione, anche se già nel 1905 si erano registrate le prime invasioni di campo da parte delle tifoserie, manifestazioni che pochi anni dopo aumentarono in veemenza. Come ricordano gli studiosi Antonio Papa e Guido Panico (“Storia sociale del calcio in Italia”, il Mulino, 1993), durante l’incontro tra la Spes Livorno e il Pisa Sporting Club del gennaio 1914 “i supporters delle due squadre si erano scambiati lanci di sassi e colpi di rivoltella”. Ancora adolescente il calcio creava così tra le schiere dei suoi appassionati tensioni incontrollate. E seguendo l’esempio dei Giochi olimpici [vedi Storia in Rete, luglio-agosto 2008, “Le Olimpiadi della discordia”], la politica iniziava ad accompagnare il pallone sul campo da gioco. Una prerogativa che non apparteneva unicamente al potere costituito. Anche il dissenso trovò negli stadi posto dove organizzare le proprie tribune politiche. In occasione di un incontro nel 1923 tra l’Austria e l’Italia, il Partito comunista della “Vienna rossa” invitò i suoi iscritti a manifestare contro l’arrivo di duemila tifosi italiani, considerati rappresentanti di un paese fascista. Dieci anni dopo, strappando dalle mani di Niccolò Carosio il microfono con cui il noto radiocronista stava commentando l’amichevole tra Belgio e Italia, gli esuli antifascisti a Bruxelles trasmisero un appello ai connazionali in patria.

Lo storico Simon Martin, autore di un libro sullo sport nazionale sotto Mussolini (“Calcio e fascismo”, Mondadori, 2006), ha notato come “il calcio è il più naturale campo di battaglia metaforico in cui atti di eroismo individuale venivano compiuti a beneficio del collettivo”. In sostanza, gli sport di squadra richiamavano meglio e più di altri l’idea cardine fascista della società organica – o, come lo chiamò Mussolini, “armonico collettivo” – in cui l’interesse generale doveva primeggiare rispetto ai bisogni del singolo individuo. Non solo. Anche un altro asse portante della dottrina fascista sembrava riverberarsi nel football: il principio dell’autorità assoluta del capo. Un concetto che il duce del pallone Vittorio Pozzo, allenatore della nazionale dal 1929 al 1948, espresse chiaramente quando affermò che le “regole che governano lo sport impongono il principio di autorità, senza il quale non può esistere l’ordine”. “Un assist – continua Martin – che il Fascismo non poteva rifiutare”. E che, nei fatti, non si lasciò certo sfuggire. Ma furono gli stessi vertici calcistici, a seguito di uno sciopero indetto dagli arbitri, che nel 1925 coinvolsero nel mondo del football il governo, lamentandosi del suo scarso interesse. Il CONI presieduto da Lando Ferretti e posto alle dirette dipendenze del PNF, ricevette nel luglio del 1926 mano libera per ristrutturare il sistema del calcio italiano. Due mesi dopo, con la “Carta di Viareggio” veniva creata la serie nazionale, facendo coincidere la politica fascista con le necessità di ammodernamento dello sport italiano. Le numerose società vennero sottoposte a un processo di fusione che permise di affermare sia la loro identità italiana che quella locale. Era il primo passo che culminò nel giro di due anni con la creazione di un’unica serie, in cui si sarebbero affrontate soltanto le migliori realtà del paese. Le due squadre locali di Trieste si associarono dando vita alla Triestina, ammessa alla massima Divisione con un provvedimento che ne voleva rimarcare l’italianità dopo il lungo periodo trascorso sotto il dominio austro-ungarico. Intanto, nel 1927, sulla maglia da gioco degli Azzurri allo scudo sabaudo si aggiungeva il fascio littorio. Il calcio iniziava a essere manipolato fino a diventare una vetrina permanente per le idee del regime. “Lo sport è per noi uno strumento di propaganda e autorità della nazione”, spiegò Ferretti alla giovane generazione investita del compito di difendere e promuovere con muscoli e sudore l’onore del paese e del Fascismo.

