Corso Teologia Spirituale

Corso Teologia Spirituale

 

 

 

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Corso Teologia Spirituale

Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale - Milano
Centro Studi di Spiritualità

 

Corso di

TEOLOGIA SPIRITUALE I

Una prima definizione della “teologia spirituale”

 

a. Estratti dal Regolamento degli studi teologici (in La formazione dei presbiteri nella Chiesa italiana. Orientamenti e norme per i seminari (terza edizione) (15.11.2006), n.10: Teologia spirituale

            La teologia spirituale riflette, con metodo teologico, sulla “vita spirituale” del cristiano, e quindi sull’azione dello Spirito di Gesù in lui. Essa si pone in ascolto del vissuto di fede individuale e comunitario, per renderlo il più coerente possibile con i contenuti dottrinali.
Essa cerca nella tradizione cristiana, e specialmente nel Nuovo Testamento, gli elementi essenziali dell’“uomo spirituale”, al fine di offrire indicazioni capaci di orientare l’esperienza spirituale del credente.

 

b. Estratti dal Regolamento degli studi teologici dei seminari maggiori d'Italia (10.06.1984), n.50: Teologia spirituale: obiettivo e contenuti.

La teologia spirituale esprime lo sforzo che la teologia, secondo il suo metodo proprio, segue per comprendere l’uomo spirituale, non semplicemente nelle sue strutture obiettive, ma in quanto egli è chiamato a vivere e vive effettivamente un’esperienza che è quella “cristiana” e “spirituale” .
L’aggettivo “spirituale”, in tutti questi casi, dice primario riferimento allo Spirito santo, Spirito di Cristo, in quanto egli crea l’uomo nuovo, e lo conduce a vivere (perciò anche a “sapere” e “conoscere”, secondo l’accezione biblico-esperienziale dei termini) la vita nuova in Cristo Gesù.
La teologia spirituale, formando la capacità di comprensione della “vita secondo lo Spirito”, esperienzialmente vissuta, completa la intelligenza della fede e orienta l’esperienza spirituale stessa della “vita secondo lo Spirito” per illuminarla con criteri obiettivi e per riscattarla da improvvisazioni e da inautenticità.

 (I corsivi sono nostri)


Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale - Milano
Centro Studi di Spiritualità

Anno accademico 2012-2013

Corso di teologia spirituale I

 

Teologia monastica e teologia scolastica
L’unità della riflessione cristiana e la sua crisi

 

I. Teologia monastica e teologia scolastica a confronto

I secc. XII-XIII sono caratterizzati dal costituirsi della teologia “scientifica”, detta “scolastica” per­ché praticata nelle scuole cattedrali, cioè annesse ai Capitoli delle chiese cattedrali, e successi­vamente nelle Università. Fino a questo momento, la teologia è stata praticata quasi esclusivamente nei monasteri, ed è stata caratterizzata da un approccio contemplativo al mistero della fede. Ora, invece, l’approccio è quello della comprensione critica, dello studio sistematico della fede rivelata.
Quali erano i caratteri della teologia monastica? Facciamo riferimento soprattutto agli studi condotti dal benedettino francese dom Jean Leclercq, che è anche all’origine della stessa espres­sione “teologia monastica”; l’opera più importante è senza dubbio L’amour des lettres et le désir de Dieu . La “teologia monastica” è una teologia fatta da monaci e indirizzata a monaci; Leclercq ri­fiu­ta di discutere la questione se la teologia dei monaci abbia avuto o meno carattere “scientifico”, se sia stata una “scienza” e in che senso: si tratta di una problematica che sorge appunto solo nel XIII secolo. Piuttosto, si dovrà indagare se sia possibile parlare di “teologia”: se con questo termine si intende, in sintesi, una “riflessione sistematica sulla fede rivelata”, allora, secondo L., si può dire che quella dei monaci fu vera teologia .
Nel Medioevo, ci sono due specie di scuole: le scuole dei monaci, aperte prevalentemente ai ragazzi che si preparano alla vita monastica, dove si insegnano le arti liberali che preparano alla lectio divi­na: la grammatica, fondamentalmente, come educazione a leggere e comprendere la Scrittura, ma an­che lo studio degli autori patristici e anche della classicità soprattutto latina, sempre nell’ambito sin­te­tico della liturgia. Le scuole dei chierici, invece, poste nelle città presso le cattedrali, sono frequentate da uomini che hanno già studiato le arti liberali e che si preparano all’attività pastorale, cioè a celebrare il culto, amministrare i sacramenti, predicare: è in queste scuole urbane che nasce e si sviluppa la “teologia scolastica” .

Un testo esemplare
“Le due teologie hanno in comune la caratteristica di attingere alle fonti cristiane e di fare appello alla ragione. La teologia scolastica è ricorsa più spesso ai filosofi, la teologia monastica si attiene più generalmente all’autorità delle Scritture e dei Padri. Ma le fonti fondamentali, da una parte e dall’altra, sono le stesse. La teologia è un metodo di riflessione sui misteri rivelati dalle fonti cristiane. Il problema è dunque qui di sapere se vi sono più modi di praticare questa riflessione e se, fra essi, esiste un modo di riflessione che sia più proprio ai monaci. I testi ci hanno condotto a constatare che ciò che caratterizza il pensiero monastico è un certo riferimento all’esperienza. La teologia scolastica ne fa astrazione: essa potrà poi ritrovare l’esperienza, vedere che essa si concilia con i suoi ragionamenti, che può anche alimentarsi di essi, ma la sua riflessione non parte dall’esperienza: e non vi è necessariamente ordinata. Essa si colloca, e deliberatamente, al livello della metafisica: è impersonale, universale. Proprio in questo stanno la sua difficoltà e la sua grandezza. Essa cerca nella scienza profana e nella filosofia analogie capaci di esprimere le realtà religiose. Suo scopo è di organizzare il sapere cristiano privandolo di ogni riferimento soggettivo, per renderlo puramente scientifico.
I monaci, invece fanno appello, quasi spontaneamente, alla testimonianza della coscienza, alla presenza in essi dei misteri di Dio. Non si propongono affatto, come fine principale, di esporre i misteri di Dio, di spiegarli, di trarne le conclusioni speculative, ma di assimilarli in tutta la loro vita, di orientare tutta la loro esistenza verso la contemplazione. E’ naturale che questa esperienza spirituale influisca sul loro metodo di riflessione e che ne costituisca in gran parte l’oggetto. Questi due modi di conoscenza religiosa sono, nel senso primo di questa parola, complementari. La teologia monastica è, in qualche modo, una teologia spirituale che integra la teologia speculativa: ne è il compimento, lo sviluppo. Essa è quel di più, il sursum, nel quale la teologia speculativa tende a superare se stessa per diventare quella che S. Bernardo chiama una conoscenza integrale di Dio: integre cognoscere.
Questo carattere determina i limiti e, nello stesso tempo, il valore permanente della teologia monastica. Lo sforzo che essa rappresenta è sempre necessario se si vuol evitare che la teologia, pur restando scientifica, diventi puramente astratta, o, si potrebbe quasi dire, priva di vita, e che la dottrina sacra, secondo l’espressione di Pietro il Cantore, sia trattata allo stesso modo della meccanica. La ricerca degli scolastici è suscitata dalla necessità di azione nella Chiesa: controversia o pratica pastorale, o ancora soluzione di nuovi problemi. Il pensiero monastico è meno condizionato da esigenze del momento: non è determinato che dalle necessità permanenti della ricerca di Dio” .

Il testo esprime un’idea fondamentale: le due modalità di fare teologia si differenziano per le diverse finalità perseguite e quindi anche per i diversi metodi utilizzati. Queste differenze comportano da una parte un diverso tipo di conoscenza di fede che si po­teva acquisire in ciascuno dei due ambienti e dall’altra si radicano ultimamente nella differenza tra due stati di vita: lo stato di vita cristiana nel mondo e lo stato di vita cristiana nella vita reli­gio­sa, che allora equivaleva alla vita nel monastero, che era per definizione una “vita contemplativa” .
            1. Il fine della vita monastica è cercare Dio, quaerere Deum; i cristiani nel mondo sono invece sollecitati dalle “necessità di azione nella Chiesa”. Nel chiostro si fa teologia, ma in funzione di un’esperienza spirituale, e di un’esperienza connotata in senso monastico, appunto, in cui ricerca del­la verità e ricerca della perfezione devono camminare di pari passo; in questo senso anche il fare teo­logia è inconcepibile al di fuori di un contesto di preghiera, personale e comunitaria, cioè litur­gica.
            2. Leclercq osserva che le fonti sono le stesse, da una parte e dall’altra, ma il modo di trattarle è alquanto particolare: le differenze tra i due mondi sono dunque rilevanti anche riguardo al metodo della riflessione della fede. I monaci procedono affidandosi all’autorità della Scrittura e dei Padri, si esprimono attraverso immagini e paragoni attinti alla Bibbia, che implicano al tempo stesso chiarezza e oscurità rispetto al mistero cui si riferiscono; gli scolastici invece cercano la chiarezza, usano perciò volentieri termini astratti, parole nuove, si affidano alla logica del ragionamento, ricor­ro­no all’autorità dei filosofi. I monaci conoscono il metodo dialettico, ma ne fanno uso con molta par­simonia in ambito teologico. Gli scolastici, invece, ne fanno il loro procedimento essenziale. L’accusa che s. Bernardo e altri monaci formulano nei confronti dei rappresentanti della nuova teo­lo­gia è quella di applicare alla sacra “pagina” lo stesso identico metodo che applicano alle arti libe­ra­li, quelle poi ordinate nel trivium (grammatica, retorica, diritto) e nel quadrivium (le discipline scien­tifiche, matematica ecc.). Ma questo voleva dire profanare i misteri di Dio, perché ci si interessava alla disputa in quanto tale, come il terreno sul quale ciascuno poteva mettere in luce la propria abilità. In realtà, sia nel chiostro che nella scuola si cercava l’”intelligenza della fede”. Ma gli scolastici venivano accusati di voler mettere le mani sulla verità divina, di volerla possedere at­tra­verso i concetti, non rispettandola nel suo mistero, ma anzi rompendone il sigillo: scrutatores, effractores maiestatis .
            3. Infine, ci chiediamo quali siano le caratteristiche dell’esperienza spirituale cui i monaci tendono, o anche a quale modalità di conoscenza di Dio essi rendano testimonianza.
a. Il monaco cerca l’esperienza della comunione con Dio. In primo luogo, si tratta dunque di una cono­scenza che si colloca sul piano di una relazione personale, in cui i due soggetti sono coinvolti, impe­gnati, messi in causa. Questa modalità di conoscenza di Dio è capace di introdurre in una parteci­pazione reale alla vita stessa di Dio. Nella tradizione monastica, coerentemente, essa è generalmente associata al tema biblico della creazione ad immagine e somiglianza di Dio; infatti la conoscenza dell’amore è una conoscenza trasformante: alcuni autori riecheggiano il tema greco della divinizza­zio­ne dell’uomo. In secondo luogo, questa conoscenza di Dio non è una scientia, ma piuttosto una sapientia, dono venuto dall’alto, godimento saporoso, “fruizione” di Dio. La conoscenza dell’amore, l’amore che conosce le realtà divine, costituisce una consistente tradizione spirituale del medioevo monastico. L’esperienza delle realtà della fede si distingue perciò dal sapere nozionale, puramente intellettuale; è un sàpere, un gustare, un assaporare, un amare, infine, un conoscere per via affettiva.
Citiamo al riguardo un bellissimo passaggio di Benedetto XVI, che parla della

«[…] perenne lezione della teologia monastica. Fede e ragione, in reciproco dialogo, vibrano di gioia quando sono entrambe animate dalla ricerca dell’intima unione con Dio. Quando l’amore vivifica la dimensione orante della teologia, la conoscenza, acquisita dalla ragione, si allarga. La verità è ricercata con umiltà, accolta con stupore e gratitudine: in una parola, la conoscenza cresce solo se ama la verità. L’amore diventa intelligenza e la teologia autentica sapienza del cuore, che orienta e sostiene la fede e la vita dei credenti» .

b. E’ una conoscenza che non esce dal campo della fede, non fa mai astrazione dalla fede, rimane un atto di fede, benché a volte venga descritta, con una forte connotazione escatologica, come un compi­men­to della fede. E’ esperienza della fede che si compie nell’amore.
c. Si tratta di un’esperienza personale legata però a tutto un ambiente: è condizionata e favorita dall’esperienza del monastero, da un’esperienza comunitaria. La contemplazione del monaco si colloca dentro e in un certo senso al termine di un lungo e articolato itinerario spirituale, che si fonda su un esercizio costante e prolungato di meditazione della Scrittura ed è assolutamente incomprensibile se separata dal contesto liturgico. E’ quindi un’esperienza pienamente ecclesiale.


II. Unità e rottura nella riflessione cristiana sulla fede nel rapporto fra teologia monastica e teologia scolastica nei secc. XII-XIII.

Riprendiamo il discorso sull’esperienza, che il testo di Leclercq riportato sulla scheda ha messo in luce e che abbiamo messo da parte per affrontarlo ora in una prospettiva particolare. Le domande che ci poniamo sono queste: in che senso, in quali termini la teologia monastica fa riferimento all’esperienza spirituale? In che senso, invece, la teologia scolastica se ne distacca?     
1. L’unità della riflessione cristiana nell’esegesi spirituale della Scrittura. Fino ad un cer­to punto del Medioevo occidentale, la riflessione cristiana, la riflessione della fede e sulla fede, si pre­senta come una realtà unitaria. Ad assicurare questa unità è il metodo, la modalità concreta con la qua­le tale riflessione si sviluppa, e insieme la finalità con cui viene condotta. Il metodo è l’esegesi spi­rituale della Scrittura, la finalità appare nel momento c.d. anagogico di questa esegesi e può essere detta con le parole di Leclercq (vd. scheda): “assimilare (i misteri di Dio) in tutta la loro vita, orien­tare tutta la loro esistenza verso la contemplazione”. La riflessione credente si concepisce come intelligenza spirituale della Parola rivelata. «Fino alla fine del XII secolo, la teologia sarà essen­zialmente e, si può dire, esclusivamente, biblica; essa si chiamerà sacra pagina o sacra scriptura» . L’epistemologia teologica, cioè il modo di conoscere proprio della teologia, si identifica con il me­todo esegetico, cioè con il modo con cui la riflessione credente utilizza e accosta la sua fonte prin­cipale e normativa, la sacra Scrittura .
Il metodo esegetico medievale era fondato essenzialmente sulla distinzione tra il senso letterale e il senso spirituale della Scrittura. Nel suo studio sull’esegesi del Cantico dei Cantici in Guglielmo di Saint-Thierry, che costituisce la tesi di dottorato in teologia, don Antonio Montanari mette in guardia dall’ingenuità di pensare che la famosa teoria dei quattro sensi della Scrittura fosse per i Padri e gli autori medievali, in particolare i monaci, uno schema universale applicato con sistematicità e rigore nell’approccio ai testi biblici. Benché una pluralità di sensi della Scrittura fosse già conosciuta e teorizzata da Origene, di fatto l’utilizzo costante e coerente della distinzione quadripartita si trova documentato solo a partire dall’opera di Stefano Langton, all’inizio del XIII sec. : si tratta dunque di una prassi tardiva che non fa che confermare la dialettica duale dell’interpretazione tradizionale del testo sacro, quella tra il piano della littera e il piano dello spiritus. Lo stesso H. de Lubac, l’autore di Esegesi medievale, osserva che il termine allegoria, così come il termine sensus mysticus, denotano spesso presso molti autori l’insieme dei tre sensi che seguono quello letterale: essi, intesi bene, formano una reale unità, riguardando «indissolubilmente quell’unico “grande mistero che si compie in Cristo e nella Chiesa”» .
La vera chiave di volta dell’esegesi patristica e medievale è quella cristologica: l’intera Scrittura deve essere letta alla luce del mistero di Cristo, e quindi tutti gli avvenimenti, le istituzioni, i messaggi dell’Antico Testamento possono e devono essere interpretati come riguardanti – prefiguranti – la persona di Gesù . I testi del Primo Testamento vanno letti dunque «nello Spirito di Gesù, ossia a partire dalla fede in lui» . L’origine dei due “sensi” fondamentali della Scrittura va rintracciata nel testo paolino di 2Cor 3,4-18, dove si dice che gli apostoli sono i ministri della Nuova Alleanza, “non della lettera ma dello Spirito; perché la lettera uccide, lo Spirito dà vita”. E’ Cristo che toglie il velo alle Scritture giudaiche manifestandone il senso autentico, il “senso spirituale”; chi non accoglie la novità di Cristo rimane imprigionato nell’oscurità della “lettera” . 
Stabilita questa distinzione fondamentale, gli autori cristiani si applicano a sviluppare e a sviscerare le diverse espressioni del “senso spirituale”, i suoi diversi livelli, individuando la sua dimensione allegorica, cioè dogmatica, la dimensione tropologica, cioè morale, e la dimensione anagogica, cioè mistica. Le quattro “figure” che ne risultano vengono riunite applicandole in particolare al celebre esempio di Gerusalemme: la città santa «secundum historiam indica la civitas Iudaeorum; secundum allegoriam si riferisce all’Ecclesia Christi; secundum anagogiam significa la civitas Dei illa caelestis; infine, secundum tropologiam, l’anima hominis» .  
Ma allegoria, tropologia e anagogia non sono altro che «aspetti dell’unico senso spirituale e racchiudono già nel loro etimo l’idea di un’ulteriorità di senso, cioè l’esigenza di “andare al di là” rispetto al livello della lettera» , per poter cogliere la presenza del mistero di Cristo.
L’antica dottrina patristica dei sensi della Scrittura raggiunge il Medioevo passando attraverso successive elaborazioni e mediazioni, dalla tripartizione origeniana del senso spirituale alla mediazione di Agostino e ancora di più di Gregorio Magno e di Cassiano, fino alla sistematizzazione quadripartita che trova nei due celebri esametri del domenicano Agostino di Dacia, databili attorno al 1220, la sua cristallizzazione più limpida e diffusa:

            Littera gesta docet, quid credas allegoria, moralis quid agas, quo tendas anagogia .  

 

E’ a partire da questa formulazione che possiamo considerare più da vicino la teoria dei sensi della Scrittura. Il senso letterale o storico ci fa conoscere dunque i “fatti”, le “gesta” della storia; il senso allegorico insegna quid credas (rif. al mistero di Cristo e della Chiesa) [a volte si può trovare il senso analogico, cioè il riferimento all’unità e al reciproco rimando dei due Testamen­ti]; il senso morale o tropologico insegna quid agas (tropoV = modo, modo di fare, costume); il senso anago­gico o spirituale indica quo tendas (anagwgh = elevazione, condurre in alto). Alcuni autori, che accolgo­no una formula a tre elementi, pongono un’interessante corrispondenza fra i tre sensi principali del­la Scrittura (letterale, morale, spirituale) e il ritmo ternario della lectio divina (lectio-meditatio-ora­tio). Guglielmo di Saint-Thierry vi aggiunge il parallelismo con i tre gradi del progresso del creden­te (animale-razionale-spirituale).
I quattro sensi della Scrittura indicano quindi il quadruplice livello d’interpretazione del testo biblico: l’ar­ti­co­la­zione di questo metodo ci fa comprendere il senso dell’unità della teologia-esegesi. Essa è anzi­tut­to caratterizzata da una pluralità di livelli interpretativi del testo biblico; in secondo luogo, si tratta di un’unità dinamica, dove il dinamismo è dato dal rapporto tra questi diversi livelli: in modo sinte­ti­co, si può dire che il metodo “funziona” se il passaggio dall’uno all’altro, nell’ordine, avviene tem­pe­stivamente, con il giusto “ritmo”: l’allegoria diventa allegorismo se non sfocia nella tropologia, e en­trambe restano inefficaci se non aprono all’anagogia .
Per il monaco, dunque, la comprensione non è momento autonomo, ma interlocutorio, che deve portare alla contemplazione e alla conversione.  
Il livello anagogico è il momento sintetico e finalizzante dell’intero processo: esso è il coronamento del movimento dell’operazione esegetico-teologica. «L’intelligenza credente della Rivelazione... espri­me la sua unità quando la storia della salvezza, contemplata come dispiegamento del mistero di Dio nella storia, considerata nella sua normatività riguardo all’agire del cristiano, diventa storia della singola anima e della Chiesa in cammino verso la patria. In altre parole, l’operazione ermeneutica si compie quando l’insieme costituito dalle Scritture accolte dalla tradizione ecclesiale, attraverso l’ope­razione esegetica, giunge a dare corpo, in una pratica e in una scrittura, all’esperienza credente e peregrinante nel tempo». Divina eloquia cum legente crescunt: la parola di Dio dispiega tutta la sua efficacia, anzi si arricchisce essa stessa di significato, si compie nel suo dinamismo nella misura in cui diventa esperienza spirituale del credente. La parola di Dio non è finita lì, nella Rivelazione og­gettiva in sé, nella sua “scrittura” materiale: essa “termina” (o forse meglio “continua indefinitamen­te”) la sua corsa nell’esperienza spirituale che suscita; solo allora può ritornare a Dio: “Come in­fat­ti la pioggia e la neve...così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza ef­fetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata” (Is 55,10-11). La parola, cioè la storia, i gesti stessi di Dio, la storia della salvezza (la riflessione credente in questo ambito non è mai separabile dal contesto liturgico-sacramentale, dove la storia della salvezza si attua nell’oggi). «Così, grazie al senso anagogico, l’esperienza spirituale non è esclusa dal campo di ciò che la riflessione cristiana è chiamata a comprendere; al contrario, la sua esplicita­zione nell’anagogia diventa necessaria al compito di accoglienza globale della Rivelazione e ne as­sicura, per così dire, la coerenza epistemologica». Io non conosco il senso autentico della Scrittura se non conoscendo ciò che essa opera in me: che cosa ha fatto la Parola in me? come la storia del­la salvezza si realizza nella mia esistenza, nella mia esperienza? L’unità della riflessione cristiana in ambito patristico e monastico medievale si delinea perciò anche come capacità di tenere in uni­tà la realtà da comprendere da parte della teologia. Se l’allegoria e la tropologia rappresentano infat­ti l’interesse per l’oggetto della Rivelazione in quanto intelligibile nella fede e in quanto direttivo riguardo all’agire, l’anagogia mostra lo stesso oggetto in relazione vivente con il soggetto credente, come singolo e come Chiesa. Teologia, esegesi e spiritualità formano quindi, e vengono praticate come un’unità organica e articolata .
La domanda fondamentale di questi autori è: “Come agisce Dio nell’uomo?”, “Cosa accade nell’uomo che entra in relazione con Dio, con il Dio-Trinità?”; prima ancora: “Come può l’uomo ottenere u­na co­no­scenza intima e personale del mistero di Dio?”. Si è detto di san Bernardo che la sua parola d’or­­dine era non Credo ut intelligam, ma Credo ut experiar; l’attenzione non è tanto sulla grazia in sé, ma su ciò che essa produce nel credente. La teologia dei monaci si attesta dunque co­­me «teoria del­l’e­spe­­rien­za dell’economia della salvezza», «attuata...con l’applicazione e l’attivazio­ne di tutti i sensi – i sen­si spi­rituali – , che diventano così a loro volta forme di reazione, di consenso, di per­cezione e di e­spo­­si­zione del mistero cristiano» .
            2. Dalla sacra pagina alla sacra doctrina. La teologia scolastica sviluppa secondo nuovi cri­­teri il suo riferimento alla Scrittura e prende corpo in maniera sempre più autonoma con il costituir­si delle Università. E’ un confronto tra due strutture teologiche, tra due quadri epistemologici. In maniera autonoma e simultaneamente in connessione col “sapere” proprio della fede, si sviluppa un “comprendere” il dato rivelato, attraverso lo strumento razionale. Come si verifica questo feno­me­no? Le condizioni per la svolta si devono cercare nell’ambito dei canonici di S.Vittore, a Parigi, in particolare nell’opera di Ugo.
a. Frantumazione dell’unità dell’esegesi. Il fenomeno decisivo consiste nella rottura del “ritmo” proprio dell’esegesi monastica, scandito nella sua progressiva penetrazione (o, se si vuole, elevazione) dai quattro livelli dell’interpretazione della Scrittura: insomma, appena dopo la rigorizzazione del metodo, si verifica la sua dissoluzione. Il “nodo” è l’allegoria, la quale si sviluppa secondo regole proprie, autonome da quelle dell’esegesi; si rompe insomma il legame e la stretta consecutività fra historia e allegoria: la prima rimane l’ambito dell’esegesi, mentre la seconda, come riflessione sui misteri della fede, si trasforma nella moderna theologia, secondo diversi principi di organizzazione dottrinale, per le vie della razionalità e dell’astrazione .
b. L’esegesi come scienza autonoma, storico-letteraria. Questo fenomeno si produce principalmente per la comparsa, all’interno della riflessione cristiana, di un’istanza “critica” sostanzialmente sco­no­sciuta all’esegesi spirituale e caratteristica invece della teologia scolastica. Essa provoca lo «spostamento dell’asse portante della teologia», che ora privilegia la «prospettiva di un ordinamento sistematico del contenuto dogmatico e morale del testo biblico. Ne risulta una concentrazione della teologia sull’aspetto oggettivo della Rivelazione» . Il risultato è la creazione di due scienze distinte, da una parte l’esegesi, dall’altra la teologia. Si continua a praticare l’esegesi del testo biblico, ma nella forma dell’inquisitio, cioè dell’individua­zione del contenuto dottrinale del testo stesso, della sua concettualizzazione, indipendentemente dalle ripercussioni sulla coscienza credente. Anzi, la lettera stessa della Scrittura diventa oggetto di analisi, secondo il suo ordito, la sua struttura; comincia dunque ad affiorare un’esegesi come scienza autonoma condotta sul piano storico-letterario del testo biblico, mentre, dall’altra parte, lo scopo ultimo dell’esegesi non è più la realizzazione di un’esperienza e la trasmissione di una testimonianza, ma la creazione di una scienza, la scienza teologica, appunto. Vengono introdotti i concetti di substantia, essentia, persona, natura ecc. .
c. Esigenze didattiche e professionalizzazione della teologia. La causa di questa svolta sta principalmente nell’orientamento didattico della scuola rispetto al chiostro, nell’esigenza cioè di una «trasmissione organizzata di scuola del dato rivelato», di «realizzare un sapere teologico trasmissibile in una pedagogia sociale» . Così si spiegano anche la progressiva tecnicizzazione della teologia, dovuta all’impiego dello strumento dialettico e metafisico importato dalla filosofia aristotelica, e «la sempre più viva coscienza professionale dei magistri, connessa con lo sviluppo corporativo delle Università» .
d. I nuovi trattati sulla “dottrina” spirituale. Dall’altra parte, si assiste alla progressiva formazione di una “dottrina” spirituale autonoma. Ancora una volta, il fenomeno originario sembra essere lo sfaldamento dei diversi livelli interpretativi della Scrittura, e quindi la rottura dell’unità del dinamismo dei quattro sensi. Se l’allegoria va per conto suo rispetto alla “storia”, alla “lettera”, anche la tropologia e l’anagogia tendono a costituirsi in un complesso autonomo, come dei trattati di dottrina spirituale indipendenti non solo dalla “teologia” ma anche dall’esegesi. Il testo biblico tende a diven­tare l’”occasione” per l’esposizione organica e strutturata di un materiale riguardante l’espe­rien­za spirituale. Così per es. avviene già in un altro esponente della scuola vittorina, Riccardo di S.Vittore, nel quale fra l’altro compare anche l’elaborazione di quel materiale secondo una pro­spet­tiva meno legata al senso biblico-esperienziale e teologico-spirituale dei termini e più chiaramente filo­so­fica e soprattutto psicologica. Le stesse virtù e i sentimenti vedono sbiadire i loro riferimenti religiosi, per essere classificati secondo un’analisi psicologica schematica, più precisa ma più statica. Per es. san Bernardo classificava le affectiones, i sentimenti dell’anima nei confronti di Dio «secondo le relazioni che ognuna determina con Dio», utilizzando «esclusivamente categorie tratte dal linguaggio biblico e dall’esperienza: timor definisce lo stato di servus, …, oboedientia di discipulus, honor di filius, amor di sponsa». E nella lettera ai «santi fratelli della Certosa», Bernardo propone una classificazione dei tipi di amore, fondata su tre possibili comportamenti del fedele nei confronti di Dio: quello dello schiavo, quello del mercenario, quello del figlio. Tutti e tre compiono la volontà di Dio, ma lo schiavo lo fa per timore, il mercenario per interesse, il figlio gratuitamente, mosso soltanto dalla carità. «I magistri, invece, ridurranno queste descrizioni fenomenologiche a delle categorie elaborate dai filosofi nella loro analisi oggettiva delle passioni: timor, spes, amor, e così via». Il termine filosofico passio sostituisce appunto i termini affectus, affectio . Così anche per i gradi della carità, la virtù dell’umiltà o l’atteggiamento biblico della giustizia verso Dio, sostituito dalla virtù definita in senso giuridico. Del resto, la definizione è «il termine della ricerca intelligibile»; alla fine del sec. XII circola già «un certo numero di definitiones magistrales, entrate ormai nel patrimonio delle scuole…» .Si tratta per es. delle definizioni della verità, del “carattere sacramentale”, della persona, e così via.
e. Guadagni e perdite. Assistiamo dunque ad una sistematizzazione, una oggettivizzazione della stes­sa anagogia. Questo fenomeno, considerato nei suoi albori, comporta delle conseguenze proble­ma­tiche e insieme degli effetti interessanti, positivi in relazione alla prospettiva che ci interessa, cioè il rilievo dell’esperienza spirituale per la teologia, per la riflessione credente. Per un versante, i Ma­gi­stri che si occupano di spiritualità, si collocano fuori della prospettiva storico-dinamica del­l’ese­gesi spirituale e applicano ad una materia come la contemplazione lo schema statico della psi­co­logia scolastica, caratterizzato dalla correlazione intellectus-affectus. «In breve, anche la dottrina pro­pria­mente spirituale tende a sviluppare un discorso che si concentra sui principi statici e sulle con­di­zioni psicologiche di attuazione dell’esperienza più che sulla stessa in quanto vissuta e questo avvie­ne....in base allo stesso atteggiamento dottrinale che nasce con il dissolversi del quadro esegetico-spirituale...» .
Dall’altra parte, questi autori giungono ad elaborare «una scienza psicologica del soggetto umano, che darà organizzazione all’esperienza spirituale accumulata dalla tradizione e raccolta dai Padri e poi dagli autori monastici. L’iniziatore di questa antropologia teologica è maestro Abelardo…» . Sono evidenti i vantaggi di questa “teologia dell’azione umana”, «che la sola lectio scritturistica – osserva ancora Chenu - non avrebbe evidentemente potuto costruire così» . Essa consente di ordinare, prima ancora di leggere adeguatamente il materiale fornito dalla ricerca dei monaci, e di trasmetterlo con maggiore efficacia, pur perdendo naturalmente qualcosa della vivezza dell’esperienza. In quest’opera di classificazione psicologica e morale «s’inscrivono risorse d’intelligibilità preziose per una spiritualità più cosciente come luce e come azione: esse troveranno il loro compimento nella sezione morale delle grandi Summae del XIII secolo» . E tuttavia, è significativo che Chenu stesso parli di una “antropologia teologica”, o di una teologia morale: significa che già si sta perdendo il contatto con l’esperienza viva. Non è questa, propriamente, non è l’intelligenza di questa in quanto tale, in quanto vissuta (bensì come materiale disponibile)che interessa i Magistri, che tendenzialmente a poco a poco perderanno di vista l’esperienza come punto di partenza della riflessione teologica.
La riflessione della teologia scolastica, dice Leclercq, “non è necessariamente ordinata all’esperien­za”: a noi interessa di più il fatto che “non parte da essa”.     
III. Tracce per una rilettura del rapporto tra esperienza spirituale e riflessione teologica in Occidente a partire dalla “svolta” del XII secolo e fino alle soglie del secolo XX

