Modelli atomici quanto-meccanici

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Modelli atomici quanto-meccanici

La storia del concetto di atomo ha origini molto antiche, infatti tale concetto era noto agli antichi filosofi già 2500 anni fa.

Fu Democrito ( Abdera 460 a.c. 370 a.c. ), che sviluppò la teoria atomistica dell'universo abbozzata dal maestro, il filosofo Leucippo. Secondo l'esposizione democritana della teoria atomistica della materia, ogni ente è costituito da atomi, minuscole particelle di materia pura, invisibili e indistruttibili eternamente in moto in uno spazio infinito e vuoto. Gli atomi sono composti della medesima materia, ma differiscono per forma ordine e posizione. tali differenze qualitative nella percezione delle cose risalgono in ultima istanza alle caratteristiche quantitative degli atomi. Democrito elaborò una cosmologia nella quale l'universo è formato da mondi che devono la loro origine all'incessante moto vorticoso degli atomi nello spazio.

L'opinione di Democrito fu trascurata per più di 2000 anni, a causa del fatto che le idee di Aristotele erano in accordo con le credenze religiose più di quelle di Democrito. La teoria di Democrito restò comunque nella cultura dell'umanità e fu recuperata e collegata a nuovi fenomeni nel frattempo accertati con lo sviluppo delle scienze sperimentali.
L'opinione di Democrito fu trasformata in ipotesi, e l'ipotesi atomica entrò a far parte del dibattito tra gli scienziati del XVII e XVIII secolo.

Nel XVIII secolo, Dalton aveva scoperto che nelle combinazioni chimiche le sostanze si combinano per dare un certo prodotto secondo rapporti espressi da numeri interi e semplici, 1:1, 1:2, ecc. Dalton dedusse che ciò era dovuto dall'esistenza degli atomi.
Nel 1860 a Karlsruhe i chimici si riuniscono in un congresso internazionale cui scopo era di risolvere le questioni riguardanti la definizione dei concetti d'atomo e molecola, e di instaurare una simbolistica chimica unica. A questo congresso intervenne Canizzaro con la sua relazione in difesa del principio d'Avogadro, esponendo il giusto sistema per determinare i pesi atomici e molecolari.
Dopo questa relazione fu accettata la seguente proposta: “Si propone di adottare concetti diversi per molecola e atomo considerando molecola la quantità più piccola di sostanza che entra in relazione e che ne conserva le caratteristiche fisiche,e intendendo per atomo la più piccola quantità di un corpo che entra nella molecola dei suoi composti”.

In questo lavoro ci propniamo di fare un breve resoconto di quelli che sono stati i modelli atomici più importanti: Thomson, Rutherford e Bohr.

 

 

L’atomo

 

La struttura dell’atomo può essere pensata (in modo semplificato) come costituita da un nucleo centrale, attorno al quale ruotano delle particelle, gli elettroni.

Gli elettroni sono le cariche elettriche negative elementari. Essi hanno una massa pari a 1/1840 di quella dell’atomo di idrogeno e il loro numero Z rappresenta il numero atomico dell’elemento cui appartengono. Il nucleo contiene un certo numero di neutroni e protoni.

Il termine protone fu introdotto da Rutherford (cui faremo riferimento in seguito) nel 1921 per indicare il nucleo dell’atomo di idrogeno. In seguito si scoprì che i nuclei degli altri atomi erano, all’incirca, multipli interi della massa del protone. Pertanto se ne dedusse che tutti i nuclei fossero costituiti da protoni.

Nel 1932, il fisico inglese Chadwick scoprì l’esistenza all’interno del nucleo di una nuova particella: il neutrone.

Sia la massa del neutrone, sia la massa del protone, espresse nella scala dei pesi atomici, è all’incirca uguale a 1.

La carica elettrica positiva del protone è uguale e opposta a quella dell’elettrone, mentre la carica elettrica del neutrone è nulla. Il numero dei protoni, in un atomo elettricamente nullo deve essere uguale a quello Z degli elettroni.

