La Nouvelle Vague

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La Nouvelle Vague

 

NOUVELLE VAGUE
di Michel Marie (da Enciclopedia del cinema Treccani, 2004)

L'espressione Nouvelle vague, che comparve e ricorse sistematicamente sulla stampa non specializzata a partire dal febbraio del 1959, rimanda a un preciso periodo della storia del cinema francese, ossia la fine degli anni Cinquanta e gli inizi degli anni Sessanta, e definisce un fenomeno cinematografico complesso, costituito da un insieme più o meno circoscrivibile di autori, di avvenimenti, di film, di idee e di concezioni della regia nell'ambito del quale però risulta difficile individuare i tratti comuni profondi che legarono gli esponenti e le opere di tale movimento. Gli autori della N. v. stricto sensu furono quelli che si formarono alla scuola critica dei "Cahiers du cinéma" degli anni Cinquanta: Claude Chabrol, Jean-Luc Godard, Eric Rohmer, Jacques Rivette e François Truffaut, considerati fondamentali figure di riferimento nel cinema contemporaneo. La generazione di questi registi è stata poi in parte sostituita da nuovi autori, come Maurice Pialat, Jean Eustache, Philippe Garrell, Jacques Doillon, Léos Carax, Olivier Assayas e André Téchiné, che non possono però essere ricondotti a un unico movimento, quale fu la vague del 1959.
L'espressione era nata come semplice etichetta giornalistica, e venne utilizzata anche in un contesto estraneo a quello del cinema, in relazione a un sondaggio di opinione sulla gioventù francese pubblicato nel 1957 dal settimanale "L'express", mentre nello stesso periodo era apparsa in riferimento al Nouveau roman. Passò poi a indicare complessivamente la generazione di registi che cominciarono a girare lungometraggi verso la fine degli anni Cinquanta. Questo spostamento verso il settore cinematografico è legato a un'inchiesta pubblicata nel febbraio del 1958 dal caporedattore della rivista "Cinéma 58", Pierre Billard, che compilò un elenco dei cineasti francesi di età inferiore ai quarant'anni, in cui figuravano i nomi di Bernard Borderie, Henri Verneuil, Jack Pinoteau e Robert Hossein. La definizione divenne in seguito più o meno critica, e in alcuni casi persino spregiativa, a indicare uno stato d'animo, una certa disinvoltura o una vera e propria trascuratezza nella realizzazione e nella messa a punto artistica di un film. In particolare, i gestori delle sale cinematografiche dell'epoca ricorrevano alla formula "è un film Nouvelle vague" per film di giovani registi improvvisati e poco professionali, ma comunque sorprendenti. È stato solo successivamente che, svincolatasi dall'aspetto effimero legato al momento della sua apparizione, l'espressione si è definitivamente imposta come denominazione del movimento. In modo piuttosto provocatorio, indirettamente sottolineando la complessità del fenomeno, nel 1962 Truffaut affermava che l'unica caratteristica che accomunava tra loro gli esponenti della N. v. era la passione per i biliardini elettrici, aggiungendo: "Non si è ancora sottolineato a sufficienza questo punto; la Nouvelle vague non è né un movimento né un gruppo, ma un concetto di quantità. È una denominazione collettiva inventata dalla stampa per indicare i nomi dei cinquanta nuovi registi emersi in soli due anni in un campo professionale in cui in precedenza non si accettavano più di tre o quattro nuovi nomi all'anno" (in "Cahiers du cinéma", décembre 1962, 138).

