Corso sistemi zootecnici

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Corso sistemi zootecnici

Sistemi zootecnici e pastorali alpini
Prof. Michele Corti

Dispensa del Corso

Corso di laurea in :
Tutela e valorizzazione dell’ambiente e del territorio montano
Introduzione

L’importanza della zootecnia nella vita delle comunità alpine è legata ai vincoli imposti dal clima sulla possibilità di esercizio della attività agricola. Innanzitutto nelle Alpi il terreno agrario è scarso e poco produttivo. La zootecnia più di altre attività agricole si presta all’utilizzo di zone vegetative poste a diverse altitudini sfruttando risorse foraggere erbacee ma anche arbustive ed arboree. Dove l’uomo non è in grado di utilizzare le superfici coltivandole con piante alimentari il ruminante si inserisce come anello intermedio indispensabile di una catena trofica che nella veste di consumatore consente di convertire le risorse dei pascoli naturali ottenibili in condizioni nelle quali ogni attività agricola è preclusa in alimenti ad elevato valore biologico. Ciò vale per ambienti estremi per condizioni di temperatura e di piovosità come le steppe e le tundre alle quali si avvicinano come visto alcuni degli habitat della montagna alpina.
Il ruolo fondamentale dell’allevamento animale nell’economia tradizionale delle comunità alpine è anche legato alla capacità degli animali di utilizzare una parte della produzione foraggera ottenibile durante il periodo vegetativo in modo differito consentendo all’uomo di alimentarsi con prodotti ricchi di principi nutritivi come le vitamine scarsamente presenti nei prodotti di origine vegetale conservati con le tecniche tradizionali.
Parlare di agricoltura e di allevamento nei termini delle attività di tipo specializzato che ci sono più famigliari al giorno d’oggi appare inadeguato. Più adeguato risulta fare riferimento, nel caso dei sistemi produttivi dell’agricoltura di montagna al concetto di agropastoralismo che in qualche modo si avvicina al concetto tedesco di Alpwirtshaft. Il concetto di pastoralismo è spesso limitato nell’accezione corrente a sistemi produttivi ovi-caprini più che più di quelli bovini, che hanno conosciuto a partire da più lungo tempo un processo di specializzazione e di intensificazione produttiva, mentre i primi sono rimasti legati alle tradizionali modalità estensive del territorio.
E’indicativo comunque che il termine molto utilizzato di spazio “agrosilvopastorale” comprenda anche quelle risorse pascolive (inquadrate nel sistema delle alpi o malghe) che nelle Alpi sono utilizzate principalmente con i bovini e che in Lombardia occupano ben 200.000 ha pari al 20% della superficie territoriale montana.

Mentre oggi possiamo distinguere tra sistemi zootecnici alpini “di valle” e sistemi “integrati” che continuano ad utilizzare, sia pure in forme diverse dal passato, le varie fasce altimetriche del territorio montano, in passato l’integrazione delle risorse del fondovalle con quelle dei versanti

(dove erano distribuiti i maggenghi) e delle alpi era la norma dettata dalla necessità della sopravvivenza.
Le risorse naturali erano utilizzate sfruttando al meglio (in senso spaziale e temporale) la differenziazione di periodi vegetativi e di produttività determinata dalla presenza di microclimi e di gradienti vegetazionali. Il periodo in cui gli animali erano mantenuti nella stalla nel villaggio veniva ridotto al minimo indispensabile. Bisogna pensare in base a quanto sopra ricordato che in passato il fondovalle era occupato da campi coltivati che si spingevano in alto lungo i versanti solivi, sfruttando all’inverosimile ogni fazzoletto di terra mediante i sistemi di terrazzamenti ed un lavoro oneroso di bonifica (spietramento, drenaggi, riporto di terreno agrario). In conseguenza le superfici da affienare in fondovalle erano scarse. Il fieno pertanto veniva prodotto dovunque si potesse utilizzare la falce (altezza del cotico, pendenza e pietrosità permettendo). Si falciavano i maggenghi ma anche le superfici più produttive degli alpeggi (i grassi. gràss). Tutt’oggi nelle situazioni migliori non è raro vedere prati falciati a 2.000 m di altitudine. Il fieno prodotto nei maggenghi in parte serviva da scorta per l’anno successivo quando, ancora a primavera prima della ripresa vegetativa il bestiame veniva colà trasferito ma in parte veniva portato a valle (spesso con slitte o gerli). La necessità di massimizzare le scorte di foraggio spingeva ad utilizzare tagliandolo con il falcetto il “fieno selvaico” (ìsiga, Festuca varia) che si sviluppa su terrazzi rocciosi al di sopra della zona dei pascoli inaccessibili ai bovini.

 

Dal punto di vista strettamente zootecnico il grado di integrazione dell’allevamento con le risorse del territorio era espresso anche dalla composizione (specie e categoria di età) del bestiame allevato da ciascuna famiglia. Anche le famiglie in grado di allevare una o più vacche da latte (grazie al possesso di prati falciabili del fondovalle) non rinunciavano a mantenere anche qualche pecora e capra oltre al bestiame di “bassa corte”. Ciò consentiva non solo di ottenere una varietà di prodotti per l’autoconsumo (lana per la confezione di indumenti, latte di capra per i bambini), ma anche di utilizzare al meglio ed in modo complementare le risorse pascolive sfruttando le diverse esigenze nutritive ed il diverso comportamento al pascolo dei diversi tipi di animali. In passato come oggi alle vacche da latte sono riservate le superfici di pascolo migliori, con maggiore produttività e pendenza meno accentuata mentre le manze, e ancor più le pecore e le capre si devono accontentare di pascoli magri o caratterizzati da forti pendenze raggiungendo spesso le creste e le vette e arrestandosi solo al limite delle nevi perenni.

I sistemi zootecnici della montagna alpina oggi


sistema di “fondovalle” vacche da latte stabulazione permanente prati temporanei e permanenti, acquisto limitato foraggi extra-aziendali
vacche da latte pascolo confinato su terreni aziendali prati-pascoli temporanei
e permanenti, acquisto limitato foraggi extra-aziendali
vacche da latte stabulazione permanente acquisto prevalente foraggio extra-aziendale (anche insilati)
capre da latte razze selezionate stabulazione permanente acquisto prevalente foraggio extra-aziendale
sistemi “valle-alpeggio” vacche da latte, giovane bestiame bovino, capre da latte tutto il bestiame in alpeggio ridotto acquisto foraggio extra-aziendale
vacche da latte, giovane bestiame bovino, capre da latte, equini vacche da latte o vacche più produttive stabulazione permanenente acquisto foraggio extra-aziendale variabile
sistemi transumanti ovini da carne svernamento in pianura, alpeggio acquisto foraggio invernale di soccorso
sistemi estensivi bovini, ovini, caprini, equini produzione carne, custodia ridotta, utilizzo risorse marginali
sistemi di “servizio” ovini da carne manutenzione di aree destinate attività extraagricole per intervento di enti territoriali o turistici


Al fine di caratterizzare il sistema zootecnico il parametro più importante è l’intensità zootecnica espressa come carico animale per unità di superficie. Per ottenere una maggiore intensità oltre ad aumentare l’investimento in capitale animale devono essere aumentati di pari passo il capitale fisso e circolante. A questi fattori economici corrisponde un maggior ricorso a risorse naturali (energia e materie prime non rinnovabili, acqua), e all’applicazione di conoscenze scientifiche e di tecnologie.
In passato i “sistemi intensivi” erano tali per il forte investimento di lavoro umano per unità di superficie, un fattore che è oggi “risparmiato” al massimo in favore dell’utilizzo di risorse non rinnovabili (capitale naturale).

Tabella – Importanza relativa fattori produttivi nei diversi sistemi di produzione animale
spazio capitale
animale strutture
fondiarie lavoro mezzi tecnici energia fossile tecnologia/impianti tecnologici
pastorali **** **** ** *
misti tradizionali ** *** * **** ** * *
misti intensivi * ** *** ** *** *** **
industriali * ** * *** **** ****

Sia a livello aziendale che territoriale la caratterizzazione del sistema zootecnico richiede di prendere in considerazione una serie di parametri; va tenuto presente, però, presente che una volta definita l’intensità zootecnica e l’indirizzo produttivo per diversi altri paramentri vi è un “raggruppamento” quasi obbligato. Un allevamento intensivo per esempio non può fare a meno di concentrati. Nell’ambito di un determinato agroecosistema e contesto socioeconomico vi è anche una corrispondenza “obbligata” tra specie animale e intensività di allevamento. Il carico animale viene espresso in Unità di bestiame (UBA = Unità bovino adulto) ai fini dell’applicazione delle misure della PAC anche se le questo parametro è molto approssimativo. Una vacca da latte può pesare 350 o 700 kg in funzione della razza ed è chiaro che in termini di cacacità produttiva (di latte, ma anche di deiezioni) la differenza è sostanziale. In alcuni casi si cerca di correggere questa distorsione: la Regione Emilia-Romagna, per esempio nelle norme applicative del Regolamento sulla zootecnia biologica ha applicato ai bovini adulti di razza Modenese (Bianca Valpadana) e Reggiana (Rossa reggiana) un coefficiente pari a 0,5 UBA. Ciò per non penalizzare l’allevamento secondo il metodo biologico di queste razze a rischio di estinzione. Nella zootecnia socondo il metodo biologico non è possibile superare il limite di 2 UBA/ha. Negli allevamenti bovini intensivi le UBA/ha sono pari a 3-4. Sempre con riferimento alla normativa europea le misure che premiano l’estensivizzazione zootecnica prevededono che il carico debba essere al di sotto di 1,4 UBA/ha. Nei sistemi estensivi e pastorali il carico può risultare anche molto più basso (0,5 UBA/ha). Un altro modo (più accurato) di esprimere il carico tiene in considerazione il peso vivo (t/ha); anche in questo caso,però, il parametro è utile per confronti nell’ambito dello stesso indirizzo produttivo (da latte specializzato, da carne estensivo ecc.). Diverse normative stabiliscono una discriminazione tra sistemi intensivi utilizzando il limite di 2,5 Uba/ha. L’Unione Europea applica l’unità Uba a tutte le misure (premi di allevamento, misure agroambientali, interventi suoi mercati. Come esempio di limite in grado di caratterizzare un sistema estensivo si può citare il disciplinare del formaggio francese Beaufort dop che deve essere prodotto da vacche la cui produzione non superi le 5 t annue con un carico che non deve eccedre le 0,7 Uba/ha. A titolo orientativo può essere tenuta presente la seguente classificazione che va ovviamente adattata al contesto agroecologico per una discriminazione più efficace.