1. Il “divorzio” fra teologia e spiritualità secondo F. Vanden­broucke. Nel 1950 uscì sulla prestigiosa rivista Nouvelle Revue Théologique un articolo che avrebbe avuto una fortuna straordinaria e inaspettata, capace di introdurre una terminologia sulla qua­le per decenni gli studiosi si sono confrontati e scontrati. Il titolo dell’articolo è «Le divorce en­tre théologie et mystique. Ses origines», l’autore è un benedettino belga, François Vanden­broucke.
Egli partiva dalla constatazione di fatto della separazione tra teologia e mistica, citando “Teologia e santità” di Balthasar. Il problema veniva dato dal fatto che l’idea di santità era ormai ricondotta, nella mentalità di molti contemporanei, al fenomeno mistico, e quindi da una parte ad un’avventura un po’ stravagante, un’esperienza un po’ “irrazionale”, dall’altra ad un aspetto facoltativo della vita cristiana. I mistici, dal canto loro, si sentono lontani da una teologia «fredda, arida, geometrica», la quale non fornisce loro che delle formule nelle quali fanno fatica a ritrovare il loro tesoro interiore.
Vandenbroucke intendeva dunque indagare le ragioni storiche del “divorzio” che si sarebbe realizzato tra “teologia e mistica” e, più in generale, tra “teologia e spiritualità”, “scienza ed esperienza”, “oggettivo e soggettivo”, individuando in due fenomeni della fine del XIV secolo,il “misticismo speculativo” di area germanica e la corrente della Devotio moderna, con il suo «carattere moralizzante e psicologico» che si ritrova anche nella spiritualità attuale, il momento preciso della frattura.
La ricostruzione storica di Vandenbroucke si presta anzitutto ad un rilievo di metodo: appare cioè criticabile la scelta dello storico belga di «fondare la propria argomentazione su un’indagine storica limitata esclusivamente al tema della “contemplazione”» . Benché sia un tema di rilievo, «non è l’unico e, forse, neppure il più importante per valutare, nella teologia tardo-medievale, un problema così ampio e articolato come quello dei rapporti tra “teologia e mistica”, “teologia e spiritualità”…» . L’evoluzione è così sintetizzata da Vandenbroucke: partendo dalla definizione di con­templazione data da Riccardo di S.Vittore: libera mentis perspicacia in sapientiae spectacula cum admiratione suspensa (Benjamin Major I,4), egli afferma che s. Tommaso ac­centua le prime parole, mentis perspicacia, i francescani invece, più fedeli allo spirito dell’agostinismo, accentuano le ul­time, cum admiratione suspensa. Sono sfumature, ma si intuisce il pericolo: gli accenti rischiano di diventare esclusivismi .
In realtà, dunque, più che il “divorzio” tra teologia e spiritualità, il benedettino belga individua l’origi­ne della separazione tra due scuole teologiche, esemplificate nella scuola francescana e domenicana . La prima si presenta come erede dell’autentico spirito del “medioevo monastico”, quello di s. Bernardo, affermando che nella contemplazione il primato spetta all’amore (la Devotio moderna è per Vandenbroucke il momento nel quale appaiono le conseguenze più significative di questo primato): al termine dell’Itinerarium mentis in Deum, Bonaventura invita il credente «ad entrare nella luminosissima tenebra della mistica sapienza», dove, abbandonate tutte le operazioni dell’intelletto, l’anima è elevata «a una forma speculativa di conoscenza inedita e superiore, che scaturisce dall’unione perfetta e piena di amore con Dio» . S. Tommaso invece ac­cetta il punto di partenza aristotelico, cioè il primato dell’intelli­genza sulla volontà: la contemplazione è formalmente un atto dell’intelligenza. Con il francescano Giovanni Duns Scoto (1266-1308), questa tensione, assunse l’aspetto di «un’opposizione tra due maniere diverse di intendere Dio: come bontà (Bonaventura) o come verità (Tommaso)» .
Che cosa possiamo ricavare dalla ripresa di questo articolo e della questione che ha sollevato? Le critiche alla tesi di Vandenbroucke portate da C. Stercal sono numerose, oltre a quella già segnalata: un altro rilievo di metodo è che si individua quel periodo «alla luce di una precisa interpretazione della contemporaneità che vuole ricercare le radici del problema più per corrispondenza di temi che per continuità di processo» ; inoltre «vi è una sopravvalutazione della Devotio moderna come fenomeno capace di riassumere il rapporto tra teologia e spiritualità nel XIV e XV secolo» ; e parallelamente «il De imitatione Christi viene riletto come l’espressione più chiara della Devotio moderna, laddove l’opera non può essere semplicisticamente riletta solo quale prototipo della tendenza moraleggiante e “psicologica”» ; ancora, «la datazione dell’origine del “divorzio” tra teologia e mistica è storicamente dibattuta e non così pacificamente identificabile» . Ma soprattutto – conclude lo studioso milanese – il tema del rapporto tra teologia e spiritualità non va interpretato tanto nei termini di un “divorzio”, «quanto piuttosto di una costante e imprescindibile, anche se talvolta difficile, correlazione tra due elementi costitutivi della fede cristiana. Elementi che lo stesso Vandenbroucke definisce anche come “oggettivo” e “soggettivo”» . In realtà, continua Stercal, «anche i termini “oggettivo” e “soggettivo” non sembrano sufficienti per esprimere adeguatamente la complessità e, allo stesso tempo, l’unità degli elementi che concorrono a costituire la fede. Infatti, anche se nella fede si possono distinguere i suoi contenuti – cioè il versante “oggettivo” – dall’esperienza vissuta – cioè il versante “soggettivo” – si deve riconoscere che essi sono essenzialmente correlativi. I contenuti della fede cristiana emergono sempre da un’esperienza […], sono finalizzati alla comprensione di un’esperienza, sono orientati a suscitare un’esperienza […]. Difficile, quindi, se non impossibile, separare il versante “oggettivo” da quello “soggettivo”. Al punto che anche termini come “elementi” o “versanti” sembrano inadeguati ad esprimere l’unità e la complessità del rapporto tra “oggettivo” e “soggettivo”» .
Possiamo fissare dunque una acquisizione chiara: un’indagine storica sull’esperienza cristiana e sui rapporti fra teologia ed esperienza (teologia e “spiritualità”) non può prendere come riferimento la tesi, ormai diventata luogo comune, del “divorzio” tra i due termini. Piuttosto, seguendo le indicazioni di Stercal, che riprendono l’intuizione fondamentale che guida il nostro corso, cui già abbiamo accennato e che metteremo a fuoco espressamente studiando il pensiero di G. Moioli, dovremo interrogarci sulla capacità della spiritualità e del pensiero, della riflessione cristiana, di tenere quell’idea di fede, di mantenere in unità ciò che non può essere separato: l’“oggettivo” e il “soggettivo” della fede cristiana, o se vogliamo, semplicemente, di esprimere la struttura complessa e unitaria della fede cristiana, cioè della relazione che la costituisce. In questo senso, appare storiograficamente discutibile la stessa tesi di Stercal, il quale rilegge la storia dei rapporti tra spiritualità o esperienza e teologia come «un problema costante che, in epoche e in situazioni diverse, ha assunto e assume forme diverse», senza poter identificare nel corso della storia del cristianesimo «”punti di crisi” o “fasi di passaggio”, se non dirimenti, quanto meno decisivi» . La nostra convinzione è che il XII sec., e la nascita della teologia delle scuole, sia uno di questi momenti decisivi.

2. L’estraneità di teologia e santità secondo H.U. von Balthasar. Più o meno nello stesso periodo (siamo nel 1948) uno dei più grandi teologi del secolo, Hans Urs von Balthasar, scriveva un saggio su «Teologia e santità» , nel quale lamentava la stessa distanza e incomunicabilità tra i santi (i mistici) e i teologi. Fino al Medioevo era esistita una mistica oggettiva, capace cioè di svolgere nella Chiesa un ruo­lo ministeriale al servizio della comunicazione e della “spiegazione” della Rivelazione, come per es. accade per la mistica giovannea dell’Apoca­lis­se, in cui il Veggente dimentica se stesso per dedicarsi alla comunicazione della Rivelazione, ma an­che per l’esperienza spirituale di Maria e Giuseppe, di Pietro e Paolo e, nel cristianesimo medievale, per la mistica dogmatica di donne come Ildegarda di Bingen e Caterina da Siena, preoccupate di un mes­saggio da trasmettere alla Chiesa con sobrietà oggettiva e in spirito di diaconia. Insomma, una mistica che pone l’accento su Dio e il suo messaggio, una mistica che è testimonianza ecclesiale.In seguito, invece, l’ac­cento si è spostato sulla propria esperienza intima, i suoi gradi, le sue leggi, le sue distinzioni, e la do­gma­tica resta sullo sfondo: è una mistica soggettiva, quella per esempio dei grandi santi spagnoli del XVI sec., in particolare Teresa d’Avila. Una mistica che sfocia alla fine in «laboratori psicologici e nei loro esperimenti e statistiche»: l’accento è decisamente sull’esperienza stessa.
Il risultato è che i Santi e gli spirituali sono sempre più igno­rati dai dogmatici. La responsabilità è anche dei Santi stessi: «non sono presi sul serio dal punto di vista dogma­ti­co, perché essi stessi non si fidano più (non osano più) essere dogmatici...I Santi, intimiditi dal filo spi­na­to delle strutture con­cet­tuali che è stato steso attorno alla verità evangelica...consegnano il do­gma al lavoro prosaico della Scuola e diventano dei lirici» . Da questo estraniarsi reci­pro­co dei due mondi ecclesiali è derivato un impoverimento «per la forza viva della Chiesa d’oggi e per la sua predicazione intesa a suscitare la fede». Invece di trovare indivise sapienza e santità, cioè l’organismo vivo della dottrina ecclesiale (ciò che corrisponde al modello e archetipo della Rive­la­zio­ne nella Sacra Scrittura) oggi si incontra «questa singolare anatomia: da una parte le ossa senza carne: la dogmatica trasmessa per tradizione, dall’altra la carne senza ossa: tutta quella letteratura devota che imbandisce un cibo alla lunga indigesto, perché privo di sostanza, misto di ascetica, spi­ri­tualità, mistica e retorica» . Come un corpo sezionato per l’autopsia, dunque un cadavere.
Le radici di questa situazione, secondo il teologo svizzero, risalgono esattamente al momento in cui, con l’introduzione dell’aristotelismo, la teologia diviene “scolastica”, e quindi viene “ridotta a scuola”. Per tutto il primo millennio cristiano, osserva Balthasar, i grandi santi erano anche grandi teologi, grandi dogmatici. Nella loro vita, i credenti scorgevano una diretta, viva rappresentazione della loro dottrina, la testimonianza del suo valore. I Padri della Chiesa spiccavano per l’unità del sapere e della vita: Ireneo, Basilio, Gregorio Nazianzeno e Gregorio di Nissa, Giovanni Crisostomo, Ambrogio, Agostino, Leone Magno e Gregorio Magno... erano “personalità totali”, teologi e insieme dottori e pastori della Chiesa . E così, nel Medioevo occidentale agostiniano, Anselmo, Beda, Bernardo, Pier Damiani.
Con la teologia scolastica, questa unità si spezza: la filosofia acquista un peso considerevole rispetto alla teologia. Grande è “il guadagno di chiarezza, di controllo, di dominio sul complesso della materia del sapere”, ma è un guadagno soprattutto filosofico, solo indirettamente teologico. La filosofia comincia a delinearsi come un tema proprio e a sé stante, come “dottrina dell’essere naturale con esclusione della Rivelazione”, con un proprio concetto di verità, come adaequatio intellectus ad rem, che prende in considerazione solo il lato teoretico della verità. Se la Scolastica di Alberto, Bonaventura, Tommaso è una teologia che riesce ancora a sottomettere a sé, rendendoli disponibili per sé, i concetti e i metodi delle scienze “profane” della natura e dello spirito, nella teologia posteriore (quella successiva alle grandi Summae del XIII sec.) i concetti filosofici cominciano a porsi come norme e criteri del contenuto di fede, «come se l’uomo sapesse in anticipo, ancora prima di avere ascoltato la Rivelazione,...che cosa siano bontà, essere, vita, amore, fede» . Il discepolo della scuola di teologia rischia di avvicinarsi alla Rivelazione con un “concetto precostituito”.
Le osservazioni di Balthasar potrebbero essere sintetizzate così: il «sovraccarico di filosofia terrena addossato alla teologia ha estrania­to da essa gli spirituali», cioè coloro che fanno l’esperienza delle realtà della fede, i quali conoscono tendenzialmente una deriva verso il soggettivismo e lo psicologismo e non concepiscono più l’esperienza stessa come oggettiva, distaccata carismaticità, in funzio­ne di una testimonianza ecclesiale. Ma ha anche prodotto una situazione in cui la santità cristiana (questo è il punto di vista di Balthasar) si realizza, normalmente, indipendentemente dalla ricerca teologica, cioè dalla riflessione sistematica sulla fede. I teologi si trovano ad essere santi – sembra dirci Balthasar – nonostante o a dispetto della teologia che praticano. Una teologia quale quella con­testata da Balthasar (“ossa senza carne”, una dogmatica che non conosce e non pratica l’espe­rien­za viva della fede ecclesiale) non è una via alla santità e non è veramente utile alla Chiesa.
Anche in questo caso, dunque, ci troviamo di fronte alla constatazione di una rottura, di un’unità per­duta e da rifare. Anche il punto di vista del teologo di Basilea è particolare: egli si pone il proble­ma della santità ed è interessato alla figura del teologo e della teologia nel rapporto con essa. Ma que­sta prospettiva sembra essere più feconda e avvicinarci di più alla verità storica rispetto a quella di Vandenbroucke.
Per ora ci fermiamo qui. Riprenderemo la posizione di Balthasar quando affronteremo direttamente il suo progetto di “agiografia teologica”.

3. La perdita dell’unità e integralità del dato da comprendere. Il fenomeno decisivo da osservare, secondo il criterio che abbiamo enunciato, è dunque quello già segnalato della rottura dell’unità della riflessione cristiana, a causa dell’abbandono del metodo esegetico-spirituale fondato sul dinamismo dei quattro sensi della Scrittura, a sua volta dovuto al nuovo atteggiamento della teologia delle Scuole e all’introduzione del metodo derivato dalla filosofia aristotelica.
In questo senso, ci sembra insufficiente l’approccio di Balthasar, il quale insiste sul tema del rapporto fra teologia e santità. Egli prende in considerazione il tema della “santità” come espressione, paradigma compiuto e particolarmente significativo dell’esperienza cristiana, ma guarda anche il profilo del rapporto tra santità personale e pratica della teologia, profilo che andrebbe chiarito e depurato da questioni a nostro parere spurie. Non vi è dubbio che la teologia del XIII sec. si accompagni ad un’autentica esperienza spirituale: le grandi Summae di Bonaventura e Tommaso nascono significativamente dal rinnovamento evangelico operato da Francesco e Domenico . Le interpretazioni storiche offrono accenti diversi, che non sono necessariamente contraddittori: si può affermare per esempio che sia stato «il nuovo assetto scientifico della teologia scolastica» ad aver reso «più farraginoso il circuito tra esperienza di santità e studio teologico , e insieme concordare sul fatto che è soprattutto dopo Bonaventura e Tommaso che «la teologia scolastica si discostò sempre di più dalla ricerca contemplativa, l’attività speculativa si staccò dalla vita di preghiera» .
E tuttavia, la questione decisiva, a nostro parere, è un’altra, cioè se l’esperienza di santità non semplicemente accompagni lo studio teologico, ma ne sia l’oggetto, l’interesse scientificamente articolato. A noi preme osservare che non semplicemente il teologare non si colloca più dentro un itinerario personale di preghiera – per cui, come nella tradizione monastica, si riflette criticamente sulla propria esperienza spirituale – ma che l’esperienza in quanto tale non sia più accostata al fine di comprendere globalmente la fede cristiana: «la sistematica scolastica, concentrata sull’“oggettivo” della Rivelazione e preoccupata per la chiarezza didattica del discorso, non trova più posto nel procedimento teologico per i dati soggettivi, esperienziali» .
Esponendo la teoria dei quattro sensi della Scrittura, Tommaso risulta fedele alla migliore tradizione: «Senza volere innovare in niente, egli si è contentato di ricavare in termini sobri e chiari, che ne tratteggiano vigorosamente le linee principali, una dottrina di dodici secoli […] S. Tommaso riassume l’insegnamento comune in modo felice» . Tommaso «sembrerebbe perciò prolungare in maniera omogenea l’atteggiamento di Ugo di San Vittore, che tendeva alla fusione del quadro tradizionale con le esigenze di quello scolastico» .
In realtà, nella Summa Tommaso esclude decisamente che il senso spirituale possa rientrare nell’argomentazione teologica: nel senso letterale sono compresi già tutti gli altri sensi – allegorico, morale, anagogico: «perché tutti gli altri sensi si fondano su uno solo, quello letterale, dal quale solo è lecito argomentare, e non già dal senso allegorico […]. Né per questo viene a mancare qualche cosa alla S. Scrittura, perché niente di necessario alla fede è contenuto nel senso spirituale, che la S. Scrittura non esprima chiaramente in senso letterale in qualche altro testo» . Il modello tradizionale di approccio alla Scrittura sussiste quindi nel pensiero di san Tommaso, ma di fatto al modello del quadruplice senso – o anche semplicemente dei due sensi fondamentali – viene negata la capacità di organizzare la dottrina teologica .
Contemplazione e teologia in Tommaso rimangono «coi loro dislivelli epistemologici, in omogeneità continua» ; la teologia di Tommaso è principalmente speculativa, cioè contemplativa, in quanto consiste radicalmente in una «partecipazione al sapere che Dio ha di se stesso», e quindi è anche una scienza pratica, un sapere orientato all’agire, che si occupa degli atti umani «nella misura in cui è tramite essi che l’uomo si orienta verso la perfetta conoscenza di Dio in cui consiste la beatitudine» .
Ma già in Tommaso, già nella Grande Scolastica dell’epoca d’oro, è venuta meno l’esi­gen­za di accostarsi alla Rivelazione in quanto accolta e appropriata dal soggetto credente (fides qua), mentre prevale l’esigenza di comprendere il dato della fede (fides quae) nella sua coerenza in­tel­li­gibile. Questo è l’approccio tipico della nuova teologia, non una sua corruzione . L’atteggia­mento scolastico, infatti, porta con sé “la spinta all’oggettivizzazione-concettualizzazione del dato ri­ve­lato” e quindi comporta anche “in maniera congenita la rinuncia a far entrare nel discorso teologi­co la Rivelazione sotto l’aspetto della sua accoglienza storico-dinamica da parte del soggetto creden­te”. Si tratta di una scelta dovuta prevalentemente ad un interesse didattico e che più profondamen­te vuole affermare un’esigenza connaturata al sapere proprio della fede: che esso sia cioè anche ricerca critica, che in esso ci sia spazio per la ratio. Il discorso, osserva G. Moioli, costituisce «uno dei punti nodali per la comprensione della stessa storia spirituale del mondo cristiano fino a tutto il sec. XVII compreso»: è in gioco il problema della natura stessa della fede .
Tuttavia, il cambiamento metodologico determina in ultima analisi anche conseguenze importanti sulla modalità stessa di intendere il rapporto dell’uomo con Dio. Infatti l’applicazione sistematica della filosofia aristotelica, con l’utilizzo massiccio della metafisica, spingerà i teologi a parlare di una trascendenza gnoseologica e ontologica, che renderà ardua la concezione di un sapere della fede come accoglienza globale, non solo intellettuale e/o affettiva, della Parola e della realtà stessa di Dio. Ma già all’inizio del XIII sec. la fedeltà all’ordo cognitionis della filosofia scolastica suscita la perplessità sulla possibilità che un soggetto finito possa capere, cogliere un oggetto infinito come Dio . Si verifica quindi questo risultato paradossale: mentre Bernardo e gli strenui difensori dell’ordine tradizionale accusano i “nuovi teologi” di violare l’integrità e la sacralità del mistero divino, in realtà la deriva nominalistica renderà evidente, un paio di secoli più tardi, che l’apparato concettuale filosofico di cui i magistri si sono dotati, non più innervato dal contatto con la realtà viva dell’esperienza cristiana e con il fuoco incandescente della parola di Dio, finirà con l’allontanare Dio dall’uomo, rendendolo inaccessibile nella sua trascendenza e vanificando così le stesse promesse evangeliche .

«La storia del progressivo impoverimento-inaridimento della teologia propriamente detta attraverso il nominalismo prima e l’illuminismo poi; e la storia del progressivo “psicologizzarsi” di quella che....possiamo chiamare una mentalità e una letteratura “spirituale”...è stata frequentemente descritta e interpretata”. Ciò che invece non è stato sufficientemente sottolineato è che “movendo effettivamente nel senso di una “inquisitio” variamente sradicata dall’esplicito riferimento alla rivelazione biblica, la “teologia” delimita in concreto il proprio ambito all’oggettività cristiana, cioè alla fede...nel suo versante oggettivo, non prestando invece attenzione alla medesima realtà della fede anche precisamente in quanto essa vive e si appropria l’insieme dei valori cristiani. Ciò non è sempre vero nel caso di tutti i singoli teologi; come, del resto, non sarebbe vero in assoluto per tutti e singoli i cosiddetti autori spirituali...Ma ciò, nondimeno, rimane vero a livello tendenziale: e si fa particolarmente evidente quando, nel clima controversistico, la teologia emerge come “dogmatica”; e....ritiene consapevolmente compito estraneo a sé quello di occuparsi della esperienza della fede in quanto vissuta, a meno di operare la riduzione “ai principi”, cioè appunto al dato dogmatico. A questo punto la separazione o il “divorzio” tra teologia e spiritualità si rivela paurosamente consacrato...Se dunque si deve dire che la contestazione monastica e dei suoi succedanei “spirituali” alla teologia critica è ingiustificata perché incomprensiva della sua legittimità e del suo valore proprio, ultimamente radicato nella natura stessa della fede, bisogna però aggiungere che - dal nostro preciso punto di vista - il torto della teologia si è rivelato storicamente essere quello di non aver assunto integralmente il dato da comprendere [cioè di non aver rispettato l’unità e la complessità della fede cristiana]. Sicché, ciò che alla teologia scientifica...si dovrebbe rimproverare non è tanto l’abbandono della figura cosiddetta monastica del “sapere” della fede, quanto il non avere compreso che in sostanza quella figura intendeva forse anzitutto proporre o quantomeno tenere in unità l’oggetto da comprendere...Ci sembra questo...il quadro generale che, se non determina immediatamente, quanto meno fa da sfondo al sorgere dell’interesse teologico per una “teologia spirituale” negli ultimi anni del sec. XIX e nel primo cinquantennio del XX» . E’ necessaria, dunque, una «ripresa critica della visione delle cose quale si esprimeva nella concezione della teologia come “lettura” articolata della “pagina”» e quindi come unità e continuità tra livello soggettivo e livello oggettivo. “Ripresa critica” nel senso di non rigettare ma anzi valorizzare quella consapevolezza, quella esigenza di rigorizzazione che un itinerario secolare rende ormai irrinunciabile. Sulla base di essa occorrerà denunciare «l’insufficienza di racchiudere la comprensione del dato obiettivo cristiano nel solo passaggio dalla esegesi letterale alla “allegoria”», ma anche «nel senso di una diversa articolazione del rapporto tra questa comprensione del dato e il momento appropriativo del dato stesso (vale a dire: il corrispettivo della “tropologia-analogia”). Poiché non si tratta anzitutto di due livelli diversi del “comprendere”: si tratta piuttosto di “comprendere” sia il dato che l’appropriazione; e il rapporto tra il dato e l’appropriazione. Ritrovando questo rapporto, e non ultimamente quello con la “teologia”, l’appropriazione cristiana viene ricollocata nel proprio “luogo”: esce così dallo psicologismo e dal moralismo generico…» . 
Questa sembra anche a noi l’interpretazione più convincente della storia della teologia medievale e moderna e in particolare dell’episodio intervenuto nel XII secolo. Si può parlare di “nuova specializzazione” che si crea nella teologia, con la nascita di una “teologia mistica o affettiva” accanto e in contrapposizione con la teologia scolastica ; oppure di “differenziazione” all’interno della teologia tra la “disciplina razionale” e l’”esperienza spirituale” ; o ancora di “diversificazione” . Ma l’”errore storico” cui fa riferimento Moioli, almeno se consideriamo le cose dal punto di vista della “teologia spirituale”, sembra difficilmente negabile.

