Cinema del ventennio fascista

Cinema del ventennio fascista

 

 

 

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Cinema del ventennio fascista

 

IL CINEMA DEL VENTENNIO FASCISTA
1. la politica cinematografica del fascismo.
La storia del cinema italiano tra le due guerre è strettamente intrecciata con le vicende del ventennio fascista (1922-1943).Il fascismo fece un uso spregiudicato del cinema, come del resto degli altri media, in particolare della radio, come strumento di propaganda e come "fabbrica del consenso", anche se solo parzialmente riuscì a conseguire i risultati che si era proposto. L'intervento organico del fascismo in campo cinematografico inizierà solo negli anni trenta. Per più di un decennio, che coincise con la profonda crisi degli anni venti, ci fu da parte del regime una sottovalutazione dell'importanza economica che un'industria di questo tipo poteva avere in un paese moderno. Se nel corso degli anni venti ci fu una sostanziale carenza di interventi a favore dell'industria cinematografica nazionale, ciò non significa che il regime non abbia compreso precocemente l'importanza propagandistica del nuovo mezzo. Ne sono prova, da una parte, la produzione dell'Istituto LUCE e, dall'altra, un'attività censoria rivolta in particolare alla produzione straniera.
L'Istituto LUCE (L'Unione Cinematografica Educativa) fu il primo degli Enti cinematografici creati dal fascismo e ad esso fu demandato il compito della propaganda cinematografica. Dapprima società anonima (1924) e poi Ente morale autonomo (1925), il LUCE aveva ufficialmente lo scopo di produrre documentari e film educativi. Il fiore all'occhiello del LUCE fu, tuttavia, la produzione del cinegiornale, cioè un notiziario filmato con il quale iniziava ogni spettacolo cinematografico. Il cinegiornale LUCE, la cui programmazione divenne obbligatoria in tutte le sale a partire dal 1926, rimase senza concorrenti fino al 1938 quando fu varato il cinegiornale INCOM (in realtà i due concorrenti gareggiavano in supina adesione alle direttive del regime). Fu il cinegiornale LUCE a trasformare il dittatore Benito Mussolini in una sorta di "superstar" cinematografica, una sorta di rivale del gigante Maciste. Scrive Mino Argentieri:
Così come gli eroi delle vecchie comiche pendolavano da un mestiere all'altro, il duce fu servito in una varietà di versioni: presidente del Consiglio dei ministri, nei campi di Romagna, in famiglia, a cavallo nel parco di Villa Torlonia, alla trebbia, sportivo, nuotatore, pilota, arringatore, automobilista, motociclista. (Argentieri 1977: 38-39)
In realtà, se esaminiamo il sommario di un Cinegiornale LUCE vediamo che l'immancabile apparizione del duce o comunque di una cerimonia o conquista di regime era inserita in un panorama di curiosità e meraviglie della vita moderna riprese da filmati provenienti da tutto il mondo (ma soprattutto dagli USA). In tal modo il fascismo, la cui presenza percentuale nell'ambito dei singoli cinegiornali era abilmente dosata, veniva inserito come uno dei tanti aspetti della vita moderna. Ma, mentre della vita moderna nel resto del mondo si mettevano in evidenza soprattutto gli aspetti più bizzarri e strani, per quanto riguarda l'Italia si evidenziava regolarmente la stretta connessione tra fascismo e progresso, da un lato, e, dall'altro, tra fascismo e conservazione dei più "autentici" valori della tradizione. Altrettanto tempestivo fu l'intervento del regime in materia di censura. Fino dal 1923 fu attivato un rigido sistema di censura sui film importati e su quelli di produzione nazionale. Il sistema della censura preventiva sulla produzione nazionale fu introdotto ufficialmente solo nel 1939, anche se era da tempo diventato prassi comune su iniziativa degli stessi produttori che volevano mettersi al riparo da possibili sorprese a film già realizzato.
Certo, non mancarono produzioni con evidenti intenti propagandistici fin dai primi anni del fascismo. Lo dimostra un film come Il grido dell'aquila (1923) di Mario Volpe in cui si trovano già definiti i temi della politica culturale del fascismo, che solo più tardi avranno interpretazioni cinematografiche formalmente e tecnicamente più compiute in film di Blasetti (Vecchia guardia, 1935), Forzano (Camicia nera, 1933) e Trenker (Condottieri, 1936): collegamento tra tradizione risorgimentale e fascismo, esaltazione del mondo contadino in opposizione a quello operaio, recupero delle tradizioni popolari (le maschere della commedia dell'arte) finalizzato a un esasperato nazionalismo.
Come abbiamo già detto, gli interventi organici del fascismo in campo cinematografico cominciarono relativamente tardi. Da una parte, essi ebbero un carattere essenzialmente protezionistico: favorire lo sviluppo della cinematografia nazionale in modo da superare i ritardi accumulati nel corso degli anni venti durante i quali il mercato interno aveva subito un predominio della produzione straniera, soprattutto statunitense. Dall'altra, essi miravano a stabilire una sorta di equilibrio tra la logica dello sviluppo imprenditoriale (il carattere essenzialmente "privato" della produzione cinematografica non fu mai messo in discussione) e le esigenze propagandistiche del regime, che nel campo del cinema di finzione seguì una linea "moderata", nel senso che fu preferita la propaganda indiretta a quella troppo diretta e esplicita.
L'uomo chiave della politica cinematografica del fascismo fu Luigi Freddi, al quale venne affidata nel 1934 la Direzione Generale della Cinematografia, un organismo appositamente creato per coordinare le iniziative di regime in campo cinematografico con competenze assai ampie: dalla promozione del cinema italiano in Italia e all'estero al controllo del credito cinematografico (cioè i finanziamenti concessi ai produttori attraverso un apposito ente bancario, la Banca Nazionale del Lavoro), dalla censura preventiva al coordinamento degli Enti cinematografici di Stato.
La politica cinematografica del fascismo sotto l'abile direzione di Freddi mirò a realizzare un sistema economico misto, basato sulla convivenza di intervento statale (dirigistico e protezionistico) e iniziativa privata. Il sistema di finanziamento di determinati film, su parere della Direzione Generale della Cinematografia, mediante anticipo di un terzo del loro costo, determinava un efficiente sistema di controllo non soltanto ideologico, ma anche qualitativo, capace di imporre una linea produttiva ispirata anche a criteri di economicità.
Questo spiega una totale assenza nel cinema degli anni trenta di argomenti che potessero risultare sgraditi al regime, ma anche una presenza relativamente bassa di film di esplicita propaganda. Freddi riteneva che la propaganda troppo diretta e insistita avrebbe avuto effetti controproducenti e che soprattutto sarebbe stata poco redditizia sul piano cinematografico. Il suo modello ideale era il cinema americano con il suo alto contenuto spettacolare e con la sua efficacia narrativa, piuttosto che il cinema di propaganda sovietico.
Nel complesso, l'organizzazione della cinematografia in ambito fascista fu piuttosto varia e articolata, con istituzioni e iniziative che, dovendo conseguire risultati di prestigio anche sul piano internazionale, ebbero qualche margine di autonomia e adeguate dotazioni di mezzi. Ad esempio, la Mostra Internazionale di Arte Cinematografica di Venezia, nata nel 1932 come emanazione dell'Istituto Internazionale della Cinematografia Educativa (altra istituzione con ambizioni di prestigio culturale), fu in effetti uno strumento di promozione e di sviluppo della cultura cinematografica. I fini propagandistici che furono tutt'altro che estranei a questa istituzione erano raggiunti attraverso l'immagine di liberalità e di elevato livello culturale piuttosto che con i più vistosi e beceri interventi del regime (che peraltro non mancarono).