Tabella – Classificazione orientativa intensità sistemi zootecnici in Europa
Sistemi Estensivi Media intensività Intensivi
Uba/ha <1 1-2 >2-2,5

I coefficienti ufficiali adottati dall’UE per il calcolo delle Uba sono riportati nella sottostante tabella.

Tabella. Coefficienti ufficiali UE per il calcolo del carico di bestiamedi tutte le specie più comunemente allevate
SPECIE UBA n.capi/UBA
BOVINI
1. Allevamento
vacche (oltre 3 anni) 1,00 1,00
manze (2-3 anni) 0,80 1,25
manzette (1-2 anni) 0,60 1,67
tori 1,00 1,00
torelli 0,70 1,43
2. Ingrasso
vitelli e vitelle 0,40 2,50
OVINI
pecore e montoni 0,15 6,67
altri soggetti 0,05 20,00
CAPRINI
capre e arieti 0,15 6,67
altri soggetti 0,05 20,00
EQUINI
adulti 1,00 1,00
puledri 0,60 1,67
SUINI
scrofe 0,30 3,33
verri 0,35 2,86
adulti sup. 6 mesi 0,26 3,85
scrofette 3-6 mesi 0,20 5,00
magroni 3-6 mesi 0,24 4,17
suinetti fino 3 mesi 0,15 6,67
POLLAME (100 capi)
pollastri 0,50 200
ovaiole-galli 1,30 77
CONIGLI (100 capi)
giovani ingrasso 1,10 91
adulti riproduzione 2,50 40
TACCHINI - OCHE (100 capi)
fino 6 mesi 2,00 50
oltre 6 mesi 3,00 33

In Svizzera è utilizzata l’Unità Bestiame Grosso che è stata calcolata anche per alcune specie non previste dalla Ue per ilcalcolo dell’Uba, ma entrate da non molti anni nel novero delle specie di interesse zootecnico anche in Italia (cervi, daini, bisonti, lama, alpaca, struzzi) .
La caratterizzazione di un sistema zootecnico (a livello aziendale o territoriale) necessità di una serie di elementi tra i quali quelli fondamentali appaiono riportati nella sottostante Tabella.
La classificazione dei sistemi mondiali di produzione animale distingue tra sistemi pastorali, agrozootecnici (tra i quali vanno distinti quelli intensivi ed estensivi) e industriali. I sistemi pastorali forniscono la quasi totalità della lana e una ridotta quantità di carne. La quasi totalità del latte è fornita dai sistemi agrozootecnici mentre l’alevamento industriale fornisce una quantità importante e crescente di carne. Va tenuto presente che la classificazione è orientativa perché spesso vi sono situazioni “intermedie” che non consentono di classificare in modo univoco un sistema.

Nell’ambito dei sistemi agrozootecnici si considera che i sistemi intensivi siano più sostenibili dal punto di vista economico mentre quelli estensivi dal punto di vista ecosociale. Si tratta evidentemente di una caratteristica tendenziale. I sistemi intensivi possono divenire meno economici di quelli estensivi se a fronte dell’esigenza di adozione di tecnologie sempre più costose la scala produttiva non può essere ampliata e se l’adozione di modalità estensive può contare su risorse foraggere a basso costo e può consentire una drastica riduzione dei costi di esercizio. Quello che indica il seguente prospetto è che le politiche devono introdurre dei correttivi per ottenere un equilibrio: sostenere con trasferimenti di reddito le attività estensive, imporre il rispetto di parametri ambientali alle attività intensive. Nell’attuale contesto il retaggio –superabile solo gradualmente- della vecchia PAC produttivista comporta un elevato volume di trasferimenti pubblici che incentivano l’intensificazione produttiva e riducono le risorse disponibili per le misure agroambientali e di estensivizzazione.

Tabella – Influenza del grado di intensità zootecnica sugli aspetti ecologici, sociologici ed economici
Influenza Intensivi Estensivi
Qualità alimenti bestiame (densità energetica) + -
Produttività + -
Reddito + -
Terreno agrario - +
Aria - +
Acqua - +
Flora - +
Fauna - +
Paesaggio/estetica - +
Cultura/tradizioni - +
Da Spatz e Buchgraber, 2003

Più in dettaglio le valenze sociali dell’attività di allevamento possono essere individuate come dallo schema seguente

Tabella - Implicazioni sociali dell’intensificazione produttiva
Tradizionale/estensivo Intensivo/industriale
Contatto uomo-animale presenza sociale degli animali Segregazione sociale degli animali in strutture specializzate
Legame cultura locale profondo Inesistente o quasi
Conoscenze applicate tradizionali tecnico-scientifiche
Trasformazione industria alimentare inadatto adatto
Qualità specifica territoriale elevata bassa
Vocazione multifunzionalità elevata bassa
Potenziale produzione alimenti a basso costo basso elevato
Percezione sociale diffusa amichevole sospettosa

La percezione sociale dell’attività di allevamento non deve essere trascurata perché l’autosostenibilità delle aziende e dei sistemi di allevamento dipende anche dalla considerazione sociale che essi ricevono: essa determina il prestigio associato alla condizione professionale a sua volta influente sulle scelte dei giovani (subentrare nella conduzione dell’azienda famigliare, sposare un giovane/una giovane allevatore/allevatrice) e più in generale sulle motivazioni extra-economiche di chi è impegnato professionalmente. La percezione sociale della zootecnia influisce anche sulle scelte di consumo e sull’ adozione di politiche a favore dei comparti zootecnici .

 

Tabella – Percezione sociale dell’attività di allevamento
Amichevole Sospettosa
• guardiano dello spazio rurale
• produttore di cibi genuini
• custode di
tradizioni • maltratta gli animali
• produce cibi potenzialmente
dannosi alla salute
• usa e abusa di antibiotici e promotori della crescita
• diffonde malattie (BSE)

Tabella. Elementi che definiscono un sistema zootecnico
Elemento possibilità
Intensività (carico animale per unità di superficie) estensivo/ semi-intensivo/ intensivo
specie allevata poliallevamento/ monoallevamento (bovini, suini...)
tipo genetico popolazioni primarie/ razze autoctone/ razze cosmopolite/ incroci/ linee pure/ ibridi
produzione servizi/ fibre tessili/ latte e carne/ latte/ carne /uova/ mista
destinazione prodotto vendita industria/ trasformazione aziendale
allevamento per la rimonta interna / per la vendita/ assenza
alimentazione
a) natura pascolo/ foraggi conservati /concentrati /foraggi e concentrati / pascolo e foraggi e concentrati / pascolo e concentrati
b) approvvigionamento autosufficienza/ parziale autosufficienza/ acquisto esterno
strutture assenti/ semplici (tettoie,recinti)/ ricoveri chiusi muratura/ ricoveri chiusi con impianti tecnologici

Aspetti della sostenibilità dei sistemi zootecnici

In Francia, sono stati prospettate le conseguenze di diversi scenari politico-economici sui sistemi zootecnici (Tabella di seguito). Tale analisi mette bene in evidenza il rapporto tra questioni apparentemente tecniche come la scelta dei tipi genetici (razz) e la politica. Va aggiunto che gli scenari politici non escono dal nulla, ma sono il risultato di equilibri di forze e conflitti dove gli attori non sono solo i governi e le multinazionali, ma anche gli allevatori, i consumatori.

Tabella - Scenario delle politiche agricole e lattiere in Francia al 2020
Scenario Agricolo Industriale Marchi origine Multifunzionale
Quote latte mantenute;
PACmantenuta Libero
mercato Quote mantenute;
Iniziativa dei produttori per mantenere valore aggiunto Le autorità locali agiscono per presenvare l’economia locale, le risorse naturali e la vita rurale
Vacche da latte (milioni) 3,4 3,2 4,7 4,7
Aziende 60,000 35,000 75,000 80,000
Prezzo latte medio (€/kg) 0,30 0,23 0,42 0,34
Razze in espansione Holstein Holstein Duplice-attitudine Duplice attitudine-rustiche
Fonte: Chambres d’Agriculture, 2001

Oltre a operare previsioni in Francia dal 2003 è in atto un programma pilota sulla sostenibilità agricola, focalizzato a livello aziendale, ma con valutazione dei problemi ed individuazione degli obiettivi a livello territoriale mediante concertazione con comunità locali e organizzazioni ambientaliste; sono state coinvolte 1.100 aziende agricole in 60 diverse aree. I risultati parziali su 255 aziende (di cui il 77% zootecniche – 36% vacche da latte, 28% allevamento bovino estensivo “vacca-vitello”) mostrano che attraverso la diversificazione e l’estensivizzazione si è potuto ottenere un aumento dell’11% dell’occupazione, la stabilità del reddito uguale (o un leggermente incremento), meno costi e meno indebitamento. L’adozione di metodi di produzione zootecnica sostenibile ha comportato:

• Maggior uso di prati stabili e pascoli
• Maggiore autosufficienza foraggera
• Migliore uso dei concimi organici e chimici e dei prodotti per proteggere le colture
• Riduzione delle lavorazioni del suolo
• Cura di superfici abbandonate o ecologicamente fragili
• Recupero di fabbricati e attrezzature

I risultati sono stati ottenibili grazie ad una migliore attenzione alla commercializzazione e alla diversificazione delle attività. Le percentuali delle aziende che hanno adottato nuove iniziative ed attività sono state le seguenti:

• Regole di produzione con marchi certificati: 22%
• Vendita diretta: 27%
• Trasformazione aziendale: 10%
• Produzione bio: 11%
• Accoglienza in azienda: 16%
• ristorazione: 5%
• visite didattiche: 12%
• attività pubbliche di manutenzione del territorio locale 6%

Le tendenze messe in evidenza dal programma francese emergono anche dal confronto tra diverse regioni agrarie europee dove si mette in evidenza in alcune un processo in controtendenza rispetto a quello di industrializzazione agraria caratterizzata da: concentrazione aziendale, speciaizzazione aziendale e territoriale, tendenza delle aziende professionali a ridurre le fonti di reddito extra-agricolo, aumento della produttività.
Il sociologo rurale inglese Marsden definisce la nuova fase della transizione rurale in cui sono già entrate alcune regioni europee “intergrazione agraria” per sottolineare l’internalizzazione di processi e servizi (trasformazione alimentare e commercializzazione diretta) già separatisi dall’azienda agricola per essere appropriati dall’industria e dal commercio. Lo schema di Marsden è molto interessante perché inserisce nella dinamica che interessa le regioni agrarie europee anche quelle “marginali” (aree di montagna, ma non solo) che erano rimaste in qualche modo ferme alla fase pre-produttivistica. Le tradizioni agronomiche, zootecniche ed alimentari di queste regioni (o di strati di aziende) rappresentano ora una risorsa per lo sviluppo di filiere alimentari e di servizio (turismorurale) laddove la modernizzazione non le ha sommerse (come avviene per esempio quando si estinguono razze locali e particolari prodotti legati a specifiche condizioni e tradizioni locali).