E’ opportuno in un atomo di qualsiasi elemento fare una distinzione tra il numero atomico Z (uguale al numero degli elettroni o dei protoni) e il numero di massa A (pari alla somma del numero Z dei protoni e dei neutroni). Ogni elemento è contraddistinto da questi due numeri, per esempio l’ossigeno viene indicato con il simbolo , dove il numero posto in alto indica il numero di massa A e il numero posto in basso il numero atomico Z. Va però sottolineato che due atomi di uno stesso elemento possono avere lo stesso numero atomico Z, ma un diverso numero di massa A, due atomi siffatti sono detti isotopi.

Verso la fine dell’Ottocento, gli studi sulla teoria cinetica dei gas avevano portato a conoscere le dimensioni di un atomo, il problema fu che queste risultarono troppo piccole perché si potesse studiare la struttura dell’atomo attraverso l’osservazione diretta.

Fu quindi necessario ideare dei modelli che giustificassero le proprietà già conosciute degli atomi e permettessero di individuarne altre, da sottoporre a successive verifiche sperimentali.

 

 

Il modello di Thomson   

Una prima ipotesi sulla loro struttura fu emessa da J.J. Thomson. Egli ammetteva che l'atomo fosse costituito da una sfera di elettricità positiva, distribuita uniformemente in tutto il volume atomico, dentro alla quale fossero contenuti gli elettroni (“i corpuscoli”)in equilibrio sotto l'azione delle mutue repulsioni e dell'attrazione elettrostatica verso il centro della sfera positiva; gli elettroni avevano secondo Thomson dimensioni trascurabili rispetto al raggio della sfera positiva, in modo da poter esser considerati come puntiformi; e le loro frequenze proprie di vibrazione avrebbero dovuto coincidere con le frequenze delle righe spettrali emesse dall'atomo. La teoria di Thomson dovette in seguito venire abbandonata, essendosi trovata in contrasto con numerosi fatti sperimentali, sia nel campo della spettroscopia sia in quello dei fenomeni relativi al passaggio delle particelle α attraverso alla materia.

 

 

L’esperimento di Rutherford e la nascita del suo modello

 

Nel 1908, il tedesco Hans Geiger (1882-1945) e l’australiano Ernest Marsden (1889-1970) iniziarono, sotto la guida di Ernest Rutherford (1871-1937), lo studio sperimentale della diffusione (o scattering) di particelle attraverso sottili strati metallici. L’apparato sperimentale originario era costituito anzittutto da una sorgente radioattiva di polonio che emette particelle α e da uno schermo di piombo con una fenditura sottile che permetteva di ottenere un fascio ben collimato; i raggi α bombardavano quindi una laminetta sottile d’oro e venivano in seguito intercettati a diversi angoli da uno schermo di solfuro di zinco, un materiale fluorescente che emette lampi di luce quando

viene colpito dalle particelle. Geiger e Marsden osservarono che, anche se la maggior parte delle particelle attraversava il folgio metallico quasi in linea retta, alcune di esse - circa 1 su 8000 - erano fortemente deviate di un angolo maggiore di un angolo retto.

Thomson intepretava la forte deflessione osservata da Geiger e Marsden non come dovuta ad un singolo urto di una particella alpha contro un atomo, ma come la somma di numerose piccole deflessioni subite dalla particella nei suoi urti successivi contro gli atomi della materia attraversata. Fu invano chiesto a Thomson di spiegare come mai le successive piccole deviazioni dovevano essere tutte dello stesso senso, in modo da dare la grande deflessione osservata.

In un saggio del 1911, Rutherford prende in esame la teoria di Thomson e dimostra, con facile calcolo, che la probabilit`a di ottenere deflessioni maggiori di 90◦ per effetto di numerosi successivi urti di particelle alpha contro atomi è quasi nulla.

Supponiamo anzitutto che la deflessione delle particelle α sia causata da urti con gli elettroni. Nel caso di urto elastico, la velocità acquistata dall’elettrone dopo l’urto non può superare il valore 2vα (dove vα è la velocità della particella α prima dell’urto) e questa situazione si ha nel

caso di urto elastico centrale. Ne segue che il massimo momento lineare acquistato dall’elettrone, e perciò perso dalla particella α, non può superare 2mevα.