4. Evoluzione e involuzione della teologia monastica. Di fronte a questa vicenda, la reazione dei rappresentanti della teologia tradizionale, patristico-monastica, è stata articolata; possiamo riscontrare questi fenomeni:

  • rifiuto deciso del nuovo modo di fare teologia
  • crisi del monachesimo benedettino e nascita degli ordini mendicanti
  • dall’universalità della contemplazione all’universalità della ragione
  • la “formazione di due mondi”: la teologia scolastica e la teoria (dottrina) spirituale

Jean Leclercq sintetizza così i rapporti tra teologia scolastica e teologia monastica nei secc. XII-XV: nel XII sec. la situazione è di non opposizione, pur nella distinzione: “scolastica e monastica”; nel XIII sec. “sembra che gli ingegni più alti abbiano, tra ‘monastica o scolastica’, scelto la seconda”. Nel XIV e XV sec., troviamo ormai “monastica contro scolastica”, se non addirittura una “scolastica senza la monastica”. “Il vero problema - conclude Leclercq - non sarebbe allora di introdurre ‘la monastica nella scolastica’ e la ‘scolastica nella monastica’?” . 

  • l’“evasione psuedo-dionisiana”: una spiritualità apofatica di stampo neoplatonico (qualche tendenza negli spirituali inglesi del XIV sec.): sorpassare la natura umana? essere salvati, cioè liberati dalla natura umana?
  • la degenerazione della teologia scolastica: Ockham, il nominalismo e la crisi della fede come conoscenza reale del mistero di Dio

5. Gli “spirituali” tra il XIV e il XIX sec. e il loro rapporto con il mondo dei teologi

  • la scuola mistica domenicana renana;
  • Ruusbroec e la scuola fiamminga di Groenendael; J. Gerson e il dovere da parte della teologia speculativa di raggiungere una “elucidatio” intelligibile dell’esperienza mistica;
  • la “guerra dei cent’anni” (1337-1437), la crisi del potere pontificio e l’esilio avignonese (1309-1377), le epidemie di peste (in particolare la “peste nera” del 1348-1349)
  • disincanto e scetticismo; la Devotio moderna (G. Groote, l’Imitazione di Cri­sto) e l’emergere della vita morale e ascetica: il primato della carità
  • le donne mistiche dei secc. XV-XVI: Maria Maddalena de’ Pazzi (1566-1607) e Caterina da Genova (Caterina Fieschi Adorno, 1448-1510). Il siglo de oro spagnolo: Teresa d’Avila: «Non dirò nulla che non sia frutto di esperienza» , ma anche la stima per i teologi e la ricerca del confronto con uomini dotti ; e Giovanni della Croce: con l’esercizio della teologia scolasticarità si comprendono le verità divine, attraverso la teologia mistica le attingiamo tramite l’amore, «nel quale le cose non vengono solo conosciute ma anche gustate» . I teologi come semplici “censori” dell’ortodossia dei mistici.
  • Ignazio di Loyola e la dottrina spirituale “sospettata”
  • Il grand siècle francese: la nuova dottrina dell’esperienza spirituale di Francesco di Sales; il cardinale de Bérulle e la devozione al Verbo incarnato
  • XVIII e XIX sec.: si accentua il carattere razionalista e illuminista della teologia, dentro un clima nettamente antimistico; ciò contribuiscono anche le condanne del quietismo (1653, 1699) e del giansenismo (1687, 1708). Il discorso della fede e l’esperienza spirituale ridotti in termini di metafisica (spinozismo, idealismo tedesco) o di coscienza morale (Kant) . La letteratura spirituale assume soprattutto forme catechetiche, devozionali e pedagogiche. I numerosi manuali che vengono pubblicati in questo periodo cercano di «tramandare l’eredità del passato, rimandando quasi sempre all’autorità dei grandi maestri di spiritualità»; le scuole di spiritualità cercheranno invece di definire meglio la loro specificità riassumendo in modo completo la propria dottrina spirituale, senza preoccuparsi troppo di studiare «la loro comune fondazione teologica». La teologia mistica acquista «carattere sempre più astratto e distaccato dalla vita concreta, rifugiandosi nell’ambito della vita interiore» .

6. La vicenda tormentata dell’esperienza: l’“esperienza sospettata”. Nonostante la presenza di grandi santi (ma anche questi, a cominciare da Ignazio e, per motivi diversi Giovanni della Croce e Teresa di Gesù, subirono incomprensioni, processi, imprigionamenti), fino alla metà del XX secolo, l’esperienza cristiana giunge gravata da una pesante cappa di sospetto da parte della teologia e anche dell’autorità della Chiesa. Cerchiamo ora di capire e di mostrare i motivi di questa diffidenza attraverso la breve rassegna di quattro episodi storici, relativi a movimenti spirituali e di pensiero che hanno interrogato la coscienza ecclesiale tra il XIV e il XIX secolo.    

  • I Begardi e le Beghine. Il beghinaggio si collega al grande rinnovamento della vita religiosa che comincia dopo il 1000 nell’Europa occidentale; fondamentalmente ortodosso, esso si sareb­be trasformato successivamente, secondo alcuni, in eresia. La più importante, nel XII sec., fu quel­la dei Catari, i quali, stabilitisi nella seconda metà del secolo soprattutto nella città di Al­bi, nel sud della Francia, venivano chiamati Albigesi: essi predicavano l’opposizione alla car­ne, al­la materia, la riprovazione dell’atto sessuale e del matrimonio, l’ascesi severa, la spiri­tua­­liz­za­zione del culto e il rifiuto delle cerimonie esteriori e dei sacramenti .

Secondo altri autori, dobbiamo collocare più precisamente gli inizi di questo fenomeno verso la fine del XII sec. e gli inizi del XIII. Beghini, beghine è il nome dato agli appartenenti a questo movimento spirituale nei Paesi Bassi e soprattutto nelle Fiandre, nel Brabante e in Renania, in particolare nelle regioni di Liegi e di Colonia. L’etimologia di questi nomi è incerta: forse da al-bigen-sisà al-beghin-i (Beguini sarebbero allora in origine gli Albigesi, così come venivano chiamati a Colonia). Altri propongono invece una derivazione dall’antico germanico beggen, beghen = pregare .
Le beghine non sono propriamente delle reli­giose (non emettono voti), ma laiche che promettono semplicemente di osservare la castità per la durata del loro soggiorno al beghinaggio e l’ob­bedienza agli statuti, alle superiori e al­l’au­torità ecclesiastica. Vivevano una vita semplice e mo­desta, pur senza fare voto di povertà. Erano ragazze giovani, che restavano vergini anche per la considerevole eccedenza di donne rispetto agli uomini in quel tempo…o vedove di soldati morti nelle Crociate; persone che si consacravano a Dio anche in polemica con la vita rilassata di un clero spesso simoniaco e concubinario; persone che, per la condizione precaria della classe operaia urbana, cercavano nel­l’associarsi, nel vivere insieme, protezione e mutua assistenza. Nei beghinaggi pregavano, la­vo­ravano (gli uomini nella tessitura, le donne nella lavanderia), facevano attività apostolica (anche le donne) all’esterno. Avevano delle superiore, chiamate magistrae o marthae. Le corti beghinali erano case in cerchio presso un ospedale, una chiesa…circondate da mura con porte che venivano chiuse la sera. Una specie di vita religiosa dentro la città .
“Béghard”, all’origine, è sinonimo di “béguin”, ma il fenomeno del beghinaggio è più antico, mentre dei Begardi non si ha notizia prima della metà del XIII sec. “Beghardus” non è che la forma germanica del latino beguina (beghina è più tardo). I Begardi sono una degenerazio­ne eterodossa degli ideali di purezza e di povertà diffusi a partire dal sec. XI nei Paesi Bassi e in Germania (qui soprattutto la purezza) e in Francia e in Italia (qui soprattutto la povertà). La pu­rezza degenera nel rifiuto del matrimonio, la povertà nell’ideale, assolutizzato, della comunione dei beni. Si disconosce la gerarchia della Chiesa e si dichiara di non dipendere che dal­l’azio­ne dello Spirito santo. I Begardi sono dunque la versione germanica e per lo più eterodos­sa del beghinaggio (attualmente possediamo una sola opera risalente a un begardo ortodosso): è contro questi che si scaglia il Concilio di Vienne (1311-1312), mentre d’altra parte il fenomeno del beghinaggio è stato approvato da numerosi interventi pontifici ed è continuato fino al nostro secolo. Quello condannato a Vienne è una specie di quietismo a base panteistica .
Vediamo dunque alcune delle affermazioni condannate a Vienne il 6 maggio 1312 :

891 – L’uomo nella vita presente può acquistare tale grado di perfezione da divenire del tutto impeccabile e da non poter progredire più oltre nella grazia. Altrimenti, dicono, se uno potesse sempre progredire, si potrebbe trovare qualcuno più perfetto di Cristo.
892 – Quando l’uomo ha raggiunto tale grado di perfezione non ha più bisogno né di digiunare né di pregare, poiché allora i sensi sono soggetti perfettamente allo spirito e alla ragione, così che l’uomo può concedere liberamente al corpo quello che gli piace.
893 – Quelli che si trovano in questo stato di perfezione e in questo spirito di libertà, non sono soggetti ad alcuna autorità umana, né obbligati ad alcun precetto della Chiesa, perché, come affermano, “dove c’è lo Spirito del Signore, c’è la libertà” (2Cor 3, 17).
896 – Esercitarsi nelle virtù è proprio dell’uomo imperfetto e l’anima perfetta non ne ha bisogno.
897 – Baciare una donna senza inclinazione naturale è peccato mortale, ma l’atto carnale, se la natura vi inclina, non è peccato, specie quando chi lo commette è tentato.
898 – All’elevazione del corpo di Cristo i perfetti non devono alzarsi, né mostrare alcuna riverenza, affermando che sarebbe per essi segno di imperfezione, se dalla purezza e dall’altezza della loro contemplazione discendessero tanto da meditare sul mistero o sacramento dell’eucaristia o sulla passione dell’umanità di Cristo.

Gli errori che vengono qui condannati ripropongono l’antica tentazione (già di matrice gnostica) di creare due categorie di cristiani, i “perfetti” e i “comuni fedeli”, concedendo ai primi la licenza di commettere vere e proprie immoralità (897). I “perfetti” sono sottratti alla giurisdizione ecclesiastica (893); a loro appartiene la dimensione mistica, concepita come una realtà superiore a quella ascetica, cui devono rassegnarsi i semplici fedeli, mentre i perfetti non ne hanno più bisogno (896; 892). Più radicalmente, emerge un netto dualismo antropologico: lo “spirituale” è concepito come una (magnifica) sovrastruttura che però non ha più nulla a che vedere con la corporeità. Il “perfetto” è un uomo “superiore” ma dimezzato, mutilato o, se vogliamo, doppio. Si immagina programmaticamente un superamento, fin quasi al disprezzo, delle mediazioni del­l’incon­tro con Dio: i sacramenti (898), l’autorità nella Chiesa, i comandamenti (893), fino alla stes­sa umanità di Cristo e alla sua passione (898).

  • Il giansenismo. Il pensiero di Cornelius Janssen (1585-1638), vescovo di Ypres, teologo a Lovanio, espresso nel­l’opera postuma Augustinus (1640), fu condannato con due bolle del 1642 e del 1653, con­te­state dai suoi seguaci, che a lungo proclamarono la loro fedeltà alla dottrina cattolica.

In effetti, le cinque proposizioni condannate nel 1653 non corri­spon­de­vano esatta­men­te alla dottrina giansenista, anche se il fenomeno giansenista fu così com­ples­so ed etero­geneo da contenere in sé posizioni sicuramente ortodosse e posi­zioni evi­dente­men­te inaccet­ta­bili. In generale il giansenismo si presenta come una reazione all’uma­­ne­si­mo cri­stiano e con­troriformistico e all’ottimismo molinista, contrappo­nen­dovi un ago­sti­nismo ri­go­roso ed estre­mista, che riconosce ben poco spazio alla libertà dell’uomo.
In se­gui­to al peccato origi­nale, l’uomo è dominato dalla concupiscenza, che lo muo­ve invin­ci­bil­mente a seconda della natura della inclinazione prevalente (delectatio victrix), una realtà non meglio definita, una forma di amore, di piacere che si aggiunge alla volontà per farla agire. Se è dele­cta­­tio terrestris, o amore na­tu­rale, le sue opere sono necessariamente pec­ca­ti; se invece è dele­­cta­tio caelestis, o amore sopran­naturale, le sue opere sono infallibil­men­te buone. La pro­spet­tiva è chiaramente predestinazionista. L’azione della grazia è irre­si­sti­bile e l’uo­mo non può far niente di suo: Cristo stesso è morto soltanto per i predesti­na­ti che ricevono la gra­­zia infal­libilmente efficace. Ne consegue che l’atteggiamento del cri­stiano deve essere di timo­re, di fronte alla prospettiva di non essere nel numero degli eletti; ricevere i Sacra­menti esi­­ge mol­ta purezza e perfezione, pochi sono degni di riceverli; il cri­stia­no deve darsi alla mor­­ti­­ficazione e alla penitenza, che possono giungere a dargli una spe­cie di persuasione del­la pro­pria elezione. Alla fine, ciò che conta è l’esperienza, intesa nei termini di una risul­tan­za inte­rio­re, se non propriamente psicologica, non fondata su una relazione reale. L’espe­rien­­za del­l’attrat­tiva verso il bene, della delectatio positiva che prevale, definisce ed esauri­sce pratica­men­te la realtà della grazia, il dono stesso della carità di Dio: essa si identifica con un piacere vittorioso che conduce irresistibilmente al bene, cioè a volere e a fare tutto ciò che Dio ha stabilito che la volontà debba volere e fare. In questo quadro, la libertà viene sostanzialmente a coincidere con la volontà, nel senso che tutto ciò che è voluto, è per ciò stesso libero.
Oltre al fondatore, il grande apostolo della spi­ri­tualità giansenista fu l’abate di Saint-Cyran (Jean Duvergier d’Hauranne, 1581-1643), che dominò il clima del monastero cistercense di Port-Royal, insieme ai suoi successori Antoine Arnauld e Pierre Nicole (seconda metà del XVII sec.). Vediamo alcuni degli errori condannati da papa Innocenzo X con la Costituzione Cum occasione del 31 mag­­gio 1653:
2001 – Alcuni precetti di Dio sono impossibili per uomini giusti che vogliono e cercano di praticarli secondo le forze attuali che possiedono; manca infatti ad essi la grazia, con la quale diventano possibili.
2002 – Alla grazia interiore, nello stato della natura decaduta, non si può assolutamente resistere.

  • Il quietismo. Il nome viene dall’“orazione di quiete”, forma contemplativa caratterizzata da una accentuata passività, che costituisce la meta della vita spirituale. Le radici del movi­men­­­to apparso nel XVII sec. sono nello stesso gnosticismo e manicheismo dei primi secoli, ma questo “passivismo” spirituale si ritrova anche in certe tendenze catare, nelle sette del libe­ro spirito dei secc. XV e XVI, nei begardi e negli alumbrados spagnoli.

Paris, 1957; la prima edizione italiana, col titolo Cultura umanistica e desiderio di Dio, è del 1965; la terza edizione, per l’editrice Sansoni, Firenze, è del 2003.

J. Leclercq, Cultura umanistica e desiderio di Dio, 247-249.

Cf J. Leclercq, Cultura umanistica e desiderio di Dio, 252-253.

J. Leclercq, Cultura umanistica e desiderio di Dio, 294-296 (i corsivi sono nostri).

Cf J. Leclercq, Cultura umanistica e desiderio di Dio, 254.

Cf J. Leclercq, Cultura umanistica e desiderio di Dio, 269-270.

Benedetto XVI, Udienza generale, mercoledì 28 ottobre 2009, in http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2009/documents/hf_ben-xvi_aud_20091028_it.html.

M.- J. Congar, «Théologie», in Dictionnaire de théologie catholique, vol. XV, Paris 1946, 354.

Cf V. Lazzeri, Teologia mistica e teologia scolastica. L’esperienza spirituale come problema teologico in Giovanni Gerson, Glossa, Milano 1994, 6-7.

Cf C.A. Montanari, “Per figuras amatorias”. L’Expositio super Cantica canticorum di Guglielmo di Saint-Thierry: esegesi e teologia, Editrice Pontificia Università Gregoriana, Roma 2006, 316.

H. de Lubac, Storia e spirito, cit. in C.A. Montanari, “Per figuras amatorias”, 317, n.156.

C.A. Montanari, “Per figuras amatorias”, 317.

C.A. Montanari, “Per figuras amatorias”, 318.

C.A. Montanari, “Per figuras amatorias”, 319.

C.A. Montanari, “Per figuras amatorias”, 324.

C.A. Montanari, “Per figuras amatorias”, 321.

Cf C.A. Montanari, “Per figuras amatorias”, 324-325.

Cf V. Lazzeri, Teologia mistica e teologia scolastica, 7-8.

Cf V. Lazzeri, Teologia mistica e teologia scolastica, 8-9.

I. Biffi, Introduzione, in J. Leclercq, Esperienza spirituale e teologia, 13.

Cf V. Lazzeri, Teologia mistica e teologia scolastica, 10-12.

V. Lazzeri, Teologia mistica e teologia scolastica, 15.

M.-D. Chenu, La teologia nel XII secolo, Jaca Book, Milano 1983, 373.

M.-D. Chenu, La teologia nel XII secolo, 388.414.

V. Lazzeri, Teologia mistica e teologia scolastica, 15.

Cf M.-D. Chenu, La teologia nel XII secolo, 374.

M.-D. Chenu, La teologia nel XII secolo, 375.

V. Lazzeri, Teologia mistica e teologia scolastica, 16-19.

M.-D. Chenu, La teologia nel XII secolo, 375.

M.-D. Chenu, La teologia nel XII secolo, 375-376.

M.-D. Chenu, La teologia nel XII secolo, 375.

C. Stercal, «Storia della teologia e storia della spiritualità. Relazioni tra i due saperi», Rivista teologica di Lugano 5/2000, 199-221: 201.

C. Stercal, «Storia della teologia e storia della spiritualità», 202.

Cf F. Vandenbroucke, «Le divorce entre théologie et mystique. Ses origines», Nouvelle Revue Théologique 82 (1950) 372-389 : 375-376.

Cf A. Deblaere, Storia del divorzio tra teologia e spiritualità, Dispense ad uso degli studenti, Pont. Univ. Gregoriana, A.A. 1991-1992, 9-12.

J.M. García, «La questione epistemologica della teologia spirituale», in Teologia e spiritualità oggi. Un approccio interdisciplinare, a cura di J. M. García, LAS, Roma 2012, 25-75: 31-32.

P. Gilbert, Introduzione alla teologia medioevale (= Introduzione alle discipline teologiche 3), Piemme, Casale M. 1992, 162.

R. Maiolini, «Esperienza secondo lo Spirito e riflessione credente. Il rapporto tra santità e teologia alla luce della prospettiva di Hans Urs von Balthasar», in La vita nello Spirito, Quaderni teologici del Seminario di Brescia, Morcelliana, Brescia 2012, 157 n.8. Cf C. Stercal, «Storia della teologia e storia della spiritualità», 203-204.

R. Maiolini, «Esperienza secondo lo Spirito e riflessione credente», 157 n.8. Cf C. Stercal, «Storia della teologia e storia della spiritualità», 204-205.

R. Maiolini, «Esperienza secondo lo Spirito e riflessione credente», 157 n.8. Cf C. Stercal, «Storia della teologia e storia della spiritualità», 205-207.

R. Maiolini, «Esperienza secondo lo Spirito e riflessione credente», 157 n.8. Cf C. Stercal, «Storia della teologia e storia della spiritualità», 207-208.

C. Stercal, «Storia della teologia e storia della spiritualità», 210. All’origine vi è un altro studio di C. Stercal, «Il “divorzio” tra teologia e mistica. Rilettura di una tesi storiografica», Annali di Scienze Religiose 4/1999, 403-416.

C. Stercal, «Storia della teologia e storia della spiritualità», 211.

R. Maiolini, «Esperienza secondo lo Spirito e riflessione credente», 159.

Poi inserito in H.U. von Balthasar, Verbum Caro, Morcelliana, Brescia 19854, 200-229.

H.U. von Balthasar, «Teologia e santità», in Id., Verbum Caro, 210-212.

Cf H.U. von Balthasar, «Teologia e santità», 212-214.

Cf H.U. von Balthasar, «Teologia e santità», 200-201.

Cf H.U. von Balthasar, «Teologia e santità», 204-206.

Un’osservazione dell’allora card. Ratzinger fa comprendere tutta la serietà del profilo scelto da Balthasar: «Quello della connessione fra teologia e santità non è un discorso sentimentale o pietistico, ma ha il suo fondamento nella logica delle cose e ha dalla sua parte la testimonianza di tutta la storia. Non è pensabile Atanasio senza la nuova esperienza di Cristo fatta da Antonio Abate; Agostino senza la passione del suo cammino verso la radicalità cristiana; Bonaventura e la teologia francescana del XIII secolo senza la nuova gigantesca riattualizzazione di Cristo nella figura di san Francesco d’Assisi; Tommaso d’Aquino senza la passione di Domenico per il vangelo e la evangelizzazione; e si potrebbe continuare, così, lungo tutta la storia della teologia» (J. Ratzinger, «Teologia e Chiesa», Communio 87 (1986) 92-111: 101).

M. Naro, «Studio della teologia e santità», Rassegna di Teologia 44 (2003) 428-446: 432.

J. Leclercq, Esperienza spirituale e teologia. Alla scuola dei monaci medievali, Jaca Book, Milano 1990, 61. Avendo distinto, fino a separare, la conoscenza e l’amore, la scienza e la contemplazione, la vita intellettuale e la vita spirituale, «era ormai necessario inventare una teologia nuova […] da allora in avanti sarebbero esistite, in Occidente, due teologie parallele: una erudita – puramente filologica, o storica, o teorica –, spesso arida e normalmente causa di aridità; e un’altra – a cui si dava sempre meno il nome di teologia – che si esprimeva in una letteratura piena di devozione e di fervore, a volte bella, ma raramente nutrita di dottrina» (ivi).

G. Strelczyk, «L’esperienza mistica come fonte della teologia sistematica: osservazioni metodologiche», Rivista Teologica di Lugano 6 (2001) 239-252: 242. Dall’altra parte, gli “spirituali” non si trovano più a loro agio con la teologia. Cf anche M. Naro: «lo scollamento tardo-medievale fra teologia e santità è da capire come qualcosa di molto più complesso di una semplice rinuncia dei teologi alla vita di santità» («Studio della teologia e santità», 433).

H. De Lubac, Esegesi medievale. I quattro sensi della Scrittura, vol. II, Paoline, Roma 1972, 1475.

V. Lazzeri, Teologia mistica e teologia scolastica, 12.

Summa Theologiae, I, q.1, art. 10 ad I.

Cf V. Lazzeri, Teologia mistica e teologia scolastica, 12.

J.M. García, «La questione epistemologica della teologia spirituale», 30.

J.P. Torrell, Tommaso d’Aquino maestro spirituale, Città Nuova, Roma 1996, 21. Cf Summa Theologiae I, q.1. a.4.

Anche secondo R. Maiolini («Esperienza secondo lo Spirito e riflessione credente», 159-160), il momento di “crisi” va collocato nella prima metà del XII sec., «o quanto meno […] dopo il teologare di Anselmo d’Aosta; ciò che cambia in quest’epoca è il modo di fare teologia (e quindi di intendere la santità o la cosiddetta “spiritualità”): la nascita della quaestio rispetto alla lectio dei testi biblici conduce ad un ideale di scientificità della teologia, la quale, certo, comporta una distinzione delle discipline, ma posiziona soprattutto in un diverso assetto il rapporto tra fede e ragione, vera questione soggiacente a tutta la problematica». L’assunzione in teologia della epistemologia aristotelica dà il via a «una parabola che va dalla distinzione alla separazione di fede e ragione», giungendo alla conclusione che «quanto più il sapere teologico si organizza in una disciplina razionale, comandato dall’analisi del suo oggetto – ha cioè la pretesa di assumere un carattere scientifico –, tanto più si differenzia dalla spiritualità e dalle sue espressioni soggettive» (A. Staglianò, Teologia e spiritualità. Pensiero critico ed esperienza cristiana, Studium, Roma 2006, 33). Cf anche G. Meiattini, «Il concetto di esperienza: caratteristiche e problematiche del suo uso teologico in prospettiva interdisciplinare», Italia Francescana 84 (2009/3, supplemento dedicato a Esperienza, Teologia e Spiritualità. Seminario di studio sulla teologia spirituale) 7-30: 10. Cf. anche G. Lombarda, La santità vissuta come “locus theologicus”, Glossa, Milano 2006, 19. Si veda anche Commissione teologica Internazionale, La teologia oggi: prospettive, principi e criteri, 29 novembre 2011, nn. 66-67, La Civiltà Cattolica 161 (2012), n° 3883, 44-94. Da parte sua, P. Verdeyen individua un momento sintomatico della questione in gioco nel conflitto tra Bernardo e Guglielmo di Saint-Thierry da una parte e Abelardo dall’altra: si parla di due modalità di accesso alla conoscenza di Dio. I due cistercensi affermano che Abelardo sottomette i dati della fede alla critica della ragione, la quale ha la prima e l’ultima parola e inoltre accusano Abelardo per l’incoerenza della sua vita rispetto al suo insegnamento (P. Verdeyen, «La séparation entre théologie et spiritualité. Origine, conséquences et dépassement de ce divorce», Nouvelle Revue Théologique 127 (2005) 62-75, in particolare 63-65).

G. Moioli, «Teologia spirituale», in Nuo­vo dizionario di spiritualità, Paoline, Cinisello B. 1985, 1597-1609: 1598.

Cf V. Lazzeri, Teologia mistica e teologia scolastica, 17-20.

Cf. le riflessioni di A. Deblaere. Anche R. Maiolini identifica la questione di fondo nel confronto tra due modi di acquisizione della conoscenza di Dio: «se è vero che si può conoscere Dio sia attraverso l’esperienza credente generata dallo Spirito (identificata paradigmaticamente in quella mistica) sia attraverso la riflessione teologica (identificata paradigmaticamente in questa scolastico-tommasiana), quale è più sicura? Quale è più “vera”? Quale corrisponde maggiormente all’esperienza della rivelazione cristiana?» («Esperienza secondo lo Spirito e riflessione credente», 164).

G. Moioli, «Teologia spirituale», in Nuo­vo dizionario di spiritualità, 1599.

G. Moioli, «Teologia spirituale», in Dizionario teologico interdisciplinare, vol. I, Marietti, Torino 1977, 36-66: 59-60.

Cf Congar, cit. in C. Stercal, «Storia della teologia e storia della spiritualità», 208.

Cf Chenu, cit. in C. Stercal, «Storia della teologia e storia della spiritualità», 208.

Cf Haas, cit. in C. Stercal, «Storia della teologia e storia della spiritualità», 209.