Stili produttivi e stili zootecnici

Nella discussione sulla sostenibilità dei sistemi zootecnici e sull’evoluzione futura sociotecniche nel settore delle produzioni animali appare quantomai interessante prendere in esame la nozione di “stili produttivi”. Essa è stata introdotta da J.D. van der Ploeg, autorevole sociologo agrario dell’Università di Wageningen che ha svolto diversi studi sulla zootecnia non solo olandese ma anche padana. L’esame degli stili produttivi mette in evidenza come un dato livello di scala produttiva o un determinato grado di intensificazione da soli non bastano a caratterizzare un modello di gestione zootecnica. Nell’ambito della fase di transizione attualmente in atto nell’agricoltura europea gli stili produttivi, rappresentano un aspetto molto importante. Di fronte alle diverse possibilità che si aprono ad aziende strutturalmente simili vi è una componente soggettiva (legata all’esperienza, ai valori, ale percezioni dell’allevatore e della sua famiglia) che fa la differenza e può determinare una scelta in una dirzione o nell’altra (per esempio super-produttivismo o diversificazione e multifunzionalità). L’azienda, insomma, non è un sistema che risponde meccanicamente agli stimoli del mercato e alle sollecitazione degli apparati burocratici e tecnico-scientifici. Così come i consumatori rinunciano ad essere (del tutto) eterodiretti anche i produttori possono rappresentare un elemento non puramente passivo.
I sociologi, ma anche gli economisti agrari hanno pertanto riconosciuto che una stratificazione delle aziende agricole di tipo antropologico è oggi altrettanto utile delle tradizionali variabili strutturali per comprendere le dinamiche in atto e anche per prevedere gli impatti delle politiche a livello comunitario o locale. . Per sottrarsi alla “spirale tecnologica” in alcune realtà i produttori zootecnici olandesi hanno adottato uno stile produttivo definito da van der Ploeg farming economically . Sistemi di riduzione dei costi e di estensivizzazione sono stati applicati anche in altri paesi. Sviluppate in Nuova Zelanda nuove tecniche di allevamento si sono diffuse in Gran Bretagna, Francia ed Irlanda, ma anche in Svizzera Si tratta di sistemi basati su vacche “rustiche” di taglia ridotta, in grado di utilizzare al meglio il pascolo; il periodo si asciutta è lungo, i parti stagionalizzati, la stagione di pascolo lunga, macchinari, attrezzature e ricoveri sono ridotti al minim. L’applicazione di queste tecniche a sistemi meno favoriti dal punto di vista climatico deve essere valutata attentamente; esse si sono sviluppate in ambienti a clima oceanico dove la stagione vegetativa è lunga, le pioggie ben distribuite e l’escursione termica contenuta. Vi sono, però, diverse possibilità di adattare lo stile zootecnico “economico” alle diverse condizioni ambientali; la chiave è legata ad una modificazione del rapporto tra le risorse che sono acquisite dall’azienda attraverso il mercato e quelle che sono prodotte e riprodotte nell’ambito dell’azienda riducendo la dipendenza dai sistemi di fornitura di mezzi tecnici e know how tecnologico. Nello stile “economico” delineato da van der Ploeg l’efficienza dell’utilizzo delle risorse è migliore in relazione non solo ad un maggior impiego di lavoro, ma alla migliore qualità del medesimo (largamente famigliare). In generale le risorse sono mobilitate maggiormente attraverso reti sociotecniche che non coinvogono relazioni di mercato (oltre al maggior peso del lavoro famigliare ritorna importante lo scambio di prestazioni, macchine, consigli tecnici tra vicini e tra allevatori). Lo studio di un’azienda concreta chiarisce meglio questi aspetti. L’azienda della Frisia presa da esempio da van der Ploeg è quella di Taeke Hoesksma condotta con l’aiuto del figlio. Un aspetto importante dal punto di vista zootecnico è che il Sig. Hoesksma alleva il tipo autoctono: la Frisona originale e non, come la maggior parte deggli allevatori frisoni, olandesi ed europei la Holstein, derivata nord.americana della Frisona.

Tabella. Caretteristiche salienti dell’azienda Hoeksma confrontate ad aziende di riferimento
Azienda Hoeksma Aziende di confronto
Superficie (ha) 58 60
lette/ha/anno (kg) 10.613 11.004
Vacche da latte 89 92
Vitelle e manze 89 81
Latte/vacca (kg) 6.449 7.256
Grasso latte (%) 4,53 4,44
Proteine latte (%) 3,61 3,65
Carne e animali venduti (Euro/vacca) 270 236
Prezzo vacche vendute (Euro/vacca) 466 429
Costi veterinari (Euro/vacca) 38 67
Produzione foraggera (kVEM/ha) 8.453 7.224
Concimazione azotata (kgN/ha) 217 300
Perdite nette di N (kg/ha) 221 327
Perdite nette di P (kg/ha) 23 54
Costo manodopera (Euro/100 kg latte) 0,19 0,53
Unità Lavorative a tempo pieno 2,51 1,60
Produzione latte/UL 227.000 421.000
Prezzo latte (Euro/100 kg) 32,18 29,37
Carne e animali venduti/100 kg latte 3,89 3,06
Introiti addizionali/100 kg latte 3,34 1,99
Prodotto lordo/100 kg di latte 39,41 34,42
Prodotto netto (escluso lavoro)/100 kg di latte 11,12 5,23
Compenso per il lav. famigliare/100 kg di latte 14,8 8,53
Profitto/100 kg di latte -3,67 -3,30

Hoesksma come si nota nella Tabella che le spese veterinarie contenute quasi della metà, acquista meno concimi chimici, mangimi e foraggi e fa molto meno ricorso a lavoro salariato.
E’interessante osservare come la minor produttività in termini di produzione lattea è compensata da alcune entrate addizionali che nelle aziende convenzionali sono molto basse. La minor specializzazione della Frisona originale rispetto alla Holstein si traduce in una migliore fertilità e in una migliore conformazione (e resa al macello) con il risultato che la produzione della carne è maggiore e anche il suo prezzo. Nell’azienda c’è anche tempo per dedicarsi a dei lavori artigianali ed essa partecipa a diversi programmi agroambientali. Dal punto di vista economico il compenso lavoro famigliare dell’azienda “economica” è nettamente superiore nonostante la maggior intesità di lavoro. Mediante le nuove tecniche low cost e di una minore intensità e specializzazione produttiva il produttore agricolo recupera non solo autonomia decisionale, ma anche margini di flessibilità e disponibilità di capacità lavorative da dedicare a forme di diversificazione.
Le implicazioni dell’economically farming sulla sostenibilità a livello aziendale e territoriale delle attività zootecniche sono ovviamente notevoli . Ci si potrebbe chiedere perché nonostante le implicazioni economiche ed ecologiche questo “stile” non solo non è promosso ma di fatto osteggiato dalle stesse politiche (con riferimento all’applicazione concreta e non alle enunciazioni generali) e il “sistema esperto” agricolo in Olanda come in Italia è orientato in ben altra direzione :
Sia l’ulteriore aumento della scala produttiva che lo stile produttivo “economico” rappresentano una via per ridurre i costi; la diffenenza consiste nel fatto che nel secondo caso vi è la possibilità di mantenere opportunità di lavoro e reddito per più aziende sul territorio (mantenendone la vitalità e la coesione sociale) , nel primo caso la maggior parte dei circuiti economici attivati dalle poche fabbriche del latte restano estranei al territorio e la maggior parte del reddito prodotto “a monte” e “a valle” dell’attività zootecnica è extra-agricolo (industriale e terziario).