Il cambio generazionale
La N. v. raggruppò alcuni cineasti che affrontarono la regia tra il 1958 e il 1962. Come precisato da Truffaut, si trattò in primo luogo di un fenomeno quantitativo, poiché riguardò almeno un centinaio di nuovi autori. Il dizionario alfabetico del numero speciale dei "Cahiers du cinéma" dedicato alla N. v. e pubblicato nel dicembre del 1962, infatti, indicò i nomi di ben 162 nuovi autori. Il periodo precedente, quello del dopoguerra (1945-1958), era stato caratterizzato invece da una grande continuità riguardo alle regole di realizzazione industriale dei film e riguardo alle vie d'accesso a questa professione. Nel periodo tra la Liberazione e il 1958 il numero di nuovi registi si limitò ogni anno a qualche nome. La maggior parte delle volte questi personaggi si avvicinavano alla quarantina e giungevano a cimentarsi con il lungometraggio dopo un lungo periodo di assistentato, avendo avuto l'opportunità di assimilare a fondo i modelli dei loro predecessori. Nel corso di alcuni anni, tuttavia, si contarono più di una decina di esordi: il 1951, per es., vide debuttare Guy Lefranc con Knock (Knock, ovvero il trionfo della medicina), Jean Laviron con Descendez, on vous demande, Henri Schneider con La grande vie, Henri Lavorel con Le voyage en Amérique, Claude Barma con Le dindon, Ralph Baum con Nuits de Paris, Georges Combret e Claude Orval con Musique en tête, mentre tra il 1952 e il 1953 esordirono Pinoteau con Ils étaient cinq (1952), Verneuil con La table aux crevés (1952), Borderie con Les loups chassent la nuit (1952; La ragazza di Trieste), André Michel con Trois femmes (1952) e Daniel Gélin con Les dents longues (1953; I denti lunghi). Elenco di opere prime, quasi esclusivamente costituito da vecchie formule commerciali, fatta eccezione forse per La grande vie, tentativo di Neorealismo alla francese che ottenne il premio Jean Vigo per i lungometraggi, e per Les dents longues, film originale destinato a rimanere l'unico lungometraggio realizzato dall'attore Daniel Gélin.Scoraggiato dagli obblighi di natura commerciale, Barma, un giovane diplomato dell'IDHEC dalle ambizioni innovatrici, abbandonò, come del resto molti altri registi della sua generazione, la cittadella del cinema francese per approdare alla televisione (la RTF, Radio-Télévision-Française), allora in pieno sviluppo e in fase di continua sperimentazione. Verneuil e Borderie riuscirono invece a integrarsi perfettamente nel sistema del cinema-spettacolo e nel corso dei due decenni successivi firmarono alcuni film che riscossero grande successo: il primo, infatti, realizzò La vache et le prisonnier (1959; La vacca e il prigioniero) e Cent mille dollars au soleil (1964; 100.000 dollari al sole), il secondo Les trois mousquetaires (1961; I tre moschettieri).Esempio significativo di adeguamento alle regole tradizionali fu invece quello di Michel Boisrond. Nel 1955 affrontò per la prima volta la realizzazione di un lun-gometraggio Cette sacrée gamine, uscito poi nel 1956. Benché firmata anche dal giovane giornalista Roger Vadim, la sceneggiatura del suo primo film s'iscrisse nella lunga tradizione dei vaudevilles che il cinema francese aveva prodotto con grande regolarità a partire dagli anni Trenta. Versione aggiornata secondo i gusti del momento delle commedie che Henri Decoin aveva realizzato per porre in risalto il fascino discreto di Danielle Darrieux, lo scopo principale di Cette sacrée gamine fu quello di lanciare Brigitte Bardot nel ruolo dell'ingenua. Anche in seguito Boisrond diresse film molto convenzionali, come, per es., C'est arrivé à Aden (1956), basato sull'adattamento di un racconto di P. Benoit realizzato da Jean Aurel; Lorsque l'enfant paraît (1956), tratto da una commedia di A. Roussin; Une parisienne (1957; Una parigina), altra commedia con Brigitte Bardot basata sulla sceneggiatura molto convenzionale di Annette Wademant e di Aurel. Il cinema di Boisrond tuttavia non ebbe nulla a che vedere con quello della Nouvelle vague. La sua posizione è piuttosto semplice da definire, ma non è lo stesso per alcuni autori a volte considerati parte integrante del movimento e la cui opera invece se ne discostò, rivelandosi in ultima analisi inclassificabile. È il caso, per es., di Philippe de Broca che esordì con Les jeux de l'amour (1960), riprendendo un soggetto pubblicato da Godard nel 1959 sui "Cahiers du cinéma" e poi dallo stesso Godard rivisto e riutilizzato nel 1961 per il suo Une femme est une femme (La donna è donna); di Michel Deville, autore di molte commedie singolari (Ce soir ou jamais, 1961; Adorable menteuse, 1962, Le bugie nel mio letto); o di Louis Malle, i cui film rivelano alcune caratteristiche comuni a quelli prodotti dalla scuola della N. v. (Les amants, 1958; Zazie dans le métro, 1960, Zazie nel metrò).
I cineasti francesi del 1955, in generale piuttosto anziani, furono nella maggior parte dei casi gli stessi che avevano fondato le regole del cosiddetto cinema di qualità che conobbe il suo apogeo alla fine degli anni Trenta. Questo cinema si basava su tre principi essenziali: il primato dello sceneggiatore dialoghista, la realizzazione delle riprese all'interno degli studi con una folta équipe tecnica controllata da sindacati molto corporativi, e il ricorso ad attori esperti e popolari che il pubblico ritrovava in ogni film (Jean Gabin, Martine Carol, Bourvil). Proprio questi principi furono attaccati con estrema violenza dal giovane critico Truffaut nell'articolo Une certaine tendence du cinéma français, pubblicato in "Cahiers du cinéma" (1954, 31).
I cineasti più importanti di questo periodo furono Claude Autant-Lara, René Clair e Henri-Georges Clouzot, e l'unica personalità incisiva del dopoguerra fu quella di René Clément che, tuttavia, dopo alcuni film innovatori (La bataille du rail, 1946, Operazione Apfelkern; Jeux interdits, 1952, Giochi proibiti) ritornò alla vecchia impostazione con Gervaise (1956), film tratto da Assommoir di É. Zola con Maria Schell e François Périer, realizzato grazie a una coproduzione internazionale di grande prestigio. Ma vi furono anche alcuni registi originali che il Truffaut critico considerò veri e propri autori perché si dedicavano alla stesura delle sceneggiature e perché la loro regia si identificava con una particolare visione del mondo: Jean Renoir, Robert Bresson, Jacques Tati, Jacques Becker, Abel Gance e Max Ophuls, i cui film, tuttavia, non riscossero l'unanime consenso della critica che spesso preferì alle loro opere quelle di Clair e di Clouzot.