J. Leclercq, «Il chiostro e la scuola nei secoli XIV-XVI», in Id., Esperienza spirituale e teologia, 83-104.

Teresa di Gesù, Cammino di perfezione, Prologo, 3.

Cf J.M. García, «La questione epistemologica della teologia spirituale», 36-38. Cf anche Cf O. Steggink, «Esperienza e teologia nella storia della mistica cristiana. Teresa di Gesù, donna e mistica, di fronte alla teologia e ai teologi», in Sentieri illuminati dallo Spirito. Atti del Congresso Internazionale di Mistica, Ed. OCD, Roma 2006, 243-268.

Giovanni della Croce, Cantico spirituale B, Prologo, 3.

Cf G. Moioli, «Teologia spirituale», in Dizionario teologico interdisciplinare, 36-37.

Cf J.M. García, «La questione epistemologica della teologia spirituale», 42-43.

J. Van Mierlo, «Béguins, béguines, béguinages», in Dictionnaire de Spiritualité, t.I, Beauchesne, Paris 1937, 1341-1352: 1343-1348.

Cf F. Vernet, «Béghards hétérodoxes», in Dictionnaire de Spiritualité, t.I, Beauchesne, Paris 1937, 1329-1341: 1329-1336.

Cf J. Van Mierlo, «Béguins, béguines, béguinages», 1343ss.

Cf F. Vernet, «Béghards hétérodoxes», 1329ss.

Denzinger-Schönmetzer 891-899.

Denz. 2001-2005.

Il quietismo fu con­­dannato in Miguel de Molinos nel 1687 e in François de Fénelon nel 1699, ma le pro­po­si­­zio­ni condannate si riferiscono a casi estremi e a deviazioni proprie di taluni individui, più che al sistema in quanto tale. Esso insegna una spiritualità intima e superiore al livello del cri­stiano comune – è dunque un movimento d’èlite – consistente nel­l’arri­va­re alla completa con­segna di sé e alla suprema passività nelle mani di Dio; la tensione del credente deve con­cen­trarsi, più che sull’esercizio delle virtù e della mortificazione, sul conse­gui­mento di quel ri­po­so interiore nel quale si dispiega l’azione di Dio e si realizza l’unione intima con lui. Vi è una tendenza a ridurre costantemente l’attività dell’uomo a favore dell’azione dello Spirito Santo: l’ascesi personale è deprezzata, «che si tratti degli esercizi di meditazione o dello sforzo per respingere le tentazioni, per correggere i difetti o acquisire le virtù, meno l’uomo si impegnerà in uno sforzo personale, più egli si renderà docile alle mozioni dello Spirito Santo» .
La preghiera contemplativa ha un tono molto affettivo, fino ad arrivare al “pu­ro amore”, alla to­tale quiete, nella quale si realizza il completo annullamento di sé, nel­l’unio­ne con Dio, alla quale consegue la perfetta indifferenza davanti a Dio e agli eventi ordinati dalla sua provvi­denza, fino ad annullare, nelle posizioni più estreme, ogni minimo interesse personale anche di fronte al proprio destino eterno: per es. “amare Dio anche se mi avesse predestinato per suo capriccio alla dannazione eterna”. Giunto a questo punto, secon­do il quietismo etero­dos­so, nell’uomo si produce come uno sdoppiamento della personalità: l’anima, la parte supe­riore, gode della pacifica unione con Dio, mentre il corpo può essere soggetto a tentazioni sensuali, alle quali è preferibile non opporre resistenza per non distrarsi e perdere il tesoro della divina contemplazione. E’ evidente qui l’emergere di un inaccet­tabi­le dualismo antro­po­­lo­gico. In realtà, a queste estreme deviazioni non sono mai giunti i gran­di maestri del quietismo, a cominciare dallo stesso Fénelon, figura di grande rilievo spiri­tuale, la cui morte impedì quella piena riabilitazione alla quale la S. Sede si stava orientando. 
Riportiamo, dal decreto del S.Uffizio del 28 agosto 1687 e dalla Costituzione Caelestis Pastor di Innocenzo XI del 20 novembre dello stesso anno, alcune proposizioni condannate di Miguel de Molinos :

        2201 – E’ necessario che l’uomo annienti le sue facoltà [potentiae], e questa è la vita interiore
2202 – Volere operare attivamente è offendere Dio che vuole essere lui stesso il solo a operare; e per questo è necessario abbandonare tutto se stesso e totalmente in Dio, e poi in lui rimanere come un corpo morto.
2217 – Consegnato a Dio il libero arbitrio e a lui lasciata la cura e la preoccupazione della nostra anima, non si debbono più tenere in nessun conto le tentazioni; e non si deve fare ad esse nessun’altra resistenza se non negativa, senza esercitare nessuna attività; e se la natura si agita, bisogna lasciare che si agiti, perché è natura. 
2218 – Chi nella preghiera si serve di immagini, figure, forme esteriori e concetti propri, non adora Dio in spirito e verità [cf Gv 4,23].
2241 – Dio permette e vuole, per umiliarci e per condurci ad una vera trasformazione, che in alcune anime perfette, anche non in estasi, il demonio operi violentemente nei loro corpi e faccia loro commettere degli atti carnali, anche durante la veglia e senza l’oscuramento della mente, movendosi fisicamente le loro mani e le altre membra contro la loro volontà. E lo stesso si deve dire per gli altri atti in sé peccaminosi: in questo caso non sono peccati perché in essi non c’è il consenso.
2257 – Per la contemplazione acquisita si perviene allo stato di non fare più nessun peccato, né mortale né veniale.
2260 – Alle anime progredite, che iniziano a morire alle riflessioni e che pervengono così al punto che queste sono morte, Dio rende talvolta impossibile la confessione, e supplisce lui stesso con una grazia di preservazione tanto grande quale quella che avrebbero ricevuto nel sacramento: e così per questo genere di anime non è un bene accedere al sacramento della penitenza, perché questo è per loro impossibile.

Anche qui, come nel caso dei Begardi, è evidente lo spiritualismo assolutamente disincar­na­to cui approda una proposta che vor­reb­­be essere il massimo della raffinatezza spirituale. Nel ten­ta­tivo di onorare Dio al massi­mo grado (o di difendere Dio, talvolta), si arriva a morti­fi­ca­re l’uomo, amputandolo di una di­men­sione essenziale qual è la corporeità. In realtà, nessu­no meglio di Dio, nessuno meglio del Figlio dell’uomo esalta la dignità dell’uomo stesso; certo, non lo zelo indiscreto di que­st’ultimo.    
Infine, una delle proposizioni di Fénelon sull’“amore puro” condannate nel Breve Cum alias ad apostolatus di Innocenzo XII (12 marzo 1699) :

2351 – C’è uno stato abituale di amore verso Dio che è pura carità, senza nessuna mescolanza con il movente del proprio interesse. Non hanno più parte in esso né il timore delle pene, né il desiderio della rimunerazione. Non si ama più Dio per il merito, neppure per la perfezione, e nemmeno per la felicità che si prova nell’amarlo.

La formulazione, per sé, è ambigua: potrebbe significare, e questo sarebbe accettabile ed anzi encomiabile, un amore per Dio del tutto disinteressato, un amare Dio “perché è Dio”, semplicemente. Se però il prezzo da pagare è la cancellazione dell’umano, diventa un’affermazione inaccettabile, non più cristiana. Davanti a Dio, avremmo un uomo senza più desideri, senza sentimenti né positivi né negativi: ancora il tentativo di onorare Dio secondo la misura del proprio eccesso e, forse, una fuga dalle re­spon­­sabilità dell’uomo. Fénelon, in ogni caso, dichiarò pubblicamente di sottomettersi al pro­­nunciamento papale con un editto rivolto ai fedeli della diocesi di Cambrai, di cui era Arcivescovo, del 9 aprile 1699 .
Si capisce come condanne di questo genere, evidentemente necessarie per difendere una corretta comprensione di alcuni aspetti fondamentali della fede cristiana, abbiano anche avuto l’effetto collaterale di alimentare un crescente sospetto nei confronti di ogni discorso di perfezione spirituale, di vita mistica o di contemplazione. La “spiritualità” diventa così un tema equivoco, l’“esperienza” una realtà pericolosa.

  • Il modernismo. Il modernismo, corrente teologica sviluppatasi a cavallo tra il XIX e il XX sec., ha sollevato questioni reali riguardo al rapporto tra fede e teologia cattoliche e istanze del­la cultura moderna. Secondo il giudizio di don Pino Colombo «il Modernismo, se ha avvertito i problemi, non è riuscito però a fornirne le soluzioni» , anche per la man­canza, a quel tempo, di una teologia sufficientemente attrezzata per le sfide poste dalla scien­za moderna. Agli occhi del Magistero della Chiesa esso appariva inficiato da agnosti­ci­smo e immanentismo, che spingeva la nozione di fede verso il soggettivismo più puro; la fe­de era tendenzialmente ridotta a emanazione del sentimento, l’appello all’esperienza suona­va come qualcosa che svuotava il significato fondante della Rivelazione. Accettare l’idea di una conoscenza frutto dell’esperienza sembrava ridurre la fede del popolo a religiosità priva­ta.

Uno degli esponenti più autorevoli del pensiero modernista fu l’inglese George Tyrrell (1861-1909), autore di un saggio significativamente intitolato Revelation as Experience (1909), nel quale contesta aspramente la teologia scolastica, che ha ridotto la rivelazione cri­stiana a “formule” concettuali, immediatamente derivanti da Dio stesso. A questa posizione, Tyrrell contrappone la convinzione secondo la quale la rivelazione consiste invece esclu­siva­mente «in un’esperienza spirituale d’amore, di fede e di adorazione», come furono quel­le di Pietro, di Paolo, di Giovanni, che le tradussero nei loro scritti. La posizione è sicura­men­te interessante, ma di fronte alla domanda sulla natura di tale esperienza e su come si possa mostrare la sua origine da Dio, e non semplicemente dall’uomo, Tyrrell risponde pra­tica­mente identificando l’esperienza cristiana con una generica esperienza religiosa, cioè con il “bisogno del trascendente”, bisogno “universale e perpetuo nell’uomo…così naturale co­me quello del nutrimento”, benché non prodotto da lui ma come qualcosa che si impone ad ogni uomo, senza eccezione . Si perde così «il fondamento per po­ter affermare la “singolarità” di Gesù Cristo e quindi la “insuperabilità” del suo “simbo­li­smo”» . Tyrrell ha preteso di salvare il cristianesimo sottoponendolo al meto­do storico-critico, rigoroso, scientifico: ma se questo può (e deve) smascherare l’inau­ten­ti­cità della fede, non può però fondare la fede autentica. Alla fine Tyrrell, e con lui in ge­ne­rale il movimento modernista, partendo da una giusta critica alla posizione scolastica, nel­la misura in cui ignora l’esperienza e identifica la rivelazione nelle formule, approda ad una indi­stin­zio­ne tra esperienza religiosa ed esperienza propriamente e originalmente cristiana, risol­ven­do la rivelazione nella generica esperienza religiosa e “perdendo” così Gesù Cristo.
Non era dunque sufficiente circoscrivere il problema della interpretazione della rivelazione entro il dilemma “formule” o “esperienza”, in quanto termini che esprimono nozioni gene­ra­li. Occorreva riconoscere alla rivelazione cristiana il suo riferimento essenziale e decisivo a Gesù Cristo, solo in relazione al quale si ha una reale “esperienza cristiana”. Così la nozione di esperienza viene ricondotta entro l’ambito specifico della teologia, cioè viene verificata e giudi­cata secondo la fede cristiana . Qui può essere considerata come una real­tà che non si sovrappone e non sostituisce quella della rivelazione, né una realtà conflittuale con quest’ultima, ma piuttosto intrinsecamente connessa, anzi relativa all’oggettività della rive­lazione stessa. 


Dalla teologia “ascetica e mistica” alla “teologia spirituale”: il “movimento mistico” e i dibattiti dei primi decenni del secolo XX

1. Il “movimento mistico”
a. I commentatori sono d’accordo nel far coincidere la rinascita della “teologia spirituale” con il “movimento mistico”. Il movimento mistico in senso stretto consiste nella fioritura di opere, arti­coli e riviste su temi mistici, che polarizza la letteratura spirituale verso la fine dell’800 e soprattutto nei primi tre decenni del ‘900 .
Non è un fenomeno del tutto nuovo, è come il riemergere alla superficie di un interesse che in fondo non si era mai spento: Joseph de Guibert, uno dei più lucidi interpreti di questa rinascita, paragona que­sta nuova “invasion mystique” al periodo delle grandi controversie del XVII secolo sull’“orazio­ne di quiete”. L’orientamento mistico caratterizza sia la scienza spirituale sia la pietà vissuta, come «una linfa che percorre e scuote l’intero corpo ecclesiale» , proponendo l’esperienza mistica come un fenomeno normale dell’esperienza cristia­na, anzi come il “test” della perfezione cristiana raggiunta . Insomma, si assiste ad una specie di “democratizzazione” dell’esperienza mistica. Sembra terminato il lungo “crepuscolo dei mistici”, secondo l’espressione di L. Cognet, e ormai spazzate le nebbie dell’illuminismo e del po­si­­ti­­vismo ottocentesco. E’ il periodo in cui, per esempio, la Francia conosce le grandi conver­sioni: Jacques Maritain e Raissa, Paul Claudel, Léon Bloy, Charles de Foucauld, Charles Péguy… Impressiona il seguito popolare che hanno gli scritti di Teresa di Lisieux.
E’ legittimo, in via generale, interpretare questo movimento anche come una reazione «all’eccessivo razionalismo predominante nella teologia protestante, e molto influente nella teologia cattolica» e come un forte richiamo, che investe la spi­ri­tualità cristiana già nella seconda metà del XIX sec., all’interiorizzazione della vita di fede, inte­­sa non come intimismo, ma come ritrovamento dell’essenzialità cristiana. Questo fenomeno si verifica non solo in relazione alla mistica, ma si riflette storicamente su altri due versanti della vita ecclesiale: quello della liturgia e quello dell’attività caritativa-aposto­lica.
b. Per quanto riguarda la pietà liturgica, è da segnalare il fenomeno denominato “movi­men­to liturgico”, il cui iniziatore e protagonista principale fu Prosper-Louis Guéranger (1805-1875), inizialmente prete diocesano, che nel 1833 riporta in vita l’abbazia benedettina di Solesmes, di cui diven­ne poi abate. «All’inizio del sec. XIX, il monachesimo era quasi scomparso. I monasteri benedet­tini e cistercensi nel 1815 erano ridotti ad una quarantina. Le comunità delle nuove congregazioni religiose per lo più praticano un ideale religioso attivo ascetico, alquanto differente da quello tradi­zionale monacale» . Guéranger vuole ri­pristinare il monastero come “scuola di vita contemplativa”, fondata sull’esperienza spirituale litur­­gi­ca e lo studio di ricerca, studio di carattere prevalentemente storico, che nell’alveo della tradizio­ne monastica si dirigerà soprattutto in ambito biblico, patristico e appunto liturgico. Tra il 1841 e il 1865, Guéranger pubblica i primi nove volumi dell’Année liturgique, sui tempi “forti”, dal­l’Av­ven­to al tempo di Pasqua. I simbolismi, le spiegazioni storiche e spirituali della liturgia furono molto gradite e rivelarono a molti il senso di una pietà più fondata sulla liturgia, e quindi sulla preghiera del­la Chiesa . La battaglia era dunque contro una “pra­tica” e una devozione puramente esteriori, come quelle che si esercitavano a proposito della “partecipazione” alla Messa. Guéranger desiderava appunto che le devozioni popolari, la pietà per­so­nale dei credenti si riavvicinassero alla preghiera liturgica, avvertendo al tempo stesso che anche que­st’ultima «diventerebbe testo impotente, qualora i fedeli la lasciassero risuonare senza congiunger­la al cuore» . Certo, per diverso tempo l’opera dell’abate di Solesmes resterà un li­bro di lettura spirituale individuale, e la rinnovata vita liturgica non uscirà quasi dall’ambito monasti­co . 
Altri centri di rinnovamento monastico benedettino, e quindi di rifondazione della liturgia cattolica, furono l’abbazia di Beuron, in Germania (dom Maur Wolter) e il monastero de La Pierre-qui-vire (dom Jean-Baptiste Muard).
Sempre nell’ambito di questa esigenza di riforma della “pietà”, emerge anche la necessità di riscopri­re un diverso e più fecondo approccio al dogma: il titolo di un’opera molto diffusa di A. Tanquerey, Dogmes generateurs de la pieté (Paris 1926), è emblematico.
c. L’attività caritativa – apostolica – sociale – missionaria aveva trovato nell’800 una fiori­tu­ra enorme. Contemporaneamente, la situazione alla fine dell’800 è ormai quella di una rottura con­su­­mata, di una grande distanza che si è creata tra la Chiesa e il mondo moderno, ormai costituito in au­tonomia e tendenzialmente ostile all’ambito della Chiesa. Al cristiano si pone dunque il pro­ble­ma di come debba collocarsi tra questi due mondi cui appartiene: quali spazi, quali vie, quale senso può ave­re l’agire del cristiano nell’ambito della cultura, del sociale, del politico? L’americanismo, co­me il modernismo, è un momento critico per la riflessione cristiana nella direzione indicata, un mo­mento in cui la coscienza cristiana ha dovuto riformularsi in maniera più critica e consapevole. Ame­ri­ca­ni­smo è un nome coniato in maniera un po’ spregiativa dagli Europei in riferimento al cat­to­li­cesimo norda­me­ricano. Il mondo cattolico americano era numericamente piccolo ma molto atti­vo. Esso si caratterizzava per una mentalità ben precisa: il cristianesimo delle virtù passive è finito, il cristianesi­mo dell’umiltà, della mortificazione, della preghiera è terminato; ora è il momento del cri­stianesi­mo dell’azione: bisogna agire, bisogna fare. La domanda era: è possibile trasportare anche in Europa que­sto tipo di cristianesimo? 
Il libro di un cistercense, Jean Baptiste Chautard, L’âme de tout apostolat (1910) ebbe un’enorme dif­fusione in Europa, diventando il libro classico di formazione dei cristiani impegnati nell’azione. Esso prendeva di mira in modo polemico un tipo di uomo e di cristiano:
“L’uomo apostolico il quale non riconosce questi principi e credesse di poter produrre la più lieve traccia di vita spirituale senza attingerla totalmente da Gesù ci farebbe credere che la sua ignoranza di teologia è uguale alla sua sciocca presunzione. Ora la condotta pratica di chi si occupa delle opere come se Gesù non fosse il solo principio di vita è chiamata eresia dell’azione; con tale espressione si condanna l’aberrazione di un apostolo il quale, dimenticando che la parte sua è secondaria e subordinata, attendesse alla buona riuscita del suo apostolato unicamente dalla sua attività personale e dalla sua capacità. E non è forse praticamente la negazione di una grande parte del trattato della grazia, eresia dell’azione, l’attività febbrile che si sostituisce all’azione di Dio, la grazia disconosciuta, l’orgoglio umano che vuole neutralizzare Gesù, la vita soprannaturale, la potenza della preghiera, l’economia della redenzione collocate almeno praticamente nel numero delle astrazioni?...”.
Tutto il libro richiama continuamente il primato della grazia, il primato dei sacramenti, della preghie­ra. Tra le condizioni del carattere cristiano dell’azione è dunque decisiva questa dimensione inte­­rio­re .   
In questo clima si inserisce la condanna dell’americanismo, con la lettera Testem benevolentiae, inviata da papa Leone XIII all’Arcivescovo di Baltimora (1899) : si condanna l’opi­nione di un possibile accomodamento dei dogmi ad un senso moderno, conforme all’acquisita ma­turità dell’uomo contemporaneo; viene condannata anche la distinzione delle virtù cristiane in atti­ve e passive, le prime più consone ai tempi moderni; viene infine condannato il disprezzo della vi­ta religiosa e dei voti religiosi, visti come l’esempio tipico delle virtù “passive”.

2. Ascetica e mistica: il dibattito Poulain - Saudreau
a. I termini della questione.Le esigenze e i temi proposti dal “movimento mistico” incontrano l’attenzione e l’interesse dei teologi, i quali vengono spinti ad approfondire la riflessione sui presupposti dogmatici della vita spirituale del cristiano, mettendo così a fuoco temi come la grazia santificante e l’inabitazione dello Spirito santo e i suoi doni, la questione sacramentale e la teologia liturgica, la teologia del “corpo mistico” ecc. Si assiste ad una rinnovata considerazione del c.d. “orga­­nismo soprannaturale” del cristiano, cioè della vita divina in lui. E’ in questo modo che si avvia un riavvicinamento tra la scienza teologica e la vita cristiana, che deve molto alla ripresa della tradizio­ne tomista, in particolare della dottrina di san Tommaso sulla perfezione cristiana e i doni dello Spi­­rito santo, che accompagnano il cammino mistico. Si possono segnalare qui i trattati di André-Marie Meynard, Traité de la vie intérieure (1885) e di A. Tanquerey, Précis de théologie ascétique et mystique (1923), oltre ai domenicani Juan Arintero e Réginald Garrigou-Lagrange .
In questa prospettiva, dunque, appare naturale porre al centro il problema dell’esperienza mistica, e quin­di del rapporto tra ascetica e mistica in ordine al conseguimento della perfezione cristiana. Diamo anzitutto qualche cenno essenziale su questi due termini. La parola ascetica (dal greco àskesis, che vuol dire “pratica, esercizio”) vuole sottolineare la dimensione di attività, spesso faticosa, del­la vita spirituale: è la fase tipica dei principianti, che si esercitano nelle virtù, applicandosi soprat­tutto con lo sforzo della volontà. E’ una specie di “ginnastica dell’anima”, in cui l’accento è posto sullo sforzo della persona. La parola mistica, invece (dalla radice del verbo greco mùo, che vuol di­re “tacere”, da cui deriva anche il sostantivo mysterion), mette l’accento sull’azione di Dio nel­l’ani­ma: si tratta di un atteggiamento più passivo, in cui l’attenzione è posta soprattutto sull’azione di Dio, che opera nell’anima quello che vuole, quando vuole e come vuole, senza poter essere con­di­zionato neanche dalla pratica ascetica delle virtù.
Quali sono dunque le questioni che si agitano in questo inizio del XX secolo? Da una parte, ci si chie­de se l’“organismo soprannaturale” del cristiano debba normalmente svilupparsi fino alla con­tem­plazione mistica e quindi se vocazione alla santità e vocazione alla mistica non deb­ba­no essere con­siderate praticamente equivalenti; dall’altra parte, si avverte che la questione in gio­co è pre­ci­sa­men­te quella del rapporto tra ascetica e mistica: tra questi due momenti del cammino spi­ri­tuale vi è con­tinuità, con una crescita continua dall’uno all’altro, oppure lo stadio mistico rap­pre­senta un vero e proprio salto di qualità, attuabile solo per un gratuito intervento di Dio? .
L’opera di Auguste Saudreau (Les degrés de la vie spirituelle, Paris 1896), prete diocesano, canonico di Angers, propone una tesi radicalmente innovativa, perché l’opi­nio­ne comune, allora, sia tra i mistici che fra i teologi, era che la mistica fosse un cammino straor­di­nario e gratuito, del tutto eccezionale, accompagnato da grazie particolari, cui nessuno poteva aspi­ra­re senza una chiamata speciale . Egli al contrario sostiene una con­ti­nuità tra ascetica e mistica: «E’ opinione abbastanza comune – scrive nell’opera citata – […] che fra l’orazione comune e la contemplazione corra una differenza considerevole, vi sia un fossato tal­mente profondo che per superarlo occorra come un volo repentino dell’anima, un soffio impe­tuoso della grazia, un’operazione quasi miracolosa dello Spirito di Dio. Ciò che abbiamo detto fin qui [Saudreau si avvale, a sostegno della sua tesi, dell’autorità di personaggi come Fénelon, Tere­sa d’Avila, Francesco di Sales, Giovanni della Croce…] dimostra chiaramente che la realtà è molto di­versa, che il sentiero che conduce alla contemplazione […] sale su una china ininterrotta fino a quel­l’alto grado della vita spirituale […] fuori del caso di un privilegio rarissimo e assolutamente gra­tuito, l’ascesa dell’anima verso la contemplazione segue un cammino lento e regolare» .
La tesi di Saudreau, seguita dai domenicani Arintero, Garrigou-Lagrange, Gardeil, costituisce in fon­do una ripresa della tradizione spirituale-teologica che non riconosce distinzione tra contemplazio­ne acquisita e contemplazione infusa, per cui la vita mistica è l’evoluzione normale e ordinaria del­la vita cristiana. L’esperienza mistica – sostiene Saudreau – «non è una grazia gratis data, come i più ritenevano essere,ma appartiene alla grazia santificante: Dio la dona a tutti quei credenti che si dispongono attivamente a riceverla» . L’impostazione metodologica è nettamente speculativo-deduttiva. La conseguen­­za pratica è che “la contemplazione è molto meno rara di quanto si creda comunemente”, come re­cita il titolo del capitolo più famoso del libro di Saudreau. Va osservato che questo orientamento adot­ta una nozione di “mistica” piuttosto blanda, dalla quale vengono anzitutto espunti i fenomeni straor­dinari e che viene in alcuni seguaci del canonico di Angers intesa semplicemente come una “cono­scenza amorosa”, che si dà secondo “un certo grado di passività” e in alcuni casi si riscontra nel­la semplice consolazione .
L’opera del gesuita belga Augustin-François Poulain (Des grâces d’oraison,Paris 1901) costituì il fron­te principale della resistenza a quella tesi innovativa, riproponendo l’opinione comune, secondo la quale esiste un netto salto di qualità tra orazione ordinaria e orazione mistica: quest’ultima, come ora­zione “soprannaturale”, è il luogo della passività di fronte all’iniziativa divina. Nella sua opera, egli definisce “mistici” «quegli atti o stati soprannaturali che non possono essere prodotti dai nostri sfor­zi…nemmeno debolmente, nemmeno per un istante» . L’orientamento è qui di tipo fenomenologico-psicologico, e quindi il metodo più induttivo: Poulain «non scruta i prin­cì­pi teoretici, ma guarda alla concreta esistenza dei cristiani» ; così la contemplatio infusa è considerata una grazia straordinaria e rarissima nella vita spirituale. A fianco di Poulain si schierò la scuola carmelitana: fra tutti, Crisógono de Jesús Sacramentado e Gabriele di S. Maria Maddalena.
b. Qualche valutazione. Notiamo anzitutto, in questo dibattito, due aspetti tipici dell’ap­proc­cio teologico del tempo: da una parte, la netta distinzione tra “natura” e “soprannatura”; dall’altra, la concentrazione sulla preghiera della discussione attorno alla vita spirituale del cristiano.
Ma quale sarà il guadagno teoretico di questa discussione sul problema mistico? “Un modo più corretto di porre il problema dell’unità della vita cristiana”: più che cercare di delimitare i rispettivi confini dell’“ascetica” e della “mistica”, si andrà nella direzione di misurare l’autenticità dell’una e dell’altra in base alla loro coerenza (“omogeneità”) con la vita teologale di cui entrambe sono espressione. In questo quadro il momento mistico apparirà sempre meno come lo sviluppo normale o necessario della vita teologale e l’unità di ascetica e mistica non sarà da intendere nel senso di una gradualità sistematica, che deve necessariamente condurre al momento mistico. Alla fine sembrerà più corretto parlare, piuttosto che di “ascetica”, di “esperienza cristiana”, entro la quale e in omogeneità con essa troverà posto l’esperienza mistica in quanto tale.
In estrema sintesi, potremmo raffigurare così, con il linguaggio di G. Moioli , le posizioni delle due correnti di pensiero e la soluzione che alla fine del dibattito è emersa ai nostri giorni:
Saudreau: omogeneità necessaria della mistica nei confronti dell’esperienza cristiana ordinaria;
Poulain: (tendenziale) eterogeneità non-necessaria nei confronti dell’esperienza “teologale”
Moioli: omogeneità non-necessaria.
Federico Ruiz, intelligentemente, permarcare la continuità-differenza rispetto all’esperienza cristiana ordinaria propone di usare l’espressione esperienza cristiana mistica, dove “mistica” è una deter­mi­na­zione ulteriore dell’esperienza cristiana, piuttosto che esperienza mistica cristiana, che è ambi­gua, perché “cristiana” potrebbe sembrare una semplice aggiunta o specificazione di una “esperienza mistica” comune e universale tutta da definire. 