Tabella. Confronto tra i caratteri salienti di due stili produttivi zootecnici (da van der Ploeg, 2000)
Faming economically Modernized farming
1. Mantenimento o miglioramento dei livelli di reddito sviluppando e ricombinando risorse autonome
2. Utilizzo flessibile e multiplo delle risorse
3. Sviluppo graduale equilibrato basato sulle risorse disponibili
4. Elevati livelli di utile per unità di prodotto
5. Tendenza alla multifunzionalità dell’impresa
6. Innovazione in ambito locale
7. Cambiamenti graduali, imparare facendo
8. Centralità del lavoro e delle reti di relazioni
9. Costruzione attiva del mercato e ricerca di prezzi all’azienda più elevati
10. Basso livello di input esterni e bassi costi finanziari
11. La sostenibilità è legata ai punti 6, 8 e 10
12. L’attività agricola è (ri)connessa all’ecosistema locale
13. Una base di risorse relativamente ridotta consente redditi accettabili 1. Per sostenere/migliorare i livelli di reddito vengono mobilitate nuove risorse mediante il mercato
2. L’uso e l’allocazione delle risorse è molto rigido
3. Aumento continuo e squilibrato basato su risorse esterne
4. Bassi livelli di utile per unità di prodotto
5. Alto livello di specializzazione
6. Dipendenza dalla disponibilità di nuove tecnologie
7. Modello di cambiamento per “punt di svolta”
8. Dipendenza dalla traiettorie e dalle istituzioni tecnologiche
9. Prezzi dati e subiti passivamente
10. Lavoro rimpiazzato da mezzi tecnici e nuove tecnologie
11. Sostenibilità legata a 7 e 8
12. L’attività agricola è slegata dall’ecosistema locale
13. Una base di risorse sempre maggiore è necessaria per generare un reddito accettabile

Nel caso della Frisia in uno scenario in cui il processo di concentrazione della zootecnia in poche grandi aziende non risultasse contrastato dalla presenza di una componente con uno stile produttivo “economico” il reddito provinciale della produzione di latte passerebbe da 227 a 138 milioni di Euro.
Il National Research Centre for Animal Husbandry olandese sulla base del confronto tra aziende sperimentali (“high tech” versus “low cost farm”) ha messo in evidenza come per ottenere lo stesso reddito l’azienda con robot di mungitura debba produrre 800.000 kg di latte, il doppio di quella low-cost.

BLAP versus duplice attitudine

La scelta del tipo genetico rappresenta un elemento chiave che caratterizza il sistema zootecnico sotto il profilo dell’intensificazione e della specializzazione produttiva. Il confronto tra vacche da latte di razze specializzate (Holstein, Brown Swiss, Jersey) con quelle a duplice attitudine (Pezzata Rossa e razze autoctone) è particolarmente interessante. L’aumento delle produzioni di latte (va ricordato che una vacca oggi produce 5 volte quello che produceva un secolo fa e 3 volte quello che produceva 50 anni fa!).ha comportato una selezione per animali con un metabolismo profondamente diverso da quello dei bovini allevati nel contesto dei sistemi agricoli tradizionali. L’utilizzo del’energia per la sintesi dei costituenti del latte assume una priorità molto più elevata e la vacca nel periodo successivo al parto, quando l’appetito è ridotto e l’assunzione di energia con gli alimenti non compensa quella impiegata per la produzione del latte, da fondo alle proprie riserve energetiche (tessuto adiposo sottocutaneo e, soprattutto accumulato nella cavità addominale e pelvica). La lipomobilizzazione, sotto lo stimolo della variazione dei livelli della costellazione di ormoni implicati nella regolazione del metabolismo energetico, è molto rapida e molto intensa. L’aumento della produzione nel corso della lattazione è stato conseguito dalla selezione spingendo sempre più in su il picco di lattazione grazie alla “spinta” ormonale . Dal punto di vista nutrizionale e del management dell’allevamento la BLAP (la bovina ad alta produzione, nel gergo della zootecnia produttivista) richiede attenzioni particolari. Innanzitutto la densità energetica della razione deve essere molto elevata per compensare la ridotta ingestione, negli allevamenti convenzionali la quota di concentrato supera in questa fase il 50% della razione, ma questo rappresenta un vincolo massimo per gli allevamenti biologici che normalmente non possono utilizzare più del 40% di concentrati (sulla sostanza secca della razione) tranne, appunto nel primo mese di lattazione quando è consentito arrivare a 50. L’equilibrio tra tipi di fibra, tipi di amido, zuccheri, lipidi nella razione diventa cruciale. Oltre a richiedere una notevole attenzione e competenza nutrizionistica l’alimentazione della BLAP è integrata da tutta una serie di additivi più o meno sofisticati proposti dall’industria (fonti di energia particolari quali glicole propilenico, propionato, lieviti, aminoacidi protetti, colture microbiche, integratori vitaminici, sali tampone, saponi e vari prodotti brevettati). Nonostante tutte le attenzioni prestate e la farmacia impiegata negli allevamenti le dismetabolie e i disturbi digestivi sono in agguato. Il periodo di transizione tra l’alimentazione dell’asciutta e quella di lattazione è estremamente delicato per le bovine ad altra produzione. Sono patologie condizionate dalla produzione elevata la chetosi, l’acidosi, la laminite, la dislocazione dell’abomaso, la sindrome della vacca grassa (vedi Approfondimento)

Anche quando i disturbi metabolici e digestivi della BLAP non si presentano in forma clinica manifesta essi sono causa di perdite di produzione, cali di fertilità, maggior spese veterinarie e predispongono gli animali ad altri problemi sanitari.
Le razze a duplice attitudine non presentano un picco di lattazione elevato (che richiede nella fase successiva al parto alimenti di particolare qualità, additivi e sistemi di allevamento in grado di consentire una gestione e un controllo specifici degli animali in questa fase produttiva ), ma sono anche meno suscettibili ai fattori di stress indotti da variazioni di tipo alimentare ed ambientale. Nelle razze non specializzate l’animale “protegge” maggiormente le proprie riserve corporee e reagisce con un calo di produzione ad una variazione ambientale laddove l’animale ad alta produzione continua a produrre attingendo prontamente alle sue riserve, ma esponendosi alle conseguenze di squilibri fisiologici e dello stress.
In un contesto difficile la minor produttività dell’animale a duplice attitudine garantisce una produzione modesta ma sicura. Dal punto di vista della sostenibilità dei sistemi zootecnici nella loro dimensione territoriale va anche sottolineato che essi si integrano ai sistemi foraggeri e pascolivi locali e presentano un’intrinseca flessibiltà essendo in grado (attraverso l’attribuzione di una diversa importanza relativa alle due produzioni:latte e carne) di adattarsi alle fluttuazioni e alla stagionalità del mercato, alle variazioni di condizioni meteoclimatiche, alle esigenze aziendali (specie in relazione alle variazioni di disponibilità di lavoro famigliere e alle esigenze di altre attività aziendali). Il minor investimento in strutture e impianti, la minore rigidità organizzativa, la minore esigenza di competenze specialistiche rendono l’allevamento di animali a duplice attitudine alla portata di aziende di dimensioni contenute e pluriattive favorendo la presenza di una maglia aziendale in grado di contribuire al presidio e alla manutenzione territoriale delle aree svantaggiate e di contribuire alla vitalità economica e sociale dei piccoli centri rurali.


La confusione che regna attualmente negli allevamenti di montagna: gli allevatori sono lasciati a se stessi perché i consigli e le indicazioni “tecniche” hanno troppo spesso sotteso interessi commerciali. Nella stessa mandria vi sono Red Holstein, Brown Swiss, Pezzate Rosse e incroci tra le diverse razze. Si tratta di tipi molto diversi tra loro la cui gestione in un’ìunica mandria non può determinare problemi

Riassumiamo di seguito i vantaggi di un sistema di allevamento basato su bovini a duplice attitudine:

• strutture più economiche;
• meno attrezzature e impianti tecnologici
• maggiore autosufficienza foraggere
• maggiore impiego del pascolo
• maggiore flessibilità nella gestione aziendale
• minor dipendenza da input tecnici e sistemi di conoscenza esperti
• compatibilità con la piccola azienda e la pluriattività

La Ue riconsce il contributo alla sostenibilità dei sistemi agricoli dei sistemi di allevamento bovini basati sulle razze a duplice attitudine e, con l’entrata in vigore della nuova PAC nel 2005 è previsto un premio di mantenimento per le razze a duplice attitudine, purchè si rispettano i seguenti requisiti: Il carico di bestiame deve essere pari o inferiore a 1,4 Uba/ha della superficie agricola foraggera con l'utilizzo di almeno il 50% della Sau foraggera a pascolo permanente; mantenimento in azienda per almeno sei mesi dalla domanda. Sono ammesse al premio supplementare (rispetto al pagamento unico e ad altri premi particolari) le seguenti razze italiane: Pezzata Rossa di Oropa, Pezzata Rossa Valdostana, Grigio Alpina, Bianca Val Padana, Pinzgau, Rendena, Varzese-Ottonese, Agerolese, Siciliana, Calvana, Pontremolese, Pustertaler, Sarda modicana, Pisana, Garfagnina, Sarda Bruna, Podolica Pugliese, Ceppi podolici.


Triplice attitudine: vacche Varzesi aggiogate all’aratro
Le razze a duplice attitudine avanzano in montagna
Se è vero che ancor oggi ci sono allevatori che passano alla Frisona (in Trentino, per esempio è imminente il sorpasso della Frisona sulla Bruna) molti altri, specie i allevamenti piccolo.med, allevamenti part-time, allevamenti non collocati nelle zone più favorevoli stanno passando dalla Brown Swiss alla Pezzata Rossa. E’ signifuicaticva la diffusione della Rendeva nelle zone alpestri della provincia di Varese e di Como, ma c’è anche una certa diffusione della Grigia Alpina. In assenza di scelte precise gli allevatori optano per soluzioni fai da te: vengono allevati soggetti F 1 con il padre di una razza da carne o si allevano anche parecchie bovine risultato dell’incrocio tra la Brown e una razza a duplice attitudine. Nelle piccole aziende dove non è possibile introdurre sistemi di alimentazione “moderni” o “spinti” questa tendenza è legata al fatto che la Brown va incontro a problemi di preoccupante compromissione dello stato corporeo con ovvie conseguenze in termini di fertilità e morbilità. Se poi le Brown sono condotte su pascoli magri e acclivi è probabile che il BCS (Body condition scoring) scenda sotto il valore di 2 e resti ancora inferiore a 2,5 alla fine dell’alpeggio quando, a fine lattazione, dovrebbe risalire a 3,5 per assicurare condizioni favorevoli per i cicli di parto – lattazione – concepimento.

Bovina Brown Swiss in pessime condizioni corporee


Vacca derivata Blu Belga

Un quadro delle razze bovine allevate in Italia

Razze bovine specializzate da latte Caratteristiche
Frisona italiana (derivata Holstein nordamericana) Taglia elevata, (700 kg la vacca) necessità alimentazione e cure adeguate alla fortissima potenzialità produttiva
Bruna (derivata Brown Swiss statunitense) Taglia elevata, produzioni inferiori alla Frisona, ma pur sempre molto elevate con migliore titolo di proteine e maggiore frequenza k-caseina BB.
Jersey Taglia ridotta (meno 400 kg le vacche), caratteri lattiferi estremamente pronunciati, elevatissimi tenori di grasso (6% e proteine 4%), il latte non si presta alla pastorizzazione, e viene miscelato con quello della Frisona per correggere i bassi tenori lipidici, specie in estate. Si presta a trasformazioni casearie aziendali.