La maggiore iniziativa varata dalla Direzione Generale della Cinematografia fu la costruzione di Cinecittà, progettata in seguito a un misterioso incendio subito dalla Cines (1935) e conclusa con straordinaria rapidità nel 1937. Cinecittà volle essere il più imponente studio cinematografico d'Europa, dotato delle più moderne attrezzature e di tutti gli stabilimenti per la lavorazione di film. Dagli iniziali 20 film prodotti nel 1937 si arrivò a realizzarne oltre cinquanta nel 1940, quando la direzione di Cinecittà fu assunta dallo stesso Freddi (dopo la sua "defenestrazione" dalla Direzione Generale della Cinematografia).
A Cinecittà venne ospitato a partire dal 1939 il Centro Sperimentale di Cinematografia, una scuola per la formazione dei quadri artistici e tecnici fondata nel 1935, con la dotazione di una cineteca e di attrezzature complete per la ripresa. Il Centro, in cui furono chiamati a insegnare critici come Luigi Chiarini (che fu il primo direttore), Umberto Barbaro, Francesco Pasinetti, divenne ben presto un luogo di circolazione di film e di idee non propriamente ortodossi, di elaborazioni teoriche e programmatiche che non mancarono di dare i loro frutti (non esattamente quelli previsti dal regime). Un ruolo centrale fu svolto parallelamente da Bianco e Nero, la rivista del Centro, e da Cinema, rivista fondata nel '36 e diretta, a partire dal '38, da Vittorio Mussolini, figlio del duce (tra i collaboratori di Cinema troviamo i più prestigiosi intellettuali dell'epoca e buona parte dei cineasti che saranno protagonisti della rinascita del cinema italiano dopo la caduta del fascismo).
Il mercato cinematografico italiano negli ultimi anni del fascismo fu caratterizzato da una quasi totale scomparsa dei film americani, in seguito all'embargo decretato dalle majors americane come ritorsione nei confronti di un decreto legge del settembre1938 (Legge Alfieri) che istituiva un monopolio di stato per l'acquisto e la distribuzione dei film stranieri. Paradossalmente, questa misura illiberale, assieme a quella che istituiva un meccanismo di premi proporzionali agli incassi ottenuti dai film di produzione nazionale (come a dire che venivano aiutati i film di maggior successo), favorì un tipo di produzione meno controllata, certamente sul piano qualitativo, ma anche su quello politico. E' questa una delle ragioni dell'incremento quantitativo della produzione italiana dal 1938 al 1943, ma anche della realizzazione di opere, impensabili fino a qualche anno prima, come I bambini ci guardano (1943) di Vittorio De Sica o Ossessione (1943) di Visconti (Gili 1977: 147), film considerati precursori del neorealismo.
 2. Tuniche romane, camicie nere e telefoni bianchi.
E' comprensibile che, caduto il fascismo e conclusa la guerra, la cultura cinematografica italiana, impegnata nei problemi della ricostruzione e della difesa del nuovo cinema, abbia cercato di dimenticare e di far dimenticare gli anni del cinema fascista.
L'identificazione pressoché totale di cinema tra le due guerre e fascismo e la pari condanna dell'uno e dell'altro, per molto tempo non hanno certo favorito un adeguato lavoro di studio e di approfondimento storiografico. La situazione è ora notevolmente diversa. Grazie a molteplici, abbiamo ora a disposizione adeguati strumenti di documentazione e interpretazione.
Innanzi tutto, non è più possibile considerare il cinema del ventennio fascista come un tutto organico, un'entità monolitica e omogenea. Inoltre, film di propaganda esplicita e diretta all'interno del cinema di finzione (il "cinema in camicia nera") furono in numero piuttosto limitato e non sempre incoraggiati dal regime stesso. Anche l'idea di un organico rapporto di funzionalità e di interdipendenza tra il cinema in camicia nera e il "cinema dei telefoni bianchi" è oggi messa in discussione.
Dei 772 film prodotti in Italia dal 1930 al 1943, sono classificabili come film di propaganda diretta o indiretta un centinaio circa. E tra questi c'è una assoluta preminenza della propaganda indiretta su quella diretta (Casadio 1989).
Tra i film di propaganda diretta si possono ricordare quelli che celebrano le origini del fascismo. Tipici prodotti di questo tipo sono Camicia nera (1933) di Giovacchino Forzano, e Vecchia guardia (1935) di Alessandro Blasetti. Il film di Forzano, realizzato per la celebrazione del decennale della conquista del potere da parte del fascismo, utilizza moduli espressivi attenti alla lezione sovietica, mescolandoli alla più vieta iconografia fascista, per raccontare una vicenda "esemplare" che mostra i legami tra le aspettative deluse dalla prima guerra mondiale e la nascita del fascismo. Nonostante l'impegno economico e la capillare distribuzione in Italia e all'estero (il film venne presentato contemporaneamente il 23 marzo 1933 in tutte le principali città italiane e nelle principali capitali europee) Camicia nera ottenne mediocri risultati. Né grandi fortune ebbe Vecchia guardia che, rievocando il clima infuocato della nascita dello squadrismo, non era bene accetto dallo stesso regime che preferiva far dimenticare rancori e tensioni e presentarsi come garante di ordine e progresso.
Espressione di uno dei temi di fondo della politica economica e culturale del fascismo, il ruralismo (cioè preminenza di un'economia agricola, ritorno alla terra, attaccamento alla tradizioni contadine) trova espressione in vari film, tra i quali spicca, per qualità espressive, Terra madre (1931) di Blasetti (il quale già con Sole (1929), film muto di cui ci è pervenuto solo un frammento, aveva inaugurato il filone). Allo stesso modo, tutti i punti nodali della politica propagandistica del fascismo lasciano tracce più o meno memorabili nei film di finzione. Sul tema dell'esaltazione della componente giovanilistica del fascismo si può ricordare Ragazzo (1933) di Ivo Perilli, storia di un ragazzo di borgata, traviato da cattive compagnie, che si redime aderendo alle organizzazioni giovanili fasciste (da notare, però, che il film non venne mai distribuito, in quanto sgradito allo stesso Mussolini). Sulle grandi realizzazioni sociali del fascismo, dalle acciaierie di Terni alle organizzazioni del tempo libero, si possono citare Acciaio (1933) di Walter Ruttmann, su soggetto "originale" di Pirandello, e Treno popolare (1933) di Raffaello Matarazzo. E accanto a questi, vari film di ambiente sportivo e militare: Stadio (1934) di Carlo Campogalliani, Amazzoni bianche (1936) di Righelli, Arditi civile (1940) di Domenico M. Gambino, L'armata azzurra (1932) di Righelli, Alderaban (1935) di Blasetti, ecc...
Un grande impegno realizzativo venne, ovviamente, riservato alla esaltazione delle guerre d'Africa e dell'Impero:Il grande appello (1936) di Camerini, Squadrone bianco (1936) di Genina, Luciano Serra pilota (1938) e Abuna Messias (1939) di Alessandrini e, poi, alla propaganda bellica, dapprima in relazione alla guerra civile spagnola con L'assedio dell'Alcazar (1940) di Genina, poi, in relazione ai vari fronti su cui si articolava l'impegno bellico italiano, da ricordare soprattutto i film di Francesco De Robertis, in particolare Uomini sul fondo (1941) e Uomini e cieli (1943) e di Rossellini (La nave bianca, 1941; Un pilota ritorna, 1942; L'uomo della croce, 1943).
Parallelamente, si possono ricordare i film di propaganda anti-bolscevica: come Noi vivi e Addio Kira (1942), di Alessandrini e anti americana, come Harlem (1943) di Carmine Gallone.
Nel complesso, fu privilegiato quel cinema di finzione che puntava al raggiungimento degli obiettivi propagandistici attraverso uno sviluppo della funzione pedagogica. In questo ambito possiamo esaminare il genere storico-biografico, che fu certamente uno dei più sviluppati. I film di ricostruzione delle età del passato, dalla storia romana al Rinascimento, dal Medioevo all'Ottocento e alla prima guerra mondiale, occupano in percentuale circa un quarto della produzione complessiva (Gori 1988). Tanto i film incentrati su singole figure d'eccezione quanto quelli impostati in modo corale hanno lo scopo più o meno esplicito di mostrare la continuità tra passato e presente, di far intravedere una sintonia tra i grandi temi e le grandi figure della storia passata e le attuali imprese del fascismo.