3. L’istituzione della cattedra di Ascetica e Mistica
Nei primi decenni del secolo XX, il Magistero della Chiesa, pur impegnato a combattere la contesta­zione di carattere teologico-intellettuale del modernismo, mostrò una certa attenzione nei confronti dei fermenti di risveglio che provenivano dalla base ecclesiale, arrivando a farsi promotore di una nuova sensibilità nei confronti della “vita interiore”. Nel documento Sacrorum antistitum del 1° novembre 1909, papa Pio X promuove l’insegnamento della disciplina spirituale nei seminari. Così nel 1917 la cattedra di Ascetica e Mistica è istituita all’Angelicum, tenuta dal p. Garrigou-Lagrange; nel 1919 viene aperta alla Gregoriana, con il p. Ottavio Marchetti. Nella lettera Con grande soddisfazione del 10 novembre 1919 al p. Marchetti , Benedetto XV parla di “una cattedra di teologia ascetico-mistica, mirante a procurare una più profonda formazione del clero”, perché i giovani sacerdoti non siano digiuni dei principi della vita spirituale. La scuola deve non solo formare “dotti direttori di spirito”, ma ha anche la funzione di “correggere quell’ascetismo vago e sentimentale e quel­l’erro­neo misticismo che....non mancano anche oggi di serpeggiare nel popolo, con grave pericolo delle ani­me” . Il sottofondo è quindi ancora quello delle preoccupazioni antimoderni­ste. La definizione giuridica dell’insegnamento, a livello delle facoltà teologiche, avviene solo con la Costitu­zione pontificia di Pio XI Deus scientiarum Dominus (24 maggio 1931). A seguito di essa, furono ema­nate le disposizioni più precise da parte della Congregazione dei Seminari e delle Università . Ascetica e mistica acquisiscono finalmente pieno diritto di cittadinanza nel curriculum ufficiale degli studi teologici, anche se con uno status giuridico piuttosto singolare e po­co persuasivo, dal momento che le due discipline sono chiaramente distinte, mentre la riflessione teologica andava unificandole, e l’ascetica veniva inserita tra le discipline ausiliarie, men­tre la misti­ca veniva annoverata nel numero delle discipline speciali.
I vantaggi fondamentali derivati dall’istituzionalizzazione dell’insegnamento furono due: da una parte si realizzarono «un approfondimento progressivo e una riflessione scientifica sui temi suscitati dal “movimento mistico”, anche dopo che la “moda” era passata»; dall’altra si avviò una seria riflessione metodologica riguardo alla nuova disciplina e ai suoi rapporti con le altre discipline teologiche, in particolare la dogmatica e la morale .
I commentatori dell’epoca furono sostanzialmente d’accordo nel ritenere che i provvedimenti citati non prendevano posizione circa le discussioni di carattere metodologico e di contenuto in atto allora .
Il Concilio Vaticano II, a sua volta, contempla la “teologia spirituale” tra le discipline teologiche, trat­tan­do­ne in Sacrosanctum Concilium 16 e in Optatam totius 16 (decreto sulla formazione sacerdo­ta­le).  

4. La nascita della “teologia spirituale”: il dibattito sul metodo nelle riviste La Vie Spirituelle e Revue d’Ascétique et de Mystique
Il confronto sulla natura della mistica rimase per tutto il primo ventennio del XX sec. sostanzialmen­­te ancorato alle figure dei due iniziatori, Poulain e Saudreau, attorno ai quali si raccolse subito un nutrito gruppo di studiosi, schierati da una parte o dall’altra: predominano le posizioni nette, non si conoscono sfumature. Furono l’istituzione della cattedra di ascetica e mistica e il sorgere di nu­me­ro­se riviste dedicate alla vita spirituale a favorire il moltiplicarsi e il differenziarsi delle posizio­ni, che si fecero «meno organiche, meno perentorie, meno esaustive». Lo «stile meno intransi­gente delle parti in polemica» dischiuse presto «la possibilità di un certo riavvicinamento tra le diver­se scuole» .
Con gli anni venti si inaugura una seconda stagione della controversia: il movimento mistico è ormai un proliferare di studi e di interventi sempre più ampi e appassionati. E’ nata ormai la “teologia asce­tica e mistica” e gli stessi studi sull’esperienza mistica vengono inseriti in un quadro più organi­co. La teologia dunque si è riavvicinata all’esperienza cristiana, ha ritrovato un interesse annebbiato, se non perduto; emerge perciò il problema del metodo di questo accostamento, che in realtà è un pro­blema di individuazione dell’oggetto da studiare. Due orientamenti, nettamente distinti, emergen­ti dagli articoli programmatici delle due nuove riviste dedicate ai pro­blemi “ascetico-mistici”:
a. La Vie Spirituelle ascétique et mystique (Paris, 1919) esprime l’orientamento dei teologi domenicani e si ricollega alla corrente ispirata da Saudreau. L’articolo principale del primo numero è scritto da Réginald Garrigou-Lagrange, morto nel 1964, titolare per quasi cinquant’anni della cattedra di teologia ascetica e mistica dell’Angelicum; amava definirsi “l’ultimo dei tomisti”. In «La théologie ascétique et mystique ou la doctrine spirituelle» , l’autore descrive la teologia ascetico-mistica come applicazione dei princìpi della teologia morale al cammino concreto delle anime. E’ evidente la concezione direttiva della nuova disciplina. Garrigou-Lagrange è estremamente diffidente nei confronti della psicologia e del suo utilizzo come strumento di lettura degli eventi spirituali. Il metodo della teologia ascetico-mistica deve essere «rigorosamente deduttivo: partendo da princìpi dottrinali si doveva raggiungere solo in seconda battuta l’esperienza concreta. Si va dalla teoria all’esistenza, e non viceversa» . La perfezione cristiana e i mezzi per raggiungerla devono essere determinati “alla luce dei princìpi della teologia” dogmatica. Appare molto forte l’esigenza di definire i concetti, le “nozioni”, la “natura” delle cose. Il teologo domenicano parla di una “descrizio­ne dei fatti” della vita ascetica e mistica, accompagnata dalla testimonianza dei santi, ma sempre al fine di “determinare la natura di questi fatti o stati interiori”, che di fatto vengono ridotti ad una verifi­ca del dato dogmatico (di fat­to nell’articolo alle testimonianze di Teresa di Gesù e di Giovanni della Croce sono dedicate poche righe in tutto). Garrigou-Lagrange si dichiara d’accordo con l’opinione di “un eccellente tomista”, il quale afferma che “la mistica deve essere considerata secondo i grandi principi della teologia per dare un senso e studiare una scienza, non un insieme di fenomeni”.
Il problema è esattamente questo: individuare l’oggetto della teologia ascetica e mistica. L’impo­sta­zione data dal teologo domenicano fa perno essenzialmente sui fenomeni dell’orazione: il test è sem­pre l’esperienza mistica, o almeno contemplativa. In coerenza con questo disegno, «i teologi di que­sto indirizzo rivolsero la loro attenzione soprattutto alla dottrina dei doni dello Spirito santo. L’ado­zio­ne di questo schema teoretico, tenuto in grande stima da Tommaso, venne giudicata come par­ti­co­larmente conveniente per la comprensione della vita mistica. Per usare un’immagine familiare a questa scuola, se le virtù rappresentavano la metodica applicazione dell’uomo spirituale, i caden­za­ti colpi di remo del cristiano, necessari per avanzare nella vita di grazia, i doni erano invece il li­be­ro rigonfiarsi delle vele dell’organismo soprannaturale al vento dello Spirito» . Co­me una stagione favorevole, nella quale il credente si scopre “agito” da Dio e «dove tutto diveniva facile, connaturale, istintivo», dopo le fatiche degli inizi della vita spirituale . Ora, «se l’espe­rienza mistica è uno degli effetti dell’effusione dello Spirito sui cristiani […] tutti i cristiani sono virtualmente chiamati ad avere accesso ai più alti gradi dell’esperienza mistica» . Insomma, una presentazione della vita cristiana avvincente ma fin troppo schema­tica, che non incontrò sicuramente tra gli studiosi il consenso che si sperava.
b. La Revue d’Ascétique et de Mystique (Toulouse, 1920) è invece l’espressione dei teologi gesuiti. Insieme con i docenti dell’Università Gregoriana, essi si pongono in continuità ideale con la posizione di Poulain. Tra di essi spiccano i nomi di J. de Guibert e di J.-L. Bainvel; anche M. de la Taille e J. Maréchal possono essere accomunati a questo indirizzo, così come in generale i teologi carmelitani, con in testa Crisógono de Jesús Sacramentadoe Gabriele di S. Maria Maddalena.
Nell’articolo apparso sul primo numero della rivista , Joseph De Guibert afferma anzitutto la continuità tra ascetica e mistica: il loro ambito comune è la “vita spirituale”, la “spiritualità”, meglio, la “spiritualità cattolica”. Essa è oggetto di innumerevoli studi, ma qua­si tutti ispirati da “preoccupazioni d’ordine pratico”, mentre si lamenta la mancanza di studi stori­ci (di storia della spiritualità cattolica). D’altro canto gli studi psicologici seri, scientifici, applicati ai fatti della vita spirituale sono ancora molto “giovani”. E invece appare necessario lo “studio specu­lativo, scientifico, della nostra spiritualità”: conosciamo – osserva De Guibert – la vita materiale (bio­logia, le scienze umane in generale), ma poco quella spirituale, che del resto incrocia talvolta le ri­cerche dei non credenti. Come si può restare inerti? “Alla vita spirituale stessa…dobbiamo la cura di un perfetto rigore scientifico, di una informazione completa, di un metodo rigoroso…”.
Quale metodo? Non una semplice collezione di fatti, né un lavoro puramente deduttivo. Il primato è del punto di vista teologico, è la fede che raggiunge la verità più profonda della vita spirituale. E tuttavia i progressi degli studi storici e psicologici mettono nelle nostre mani delle risorse che prima non avevamo: sarebbe sciocco non approfittarne, limitandosi alla semplice deduzione di conclusioni dai dogmi e dai principi. La tradizione dogmatica stessa arriva fino a noi attraverso le testimonianze e i testi: se li ignoriamo, abbiamo una spiritualità “puramente filosofica”. L’obiettivo del lavoro teologico è “raggiungere il dato rivelato”: per questo deve essere interpellato il lavoro degli storici. Così anche per la psicologia: nessun rifiuto aprioristico, ma intelligente utilizzo; il sopran­naturale “aiuta, completa, trasforma, eleva” la nostra attività psichica naturale. Il teologo dunque de­ve essere anche storico, e iniziato al metodo della psicologia: non si possono più trascurare “gli aiu­ti che la Provvidenza ci offre…per meglio conoscere la vita spirituale”.
De Guibert e i teologi della sua corrente sembrano dunque riallacciarsi alla «aspirazione descrittiva inau­gurata dalla pubblicazione di Des grâces d’oraison» . Secondo questi autori il pro­cedimento deduttivo rimane inconcludente, «assolutamente incapace di muovere un solo passo verso l’esperienza e la sua comprensione» . In sintesi, de Guibert appare molto più atten­to al contesto contemporaneo, ai progressi delle scienze umane; il suo sguardo appare meno preoc­cu­pato di salvaguardare l’incontaminazione della teologia e più libero, disincantato. Egli è effettiva­men­te più consapevole che “il fine cui giungere è la comprensione di un dato storico”.
La scuola gesuitica mostrò dunque una notevole diffidenza «nei confronti dell’impiego della dottrina dei doni dello Spirito santo come strumento concettuale per la comprensione del fatto mistico. Una tale teoria appariva inetta ad abbracciare la varietà e la ricchezza di esperienze che si manifesta­va­no nella concreta esistenza cristiana […] La definizione della mistica veniva così guadagnata, da­gli autori di questa scuola, per via descrittiva. Se si concede credito alla testimonianza diretta dei mi­stici, era logico concludere che “la contemplazione infusa è un’orazione distinta dalle altre specifica­mente, e non solo per il suo grado d’intensità” [M. Olphe-Galliard]; qualcosa, quindi, di ben distinto dalle consolazioni spirituali e dai normali incanti della grazia […] Una tale esperienza proveni­va dalla benevolenza divina […] Essa è una grazia “straordinaria”; e la tesi di una chiamata universale alla contemplazione infusa doveva essere respinta perché azzardata ed imprudente» .
Un tentativo di bilancio. Che bilancio si può fare delle discussioni cui abbiamo accennato, che caratterizzarono i primi decenni di vita della teologia “ascetica e mistica” e poi “spirituale”?
In termini generali, il risultato più importante e duraturo è costituito sicuramente dall’affer­mar­si e dal consolidarsi della nuova materia, che consente allo studio della vita spirituale di fare un salto di qualità enorme: l’accoglienza quasi istantanea della “nuova” disciplina nell’ambito teologico «denuncia che vi erano domande, se non inevase, per lo meno sottovalutate nella coscienza credente; e che i cristiani, allorché dovevano nutrire la propria pietà e discernere la propria esperienza, si trovavano ad utilizzare orditi concettuali non solo inadatti, ma anche poco rigorosi. […] un fatto pare incontestabile: la teologia spirituale venne alla luce per rispondere ad una sincera interrogazione credente…» .
Per quanto riguarda invece la specifica questione dell’esperienza mistica, «sebbene si sia notevolmente ricomposta la frattura tra le due possibili interpretazioni…permane ancora, nelle discussioni attuali, una strisciante difficoltà ad intendersi su metodi, termini e prospettive. Lo stesso concetto di mistica, per quanto abbia conosciuto in questi ultimi decenni degli studi autorevolissimi, non è stato sottratto da una certa sfuggevolezza: il lamentarne l’imprecisione è, ancora adesso, quasi un luogo comune» .
Infine, quanto alla controversia sul metodo della teologia spirituale, sembra di poter concludere che dopo le forti antinomie iniziali, ben rappresentate dalle posizioni di Garrigou-Lagrange e de Guibert, si sia raggiunto tra gli studiosi un accordo di «dimensioni quasi plebiscitarie» circa «l’esi­gen­za di utilizzare un metodo “composito” per la comprensione dell’esperienza cristiana; un proce­dimento, cioè, che prevede al suo interno, in reciproco incastro, un momento “descrittivo” e uno più “teologico”» , un orientamento deduttivo, che parte «dalla comprensione dei princìpi teologici, per poi guadagnare la concretezza dell’esistenza» e uno induttivo, che invece percorre il cammino inverso . In realtà, non sembra sufficiente affermare che il metodo della teologia spirituale dev’essere al tempo stesso e dottrinale e sperimentale; occorre andare più a fondo, arrivare ad una più precisa qualificazione. Il problema conobbe storicamente un tornante significativo nella controversia che vide coinvolti A. Stolz e Gabriele di S. Maria Maddalena. Giovanni Moioli, dal canto suo, ne fece un capitolo decisivo e tormentato della sua ricerca sullo statuto della teologia spirituale. Vedremo in seguito le acquisizioni cui è pervenuto il teologo milanese. Per ora possiamo solo constatare che la questione del metodo, e quindi della fondazione epistemologica della materia, è un indice particolarmente evidente della «situazione di travaglio» in cui si dibatte ancora oggi la teologia spirituale .

5.Lo spazio della teologia spirituale nella relazione con la teologia morale
Collocandosi stabilmente nel panorama accademico degli studi teologici, la nuova disciplina ascetico-mistica pone diverse questioni di rapporto con altri settori del sapere teologico, in particolare con la teologia morale, e con le scienze umane, in primo luogo la psicologia. Vedremo come il dato principale che emerge è sempre più il riferimento alla nozione di esperienza cristiana. Diventerà allora sempre più urgente precisare tale nozione e chiedersi in che senso la teologia può, anzi, deve occuparsi di tale oggetto. 
Diversi teologi di primo piano intervennero negli anni ’20 e ’30 intorno alla questione del rapporto tra la teologia ascetico-mistica e la teologia morale:A. Vermeersch, J. De Guibert, J. Heerinckx. J. Maritain. Il guadagno fondamentale è la messa in discussione del carattere “pratico” della teologia spirituale, che su questo punto si ritrovava a contendere il campo alla teologia morale, mentre era indiscusso il carattere speculativo per eccellenza della teologia dogmatica. La teologia spirituale sembrava dunque destinata a formare soprattutto dei buoni direttori spirituali e si distingueva perlopiù per il fatto di occuparsi della “perfezione” cristiana (i c.d. “consigli”), mentre alla morale era affidato l’ambito dei “precetti” validi e obbligatori per tutti, se non addirittura precisamente ciò che riguardava la “patologia morale”, cioè ciò che è obbligatorio sotto pena di peccato. Il manuale di A. Tanquerey (1924) citato da Vaiani definisce l’Ascetica appunto come “scienza della perfezione cristiana” e subito dopo come “vera arte” (ars artium regimen animarum), cioè come “tecnica”, sia pure molto raffinata, nelle mani di sapienti direttori d’anime. Evidentemente una tale impostazione doveva entrare in crisi non appena la teologia morale fosse uscita da “una prospettiva minimalistica di morale della legge” e non della carità. La fatica di distinguere la nascente “teologia spirituale” da una morale in evoluzione e le perplessità derivanti da una sua riduzione a semplice “casuistica dell’agire spirituale” hanno alla fine come risultato quello di mettere in discussione il carattere “pratico” della teologia spirituale, per ritrovare una sua dignità più specificamente teologica.  
Come descrivere allora il rapporto tra  teologia spirituale e teologia morale? Accanto a qualche autore che continua a perpetuare l’idea che le due discipline abbiano un oggetto materiale diverso ma contiguo, cioè due parti complementari di quella che è la vita cristiana, vi è chi intende ricondurre la teologia spirituale alla teologia morale, facendola confluire in essa. Ma la posizione oggi prevalente è quella che ritiene che teologia spirituale e teologia morale non si differenzino per il diverso oggetto della loro ricerca, ma per la diversa formalità di indagine dello stesso oggetto, che è sempre la stessa, e tutta, la vita cristiana. Per dirla con le parole utilizzate da Moioli, la teologia spirituale è comprensione dell’esperienza cristiana (come un “sapere-la-verità”, cioè una relazione integrale dell’uomo con la verità offerta nella Rivelazione) in quanto soggettivizzazione secondo verità dell’oggettivo cristiano; la teologia morale (e dogmatica) è comprensione dell’esperienza cristiana (sempre nel senso di un “sapere-la-verità”) in quanto affermazione oggettiva della verità .
Nella storia della teologia spirituale, la corretta distinzione nei confronti della teologia morale inizia a delinearsi quando cambia la concezione stessa della teologia, che si comprende come conoscenza del fenomeno storico che è Gesù Cristo e dei fenomeni storici ad esso collegati. In questa prospettiva potrà diventare oggetto della teologia spirituale il rapporto tra esperienza e valore morale, che non è solo la concreta scelta che il cristiano fa in riferimento a quel valore (agire morale), ma anche l’assunzione, l’appropriazione del valore morale stesso da parte del cristiano. 

6. Teologia spirituale e psicologia: il dibattito tra A. Stolz e Gabriele di S. Maria Maddalena
Abbiamo già visto, parlando dei due orientamenti metodologici suggeriti dalle riviste nate in Francia nel 1919-1920, l’emergere della domanda sul ruolo da assegnare agli studi psicologici in teologia spirituale: un ruolo minimo, secondario secondo La Vie spirituelle (Garrigou-Lagrange, domenicani), un ruolo pienamente integrato nel metodo e nei contenuti della teologia spirituale secondo la Revue d’Ascétique et de Mystique (De Guibert, gesuiti). Verso gli anni ’40, il problema si ripropone nel corso del dibattito che vede impegnati il benedettino A. Stolz e il carmelitano Gabriele di S. Maria Maddalena.
a. Anselm Stolz, benedettino, nato nel 1900 presso Düsseldorf, dal 1922 studente e dal 1928 insegnante al Pont. Ateneo S.Anselmo di Roma, dove morì nel 1942. La sua opera principale, Theologie der Mystik, è del 1936. In essa Stolz si rifà alla teologia dei Padri della Chiesa, nel linguaggio dei qua­­­li la terminologia “mistica” non fa riferimento a particolari esperienze psicologiche, ma alla strut­­tura stessa della vita cristiana, che è ontologicamente mistica. La realtà dell’esperienza mistica del cristiano è la vita di Grazia, donataci dalla Redenzione di Cristo, infusa in noi nel Battesimo e ali­mentata dalla vita sacramentale, che è appunto partecipazione alla passione e risurrezione di Cristo. Si tratta dunque di una realtà che sta al di là dell’esperienza psicologica che si può avere di essa.
Nel cap. III si sottolinea che l’unione mistica è già donata con il Battesi­mo e l’Eucaristia è il sacramento della mistica perché realizza l’unione mistica. E’ una mistica sacra­­­men­tale e l’ordine sacramentale per definizione non è sperimentale . Nel cap. IX si dice che l’e­spe­rienza mistica è «“trans psicologica”», che non vuol dire che essa «si svolga totalmente al di là dell’ambito psicologico», o che «non ammetta una particolare attività psichica»; ma tale attività non è «l’essenza della mistica» . La mistica, dunque, ricorda Stolz nella Conclusione della sua opera, «non si riduce ad una esperienza sentimentale della verità religiosa»; essa consiste nella inserzione nella vita divina attuata tramite i sacramenti, in particolare l’Eucaristia. Le reazioni propriamente psicologiche «non appartengono necessariamente alla vita mistica […]; esse costituiscono il modo proprio [di alcune persone] di ricevere la grazia dell’esperienza mistica. Di fronte a fenomeni di tale natura bisogna sul principio prendere un atteggiamento di diffidenza» . Queste speciali reazioni saranno oggetto della psicologia della mistica. 
Gli intenti fondamentali dell’opera di Stolz sembrano due:
a. proporre l’antropologia cristiana come fondamento al discorso sulla “mistica”: non solo l’inabi­tazione o i doni dello Spirito santo, ma l’integralità della visione cristiana sull’uomo (vd. il tema patristico e tradizionale dell’uomo pellegrino e del “ritorno al Paradiso”). E’ quindi un tentativo di superare la settorializzazione manualistica, nella ricerca dei fondamenti dogmatici dell’esperienza spirituale (vd. per es. l’impostazione di Royo Marin)
b. insistere sull’oggettività della sintesi teologica, di fronte allo psicologismo imperante, a causa dell’impostazione data al tema dai grandi mistici spagnoli del XVI sec., che avevano ridotto, secondo Stolz, il contenuto teologico della mistica cristiana a stati e fenomeni psicologici particolari, ad una semplice preoccupazione introspettiva (non è un caso che Giovanni della Croce sia volutamente ignorato nell’opera dell’autore benedettino).
Ora, Stolz non nega che tutto ciò, in quanto è vissuto, sia in qualche modo oggetto di esperienza: ma vuole che il teologo faccia un discorso sulla mistica (e sull’ascetica) indipendentemente da ogni risvolto psicologico.
Qualche valutazione.Va anzitutto messa in rilievo la forte preoccupazione di sottolineare il carattere teologico, e ontologico, della mistica cristiana, come unione con Cristo attraverso i Sacramenti, soprattutto l’Eucaristia (vd. cap. III. Cf anche la sottolineatura della dimensione ecclesiale nel cap. V). Una “mistica sacramentale” che dà ampio rilievo alla partecipazione alla morte e risurrezione di Cristo. La “mistica” è dunque vista come compimento “normale” dell’esistenza cristiana, come “esperienza intima della vita divina” che il cristiano porta in sé. In questo senso Stolz non insiste molto sulla mistica come vertice dell’orazione, ma intende fortemente radicarla nella liturgia, nella vita ecclesiale, nella parola di Dio. Tuttavia, nel momento in cui parla di “esperienza”, sembra inevitabile parlare anche delle risonanze psicologiche e della dimensione storica di essa, dati che a Stolz sembrano interessare ben poco. E’ vero che l’affermazione della secondarietà dello studio psicologico vuole sottolineare la non essenzialità dei fenomeni psichici particolari, o dei “doni esterni”, come le stigmate; ma la prima disposizione che Stolz raccomanda di fronte ai fenomeni psicologici è, come abbiamo visto, un “atteggiamento di diffidenza”. La psicologia della mistica ha valore solo “nella vita pratica e nella direzione delle anime”.    
Il discorso di Stolz si avvicina dunque a quello dei tomisti, ma in realtà va più in là dei tomisti stessi, affermando che le esperienze vissute dall’uomo “in ritorno verso il Paradiso” non interessano al teologo come tale. L’esperienza storica dei mistici non viene presa in considerazione neppure a quel titolo estrinseco a cui era stata assunta dai tomisti. Al teologo deve interessare solo il senso dell’uomo nel disegno di Dio e la possibilità oggettiva che gli è accordata di raggiungerlo associandosi alla passione-resurrezione di Cristo . Quando per esempio Paolo racconta di essere stato “rapito al terzo cielo” (2Cor 12,1-5), non importano assolutamente le analisi esegetiche dei tomisti che cercano di capire come l’apostolo abbia avuto conoscenza di ciò, come l’anima abbia vissuto la relazione con il corpo nello stato di rapimento ecc.: Paolo, secondo Stolz, vuole comunicare la realtà del ritorno al Paradiso e dunque non c’è altro modo di spiegare la sua esperienza mistica se non illustrando il destino dell’uomo che, nella morte e risurrezione di Cristo, torna in quella condizione di familiarità con il suo Creatore che gli permette di partecipare alla sua vita intima, come i nostri primogenitori.
La domanda critica, infine, è se una “teologia della mistica” così intesa, praticamente identificata con un’antropologia teologica (dove si parla cioè generalmente dell’uomo inserito in Cristo, in cammino verso l’unione piena con Lui, attraverso la partecipazione alla sua morte e risurrezione...), abbia ragione di sussistere come disciplina autonoma.
Sembra emergere, in questa posizione, anche l’impostazione del benedettino rigido, ligio alla Regola, che comporta abbandono della volontà propria e assunzione della volontà di Dio, espressa appunto nella Regola.
Di fatto, il discorso di Stolz ripropone in modo radicale la questione della possibilità e della legittimità per la teologia di occuparsi dell’esperienza. In questo, in fondo, porta alle estreme conseguenze la stessa posizione tradizionale incarnata principalmente da Garrigou-Lagrange e il fragile compromesso sul carattere “composito” del metodo della teologia spirituale. Il nodo che viene a galla è esattamente il problema di fondo della teologia spirituale, cioè il rapporto tra ontologia e fenomenologia della vita cristiana: la realtà, l’essenza di questa vita ha o no un aspetto visibile, registrabile, verificabile, e quindi soprattutto teologicamente rilevante? 