I franchi tiratori
Tuttavia, sin dal 1946, alcuni franchi tiratori avevano indicato la strada da seguire. Nell'ordine, secondo le date di realizzazione dei loro primi lungometraggi, furono Jean-Pierre Melville, Roger Leenhardt, Agnès Varda, Alexandre Astruc e, in un certa misura, Vadim. Melville girò nel 1947 Le silence de la mer (Il silenzio del mare), uscito solo nel 1949, basandosi su metodi decisamente inconsueti che prefiguravano quelli propri della N. v.; disponendo di un budget molto ridotto (9 milioni di franchi a fronte del budget medio dei lungometraggi che all'epoca era di 60 milioni), ricorse a una équipe limitata e ad attori sconosciuti e realizzò le riprese in scenari naturali. Melville inoltre non disponeva dell'autorizzazione ufficiale del Centre national de la cinématographie e soprattutto non aveva il consenso di Vercors, autore del romanzo da cui era tratto il film. Il suo film venne distribuito solo nel 1949 e riscosse un buon successo, ma soprattutto l'accoglienza della critica dimostrò un fatto nuovo, ossia la possibilità di una produzione totalmente indipendente, non soggetta a obblighi di natura commerciale e alle limitazioni imposte dal corporativismo dei sindacati di categoria. Il racconto in prima persona fu reso da una voce interiore, libertà narrativa che si troverà poi in Le journal d'un curé de campagne (1951; Il diario di un curato di campagna) di Bresson e in molti film della N. v.: Une vie (1958; Una vita. Il dramma di una sposa) di Astruc, Le petit soldat (realizzato nel 1960, ma uscito per problemi di censura solo nel 1963) di Godard, Jules et Jim (1962; Jules e Jim) di Truffaut, La boulangère de Monceau ‒ Six contes moraux, I (1962; La fornaia di Monceau) di Rohmer.
Al contempo, Leenhardt, un brillante critico che aveva debuttato prima della guerra sulle pagine del mensile "Esprit", realizzò a quarantacinque anni un lungometraggio d'esordio molto personale, basato sui suoi ricordi d'infanzia, Les dernières vacances (1948), evocazione in tono estremamente letterario degli amori estivi e della fine di una proprietà familiare di provincia. Data la sua età, Leenhardt non poteva essere considerato un 'giovane regista', ma firmò un film assai singolare di cui scrisse la sceneggiatura, inscrivendo il suo interessante tentativo in una tradizione letteraria fondata sul racconto autobiografico.
Nel 1956, una giovane fotografa del TNP (Théâtre National Populaire), A. Varda, realizzò da sola negli scenari naturali di Sète il suo primo lungometraggio, La Pointe-Courte, un'opera audace in cui sequenze quasi documentarie si alternano a scene letterarie ricche di dialoghi, interpretate da due attori di teatro (Philippe Noiret, a quei tempi ancora sconosciuto, e Silvia Monfort). Si tratta di un lavoro decisamente originale in cui l'autenticità documentaria si combina con una stilizzazione fotografica perfettamente dominata e il montaggio si ricollega alle più audaci opere del cinema sovietico degli anni Venti. Già nel 1955 era tuttavia uscito Les mauvaises rencontres di Astruc, precedentemente noto sia come critico (il suo articolo sulla caméra-stylo è considerato il manifesto della nuova scuola) sia come autore di un mediometraggio (Le rideau cramoisi, 1952, La tenda scarlatta), che aveva ottenuto il premio di qualità e il Prix Louis Delluc. Les mauvaises rencontres, tratto da un romanzo di C. Saint-Laurent, narra la storia di una giovane provinciale (Anouk Aimée) che tenta di affermarsi nel mondo dell'intelligencija parigina. Il giovane regista costruì il suo film ricorrendo a scene retrospettive accompagnate da una voce fuori campo e si ispirò allo stile di Orson Welles. Anche uno dei primi cortometraggi di Jacques Doniol-Valcroze, Les surmenés (1958), prodotto da Pierre Braunberger e interpretato da Jean-Pierre Cassel e Jean-Claude Brialy, racconta la storia di una giovane provinciale giunta a Parigi che, annoiata dal rapporto con il suo fidanzato, decide di scoprire l'universo notturno della capitale; si tratta di un tema balzachiano che diverrà uno stereotipo nei film della N. v.: si ritrova, infatti, anche all'inizio del racconto di Paris nous appartient (Parigi ci appartiene, realizzato tra il 1958 e il 1959, ma distribuito in modo limitato solo nel 1961) lungometraggio d'esordio di J. Rivette. Infine, giovane assistente di Marc Allégret e vecchio collaboratore di "Paris Match", Vadim esordì brillantemente con Et Dieu créa la femme (1956; Piace a troppi), film che riscosse un notevole successo internazionale e che fu salutato da Truffaut come opera che mostrava un'immagine completamente rinnovata della figura femminile nel cinema, ponendo in primo piano l'emancipazione sessuale della donna. Vadim fu il cineasta che creò il mito di Brigitte Bardot o che, per essere più precisi, lo rinnovò: la giovane attrice, infatti, aveva debuttato nel 1952 ed era ormai al suo diciassettesimo film.
È difficile considerare Melville, Leenhardt, Varda, Astruc e Vadim esponenti della stessa tendenza, ma ognuno di questi registi anticipò almeno una delle caratteristiche che in seguito sarebbero state sintetizzate nel movimento del 1959: la tendenza a riferirsi al cinema americano (Melville, Vadim e Astruc), il ricorso a un budget ridotto (Melville e Varda), l'esperienza come critici (Leenhardt e Astruc) e, più in generale, l'originalità mostrata nella scelta dei soggetti e delle tematiche affrontate, in particolare il tema della giovinezza, i problemi della realtà contemporanea e l'emergere di una nuova forma di libertà sessuale, un aspetto sottolineato soprattutto da Vadim. In base a questi criteri, nonostante la sceneggiatura di Les dernières vacances fosse originale, il film di Leenhardt s'inserisce a pieno titolo in una ben definita tradizione letteraria del cinema francese il cui modello è rappresentato da Le blé en herbe (1954; Quella certa età) di Autant-Lara, dall'omonimo romanzo di Colette. In effetti, Leenhardt fu considerato un precursore del movimento della N. v. soprattutto in virtù della sua attività di critico e del suo ruolo di maître à penser, in quanto padre spirituale di André Bazin e del gruppo dei "Cahiers du cinéma".
Ma la N. v. in quanto tale acquisì il suo status mediati-co solo nel corso della stagione cinematografica 1958-59. L'idea della N. v. come movimento teso a rinnovare la produzione cinematografica s'impose quando i critici dei quotidiani e poi quelli dei settimanali iniziarono a interessarsi ad alcuni nuovi registi che, in quel momento, richiamavano l'attenzione del pubblico. Si tratta naturalmente di Chabrol, Truffaut, Godard e, da un punto di vista completamente diverso, anche di Alain Resnais e Marguerite Duras che firmarono insieme Hiroshima, mon amour (1959). Resnais e la Duras furono due insigni rappresentanti di un 'nuovo cinema', ma più vicino al Noveau roman di Alain Robbe-Grillet che alla N. v. dei "Cahiers du cinéma". Nel loro caso si trattò quindi un fenomeno di coincidenza storica e non di appartenenza a un movimento comune, come avrebbero dimostrato L'année dernière à Marienbad (1961; L'anno scorso a Marienbad) di Resnais, e più tardi L'immortelle (1963; L'immortale) di Robbe-Grillet. Fu dunque nei primi sei mesi del 1959 che s'impose sugli schermi cinematografici francesi l'idea di una N. v.; in quel periodo infatti venne distribuita una serie di opere prime, alcune delle quali già realizzate da mesi e le cui uscite erano destinate al grande pubblico. I primi due film di Chabrol furono presentati in alcune delle più esclusive sale degli Champs Elysées: Le beau Serge nel febbraio e Les cousins (I cugini) nel marzo di quell'anno. Questi due film riscossero un grande successo di pubblico, particolarmente rilevante nel caso di Les cousins, e il Festival di Cannes del 1959 fu il festival della Nouvelle vague. La Francia vi fu rappresentata da Orfeu negro (Orfeo negro), il primo film di Marcel Camus, che ottenne la Palma d'oro, e da Les 400 coups (I quattrocento colpi) di Truffaut premiato per la migliore regia. Ma soprattutto Hiroshima, mon amour, presentato fuori concorso, conobbe nel periodo immediatamente successivo il riconoscimento internazionale della critica anglosassone, italiana e tedesca, e riscosse un successo commerciale impensabile nel 1959 per un film così provocatorio e per una scrittura d'avanguardia tanto lontana dalle abitudini del grande pubblico. L'estate seguente uscì À bout de souffle (Fino all'ultimo respiro) di Godard, mentre Rivette proseguì la realizzazione di Paris nous appartient, che aveva interrotto nel 1958 per motivi finanziari, e nel 1962 esordì anche Rohmer con Le signe du lion (Il segno del leone). Il movimento si era così affermato e per due o tre stagioni alcune decine di giovani artisti tentarono di penetrare nella breccia che esso aveva aperto: Jacques Rozier (Adieu Philippine, 1963, Desideri nel sole), Jacques Demy (Lola, 1961, Lola, donna di vita), Jean-Pierre Mocky (Les dragueurs, 1959; Un couple, 1960), ma anche il romanziere A. Robbe-Grillet (L'immortelle), Claude Lelouch (L'amour avec des si, 1966, L'amore senza ma…) e più di centocinquanta nuovi registi menzionati nel dizionario del numero speciale dei "Cahiers du cinéma" uscito nel 1962, in cui si tentò di fare un bilancio di questa 'piccola rivoluzione'.
La durata, l'incisività e l'originalità della carriera di alcuni registi che divennero celebri in tutto il mondo, come Godard, Truffaut, Rivette, Chabrol e Rohmer, non devono comunque indurre a trascurare altre importanti figure che svolsero un ruolo decisivo nel primo periodo iniziale del movimento. Si è accennato al prestigio intellettuale di cui godeva il giovane romanziere e critico A. Astruc nella Francia del periodo della Liberazione. Amico di Jean-Paul Sartre e di Boris Vian, fu una delle figure di riferimento di Saint-Germain-des-Prés. I suoi primi film (Le rideau cramoisi, Une vie, La proie pour l'ombre, 1961) furono accolti molto favorevolmente dai critici ufficiali del tempo. Pari rilievo ebbero J. Doniol-Valcroze e Pierre Kast, due figure di primo piano del primo periodo dei "Cahiers du cinéma". Kast aveva partecipato alla Resistenza ed era stato membro dell'associazione degli studenti comunisti. Egli era inoltre amico del regista Jean Grémillon, che allora godeva di un immenso prestigio per l'impegno profuso nel corso della guerra e per gli ultimi film realizzati. Kast iniziò a lavorare come assistente non solo di Grémillon, ma anche di R. Clément, di Renoir e del regista americano Preston Sturges che in quel periodo stava girando un film a Parigi: inoltre, realizzò alcuni interessanti cortometraggi, tra cui uno su Goya, Les désastres de la guerre (1952). Il suo primo lungometraggio, Amour de poche (1957), narra una storia di fantascienza, basata su un romanzo di W. Kaemfert adattato da France Roche, che in nessun modo si distingue dalle commedie dell'epoca e che possiede una struttura piuttosto tradizionale. I suoi film più personali, come per es. Le bel âge (1960; La dolce età), La morte-saison des amours (1960; La morta stagione dell'amore) e Vacances portugaises (1963; Antologia sessuale), di cui il regista curò anche sceneggiature e dialoghi, rappresentano dei marivaudages estremamente superficiali ambientati nel mondo borghese parigino e provinciale, la cui messa in scena era indebolita dalla scarsa attenzione riservata alla direzione degli attori.
Lo stesso può essere detto a proposito della carriera cinematografica di Doniol-Valcroze. Dotato di grande humour caustico, fu una delle penne più raffinate del dopoguerra; lavorò come critico nella redazione di "Cinémonde" e soprattutto in quella di "La revue du cinéma" di Georges Auriol e svolse un ruolo decisivo nella creazione dei "Cahiers du cinéma" e nel primo periodo di attività di questa rivista (1951-1955). Dopo alcuni cortometraggi ispirati al suo maestro R. Leenhardt, Doniol-Valcroze scrisse e diresse L'eau à la bouche (1960; Le gattine) e poi Le cœur battant (1962). La sceneggiatura di L'eau à la bouche, che si richiama ad alcuni grandi modelli come La règle du jeu (1939; La regola del gioco) di Renoir e Sommarnattens leende (1955; Sorrisi di una notte d'estate) di Ingmar Bergman, descrive la riunione in una sontuosa dimora dei Pirenei orientali di due coppie di ricchi eredi di provincia. La regia di Doniol-Valcroze non è più convincente di quella di Kast: i personaggi e i dialoghi sono estremamente stereotipati. L'universo di questi due cineasti e le loro tematiche giustificarono le severe critiche che videro nella N. v. un semplice cambiamento generazionale all'interno del mondo borghese dell'intelligencija francese. Così nel 1963 lo storico Jean Mitry osservava polemicamente come quel movimento, riflettesse uno stato d'animo identificabile a grandi linee con una sorta di anarchismo borghese tendente a demolire i valori stabiliti, non tanto per negarli quanto per adagiarvisi comodamente, limitandosi a cambiare le etichette, senza attaccare i concetti né i valori fondamentali. Grazie all'intelligenza dell'elaborazione e alla complessità della messa in scena, i film in seguito realizzati da Truffaut, da Godard, da Rivette, da Chabrol e dallo stesso Rohmer si sottrassero a queste critiche

