Chimica generale 4

Chimica generale 4

 

 

 

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Chimica generale 4

La radiazione elettromagnetica

Oggi noi consideriamo la luce visibile un tipo particolare di radiazione elettromagnetica, ma i fisici hanno dibattuto per lungo tempo sulla questione.

 

Modello ondulatorio e corpuscolare a confronto

La disputa intorno alla natura della luce nasce in pratica nel '600 e tra i protagonisti troviamo il grande Newton ed il fisico olandese suo contemporaneo, C. Huygens (1629-1695).

Newton, sostenitore della teoria atomica, riteneva che anche la luce fosse formata da particelle propagantesi in tutte le direzioni in linea retta, soggette alle leggi della meccanica che, come egli stesso aveva scoperto, governavano tutti i corpi materiali.

Huygens riteneva invece (Traitè de la lumiere, 1690) che la luce fosse un fenomeno ondulatorio, simile alle onde sonore che fanno vibrare l'aria o alle onde di energia meccanica che increspano la superficie dell'acqua.

 

Attraverso il suo modello ondulatorio Huygens riuscì a spiegare i fenomeni di riflessione e quelli di rifrazione, supponendo correttamente che la velocità della luce diminuisse passando da un mezzo meno denso ad uno più denso (ad esempio aria/acqua). Ritenendo che anche la luce, come il suono, fosse una vibrazione meccanica, Huygens ammise l'esistenza di un ipotetico mezzo elastico che chiamò etere, onnipresente nello spazio, al fine di giustificare la propagazione della luce nel vuoto e attraverso i mezzi trasparenti (come l'acqua ed il vetro), dove l'aria non era presente.

Anche Newton poté, d'altra parte, spiegare la maggior parte dei fenomeni luminosi allora noti attraverso il suo modello corpuscolare. La spiegazione della rifrazione in termine di particelle in moto permise ad esempio di ottenere la legge di Snell, ma costringeva Newton ad ipotizzare che le particelle, maggiormente attirate dal mezzo più denso, viaggiassero in questo più velocemente.

 

Entrambi i modelli erano in grado di giustificare, in prima approssimazione, il comportamento dei raggi luminosi, ma Newton aveva ragione nel contestare ad Huygens il fatto che, se la luce fosse stata un fenomeno ondulatorio, avrebbe dovuto aggirare gli ostacoli, come faceva il suono.

Ciò che caratterizza inequivocabilmente qualsiasi evento ondulatorio sono infatti i fenomeni di rifrazione, diffrazione e di interferenza.

La rifrazione è il fenomeno per cui un’onda subisce una deviazione rispetto alla sua direzione iniziale quando attraversa la superficie di separazione tra due sostanze in cui viaggia a velocità diversa.

 

 

La diffrazione è il fenomeno per cui un'onda devia quando incontra un'apertura o un ostacolo avente dimensioni dello stesso ordine di grandezza della lunghezza d'onda (esempi di diffrazione sono i raggi luminosi che si formano quando filtriamo una sorgente luminosa tra le ciglia socchiuse o quando riusciamo ad udire egualmente un suono da una porta aperta anche senza vedere la sorgente sonora).

 

 

 

L'interferenza è quel fenomeno per il quale due onde incontrandosi si intensificano o si indeboliscono  a seconda che si sovrappongano cresta con cresta o cresta con cavo, sommando algebricamente la loro ampiezza (un esempio di interferenza si ha quando due onde d'acqua di pari grandezza si scontrano da direzioni opposte e per un breve attimo 'scompaiono’ in corrispondenza alla sovrapposizione del cavo dell'una con la cresta dell'altra).

 

 

In realtà la risposta all'obiezione newtoniana era già presente al tempo di Huygens in un'opera di un monaco italiano, F.G. Grimaldi, pubblicata postuma nel 1665. Grimaldi era infatti riuscito a scorgere per la prima volta le frange di interferenza .

Impiegando una sorgente luminosa puntiforme e osservando attentamente su di uno schermo l'ombra di un bastone, constatò che la linea di separazione fra ombra e luce non era netta, ma presentava un certo numero di linee parallele, alternativamente chiare e scure.

Ma il lavoro di Grimaldi non ebbe alcun effetto sulla disputa ed il problema rimase praticamente in sospeso, finché, nella prima metà dell'800, non vennero raccolte prove schiaccianti a favore del modello ondulatorio di Huygens.

 

Le onde elettromagnetiche

Nel 1801 Thomas Young (1773-1829) compì in Inghilterra un esperimento rimasto famoso.

Egli costruì una sorgente luminosa puntiforme facendo passare la luce di una candela attraverso un minuscolo foro praticato su di un foglio di stagno. Al di là di questo primo foglio ne pose un secondo con due piccoli fori, dietro ai quali mise un schermo. Ora se la luce si propagasse rigorosamente in linea retta si otterrebbero sullo schermo due punti luminosi, lungo le rette congiungenti il primo foro con gli altri due. In realtà grazie al fenomeno di diffrazione i due pennelli di luce si allargano e formano due macchie di luce circolari che si sovrappongono sullo schermo. Osservando questa regione di sovrapposizione Young si accorse che essa era solcata da linee sottili chiare e scure che chiamò frange di interferenza.