Uno degli esempi più significativi in tale senso è 1860 (1934) di Alessandro Blasetti, un film che affronta il Risorgimento da un punto di vista inedito, quello dei contadini siciliani, proponendo quindi un'interpretazione populista, allo scopo evidente di superare diffidenze nei riguardi di un processo considerato anche in ambito fascista prevalentemente élitario e "borghese". È chiaro che tale interpretazione ha il solo scopo di poter stabilire una continuità tra fermenti "rivoluzionari" risorgimentali e "rivoluzione" fascista (continuità esplicitamente decantata nel finale). Ciò non impedisce, tuttavia, a Blasetti di utilizzare il tema storico per la riscoperta di un paesaggio geografico e umano intriso di umori fortemente popolareschi e dialettali e reso con un realismo spoglio e efficace. L'impronta realistica del film di Blasetti era tanto forte e efficace che, nonostante il finale che univa in un abbraccio ideale camicie rosse garibaldine e camicie nere fasciste (finale fatto comunque sparire nelle copie in circolazione nel dopoguerra), esso continuò ad essere apprezzato anche dopo la caduta del fascismo come esempio di epica nazional-popolare, ricca di anticipazioni del neorealismo cinematografico.
Interessante è anche il caso di Condottieri (1936) di Luis Trenker, film dedicato alle imprese di Giovanni dalle Bande Nere, condottiero rinascimentale del casato dei Medici che fu protagonista di un fallito tentativo di unificazione dell'Italia centrale contro le ingerenze straniere. In questo film, girato con grande larghezza di messi in scenari naturali, il ruolo carismatico del capo viene celebrato come elemento catalizzatore della volontà popolare di riscatto. L'esaltazione del "duce" convive quindi con la rappresentazione efficace e insistita dal punto di vista figurativo del ruolo delle masse. Allo stesso modo il film mescola, con una certa efficacia spettacolare, suggestioni della cultura figurativa rinascimentale (ad es., nelle scene di battaglia che fanno pensare a Paolo Uccello, Piero della Francesca, ecc.) con quelle del più recente cinema tedesco.
Relativamente pochi sono i film ambientati nel mondo romano, nonostante che i richiami alla passata grandezza di Roma fosse uno dei temi più insistiti della propaganda di regime. La quasi totalità dei titoli riguarda gli anni venti: quali esempi si possono ricordare Messalina (1923) di Guazzoni, Quo vadis? (1924) di Georg Jacoby e Gabriellino D'Annunzio (figlio del poeta), Gli ultimi giorni di Pompei (1926) di Amleto Palermi e Carmine Gallone. Si tratta, più che di espressioni delle direttive di politica culturale del fascismo (con la sua esaltazione della romanità), di stanche riprese del filone storico-mitologico che aveva fatto la fortuna del cinema italiano degli anni dieci. Un unico film di ambientazione romana venne prodotto tra il '31 e il '43: Scipione l'Africano (1937) di Carmine Gallone. Paradossalmente, questo ambizioso prodotto cinematografico-politico che avrebbe dovuto legittimare sul piano storico il progetto imperiale del regime e costituire una prova generale della messa a punto di una efficientissima macchina spettacolare, si rivelò un quasi fallimento, nonostante la Coppa Mussolini assegnatagli nel corso della Mostra di Venezia.
Migliori risultati furono conseguiti dai film che si riferivano alla storia più recente, o meglio alla cronaca di guerra. Le occasioni non mancarono: prima con la guerra d'Africa, poi con la guerra di Spagna e infine con lo scoppio del secondo conflitto mondiale. Il cinema di finzione poteva così ritirare i suoi interessi dal passato e orientarsi verso la rappresentazione della storia nel suo stesso farsi. Da una parte si sfrutta la valenza spettacolare della guerra con l'attivazione dei temi dell'avventura, dell'eroismo, dell'esotismo. Dall'altra, si fa leva sulla sua tragica fotogenia puntando quindi sull'effetto di realismo. Da una parte abbiamo film che raggiungono elevati livelli spettacolari e un elevato coinvolgimento emotivo. Dall'altra, abbiamo film che mettono a punto un modello di investigazione sugli aspetti nudi e scarni della vita di guerra, come ad esempio i film di Rossellini: La nave bianca (1941), Un pilota ritorna (1942), L'uomo della croce (1943), che, nonostante il loro carattere di propaganda bellica, costituirono un apprendistato importante per uno dei futuri protagonisti del neorealismo cinematografico.
Sul versante opposto del cinema pedagogico con le sue ambizioni epiche, realistiche e propagandistiche si pone il cinema dei telefoni bianchi tra i titoli più significativi si possono citare: La segretaria privata (1931) di Goffredo Alessandrini; La telefonista (1932) di Nunzio Malasomma; Darò un milione (1935) e Il signor Max (1937) di Mario Camerini; Mille lire al mese (1939) di Max Neufeld; L'avventuriera del piano di sopra (1941) e Il birichino di papà (1943) di R. Matarazzo. L'aspetto più vistoso che caratterizza queste commedie è la totale assenza di riferimenti alla realtà politica del paese e ai segni anche esteriori del fascismo. Il fatto è che nella maggior parte dei casi questi film sono ambientati a Budapest e non di rado derivano da romanzi o commedie ungheresi, arrivando anche a veri e propri plagi, come è stato recentemente dimostrato a proposito di Teresa Venerdì (1941) di Vittorio De Sica derivato da Péntel Rézi (1938) di Laszlo Vajda (Bolzoni 1988).
Tutto ciò comportava, certo, una rimozione non solo della peculiare situazione politica del Paese, ma anche - si noti bene - dei tratti più scopertamente arretrati, dialettali, provinciali della realtà italiana. E nel momento stesso in cui più fitta si faceva la produzione di commedie all'ungherese (ultimi anni trenta e primi anni quaranta) ecco riemergere -vero e proprio ritorno del rimosso- sia la tradizione di un teatro largamente popolare (Totò), sia la realtà dimessa, tra periferia urbana e mondo contadino, della vita quotidiana: Quattro passi tra le nuvole (1942) di Alessandro Blasetti, Ossessione (1943) di Visconti.
Il cinema dei telefoni bianchi, proprio per il suo carattere di fuga dalla realtà quotidiana attraverso l'attivazione di astratti modelli di comicità teatrale basata su sostituzioni di persone, equivoci, ecc., e per l'implicita celebrazione di ideali di vita piccolo borghese, venne a posteriori considerato l'espressione più subdola e nefasta del conformismo caro al regime, perfettamente funzionale al progetto politico del fascismo, che si basava appunto sul consenso delle classi medie.
In realtà, il cinema dei telefoni bianchi fu avversato da tutti coloro che attribuivano al cinema una funzione pedagogica e propagandistica, e in principal modo dai fascisti più accesi e fanatizzati (ai telefoni si rimproverava, appunto, di essere bianchi, e non neri come le "camicie" delle squadracce fasciste). Ed è proprio da considerazioni sul carattere a-fascista o in-educativo, in opposizione alla funzione dis-educativa della più becera propaganda fascista (Savio 1972: 196-197) che derivano, in tempi recenti, tentativi di rivalutazione, o per lo meno di più pacata riconsiderazione di questo settore della produzione cinematografica in epoca fascista.
In effetti il cinema dei telefoni bianchi è un tentativo, certamente condotto entro i limiti di un artigianato autarchico, di adottare uno standard internazionale, di adeguare la costruzione degli intrecci, la scenografia, lo stile registico a modelli con possibilità di ampia circolazione. Tutto ciò comportava, certo, una rimozione non solo della peculiare situazione politica del Paese, ma anche -si noti bene- dei tratti più scopertamente arretrati, dialettali, provinciali della realtà italiana. E nel momento stesso in cui più fitta si faceva la produzione di commedie all'ungherese (ultimi anni trenta e primi anni quaranta) ecco riemergere -vero e proprio ritorno del rimosso- sia la tradizione di un teatro largamente popolare (Totò), sia la realtà dimessa, tra periferia urbana e mondo contadino, della vita quotidiana (Quattro passi tra le nuvole, 1942, di Alessandro Blasetti; Ossessione, 1943, di Visconti).
Se i telefoni bianchi costituivano la realizzazione sul piano immaginario di desideri repressi, non mancavano settori della produzione in cui riemergeva la realtà di tensioni non risolte e destinate a esplodere nel cinema del dopoguerra.
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Riferimenti bibliografici