b. Gabriele di S.Maria Maddalena, carmelitano belga, nato nel 1893, studente a Lovanio e a Roma (Angelicum), dal 1931 fino alla morte (1953) docente di Teologia spirituale al Teresianum di Roma. Il contributo che qui ci interessa è un articolo pubblicato nel 1940, Indole psicologica della teologia spirituale.
La replica a Stolz consiste anzitutto nell’affermare che gli effetti della grazia, che i mistici descrivono, hanno valore teologico. Le realtà oggettive dei misteri cristiani (a cui Stolz aveva richiamato con tanta energia) producono nella coscienza, nell’esperienza del cristiano determinati riflessi psicologici, di cui la teologia deve occuparsi. Stolz aveva identificato la (esperienza) mistica con la teologia (con l’antropologia); secondo Gabriele, la teologia spirituale è “lo studio teologico della vita spirituale nelle condizioni psicologiche”. Di questa definizione, l’autore carmelitano sottolinea che l’oggetto della teologia spirituale non sono semplicemente le “condizioni psicologiche” in quanto tali (in se stesse, non sono un oggetto teologico), bensì la “vita spirituale”, la sua “evoluzione”, considerata “in concreto”, e quindi anche nelle sue condizioni psicologiche, che in questo modo assumono rilevanza anche per la teologia. La questione di fondo è quella del posto che si deve dare nella teologia spirituale all’esperienza, e quindi agli elementi psicologici, perché “l’esperienza umana è di ordine psicologico”. “De facto – conclude Gabriele – la teologia spirituale contemporanea presenta un carattere psicologico”.
In questa prospettiva, Gabriele insiste da una parte sull’indole scientifica della considerazione psicologica del fatto mistico, e quindi sulla sua universalità e necessità; dall’altra, sull’indole teologica della considerazione psicologica della vita spirituale. Infine, l’attenzione al dato psicologico (Gabriele ritiene che la dottrina spirituale perfetta richieda una sintesi dell’aspetto teologico e psicologico della vita spirituale) è esigito dalla finalità pratica, direttiva della teologia spirituale. 
Qualche valutazione. L’impostazione appare molto interessante e feconda: a Gabriele interessa ricostruire l’«evoluzione della vita spirituale, considerata “in concreto”, cioè estendendola fino alle sue condizioni psicologiche». La critica principale che si può fare è che questa operazione viene intesa come l’elaborazione di uno schema tipico, alla fine derivato, dedotto dalla “teologia speculativa”. A Gabriele interessa per es. la “dottrina mistica” di s. Giovanni della Croce, la “legge della vita spirituale” che egli formula, non tanto l’esperienza in quanto tale (si veda per es. la presentazione dei “concetti” di notte e di unione del matrimonio spirituale).
Nel confronto tra “teologia spirituale” e “teologia comune”, in particolare la teologia morale, Gabriele rileva che si utilizzano gli stessi concetti, ma in teologia spirituale sono “accompagnati dalla loro concreta determinazione psicologica”, cioè descrivono “gli effetti psicologici prodotti nell’anima dalla grazia”. Al concetto puramente teologico viene “aggiunta” una nota sperimentale. Appare fortissima l’esigenza di concettualizzazione posta da Gabriele: la teologia spirituale è lo stesso apparato della teologia comune (dell’antropologia teologica), cui “si aggiunge” una connotazione psicologica. Illuminante mi sembra la distinzione tra teologia comune (la dogmatica, la teologia speculativa, contrapposta a quella pratica che è la teologia spirituale) e teologia spirituale quanto al loro oggetto. L’oggetto della teologia spirituale, in particolare, è “l’evoluzione della vita spirituale sperimentata dall’anima”: “sopra l’oggetto della teologia comune - quindi - la teologia spirituale aggiunge la differenza di ‘essere sperimentato’”. Ma “è sotto la luce della teologia che si determinano le norme psicologiche che regolano l’esperienza del soggetto...”. Si precisa che l’esperienza psicologica studiata dalla teologia spirituale “non si conosce con una semplice deduzione, perché l’esperienza è immediata”. E tuttavia, “è la spiegazione teologica che all’esperienza conferisce la nota di universalità e la portata scientifica”. Vd. anche la conclusione, “moioliana”: la teologia spirituale come “un compito speciale della teologia, che consiste nella applicazione della teologia all’esperienza psicologica dell’anima...per spiegare l’esperienza medesima”.  
Il progetto di teologia spirituale di Gabriele consiste dunque nel «condurre lo studio dell’evoluzione della vita di grazia nel soggetto umano fino a dedurne le condizioni psicologiche universali in cui tale evoluzione avviene» . E’ il tentativo, dunque, di costruire “una specie di fenomenologia a priori”, una “fenomenologia normativa del soprannaturale in noi”, dove dal dato ontologico si estrapola il modo generale di strutturarsi della psicologia spirituale. Ma questo discorso è teologicamente possibile? non è una pura ipotesi? In Gabriele, il punto di partenza è sempre la teologia della Grazia, l’uomo nella Grazia, e da esso deduce a priori il cammino psicologico normativo con il quale poi discernere i cammini concreti della persone. L’impostazione della teologia spirituale rimane dunque essenzialmente “speculativa”, più deduttiva che induttiva. La teologia non ha ancora imparato a leggere la storia, la teologia spirituale non ha ancora trovato il suo oggetto formale, perché non è ancora riuscita a definire precisamente cos’è l’esperienza cristiana.

Valutazione conclusiva del dibattito: la questione del rapporto della teologia con l’ambito del vissuto cristiano è ancora incentrata sul termine “psicologia”: il cristiano ha una sua psicologia, nella quale assume il valore morale e lo esegue, nella quale coglie il senso delle cose secondo Dio e vi si adegua. Il dibattito verte sulla domanda se questa psicologia sia o meno teologicamente rilevante. Il termine, però, rimane ambiguo: basti vedere la diffidenza, il sospetto che ancora lo circondano, o il modo in cui viene inteso da Stolz, quando riferisce le “reazioni psichiche” agli “stati straordinari ma non essenziali” dell’esperienza mistica. In ogni caso, il dibattito fa emergere con maggiore chiarezza il tema dell’interesse della teologia per l’esperienza. Occorreva recuperare e valorizzare l’intuizione di De Guibert riguardo alla “spiritualità” come dato storico-psicologico, come dato positivo, e domandarsi se e a quali condizioni esso potesse e dovesse essere teologicamente compreso.

7. La teologia spirituale nei manuali fino al Concilio Vaticano II
Come testo sintomatico della teologia spirituale classica che è giunta fino al Vaticano II, e anche oltre, prendiamo in considerazione il manuale di Antonio Royo Marín, Teologia della perfezione cristiana .
La “teologia della perfezione” possiede un me­to­do composito, deduttivo e induttivo . La nozione di “vita mistica” coincide con quella di “perfezione cristiana” ; benché in precedenza l’autore abbia identificato la perfezione cristiana nella carità, tuttavia la carità è intesa come esperienza dell’azione divina nell’uomo (impostazione astratta e individualistica). La Parte I definisce il fine della vita cristiana, che è la gloria di Dio, cui serve, come “fine prossimo e relativo”, la santificazione dell’anima, che consiste nella configurazione a Cristo. La Parte II presente i principi fondamentali della teologia della perfezione: l’“or­ganismo soprannaturale” e il suo sviluppo, le virtù infuse e i doni dello Spirito santo, la natura della perfezione cristiana e la vita mistica: in pratica è un’antropologia teo­lo­gica, una parte del trattato “De gratia”.
La Parte III si incarica di svolgere questi principi nel loro sviluppo dinamico, strutturandolo secondo gli schemi classici dei “gradi” e delle “vie”: è propriamente la teologia ascetico-mistica, articolata su un momento negativo (peccato, lotta, purificazioni: si noti il linguaggio nettamente ispirato a Giovanni della Croce) e un momento positivo; quest’ultimo a sua volta distingue i “mezzi fondamentali di perfezione” (i Sacramenti, in particolare l’eucaristia, le virtù infuse e i doni dello Spirito santo e il percorso ascensionale dell’anima in cui il cammino spirituale viene identificato con le tappe della preghiera: nove gradi, dalla preghiera vocale fino al ”matrimonio spirituale”) e i “mezzi secondari di perfezione (tra cui l’esame di coscienza, la conformità alla volontà di Dio, il miglioramento del proprio temperamento, la lettura spirituale, la direzione spirituale e il discernimento degli spiriti).
Sulla teologia classica dei doni dello Spirito santo, si presenta la sintesi della dottrina di s. Tommaso , con la relazione tra doni e virtù infuse. Il “luogo proprio” delle virtù teologali, nell’ambito di un’antropologia schematica e ristretta, è ritrovato nelle “facoltà”: la fede è riferita all’intelletto (cioè alle realtà rivelate, alla “verità” intesa in senso intellettualistico, concettuale) , la carità alla volontà e la speranza alla volontà o, come avviene in Giovanni della Croce, alla memoria. Ma questo è un impoverimento della prospettiva biblica, nella quale «fede, speranza e carità esprimono piuttosto atteggiamenti globali o totali dell’uomo di fronte a Dio, tanto che ognuno di essi può definire totalmente l’uomo stesso. La fede dice tutto l’uomo di fronte a Dio (che lo riconosce, che lo afferma come egli si fa riconoscere, che si affida a lui, che aderisce a lui), come la speranza, come la carità» . Quello delle virtù e dei doni è uno schematismo tendenzialmente piuttosto rigido: pensato per mettere in evidenza la libertà e imprevedibilità dell’azione dello Spirito santo, fonte della genialità e della creatività cristiane, esso ha spesso conosciuto la tendenza pericolosa di «fare dei doni stessi qualcosa che supera la fede, la speranza, la carità: “le virtù perfezionate dai doni”. Si ipotizzava così in teologia spirituale un passaggio dalla vita sotto il regime delle virtù, ad una vita sotto il regime dei doni concepiti come “abiti operativi” nuovi, rispetto a quelli delle virtù teologali». Così «il cammino della perfezione è stato ipotizzato, secondo il passaggio da un modo “umano”, discorsivo di esprimersi e di operare nella fede, speranza, carità, ad un modo “sovraumano”, intuitivo, “passivo”, “mistico”. L’esperienza mistica dovrebbe allora misurare la perfezione del cristiano: salvo poi a definire che cosa si intenda per “mistica”, soprattutto di fronte alla difficoltà di verificare nei santi concreti lo schema sistematico ipotizzato» .   
Tra i mezzi fondamentali di perfe­zio­ne, particolare importanza è data all’Eucaristia: si vedano i “fini ed effetti” della Messa: tutto è sbilanciato sul versante di ciò che fa l’uomo, non di ciò che fa Dio nell’Eucaristia . Tra i mezzi secondari esterni di perfezione, si cita anche la “lettura spi­ri­tuale”: anzi­tutto della Scrittura, cui vengono dedicate tre righe…
La Parte IV, infine, tratta dei fenomeni mistici straordinari, descritti accuratamente e distesamente.
Esemplare per chiarezza e sistematicità (quasi un manuale di algebra), ottimo dal punto di vista didattico, questo genere di manuale, di impostazione fondamentalmente neotomista, segue una filosofia essenzialista, non un interesse storico, riflettendo una teologia universale, piuttosto impermeabile al contesto culturale e geografico. La Scrittura viene utilizzata per provare tesi enunciate a priori.
In generale, analizzando il manuale di A. Royo Marín si vede benissimo come dei tre soggetti principali del­la vita spirituale: l’uomo, Dio e il mondo, è Dio quello assolutamente preponderante. L’uo­mo appare come schiacciato dal “soprannaturale”, la sua esistenza “naturale” sembra messa tra pa­ren­tesi e molto lacunosa è la prospettiva comunitaria, cioè ecclesiale. Il mondo, a sua volta, non c’è, o se c’è è un pericolo (vd. Parte III, cap. II: La lotta contro il mondo) e quindi pochissimo spazio è da­to all’agi­re sociale del cristiano, alla lotta contro le ingiustizie e per la promozione umana ecc.. Si capisce allora come gli sviluppi suc­ces­si­vi dei trattati di teologia spirituale si incarichino di recuperare quelle dimensioni che nella im­po­­sta­zione imperante fino al Vaticano II erano state penalizzate: così negli anni ’70 la prospettiva che privilegia l’attenzione alla coscienza uma­na e all’esperienza recupera il soggetto nel suo desi­derio di “autorealizzazione” e “umanizzazione piena”, men­tre la “prospettiva socio-culturale” degli anni ’80 porta alla ribalta lo scenario del mondo (cultura, rapporti so­cia­li ecc.).

 

La “teologia dell’esperienza cristiana” di Jean Mouroux

 

Quello di J. Mouroux (1901-1973, nato a Digione, prete diocesano, insegnante nel Seminario di Di­gio­­ne) è il primo tentativo serio di precisare l’ambito proprio dell’esperienza religiosa e in parti­co­­la­re dell’esperienza cristiana, riproponendo quest’ultima come tema della teologia. Moioli lo defi­ni­sce “un atto di coraggio”, dopo i sospetti suscitati dal Modernismo . Rispetto a Balthasar, che negli stessi anni si avvicina al tema della fede cristiana vissuta, segnatamente sotto il profilo della santità, Mouroux è più attento a mantenere spessore (anche soggettivo) all’esperienza cristiana e al suo fenomeno: una ade­­gua­ta fenomenologia del credere cristiano deve leggere teologicamente proprio l’esperienza, il feno­­me­no, non solo il messaggio che in esso appare. Mouroux parte dalla scoperta della vastità del­l’espe­rienza, sulla base della filosofia personalistica; la domanda radicale è: è possibile un’esperienza cri­­stia­na? può la fede essere ritrascritta in esperienza? E qual è la teologia che può far questo in termini ade­­guati?
Mouroux è ben consapevole della “pericolosità” dell’argomento, ma non vuole sottrarsi alla sfida; egli met­te bene a fuoco la “situazione paradossale” che il credente vive: «da una parte egli si affida a un Dio che si è incarnato, che ha voluto farsi vedere e toccare; e dall’altra parte egli sperimenta nella sua car­ne il peso di un’assenza, di una visione che non è ancora beatifica», tanto che è divenuta così ricor­ren­­te nella storia cristiana la tentazione di contrapporre l’esperienza alla fede . Nonostante i pregiudizi che gravano sul tema dell’esperienza, secondo Mouroux non è più possibile evitare di affrontare teo­lo­gi­ca­mente il problema. Così egli inquadra la situazione presente e i suoi prodromi storici: «Crisi pro­te­stante ed esperienza della giustificazione; crisi giansenista ed espe­rien­za della delectatio; crisi quietista ed esperienza della purità di spirito; crisi tradizionalista e sopras­sal­to che innalza “l’esperienza contro la ragione”; crisi modernista ed esperienza del “cuore contro il cervello” – altrettante tappe dolorose nel­la storia recente del cattolicesimo. Ma questa instancabile risor­genza della medesima rivendicazione te­stimonia a sufficienza della realtà di un problema, che rinasce senza sosta e ogni volta è massacrato» .
La sua opera fondamentale, L’expérience chrétienne. Introduction à une théologie (1952) (trad. it.: 1956), è divisa in tre parti: nella Prima parte vengono affrontati alcuni problemi di fondo; la Secon­da parte è un’indagine biblica sul tema dell’esperienza (in particolare in Matteo, Paolo e nella Pri­ma lettera di Giovanni); la Terza parte tenta infine di delineare alcune “linee di struttura” dell’espe­rien­za cristiana, che devono cioè essere necessariamente presenti in ogni esperienza che rivendichi per se stessa l’appellativo di “cristiana”: la dimensione ecclesiale, il riferimento a Gesù Cristo, la di­men­­sio­ne affettiva, il “sentire spirituale” e infine la fede.
Noi ci limiteremo a prendere in considerazione le riflessioni contenute nei primi due capitoli de L’espe­­rienza cristiana, che cercano di delineare e di fondare filosoficamente le nozioni di espe­rien­za e di esperienza religiosa in particolare e di indagare la possibilità di una “esperienza cristia­na”.

1. Esperienza
a. Integralità e carattere personale. Mouroux prende le mosse da un confronto critico con l’ope­­ra dello psicologo ame­ri­ca­no William James, in particolare con il libro The Varieties of Reli­gious Experience, un clas­si­co della psicologia religiosa, apparso nel 1902. Esso, secondo il teo­lo­go fran­cese, mutilava il concetto di esperienza religiosa a tre livelli: negandone l’elemento sociale ed isti­tu­zionale, disconoscendo l’im­por­tanza della sua componente intellettiva, infine ritenendo del tut­to marginale la questione stessa di Dio, da cui si sforzava di prescindere. «La dolcezza diffusa e im­pal­­pabile, i sentimenti ovat­tati, la vertigine delle emozioni sembravano essere, per lo psicologo ame­ricano, i tratti distintivi e il contenuto essenziale dell’esperienza religiosa» .
Insomma, un’evidente riduzione della nozione di esperienza, di fronte alla quale Mouroux afferma innan­zitutto l’integralità dell’esperienza religiosa, che coinvolge cioè tutti i livelli della persona. Per Mouroux, l’esperienza vera si ha solo quando è personale, cioè implica la perso­na in quanto, secondo tut­ti i suoi livelli, vive o assume la complessità dei rapporti che intes­so­no l’esistenza: l’esperienza è l’at­to con cui la persona si coglie in relazione col mondo, con se stes­sa o con Dio.
Il primo grande errore da cui guardarsi è esattamente la spersonalizzazione dell’esperienza, conce­pi­ta al di fuori della relazione personale che la fonda e in cui si realizza. Esso si esprime in due con­ce­zioni errate: a. l’empirismo: l’esperienza è esperienza semplicemente delle “cose”, il soggetto è as­so­lu­tamente passivo; qui l’espe­rienza religiosa è esperienza esclusivamente “sensitiva”, ridotta a ciò che si subisce, che si sen­te passivamente: impressioni, emozioni, sentimenti... “Com’è l’acqua, cal­da o fredda? Provala!”. Può essere il caso di forme estreme di devozionalismo; b. l’idealismo: l’espe­­rienza è pura costru­zio­­ne del soggetto, espressione dell’attività assoluta dello spi­rito, le cose so­­no scomparse; l’esperienza religiosa diventa un’esperienza razionalista e si affer­ma l’autonomia as­so­lu­ta dell’io. Può essere il caso (estremo) di soggetti che si concepiscono come investiti di una mis­­sione divina o di un ruolo sacrificale.
b. La “struttura” dell’esperienza e i suoi “livelli”. L’aspetto proprio, qualificante dell’espe­rien­­za non è tanto il registrare degli stati psicologici (gioia, tristezza ecc.) (in questo caso l’espe­rien­­za sarebbe pura passività), quanto il cogliere degli atti (di pensiero, di volontà). L’atto è molto più nostro, più personale dello stato. Questo è evidente nell’atto libero: è perché vedo, voglio e scel­­go che ho esperienza della libertà.
L’esperienza è qualcosa di strutturato, è esperienza complessa di attività e passività, e conosce inol­tre due specie di passività. Essa dunque può voler dire: a. porre un atto; b. subire un’attività; c. ac­co­gliere un’attività (su questo Mouroux insiste molto). Si tratta di forme normalmente collegate fra di lo­ro: la struttura dell’esperienza è determinata dai legami che si stabiliscono tra queste tre forme; la strut­tura dell’esperienza è intessuta di relazioni. Mouroux esemplifica osservando come «ogni giorno noi fac­ciamo l’esperienza degli altri…Un’esperienza atti­va: io conosco, percepisco, comprendo gli altri; rea­gisco positivamente nei loro riguardi con l’a­mo­­re e l’odio; li ricerco o li fuggo. Un’esperienza subi­ta: gli altri rappresentano una resistenza, un ostacolo – fisico, mentale, morale – nel quale mio mal­grado io urto. Un’esperienza accolta: mi a­pro e accetto gli altri; mi lascio penetrare e arricchire o, invece, mi rifiuto, sto in disparte, mi presto sen­za donarmi – faccia negativa dell’accogliere» . Queste forme si intrec­cia­no continuamente nella giornata che viviamo.
Vi sono infine tre livelli dell’esperienza: empirico (esperienza non vagliata, non interiorizzata: è il sen­tire spontaneo, il puro dato emotivo; può essere solo un punto di partenza, un momento provvi­so­rio da integrare), sperimentale (esperienza cosciente e provocata, fondata su elementi misurabili, che vengono manipolati: è la scienza; c’è dunque un coinvolgimento psicologico della persona, la co­scienza recepisce e organizza la molteplicità delle impressioni in una conoscenza scientifica) ed espe­rienziale: esperienza in cui è coinvolta la totalità della persona, come “coscienza che si pos­siede” e “amore che si dona”, esperienza pienamente personale: ogni esperienza spirituale au­­ten­ti­ca è di tipo esperienziale. Più che “esperienza dell’oggetto” (riduzione empirista), l’espe­rien­za vera è espe­rienza del modo personale di rapportarsi agli “oggetti”, esperienza dello strutturarsi del movi­men­to della persona.

2. Esperienza religiosa
E’ l’atto, o l’insieme di atti, con cui l’uomo si coglie in relazione con Dio, con l’Assoluto. E’ per­ciò esperienza la più personale che ci sia. Di essa, Mouroux presenta tre caratteri es­sen­ziali:
a. Esperienza integrante: il dinamismo dell’esperienza religiosa è quello che opera la sintesi più alta e completa di tutti i livelli della persona, che vi si trovano impegnati e gerarchicamente inte­­grati: componente intellettuale: una certa idea di Dio, adesione dell’intelligenza alla verità di Dio e alla verità del mio rapporto con lui; componente volontaria: atto di libertà, di generosità, ab­ban­dono a Dio, accoglienza del suo dono e dono di me stesso; componente affettiva: gioia, canto, lo­de, adorazione, ringraziamento, “vibrazione di tutto l’essere”, visitato da Dio; componente attiva: azio­ni, gesti, lavoro, servizio, “fare tutto per la gloria di Dio”; componente comunitaria: l’uomo è sem­pre davanti a Dio come membro di una immensa famiglia.
L’esperienza religiosa è l’esperienza strutturata per eccellenza, cioè esperienza “sinfonica”, tota­liz­zante, “integrale”. Secondo Balthasar, che nel primo volume di Gloria fa sua la nozione di espe­rienza proposta da Mouroux, l’esperienza cristiana «comporta…la progressiva introduzione del cre­dente nella realtà glo­ba­le della fede e la progressiva “realizzazione” di questa» . L’esperienza reli­gio­sa, continua Mouroux, è un prendere coscienza di tutte le componenti dette e delle loro relazioni e della loro integrazione nella semplicità di un atto che le unifica e trascende tutte: l’atto della per­so­na che si dà tutta a Dio che la chiama (l’esperienza del­la vocazione è dunque l’esperienza reli­giosa per eccellenza?). L’esperienza religiosa è la “co­scien­za dell’unificazione (almeno incoativa) del­l’essere e della vita sotto l’azione di Dio”.
«Davanti a Dio – sembra dire Mouroux – non ci sono vibrazioni monocordi. Con Lui non si può agi­re di riserva: non ci si consacra parzialmente. Nel santuario della Sua presenza deve entrare tutto l’uo­mo – mente, anima e corpo – non le sole sue emozioni, o i soli suoi sentimenti. E’ tutto l’uomo che incontra tutto Dio» .

b. Esperienza del sacro. E’ un’esperienza paradossale, per due aspetti. Il primo è dato dal ca­­rat­tere insieme trascendente e immanente di Dio, per cui l’esperienza religiosa è esperienza di una alterità, di una distanza infinita e al tempo stesso esperienza dell’interiorizzazione e persona­liz­­za­zione della relazione con Dio, passaggio dal piano ontologico a quello spirituale, da una comu­nio­­ne naturale ad una comunione personale: “accedo alla verità del mio essere abbandonandomi a Dio”. Il secondo aspetto del paradosso è dato dal duplice movimento del “raccogliersi” e del “de­cen­­trarsi”: il mio centro diventa Dio.

C.A. Bernard, «Ascesi», in Nuovo Dizionario di Spiritualità, a cura di S. De Fiores e T. Goffi, Paoline, Cinisello Balsamo 1985, 65-79: 68-69. Non è assente da questa proposta spirituale la polemica contro quello che alcuni autori moderni hanno definito “asceticismo”, cioè la «tendenza troppo volontarista e fondata su una psicologia che teneva poco conto dell’affettività», che ha talvolta condotto a «eccessi di tensione nervosa e morale» (ivi, 69).

Denz. 2201-2269.

Denz. 2351-2374.

La critica contemporanea si trova concorde nell’affermare che, riguardo a Fénelon, «si trattò più di una condanna ad una tendenza che ad una precisa dottrina» (C. Passoni, «Il Dio del cuore umano». L’intelligenza spirituale nell’opera di S. Francesco di Sales (1567-1622), Glossa, Milano 2007, 117). Si deve tener conto del clima del tempo, per cui affermazioni certo forti e, al limite, pericolose ma comunque ortodosse, «sembravano preludere alle deviazioni dottrinali e morali proprie del Quietismo […] Per buona parte le loro opere rivelano più un difetto di espressione che dei positivi errori» (G. Joppin, cit. in C. Passoni, «Il Dio del cuore umano», 117). 

G. Colombo, «Esperienza e rivelazione nel pensiero di George Tyrrell», in Id., La ragione teologica, Glossa, Milano 1995, 475-503: 501; originariamente in Scuola Cattolica 106/1978, 544-568.

G. Colombo, «Esperienza e rivelazione nel pensiero di George Tyrrell», 490-491.

G. Colombo, «Esperienza e rivelazione nel pensiero di George Tyrrell», 496.

G. Colombo, «Esperienza e rivelazione nel pensiero di George Tyrrell», 499-502.

Cf C. García, Teología espiritual contemporánea. Corrientes y perspectivas, Ed. Monte Carmelo, Burgos 2002, 15-61. 

G. Cazzulani, Quelli che amano conoscono Dio. La teologia della spiritualità cristiana di Giovanni Moioli (1931-1984), Milano, Glossa, 2002, 14.

Cf G. Moioli, «Teologia spirituale», in Dizionario teologico interdisciplinare, 38.

Cf J.M. García, «La questione epistemologica della teologia spirituale», 43.

T. Goffi, La Spiritualità dell’Ottocento, EDB, Bologna 1989, 119.

Cf A. Rayez, «France», in Dictionnaire de Spiritualité, t. V, Beauchesne, Paris 1964, 971-972.

T. Goffi, La Spiritualità dell’Ottocento, 120.

Cf A. Rayez, «France», 972.

Dopo essere stato abate di Chambarand (Isère) nel 1897, dal 1899 Chautard fu abate di Sept-Fons, succedendo a dom Sebastien Wyart; nel 1927 restaurò l’abbazia di Orval, morì nel 1935.

Per questo paragrafo cf. G. Moioli, Riflessioni sulla spiritualità cristiana. Contemplazione e azione, Scuola di AC – Settore giovani, s.d.

Denz. 3340-3346.

Più in generale, è la stessa teologia dogmatica che in questo periodo conosce diversi fermenti di rinnovamento: «Tra Ottocento e inizio Novecento si sono registrati segnali di “riequilibrio” del metodo teologico. Torna il punto di vista della “storia” insieme con il principio della “tradizione” e della “comunità”. E’ l’epoca di Mohler, di Rosmini, di Newman. Torna a rivendicare il suo spazio, nel dominio del pensiero teologico, la sfera del “simbolico” […] Si impone, inoltre, l’ottica della “prassi” […] il massiccio e sistematico ritorno alle fonti bibliche e patristiche fa riaffiorare in teologia il concetto di storia della salvezza e, con esso, l’attenzione al vissuto della salvezza nell’oggi. La prospettiva “esperienziale”, insomma, riemerge decisamente nell’orizzonte teologico» (D. Sorrentino, «Vissuto di fede e santità. Provocazioni per la teologia», Asprenas 4 (2005) 505-522: 506-507).

Cf C. Vaiani, Dispense, 12-13.

Cf C. García, Teología espiritual contemporánea, 16ss.

Cf C. Vaiani, Dispense, 14.

G. Cazzulani, «La teologia della spiritualità cristiana di Giovanni Moioli», in G. Como (ed.), Giovanni Moioli. Profilo di un uomo spirituale, Áncora, Milano 2010, 10-35:13.

Cf G. Cazzulani, Quelli che amano conoscono Dio, 23.

Cf C. Vaiani, Dispense, 13-14.

G. Cazzulani, Quelli che amano conoscono Dio, 19.

Cf G. Moioli, «Teologia spirituale», in Nuo­vo dizionario di spiritualità, 1601.