 

 

Esperienza di Young

 

I raggi difratti dalle due fenditure partono in fase. Dovendo percorrere un cammino diverso (r1 ≠ r2) possono raggiungere lo schermo in fase (punto B) o fuori fase (punto A) formando una caratteristica alternanza di zone illuminate e scure, dette frange di interferenza.

 

Le esperienze di Young vennero riprese da A. Fresnel(1788-1827), il quale riuscì a dimostrare che la teoria ondulatoria permetteva di spiegare tutti i particolari delle frange di diffrazione e di interferenza.

Fresnel portò un altro importante contributo alla teoria ondulatoria della luce. Riprendendo un suggerimento di Young, egli dimostrò che tutte le caratteristiche della luce polarizzata e dell'ottica cristallina trovavano una spiegazione se si supponeva che la vibrazione luminosa nell'onda fosse trasversale, cioè perpendicolare alla direzione di propagazione, mentre la vibrazione sonora nell'aria è longitudinale, cioè parallela alla direzione di propagazione del suono.

Questa conclusione di Fresnel incontrò molte resistenze tra i suoi contemporanei, perché costringeva a ritenere l'etere dotato di proprietà contraddittorie. Se infatti si ammetteva che le vibrazioni luminose dell'etere fossero di natura meccanica, come quelle sonore, esso avrebbe dovuto essere  fine e duttile per penetrare in tutti gli interstizi dei corpi trasparenti (visto che la luce si propaga in essi) e contemporaneamente rigido ed incomprimibile, per essere incapace di trasmettere vibrazioni longitudinali (il suono non si propaga infatti nel vuoto dove dovrebbe essere presente l'etere).

 

Nel 1865 da James Clerk Maxwell (1831-1879) dimostrò che la vibrazione della luce non era di natura meccanica, ma di natura elettromagnetica, sintetizzando in un lavoro teorico le precedenti osservazioni sperimentali di Oersted e di Faraday sul magnetismo e l'elettricità.

 

Nel 1820 il fisico danese Hans Christian Oersted aveva scoperta che un magnete ed un filo percorso da corrente elettrica si attirano o si respingono reciprocamente (in relazione al verso della corrente o del magnete))

Nel 1831 Michael Faraday trovò che un magnete in movimento esercita una forza su di una carica elettrica ferma costringendola a muoversi (induzione elettromagnetica).

 

Evidentemente le cariche elettriche in movimento sono in grado di generare forze magnetiche e, viceversa, i magneti in movimento producono forze elettriche.

 

Maxwell interpretò tali risultati servendosi del calcolo differenziale, e quindi esclusivamente per via teorica, utilizzando il concetto, introdotto da Faraday di campo di forza

Quando un magnete o una carica elettrica si muovono, ovviamente il campo di forze ad esse associato varia la sua intensità. Maxwell riuscì a dimostrare che un campo elettrico la cui intensità varia con il tempo, produce nello spazio circostante un campo magnetico anch'esso di intensità variabile nel tempo. Il campo magnetico, variando di intensità, induce a sua volta un campo elettrico variabile e così via.

 

In conclusione la perturbazione iniziale del campo non rimane confinata nel punto iniziale, ma si propaga nello spazio  come campi di forze elettriche e magnetiche concatenati la cui intensità varia nel tempo con andamento ondulatorio: un'onda elettromagnetica oscillante nello spazio  e nel tempo.

 

 

La teoria di Maxwell permette anche di ottenere, sempre per via teorica la velocità di propagazione dell'onda elettromagnetica attraverso la relazione:

Dove eo è la costante dielettrica del vuoto e mo la permeabilità magnetica del vuoto. Il valore ottenuto da tale relazione è di 300.000 km/s.

La straordinaria coincidenza tra la velocità delle onde elettromagnetiche e quella della luce (calcolata dall'astronomo danese Ole Christensen Romer nel 1675) suggerì a Maxwell l'ipotesi, in seguito verificata da Hertz, che la luce non fosse altro che una radiazione elettromagnetica di particolare lunghezza d'onda.

Il formalismo matematico della teoria di Maxwell implicava inoltre che l'onda elettromagnetica fosse prodotta da campi elettrici e magnetici aventi direzione ortogonale tra loro e contemporaneamente perpendicolare alla direzione di propagazione dell'onda stessa: si dimostrava perciò che la luce era un fenomeno ondulatorio costituito da onde trasversali.

 

Nel 1888 Heinrich Hertz fornì una straordinaria conferma alla teoria elettromagnetica di Maxwell, producendo per la prima volta delle onde elettromagnetiche di elevata lunghezza d'onda, scoperta che dette l'avvio allo sviluppo della radiofonia.