  • Argentieri, M.
    1977 L'occhio del regime. Informazione e propaganda nel cinema del fascismo, Vallecchi, Firenze.
  • Gili, J.A.
    1981 Stato fascista e cinematografia. Repressione e promozione, Bulzoni, Roma.
  • Casadio, G.
    1989 Il grigio e il nero.,Longo, Ravenna.
  • Gori,G.M.
    1988 Patria Diva. La storia d'Italia nei film del ventennio , La casa Usher, Firenze.
  • Bolzoni, F.
    1988 La commedia all'ungherese nel cinema italiano, in Bianco & Nero", n. 3, 1988, pp. 7-41.
  • Savio, F.
    1972 Visione privata. Il film "occidentale" da Lumière a Godard, Bulzoni, Roma.

IL NEOREALISMO
 1. Introduzione
Il neorealismo è, senza dubbio, il movimento del cinema italiano che ha conquistato maggiori consensi e maggiore fama in tutto il mondo. Ancor oggi, a più di quarant'anni di distanza da una stagione che fu di breve durata, il cinema italiano viene spesso identificato con il neorealismo. Il successo internazionale avuto alcuni anni fa da Nuovo cinema Paradiso (1989) di Giuseppe Tornatore, film cui è toccato anche l'Oscar, si può in parte spiegare, come scrisse Alberto Moravia, con il fatto che viene rievocata, in quel film, un'immagine dell'Italia, provinciale e "stracciona", che per una larga parte del pubblico internazionale coincide con l'immagine divulgata dal neorealismo.
Non è semplice ,oggi, comprendere in tutte le sue implicazioni un fenomeno che fu senz'altro complesso e che non può essere ridotto a una formula o a un'immagine stereotipa. Possiamo isolare tre aspetti principali: quello morale, quello politico e quello estetico, precisando però che essi risultano strettamente intrecciati nei film. Fu anzitutto la reazione morale agli orrori e alle infamie della guerra che spinse i cineasti a ritrovare i valori essenziali dell'esistenza e della convivenza sociale. Bisognava dare una risposta sul piano politico alla serie di tragici errori commessi dal fascismo. Di qui la necessità di un linguaggio nuovo, che riuscisse a esprimere in modo diretto una presa di coscienza e una volontà di mutamento. Esiguo è, dopotutto, il numero di opere che questi caratteri appaiono in modo netto e perentorio. E tuttavia poche opere sono state sufficienti a definire una nuova estetica, capace di rinnovare non solo il cinema italiano, ma anche di costituire un punto di riferimento per altre cinematografie, in varie parti del mondo
 2. Roma città aperta
Roma città aperta(1945) di Roberto Rossellini è il film che segna l'inizio della nuova epoca. Si tratta di un film emblema della volontà di rinascita del cinema italiano. Realizzato con mezzi di fortuna, Roma città aperta prende spunto da fatti di cronaca relativi al tragico periodo in cui, caduto il fascismo, Roma, in attesa dell'arrivo delle truppe americane, fu teatro dello scontro tra le forze della resistenza e la rabbiosa determinazione dell'esercito tedesco. Il film presenta le vicende intrecciate di gente comune. Tra queste uno spicco particolare assumono le traversie di un intellettuale comunista, capo partigiano, e di un prete di quartiere, che, pur da diverse posizioni ideologiche, affrontano un comune destino di morte. Alcune scene del film diventarono immediatamente celebri: quella di Pina, la popolana interpretata da Anna Magnani, che viene falciata dai colpi di mitra dei soldati tedeschi che, nel corso di un rastrellamento, hanno prelevato il suo uomo, Francesco, sospettato di essere responsabile di un attentato; quella delle torture subite da Manfredi, l'intellettuale comunista interpretato da Marcello Pagliero; o quella della fucilazione di don Pietro (Aldo Fabrizi) alla quale assistono muti alcuni ragazzini che vediamo poi allontanarsi verso uno sfondo dominato dalla cupola di S.Pietro. Il film di Rossellini presenta ancora aspetti tradizionali: è interpretato da attori di grande esperienza e popolarità come Anna Magnani e Aldo Fabrizi e fa ricorso a metodi di enfatizzazione drammatica degli espisodi (basterebbe analizzare il montaggio visivo e sonoro della sequenza della morte di Pina), tuttavia esso costituisce un preciso segnale circa la direzione in cui si dovrà muovere il nuovo cinema: trarre ispirazione dalla realtà quotidiana, dare la priorità assoluta alla cronaca e alla forza delle reazioni morali di fronte alla disumanità di una tragedia che non ha risparmiato nessuno.
La forza d'impatto di Roma, città aperta trovò subito dopo conferma in Paisà (1946) e Germania anno zero (1948), con i quali Rossellini completava una sorta di trilogia della guerra, in Sciuscià (1946) e Ladri di biciclette (1948) di Vittorio De Sica e in La terra trema (1948) di Luchino Visconti. Del mutato clima politico, morale e estetico danno testimonianza vari altri film. In certuni prevale nettamente l'istanza politica, come in Il sole sorge ancora (1946) di Aldo Vergano che ricostruisce un episodio della Resistenza in una prospettiva corale o in Caccia tragica (1947), lungometraggio d'esordio di Giuseppe De Santis, che accanto, a una forte componente populista, fa mostra di una capacità di assimilazioni di moduli del cinema d'azione americano e di un uso funzionale del paesaggio.
Rapidamente, lo spirito neorealista emerge anche in diversi registi di origine e collocazione diversa: da Lattuada a Castellani, da Zampa a Germi, da Blasetti a Soldati. Ecco alcuni titoli variamente significativi: Il bandito (1947) di Alberto Lattuada, Fuga in Francia (1948) di Mario Soldati, Sotto il sole di Roma (1948) e E' primavera (1949) di Mario Castellani; Prima comunione (1950) di Blasetti; L'onorevole Angelina (1947) di Zampa, nel quale la presenza di Anna Magnani, nel ruolo della moglie di un brigadiere che guida le donne di una borgata romana in una lotta contro gli speculatori, immerge in un'iconografia decisamente neorealista un'opera impostata sui toni concilianti della commedia.
 3. Un'estetica della realtà
A partire dalla presentazione, nel 1946, alla prima edizione del Festival di Cannes di Roma città aperta, il nuovo cinema italiano conobbe un successo internazionale senza precedenti. Quella che fu subito chiamata la "scuola italiana" divenne un punto di riferimento obbligatorio per definire i nuovi sviluppi dell'estetica del film, come in passato lo erano stati l'espressionismo tedesco o la "scuola sovietica" negli anni venti.
L'impiego di attori non professionisti (gli attori "presi dalla strada"); il realismo dell'ambientazione ottenuto abbandonando gli studi di posa a favore delle riprese in esterni e girando nei luoghi stessi in cui si svolge l'azione; l'adozione di uno stile di tipo documentaristico; la narrazione di vicende ispirate alla vita quotidiana, ai fatti di cronaca: sono questi i principi estetici introdotti dal neorealismo. Il miglior testo per comprendere lo spirito con cui venne accolta, fuori d'Italia, la nuova corrente cinematografica rimane ancor oggi l'articolo di André Bazin Le réalisme cinématographique et l'école italienne de la Libération apparso nel 1948 nella rivista "Esprit" (Bazin 1958-1962, trad. it. 1972:275-303). In questo saggio, Bazin si sofferma a analizzare soprattutto la tecnica narrativa, cercando di definire il rapporto tra cinepresa (tipo di inquadratura e di raccordi tra inquadrature, movimenti di macchina) e fatti narrati, ambiente, oggetti. Servendosi di paragoni con la tecnica del romanzo americano (Dos Passos, Hemingway, Faulkner) e della pittura francese (Matisse), Bazin cerca di dimostrare che la cinepresa è diventata tutt'uno con l'occhio e la mano che la guidano. In tal modo, secondo il critico francese, il racconto, che nasce da una necessità biologica ancor prima che drammatica, "germoglia e cresce con la verosimiglianza e la libertà della vita". È soprattutto in un film come Paisà di Rossellini che Bazin vede realizzarsi un radicale mutamento nella costruzione del racconto cinematografico:
L'unità del racconto cinematografico in Paisà non è l'inquadratura, punto di vista astratto sulla realtà che si analizza, ma il "fatto". Frammento di realtà bruta, in se stesso multiplo e equivoco, il cui "senso" viene fuori a posteriori, grazie a altri fatti tra i quali lo spirito stabilisce dei rapporti. Senza dubbio il regista ha ben scelto tra questi "fatti", ma rispettando la loro integrità di "fatto" (ibid., p. 299).
Questa interpretazione del neorealismo, incentrata soprattutto sulla "rivoluzione" estetica del cinema di Rossellini, rimane una delle più suggestive in quanto permette di gettare un ponte ideale tra il neorealismo e il "cinema moderno", quello della novelle vague francese e di tutti i movimenti di rinnovamento degli anni sessanta, che direttamente o indirettamente si rifaranno al modello neorealista. Assai più complesso appare il fenomeno, se guardiamo al cinema neorealista più da vicino, in relazione alla situazione d'insieme del cinema italiano, sia prima della caduta del fascismo, sia nel dopoguerra
 4. Le radici del neorealismo
Il neorealismo non è tutto il cinema italiano del secondo dopoguerra. Ne è la componente culturalmente più prestigiosa e più nota, ma certo minoritaria in termini di incassi. Se la rinascita morale e la vitalità estetica del cinema italiano sono legate alle opere neorealiste, la sua sopravvivenza economica e la sua continuità produttiva sono invece legate a film di carattere decisamente tradizionale.
Il cinema italiano sopravvive e conosce un florido sviluppo grazie alle fortune della produzione di genere e di consumo, con la quale del resto lo stesso neorealismo ha rapporti di scambio, se non altro per il fatto che ne rinnova l'iconografia, come accade per generi come il comico e il melodramma sentimentale. Inoltre, il neorealismo non nasce da una tabula rasa rispetto al cinema precedente, con il quale ci sono indubbi rapporti di "continuità", se non altro di uomini.
Aspetti della realtà quotidiana avevano travato espressione nelle commedie di Mario Camerini (Gli uomini che mascalzoni..., 1932, Grandi magazzini, 1939) e nei film "rurali" di Alessandro Blasetti, Sole, 1929, Terra madre (1931), o in Quattro passi tra le nuvole (1942) dello stesso Blasetti. Il richiamo a una realtà quotidiana, ai tratti "regionali" e "paesani" della vita nazionale (contrapposti al cosmopolitismo cinematografico e letterario) era emerso con vigore nel dibattito culturale in epoca fascista, per esempio negli scritti di Leo Longanesi e in molti interventi apparsi sulla rivista Cinema diretta dal figlio del duce, Vittorio Mussolini. La difesa di un cinema nazionale, popolare e realista che venne fatta sulle pagine di Cinema negli anni immediatamente precedenti la caduta del fascismo era assai più che compatibile con il regime, tanto più che coincideva con l'esaltazione di film indubbiamente propagandistici, come Sole (1929) o Vecchia guardia (1934) di Blasetti o La nave bianca (1941) e L'uomo della croce (1943) di Rossellini.
Al di là delle complesse vicende personali, politiche e culturali degli uomini che diedero vita al movimento di rinnovamento del cinema italiano, il neorealismo appare, più che un movimento organico e unitario, una straordinaria affermazione del mezzo cinematografico. La macchina del cinema che si rivela capace, anche nell'ambito delle convenzioni narrative mai davvero messe in discussione, di cogliere il mutamento dello scenario umano e visivo, ancor prima che politico. Uno dei punti di forza del neorelismo fu la capacità di assimilare, in un clima di frenetico aggiornamento vissuto come reazione al clima di chiusura della cultura ufficiale fascista, nuovi modelli cinematografici e letterari e di adattarli alla realtà italiana. Già nell'ambito delle istituzioni cinematografiche del fascismo (le riviste Cinema e Bianco e nero, il Centro Sperimentale di Cinematografia), critici come Umberto Barbaro, Luigi Chiarini e Francesco Pasinetti avevano promosso un vasto lavoro di aggiornamento, facendo conoscere gli aspetti più avanzati delle cinematografie di tutto il mondo e promovendo l'approfondimento degli aspetti teorici del cinema (con la traduzione degli scritti di Ejzenstejn, Pudovkin, Balázs).
Ossessione (1943), film d'esordio di Luchino Visconti, considerato da molti l'opera che anticipò, ancor prima della caduta del fascismo e della fine della guerra, temi e stile del neorealismo, è sicuramente importante per il fatto che ci mostra angoli inediti della provincia italiana (i dintorni di Ferrara), che gli esterni sono stati ripresi nei luoghi stessi dell'azione, che rompe con gli schemi compositivi del cinema italiano precedente. Ma l'elemento di maggior novità consiste nell'assunzione cosciente di modelli di riferimento inediti nel panorama del cinema italiano: innanzi tutto, la narrativa statunitense: il film è tratto da Il postino suona sempre due volte, 1934, di James Cain, un romanzo dall'intreccio avvincente, dal ritmo serrato e dalla scrittura nitida e tesa; il cinema francese, e in particolare l'opera di Jean Renoir, un autore che aveva fornito originali interpretazioni cinematografiche del naturalismo letterario dell'Ottocento e che, soprattutto con Toni (1934) aveva dato un rilievo del tutto nuovo e di grande efficacia all'ambientazione, al paesaggio, alle condizioni di vita di una comunità di provincia.
L'importanza di Ossessione non sta solo nella scoperta di una realtà provinciale dimenticata dalla letteratura e dalla propaganda. Sta anche e soprattutto nell'aver saputo esprimere la necessità di nuovi modelli di rappresentazione e di interpretazione. Un bisogno di apertura intellettuale e morale che non riguardò solo il cinema e che fu efficacemente sintetizzato da queste parole di Cesare Pavese, scritte nel 1946: " Noi scoprimmo l'Italia [...] cercando gli uomini e le parole in America, in Russia, in Francia e nella Spagna". Fu questo clima di apertura, che comportò anche un certo eclettismo, il dato più importante della breve stagione neorealista, durante la quale si affermarono quegli autori che fecero circolare il cinema italiano nel mondo e che misero a punto una serie di modelli espressivi adatti a rendere possibile uno scambio tra evoluzione della società italiana e cinema. In questo senso si può affermare che per almeno un trentennio dopo la fine della guerra, il cinema italiano è riuscito a interpretare i mutamenti, gli umori e le contraddizioni di una società in rapida evoluzione