Benedictus PP. XV, «“Con grande soddisfazione”. Ad R. P. Octavium Marchetti, S.I., de schola theologiae ascetico-mysticae in Gregoriana Universitate», Acta Apostolicae Sedis 12 (1920) 29-31.

AAS 12 (1920) 29.

AAS 23 (1931) 271-281.

Cf C. Vaiani, Dispense, 15. Così G. Cazzulani commenta questo episodio: «Una disciplina che era transfuga dalle aule universitarie da tempo, e che aveva trovato asilo nei chiostri, nei beghinaggi, nei libretti di esercizi spirituali, faceva ora il primo passo per rientrarvi. Cominciava a cicatrizzarsi una faglia che, a detta di H.U. von Balthasar, era tanto dolorosa e nefasta quanto la separazione tra Roma e Costantinopoli. Per il momento la teologia spirituale (o meglio: ascetica e mistica, dato che con questo nome la si chiamava) era un ospite talmente minuscolo da non dar troppo nell’occhio. Ma di lì a poco qualcuno cominciò a porre problemi a quest’inaspettata intrusione. Che cosa ci facevano i mistici a scuola? Poteva chiamarsi “teologia” una disciplina con un così ampio riferimento psicologico? Era possibile distinguerla chiaramente dalla teologia morale, che condivideva il suo stesso interesse per la vita cristiana? […]» («La teologia della spiritualità cristiana di Giovanni Moioli», 15). Nel 1959 sorse il primo Istituto di Spiritualità romano al Teresianum, seguito da quelli all’Angelicum e alla Gregoriana e, negli anni ’70, all’Antonianum e all’UPS.

Cf G. Moioli, «Teologia spirituale», in Dizionario teologico interdisciplinare, 38-41. Cf anche G. Cazzulani, Quelli che amano conoscono Dio, 60-68.

G. Cazzulani, Quelli che amano conoscono Dio, 28.

La Vie Spirituelle 1 (1919) 7-19.

G. Cazzulani, Quelli che amano conoscono Dio, 29-30.

G. Cazzulani, Quelli che amano conoscono Dio, 31.

G. Cazzulani, Quelli che amano conoscono Dio, 32.

G. Cazzulani, Quelli che amano conoscono Dio, 32-33.

«Les études de théologie ascétique et mystique. Comment les comprendre?», Revue d’Ascétique et de Mystique 1 (1920) 1-19.

G. Cazzulani, Quelli che amano conoscono Dio, 36.

G. Cazzulani, Quelli che amano conoscono Dio, 36-37.

G. Cazzulani, Quelli che amano conoscono Dio, 37-39. Su questo dibattito si veda anche G. Moioli, «Mistica cristiana», in Nuovo Dizionario di Spiritualità, 985-1001.

Forse la data di nascita della “teologia spirituale” può essere identificata con la pubblicazione del manuale di J. de Guibert, Theologia spiritualis, ascetica et mystica (Roma 1926), nel quale si comincia «ad adoperare il termine teologia spirituale per indicare la vita spirituale in tutta la sua complessità, superando così il dualismo esistente fino ad allora tra l’ascetica e la mistica» (J.M. García, «La questione epistemologica della teologia spirituale», 45, n.60).

G. Cazzulani, Quelli che amano conoscono Dio, 41-42.

G. Cazzulani, Quelli che amano conoscono Dio, 42-43.

G. Cazzulani, Quelli che amano conoscono Dio, 56.

Così riassume la questione P.L. Boracco: «la teologia non doveva solo “dettare”, deduttivamente, cosa era santità cristiana, ma umilmente, e prima, “ascoltare”, “comprendere” e “interpretare” le espressioni sante della vita cristiana» («Il rapporto tra teologia e santità in Hans Urs von Balthasar», Rivista Teologica di Lugano 6 (2001) 33-56: 40).

Cf G. Cazzulani, Quelli che amano conoscono Dio, 57-59.

Cf. G. Moioli, «L’acquisizione del tema dell’esperienza da parte della teolo­gia e la teologia della “spiritualità” cristiana», Teologia 6 (1981) 145-153.

A. Stolz, La scala del Paradiso. Teologia della mistica, Morcelliana, Brescia 1979, 21-29.

A. Stolz, La scala del Paradiso. Teologia della mistica, 102.

A. Stolz, La scala del Paradiso. Teologia della mistica, 136-137.

Cf G. Moioli, «Teologia spirituale», in Dizionario teologico interdisciplinare, 44-45.

Cf G. Moioli, «Teologia spirituale», in Dizionario teologico interdisciplinare, 45.

Madrid 1954 (6^ ed. italiana: 1965).

A. Royo Marín, Teologia della perfezione cristiana, Paoline, Cinisello B. 19877, 29-30.

A. Royo Marín, Teologia della perfezione cristiana, 328.

A. Royo Marín, Teologia della perfezione cristiana, 198-199.

Si veda la definizione di fede come atto esclusivamente intellettuale (Teologia della perfezione cristiana, 555).

G. Moioli, «Virtù teologali e doni dello Spirito santo nella vita coniugale», in Id., La spiritualità familiare. Frammenti di riflessione, In Dialogo, Milano 2008, 157-166: 160.

G. Moioli, «Virtù teologali e doni dello Spirito santo nella vita coniugale», 162.

A. Royo Marín, Teologia della perfezione cristiana, 549.

Cf G. Moioli, «Dimensione esperienziale della spiritualità», in B. Calati – B. Secondin – T.P. Zecca (edd.), Spiritualità. Fisionomia e compiti, Roma, LAS, 1981, 45-62: 53.

G. Cazzulani, Quelli che amano conoscono Dio, 95.

J. Mouroux, L’expérience chrétienne. Introduction a une théologie, Aubier-Montaigne, Paris 1952, 5.

G. Cazzulani, Quelli che amano conoscono Dio, 97.

J. Mouroux, L’expérience chrétienne, 23.

H.U. von Balthasar, Gloria. Una estetica teologica, vol. I: La percezione della forma, Jaca Book, Milano 1971, 221.

G. Cazzulani, Quelli che amano conoscono Dio, 98-99.

c. Esperienza mediata(“médiatisée): la presenza e “possesso” di Dio si realizzano sempre at­tra­verso segni, cioè non in modo diretto (non “di fronte”, come “contatto puro di essenza con es­sen­za”…almeno per quanto riguarda l’esperienza di quaggiù!) e nemmeno indiretto (cioè attraverso altro, da cui si dedurrebbe una presenza: questa è assenza di contatto reale e personale, e dunque sop­pressione di una esperienza autentica). Attraverso segni: il segno attraverso il quale si coglie Dio è l’atto religioso stesso, cioè per noi la fede, simpliciter: l’espe­rienza religiosa è la coscienza della me­diazione che l’atto religioso stesso realizza, la co­scien­za della relazione che esso stabilisce con Dio, e insieme la coscienza di Dio come termine che pone la relazione. Dio è raggiunto attraverso l’espe­rienza [e dunque, direi, attraverso la fede in quanto esperienza), come un mezzo di conoscenza che orienta e trascina oltre noi stessi: in questo senso “si supera l’esperienza per raggiungere Dio che la stabilisce, che le dà il suo senso e ne garantisce il valore”.

 

3. La possibilità dell’esperienza cristiana
Il sottotitolo dell’opera di Mouroux (“Introduzione a una teologia”), dice già che è proprio in vista di una teologia che egli affronta il tema dell’esperienza cri­stiana. Mouroux si interroga sulla possibilità teo­lo­gica di una “esperienza cristiana”: ha senso parlare in teo­logia di una “esperienza cristiana”? La risposta viene data riandando alla via aperta dal Concilio di Trento, nella sua opposizione alla con­ce­zione protestante sulla certezza fiduciale dello stato di grazia, cioè dell’essere perdonati

«…si deve dire che a nessuno, che ostenti fiducia e certezza della remissione dei propri peccati e in essa sola si acquieti, sono o sono stati rimessi i peccati…[contro la sufficienza della certezza assoluta dello stato di gra­zia] Ma non si deve nemmeno affermare che quelli realmente giustificati debbano, in modo assoluto e sen­za alcuna esitazione essere interiormente convinti della propria giustificazione; né ritenere che sia assolto dai peccati e giustificato solo colui che crede fermamente di essere stato assolto e giustificato e che l’asso­lu­zione e la giustificazione sia opera soltanto di questa fede…[contro la necessità di tale certezza] infatti nes­su­no può sapere con certezza di fede, libera da ogni possibilità di errore, di avere ottenuto la grazia di Dio [con­tro la possibilità di tale certezza]» .

a. Il problema sollevato dalla Riforma era quello del «grado di sicurezza che l’individuo può rag­giungere circa la propria situazione di grazia» ; in questione è anche il rifiuto della dottrina cattolica sulla confessione sacramentale da parte di Lutero: «Credi fortemente di essere assolto e sarai veramente assolto, qualunque possa essere la tua contrizione», è una delle proposizioni di Lutero condannate dalla bolla Exsurge Domine del 15 maggio 1520 (Denz. 750). Trento respinge la necessità, la sufficienza e la pos­sibilità di una certezza sperimentale assoluta del proprio stato di grazia, cioè dell’aver ricevuto la remissione dei propri peccati:

  • esclude categoricamente la possibilità di una certezza del proprio stato di grazia, assoluta e sperimentale, in quanto, detto con le categorie usate da Mouroux, il Conci­lio rifiuta ogni esperienza empirista della grazia, che misuri il suo valore dall’in­ten­sità del sentire spirituale, che darebbe la possibilità di una evidenza soggettiva della giu­stificazione, e sposta piuttosto il problema su un altro piano, quello esperienziale, di un atteggiamento spirituale complesso. L’atteggiamento cri­stia­no è insieme sguar­do su Dio e sguardo su se stessi: fiducia assoluta in Dio re­den­tore e salvatore, umile timore a riguardo di sé;
  • in questo senso il Concilio esclude anche la necessità di quella certezza assoluta e spe­rimentale, appunto perché si pone in una prospettiva autentica di fede: la fiducia in Dio è fondata sulla parola di Dio, su una promessa, accessibile in Cristo e nei sacramenti della Chiesa: è fede, appunto, non dipende dall’esperienza che possiamo averne (nel senso del poter sperimentare); al primo posto c’è un netto teocentrismo;
  • è esclusa anche la sufficienza di quella certezza: oltre alle riflessioni precedenti, la stes­sa considerazione di sé mette in risalto la propria miseria e debolezza: siamo pec­ca­­tori redenti, mai certi di noi stessi. L’atteggiamento del cattolico è dunque aperto, per­­ché si appoggia sull’appartenenza alla Chiesa e perché è un’uscita da sé, verso Dio.

b. L’atteggiamento condannato dal Concilio riposa su una certezza costrittiva, evidente; quel­lo autenticamente cristiano è dinamico, è slancio verso il mistero di Dio, abbandono in Lui. L’espe­rienza, secondo i luterani, è statica e semplice, come un sentimento che si prova; l’esperienza cri­stiana autentica è dinamica e strutturata. I protestanti riducono la grazia a una “cosa”, che si può possedere e di cui si può fare un’esperienza empirica: è un problema astratto, perché isola la grazia come se si potesse cogliere nella sua purezza. Per i cattolici, la questione della certezza della grazia non può essere astratta dal contesto più generale che è quello dell’esperienza cristiana, la quale è una totalità concreta, un insieme organico e vivente: non è l’esperienza della grazia in quanto tale, ma della vita di grazia. L’esperienza cristiana secondo la tradizione cattolica è di tipo essen­zial­men­te spirituale e soprannaturale, mentre nell’impostazione condannata a Trento si parla di un’espe­rienza puramente psicologica e naturale, spontanea. Il sentire nella visione cattolica è solo un aspet­to della comunione con Dio nella fede, che definisce la vita cristiana, come esperienza che tra­scende il sentire. L’esperienza cristiana mette in questione non solo e non in primo luogo dei feno­me­ni psicologici, ma anzitutto ed essenzialmente dei dati di fede.
c. In sintesi, si deve dire che Trento condanna un modo di concepire l’esperienza ridotta a fiducia, e quest’ultima a sua volta intesa come evidenza soggettiva. Di conseguenza,da un lato il Concilio non ha condannato la possibilità di una esperienza cristiana, dall’altro, in positivo, non ha risolto il problema, ma ha aperto una strada che con­duce obiettivamente alla necessità di elaborare una teologia dell’esperienza cristiana. «La condanna del Concilio di Trento – osserva Mouroux – non pare quindi diretta verso la possibilità di interpretare la fede anche come emozione, ma verso la pretesa di ridurre tutta l’esperienza della giu­­stificazione al solo sentire spirituale. Anzi, secondo Mouroux è proprio in nome dell’ampiezza del con­cetto cristiano di esperienza (l’esperienziale) che il concilio rifiuta la posizione protestante: con­dan­na un’esperienza ridotta al suo feticcio empirista, non l’esperienza cristiana tout court» .
Si deve osservare che la ricostruzione storica del pensiero luterano operata da Mouroux risente delle conoscenze storiografiche del suo tempo ed è molto influenzata dal pensiero accentua­ta­mente confessionale, apologetico e controversistico di alcuni autori, come H. Pinard; in realtà, la stessa teologia cattolica attuale riconosce che il problema della certezza della grazia è marginale in Lutero rispetto invece al tema della giustificazione, come questione della fondazione della giustizia dell’uomo non sui suoi meriti, ma sulla iustitia Dei. Così come oggi appare francamente eccessivo con­siderare il pensiero della Riforma come una semplice antropologia, un semplice discorso sul­l’uo­mo, e non una vera teologia. Non è neppure vero che il tema della certezza della grazia fu il pun­to decisivo del dibattito sulla giustificazione al Concilio di Trento. E tuttavia, fatte queste preci­sa­zioni, si deve concludere non solo che il discorso di Mouroux sull’esperienza cristiana come “espe­rienziale” è esatto, ma anche che è sostanzialmente corretta la sua interpre­ta­zione della dottri­na di Trento su questo punto, benché la teologia di M. abbia ben altre fonti (filo­so­fiche, per esem­pio, soprattutto il personalismo) e trovi nel Concilio più una conferma che una fon­da­zione.

Conclusioni
a. Osserviamo, anzitutto, una precisazione terminologica molto importante per Mouroux: in lui la nozione di “esperienza cristiana” non è sinonimo di “vita cristiana”; mentre la vita cristiana è l’attuazione concreta e vissuta della relazione instaurata con Dio, sulla base della fede, l’esperienza cristiana è la coscienza che il soggetto credente ha di essere nella vita cristiana. La vita cristiana è il fatto, l’esperienza cristiana è l’esplicitazione della coscienza soggettiva ed interiorizzata di questo fatto. In altri termini, «cogliere se stessi in relazione con Dio, è l’esperienza cristiana; essere in rela­zio­ne con Dio, è la vita cristiana».
Dio rimane quindi «doppiamente trascendente all’esperienza»: perché essa non lo esaurisce mai, e perché «essa non coglie mai Dio in se stesso, ma attraverso il velo della fede» . E la fede non è anzitutto un’esperienza: è, insieme alla carità, in primo luogo «il mistero di una vita divina, inserita nelle nostre anime» . C’è un’iniziativa di Dio, un agire di Dio, prima di tutto. La trascendenza assoluta di Dio relativizza in modo essenziale l’esperienza cristiana, che in questa vita non può essere che «un lontano abbozzo del compimento definitivo» . L’esperienza, dunque, va collocata nella prospettiva dell’escatologia.
b. L’esperienza cristiana è dunque totalmente relativa alla vita cristiana, ed essendo quest’ultima costituita da tre realtà, cioè la fede, la Chiesa e Gesù Cristo, anche la natura dell’espe­­rienza cristiana sarà definita da queste realtà. In questo modo, Mouroux arriva anzitutto ad escludere «tre definizioni di esperienza che, di fatto, snaturano l’essenza della esperienza cristiana» .

  • L’esperienza cristiana in primo luogo «ricava ed ottiene tutto il suo contenuto da Gesù Cristo»; la relazione con Gesù Cristo impedisce così che l’esperienza cristiana sia concepita co­me ulteriore rivelazione, cioè raggiunga contenuti nuovi rispetto a quello che è stato rive­la­to in Gesù. L’esperienza cristiana, in secondo luogo, «riceve e ottiene dalla Chiesa le condi­zioni secondo le quali attuarsi»;
  • la relazione con la Chiesa «impedisce così che l’esperienza cristiana divenga un fenomeno puramente soggettivo e quindi normato soltanto da un principio immanente nel soggetto stes­so». L’esperienza cristiana, infine, «ricava ed ottiene il proprio principio immediato dal­la fede»;
  • la relazione con la fede «impedisce così che l’esperienza cristiana divenga un puro fenomeno psicologico».

In conclusione, «l’unica nozione di esperienza adattabile e recepi­bi­le dalla esistenza cristiana è la nozione che fa della esperienza cristiana la coscienza vissuta di un credente della propria fede, vissuta entro la Chiesa, in dipendenza da Cristo» .
c. L’esperienza cristiana è «una nella sua struttura specifica», e insieme «infinitamente diversa nelle sue realizzazioni personali» . E dunque «c’è una teologia dell’espe­rienza cristiana, perché questa ha una struttura di diritto, essenziale e normativa; non c’è teologia del­le esperienze personali se non nella misura in cui queste verificano le linee essenziali di questa strut­tu­ra» . Per il resto – continua Mouroux – le esperienze perso­nali «sono diversificate dall’interno, e strettamente irriducibili, come le persone stesse…Sono un aspet­to, e un elemento, di un divenire irriducibilmente individualizzato» . Una teologia dell’esperien­za cristiana è dunque possibile se si rintraccia una tipologia, in base ai dati della Bibbia e della tra­dizione cristiana: le linee di struttura, una «sintassi universale della vita credente» , un “dover essere” di ogni esperienza personale di cristiani che vogliono essere tali, e quindi anche il criterio di verifica dell’autenticità cristiana delle diverse esperienze di fede, la chiave interpretativa della «tavola screziata e policroma dell’esistenza» cristiana .


H.U. von Balthasar e il progetto di una “agiografia teologica”

«… von Balthasar è il teologo contemporaneo con cui Moioli avverte maggiore affinità» .