Egli non poté vedere lo sviluppo della radiofonia, ma le sue scoperte gli permisero di affermare che "Se qualcosa è stabilito con certezza in fisica, questo è la natura ondulatoria della luce"

Ironia del destino volle che l'anno prima Hertz avesse scoperto  l'effetto fotoelettrico, un fenomeno inspiegabile tramite la teoria elettromagnetica classica e che pose le premesse per il suo superamento.

 

La teoria ondulatoria doveva tuttavia conoscere ancora un grande trionfo con la spiegazione nel 1912 della natura elettromagnetica dei raggi X.

 

Nel 1895 W.K. Roentgen, aveva osservato che, ponendo di fronte al catodo di un tubo di Crookes un ostacolo di natura metallica, detto anticatodo, quest’ultimo si trasformava in una sorgente di radiazioni estremamente penetranti, che non venivano deviate né da un campo elettrico né da un campo magnetico ed erano in grado di impressionare lastre fotografiche. Esse presero il nome di raggi X o raggi Roentgen.

 

L'impossibilità di deviarli mediante campi elettrici e magnetici ed il fatto che si propagassero nello spazio con la velocità della luce avevano indotto i fisici a pensare che si trattasse di radiazione elettromagnetica. Ma tutti gli sforzi fatti per rifrangerli, diffrangerli e produrre frange di interferenza rimasero senza risultati fino al 1912.

In quell'anno Max von Laue ebbe l'idea di utilizzare come reticolo di diffrazione un cristallo. Gli atomi e le molecole che formavano il reticolo cristallino risultarono essere sufficientemente vicini da formare fenditure dello stesso ordine di grandezza della lunghezza d'onda della radiazione X.

L’esperimento di von Laue ebbe una doppia valenza:

  • stabilì la natura ondulatoria dei raggi Roentgen
  • costituì una ulteriore conferma della natura particellare della materia e delle dimensioni atomiche.

 

Inoltre la tecnica messa a punto, oggi nota come difrattometria a raggi X, diventò un potente strumento per indagare la struttura della materia. Dalle figure di interferenza prodotte dai raggi X nell’attraversare la materia si può infatti risalire alle posizioni relative degli atomi al suo interno (cristallografia, strutture molecolari complesse: proteine ed acidi nucleici).

 

 

I parametri di un’onda e lo spettro elettromagnetico

Essendo dunque la luce un fenomeno ondulatorio, cioè un fenomeno che si riproduce identico a se stesso un gran numero di volte, se ne possono definire alcuni parametri caratteristici.

                               

 

Si definisce lunghezza d'onda (l) la distanza, misurata in cm, che separa due creste successive.

Si definisce periodo (T) il tempo, misurato in s, che intercorre tra due creste successive.

Naturalmente il rapporto tra lo spazio percorso (l) ed il tempo (T) necessario a percorrerlo ci fornisce la velocità (c) della radiazione elettromagnetica.

Poiché c = 300.000 km/s è una costante se ne deduce che l e T sono direttamente proporzionali.

Il numero di creste che passa davanti all'osservatore nell'unità di tempo dipende dalla lunghezza d'onda. Minore è la lunghezza d'onda maggiore è il numero di creste osservate al secondo.

 

Si definisce frequenza (n) il numero di creste che vengono osservate al secondo. La frequenza si calcola come reciproco del periodo (1/T) e si misura in cicli/s o hertz (1 Hz = 1 vibrazione al secondo).

Si definisce numero d’onde (o numero d’onda)  il reciproco della lunghezza d’onda 1/l.

Si definisce infine ampiezza  A dell’onda il valore della sua ordinata.

Si tenga presente che un fenomeno ondulatorio è sempre associato ad un trasporto di energia il cui valore è proporzionale al quadrato dell’ampiezza.

Le relazioni fondamentali che legano tali variabili sono:   

 

                                                    c = l/ T                              c = ln

 

Le onde elettromagnetiche sono state classificate in base alla lunghezza d'onda ( o, il che è lo stesso, in base alla frequenza). La classificazione di tutte le onde elettromagnetiche in funzione della lunghezza d'onda espressa in cm (ma sono frequenti come unità di misura anche il metro, l'Ångström e il micron) è detta spettro elettromagnetico.

Le onde elettromagnetiche che il nostro occhio riesce a vedere rappresentano solo una piccola porzione dell'intero spettro, compresa tra l = 0,76 m (rosso) e  l = 0,39  m (violetto).

Noi percepiamo ciascuna lunghezza d'onda all'interno di tale intervallo, detto spettro visibile, come un colore diverso. Quello a maggior lunghezza d'onda è appunto il rosso, poi arancione, giallo, verde, blu e violetto quelli a lunghezze d'onda via via minori.

Le onde elettromagnetiche aventi lunghezza d'onda maggiore sono classificate come infrarosso, microonde, onde radar e onde radio.

Le onde con lunghezza d'onda inferiore sono classificate come ultravioletto, raggi X, raggi gamma.

Le onde elettromagnetiche trasportano energia. L'energia portata da ciascuna radiazione è inversamente proporzionale alla sua lunghezza d'onda. Ciò significa che la luce rossa è ad esempio meno energetica di quella blu.