 

 5. Cesare Zavattini e il ruolo degli sceneggiatori
Lo stretto legame con la cronaca e il costume è forse il tratto che può accomunare le diverse personalità che diedero vita al movimento. In questa direzione, un ruolo centrale fu svolto da Cesare Zavattini. Scrittore, giornalista e sceneggiatore, Zavattini scrisse tutti i principale film di Vittorio De Sica: Ladri di biciclette (1948), Miracolo a Milano (1951), Umerto D (1952), e collaborò anche con tutti i principali registi: da Visconti a De Santis, da Blasetti a Zampa e Germi, svolgendo inoltre un'infaticabile attività di proposta, di riflessione teorica e di provocazione morale.
Zavattini, con l'insieme della sua frenetica attività, costituì l'anello di congiunzione tra cinema, letteratura e giornalismo dalla cui interazione derivano molti dei caratteri originali del cinema italiano del secondo dopoguerra, dal neorealismo alla "commedia all'italiana".
Accanto all'attività di Zavattini va ricordata quella di una pattuglia di sceneggiatori che, con grande professionalità, si mossero in questa direzione: Sergio Amidei, Suso Cecchi D'Amico, Ennio Flaiano ai quali vanno aggiunti, per le più o meno saltuarie collaborazione cinematografiche, scrittori come Vitaliano Brancati, sceneggiatore di Anni difficili e Anni facili di Zampa, di Guardie e ladri di Steno e Monicelli con Totò e di Dov'è la libertà? e Viaggio in Italia di Rossellini, Diego Fabbri, Giuseppe Berto, Vasco Pratolini.
Si deve sicuramente al lavoro degli sceneggiatori la straordinaria ricchezza linguistica del cinema italiano che ha saputo riprodurre la ricchezza e la vitalità della lingua parlata con tutti i suoi impasti dialettali: aspetto questo che sta alla base della grande capacità di circolazione dei film italiani
 6. Autori e opere
Naturalmente, l'adesione al dato cronachistico, che spesso rappresenta solo uno spunto di partenza, acquista significati diversi nello stile dei singoli registi. Prendiamo, ad esempio, i film della cosiddetta "trilogia della guerra" di Rossellini: Roma città aperta (1945), Paisà (1947), Germania anno zero (1948). Ciò che Rossellini ci rappresenta è la possibilità, e la necessità, di una scelta morale, tutta interiore e spesso tragica, che si traduce in gesto, in comportamento, come appare chiaro già a partire dal terzo e come andrà meglio precisandosi nella successiva "trilogia della solitudine": Stromboli terra di Dio (1949), Europa '51 (1952), Viaggio in Italia (1953).
Nel cinema della coppia De Sica (regista) e Zavattini (sceneggiatore), i dati dell'esistenza quotidiana, in un'epoca in cui la guerra e lo sottosviluppo esasperano i problemi dell'emarginazione, vengono colti con toni apparentemente dimessi e crepuscolari, ma sono al tempo stesso trasfigurati in senso surreale e acquistano una dimensione di favola intrisa di umori ora patetici, ora grotteschi. In Sciuscià (1946) (storpiatura di shoes shine, lustra scarpe) una storia di piccola malavita e emarginazione nella Roma occupata dagli Americani si intreccia con il "sogno" di due ragazzi di comperarsi un cavallo bianco. Ladri di biciclette (1948) tratta sicuramente il tema scottante della disoccupazione, ma al tempo stesso sviluppa anche una tipica struttura favolistica che dà unita poetica alle disavventure dei due eroi (il padre e il figlio) alla ricerca della bicicletta rubata e permette di giocare anche sul registro del grottesco. E mentre il successivo Miracolo a Milano (1950) accentua il carattere favolistico e surreale dell'ispirazione zavattiniana (aspetto che fu causa di fraintendimenti e ripulse), con Umberto D. (1952) De Sica e Zavattini firmano uno dei loro film più rigorosi e coerenti, seguendo passo a passo la vita quotidiana, fatta di solitudine e emarginazione, di un pensionato.
Visconti, dopo l'eccezionale anticipazione di Ossessione (1943), torna alla regia cinematografica con La terra trema (1948), ispirato a un classico della letteratura italiana verista (I Malavoglia di Verga) e girato a Aci Trezza, cioè nei luoghi stessi in cui è ambientato il romanzo dello scrittore siciliano : i legami con i dati documentaristici e cronachistici, per quanto enfatizzati allora in sede critica, risultano oggi meno essenziali di quanto non risulti la sua straordinaria capacità di assimilare e di fondere in un elegante manierismo modelli tratti dalla tradizione letteraria, pittorica e musicale dell'Ottocento e del primo Novecento. Su una sorta di mediazione tra il dato cronachistico (la diffusione del mito del cinema e il miraggio dei facili guadagni) e il modello melodrammatico (L'elesir d'amore di Donizetti) si basa Bellissima (1951) con il quale Visconti ci ha dato non solo un affresco crudele di Cinecittà, il variopinto e cinico ambiente della "fabbrica delle illusioni", ma anche un impareggiabile ritratto di donna: la popolana interpretata da Anna Magnani che sogna di far diventare sua figlia una piccola diva del cinema.
Nel cinema di De Santis, il cui successo più clamoroso fu Riso amaro (1949), ambientato nel mondo delle risaie e interpretato con prorompente erotismo da Silvana Mangano, gli intenti di documentazione della realtà umana e sociale delle mondariso (le donne addette alla monda del riso in erba, lavoro durissimo che si svolgeva negli acquitrini delle risaie) vengono sovrastati dal gusto per l'intreccio melodrammatico e per la valorizzazione spettacolare del paesaggio, dell'erotismo, del folklore. Alla base del successo anche internazionale del film ci fu sicuramente questa abile commistione tra i miti arcaici della civiltà contadina e l'enfasi spettacolare delle tecniche e dei miti della cultura di massa. Nel film di De Santis le istanze ideologiche del neorealismo, alla cui definizione aveva lui stesso contribuito come critico e con le sue prime prove (Caccia tragica), vengono adattate alle regole di funzionamento dell'apparato cinematografico: divismo, generi, erotismo. Il film di De Santis inaugura anche uno degli aspetti più caratteristici del cinema italiano del secondo dopoguerra: una curiosa commistione tra sagrati erbosi di campagna e le passerelle dei concorsi di bellezza, tra la più dimessa iconografia neorealista e la prorompente femminilità delle "maggiorate fisiche": è questo la colorita definizione del rinnovato parco del divismo femminile italiano, reclutato per lo più attraverso i concorsi di "Miss Italia": Silvana Pampanini, Silvana Mangano, Gina Lollobrigida, Sophia Loren, Lucia Bosé.