I nuovi produttori
La N. v., non riguardò solo i critici e i registi, ma fu anche e soprattutto un fenomeno economico che segnò il trionfo di pubblico dei film a budget ridotto (da due a cinque volte inferiore al costo medio dei lungometraggi commerciali di quel periodo), e fu quindi molto remunerativo per i suoi promotori. Tre produttori svolsero un ruolo di primo piano in questa strategia economica completamente diversa da quella adottata dai produttori tradizionali dei film girati all'interno degli studi: P. Braunberger, Anatole Dauman e Georges de Beauregard. L'elenco delle opere prodotte o coprodotte da questi ultimi coprì i tre quarti di quelle raggruppate sotto l'etichetta Nouvelle vague. Braunberger non era un principiante: aveva debuttato verso la metà degli anni Venti producendo due film di Renoir (La fille de l'eau, 1924 e Nana, 1926) e negli anni Trenta aveva prodotto con Roger Richebé alcuni film molto commerciali. Nel corso degli anni Cinquanta, tuttavia, egli si dedicò alla ricerca di nuovi autori e produsse i cortometraggi di Godard e di Resnais. Fu Braunberger che produsse e distribuì i cortometraggi etnografici sull'Africa nera, Moi, un noir (1959) di Jean Rouch, oltre ad alcuni dei più importanti film degli anni Sessanta, tra i quali vanno ricordati Tirez sur le pianiste (1960; Tirate sul pianista) di Truffaut, Vivre sa vie (1962; Questa è la mia vita) di Godard e Cuba si (1961) di Chris Marker. Dauman, giovane produttore di origine polacca, nato nel 1925, si specializzò in un primo momento nel genere dei documentari artistici, producendo numerosi film dedicati alla pittura (Les fêtes galantes, 1950, di J. Aurel; Les désastres de la guerre, di Kast; Bruegel l'ancien, 1953, di Arcady), prima di produrre i cortometraggi e i primi lungometraggi di Resnais (Nuit et brouillard, 1955, Notte e nebbia; Hiroshima, mon amour; L'année dernière à Marienbad; Muriel ou le temps d'un retour, 1963, Muriel, il tempo di un ritorno) e poi alcuni film di Godard (Masculin, féminin, 1966, Il maschio e la femmina; Deux ou trois choses que je sais d'elle, 1967, Due o tre cose che so di lei) e di Bresson (Au hasard Balthazar, 1966; Mouchette, 1967, Mouchette ‒ Tutta la vita in una notte).Il terzo produttore che svolse un ruolo decisivo nell'affermazione della scuola della N. v. fu anche il più spregiudicato e il suo nome fu strettamente legato alla filmografia di Godard, di cui produsse il primo lungometraggio, À bout de souffle. Dopo essersi dedicato all'esportazione dei film francesi all'estero, de Beauregard iniziò a lavorare come produttore in Spagna, dove scoprì Juan Antonio Bardem (Muerte de un ciclista, 1955, Gli egoisti; Calle Mayor, 1957). In Francia egli optò per idee più convenzionali e fece realizzare due adattamenti da P. Loti diretti da Pierre Schoendoerffer (Ramuntcho e Pêcheur d'Islande, entrambi del 1959). Il suo incontro con Godard, tuttavia, fu decisivo e lo trasformò in un vero e proprio cacciatore di talenti. In quel periodo egli produsse quasi tutti i primi lungometraggi dei nuovi autori degli anni Sessanta (e cosa ancora più rischiosa, nei casi di insuccesso iniziale, le loro seconde e terze opere), tra le quali Adieu Philippine di J. Rozier, Cléo de 5 à 7 (1961; Cléo dalle cinque alle sette) di A. Varda, Lola di J. Demy, La collectionneuse ‒ Six contes moraux, IV (1967; La collezionista) di Rohmer, Suzanne Simonin, la religieuse de Denis Diderot (Susanna Simonin, la religiosa), titolo definitivo con cui uscì nel 1967 il film di Rivette La religieuse, girato nel 1965.