 

 

 

 

Spettri di emissione e di assorbimento

Attraverso una tecnica detta spettroscopia è possibile suddividere una radiazione composta da onde elettromagnetiche di diversa lunghezza d'onda (ad esempio la luce bianca proveniente dal sole), nelle sue componenti, dette radiazioni monocromatiche. Il risultato di tale scomposizione è una serie di righe, ciascuna corrispondente ad una singola lunghezza d'onda, le quali costituiscono uno spettro.

Si distinguono due tipi di spettri: 1) di emissione 2) di assorbimento.

 

Spettri di emissione

Si formano ogniqualvolta la materia emette radiazione elettromagnetica. Si distinguono in spettri di emissione continui e spettri di emissione a righe.

 

Spettro di emissione continuo

Se si esamina allo spettroscopio la radiazione proveniente da un corpo liquido o solido a qualsiasi temperatura, essa forma uno spettro continuo, in cui sono presenti tutte le radiazioni monocromatiche in una serie continua. L'intensità delle righe luminose cresce da sinistra a destra e, raggiunto un massimo in corrispondenza di una certa lunghezza d'onda, decresce.

Costruendo un diagramma che abbia in ascissa le lunghezze d'onda crescenti ed in ordinata l'intensità luminosa si ottiene una curva tipica, detta curva di corpo nero , che non dipende dalla natura chimica del materiale emittente, ma è funzione solo della temperatura di emissione.

 

La lunghezza d'onda in corrispondenza della quale si ha la massima intensità luminosa dipende solo dalla temperatura del corpo emittente. Diminuendo la temperatura la curva, e quindi il massimo della curva, slittano verso destra, cioè verso le lunghezze d'onda maggiori e viceversa.

La posizione del massimo è ricavabile in base alla legge dello spostamento di Wien (1894).

 

                                                                       max T = K

dove K vale 0,290 cm K

 

Temperatura e lunghezza d'onda di massima emissione risultano dunque inversamente proporzionali. È per questo motivo che un corpo portato ad alta temperatura (ad esempio una sbarra di ferro) ci appare prima rosso, poi giallo, poi bianco azzurro.

Il sole ad esempio ci appare giallo perché il giallo è la lunghezza d'onda di massima emissione  di un corpo avente una temperatura superficiale di circa 6.000 K.

 

Per temperature molto basse  il massimo di emissione non cade più nella banda del visibile, ma si sposta nella zona dell'infrarosso fino a raggiungere, per temperature bassissime, le microonde o addirittura le onde radio.

 

Naturalmente un corpo a maggior temperatura deve emettere complessivamente anche una maggior quantità di energia per unità di tempo. Quindi diminuendo la temperatura del corpo emittente la curva non solo si sposta verso destra, ma si abbassa. L'area compresa al di sotto della curva (integrale della funzione) rappresenta infatti l'energia totale emessa nell'unità di tempo e per unità di superficie radiante.

 

 

La relazione che descrive la variazione di energia emessa in funzione della temperatura assoluta del corpo emittente è detta legge di Stefan-Boltzmann (1879).

 

E = sT4

Dove s (sigma) è la costante di Stefan_Boltzmann. Sia la legge di Stefan-Boltzmann che quella di Wien non descrivono però completamente il comportamento di un corpo nero. Per tutta la seconda metà dell'ottocento l'obiettivo di grandi fisici quali Kirchoff, Bartoli, Stefan, Boltzmann, Wien, Rayleigh, era di trovare l'espressione matematica generale della funzione

 

E = f (l,T)

 

che fosse in accordo con i dati sperimentali.

Purtroppo applicando le equazioni di Maxwell e le leggi della fisica classica si ottenevano sempre relazioni matematiche in netto contrasto con i dati sperimentali .

Quello del corpo nero rimase un problema irrisolto per tutto l'Ottocento ed uno scoglio insuperato per il modello ondulatorio della luce proposto da Maxwell.

Facendo incidere un fascio luminoso su di una parete munita di un forellino (o una fenditura) avente diametro dell'ordine di grandezza della lunghezza d'onda della luce incidente, l'immagine che appare su di uno schermo è formata di anelli concentrici luminosi e oscuri (o linee parallele se fenditura). L'effetto è caratteristico dei fenomeni ondulatori e si spiega tenendo presente che i vari punti della fenditura possono tutti considerarsi per il principio di Huygens come una sorgente di onde secondarie in fase. Tali onde devono percorrere distanze diverse per giungere allo schermo. Quelle che arrivano in fase si sommano (interferenza costruttiva), mentre quelle che arrivano in opposizione di fase si annullano (interferenza distruttiva)

Nel 1809 Etienne Malus aveva scoperto la polarizzazione della luce per riflessione e J.D. Arago  aveva dimostrato che il fenomeno era identico a quello ottenuto per doppia riflessione attraverso un cristallo di Spato d'Islanda.