Ipotizziamo inoltre che il momento perso dalla particella α sia ortogonale al momento iniziale, così da dare la stima dell’angolo massimo di uscita della particella α.

Questo angolo risulterà:

tgθ ≈ θ ≈

 

Rutherford dimostra inoltre, con facili calcoli, che anche una carica positiva uniformemente distribuita all’interno del volume classico dell’atomo devierebbe le particelle α solo di una piccola frazione di grado (non subirebbero deflessioni di angoli maggiori di 90◦).

Il fatto notevole è che Rutherford arriva a tale risultato solo sulla base di considerazioni proprie della fisica classica. Il risultato ottenuto evidenzia, inoltre, che se il raggio del volume occupato dalla carica positiva nucleare fosse molto più piccolo, si potrebbero ottenere deviazioni più importanti. Vediamo in figura lo schema usato da Rutherford:

 

Il modello di Rutherford

 

Alla luce delle precedenti considerazioni, Rutherford avanzò l’ipotesi che almeno per alcune particelle, la grande deflessione dovesse essere attribuita alla deviazione brusca subita dalla particella α passando attraverso un campo elettrico intenso nell’atomo. Ma se la deflessione era dovuta ad un solo urto, occorreva necessariamente supporre nell’atomo un nocciolo centrale di dimensioni estremamente piccole, caricato positivamente, e contenente la maggior parte della massa dell’atomo: occorreva, insomma, adottare un modello atomico a nucleo ed elettroni rotanti, della cui stabilità ci si sarebbe occupati in seguito.

Con tale modello la deflessione si spiega immediatamente. La particella α attraversa l’atmosfera elettronica (i cui effetti si possono trascurare), si avvicina al nucleo e viene fortemente deviata, per la grande forza colombiana che sorge tra le due cariche positive, costringendola ad un’orbita cometaria.

Rutherford dette la teoria quantitativa della diffusione delle particelle α, che nel 1913 Geiger e Marsden, con una delicata esperienza, confermarono. In particolare, la formula di Rutherford fornisce, per un detector posto ad un angolo θ rispetto alla direzione del fascio di particelle α

incidenti, il numero di particelle per unità di area che raggiungono il detector:

dove

 

Ni = numero di particelle α incidenti

n = numero di atomi per unità di volume del bersaglio

L = spessore del bersaglio

Z = numero atomico del bersaglio

e = carica dell’elettrone

k = costante di Coulomb

r = distanza tra il bersaglio e il detector

Ek = energia cinetica di α

θ = angolo di deflessione

Tale formula non ha validità assoluta. Infatti:

• Si riferisce solo alle delflessioni dovute agli urti nucleari, quindi non vale per θ → 0, ovvero quando la minima distanza dal nucleo raggiunta dalla particella α è grande; infatti in questo caso la carica nucleare è schermata dagli elettroni atomici, cosicchè l’equazione non diverge;

• non `e una formula relativistica;

• si riferisce ad un centro (nucleo) fisso;

• prende in considerazione solo forze coulombiane;

• trascura le dimensioni finite del nucleo;

• non tiene conto della meccanica quantistica.

In particolare, se le particelle α hanno un’energia elevata, esse si avvicinano sufficientemente al centro del nucleo da entrare nel raggio di azione delle forze nucleari (forza forte) e la distribuzione angolare delle particelle α deflesse devia dalla predizione della formula di Rutherford. Proprio da queste deviazioni, fu possibile stimare l’ordine di grandezza del raggio nucleare; ciò che emerse fu che il raggio nucleare è di quattro ordini di grandezza inferiore di quello predetto dal modello di Thomson.

E’ rilevante sottolineare come a tale condizione la sorte dell’atomo sarebbe quella di cadere sul nucleo. Pertanto, tale atomo dovrebbe avere vita breve, cosa che contrasta con quanto accade nella realtà. Inoltre l’esperienza aveva dimostrato che gli atomi non possono irradiare energia se non la ricevono dall’esterno e che, in caso di emissione, le frequenze delle radiazioni emesse non costituiscono una banda continua, ma una successione discreta caratteristica dell’elemento considerato.