Razze italiane specializzate da carne Caratteristiche fisico-morfologiche
Chianina Razza di grande taglia, la più alta al mondo. Allevata anche nelle americhe in purezza e in incrocio,
Podolica pugliese Di eccezionale rusticità, si adatta a tutti gli ambienti più difficili e ha una notevole facilità al parto con una produzione discreta di latte che assicura notevoli accrescimenti ai vitelli. se incrociata con razze da carne aumenta la resa alla macellazione e la qualità della carne
Marchigiana Eccellente rusticità , forte sviluppo delle masse muscolari e ottima resa alla macellazione. Ha forti incrementi in peso giornalieri e precocità.
Romagnola Buona rusticità che si estrinseca in particolare nella buona resistenza al freddo e all’umido. Ha una buona resa alla macellazione specie per i quarti posteriori e rande attitudine al parto. E’ una buona produttrice di latte e ha rese al macello elevate.

Razze italiane a duplice attitudine Caratteristiche
Pezzata rossa italiana Utilizzata nella linea vacca – vitello ha una buona produzione lattifera e carnea. Si adatta bene in terreni difficili, ma non impervi. Può essere utilizzata anche per la produzione di latte
Grigia alpina Produzione 4.800 kg, peso della vacca: 400-450 kg. Adatta per pascoli impervi, produzione vitelloni precoci con più che discrete rese.
Rendena L’attitudine è maggiormente lattifera con media di produzione di 4.800 kg, ottenute con razioni a base di foraggi tradizionali e con la pratica dell’alpeggio nel 70% dei capi. Produzione di vitelloni precoci di 12-13 mesi con discrete rese
Piemontese Selezionata per la carne mediante programmi di performance test di stazione dei torelli la Piemontese è “ufficialmente” una razza da latte, gli allevatori la utilizzano anche per il latte ottenendo anche prodotti tipici
Valdostana Pezzata Rossa La Valdostana presenta anche le varietà Pezzata Nera e Castana (quest’ultima decisamente più rustica e affine alla razza svizzera d’Herens utilizzata per le “battagle delle regine”). La Valdostana è legata alla produzine della Fontina. Adatta alla produzione di vitelloni precoci con discrete rese.
Reggiana Già sull’orlo dell’estinzione negli anni ’70 è in piena ripresa grazie alla produzione del Parmigiano Reggiano di vacche Rosse (ossia Reggiane), discrete produzioni di latte, qualche problema di mungibilità e di docilità.
Modenese/Valpadana Conta poco più che un centinaio di capi, elevato rischio di estinzione.
Modicana Razza di grande taglia, colore rosso vinoso caratteristico molto rustica adatta alla vita all’aperto. Allevata oltre che in Sicilia anche in Calabria e Sardegna dove ha dato origine ad una popolazione derivata
Pezzata Rossa d’Oropa
Garfagnina
Sardo Bruna Rappresenta la popolazione sarda derivata dalla Bruna originale svizzera
Varzese/Ottonese Razza a rischio di estinzione ridotta ad un numero limitato di capi ed esposta nel recente passato all’erosione genetica da parte della Limousine, attualmente in ripresa grazie a programmi di recupero. In Piemonte si produce con il suo latte il formaggio Montebore.

Razze da carne estere Caratteristiche fisico-morfologiche
Limousine Francese, una delle razze bovine più diffuse nel mondo, si adatta molto bene all’allevamento all’aperto. Precoce, carne molto apprezzata, rese elevate. Può essere usata sia per produrre vitelloni precoci che per l’incrocio industriale*. I vitelli nascono piccoli, ma poi si sviluppano rapidamente consentendo di utilizzare il toro Limousine anche su vacche di taglia contenuta senza determinare problemi di parto. In Italia utilizzata per l’incrocio industriale, ma anche per l’allevamento delle vacche nutrici. Ingrasso del vitellone a partire da vitelli nati in Italia o di provenienza francese
Bianca.Blu Belga Razza con grande sviluppo muscolare, ossature ed elevati incrementi ponderali; è adatta per l’allevamento intensivo. In Italia usata solo per l’incorcio industriale.
Aberdeen-Angus Rese elevatissime al macello, carne molto grassa poco apprezzata dal consumatore italiano, si adatta a foraggi scadenti e all’allevamento estensivo. Qualche allevamento anche in Italia.
Charolaise Razza di grande mole, tardiva. In Francia si produce ancora il manzo (castrato), in Italia si produce il vitellone tradizionale di 16-18 mesi del peso di 600-650 kg. Ottima la qualità della carne.
Highland Razza della Scozia settentrionale. E’ la più rustica delle razze bovine europee. Molto longeva. Introdotta di recente anche sulle Alpi (Svizzera ed Italia) in allevamenti estensivi per l’utilizzo di aree marginali. Può rimanere all’aperto anche con copertura nevosa.

* incrocio industriale = si ottiene mediante fecondazione di vacche di razze da latte o a duplice attitudine con tori di razze da carne specializzate

Le patologie condizionate dall’elevata produzione delle bovine da latte

La chetosi (conosciuto anche come acetonemia) è una dismetabolia piuttosto frequente nelle vacche da latte, particolarmente in quelle ad alta produzione, si verifica soprattutto nelle prime 4 - 6 settimane dopo il parto. La chetosi è legata all’eccessiva concentrazione ematica di corpi chetonici (acetoacetato, acetone, D--idrossibutirrato) in seguito ad un calo della glicemia e ad una lipomobilizzazione molto intensa. Essi si formano nel fegato dall’ acetil CoA, prodotto dall’ossidazione degli acidi grassi. I corpi chetonici si accumulano perché la loro sintesi non è controbilanciata dall’utilizzazione da parte dei tessuti periferici (principalmente il cervello) dove entrano nel ciclo degli acidi tricarbossilici con la funzione di fornire energia quando il livello ematico di carboidrati (come nel caso del digiuno) si abbassa.
Dei tre corpi chetonici suddetti l'acetone invece è tipicamente presente nelle forme conclamate di chetosi ed è possibile rilevarne il particolare odore nell'alito, nell'urina e nel latte delle bovine affette. I sintomi principali della chetosi conclamata sono dati da calo rilevante nella produzione di latte, rapida perdita di peso corporeo, disappetenza, disturbi intestinali con produzione di feci coperte da muco, pelo arruffato, rifiuto d'assunzione dei cereali a favore di fieni e foraggi secchi. La chetosi può essere primaria o secondaria, aggravata cioè da altre condizioni patologiche come ritenzione di placenta, mastiti, dislocazione dell'abomaso, nefriti ecc. La chetosi può essere causa dell'insorgenza della dislocazione dell'abomaso ed è sicuramente uno tra i fattori di maggior spicco nella depressione delle capacità immunitarie della mammella. E’ importante la relazione tra chetosi e la capacità riproduttiva della bovina: in condizioni d'ipoglicemia e corpi chetonici in eccesso è stato dimostrato un ritardo nel ripristino dei cicli estrali dopo il parto, che incide negativamente sulla lunghezza dell'interparto.
Tra i disturbi digestivi provocati dal tipo di razione necessaria per coprire i fabbisogni alimentari elevatissimi delle super cows (ma anche dei vitelloni precoci a rapido accrescimento), uno dei più frequenti è l’acidosi. L’acidosi è un disordine metabolico legato all’assunzione di grossi quantitativi di cereali e perciò di carboidrati facilmente fermentescibili; nel rumine il risultato di questo carico eccessivo di carboidrati si traduce in un aumento notevole della concentrazione ruminale dell’acido lattico, associato ad una riduzione del pH. Tutto questo comporta inoltre una ridotta motilità ruminale, fino alla stasi del rumine stesso con fenomeni di ruminite, ipercheratosi e distruzione delle papille ruminali.
Il normale pH del rumine è pari a 6,5, quando - per effetto dell'accumulo dell’acido lattico -questo valore scende a livelli inferiori a 5 nell'acidosi acuta e 5.5 nella forma cronica, si ha un cambiamento nella composizione della microflora ruminale, con anormale proliferazione dei microrganismi lattici (Streptococcus bovis, lattobacilli) e diminuzione degli utilizzatori (Megasphaera elsdenii). Nei casi più gravi, la liberazione d'endotossine derivanti dalla microflora ruminale ed istamine dalla decarbossilazione degli aminoacidi provoca fenomeni di tossiemia ed influenza la microcircolazione periferica, con l’insorgenza di laminiti. La depressione dei sistemi immunitari associata ad alterazione della mucosa del canale del capezzolo è causa inoltre di mastiti e edema mammario. L’acidosi si manifesta in due forme: acuta: secondo la gravità della situazione, si può avere morte improvvisa degli animali, ruminiti, stasi ruminale, grave inappetenza, ascessi epatici. A causa della forte caduta del pH, il rivestimento della parete ruminale è danneggiato, con distruzione delle papille ed infiammazioni della mucosa abomasale ed intestinale. subclinica: nella forma cronica l’acidosi presenta sintomi meno evidenti, ma altrettanto pericolosi, anche per la difficoltà di diagnosticarli in tempi brevi; in effetti, la risposta più chiara dell’animale a questo disordine metabolico è data dalla ridotta assunzione di cibo e da una caduta produttiva, con alterazione delle caratteristiche qualitative del latte (calo del tenore di grasso). A tutto ciò si associa spesso una scarsa condizione fisica, nonostante l'apporto energetico adeguato della razione, la comparsa di diarrea e di laminite. L'’acidosi cronica è la diretta conseguenza dell'aumento di concentrazione energetica della razione, effettuata per sostenere le alte produzioni delle bovine. Durante il periodo di transizione dall’alimentazione della vacca asciutta a quella di lattazione e nei primi 50 giorni di lattazione, la bovina è sottoposta a notevoli cambiamenti fisiologici e gestionali che possono favorire l'insorgenza dell’acidosi.Durante il periodo dell'asciutta, infatti, le razioni prevalentemente composte da foraggio e con scarsa concentrazione energetica influenzano la composizione della microflora batterica, con il calo numerico dei microorganismi produttori d'acido lattico e di quelli capaci di convertirlo in acido acetico e propionico.Inoltre c'è anche una diminuzione della lunghezza delle papille ruminali e della capacità assorbente della mucosa stessa (l'area assorbente ruminale può ridursi fino al 50%). Se al momento del parto e nei primi giorni di lattazione la bovina è riportata bruscamente ad un'alimentazione basata su notevoli quantità di carboidrati fermentescibili si svilupperà acidosi, poiché la popolazione microbica capace di convertire l’acido lattico risponde molto più lentamente di quella produttrice ai cambiamenti della razione. Oltre a ciò, viene a ridursi la produzione di saliva legata alla fibrosità della razione e di conseguenza il potere tampone che minimizza la diminuzione del pH ruminale. Influsicono sulla comparsa dell’acidosi:

• il tipo di amido e i trattamenti della granella;
• la quantità di foraggio;
• la frequenza di distribuzione dell’alimento

La laminite (affezione della lamina cornea che costituisce la superficie plantare dell’unghione) è considerata una delle più frequenti malattie podali dei bovini. E’ un’ affezione asettica dei provocata dalla gestione alimentare. L’ abbassamento del pH ruminale e ad un successivo stato d'acidosi generale dell'organismo provoca un’ aumento della pressione ematica, aggravato dall'immissione in circolo d'istamina ed endotossine. Il risultato di questo processo infiammatorio è in ultima analisi la compromissione delle pareti dei vasi sanguigni, con edema e iperemia dei tessuti del piede. L’unghione perde la sua compattezza, con comparsa sulla suola di zone emorragiche circoscritte, un terreno ottimale di crescita per lo sviluppo di molti batteri anaerobici.
La dislocazione dell'abomaso causa notevoli perdite economiche, sia per il costo del trattamento (prevalentemente chirurgico) che per le perdite di produzione e per l'eliminazione precoce di soggetti. La dislocazione si verifica quando l’ abomaso si sposta dalla sua collocazione normale, nella parte ventrale destra dell'addome, verso il lato sinistro ( più frequentemente) o destro dell'animale; può essere ulteriormente aggravata dalla torsione dell'organo. Circa l’ 80 % delle dislocazioni si verificano entro il primo mese dal parto. La dislocazione dell'abomaso - che per semplicità chiameremo DA - è un problema multifattoriale, le cui cause possono ricercarsi nell'alimentazione, nella gestione aziendale e in fattori individuali. La ridotta ingestione di sostanza secca riduce il grado di riempimento del rumine facilitandone lo spostamento dell’abomaso sotto il rumine. Forti distribuzioni di cereali o concentrati nell’ultima fase di gravidanza, effettuate per preparare la vacca alla lattazione, favoriscono il calo nell'assunzione di sostanza secca e nel grado di riempimento del rumine, aumentando inoltre le concentrazioni ruminali di acidi grassi volatili. L’eccesso di questi acidi, non assorbito dal rumine, passa nell'abomaso, deprimendone la motilità e le contrazioni; bisogna inoltre tener conto che razioni ad alta percentuale di concentrati portano ad un incremento nella produzione di gas, causa ulteriore di atonia. Un’ adeguato strato di fibra nel rumine cattura la granella dei cereali, facendo sì che la fermentazione avvenga nella metà superiore del rumine e garantendo un assorbimento ottimale degli acidi grassi volatili. Per garantire la formazione di questo “letto” è necessario distribuire quotidianamente alla bovina almeno 4,5 kg. di ottimo fieno lungo, per i ben noti vantaggi che questo comporta per la ruminazione, per la motilità ed il grado di pienezza ruminale.
La sindrome della vacca grassa è un’altra dismetabolia tipica delle bovine ad alta produzione; frequentemente si presenta associato a chetosi e dislocazione dell'abomaso, soprattutto in animali obesi nell’ultima fase di lattazione o in asciutta. In questo caso infatti, gli acidi grassi sintetizzati nel fegato vengono accumulati come trigliceridi nei tessuti adiposi corporei. Quando esistano condizioni di accresciuta richiesta energetica non supportata da un’adeguata assunzione di sostanza secca (come appunto nell'immediato postparto), i trigliceridi del tessuto adiposo vengono convertiti in glicerolo e NEFA (acidi grassi non esterificati). Queste sostanze sono normalmente impiegate come substrato energetico per i tessuti muscolari e vengono usate dalla mammella per la sintesi del grasso del latte. I NEFA giungono al fegato grazie al flusso ematico e qui possono essere ossidati con risultante produzione di energia e corpi chetonici, oppure sono nuovamente esterificati in trigliceridi, i quali, a loro volta, possono essere immagazzinati oppure allontanati sotto forma di lipoproteina a bassa densità (VLDL). Il processo di allontanamento nei ruminanti avviene ad una velocità molto bassa rispetto ad altre specie, per cui - in condizioni di eccessiva produzione di NEFA e successiva esterificazione - si verificano facilmente degli accumuli che compromettono la funzionalità epatica.

L’ infiltrazione di grasso nel fegato peggiora la situazione in quanto compromette sia la capacità di detossificare l'ammoniaca in urea, sia la possibilità di sintetizzare glucosio, peggiorando notevolmente il già conclamato deficit energetico tipico del postparto.
Le bovine che sviluppano questo dismetabolismo sono in genere animali che arrivano al parto con condizione corporea eccessiva (bovine obese, con BCS >4), e presentano grandi accumuli di grasso omentale o sottocutaneo. I sintomi sono spesso aspecifici, come per es. aspetto depresso, anoressia, perdita di peso e tendenza al decubito per debolezza. Sono spesso presenti anche cali produttivi e scarsa motilità ruminale. Altre patologie associate a questa sindrome sono rappresentate da metriti, ritenzione di placenta, mastite, febbre da latte e dislocazione dell' abomaso. Anche la fertilità viene compromessa, a causa del maggior numero di giorni necessari alla ripresa della prima ovulazione dopo il parto.

Misurare la sostenibilità dei sistemi zootecnici

Da diversi anni nell’ambito degli studi sui sistemi agricoli zootecnici ci si è posti il problema della traduzione dei principi della sostenibilità in criteri operativi in grado di orientare le azioni pubbliche nel campo agricolo e dello sviluppo rurale. Va subito precisato che la valutazione della sostenibilità non può non essere condotta a due livelli: quello dell’azienda agricola e quello del sistema territoriale.
La valutazione della sostenibilità a livello aziendale assume una grande importanza in relazione alla direzione del mutamento della PAC che condiziona il sostegno all’azienda al rispetto di standard ambientali minimi mentre una parte specifica di trasferimenti è legata all’adesione dell’azienda a schemi che comportano impatti positivi sull’ambiente. La valutazione della sostenibilità di un’azienda riguarda l’aspetto ecosociale ( ossia il contributo dell’azienda allo sviluppo sostenibile), ma anche l’autosostenibilità. Non avrebbe significato, infatti, valutare positivamente un assetto aziendale in grado, oggi, di contribuire positivamente alla sostenibilità e allo sviluppo rurale se l’azienda non ha speranze di continuità.
Secondo alcuni, quindi, la presenza di un successore alla guida dell’azienda rappresenta un elemento chiave della sostenibilità. A questo punto si apre il problema dei fattori in grado di determinare la successione. Quelli economici sono senza dubbio importanti come dimostra il fatto che i giovani che prosegono l’attività agricola, specie nelle situazioni territoriali meno favorevoli, lo fanno solo se le dimensioni aziendali sono in grado di fornire un reddito più che sufficiente per la famiglia .
D’altra parte il raggiungimento di un livello di reddito soddisfaciente può non rappresentare una condizione sufficiente. Sulla permanenza delle aziende agricole pesano anche fattori extra-economici legati al grado di considerazione sociale che l’attività agricola riceve e dalla percezione di questa da parte dei conduttori e delle loro famiglie (autoconsiderazione). Le rappresentazioni dell’attività agricola nell’ambito delle comunità locali e in quelle più ampie condizionano il prestigio che gli allevatori godono nell’ambito della comunità e ciò ha evidentemente un’importanza decisiva sulla scelta di un giovane nel proseguire l’attività o di una giovane di sposare un allevatore. Da questo punto di vista redditività aziendale e considerazione sociale possono risultare almeno in parte disgiunte. L’immagine di una zootecnia industrializzata non trasmette un’immagine “amichevole” mentre, attualmente, ricevono attenzione e considerazione sociale i produttori che riescono a trasmettere attraverso i loro prodotti e i loro servizi un’immagine di professionalità e creatività personali valorizzando i valori e le risorse territoriali e ambientali. Pare importante aggiungere che la pura valutazione di profittabilità non tiene conto che le aziende di successo in termini economici (aziende di accumulazione nella terminologia economica agraria corrente) sono aperte a valutazioni di maggiore redditività degli investimenti che le possono portare a disinvestire dall’agricoltura (o ad investire in agricoltura, ma in sudamerica o nell’Europa dell’Est) mente, molto più frequentemente, le risorse accumulate in agricoltura (anche grazie ai trasferimenti pubblici) favoriscono l’investimento extra-agricolo in capitale umano (i figli, laureati in discipline non agrarie, vengono avviati a carriere in ambito extra-agricolo).
Valutare la sostenibilità aziendale solo in termini economici è discutibile anche da un altro punto di vista: il successo dell’impresa agricola non dipende solo dalla vendita di prodotti e servizi sul mercato, ma anche da trasferimenti pubblici che sono legati alle utilità ecosociali prodotte dall’azienda. E’ coerente valutare le chance di continuità di un’azienda su un successo economico attuale che contrasta con parametri ambientali il cui mancato rispetto potrebbe in un futuro vicino ridurre le entrate dell’azienda? La scelta degli indicatori quindi non è facile e può determinare l’ottenimento di risultati contradditori. Per esempio il reddito utilizzato come parametro deve essere al netto o al lordo dei trasferimenti pubblici? E’ bene tenere presente che alcuni indici rischiano di elidersi a vicenda dal momento che il loro significato sociale ed economico può essere opposto. Dal punto di vista economico è valutato positivamente il basso livello di Unità lavorative per ha, dal punto di vista sociale è valutato positivamente al contrario il volume di occupazione generato dall’azienda agricola. A prescindere da aspetti concettuali la disponibilità di informazioni può essere limitativa della possibilità di costruire indici in grado di discriminare efficientemente le aziende. Molte informazioni possono esser acquisite solo con indagini approfondite e costose (analisi del terreno e delle acque). E’ importante tenerere presente che la valutazione di sostenibilità a livello operativo aziendale non va considerata tanto a fini di studio o di orientamento di scelte politiche quanto a quello di orientamento retroattivo delle spelte degli stessi allevatori che devono essere pertanto in grado, eventualmente con l’aiuto di servizi di consulenza di utilizzare gli indici per sviluppare una migliore consapevolezza dei problemi e prendere le opportune decisioni per modificare le pratiche produttive aziendali. Secondo Kristensen e Halberg, (1997) gli indicatori di sostenibilità dell’azienda zootecnica devono:

• descrivere e tradurre in termini operativi gli aspetti effettivamente rilevanti dell’uso delle risorse aziendali e degli impatti ambientali in modo utilizzabile in sede di decisioni;
• devono essere calcolati, misurati, registrati dallo stesso allevatore con il supporto di un tecnico a costi ragionevoli;
• devono poter essere modificati dall’allevator stesso in seguito a modifiche nel management aziendale

 

Tabella – Schema di indicatori di sostenibilità delle aziende zootecniche
Autosostenibilità aziendale Parametri economici • Costi
• Produttività per unità di lavoro
• Produttività per capitale investito
• Produttività per unità di SAU
Parametri sociali • Reddito (annuo/orario)
• Condizioni di lavoro (sicurezza, igiene, ergonomia)
• Giorni di vacanza
• Gratificazione del lavoro
• Autopercezione considerazione sociale
• Identificazione valori rurali
Sostenibilità sociale Parametri socioeconomici • Connessione con circuiti artigianali e commerciali locali (% produzione destinata circuiti locali)
• Coinvolgimento dell’azienda in attività comunitarie (marchi di prodotti locali, circuiti turistici locali, manifestazioni promozionali, attività educative, culturali)(valutazione soggettiva)
Sostenibilità ambientale Efficienza energetica • utilizzo energia non rinnovabile (MJ/kg latte)
• % energia rinnovabile da varie fonti
Eutrofizzazione, inquinamento, riciclo • surplus N (e P) /ha/kg latte)
• (surplus N (e P)/kg latte)
• (surplus N (e P) /ha)
• sostanze tossiche utilizzate/kg latte
• % superficie aziendale trattata con pesticidi
• utilizzo di superfici agricole non foraggere (m2/kg di latte)
• % di N di origine extra-aziendale
• (% di energia di origine extra-aziendale)
Paesaggio/
biodiversità • % superficie aziendale occupata da piccoli biotopi
• % di copertura da malerbe nelle colture
• sviluppo lineare di siepi/alberature (u.l./u.s.)
• tipo genetico del bestiame allevato
• presenza di specie selvatiche a rischio
• % prati permanenti e pascoli
Struttura/fertilità terreno agrario • % superficie interessata dal passaggio di mezzi pesanti
• parametri fertilità attività biologica?
Benessere animale • giorni di mantenimento al pascolo
• qualità costruttiva ricoveri (luce, areazione, qualità pavimentazione)
• costi veterinari per vacca
• incidenza di mastiti per vacca
• incidenza malattie podali
• longevità (rimonta)

Ai fini di una valutazione immediata e di un confronto diacronico l’utilizzo di pochi indicatori di sostenibilità può consentire una traduzione in semplici forme grafiche (es. diagramma a “radar”).

Tabella. Unità, scale, and progressi negli indicatori di sostenibilità in una azienda ovina da latte della stato di NY tra il 1992 e il 2002
Indicatore Unità Scala originale % scala % 1992 % 1996 % 2002
1. Produttività Libbre di formaggio/acro 0-50 0-100 62 70 48
2. Salute delle pecore % senza problemi sanitari 0-100 0-100 79 78 94
3. Accrescimento agnelli % che raggiungono il mercato al peso di 70 libbre 0-100 0-100 40 19 23
4. Grado di autoapprovvigionamento % reddito netto su reddito lordo 0-100 0-100 28 42 36
5. Produzione compost Spargimento compost/acro 0-15 0-100 16 20 17
6. Autoapprovvigionamento energetico % trazione animale sul costo energetico totale 0-50 0-100 26 14 10
7. Efficienza del lavoro Ore/giorno/acro 0,48-0,12 0-100 63 83 98
8. Soddisfazione del lavoro % indice di qualità della vita 0-100 0-100 60 65 70


Ma i biogas è una soluzione?

Anche nelle valli alpine stanno sorgendo impianti aziendali o consortili per la produzione di biogas utilizzando i liquami zootecnic. Invece di risolvere i problemi dello squilibrio ecologico a livello aziendale e territoriale (vallate senza ormai più allevamenti ed aree ristrette con carichi elevatissimi) si preferisce puntare su soluzioni tecnologiche (disidratazione per esempio) che pongono problemi di costi energetici. E’ di più vasta portata il programma di produzione di biogas un esempio di soluzione “ecologica” solo in apparenza. Sulla spinta dell’improcrastimabile applicazione della Direttiva nitrati e del generale interesse del mondo industriale ed agricolo sull’utilizzo delle biomasse a fini energetici (spinto dai Certificati vedi che premiano con 13 cent/hWh le energie prodotte da fonti rinnovabili, è sorto tra 2006 e 2007 un grande interesse per gli impianti che producono biogas a partire dai liquani zootecnici. (vedi speciale Informatore Zootecnico della primavera 2007). A parte la fondamentale considerazione che l’abbattimento dell’azoto è molto ridotto e prescindendo sulle considerazioni sull’efficienza energetica di veri tipi di impianti e della loro dimensione (con la precisazione che quelli piccoli sono meno efficienti ma riducono i viaggi delle autocisterne di liquame) ci limiteremo in questa sede ad alcune considerazioni sull’impatto della “soluzione” biogas sui sistemi zootecnici. Da questo di vista ci preme mettere in evidenza quanto segue:

1) gli impianti a biogas contraddicono una delle funzioni fondamentali che – a detta di tutti gli autori - giustificano la presenza delle attività zootecniche all’interno di sistemi agricoli sostenibili, ovvero l’apporto di sostanza organica al terreno agrario (negli impianti di produzione del biogas buona parte della sostanza organica viene ‘bruciata’ previa digestione anaerobica dissipando buona parte dell’energia utilizzata per produrla sia solare che fossile);
2) l’operazione biogas si presenta come ‘ecologica’ se alle spalle si avalla l’operazione (pratica e semantica) di trasformazione in ‘rifiuto da smaltire’ di quello che deve essere considerato un prezioso concime organico;
3) gli squilibri che hanno determinato l’esigenza di ricorrere a questo ‘estremo rimedio’ (ovvero carichi zootecnici elevatissimi e ridotta autosufficienza alimentare degli allevamenti, rimango inalterati ed anzi cristallizzati (gli impianti devono essere ammortizzati) con il risultato che i sistemi agricoli esportatori netti di alimenti per il bestiame dovranno intensificare l’utilizzo di concimi chimici ed energia non rinnovabile per mantenere un ciclo “aperto”;
4) i fenomeni di concentrazione delle attività zootecniche in alcuni distretti verranno accentuati e verrà stimolata la concentrazione aziendale e territoriale dal momento che in queste aree la redditività verrà incrementata dai Certificati verdi e dalla “multifunzionalità energetica”; ne verranno penalizzati i sistemi meno intensivi che vedranno ridotta la loro competitività e verranno ulteriormente sospinti fuori mercato con conseguenze socioterritoriali ed ambientali negative.

I sistemi pascolivi

Lo studio dei sistemi pastorali rappresenta un aspetto fondamentale dei sistemi zootecnici montani costituendo una specificità che li differenzia dai sistemi intensivi di pianura. L’importanza dei sistemi pastorali è legata al loro carattere di attività estensive in grado di valorizzare territori cosidetti marginali (dal punto di vista dell’agricoltura e della zootecnia industriali), ma di rilevante importanza dal punto di vista dell’equilibrio ambientale e del turismo (polifunzionalità). Attraverso le attività pastorali è possibile realizzare interventi di manutenzione territoriale preventiva che possono risparmiare i costi ingenti legati alla necessità di prevenire incendi e dissesti e, sopratutto quelli relativi ai danni provocati dagli eventi calamitosi. In anni recenti è emerso anche il ruolo dell’attività pastorale per il mantenimento di valori paesistici e culturali che assumono forte rilievo nell’ambito di una valorizzazione, attraverso forme di turismo sostenibile, delle aree rurali montane e collinari. L’importanza delle attività pastorali in termini di produzione foraggera, paesaggistici e territoriali è legata alla grande estensione delle risorse foraggere permanenti che in Italia rappresentano con 4.700.000 ha, il 16% della superficie territoriale. La distribuzione delle risorse foraggere permanenti nelle regioni italiane è riportata nella Tab.

Tabella – Incidenza delle risorse foraggere permanenti sulla superficie territoriale nel 1991
Regione % Regione % Regione % Regione %
Valle d’Aosta 33 Veneto 11 Umbria 14 Puglia 8
Piemonte 19 Friuli V/G 8 Lazio 16 Molise 21
Liguria 10 Emilia R. 9 Abruzzo 21 Calabria 11
Lombardia 14 Toscana 8 Molise 12 Sicilia 14
Trentino-S/T 31 Marche 9 Campania 10 Sardegna 37

La situazione attuale dell’estensione delle superficie foreggere permanenti è il risultato di una forte contrazione verificatesi nel periodo successivo al 1960. La forte contrazione del patrimonio zootecnico, che ha ridotto quasi ovunque il carico animale, l’abbandono delle attività agro-silvo-pastorali nelle aree pedemontane e nei fondovalle (tranne in quelli dove le condizioni favorevoli hanno consentito lo sviluppo di attività zootecniche intensive dove si è aumentata la superficie degli erbai), lo spopolamento dei centri rurali meno accessibili, hanno rappresentato altrettanti fattori di riduzione delle superfici foraggere permanenti.