Un campo di forza è un una distribuzione di forze nello spazio. Ad esempio un campo elettrico è dato dalla distribuzione dei vettori forza intorno ad una carica Q che agiscono su di una ipotetica carica di prova di 1 C

In fisica è detto corpo nero un radiatore integrale, cioè un corpo che riemetta completamente tutta l'energia assorbita. Un corpo nero è naturalmente un'astrazione, ma è possibile approssimarsi ad esso con una scatola di metallo le cui pareti interne sono rivestite di fuliggine, provvista di un foro

Relazione di Wien   con a e b costanti. Relazione di Rayleigh-Jeans   con K costante

 

Il cubo di Jeans e la catastrofe ultravioletta

Un famoso esperimento ideale, suggerito da Jeans, contribuì a mettere definitivamente la parola fine alla ricerca di una interpretazione classica del problema del corpo nero.

Alla fine dell'800 la fisica classica aveva raggiunto una struttura che allora appariva praticamente definitiva. Essa si reggeva in pratica su tre pilastri: la meccanica newtoniana sistematizzata da Lagrange, l'elettromagnetismo di Maxwell e la termodinamica classica (Carnot, Clausius).

Sia la termodinamica che l'elettromagnetismo aspiravano a ridursi alla meccanica classica, il cui rigoroso determinismo appariva il fondamento stesso della conoscenza scientifica.

Fu proprio dal tentativo di ridurre le leggi della termodinamica classica a quelle della meccanica che, nella seconda metà dell'Ottocento, nacque la meccanica statistica, ad opera dello stesso Maxwell, di Boltzmann e Gibbs.

Ciò che a noi interessa qui è il cosiddetto principio di equipartizione dell'energia. Applicando tale principio alla curva di corpo nero, si giunge al risultato paradossale che l'energia di un corpo emittente si dovrebbe distribuire in modo uniforme tra tutte le lunghezze d'onda di emissione. Ciò produce un risultato assolutamente non  conforme ai dati sperimentali e nel suo esperimento ideale Jeans dimostrò proprio l'inapplicabilità del principio di equipartizione dell'energia alla risoluzione del problema del corpo nero.

Egli immaginò un cubo le cui pareti interne fossero rivestite di specchi ideali, in grado cioè di riflettere il 100% della radiazione incidente, contenente piccolissime particelle di carbone in grado di assorbire e riemettere tutta la radiazione presente nel cubo (in pratica minuscoli "corpi neri", aventi il compito di favorire gli scambi energetici tra vibrazioni di diversa lunghezza d'onda).

 

Se immaginiamo ora di introdurre una radiazione luminosa e di richiudere immediatamente la scatola, dovremmo attenderci che, per il principio di equipartizione, l'energia si distribuisca in parti uguali fra tutti i sistemi componenti (si suddivida in parti uguali tra tutte le lunghezze d'onda possibili).

Ora, se il cubo ha spigolo pari a L, le lunghezze d'onda compatibili con esso (senza che avvenga interferenza distruttiva) sono 2L, 2L/2, 2L/3, 2L/4, 2L/5 etc .

Ciò significa che mentre esiste un limite superiore alle possibili lunghezze d'onda, non ne esiste uno inferiore. Perciò se noi immettiamo nel cubo una radiazione rossa dobbiamo attenderci che questa cominci a trasformarsi, attraverso una fitta serie di assorbimenti e riemissioni ad opera del pulviscolo carbonioso, in luce verde, blu, ultravioletta, radiazione x e gamma. Tale fenomeno dovrebbe avvenire in certa misura anche nei normali forni di cucina e nelle fornaci, aprendo i quali dovremmo essere investiti da una letale radiazione a breve lunghezza d'onda.

Per molti anni dopo la pubblicazione di questo articolo di Jeans nessun fisico fu in grado di spiegare questo paradossale risultato.

   

 

 

           

Spettro di emissione a righe

Un gas o un vapore riscaldato emette una radiazione discontinua, formata solo da poche componenti monocromatiche. Tale radiazione scomposta dallo spettrografo produce uno spettro sul quale righe luminose sono separate da ampie bande oscure. Gli spettri a righe dipendono esclusivamente dalla natura chimica del materiale emittente. Ciascun elemento, ciascun composto chimico emette uno spettro a righe caratteristico, con righe di particolare lunghezza d'onda ed intensità, tanto che oggi la spettroscopia viene utilizzata per effettuare analisi chimiche.

 

 

Anche il significato da attribuire alle righe spettrali rappresentò per tutta la seconda metà dell'ottocento un problema che la teoria elettromagnetica non fu in grado di risolvere.

Nel 1855 J. Balmer, studiando le righe emesse dall'idrogeno, scoprì una relazione matematica che permetteva di ottenere il numero d’onde(reciproco della lunghezza d'onda) delle singole righe spettrali.

 

con m = 3,4,5,6....   ed RH costante di Rydberg per l'idrogeno. Se la lunghezza d'onda è misurata in cm la costante di Rydberg per l’idrogeno vale

 

                                                           RH = 10.973.731,568 527 m-1

 

 

La relazione di Balmer può essere generalizzata sostituendo al numero 2 un intero n minore di m.