Riferimenti bibliografici

  • Bazin, André
    1958-1962 Qu'est-ce que le cinéma?, Editions du Cerf, Paris; trad. it parz. Che cos'è il cinema, Garzanti, Milano 1972
  • Deleuze, Gilles
    1983 Cinéma I. L'image-mouvement, Ed. du Minuit, Paris; trad. it. Cinema 1. L'immagine- movimento, Ubulibri, Milano 1984
    1984 Cinéma 2. L'image-temps, Ed. du Minuit., Paris 1985; trad. it. Cinema 2. L'immagine-tempo, Ubulibri, Milano 1989.

GENERI E AUTORI DAGLI ANNI 50 AGLI ANNI 70
1. Neorealismo "rosa" e "d'appendice".
Il neorealismo, indipendentemente dalle definizioni che ne sono state date, viene considerato dalle varie componenti della critica come un fenomeno di breve durata: destinato, secondo alcuni, a un auto-superamento in un più maturo e complesso realismo, capace cioè di passare dalla "cronaca" alla "storia"; indebolito, secondo altri, dalla ostilità ad esso riservata dalle componenti moderate o conservatrici della società italiana e dai suoi stessi irrigidimenti ideologici; corrotto, secondo altri ancora, dalla tentazione del successo che avrebbe fatto allentare l'intransigenza morale e il rigore stilistico, con concessioni sempre più ampie al cinema di genere.
In tutti casi, ognuna di queste posizioni, che spesso si accavallano e si intersecano, presuppone un'idea di ciclo storico di breve durata. Quest'idea è stata messa in discussione dallo storico del cinema italiano Gian Piero Brunetta che ha proposto di interpretare il neorealismo come un ciclo di lunga durata, che prende avvio prima della fine della guerra, e ancora più indietro, e che vivifica l'evoluzione del cinema italiano almeno fino al ricambio professionale e produttivo dei primi anni 60 Brunetta 1993: p. 407). In tale modo, è possibile parlare di uno "sguardo neorealista" che condiziona tutto il cinema del periodo e che permette, inoltre, di superare la netta contrapposizione tra "pratiche alte" e "pratiche basse", cioè tra le espressioni qualitativamente e stilisticamente più elevate del cinema d'autore e la produzione, di medio o basso livello produttivo, del cinema di genere.
Prendiamo in considerazione, ad esempio, il cosiddetto neorealismo rosa. Con questo termine si è voluto indicare una sorta di degenerazione del neorealismo riscontrabile in film come Due soldi di speranza (1952) di Renato Castellani o Pane, amore e fantasia (1953) seguito da Pane, amore e gelosia (1954), ambedue di Luigi Comencini, e Pane, amore e… (1955) di Dino Risi. Oggi, si può più pacatamente constatare che la "colpa" di questi film è di trattare storie di ambientazione popolare, paesana o dialettale, secondo il registro della commedia, anziché quello tragico o epico. Non si vede perché si debba parlare di degenerazione, dal momento che questi film si rifanno a una tradizione quanto mai viva della cultura italiana, quella della commedia appunto. Semmai, è interessante vedere come questa tradizione venga vivificata dall'"aggiornamento" alle forme introdotte appunto dal neorealismo.
Considerazioni analoghe possono essere fatte per i melodrammi di Raffaello Matarazzo, o di registi che si muovono in una direzione analoga come Mario Costa o Guido Brignone. A proposito di Matarazzo è stata coniata la formula neorealismo d'appendice (Aprà e Carabba 1976), che, in modo molto sintetico, esprime l'idea di tematiche e strutture narrative tipiche del "romanzo d'appendice", del "feuilleton", ma ambientate in contesti che risentono dell'iconografia neorealista. La popolarità dei film di Matarazzo negli anni cinquanta fu enorme, mentre pressoché unanime fu il disinteresse della critica: Catene (1950), Tormento (1051), Il figli di nessuno (1951), per citare alcuni dei suoi maggiori successi, sono dei melodrammi sentimentali in cui un uso ben calibrato degli ingredienti fondamentali del genere (ruolo del destino, esito devastante per la donna di ogni abbandono alla passione amorosa, ferreo rispetto delle ragioni della classe di appartenenza a discapito di quelle del "cuore") finisce per far emergere le contraddizioni di un sistema sociale basato sull'emarginazione dei più deboli. Anche nei film di Matarazzo, troviamo, pur nel rispetto delle regole del genere, aspetti che risentono del rinnovamento portato dal neorealismo.
Nell'ambito del cinema comico, gli stessi film di Totò, che conobbero una popolarità vasta e unanime almeno quanto il biasimo riservatogli dalla critica dell'epoca, passano attraverso una fase di aggiornamento alle tematiche e alle ambientazioni di gusto neorealista. Totò è in assoluto la maschera più originale del cinema italiano: certo, le sue radici affondano nella tradizione del teatro popolare, e tuttavia la sua capacità di portare ai limiti estremi, al punto di rottura, linguaggio, gesti e comportamenti di un'umanità emarginata e anarchica, meschina e furbesca, ha dato al suo personaggio un vigore e una modernità senza uguali nell'ambito del cinema comico italiano. Di grande interesse è la sua filmografia, sia quella relativa alle sue interpretazioni più legate alla tradizione del teatro di rivista (Fifa e arena, 1948, di Mattoli, Totò a colori, 1952 di Steno, Siamo uomini o caporali?, 1955, di Mastrocinque, ecc.) sia quella relativa alle opere di maggior impegno (Napoli milionaria, 1950, di Eduardo De Filippo, Guardie e ladri, 1951, di Steno e Monicelli, Dov'è la libertà…?, 1952, di Rossellini, L'oro di Napoli, 1954, di De Sica, I soliti ignoti, 1958, di Monicelli, Uccellacci e uccellini, 1966, di Pasolini). Oggetto di rivalutazione da parte della critica di sinistra, il cinema di Totò richiede un riesame dei complessi rapporti tra il cinema e tutta una tradizione teatrale e una revisione della stessa nozione di "popolare" quale fu applicata dai settori più dogmatici della critica cinematografica.