La fine della Nouvelle vague
Non è facile datare la fine del fenomeno della Nouvelle vague. L'inizio di una prima crisi fu segnato da una serie di insuccessi commerciali, dai film di Chabrol Les bonnes femmes (1960; Donne facili) e Les godelureaux (1961) a Les carabiniers (1963; I carabinieri) di Godard, a Muriel ou le temps d'un retour di Resnais, sino ad Adieu Philippine di Rozier, a Paris nous appartient di Rivette. Alcuni film non furono più distribuiti nei circuiti commerciali, come, per es., L'œil du malin (1962) e Ophélia (1963), entrambi di Chabrol. Parallelamente i nuovi autori tesero ad accentuare la distanza esistente tra la loro originalità creativa e la ricettività del pubblico delle sale cinematografiche che rimase, nonostante tutto, un pubblico di massa. I film di Jean-Daniel Pollet, Ph. Garrell, Marcel Hanoun poterono comunque contare solo su un pubblico molto limitato e non raggiunsero mai la notorietà di quelli di Godard, Chabrol e Truffaut. Solo Rivette e Rohmer riu-scirono progressivamente nel corso degli anni Settanta a raggiungerne uno più vasto, Rohmer con La collectionneuse ‒ Six contes moraux, IV e soprattutto con Ma nuit chez Maud ‒ Six contes moraux, III (1969; La mia notte con Maud) e Rivette per lo scandalo provocato dalla decisione della censura di vietare la proiezione di La religieuse e poi con L'amour fou (1969). Ma nel 1965 Barbet Schroeder, un giovanissimo produttore che in seguito si sarebbe dedicato alla regia, aveva permesso a Rohmer di riprendere la sua attività interrotta per l'insuccesso di Le signe du lion, producendo i suoi primi racconti morali (La boulangère de Monceau ‒ Six contes moraux, I, 1962, e La carrière de Suzanne ‒ Six contes moraux, II, 1963, La carriera di Suzanne, girati in 16 mm), e decidendo di esporsi al rischio di finanziare un lungometraggio dedicato ai quartieri di Parigi, Paris vu par… (1965) diretto da Rohmer, Jean Douchet, Chabrol, Godard, Pollet e Rouch, film che può essere considerato il manifesto degli aspetti più radicali della Nouvelle vague. I soggetti furono scritti dai registi, le riprese furono realizzate in scenari naturali, venne scelta la registrazione dei suoni sincrona e venne impiegato il formato di 16 mm, fino ad allora ritenuto esclusivo della televisione e dei film documentari. In seguito, però, i tre produttori che avevano svolto un ruolo decisivo nella creazione del movimento sarebbero tornati a sostenere finanziariamente alcuni film più conformi alle regole dello spettacolo come, per es., Landru (1963) di Chabrol, interpretato da Michèle Morgan, i film erotici di Walerian Borowczyk (Contes immoraux, 1974, I racconti immorali di Borowczyk; La bête, 1975, La bestia, prodotti da A. Dauman), i film di Lelouch (come Une fille et des fusils, 1965, Una ragazza e quattro mitra) e di J. Aurel (De l'amour, 1965, La calda pelle) e persino di Gérard Pirès (Erotissimo, 1969, prodotto da P. Braunberger).
Anche se i film della N. v. riscossero grande successo nella stessa Francia solo in due o tre stagioni, tuttavia suscitarono l'attenzione a livello internazionale, cosa che era accaduta solo a pochi altri film francesi degli anni Cinquanta. À bout de souffle, Hiroshima, mon amour e Les 400 coups divennero opere di riferimento per i giovani cineasti inglesi, cechi, polacchi, brasiliani, italiani, tedeschi e del Québec.