1. Il saggio su Teresa di Lisieux (1950). Mouroux ha dunque posto le premesse perché si potesse realizzare una teologia dell’esperienza cri­stiana. Già nel 1950, due anni prima de L’expé­rien­ce chrétienne,Balthasar aveva scritto un sag­gio su Teresa di Lisieux, preceduto da un’Introdu­zio­ne che si rivela di estremo interesse per la nostra inda­­gine sul rapporto tra teo­lo­gia ed esperienza. Vent’anni dopo, nel 1970, il teologo svizzero riunì in un uni­co volume quel saggio e un saggio del 1953 su un’altra carmelitana, Elisabetta di Digione (Elisa­bet­ta della Trinità, 1880-1906): nacque così Sorelle nello Spirito .
Balthasar parte dall’identificazione tra santità e missione: la santità cui ciascun cristiano è chiamato corrisponde alla missione che concretamente gli viene affidata. Questa affermazione non è sempli­cemente la ripetizione di un principio per noi ovvio e sancito dal Concilio Vaticano II, anche se già intui­to e praticato da tempo dalla coscienza cristiana, secondo il quale esiste una “vocazione univer­sale alla santità”; e nemmeno la riproposizione dell’intuizione fortemente sostenuta da Francesco di Sales (si pensi in particolare all’Introduzione alla vita devota), secondo la quale la vera “devo­zio­ne”, e quindi la santità, è possibile in ogni stato e condizione di vita. In realtà, più che proclamare una uguaglianza, Balthasar intende sottolineare una differenza. Ciò corrisponde al suo stile, che è tutt’al­tro che irenicamente “democratico”, ma tende volentieri a rimarcare le differenze, le gerar­chie, le singolarità. Paradigmatico, sul discorso della vocazione cristiana, è il volume Gli stati di vi­ta del cristiano, dove la “meditazione teologica” non si limita affatto a mostrare una generica ugua­glianza di tutte le vocazioni cristiane, ma insiste sulle diverse “separazioni degli stati”.
In questo saggio su Teresa di Gesù Bambino, Balthasar vuole mettere in luce certe vocazioni a una santità “speciale”, particolare, che corrispondono non tanto genericamente alle “vocazioni di speciale con­sa­­crazione”, ma piuttosto alla chiamata a svolgere una missione altrettanto singolare, una missione particolarmente esemplare ed eloquente per la Chiesa intera. Si tratta di santi molto conosciuti e amati, molto popolari, perché sono come un “vangelo vivente”, “l’illustrazione ed esemplificazione del vangelo ai nostri giorni”. Ma essi sono, o dovrebbero essere, figure estremamente significative an­­­che per la teologia, anche se personalmente non furono dei teologi o non fecero teologia, perché la loro esistenza in quanto tale ha un rilievo teologico: la loro vita, la loro santità è “esegesi”, spie­ga­­­zione della rivelazione, manifestazione dell’attualità della rivelazione. Non è una rivelazione ul­te­riore, non potrebbe esserlo, ma contribuisce, secondo Balthasar, a modo suo a illuminare il “deposito del­la fede”, al pari, e anzi più efficacemente per molti aspetti, del ruolo “ufficiale” di inter­preta­zione di ta­le deposito che spetta al magistero nella Chiesa.
In questo senso, dev’esserci un rapporto stretto tra la “teologia speculativa”, teorica, e la “teologia vissuta” dei santi, in particolare come interesse della prima per la seconda. Dopo aver riproposto le sue considerazioni sul rapporto tra teologia e santità, sviluppato nel saggio omonimo, Balthasar critica il modo abituale di realizzare l’agiografia, che si limita a fare delle biografie dei santi, con attenzione ai dati del contesto storico e della psicologia, della personalità dei soggetti considerati. Balthasar propone allo­ra un approccio dall’alto, che studi cioè nei santi le missioni che a loro furono affidate da Dio. Le domande di questa agiografia teologica non saranno dunque principalmente: in che contesto è vis­suto questo santo? che esperienze ha fatto? qual era la sua personalità? qual è stata l’evoluzione del suo cammino di fede?...quanto piuttosto: quale disegno divino si rivela in questa vicenda per­so­nale di santità? che cosa ha voluto dire lo Spirito alla Chiesa attraverso questa figura? quale testi­mo­nianza è stata resa alla verità rivelata? (Lo stesso papa Pio XI aveva più volte affermato in occa­sio­ne della beatificazione e della canonizzazione della santa di Lisieux che essa era una “parola di Dio” al mondo). Notiamo anche che si tratta di domande che relativizzano la persona concreta di quel santo, tendendo a leggerne il cammino di santità non in senso individualistico, bensì nella sua riper­cussione e significatività ecclesiale.
La personalità di questi santi importa poco: essi stessi, dice Balthasar, desiderano che resti in ombra, e risplenda invece la luce del progetto di Dio in loro, l’intenzionalità divina che traspare dal­la loro esi­stenza, che in sé non è molto rilevante. Certo, Balthasar non propone di dividere il “messaggio” dalla “vi­ta”, di “estrarlo”, e quindi astrarlo dalla storia concreta, dalla psicologia stessa del santo, con­cet­tua­lizzando il concreto, spersonalizzando ciò che è personale. Propone piuttosto una fenome­no­logia soprannaturale (il metodo fenomenologico, nella sua accezione più semplice, elementare – lo stesso Husserl che lo impose all’attenzione del mondo filosofico e culturale poi ne propose uno sviluppo che gli stessi discepoli criticarono – consiste nell’osservazione e descrizione della realtà co­sì come appare, il fenomeno appunto,con una specie di “sguardo contemplativo”, senza precon­cet­ti), capace cioè di cogliere nel fenomeno concreto che è l’esistenza del santo quella che ne è l’es­sen­za teo­lo­gi­ca, riferita all’intenzionalità di Dio, di cogliere nel sensibile l’intelligibile, il rivelarsi di Dio che vi ri­splende, la “forma” che dall’alto, cioè da Dio, è data a quella specifica esistenza cri­stiana (è evi­dente la coerenza di questa proposta con la prospettiva di un’“estetica teologica” tipica del teologo svizzero). 
2. Qualche valutazione.L’ingresso di un maestro come Balthasar nell’arena degli studi di spiritualità ha aper­to decisamente una nuova stagione nella storia della teologia spirituale. A quel tempo, cioè ver­so la metà del XX secolo, gli interventi di Balthasar (oltre al saggio su Teresa va ricordato l’articolo su “Teo­lo­gia e santità”, apparso per la prima volta nel 1948 e poi modificato e riproposto in Verbum Caro nel 1960) rinnovarono profondamente la questione del rapporto tra teologia ed esperienza, ponendola in termini assolutamente nuovi. Non solo andava smontata la tranquilla sicurezza della teologia “scientifica”, che risiedeva nella sua pretesa distanza dall’esperienza, ma dovevano essere superati i pur lodevoli tentativi (come quello di R. Garrigou-Lagrange) di raggiungere l’esperienza partendo dalla teologia, imboccando decisamente il cammino inverso: quello che risale dall’esperienza alla teologia. Con Balthasar «la presenza di un “dato concreto”, di una risonanza indi­vi­duale, di un’esperienza indeducibile, non apparivano più elementi in competizione con la seriosità e la precisione della teologia. Anzi, al contrario, essi sembravano il luogo ove la teologia doveva im­pian­tare la sua casa» .
Questa fenomenologia o agiografia teologica è fondamentale, secondo Balthasar, per rinnovare e rendere di nuovo feconda la ricerca teologica in quanto tale. Essa realizza la proposta di un modello di soluzione del problema dei rapporti tra esperienza e teologia, una proposta che salva la figura della teologia stessa, o almeno la sua vitalità, se non la sua possibilità, in quanto le consentirebbe di evi­tare di concepire la rivelazione come un dato presupposto da studiare in sé e per sé, intendendola in­vece come un avvenimento in atto, da cogliere e ascoltare sempre nel suo hic et nunc . La teologia, afferma Balthasar, può e deve occuparsi del “santo”, ma non in quanto essa si pen­sa come un sistema di verità compiuto che nell’esistenza del santo trova come una verifica spe­ri­mentale (ricordiamo l’impostazione dei manuali fino al Vaticano II): il vissuto di santità, per Bal­tha­sar, è un fatto teologico in quanto permette di cogliere la Rivelazione nella sua fenomenicità, cioè come fatto e come storia. In questo senso, però, la prospettiva perseguita da Balthasar fin dal suo sag­gio su Teologia e santità sembra avere maggiormente di vista la figura della teologia in quanto tale che non lo statuto della teologia spirituale. B. sembra più preoccupato di rifare una moderna “spi­ri­tualità teologica”, una “spiritualità della teologia”, e del teologo, che una “teologia spirituale”. O, se si vuole, sembra propugnare più un rinnovamento della teologia perché ritrovi il suo carattere “spi­ri­tuale” , un suo riavvicinamento all’esperienza dei Santi per poter compren­de­re meglio la Rivelazione nel suo contenuto oggettivo, piuttosto che un ripensamento della teologia stes­sa che la porti a riconoscere l’esperienza spirituale come l’oggetto di cui deve interessarsi, co­me ad un suo oggetto proprio, come un suo compito proprio, per poter completare l’intelligenza stes­sa della fede, come Rivelazione accolta.
Il rischio, alla fine, è quello di “trapassare” semplicemente il fenomeno, cioè l’esistenza concreta del santo, la sua singolarità, o, come afferma S. Cannistrà, di operare uno «scavalcamento del dato sto­­rico troppo velocemente interpretato alla luce di una determinata visione teologica» .
L’esistenza di Teresa di Lisieux, afferma Balthasar, «ha un valore esem­plare per la Chiesa solo in quanto lo Spirito Santo si è impadronito e servito di lei, per dimostrare qual­­cosa ai cristiani...soltanto per que­sto la Chiesa dovrebbe interessarsi di Teresa» . La sua è un esempio eminente di quelle «...“esistenze teologiche”, delle esistenze cioè che...possano essere prese come esempi per dimostrare delle verità straordinarie» . Anzi, quella di Tere­sa è un’esistenza e un’esperienza unica, paragonabile solo a quella di san Paolo, per «la più chia­ra consapevolezza del­la propria santità» che essi possiedono, e che li induce a vedere e mostra­re se stessi come esempio da imitare, a «spiegare essi stessi la dottrina che è nella loro vita. Lo possiamo considerare come un caso limite di umiltà cristiana: si è talmente staccati da sé, che si rie­sce a trattare se stessi come un oggetto estraneo, come uno strumento del vangelo» . «Ella [Teresa] ha così con la propria vi­ta lo stesso rapporto che uno scrittore ha con il proprio romanzo, uno scultore con la propria sta­tua. Teresa si dedica a questo suo capolavoro con tutta se stessa…..E’ come se ci fossero due Tere­se: l’una è mezzo, strumento, che si dimentica, l’altra è meta e missione. L’una entra sempre più nell’ombra, l’altra nella luce…; l’altra si sviluppa nell’esatta misura in cui la prima diminuisce, fio­risce sempre più…perché ella stessa comincia a girare sul proprio perno per far vedere a tutti il pro­prio essere celestiale, quasi come un manichino, che non mette in mostra se stesso, ma il vestito che indossa, il vestito della grazia…Siamo di fronte ad una anatomia della santità, a una consapevole autocanonizzazione fatta in tutta chiarezza e superiorità, cosa che non ha riscontro in fenomeni pre­cedenti», se non appunto in Paolo e, naturalmente, “caso unico”, nella madre del Signore (“…tutte le generazioni mi diranno beata…”)» .
Il rischio che sembra accompagnare questa impostazione è anzitutto quello di sposare una conce­zio­ne “funzionale” o “strumentale” del santo: egli “serve” semplicemente per dimostrare una verità teo­logica. Ma in ultima analisi potrebbe essere addirittura quello di dimenticare la differenza sostan­ziale che c’è tra il soggetto cristiano e Gesù Cristo: il teologo può dimenticare di badare a come il san­to vive nella sua esperienza la fedeltà a Gesù Cristo, finendo col ripresentare semplicemente Cri­sto stesso. Si tratta invece di vedere quali passi il soggetto ha compiuto per appropriarsi dell’ogget­ti­vo cristiano. La prospettiva del teologo svizzero non è quella dell’«analisi fenomenologica dei dinamismi della per­­sona e del rapporto personale con l’Assoluto». L’accento del teologo svizzero è più sulla “teolo­gi­cità”, sul significato teologico dell’esperienza che non sull’esperienza in quanto tale, come dato an­­tro­­po­logico, anzitutto . E’ sufficiente scorrere le pagine del sag­gio su Teresa per accorgersi che scarseggiano i riferimenti a date, precisi fatti storici, episodi della vita della san­ta. A livello di contenuto, si può osservare che manca per esempio un’analisi di come Teresa abbia as­sunto, dentro il suo cammino di santità, i limiti personali e i condizionamenti ambientali che pure non furono trascurabili nella sua vicenda. Balthasar sostiene che Teresa di Lisieux non è riuscita a far pro­pria la drammaticità del peccato umano e dell’essere peccatori; nel suo studio «Vissuto cristiano e sen­so dell’essere peccatori. Il “caso” di Teresa di Lisieux» , Moioli cerca invece di dimostrare la reale consistenza del senso del­l’es­se­re peccatori in Teresa. Ma Balthasar ritiene che quello dei limiti sia un aspetto secondario rispetto a quel­lo essenziale che è la missione di Teresa. Abbiamo, insomma, dallo studio di Balthasar, delle verità sul­­l’esi­stenza cristiana, ma come questa esistenza in concreto si sia forgiata rimane in secondo pia­no.
3. “Gloria” (1961): l’esperienza che è la fede. In Gloria, rispetto al saggio su Teresa del 1950, lo sforzo di von Balthasar si caratterizza nel senso di collocare il tema dell’esperienza nel quadro di una rinno­va­ta analisi del­la fede. Si tratta di descrivere quest’ultima non semplicemente come habi­tus infuso, né come at­to, ma come un processo, cioè la situazione del credente di fronte ad un ogget­ti­vo e quin­di la correlatività tra fides qua e fides quae: «fede e rivelazione erano fatte per stare insieme: nessu­na delle due poteva vivere senza l’altra» . Ma un primato deve essere riconosciuto al momento og­get­tivo, all’apparire della forma divina di rivelazione. Tale ricomprensione della fede si colloca dun­que anzitutto sul ver­sante del rivelarsi di Dio in Cristo, e quindi sul versante della ricom­pren­sio­ne del rapporto tra la verità ed il suo apparire. Per analizzare la fede, dunque, il teologo svizzero non parte più dal cre­dente, ma dall’“og­get­to”: Gesù Cristo (in questo, come in generale nella sua teologia, seguendo un’ispirazione barthiana, ma a differenza di Barth il primato conferito al manifestarsi di Dio, cioè al­la singolarità di Gesù Cristo, non mortifica la risposta del soggetto umano). Egli è “figura” (Gestalt nel testo del teologo svizzero) nella quale appare la Ve­ri­tà: in lui può essere colta l’autorità di Dio che si rivela (auctoritas Dei revelantis), per cui il dato oggettivo, storico della fede ha in se stesso la forza e la luce che lo propone a credere. La forza della fede non è estrinseca, ma nasce da questo apparire di Dio in Gesù Cristo. Questa fi­gu­ra viene colta co­me un appello all’obbedienza; fede è perciò cogliere questo apparire di Dio in Ge­sù Cristo, obbe­den­do e iniziando la sequela.
a. La fede è un accordarsi su Gesù Cristo, sulla tonali­tà di Gesù, “figura di rivelazione”, la quale dà luogo anche a quel momento archetipo, normativo del­l’espe­rienza del cre­­dere che è il momento mariano-apostolico. «Tutto il soggetto credente…è coin­volto in questa per­­ce­zione ubbidiente, come in un processo “estatico”, di coerente “accorda­tu­ra” alla figura di rive­la­zione…» . Dunque la nozione di “ac­cor­datura” (Stimnung) dice il movimento della tota­li­tà della persona (di tutte le sue “facoltà”) verso l’intera real­tà del mistero di Dio:
«per quanto il concetto di esperienza possa essere sovraccarico di condizionamenti nella storia della teo­logia […], esso resta tuttavia indispensabile se la fede è incontro di tutto l’uomo con Dio. E Dio vuole da­vanti a sé tutto l’uomo. Egli vuole tutta la risposta dell’uomo alla sua Parola» .
Balthasar insiste molto sull’idea di totalità, sia sul versante del dono di Dio, sia su quello della tra­sfor­mazione del credente:
«L’uomo non impegna la sua vita per un articolo di fede, ma per Gesù Cristo e per la sua verità indi­vi­sibile che si irraggia da ogni articolo. E Dio non imprime nel credente un tratto del suo Figlio, ma la sua imma­gine essenziale indivisibile, per quanto questa in ogni anima possa apparire differenziata personalmente e carismaticamente. La contemplazione costante di tutto il Cristo trasforma il contemplante tutto, ad opera del­lo Spirito Santo, nell’immagine di Cristo (2Cor 3,18)» .
b. E’ in questo senso che il credere cristiano si dà come esperienza, esperienza del globale accordarsi del­la persona a Gesù Cristo, e l’esperienza cristiana o spirituale si risolve nel credere: «Esperienza di fede significa che l’oggetto di fede si offre proprio e soltanto nella misura in cui l’uomo […] si consegna a ciò che deve essere creduto» . Nella prospettiva del teologo di Basilea è il primato di Dio, è l’apparire della “forma di rivela­zio­ne” a fon­dare e in un certo senso autorizzare l’esperienza cristiana: «Non si può essere solo spet­ta­tori della Gloria, ma si è afferrati per divenirne collaboratori» .
c. La fede cristiana è un’esperienza estetica (ma non estetizzante), come il vibrare di tutto l’uomo di fronte alla bellezza di Dio. Dio si è offerto al mondo nella forma del suo Figlio (“forma”, del resto, significa originaria­men­te “bellezza”), ed è la grazia dello Spirito santo a creare
«assieme all’ordinazione ontica dell’uomo alla forma della rivelazione, anche la facoltà di percepire que­sta forma: la facoltà di trovare in essa gusto e gioia, intelligenza per essa, sensibilità di fronte alla sua veri­tà interna e alla sua giustezza. Così sostenuto l’uomo però può e deve collocarsi coscientemente di fronte al­la forma della rivelazione e al mistero che ne costituisce il contenuto, radicare la sua vita in essa, accordarsi ad essa con tutta la propria personalità. Dimensione ontica e dimensione esperienziale vanno assieme, in una pro­fonda unità […] per cui emerge realmente la faccia estetica dell’esperienza cristiana. Davanti al bello – an­zi propriamente non davanti ad esso, ma in esso – è l’uomo tutto che vibra. Egli “trova” la bellezza non so­lo afferrandola, ma sperimenta piuttosto se stesso come afferrato e preso in possesso da essa. Quanto più que­sta esperienza è globale […] tanto meno egli riflette sui propri atti o sul proprio stato, ma è globalmente rapi­to nella realtà del bello, consegnato ad essa, da essa determinato ed animato […] A differenza di tutti i pro­getti religiosi della mistica e della filosofia, qui non si fa appello soltanto alla sensibilità interiore del­l’uomo, ma questa viene piuttosto vista nel contesto della vibrazione globale umana – che non è solo spiri­tuale, ma essenzialmente anche organica e corporale. E questo […] come compimento dell’opera divina della crea­zione, che ha progettato l’uomo come indissolubile unità di corpo e anima e vuole quindi condurlo a com­pimento in questa unità» .
d. La “percezione della forma” di rivelazione si attua attraverso il dono di una sensibilità nuova, che se­con­do la teologia dei Padri della Chiesa è donata nel momento della conversione dell’uomo a Dio, che per loro viene a coincidere con l’ingresso nella fede ecclesiale mediante il battesimo. I sacra­men­ti del battesimo e dell’eucaristia sono concepiti dai Padri sul piano ontologico, “entitativo”, co­me su quello esperienziale, “poetico”: «il battesimo è “rinascita” e al tempo stesso “illuminazione”, l’euca­restia in quanto unione con il Cristo è al tempo stesso “ebbrezza”» ; così come la conversione di Agostino è «la storia del mutamento di direzione di una sensibilità, dall’amore car­na­le a quello divino». L’aspetto esperienziale è rimandato a quello sacramentale come al suo fon­da­mento.
e. Esperienza estetica, esperienza profondamente segnata sul piano degli affetti:
«L’amore, diffuso nell’uomo dallo Spirito Santo inabitante, gli dona il sensorium per Dio, il gusto per lui e, per così dire, l’intelligenza del gusto di Dio. Questo viene affermato qui senza riferimento ancora al­la dottrina, da sviluppare dopo, dei singoli “sensi spirituali”, ma unicamente nel significato di una parteci­pa­zione del sentimento fondamentale dell’uomo al modo in cui Dio stesso sperimenta il divino. Il theologumenon proveniente dai Padri […] e sviluppato particolarmente dalla scuola di san Bernardo, sulla sapientia come esperienza del sapor divinus fornisce a tal proposito il concetto centrale. Il nuovo sensorium è infuso nel naturale e tuttavia non è identico ad esso: quanto più esso è donato come proprio all’uomo […], tanto più gli appartiene alla maniera del dono […] Si tratta quindi di un sentimento che passa attraverso una trasformazione, sotto il primato permanente di una disponibilità passiva a ricevere la partecipazione al sentire dello Spirito Santo» .
Secondo Tommaso d’Aquino, osserva ancora Balthasar, i doni dello Spirito santo sono un istinctus divinus e al tempo stesso un istinctus interior che fa sì che noi ci lasciamo guidare da un principio più alto della nostra ragione. Questo principio più alto risveglia e inclina il nostro stesso amore più pro­fondo verso l’amore assoluto che ci si fa incontro dalle profondità dell’essere interpellandoci per­so­nalmente: lo Spirito santo ci inclina ad agire fino a farci agire volontariamente, liberamente, in quan­to ci rende amanti di Dio. Alla fine, non è un principio estraneo attraverso l’uomo, ma è l’uo­mo stesso che, in virtù di quello spirare divino, ama Dio e gode di lui.
f. Due ultime precisazioni circa l’esperienza cristiana come “accordatura” nei confronti di Dio meritano la nostra attenzione. La mediazione di Gesù è insuperabile: l’“accordatura” con Dio non è immediata, ma sempre mediata in una duplice maniera:
«in quanto l’uomo non vede immediatamente Dio, ma solo attraverso il medium dei propri atti inten­zio­nali umani, ed in quanto Dio si è servito da se stesso della mediazione creaturale per esprimersi in essa diventando uomo […] Dio è divenuto uomo e non deporrà mai questa umanità. Per noi l’accesso aperto al Padre sarà sempre costituito dall’umanità del Figlio e da tutto ciò che, come realtà cosmica ed ecclesiale, ne promana e promanerà eternamente. Lo Spirito di filiazione e dei sette doni è infine non solo lo Spirito del Padre, ma anche di questo Figlio incarnato e della sua sposa, la chiesa. Il Filioque mostra qui la sua portata all’interno della teologia estetica. Il Padre “senza forma” non costituisce quindi il termine di tutte le strade del mondo, nel senso che la forma del Figlio possa ad un certo punto essere superata. E’ nel risorto, con lui e mediante lui che riceviamo quello Spirito che spira al tempo stesso dal Padre e dal Figlio» .
Infine, sappiamo che per accordare uno strumento musicale, si devono non solo accordare le singole cor­de con il la che fa da riferimento, con una data frequenza misurata in hertz, ma è altret­tan­to im­por­tante che tutte le corde siano accordate tra di loro: è la dimensione della Chiesa, impre­scin­dibile per ogni cristiano che voglia “accordarsi” su Gesù. Scrive Balthasar al riguardo:
«Questo esige l’accordatura cristiana non solo con Dio, ma anche con Cristo e la chiesa. Il nostro sentire e la nostra esperienza di Dio hanno la loro misura giusta nel sentire e nell’esperienza di Cristo, nella maniera in cui lui stesso lasciò che fosse Dio stesso a misurare la sua esperienza di Dio, nella maniera cioè in cui lui stesso fece questa esperienza e la lasciò determinare e filtrare dall’obbedienza […] Perciò occorre esigere dal membro di Cristo un sentire cum Ecclesia che però, per sua definizione, è la stessa cosa che hoc sentire quod et in Christo Iesu. E’ nel sentire di Cristo che trova la sua misura il sentire della chiesa e quindi anche il sentire con la chiesa. Nella misura in cui la chiesa è una realtà oggettiva che trascende il singolo soggetto […] è giustificato il postulato di un autosuperamento e abnegazione del singolo nella sensibilità della chiesa. Essa è canone non solo nelle questioni e nelle prescrizioni esteriori, ma anche nelle operazioni interiori» .

Conclusione. A questo punto può sorgere legittimamente la domanda su come debba essere intesa e spiegata la relazione tra la riflessione di Gloria e la proposta di una agiografia teologica, che precede di 11 anni la pubblicazione del I volume dell’estetica teologica (1961) ma viene riproposta 9 anni dopo questa con l’inserimento del saggio su Teresa in Sorelle nello spirito (1970). In realtà, vi è una visibile coerenza: Balthasar rimane sul versante della rivelazione e continua a considerarlo il suo punto di vista privilegiato. Nella concreta vicenda umana di santità che egli osserva (lo stesso discorso vale anche per il saggio su Elisabetta di Digione), la sua attenzione rimane catturata, più che dalla trasformazione operata da Dio nell’umanità accogliente dei santi, dal risplendere della gloria divina in essi, fino al punto da postulare come una distanza tra questa e quella, tale per cui la prima avrebbe semplicemente il compito di adeguarsi alla seconda, cioè alla missione a lei affidata. E anzi, la mediocrità umana del santo sembra in grado di esaltare ancora di più lo splendore della luce dall’alto. Questa impostazione rimane anche nel prosieguo della grande opera di estetica teolo­gi­ca, in particolare nel secondo volume di Herrlichkeit , dove Balthasar si rivolge alla storia, in cer­ca di quelle «immagini del mondo cristiano di altissimo rango, ciascuna delle quali, centralmente col­pi­ta dalla gloria della rivelazione divina, cerca di rispecchiare centralmente questa impressione» .

Prima di accostarci alla proposta di Giovanni Moioli, cerchiamo di dare qualche breve valutazione sintetica sui due autori che abbiamo presentato. Abbiamo già detto dei limiti del progetto balthasariano, tuttavia è innegabile che dal punto di vista propriamente teologico esso assume una consistenza maggiore, rispetto a quello di Mouroux, in virtù del suo riferimento alla rivelazione, in relazione al quale (e quindi in relazione all’analisi della fede, del credere cristiano), come dimostra lo sviluppo contenuto in Gloria, l’esperienza spirituale acquista la sua credibile e fondata collocazione. Mouroux avanza una rivendicazione più parziale della teologia spirituale, in termini di legittimità, come una possibilità della teologia, Balthasar fa invece una rivendicazione più decisa e radicale: la teologia deve in qualche modo attuarsi così per comprendere pienamente la rivelazione.
L’autore francese sembra offrire il contributo migliore a proposito dell’analisi dell’esperienza in quanto tale, mentre, come appare anche dal sottotitolo del suo studio, dal punto di vista teologico quest’ultimo rimane ad un livello introduttivo, pur esplorando il tentativo di stabilire una “grammatica” della esperienza cristiana. E tuttavia, la strada (ri)aperta da Mouroux rivelerà in seguito, nonostante l’assoluto disinteresse con cui fu accolta al suo apparire , una notevole fecondità in vista della comprensione teologica del vissuto cristiano, al pari forse del progetto balthasariano, con la differenza che l’esecuzione di quest’ultimo a proposito della figura di Teresa di Lisieux, continua a sollevare le perplessità che abbiamo riscontrato.
Il merito principale di Mouroux sta nell’aver ripreso e risolto in maniera positiva «la domanda circa la compatibilità del fatto dell’esistenza cristiana e del fatto dell’esperienza», dimostrando da un lato la possibilità dell’esperienza cristiana e dall’altro illustrando l’esclusività di tale nozione. A livello di contenuti, il progetto teologico di Stolz appare definitivamente archiviato: «“impersonali” schematizzazioni, tese ad illustrare un contatto incolore dell’anima con Dio» vengono contraddette efficacemente da una ricerca la quale mostra come «l’incontro tra Dio e l’uomo conosce un pathos, una intensità, che ha tutte le carte in regola per entrare nel campo di indagine teologico» .
«In conclusione, l’opera di Mouroux si limita ad essere un avvio alla considerazione teologica del tema dell’esperienza cristiana, nel senso che ha sciolto le difficoltà addossate dalla storia al problema dell’esperienza del cristiano ed ha indicato la prospettiva da seguire per la soluzione del problema» .
Sulla sua scia si sono posti sia Balthasar che Moioli, benché il primo nella prospettiva di una teologia della rivelazione, il secondo nella prospettiva propria della teologia spirituale .   


G. Moioli, L’esperienza spirituale. Lezioni introduttive

schema di lettura

 

1. L’uomo spirituale (cfr. Moioli, 11-37)

a. L’uomo secondo lo Spirito: una fenomenologia. Il cristiano nella storia tra “carne” e “spirito”.
b. L’uomo secondo lo Spirito: una tensione. L’esistenza cristiana come conversione.
c. L’uomo secondo lo Spirito: un essere “decentrato”. L’obbedienza della fede.
d. L’uomo secondo lo Spirito: una memoria originale. La “personalizzazione dell’oggettivo”.
e. “Le spiritualità” come differenti sintesi storiche personali.

 

2. L’esperienza spirituale (cfr. Moioli, 39-67)

A. Accezioni riduttive dell’esperienza
a. L’esperienza come fenomeno prevalentemente o esclusivamente soggettivo: l’episodio protestante. Il cristianesimo come Rivelazione e il primato dell’oggettivo.
b. L’esperienza come sentimento religioso: l’episodio modernista. La verità della fede e il mio “sentire”; la dimensione etica della fede.
c. L’esperienza come sperimentazione. La non verificabilità di Dio: affidamento e obbedienza.

B. Fede ed esperienza
a. L’esperienza come “sapere” e “vissuto”.
b. La fede come esperienza: rapporto tra oggettivo e soggettivo (fides quae e fides qua), “sapere se stessi in quanto si va prendendo la forma di Gesù Cristo”.

 

3. La “comprensione teologica” dell’esperienza spirituale (cfr. Moioli, 105-131)

a. Il metodo della teologia spirituale.
b. Il giudizio sull'autenticità dell’esperienza cristiana: non solo ortodossia.
c. Per una tipologia di riferimento:
- riferimento decisivo a Gesù Cristo
- senso del peccato
- riferimento alla parola e al sacramento
- accettazione della paradossale storicità
- senso dell’escatologia
- cristocentrismo nella visione di Dio e dell’uomo
- dimensione ecclesiale
d. Criteri ambigui di discernimento: visibile/invisibile; esterno/interno; molteplice/uno; tempo/eternità; azione/contemplazione; orizzontale/verticale.


Concilio di Trento, Sessione VI – Decreto sulla giustificazione [1547], trad. italiana in Conciliorum oecumenicorum decreta, a cura diG. Alberigo – G. Dossetti – P. Joannu – C. Leonardi – P. Prodi, EDB, Bologna 1991, 674.

S. Ubbiali, «La teologia dell’esperienza cristiana nella riflessione di Jean Mouroux», La Scuola Cattolica 106 (1978) 505-543: 514.

G. Cazzulani, Quelli che amano conoscono Dio, 100, n. 52.

Cf J. Mouroux, L’expérience chrétienne, 369-376 (“Situation” de l’expérience).

J. Mouroux, L’expérience chrétienne, 369.

J. Mouroux, L’expérience chrétienne, 369.

J. Mouroux, L’expérience chrétienne, 370.

S. Ubbiali, «La teologia dell’esperienza cristiana nella riflessione di Jean Mouroux», La Scuola Cattolica 106 (1978) 505-543: 542.

S. Ubbiali, «La teologia dell’esperienza cristiana», 542.

J. Mouroux, L’expérience chrétienne, 372.

J. Mouroux, L’expérience chrétienne, 372. Corsivi nostri.

J. Mouroux, L’expérience chrétienne, 372.

G. Cazzulani, Quelli che amano conoscono Dio, 103.

G. Cazzulani, Quelli che amano conoscono Dio, 103.

G. Cazzulani, Quelli che amano conoscono Dio, 92.

H.U. von Balthasar, Sorelle nello Spirito. Teresa di Lisieux e Elisabetta di Digione, Jaca Book, Milano 1974.

G. Cazzulani, Quelli che amano conoscono Dio, 91-92.

Cf G. Moioli, «Teologia spirituale», in Dizionario teologico interdisciplinare, 44-46.

Si veda il saggio di H.U. von Balthasar, «Teologia e santità», in Id., Verbum Caro, Brescia 19854, 216 e soprat­tutto 226-229; e inoltre G. Moioli, «Teologia spirituale», in Dizionario teologico interdisciplinare, 47: per B., «la teologia stessa – collocata, alimentata, emergente dalla santità – è ‘spirituale’».

S. Cannistrà, «Teologia Spi­­­rituale e Teologia Dogmatica», in La Teologia spirituale. Atti del Congresso Internazionale OCD, Roma 2001, 501-512: 507.

H.U. von Balthasar, Sorelle nello Spi­rito, 25.

H.U. von Balthasar, Sorelle nello Spi­rito, 53-54.

H.U. von Balthasar, Sorelle nello Spi­rito, 54.

H.U. von Balthasar, Sorelle nello Spi­rito, 52-53.

Cf G. Moioli, «Dimensione esperienziale della spiritualità», 54.

Ora in G. Moioli, L’esperienza cristiana di Tere­sa di Lisieux. Note introduttive, Glossa, Milano 1998, 129-173.

G. Cazzulani, Quelli che amano conoscono Dio, 150.

G. Moioli, «Dimensione esperienziale della spiritualità», 55. L’opera dell’autore di Gloria esercitò una notevole attrazione sul teologo milanese.

H.U. von Balthasar, Gloria. Una estetica teologica, vol. I: La percezione della forma, Jaca Book, Milano 1971, 203.

H.U. von Balthasar, Gloria, vol. I, 224-225.

H.U. von Balthasar, Gloria, vol. I, 238. Vd. anche G. Cazzulani: «Credere è quell’espe­rienza totale che viene gratuitamente offerta all’uomo quando la Gloria divina si manife­sta» (Quelli che amano conoscono Dio, 150).

A. Scola, Hans Urs von Balthasar: uno stile teologico, Jaca Book, Milano 1991, 53.

H.U. von Balthasar, Gloria, vol. I, 228-229.

H.U. von Balthasar, Gloria, vol. I, 230.

H.U. von Balthasar, Gloria, vol. I, 231.

H.U. von Balthasar, Gloria, vol. I, 233.

H.U. von Balthasar, Gloria, vol. I, 233-236.

La traduzione italiana si distribuisce in due volumi: Gloria. Una estetica teologica, vol. II: Stili ecclesiastici; vol. III: Stili laicali, Jaca Book, Milano 1976-1978. L’originale tedesco è del 1962.

H.U. von Balthasar, Gloria, vol. II: Stili ecclesiastici, 3.

Cf S. Ubbiali, «La teologia dell’esperienza cristiana», 531; Moioli definì Mouroux un “maestro solitario”.

G. Cazzulani, Quelli che amano conoscono Dio, 102.

S. Ubbiali, «La teologia dell’esperienza cristiana», 543.

Vale la pena accennare anche alla riflessione di K. Rahner, che affronta il tema dal punto di vista dell’“esperienza della grazia” (vd. Teologia dell’esperienza dello Spirito, Roma 1978). «La grazia – spiega il teologo tedesco – non è qualcosa di estrinseco, e nemmeno qualcosa che tocca l’uomo ad un livello solo superficiale. Essa è un’esperienza che genera una vicinanza: Dio si autocomunica allo spirito finito, e, al tempo stesso, questa donazione fonda il dinamismo proprio dello spirito» (G. Cazzulani, Quelli che amano, 153). La grazia, come autocomunicazione di Dio, come esperienza dello Spirito (ma qui il termine “Spirito” è utilizzato ancora in senso generale, non propriamente come “Spirito di Gesù Cristo”) è di carattere trascendentale, non ha «oggettività categoriale e particolare nella coscienza umana», quasi fosse un oggetto. E tuttavia «può essere in qualche modo fatta oggetto di riflessione successiva in maniera storica e categoriale». Ciò avviene di fatto nell’esperienza della decisione esistentiva, cioè in particolare «là dove la libertà viene sperimentata dall’uomo come decisione ultimativa di fronte ai diversi tipi di situazioni-limite che la vita presenta, e perciò stesso viene anche sperimentata come fede-speranza o abbandono radicale al mistero» (G. Moioli, «Dimensione esperienziale della spiritualità», 57). Insomma, faccio esperienza della grazia, cioè dell’autocomunicazione di Dio, nel momento in cui la mia libertà si determina in una scelta vissuta come affidamento radicale al suo Mistero, scelta di cui Dio è la ragione “immotivata”, cioè gratuita. Questo è anche il senso profondo della “consolazione” che, secondo s. Ignazio, giustifica l’elezione. Il limite del contributo rahneriano è di rimanere soprattutto un discorso di tipo “fondamentale”, che riguarda la “logica” generale dell’esperienza spirituale, mentre fa fatica a determinarsi come reale comprensione dell’esperienza “cristiana”, cioè di quel «categoriale storico-assoluto» che è l’autocomunicazione di Dio in Gesù di Nazareth (cf Moioli, ivi, 58-59).    

 

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