Apparve quindi evidente l’incompatibilità del modello di Rutherford con le leggi classiche dell’elettromagnetismo.

Fu il fisico danese Niels Bohr a proporre una soluzione al problema.

 

Il modello di Bohr

Niels Bohr; allo scopo di superare le contraddizioni del modello di Rutherford, propose l’assunzione di due postulati, assolutamente estranei alla fisica classica, la cui accettazione consentiva di superare gli ostacoli insorti dall’assunzione del modello planetario di Rutherford.

Il modello che ne derivò fu quello di un atomo stabile, che, in particolari condizioni, emette radiazioni di determinata frequenza. In esso gli elettroni descrivono solo determinate orbite permesse e irradiano solo quando, in seguito a un’eccitazione esterna, saltano da un’orbita più esterna a una più interna.

Bohr ricavò tale teoria partendo dalla constatazione che alcuni fenomeni riguardanti diversi campi della fisica,non erano spiegabili alla luce delle conoscenze classiche, ma trovano giustificazione nella cosiddetta “teoria dei quanti” di Max Plance.

Tale teoria stabilisce che:

una certa grandezza meccanica di dimensioni corrispondenti al prodotto di un’energia per un tempo è una grandezza discontinua, nel senso che può assumere solo valori che siano multipli di una certa costante h.

Ora, un elettrone , nel suo moto intorno al nucleo, ha un momento angolare espresso dalla relazione mvr. Ebbene,tale grandezza ha proprio le dimensioni del prodotto di un’energia per un tempo.

Tale constatazione indusse Bohr a quantizzare tale grandezza; egli postulò (primo postulato di Bohr) che:

il momento angolare di un elettrone può assumere solo valori che siano multipli interi della costante di Planck divisa per 2π;

ossia:

 

 

di conseguenza le orbite permesse sono solo quelle per cui il momento angolare dell’elettrone assume uno dei valori ottenuti dalla formula con n numero naturale.

Tali orbite sono stabili (stati stazionari), mentre permane in tali stai il sistema non irraggia e a ogni valore di n corrisponde un determinato valore dell’energia o valore energetico dell’elettrone Ei.

Il secondo postulato riguarda la transazione dallo stato iniziale a quello finale in cui viene assorbita ( Ei<Ef ) o emessa ( Ei>Ef ) radiazione monocromatica e dice:

l’emissione o l’assorbimento di radiazioni da parte dell’atomo avviene solo quando un elettrone salta da un livello a un altro.

La frequenza della radiazione emessa è espressa dall’equazione:

dove h è ancora la costante di Planck.

La bontà delle ipotesi di Bohr furono confermate nel 1913 ad opera di Franck e Hertz, con un’esperienza che verificò l’esistenza di orbite ben definite. Tale esperienza valse a Franck e Hertz l’assegnazione del premio Nobel nel 1926.

 

Successivamente il modello di Bohr sarà criticato e rivisto. Tali critiche si rivelarono fondamentali e gettarono le basi per la meccanica quantistica. In questo percorso contributi fondamentali furono dati da: De Broglie, Schrödinger, Dirac e Heisenberg

 

 

Bibliografia essenziale

  • Renzo Di Fiore - Introduzione alla fisica del Novecento –, La Nuova Scuola 2001
  • F.Nicodemi – La crisi della Fisica Classica e il sorgere della Meccanica Quantistica (Appunti forniti al corso)

 

Linkografia

  • http://www.accademiaxl.it/Biblioteca/Virtuale/Ipertesti/ScuolaFermi/atomo.pdf
  • http://www-phys.science.unitn.it/lcosfi/qsfdfe.pdf
  • http://www.accademiaxl.it/Biblioteca/Virtuale/Ipertesti/ScuolaFermi/radioattivita.pdf
  • http://www.scibio.unifi.it/lezioni/atomo.html
  • http://ww2.unime.it/cclchim/generale/atomo/atomo.htm

Si noti che si è approssimato  con  poichè la perdita di quantità di moto della particella α è molto piccola visto la piccola massa dell’elettrone.

 

Fonte: http://people.na.infn.it/~lizzi/corsiabilitanti/tesina_dattero.doc

Sito web da visitare: L.Dattero

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