Le nouvelle vagues
Gli anni Sessanta coincisero con l'emergere di nouvelles vagues in molti Paesi del mondo. L'idea secondo cui l'origine di questi tentativi di rinnovamento dell'espressione artistica sarebbe da attribuire alla N. v. francese è decisamente riduttiva. Al contrario, come osservava P. Billard all'inizio del 1958 nell'articolo di "Cinéma 58", è possibile constatare l'affermazione al di fuori dei confini della Francia di nuove personalità creative che, anche a Hollywood e nella produzione statale dei Paesi dell'Est, imposero all'attenzione del pubblico un cinema assolutamente originale. A partire dal 1954-55 si videro emergere i primi film che si discostavano dalla produzione tradizionale, in Polonia con Andrzej Wajda, in Argentina con Leopoldo Torre Nilsson, in URSS con Grigorij N. Čuchraj, in Italia con Francesco Maselli, negli Stati Uniti con Robert Aldrich, in Brasile con Nelson Pereira dos Santos, in Giappone con Ōshima Nagisa.Tuttavia, il successo internazionale dei primi film di Truffaut e di Godard, che furono distribuiti in tutto il mondo, determinò una radicalizzazione del movimento. I giovani allievi delle scuole di cinema, i critici cineasti nascenti brasiliani, cecoslovacchi, tedeschi e iugoslavi trovarono in Tirez sur le pianiste, in Vivre sa vie, ma anche in L'année dernière a Marienbad di Resnais, i modelli di un cinema diverso, di un'ambizione intellettuale molto lontana da quella che aveva animato i tradizionali prodotti destinati all'esportazione, e seppero trarre da essi una straordinaria energia creativa, anche in situazioni molto difficili come quelle della Polonia e del Brasile. È vero che la N. v. francese fu ben presto accompagnata da movimenti nazionali dinamici e originali come, per es., il Free cinema (v.) inglese di Tony Richardson e di Karel Reisz, la scuola di Praga guidata da Miloš Forman, Věra Chytilová, Jan Němec ed Edwald Schorm (v. nová vlna) e da un gran numero di correnti nazionali del nuovo cinema, quella ungherese di Miklós Jancsó e Judith Elek, quella tedesca di Volker Schlöndorff, Peter Fleishmann, Werner Herzog, Rainer Werner Fassbinder e Wim Wenders (v. junger deutscher film), quella iugoslava di Dušan Makavejev, quella svizzera di Alain Tanner, Michel Soutter e Claude Goretta, quella canadese di Pierre Perrault, Jean-Pierre Lefebvre e Gilles Groux (v. canada), senza dimenticare lo straordinario e tumultuoso Cinema Nôvo brasiliano dominato da Glauber Rocha e Ruy Guerra.
Negli Stati Uniti un giovane attore si cimentò nella nuova pratica della fiction improvvisata, prendendo a modello il jazz d'avanguardia di Charles Mingus: John Cassavetes, che nel 1960 lanciò il movimento del cinema diretto nordamericano con Shadows (1960; Ombre), film che, soprattutto per quanto riguarda l'uso della macchina da presa e la drammaturgia, non fu meno innovatore di À bout de souffle. Alla fine del decennio, le nouvelles vagues stravolsero il volto dell'arte cinematografica in tutto il mondo, finendo spesso per conferirle un aspetto rivoluzionario.

 

  

 

 

GODARD, Jean-Luc
di Alberto Farassino (da Enciclopedia del Cinema Treccani, 2003)