 

2. La commedia all'italiana
Nell'ambito del cinema di genere, è senza dubbio la commedia che ha saputo raccogliere l'eredità neorealista, assolvendo il compito di seguire l'evoluzione del costume e della vita sociale in quella fase di passaggio dal dopoguerra al cosiddetto miracolo economico, del quale ha colto tempestivamente contraddizioni e limiti. D'altra parte, va ricordato che registi, sceneggiatori e attori che diedero vita alla stagione più vivace della commedia all'italiana si erano formati a stretto contatto con il movimento neorealista.
La caratteristica principale della commedia all'italiana sta appunto nella costante attenzione ai temi più attuali della vita sociale. La commedia diventa, così, una sorta di osservatorio del "carattere degli italiani", del quale fornisce una versione ambiguamente sospesa tra satira e celebrazione, tra deformazione grottesca e iperbole compiaciuta.
La vitalità della commedia all'italiana sta nella sua capacità di ripercorrere le tappe della storia nazionale, più o meno recente. La grande guerra (1959) di Mario Monicelli e Tutti a casa (1961) di Luigi Comencini sfruttando appieno le possibilità che il registro comico fornisce per una rivisitazione spregiudicata e non retorica di momenti cruciali del passato. Il film di Monicelli sulla prima guerra mondiale è interpretato da Alberto Sordi e da Vittorio Gassman nei ruoli, rispettivamente, di un romano "trafficone" e di un milanese "lavativo", che diventano loro malgrado "eroi" dopo aver cercato di sfuggire in tutti i modi ai disagi del fronte. Esso mostra l'altra faccia di un evento raccontato solitamente secondo gli schemi della retorica patriottica e utilizza i moduli della commedia per evidenziare la disumanità della guerra.
In Tutti a casa (1960), anche questo interpretato da Alberto Sordi (cui viene nell'ambito della commedia all'italiana affidato il compito di rappresentare il carattere dell'italiano medio), Comencini racconta in chiave grottesca le vicende successive all'armistizio dell'8 settembre 1943. Adottando il punto di vista di un personaggio "senza qualità", il film riesce a rappresentare al di fuori degli schemi ideologici il dramma di un Paese lasciato in balia di se stesso dalla totale disfatta non solo del regime fascista, ma di tutta una classe dirigente. Nel film Una vita difficile (1961) di Dino Risi troviamo ancora Alberto Sordi nel ruolo di un intellettuale squattrinato alle prese con i problemi del dopoguerra e della ricostruzione, una volta caduta la tensione ideale della resistenza.
Ma il punto di forza della commedia, oltre all'indubbia capacità di ripercorrere le fasi salienti della storia recente, sta nella sua forte presa sulla realtà contemporanea: soprattutto negli anni del cosiddetto boom economico (primi anni sessanta), la commedia ci offre un quadro disincantato delle rapide trasformazioni delle condizioni di vita degli italiani, sottolineando le componenti di cinismo e di disinvoltura morale che caratterizzano la tumultuosa corsa al benessere economico. Pur all'interno di modello interpretativo in cui il moralismo risentito convive sempre con una sorta di epico compiacimento, la commedia è riuscita a restituire tensioni, contraddizioni e velleità di un Paese in rapida trasformazione. Accanto a autentici capolavori, primo fra tutti Il sorpasso (1962) di Dino Risi con Vittorio Gassman in una delle sue più celebri interpretazioni, la commedia all'italiana è riuscita a elaborare una tipologia di maschere, di situazioni e di moduli espressivi che lungo tutti gli anni sessanta e per buona parte dei settanta ha consentito di rappresentare puntualmente le trasformazioni del Paese, mostrandone sia i difetti, sia la vitalità. Alla base della fortuna della commedia nel suo periodo d'oro sta una perfetta sintonia tra registi (Monicelli, Risi, Comencini, Germi ai quali si aggiungono poi Scola, Lina Wermüller), un'agguerrita pattuglia di sceneggiatori (tra cui primeggiano Age e Scarpelli, Rodolfo Sonego) e un gruppo di attori quali Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Nino Manfredi, Giancarlo Giannini (a questi va aggiunta Monica Vitti che, dopo aver interpretato le eroine più problematiche dei film di Antonioni, ha saputo coprire ruoli di grande efficacia comica).
Solo sul finire degli anni settanta, in concomitanza con gli anni cupi del terrorismo, ma anche della caduta di miti di illimitate capacità di recupero, la commedia all'italiana si incupisce e mostra i segni di un inaridimento, come se i suoi moduli espressivi fossero divenuti ormai incapaci di cogliere i nuovi fermenti e le nuove prospettive.
L'ondata dei nuovi comici degli anni ottanta, in concomitanza con un ricambio generazionale degli sceneggiatori, lavorerà su forme di umorismo diverse, lontane anche quando sono evidenti rapporti di filiazione più o meno diretta, da quella ineguagliabile capacità della commedia degli anni d'oro di saldare in un unico piano espressivo la dimensione individuale e quella collettiva, la dimensione "esistenziale" e quella storica.
Anche se quello della commedia è il genere che ha avuto il maggior successo di pubblico e la maggiore capacità di tenuta, non bisogna dimenticare che il cinema italiano ha saputo negli anni sessanta e settanta elaborare particolari versioni di generi affermatisi in altre cinematografie, conferendo loro particolari caratterizzazioni. Rientrano in questo ambito i successi dei pepla, film storico-mitologici che da una parte recuperano una tradizione tutta italiana dell'epoca del muto e dall'altra guardano al kolossal hollywoodiano. Ma l'invenzione più largamente popolare fu quella del western all'italiana (o "spaghetti western"), amalgama di replica manierista, contraffazione e iperbole parodistica del genere più genuinamente americano: è in questo ambito che emerge Sergio Leone, uno dei registi più atipici del cinema italiano che si è guadagnato una vasta fama internazionale (Per un pugno di dollari, 1964; Il buono, il brutto e il cattivo, 1966, C'era una volta il West, 1968, Giù la testa, 1971; C'era una volta in America, 1984). Aspetti analoghi presenta la fortuna del genere horror all'italiana, nel cui ambito si affermano registi come Mario Bava, Riccardo Freda e, successivamente, Dario Argento che si conquista una larga fama internazionale (L'uccello dalle piume di cristallo, 1970, Il gatto a nove code, 1971, Quattro mosche di velluto grigio, 1972; Suspiria, 1976; Inferno, 1980, ecc.).
 3. Il cinema d'autore.
Caduta la tensione degli anni eroici del neorealismo, alcuni dei registi che di quella stagione erano stati protagonisti si trovarono a vivere una crisi di adattamento senza tuttavia riuscire a superarla.
È questo il caso della coppia Zavattini e De Sica che ripiegheranno su una sorta di "maniera" neorealista. Se da una parte non mancarono riconoscimenti e risultati di qualche rilievo (da citare, ad esempio, La Ciociara, 1960, adattamento cinematografico del celebre romanzo di Moravia), dall'altra si riscontra l'incapacità di rispondere adeguatamente ai mutamenti in atto con la forza e la tensione stilistica e morale dell'immediato dopoguerra.
Rossellini è il primo a capire che i termini della crisi non potevano essere solo individuali (di poetica, di prospettiva), ma investivano lo stesso mezzo cinematografico. Dopo aver corso tutti i rischi dell'involuzione e della "maniera" neorealista (Il generale Della Rovere, 1959, Era notte a Roma, 1960), si rivolge rapidamente verso sperimentazioni che hanno come orizzonte il superamento dei limiti istituzionali del cinema narrativo e si dedica al cinema didattico, alla televisione (Età del ferro, 1964; La presa del potere di Luigi XIV, 1966; Gli atti degli apostoli, 1968; Socrate, 1970).