Il gerarca cui spettò il compito di mettere in atto la Carta di Viareggio fu Leandro Arpinati, ras dell’Emilia, segretario del PNF e presidente della FIGC dal 1926 al ’33, che della politicizzazione del calcio in senso fascista fu il maggior artefice. La sua fama crebbe ulteriormente quando nel 1926 si attivò per la costruzione di un nuovo stadio a Bologna: il Littoriale. Le 24 ore passate dal Duce per l’inaugurazione del complesso sportivo saranno però ricordate per l’attentato contro la sua vita, che diede origine all’inizio della dittatura vera e propria. La partita internazionale che nel 1927 inaugurò il nuovo stadio bolognese fu disputata tra Italia e Spagna alla presenza del principe Don Alfonso, erede al trono iberico. Martin chiarisce come l’incontro, «occasione per il regime di sottolineare i presunti legami di razza e amicizia tra le due nazioni, assunse così sia il significato di barometro diplomatico nei rapporti dell’Italia fascista con gli Stati esteri, sia quello di mezzo attraverso cui il regime sperava di cementare e rafforzare amicizie» in campo internazionale. Non fu certo l’unico episodio di “diplomatizzazione del football”. Il Protocollo di Roma, siglato nel ’34 tra Italia, Austria ed Ungheria, venne infatti accompagnato da un triangolare amichevole fra le rispettive nazionali.

Dalla propaganda Mussolini è sempre stato dipinto come il primo sportivo d’Italia ma, in realtà, uomo di sport non lo fu affatto. In passato aveva frequentato le sale di scherma e gli incontri di boxe, pratiche pressoché doverose nell’Italia dei duelli politici. Ma, esclusi automobilismo e aeronautica, passioni assimilate dal Futurismo, di fronte alle altre discipline, calcio incluso, il capo del Fascismo rimaneva del tutto indifferente. Con i primi Mondiali, disputati nel 1930 in Uruguay, fu ormai chiaro come il football fosse divenuto un consistente fenomeno di massa a livello internazionale. L’occasione pose anche in evidenza la drammatica esplosione del nazionalismo sportivo. La finale tra Uruguay e Argentina, vinta dalla prima per 4 a 2, fece esplodere le violenze. La «reazione degli sconfitti fu vivacissima e sconsiderata”, rievocano Papa e Panico: la “federazione argentina ruppe i rapporti con quella uruguaiana, l’ambasciata uruguaiana a Buenos Aires fu assalita dai tifosi argentini, i disordini e gli scontri con la polizia provocarono la morte di un manifestante». I successivi Mondiali italiani del ‘34 furono invece un’occasione per mostrare al mondo le conquiste del Fascismo, compattando al tempo stesso la nazione intorno al calcio che aveva ormai subito una trasfigurazione epica, elevando nell’immaginario collettivo gli Azzurri a rappresentanti dei destini stessi della nazione, forgiata nel crogiuolo della rivoluzione grazie alla quale il Fascismo aveva costruito un “italiano nuovo”, che era anche in grado di giocare a calcio. E di vincere. I Mondiali del 1934 furono il primo passo di un percorso che avrebbe portato l’Italia a dominare nel panorama del football internazionale.

L’apparato propagandistico si attivò subito per allestire uno spettacolo di efficienza assoluta. Il comitato organizzativo diretto dal nuovo presidente della FIGC, il console generale della Milizia Giorgio Vaccaro, si prodigò per sfruttare al massimo la risonanza internazionale che il torneo offriva. Grazie all’installazione di grandi impianti telefonici e telegrafici, le radiocronache vennero trasmesse dagli speakers in quattro lingue e diffusi in nove paesi, tra cui gli USA e l’Argentina. Oltre a quella del Mondo, per i vincitori venne aggiunta la Coppa del Duce, premio offerto in nome dello stesso Mussolini. Ma ciò che maggiormente risaltò da quei Mondiali in camicia nera furono le innumerevoli foto sui rotocalchi e i video degli incontri girati dagli operatori dell’istituto LUCE, in cui i giocatori delle squadre internazionali a inizio partita omaggiavano, salutando romanamente, le autorità italiane presenti nelle tribune: una chiara riverenza nei confronti di Mussolini e del Fascismo, un’icona con cui il regime otteneva più prestigio che non mille dichiarazioni. La voce che voleva il presidente della FIFA Jules Rimet aver affermato essere lo stesso Mussolini il vero presidente del calcio mondiale, fu forse solo frutto di fantasticherie. I fatti inducevano però a pensarlo, e non del tutto a sproposito. Il 19 giugno, nello Stadio del Partito, si disputò la finale fra Italia e Cecoslovacchia, il risultato fu di 2 a 1 per gli Azzurri, che alzarono al cielo la Coppa del Mondo. Ma sembrava che a farlo fosse Mussolini in persona. Una gloria sportiva che si andava ad aggiungere alle altre conquiste ottenute in quel periodo dall’Italia: il terzo titolo mondiale del ciclista Binda; quello dei massimi di Carnera; il nutrito medagliere azzurro alle Olimpiadi di Los Angeles. E ancora, le vittorie di Varzi e Nuvolari sui circuiti automobilistici, la trasvolata atlantica della pattuglia aeronautica di Italo Balbo.