Regista cinematografico francese, nato a Parigi il 3 dicembre 1930. Fra i più significativi autori cinematografici della seconda metà del Novecento, esponente di rilievo della Nouvelle vague, è stato punto di riferimento per i giovani cineasti degli anni Sessanta, rappresentando un segno di demarcazione fra epoche e culture della storia del cinema. Un ruolo conquistato con l'originalità e l'intensità delle sue opere, ma anche con una ricerca che lo ha visto in posizioni di avanguardia per tutta la sua lunga carriera, capace di rinnovarsi costantemente insieme alla società e alle tecnologie audiovisive, restando tuttavia fedele a un linguaggio e a un'idea di cinema forti e senza compromessi. Nel corso della sua carriera ha vinto numerosi premi, tra cui l'Orso d'oro al Festival di Berlino del 1965 con Alphaville (Agente Lemmy Caution ‒ Missione Alphaville) e, dopo il Leone d'oro alla carriera nel 1982, il Leone d'oro alla Mostra del cinema di Venezia del 1983 con Prénom Carmen.
Nato in una famiglia dell'alta borghesia, dopo un'adolescenza al contempo agiata e ribelle e studi irrego-lari, si accostò al cinema alla fine degli anni Quaranta frequentando la cineteca e i cineclub parigini con un gruppo di giovani amici (François Truffaut, Eric Rohmer, Jacques Rivette ecc.) che costituì il nucleo originario della futura Nouvelle vague. Con essi G. partecipò nel 1950 alla fondazione di "La gazette du cinéma" e dall'anno successivo iniziò a collaborare alla nuova rivista "Cahiers du cinéma", proponendovi una scrittura critica fervida, attenta alle ragioni estetiche e morali del cinema, inteso come un mondo autonomo e ideale, specie in quella valorizzazione appassionata di alcuni registi, anche minori, poi definita politique des auteurs.Intanto G. faceva i suoi primi esperimenti di regia con film su commissione (Opération béton, 1955) o piccoli racconti ironici interpretati da amici o giovani attori (Tous les garçons s'appellent Patrick, 1957; Charlotte et son Jules, 1958), finché con À bout de souffle (1960; Fino all'ultimo respiro) realizzò il suo primo lungometraggio, il ritratto di un giovane delinquente, cinico e romantico insieme, girato in uno stile fresco e disinvolto, incurante delle regole grammaticali e degli standard tecnici cinematografici e che procede per divagazioni, trovate visive e gestuali, sentenze e citazioni pittoriche e letterarie, senza tuttavia dimenticare i miti e i modelli del cinema del passato. Il film suscitò molte discussioni, ma il suo successo e il suo basso costo aprirono al giovane regista grandi possibilità che egli sfruttò con intelligenza e spregiudicatezza iniziando un'attività frenetica, senza precedenti nella tradizione autoriale, e realizzando per tutti gli anni Sessanta una media di due lungometraggi all'anno oltre a numerosi episodi per film collettivi. Il suo modo di girare era basato sulla rapidità, su sceneggiature appena abbozzate che lasciavano il primato alla ripresa e alle circostanze offerte dal caso e dalla personalità degli attori. I temi erano in senso lato politico-sociali: gli echi della guerra d'Algeria (Le petit soldat, 1960, ma uscito nel 1963 per problemi di censura), la condizione della donna e dei giovani (Vivre sa vie, 1962, Questa è la mia vita; Une femme mariée, 1964, Una donna sposata; Masculin, féminin, 1966, Il maschio e la femmina; Deux ou trois choses que je sais d'elle, 1967, Due o tre cose che so di lei); ma con sconfinamenti in ogni direzione: dalla commedia brillante (Une femme est une femme, 1961, La donna è donna) all'apologo favolistico (Les carabiniers, 1963, dalla pièce di B. Joppolo), dall'adattamento letterario (Le mépris, 1963, Il disprezzo, dal romanzo di A. Moravia) alla variazione sui generi classici, quali la fantascienza (Alphaville) o il film noir (Made in U.S.A., 1967, Una storia americana). Al di là dei soggetti e delle ambientazioni, quasi sempre urbane e contemporanee, erano soprattutto il linguaggio e le forme narrative sempre più libere (scansioni o interruzioni del racconto con scritte e inserti eterogenei, alternanza di inquadrature molto costruite e di scene casuali e improvvisate, riferimenti all'attualità, alla pubblicità, al mondo del cinema e dell'immagine) a farne degli esemplari film-saggio sul disorientamento e la confusione di valori della condizione moderna, sempre sensibili però alle emozioni dei loro personaggi. Sintesi e capolavoro di questo primo periodo può essere considerato Pierrot le fou (1965; Il bandito delle undici), interpretato da Anna Karina, moglie di G. dal 1961: un romantico, nichilista e caleidoscopico inno alla libertà e ai sentimenti intrecciato con riflessioni e digressioni che spaziano dalla politica alla pittura alla letteratura, ponendo però sempre la natura del cinema al centro della ricerca dell'autore.Nella seconda metà del decennio i temi affrontati dal regista diventarono sempre più esplicitamente politici e film come l'anarchico-surrealista Week-end (1967; Week-end, un uomo e una donna dal sabato alla domenica) o il marxista-utopista La chinoise (1967; La cinese, che vinse il Premio speciale della giuria alla Mostra del cinema di Venezia) sembrano prefigurare la rivolta studentesca del maggio 1968, cui G. partecipò attivamente sia filmando gli avvenimenti sia avviando un'importante riflessione politica e teorica sul senso del cinema nella società capitalista. Questa ricerca, radicale e anche autocritica, lo condusse a ideare dapprima opere fantasiosamente ribellistiche, come One plus one (1968, girato in Gran Bretagna) oppure Vent d'Est, noto anche come Vento dell'Est (1970), realizzato in Italia, e in seguito film militanti politicamente e formalmente molto controllati, quali Pravda (1969) o Lotte in Italia (1971), firmati (assieme a Jean-Henri Roger e Jean-Pierre Gorin) con il nome collettivo di Gruppo Dziga Vertov, ma decisamente segnati dalla sua inconfondibile cifra stilistica e dalla sua intelligenza cinematografica, anche nel caso di una produzione a carattere più industriale come Tout va bien (1972; Crepa padrone, tutto va bene).Dopo un grave incidente e un periodo di riflessione e di isolamento, non privo comunque di progetti ed esperimenti interessanti, G. ritornò al cinema a metà degli anni Settanta confrontandosi con le nuove tecnologie elettroniche e fondando un nuovo gruppo, chiamato Sonimage, che emblematicamente prese sede non a Parigi ma nella periferica Grénoble. Vennero così alla luce il film-video Numéro deux (1975) e i due lunghi programmi televisivi Six fois deux (1976) e France tour/ détour deux enfants (1977-78) in cui, abbandonando il primato della politica, si riscoprivano i temi della famiglia, del lavoro e della vita privata in incontri e dialoghi intrecciati con riflessioni sulla natura del mezzo e dell'immagine. Ma il mezzo elettronico servì a G. anche per appunti e video-sceneggiature da utilizzare nei film che realizzò in seguito, quando trasferì la sua casa-laboratorio in Svizzera con la sua nuova compagna e spesso coregista Anne-Marie Miéville e iniziò una nuova fase della sua attività, tesa a una ricerca più appartata di purezza ed essenzialità dell'immagine, in contrasto con le tradizionali funzioni narrative e comunicative del cinema. Risalgono a questo periodo film di grande pregnanza estetica e stilistica, come Passion (1982), che confronta la quotidianità del lavoro manuale e artistico con le utopie d'autore rappresentate da capolavori della grande pittura europea, sontuosamente ricostruiti in studio; Prénom Carmen, che sublima la grottesca parodia di un mito letterario-operistico nella purezza della musica di L. van Beethoven, e Je vous salue, Marie (1984), che, affrontando con uno sguardo ironico e contemplativo la questione della verginità di Maria e della nascita di Cristo, suscitò polemiche negli ambienti tradizionalisti cattolici in Francia e in Italia. Oltre ai grandi temi G. ha continuato a coltivare nostalgicamente il 'piccolo' cinema dei generi e dei mestieri, come si vede in Détective (1985) e in Grandeur et décadence d'un petit commerce de cinéma (1986), accettando anche lavori su commissione, pubblicità e film promozionali, realizzati sempre con originalità e grande libertà critica. Considerandosi un utopista e un sopravvissuto si è anche rappresentato ironicamente, in una sua liberissima versione di King Lear (1987; Re Lear) o in Soigne ta droite (1987; Cura la tua destra…), nella parte del fool o dell'idiota dostoevskiano, come un povero sciocco che crede ancora nel cinema e nella sua essenza. In Nouvelle vague (1990) ha tuttavia dimostrato di voler andare oltre la rievocazione nostalgica del suo stesso passato e di voler ulteriormente approfondire la sua ricerca sul cinema, le sue strutture narrative e formali, l'invenzione dei personaggi, in una sinfonia di immagini e di citazioni di grande sapienza visiva e sonora.
Gli anni Novanta e gli avvenimenti politici che li hanno caratterizzati hanno indotto G. a riflettere nuovamente sulla storia e sul presente in film come Allemagne année 90 neuf zéro (1992) e Les enfants jouent à la Russie (1993), bizzarri viaggi mentali e romanzeschi nelle grandi culture tedesca e russa e nel loro immaginario cinematografico, mentre For ever Mozart (1996) ha sullo sfondo la guerra in Bosnia e riprende due motivi che hanno accompagnato più o meno esplicitamente tutta la produzione più recente dell'autore, quello delle difficoltà di un regista nel realizzare un film e quello del ruolo dell'artista nella società. Temi che erano apparsi in forma più lirica nel sofferto e orgoglioso autoritratto JLG/JLG ‒ Autoportrait de décembre (1994, poi pubblicato anche in volume, come altri testi di suoi film, a ribadirne il carattere poetico e paraletterario) e che sarebbe ritornato insieme alla riflessione storica in éloge de l'amour (2001). Nel frattempo G. ha sviluppato una sua 'storia del cinema' in video che è contemporaneamente una storia individuale e una riflessione sul 20° sec. che nel cinema si è rispecchiato, composta attraverso assemblaggi e citazioni visive e sonore, racconti e provocazioni, nostalgie e dichiarazioni d'amore. Le Histoire(s) du cinéma (1988-1998) risultano così una sintesi di sapere cinematografico e sensibilità storica e politica, la cui successiva pubblicazione in quattro volumi presso una storica collana della Gallimard (1998) ha trasformato subito in un classico della cultura francese del Novecento, riconoscendo a G. un ruolo particolarissimo di regista e intellettuale capace di portare il cinema ai suoi massimi livelli senza mai richiudersi soltanto in esso.