 

In tal modo, è possibile prevedere per l'idrogeno l'esistenza, oltre alle 4 righe nel visibile ( una nel rosso, una nell'azzurro e due nel blu-violetto), anche altre serie, una nell'ultravioletto (serie di Lyman per n = 1) e 3 nell'infrarosso (serie di Paschen per n = 3; serie di Brackett per n = 4; serie di Pfund per n = 5), in seguito scoperte.

Naturalmente la relazione di Balmer non era in grado di spiegare perché si producessero le righe spettrali, ma solo di calcolarne la lunghezza d'onda.

 

 

Spettri di assorbimento

Quando la radiazione continua proveniente da un corpo solido o liquido passa attraverso un gas od un vapore, si constata che allo spettro continuo mancano certe radiazioni monocromatiche, le quali sono state assorbite dal gas interposto.

 

In pratica si riscontra che i gas ed i vapori assorbono le stesse radiazioni monocromatiche che emettono (legge di Kirchhoff 1859), per cui lo spettro di assorbimento risulta l'esatto negativo dello spettro di emissione a righe. Le righe nere degli spettri di assorbimento sono dette righe di Fraunhofer, il quale le osservò per la prima volta (1815) nello spettro solare.

 

I quanti di radiazione: fotoni

In definitiva, nonostante gli eccezionali risultati ottenuti, la teoria ondulatoria della luce, non era in grado di dar ragione di tre problemi: lo spettro di emissione del corpo nero, gli spettri a righe, l'effetto fotoelettrico.

 

La svolta si ebbe nel Natale del 1900, quando Max Planck ebbe un'intuizione che, come ebbe a dire egli stesso, fu più un atto di disperazione che una vera e propria scoperta scientifica.

Nel tentativo di trovare una equazione che descrivesse correttamente  la curva di corpo nero, Planck propose che le onde elettromagnetiche non potessero essere emesse da un radiatore ad un ritmo arbitrario e continuo, ma solo sotto forma di pacchetti d'onde che egli chiamò quanti.

Ogni quanto possedeva una certa quantità di energia che dipendeva dalla lunghezza d'onda della luce, secondo la relazione:

E = h n

dove n è la frequenza della radiazione e h è una nuova costante, detta costante di Planck .

 

Dalla relazione appare evidente come un quanto di luce rossa possa contenere meno energia di un quanto di luce blu. In tal modo un corpo emittente ad una certa temperatura potrebbe avere energia sufficiente per emettere quanti di luce infrarossa o gialla, ma potrebbe non avere sufficiente energia per emettere neppure un quanto di radiazione X o gamma. In tal modo ad alte frequenze il numero di quanti emessi si ridurrebbe drasticamente (e ciò spiegherebbe ad esempio il paradosso di Jeans).

La cosa incredibile fu che la curva di corpo nero così calcolata era in perfetto accordo con i dati sperimentali .

 

L'introduzione della costante di Planck che inizialmente poteva sembrare più che altro un espediente per salvare i fenomeni, risultò invece portare con sé una serie di novità sconcertanti e rivoluzionarie all'interno della fisica. Con essa nasce quella parte della fisica moderna che va sotto il nome di meccanica quantistica e di cui avremo modo di parlare in seguito.

 

Planck non portò alle estreme conseguenze il concetto di quanto di radiazione. Si limitò semplicemente a verificare che nel caso particolare in cui la materia emetteva radiazione non lo faceva  come un flusso continuo, secondo le leggi dell'elettromagnetismo classico, ma, per qualche misterioso motivo, attraverso scariche di particelle di energia dette quanti. L'ipotesi quantistica di Planck ruppe definitivamente con l'idea del continuo per l'energia.

 

La luce non poteva dunque più essere considerata semplicemente un fenomeno ondulatorio, visto che, almeno in questo caso particolare, i fisici erano costretti a descriverne il comportamento attraverso un modello corpuscolare. D'altra parte il modello corpuscolare quantistico era inapplicabile per spiegare fenomeni  tipicamente ondulatori come la diffrazione e l'interferenza.

 

Nasce l'idea di un comportamento duale della luce, la quale richiede due modelli, apparentemente in reciproca contraddizione, per essere descritta. Si utilizza il modello ondulatorio per descrivere i fenomeni di propagazione della radiazione elettromagnetica. Si utilizza il modello corpuscolare per descrivere i fenomeni di interazione con la materia (emissione ed assorbimento).

 

Pochi anni più tardi, nel 1905 Einstein confermò la descrizione quantistica della radiazione, utilizzando l'ipotesi di Planck  per spiegare l'effetto fotoelettrico, fenomeno inspiegabile sulla base della teoria ondulatoria.