Freschi della vittoria, gli Azzurri andarono a Londra per affrontare la nazionale inglese in quella che la stampa definì, dal nome dello stadio, la “battaglia di Highbury”. Non solo una sfida tra due delle migliori squadre al mondo, ma anche uno scontro tra le ideologie politiche dei due paesi, Fascismo e Liberaldemocrazia. La stampa italiana esacerbò la militarizzazione del lessico calcistico, definendo lo stadio “teatro di una guerra internazionale” e gli Azzurri “soldati dello sport”, difensori in campo nemico della patria e della fede fascista. Combattuto dall’Italia in dieci contro undici, alla presenza di Guglielmo Marconi e dell’ambasciatore Dino Grandi, l’incontro si concluse con la vittoria per 3 a 2 dei bianchi d’Inghilterra. Risultato che la “Gazzetta dello Sport” definì con indulgenza, considerata l’inferiorità numerica, “una sconfitta che vale due volte più di una vittoria”.

Dopo i Mondiali del ’34 tutti si aspettavano comunque che gli undici italiani continuassero a dominare. L’alto livello sviluppato dal regime nell’atletismo – non solo quello agonistico – venne  nuovamente avvalorato dalle Olimpiadi di Berlino del ’36. La squadra di calcio azzurra formata da universitari dilettanti ebbe la meglio sui contendenti, tutti professionisti, raccogliendo così i frutti dell’impegno che il Regime aveva profuso nell’educazione fisica obbligatoria. Nel frattempo andavano però emergendo alcuni indesiderati “effetti collaterali”. Insieme all’accrescersi degli introiti dei club, la sempre maggior professionalizzazione del calcio fece aumentare anche gli stipendi, e i vezzi, dei giocatori. Quello del divismo era un aspetto dello sport che mal si adattava con lo spirito fascista. “La mondanità vistosa dei parvenus del pallone – rilevano Papa e Panico – non mancava di destare stupore tra una generazione di appassionati”. Il pericolo più grave era il cattivo esempio che veniva offerto alla gioventù; «nella società organica fascista – spiega Martin – non  c’era spazio per i componenti di una squadra che si limitassero alla ricerca della via più facile». Ma ben più grave e visibile fu il problema del campanilismo locale, che poneva un serio punto interrogativo sulla reale possibilità del calcio di contribuire allo sviluppo di un’identità nazionale. Il tentativo del regime di usare lo sport per la formazione della coscienza delle masse in senso nazionalistico, lo costrinse in realtà a riconoscere le numerose individualità che animavano la società italiana. Se da un lato il calcio fu quindi un efficace veicolo per pubblicizzare e diffondere il mito di una coesa comunità nazionale in camicia nera, dall’altro esasperò in più occasioni, complice anche la stampa sportiva locale, l’animosità dei radicati campanilismi che pervadevano la penisola.

Gli incidenti annotati nei suoi registri dal Ministero dell’Interno danno una chiara indicazione di quanto gli scontri e le violenze fossero diffuse durante gli incontri di football. Un altro problema per la gestione politica del calcio scaturì dalla norma della “Carta di Viareggio” che vietava l’ingaggio di giocatori stranieri. Una scelta retriva, considerando come la gloria per gli Azzurri fosse giunta ai massimi livelli grazie anche al prezioso apporto di numerosi calciatori provenienti dalle aree danubiana e latinoamericana. Grazie alle loro eccellenze tecniche, furono proprio i giocatori del lontano continente sudamericano a porsi in particolare risalto nell’ambito internazionale. Molti di questi vantavano nomi e discendenze dirette con gli italiani emigrati nei decenni precedenti alla volta dell’Argentina, del Brasile, dell’Uruguay. Le loro qualità calcistiche rappresentavano un’occasione di sviluppo da non perdere per il football italiano. Nelle sue memorie Pozzo ricorda come Arpinati gli replicò, risolvendo il problema: «Secondo la legge italiana, i figli di italiani nati all’estero sono considerati come italiani». La norma della “Carta di Viareggio” venne così aggirata con l’espediente della doppia cittadinanza, valendosi dell’idea fascista della “più grande Italia”. Nel periodo tra le due guerre furono così 47 i sudamericani che vennero ingaggiati dai club italiani. I cosiddetti “oriundi” vennero non solo accolti nella serie A, ma inseriti anche nella selezione nazionale che durante i Mondiali del ’34 ne schierò in campo addirittura sei. Fu proprio dopo la conquista azzurra della Coppa del Mondo che questo problema iniziò ad emergere. Casi come quello di De Maria, tornato in Argentina per assolvere agli obblighi di leva, non erano ammessi: o si era completamente italiani oppure non lo si era affatto, l’abuso della doppia cittadinanza non era né gradito né consentito dallo spirito fascista. La questione si fece ancora più spinosa quando per sfuggire alla chiamata militare durante l’impresa etiopica gli “oriundi” Guaita, Scodelli e Stagnaro, vennero fermati alla frontiera mentre tentavano di fuggire in Francia con i loro cospicui guadagni nascosti nelle valigie. Neanche gli allenatori rimasero fuori dalla controversia. Il commissario straordinario del CONI, Augusto Turati (anche lui, come Arpinati, ex segretario del PNF), disapprovò pubblicamente l’ingaggio di allenatori stranieri, limitandone il ricorso da parte delle società italiane. Anche questo caso di “italianizzazione” del calcio venne affrontato con una notevole miopia. Tecnici come l’austriaco Fellsener o gli ungheresi Meisl e Weisz avevano contribuito in maniera determinante alla crescita del football italiano. Particolarmente crudele fu il destino di Weisz che, dopo aver portato il Bologna agli apici del calcio professionale, a causa delle sue origini ebraiche venne costretto dalle leggi razziali a rinunciare alla cittadinanza italiana. Deportato in un campo di concentramento, morì dimenticato da tutti.