 

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Jean- Luc Godard: Fino all'ultimo respiro
di Serafino Murri (da Enciclopedia del cinema Treccani, 2004)

 (Francia 1959, 1960, tit. or. À bout de souffle, bianco e nero, 89m); regia: Jean-Luc Godard; produzione: Georges De Beauregard; soggetto: François Truffaut; sceneggiatura: Jean-Luc Godard; fotografia: Raoul Coutard; montaggio: Cécile Decugis; musica: Martial Solal.
Michel Poiccard è un piccolo delinquente di Marsiglia, strafottente e nevrotico. Ruba una macchina sportiva, parla e guarda nella macchina da presa, fa un sorpasso vietato e si fa beccare dalla polizia. Allora tira fuori una pistola, uccide uno dei due poliziotti e fugge verso Parigi. Sugli Champs Élysées incontra Patricia, studentessa americana e aspirante giornalista, che per tirare avanti vende l'"Herald Tribune" per la strada. Il rapporto tra i due è fatto di continue schermaglie, discussioni e indecisioni amorose: Michel vorrebbe che la ragazza lo seguisse in Italia, Patricia tentenna. La polizia, nel frattempo, ha identificato Michel. La sua foto appare sui giornali con la notizia dell'omicidio. Dopo aver recuperato del denaro che gli era dovuto, Michel, davanti a un poster di Humphrey Bogart, si accarezza le labbra lentamente con un dito, imitando il divo americano. Incontra di nuovo Patricia, che non ha tempo per lui: deve andare a un incontro di lavoro con un giornalista americano che si è offerto di aiutarla. Michel fa buon viso a cattivo gioco, segue Patricia e la spia mentre è con l'uomo. La ragazza passa la notte con il giornalista, ma quando il mattino seguente torna in albergo, trova nel suo letto Michel ad attenderla. I due parlano, scherzano, amoreggiano, poi escono. Indeciso tra la fuga e Patricia, Michel ruba un'altra automobile per accompagnare la ragazza a Orly, dove deve svolgere il suo primo incarico da giornalista: la conferenza stampa di uno scrittore. Intanto un passante riconosce Michel e avverte la polizia. Dopo essere scampato alla trappola di un concessionario di automobili che avrebbe voluto truffare, Michel sfugge per poco a un pedinamento da parte della polizia. Michel e Patricia passano un'ultima notte d'amore nello studio di un amico fotografo. Di mattina presto Patricia sgattaiola via e va a denunciarlo. Al ritorno, confessa a Michel quel che ha fatto: questi, con indolenza, le dice di essere stanco di lottare. Poco dopo, in strada, dopo un goffo tentativo di fuga, colpito alle spalle dai proiettili della polizia, Michel crolla a terra. Patricia accorre angosciata, mentre Michel, moribondo, la insulta: "Sei una schifosa". Patricia dice di non capire le ultime parole di Michel.
Film d'esordio nel lungometraggio di Jean-Luc Godard, già critico dei "Cahiers du cinéma", sulla base di un vecchio soggetto di Truffaut, À bout de souffle è allo stesso tempo un saggio di estetica della nascente Nouvelle vague, un gesto cinéphile di amore per il cinema classico e uno dei tasselli più importanti del rinnovamento linguistico del cinema degli anni Sessanta. Con esso ha inizio il percorso radicale del regista nella trasgressione sistematica delle regole base della narrazione cinematografica: dal montaggio (la cui continuità logica è rotta da infrazioni all'epoca vistose, come i raccordi fuori asse e le ellissi cronologiche in una stessa scena) alla giustezza dell'inquadratura (sono frequenti gli sguardi in macchina, scene dove chi parla o il suo controcampo sono decentrati rispetto all'asse di visione, ecc.), il film effettua una serie di scelte stilistiche che permettono al regista un recupero della casualità e dei tempi morti in funzione espressiva che ha poche pietre di paragone, a parte il contemporaneo lavoro di Michelangelo Antonioni in Italia, e genera una sorta di effetto straniante continuo. Il gioco colto e provocatorio della citazione di codici e stilemi del cinema classico (dall'imitazione di divi come Bogart, intravisti su poster di film, al recupero della chiusura a iris come raccordo), insieme all'atteggiamento disincantato e scimmiottante dei personaggi che riflette lo sguardo anarcoide del regista-autore, cui va ad aggiungersi la suggestione del recupero della norma neorealista delle riprese effettuate in strada, fanno da griglia espressiva a un'accattivante non-storia fondata sull'incontenibile umoralità dell'amore, giocata in un'atmosfera che occhieggia al film poliziesco di serie B americano (come testimonia la dedica alla casa di produzione statunitense Monogram). La 'scorrettezza' dei personaggi nelle loro ambigue scelte di vita e nell'assoluta mancanza di lealtà reciproca si riflette con irriverenza nella sconnessione e apparente spontaneità dei loro lunghi dialoghi e nei gesti incoerenti, che sottraggono importanza alla trama narrativa e creano una tensione di racconto situazionale, in gran parte basata sulla forza espressiva di Jean-Paul Belmondo e di Jean Seberg e sulla messa in gioco dei loro tic e delle loro manie. Anche il finale, drammatico e al contempo così calcato da diventare ironico, con l'esplicita allusione all'incomunicabilità e all'estraneità tra i due amanti, che va ben oltre il problema dell'incomprensione linguistica, è un segno del tempo (si pensi al finale, perfettamente coevo, di La dolce vita).
Altro aspetto sostanziale della 'rivoluzione' intentata da À bout de souffle fu quello della scommessa produttiva: girato a bassissimo costo, in diversi casi senza l'autorizzazione per le riprese in strada e in tempi ridottissimi, il film divenne di fatto una denuncia politica della retorica del cinema come gigantesca e irrinunciabile gabbia industriale. La novità nell'uso prepotente della colonna musicale, la nitida e movimentata fotografia di Raoul Coutard e le continue trovate di regia di Godard fruttarono al film immediati riconoscimenti da parte della giovane critica militante, contro cui poco poterono le vaghe accuse di anarchismo della critica ufficiale più paludata. Premiato al Festival di Berlino con l'Orso d'oro alla migliore regia, il film conta anche un remake hollywoodiano: Breathless (All'ultimo respiro, 1983), diretto da Jim McBride e interpretato dal divo Richard Gere e da Valérie Kaprisky.

Fonte: http://www.lettere.uniroma1.it/sites/default/files/1239/NOUVELLE%20VAGUE_0.docx

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