 

EFFETTO FOTOELETTRICO

L'effetto fotoelettrico, scoperto da Hertz, consiste nell'emissione da parte di un metallo di elettroni quando venga colpito da radiazione elettromagnetica di una certa lunghezza d'onda, tipica per ogni metallo. Partendo dal presupposto che l'onda incidente ceda parte della sua energia agli elettroni del metallo, aumentandone in tal modo l'energia cinetica fino ad estrarli e applicando dunque la teoria elettromagnetica classica a questo fenomeno ci si attende che gli elettroni vengano strappati da qualsiasi radiazione purché sufficientemente intensa. In altre parole il modello elettromagnetico prevede che usando luce di qualsiasi colore e cominciando ad aumentarne l'intensità si arriverà ad un punto in cui gli elettroni avranno energia sufficiente per uscire dal metallo. Aumentando ulteriormente l'intensità luminosa gli elettroni dovrebbero uscire con maggiore energia cinetica. L'effetto fotoelettrico avveniva invece con caratteristiche completamente diverse.

  • Gli elettroni cominciano ad uscire solo quando il metallo viene investito da una radiazione avente una ben precisa lunghezza d'onda (frequenza di soglia). Utilizzando luce di maggior lunghezza d'onda, anche se molto intensa, non si ottiene alcun effetto.
  • Utilizzando luce di giusta lunghezza d'onda ed aumentandone l'intensità non si ottiene la fuoriuscita di elettroni più energetici, ma di un maggior numero di elettroni aventi sempre la stessa energia cinetica
  • Utilizzando luce di lunghezza d'onda inferiore a quella di soglia si ottiene la fuoriuscita di elettroni più energetici.

 

 

 

 

Tale comportamento risultava refrattario ad ogni tentativo di spiegazione che utilizzasse il modello classico. Einstein suggerì dunque di trattare la radiazione che colpiva gli elettroni come  particelle di energia E = hn, che egli chiamò fotoni. Detto W il lavoro necessario per estrarre un elettrone dall'atomo, solo i pacchetti di energia per i quali vale hn = w saranno in grado di estrarre gli elettroni.

Aumentando l'intensità luminosa di una radiazione a bassa frequenza, costituita da fotoni non sufficientemente energetici, non si fa che aumentare il numero di fotoni incidenti. Ma ciascuno di essi è sempre troppo debole per estrarre gli elettroni.

 

 

 

Effetto fotoelettrico

 

 

 

1) Gli elettroni vengono emessi dal catodo fotoemittente e registrati dall’amperometro solo se la luce utilizzata  supera una certa frequenza di soglia ns tale per cui l’energia di ciascun fotone  E = hns sia almeno pari (o maggiore) del lavoro di estrazione w.

hn ≥ w

 

 

 

 

2) Utilizzando luce di frequenza di soglia ns ed aumentandone progressivamente l’intensità il metallo fotoemittente (catodo) verrà colpito da un maggior numero di fotoni aventi sempre la medesima energia. Il catodo emetterà pertanto un maggior numero di elettroni che l’amperometro registrerà come un aumento di intensità di corrente elettrica.

 

 

 

 

3) Utilizzando radiazione di frequenza maggiore di quella di soglia ns, il metallo viene colpito da fotoni di energia più elevata E > hns e ciascun elettrone verrà pertanto estratto con maggior energia cinetica pari a

½ mv2 = hn - hns

 

4) L’energia dell’elettrone estratto  può essere determinata facendo variare la tensione V che deve essere applicata per bloccarne il movimento e mandare a zero l’amperometro in modo che

E = ½ mv2 = V e

Si ottiene una retta di equazione

E = V e = hn - hns

 

con l’energia E degli elettroni  in funzione della frequenza n della radiazione usata per illuminarli. La retta ha pendenza h. Variando il tipo di metallo varia il valore del termine noto  hns (che rappresenta il lavoro di estrazione w, caratteristico per ogni metallo)  e quindi l’intersezione con gli assi, mentre la pendenza rimane costante.

La determinazione sperimentale di tali rette per i diversi metalli rappresenta uno dei metodi utilizzati per la misura della costante h di Planck.

 

 

 

 

Il lavoro di Einstein mise in evidenza il fatto che la radiazione mostrava un comportamento corpuscolare non solo nei fenomeni di emissione, ma anche in quelli di assorbimento.

 

Il lavoro sull'effetto fotoelettrico è uno dei tre articoli, fondamentali per la fisica del '900, che Einstein pubblicò nel 1905 nel 17° volume degli Annalen der Physik.

Gli altri due trattavano della relatività speciale e del moto browniano. Quest'ultimo fu un problema che allora non ricevette l'attenzione dovuta, visto l'enorme impressione prodotta dalla teoria della relatività. Ma in esso vi era in pratica la prova dell'esistenza degli atomi.

 

Nonostante fosse stato fino ad allora raccolto un numero notevolissimo di dati che confortavano l'ipotesi atomica (il numero di Avogadro era stato ad esempio calcolato in una ventina di modi diversi, dando sempre lo stesso risultato), questa sembrava sfuggire a qualsiasi verifica diretta.

Verso la seconda metà dell'Ottocento la maggior parte dei fisici sotto l'influenza della filosofia positivista pensava che la fisica potesse e dovesse evitare qualunque ipotesi sulla struttura della materia.

Fisici positivisti come Pierre Duhem, Wilhelm Ostwald ed Ernst Mach, ritenevano che la scienza dovesse limitarsi ad interpretare solo i fenomeni constatabili direttamente attraverso i sensi, senza costruire modelli che non potessero avere un supporto empirico ed intuitivo.