E mentre giungeva il momento di disputare il Mondiale di Francia del 1938, le tensioni politiche in Europa si andavano esacerbando. Qualificatisi alla Coppa del Mondo, a seguito dell’Anschluss l’Austria dovette ritirarsi per far scendere in campo alcuni suoi giocatori con i colori della Germania, che l’aveva occupata; la Spagna era devastata dalla guerra civile; l’Italia si trovava sotto le sanzioni decretate per l’invasione dell’Etiopia. Ad arroventare ulteriormente il clima contribuirono alcune dichiarazioni antifrancesi di Mussolini. Il primo confronto degli Azzurri contro la selezione norvegese a Marsiglia, città che contava una delle più numerose ed agguerrite concentrazioni di esiliati italiani all’estero, venne animato dalle proteste antifasciste. All’incontro erano presenti migliaia di oppositori del regime, controllati a vista dalla polizia a cavallo armata di sfollagente. Ad inizio partita il saluto romano della squadra italiana fece infuriare gli spalti, occupati in gran parte da un pubblico ostile. L’allenatore Pozzo ricordò come quel giorno ordinò ai giocatori di ripeterlo nuovamente: «Al saluto, ci accoglie come una bordata solenne e assordante di fischi, di insulti e di improperi... Avevamo appena messo giù la mano, che la dimostrazione riprese violenta. Subito: Squadra attenti. Saluto. E tornammo ad alzare la mano, come per confermare che non avevamo paura... Paghi di aver vinto la battaglia della intimidazione, giocammo». Quando Italia e Francia si incontrarono a Parigi per i quarti di finale, il nervosismo non si era affatto placato. Ambedue le squadre giocavano con la maglia dello stesso colore e si dovette tirare a sorte per stabilire chi dovesse cambiare divisa. Perse l’Italia, che al posto della tradizionale casacca di riserva bianca decise di indossare una maglia nera. Si disse che l’idea era venuta direttamente da Mussolini, ancora adirato per l’accoglienza di Marsiglia. La finale si svolse a Parigi tra Italia e Ungheria, che venne battuta 4 reti contro 2. Per la seconda volta successiva l’Italia si era aggiudicata il massimo trofeo calcistico. A Roma i festeggiamenti di massa richiamarono una folla di 50 mila spettatori. Con una cerimonia di carattere privato a Palazzo Venezia, Pozzo e la selezione italiana vennero ricevuti da Mussolini e dal presidente del CONI Starace (segretario del PNF anche lui), per ricevere la medaglia al valore atletico e un premio vittoria di ottomila lire. Non si trattava di un semplice trionfo sportivo. Quella vittoria sembrò a tutto il paese la prova che il programma di rigenerazione fisica e morale degli italiani voluto dal Regime fosse oramai compiuto. Cominciava così ad emergere la convinzione generale che il Fascismo avesse creato una sorta di “superuomo” italiano. Convinzione che il conflitto mondiale da lì a poco fece tragicamente svanire.

Fonte: http://storiainrete.com/wp-content/uploads/2010/06/02doc-MONDIALI-IN-CAMICIA-NERA.doc

Sito web da visitare: http://storiainrete.com/

Autore del testo: Paolo Sidoni

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