L'evoluzione della carriera di Visconti dopo Bellissima, più che un superamento della "cronaca" (del neorealismo) nella "storia" (nel realismo) quale venne individuato a proposito di Senso (1954), mette in evidenza la vera natura dei suoi rapporti con il neorealismo, nei termini di un naturalismo estetizzante mediato attraverso la tradizione del melodramma e del romanzo borghese. I film del periodo neorealista appaiono sempre più come momenti di un personale itinerario estetico che, attraverso le tappe intermedie di Le notti bianche (1957) e Rocco e i suoi fratelli (1960), lo porta a esiti di un fastoso e elegante manierismo. Da questo punto di vista, si può riscontrare una coerenza interna all'opera di Visconti, anche in quei casi in cui maggiormente si allontana dalle "origini" neorealiste (Il Gattopardo, 1963; La caduta degli dei, 1969; Morte a Venezia, 1971; Gruppo di famiglia in un interno, 1974).
Ma il rinnovamento del cinema italiano degli anni cinquanta passa piuttosto attraverso autori come Fellini e Antonioni che si aprono a nuove problematiche e a nuove prospettive stilistiche, che tuttavia non prescindono dalle iniziali esperienze in ambito neorealista.
Fellini è probabilmente il cineasta italiano, e non solo italiano, che ha ottenuto la maggior popolarità pur rimanendo fedele (quasi in modo ossessivo, si vorrebbe aggiungere) ad una personalissima tematica, nutrita di dati autobiografici.
Il mondo dello spettacolo, la fabbrica dell'illusione fa spesso da sfondo ai suoi film: il teatro di rivista (da Luci del varietà, 1950, a Ginger e Fred, 1986), il mondo dei fotoromanzi in Lo sceicco bianco, 1951; lo spettacolo di fiera e il circo (La strada, 1954, e I clowns, 1970) e, soprattutto, il mondo del cinema (da La dolce vita, 1960, a Otto e mezzo, 1963, e L'intervista, 1987). Attraverso la metafora della messa in scena, Fellini riesce a parlare parimenti del profondo bisogno di illusione che alberga dentro ognuno di noi, ma anche di quanto di mistificatorio c'è nella propensione stessa all'arte della messa in scena. È per questo, forse, che Fellini, facendo dello stesso mondo del cinema uno degli oggetti principali dei suoi film e rimanendo così fedele ad una dimensione tutta soggettiva e autobiografica, è riuscito a costruire un universo poetico tra i più riconoscibili e identificabili con l'essenza stessa del cinema.
Il cinema di Antonioni si rivela quasi subito come un cinema difficile, poco o nulla in consonanza con le grandi tematiche popolari del neorealismo e con i procedimenti di grande coinvolgimento emotivo. I personaggi dei suoi film sono per lo più dei borghesi e le tematiche affrontate riguardano la crisi dei sentimenti e il disagio del vivere. In questa rappresentazione di vuoto morale e di deserto dei sentimenti, Antonioni non mette partecipazione emotiva né cerca il coinvolgimento dello spettatore. Lavora semmai con grande rigore compositivo in direzione dell'astrazione, della decantazione.
Già come documentarista, Antonioni aveva mostrato la propensione a cogliere ambienti e personaggi della vita quotidiana secondo un nitido disegno formale che dava ai suoi lavori una caratterizzazione atipica rispetto al clima dominante del neorealismo (Gente del Po, 1943-1947; Nettezza urbana, 1948; L'amorosa menzogna, 1949).
Fin dal suo primo lungometraggio, Cronaca di un amore (1950), Antonioni mostra una predilezione per gli intrecci da film giallo che comporti una "ricerca", investigazione, ma si tratta di un pretesto narrativo (da L'avventura, 1959, a Blow up, 1966). In realtà il "mistero" che avvolge gli intrecci dei suoi film non è di tipo poliziesco, tanto è vero che esso domina anche quei film in cui non c'è delitto. In realtà il cinema di Antonioni si occupa del rapporto difficile e complesso tra il personaggio e le cose, il personaggi e le situazioni, privilegiando su tutto la dimensione dello sguardo soggettivo. È per questo forse che sono state trovate tante analogie tra il cinema di Antonioni e varie correnti del pensiero, dell'arte, della letteratura contemporanei. E senza dubbio questa difficoltà concettuale ha impedito al cinema di Antonioni di divenire popolare, anche se gli va riconosciuto il merito di aver elaborato un universo visivo tra i più coerenti e formalmente rigorosi del cinema contemporaneo (Il grido, 1957; La notte. 1960; L'eclisse, 1962; Professione: reporter, 1975).
Sul finire degli anni cinquanta e nei primi anni sessanta, accanto alla consacrazione internazionale del cinema dei maestri, si assiste in Italia a una fioritura di esordi che portano nel giro di pochi anni all'affermazione di un nutrito gruppo di nuovi registi che garantiranno lungo tutti gli anni sessanta e per buona parte dei settanta una sicura vitalità al cinema d'autore, caratterizzato sempre da un impegno tematico e spesso anche da una attenzione ai problemi espressivi.
Nell'ambito di un cinema di impegno capace di adattarsi alle mutate condizioni sociali, si possono citare Francesco Rosi e Elio Petri che sono riusciti a portare a livelli di ampia circolazione film con problematiche esplicitamente politiche. Di Rosi si possono ricordare: Salvatore Giuliano (1962); Le mani sulla città (1963), Il caso Mattei (1972), Cadaveri eccellenti (1975). Di Petri: A ciascuno il suo (1967) e Todo modo (1976), ambedue tratti da romanzi di Sciascia; e ancora Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) e La classe operaia va in paradiso (1971)
Tra i registi che affermano negli anni sessanta, sulla spinta del rinnovamento promosso dalla nouvelle vague francese, si possono ricordare Marco Ferreri (che aveva esordito in Spagna sul finire degli anni 50), Ermanno Olmi, Bernardo Bertolucci, Marco Bellocchio e i fratelli Taviani, registi i quali riusciranno a garantire la vitalità del cinema d'autore lungo gli anni settanta e ottanta.
Ecco alcuni dei principali film degli autori appena citati: Ermanno Olmi (Il tempo si è fermato, 1959, Il posto, 1961, I fidanzati, 1963, L'albero degli zoccoli, 1977, Lunga vita alla signora, 1987); Marco Ferreri (Una storia moderna: l'ape regina, 1963, Marcia nuziale, 1966, Dillinger è morto, 1969, L'ultima donna, 1976, Chiedo asilo, 1979, Storia di Piera, 1983); Bernardo Bertolucci (La commare secca, 1962, Prima della rivoluzione, 1964, Strategia del ragno, 1970, Ultimo tango a Parigi, 1972, Novecento, 1976); Marco Bellocchio (I pugni in tasca, 1965; La Cine è vicina, 1967; Nel nome del padre, 1972; Matti da slegare, 1975; Marcia trionfale, 1976), Paolo e Vittorio Taviani (Un uomo da bruciare, 1962, I sovversivi, 1967; Sotto il segno dello scorpione, 1969, S. Michele aveva un gallo, 1971, Padre padrone, 1977).
Un caso a parte è costituito dall'esordio di Pier Paolo Pasolini che, quando arriva al cinema con Accattone (1961) è già molto noto come poeta, saggista e romanziere. L'opera cinematografica di Pasolini, che è accompagnata da una produzione teorica di grande consapevolezza, è tutta incentrata sull'idea di "cinema di poesia" e prefigura un superamento del cinema di pura narrazione, a favore di un cinema della soggettività lirica e della riflessione saggistica. L'anticonformismo e la spregiudicatezza di prese di posizione e di scelte hanno assicurato al cinema di Pasolini un'ampia notorietà. Tra i suoi film più famosi si possono ricordare Il Vangelo secondo Matteo (1964), Uccellacci e uccellini (1966) interpretato da Totò, Edipo re (1967), Decameron (1971), Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975)

Riferimenti bibliografici

  • Brunetta, G. P.
    1993 Storia del cinema italiano, vol III, Dal neorealismo al miracolo economico 1945-1959, Editori Riuniti, Roma.
  • Aprà A. e Carabba C.
    1976 Neorealismo d'appendice, Guaraldi, Rimini-Firenze.
  • Fofi, G.
    1972 Totò, Savelli, Roma 1972
  • Faldini F. e Fofi, G.
    1977 Totò: l'uomo e la maschera, Feltrinelli, Milano.

Fonte: http://scienzepolitiche.unipg.it/tutor/uploads/cinema_italiano.doc

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