Tuttavia l'atomismo aveva acquistato nella seconda metà dell'Ottocento consistenza scientifica grazie al lavoro di chimici e cristallografi. Abbiamo già detto di come l'ipotesi atomica si era rivelata utile per descrivere le reazioni chimiche conformemente alle quantità di materia messe in gioco. I cristallografi R.J.Hauy e, poi, R.Bravais interpretarono le proprietà dei cristalli attraverso l'idea di un giustapposizione ordinata e regolare di elementi puntiformi a formare reticoli geometrici.

La stessa meccanica statistica fondò tutti i suoi brillanti risultati sul presupposto che i gas fossero formati da un numero enorme di particelle in moto disordinato.

 

Per dimostrare l'esistenza degli atomi Einstein si ricollegò ad una osservazione fatta dal botanico inglese Robert Brown, il quale aveva verificato che i granelli di polline presenti in sospensione nell'aria o nell'acqua, osservati al microscopio, presentano uno strano moto disordinato, con rapidi cambi di direzione (moto browniano). Einstein dimostrò, utilizzando la meccanica statistica, che il moto browniano poteva facilmente essere spiegato ipotizzando che i granelli di polline fossero bombardati dalle molecole del mezzo in costante agitazione termica.

 

La prova decisiva sulla natura corpuscolare della luce si ebbe nel 1923 quando venne scoperto l'effetto Compton, in cui i fotoni si comportano a tutti gli effetti come particelle, scambiando quantità di moto nell'urto con gli elettroni. La quantità di moto di una particella è p = mv, mentre la quantità di moto di un fotone pg, che non possiede massa, si calcola eguagliando la relazione di Einstein E = mc2 con la relazione quantistica dell’energia E = hn ed, esplicitando mc, si ottiene

                                                          

 

Effetto Compton

Compton aveva intuito che gli elettroni più esterni di un atomo erano debolmente legati e, se colpiti da proiettili sufficientemente energetici, potevano essere considerati pressoché liberi.

Egli utilizzò come proiettili fotoni appartenenti a radiazione X, quindi molto energetici. Quando la radiazione X passa attraverso la materia essa viene diffusa in tutte le direzioni ed emerge con frequenza tanto minore quanto maggiore è l'angolo di diffusione.

Si può facilmente interpretare il fenomeno in termini di teoria dei quanti.

Quando il fotone X di energia E = hn urta un elettrone gli cede una parte della sua energia e quindi della sua quantità di moto, emergendo con un energia e quindi con una frequenza minore È = hn'.

L'urto tra il fotone e l'elettrone può essere trattato come un normale urto elastico tra due sfere rigide.

L'elettrone, supposto fermo, viene deviato e si può facilmente verificare che la quantità di moto acquistata dall'elettrone (poiché l'elettrone può acquistare velocità molto elevate è necessario usare l'espressione relativistica della quantità di moto) è pari a quella persa dal fotone.

Nel caso avvenga una collisione frontale la sfera ferma (elettrone) verrà scagliata ad alta velocità nella direzione dell'urto, mentre la sfera incidente (fotone X) perderà una notevole frazione della sua quantità di moto.

Nel caso di un urto obliquo la sfera incidente (fotone X) perderà minore quantità di moto a favore della sfera ferma e subirà una piccola deviazione rispetto alla direzione dell'urto.

 

 

Nel caso di un urto di striscio la perdita di energia del fotone sarà minima e minima la deviazione rispetto alla sua traiettoria.

Si tenga presente che mentre per l'elettrone, che possiede massa, la quantità di moto vale p = mv, per il fotone che possiede solo energia è necessario utilizzare la relazione di Einstein E = mc2 per calcolare la quantità di moto. Eguagliando tale relazione con la relazione quantistica E = hn si ottiene la quantità di moto del fotone

                                                                            p = mc = hn/c

Naturalmente la quantità di moto del fotone deviato sarà minore di quella iniziale, e tale diminuzione può essere direttamente verificata in termini di diminuzione della frequenza, visto che h e c sono due costanti.

                                                                            p' = hn'/c

 

Effetto compton

 

Quando i fotoni X ad alta energia investono la materia vengon diffusi in tutte le direzioni. La perdita di energia di ciascun fotone diffuso è tanto maggiore, quanto maggiore è l’angolo q di diffusione. Applicando i principi di conservazione dell’energia e della quantità di moto e trattando l’urto tra fotone incidente ed elettrone come perfettamente elastico, è possibile giungere alla seguente relazione tra la lunghezza d’onda del fotone diffuso l’  e la lunghezza d’onda del fotone incidente l 

 

 

 

 

 

 

 


6.626 068 96 10-34 Js

relazione di Planck   o, ricordando che c = , con k costante di Boltzmann e c velocità della luce

 

Fonte: http://www.pianetachimica.it/didattica/documenti/Chimica_Generale.doc

Sito web da visitare: http://www.pianetachimica.it

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