Tabella – Riduzione della superficie prato-pascoliva e del patrimonio zootecnico delle aree montane delle regioni alpine nel trentennio 1961-1991
Regione Sup. prato-pascoliva (ha) Bovini (capi)
1961 1991 diff.% 1961 1991
Valle d’Aosta 113.465 94.654 -17 42.967 33.672
Piemonte 475.061 283.461 -40 165.812 113.385
Lombardia 326.585 224.612 -31 168.606 112.412
Trentino-S/T 447.695 366.197 -18 184.216 185.411
Veneto 170.416 96.772 -43 96.436 73.737
Fiuli V/G 99.026 31.546 -68 27.263 9.953
Totale 1.632.248 1.097.242 -33 685.300 528.570
Da: Sabatini e Argenti, 2001

La diminuzione della superficie foraggera permanente e del patrimonio zootecnico dell’Arco Alpino presenta delle evidenti differenze. Nelle regioni Val d’Aosta e Trentino-AA, favorite dal punto delle risorse turistiche, ma anche da una autonomia legislativa e amministrativa e dalla disponibilità di risorse finanziarie che ha loro consentito di garantire un sostegno efficace all’agricoltura di montagna (oggetto di particolare attenzione in ragione del carattere montano della totalità del territorio), la contrazione delle risorse foraggere permanenti è risultata nettamente più contenuta. Nel caso del Trentino-AA il patrimonio zootecnico è rimasto stabile. Nel Friuli Venezia Giulia, colpito dal disastroso terremoto e interessato ad una opera di ricostruzione che ha favorito un rapido decollo industriale e l’esodo rurale, l’abbandono della zootecnia e delle superfici foraggere permanenti ha conosciuto una dimensione di dimensioni impressionanti.

Alcuni equivoci da chiarire

L’attività pastorale viene a volte confusa con l’allevamento degli ovini e dei caprini; a volte nel linguaggio corrente è declassata a sinonimo di attività di allevamento primitiva. Per quanto riguarda l’errore legato alla identificazione tra allevamento ovicaprino e attività pastorale si può osservare che, tradizionalmente, queste specie sono più frequentemente utilizzate nell’ambito di sistemi pastorali. E’ facile, osservare, però, che anche l’allevamento ovino e caprino può essere realizzato secondo modalità intensive e non possedere caratteristiche “pastorali” (vedi i modernii allevamenti caprini da latte intensivi tendenzialmente “senza terra” non privo di precedenti storici legati al ruolo della capra quale fonte di approvvigionament di latte fresco alimentare). Quanto all’idea di arcaicità evocata dall’attività pastorale esso rappresenta uno degli equivoci della modernità che tendeva a identificare nei sistemi intensivi l’unico modello cui avrebbero dovuto conformarsi tutti i sistemi produttivi animali e nei sistemi pastorali un “residuo del passato” destinato a scomparire.


Mungitura delle capre in alpeggio

Ciò che contraddistingue l’attività pastorale dall’attività agrozootecnica è l’utilizzo di risorse pascolive in larga natura “spontanee” reperibili nell’ambito di larghe superfici spesso al di fuori del contesto dell’azienda agraria, fertilizzate solo dalle deiezioni degli animali pascolanti. Sul carattere “spontaneo” delle risorse degli ambienti pastorali c’è da osservare che solo di rado l’attività pastorale non influisce sulle formazioni vegetali e che spesso la vegetazione utilizzata anche nel contesto di sistemi pascolivi intensivi si discosta sensibilmente dalla vegetazione climax pur presentando un carattere di stabilità (tanto da definire degli antropoclimax). Il presunto carattere “spontaneo” o “naturale” delle risorse pabulari utilizzate dai sistemi pastorali non può essere il criterio decisivo per discriminare i sistemi pastorali da quelli zootecnici. Da questo punto di vista contano più i criteri di carattere agronomico ed economico-giuridico. Mentre la zootecnia presuppone l’azienda agraria ed è in connessione con l’agricoltura la pastorizia può esercitarsi in modo del tutto indipendente dalle attività agricole. Dal punto di vista giuridico l’attività pastorale si sviluppa al di fuori della proprietà privata presupponendo superfici di proprietà collettiva indivisa o forme di godimento miste tali da sovrapporre alla proprietà privata diritti d’uso da parte delle comunità rurali. Le forme di proprietà pubblica (beni di proprietà comunale) nonché le sopravvivenze di forme di proprietà indivisa (per esempio i Consorzi d’alpeggio della Valchiavenna) o di usi civici rappresentano una discendenza indiretta delle forme di posesso collettiva dei boschi e dei pascoli attraverso le quali era goduto il territorio silvo-pastorale della montagna lombarda. Solo a partire dalle disposizioni legislative napoleoniche del 1806 e lombardo-venete del 1837 il quadro iniziò a modificarsi per tendere ad una generalizzata soppressione delle proprietà collettive che non erano confluite in quelle omunali (“beni degli antichi originari”). Dopo un processo durato quasi due secoli non mancano tutt’oggi esempi di beni silvo-pastorali gestiti da forme direttamente discendenti da quelle delle antiche comunità (tali sono le Università agrarie e le Vicinie delle valli bergamesche e bresciane) e non mancano voci che intravedono una possibile nuova funzione di queste aggregazioni economico-sociali.
E’interessante osservare che nel Canton Ticino, dove la modernizzazione napoleonica ha inciso in maniera molto meno profonda che in Lombardia, le istituzioni comunitarie hanno mantenuto una loro continuità che è rappresentata a tutt’oggi dalla realtà parallela del Comune “politico” (ente territoriale di diritto pubblico) e del Patriziato (corrispondente alle Vicinie o Società degli antichi originari lombarde) che mantiene un forte ruolo nella gestione dei beni silvo-pastorali.

Le specie di interesse zooecnico interessate allo sfruttamento pastorale sono diverse a seconda degli ambienti: bovini, yak, camelidi, bufalini, ovini, caprini. La pastorizia nella sua forma “pura,” rappresentata dal nomadismo, si è sviluppata prima dell’agricoltura e, nelle Alpi risale a 6.000 anni fa quando da Nord attraverso migrazioni e influenze culturali giunsero attraverso i Balcani e il bacino danubiano gli animali che erano già stati oggetto di domesticazione nell’area medio-orientale. Anche oggi la pastorizia può essere esercitata prescindendo del tutto da strutture agricole utilizzando terreni di proprietà comune o resi disponibili al di fuori di contratti agrari convenzionali. Nel nostro ambiente alpino la pastorizia ovina transumante rappresenta tutt’oggi una realtà ben presente. Sono da considerare pastorali anche quelle attività di allevamento animale che, in relazione al ciclo stagionale, sono esercitate durante una parte più o meno lunga dell’anno nell’ambito di spazi non interessati alla coltivazione. Nelle Alpi la pratica dell’alpeggio, caratterizzata da una forma di spostamento “verticale” mantiene alcune delle caratteristiche del nomadismo presupponendo un trasferimento per la durata di alcuni mesi dalla sede permanente a sedi temporanee.
In passato questo carattere nomadico dell’allevamento alpino era più evidente perché era maggiormente praticata una vera e propria transumanza che implicava lo svernamento nelle pianure (o quanto meno nei fondovalle) mentre era diffuso l’utilizzo di siti intermedi tra il villaggio e i pascoli in quota nella fase primaverile e autunnale (maggenghi). Si assisteva quindi a più numerosi e più lunghi trasferimenti eseguiti a piedi che marcavano la differenza tra la vita e la cultura dei montanari e quella degli agricoltori stanziali.
La transumanza tra montagna e pianura avveniva non solo per le pecore, ma anche per i bovini e per le capre.
Queste transumanza avevano un carattere che col tempo si andò differenziando sempre più mano a mano che nella Bassa aumentava la produzione di foraggi grazie all’irrigazione e si diffondeva la “cascina” intesa come unità specializzata di produzione zootecnico-casearia. Fino al XV secolo qualche bovino era al seguito dei greggi di ovini da latte (di razza Bergamasca, ma allora allevati per la lana e il latte) che si spostavano tra la montagna e la pianura, ma era mantenuto all’aperto o sotto rudimentali ripari anche d’inverno; da questo secolo in poi, invece, i bovini da latte che scendevano dalla montagna iniziarono ad essere accolti nelle stalle (con annessi “casoni”, ossia caseifici)mentre le pecore (e i loro pastori) continuarono a praticare una forma di transumanza “raminga”.

 

La transumanza

La transumanza consiste nella migrazione periodica stagionale del bestiame entro un area geografica di ampiezza tale da sfruttare la differenza di condizioni climatiche. La transumanza non comporta necessariamente una forma di allevamento nomade (in continuo spostamento alla ricerca di pascoli) ma può anche comprendere sistemi di allevamento che prevedono durante la stagione fredda il ricovero del bestiame e l’approvvigionamento con foraggi. La transumanza è comunque separata dall’attività agricola e i ricoveri e i foraggi eventualmente necessari durante l’inverno sono ceduti ai pastori da agricoltori stanziali.

La transumanza ovina

La forma di transumanza più nota e più diffusa in Europa e quella che interessa i paesi mediterranei (Spagna, Francia, Italia) dove in passato, e in misura ridotta ancor oggi, grossi greggi ovini si spostano in estate (a causa della scarsità d’acqua e di pascolo) verso pascoli di montagna. Nell’ambito alpino una forma di transumanza tipicamente mediterranea è quella che interessa la Provenza e le Basse Alpi (Alpi “secche”) dove, anche la piovosità non consente l’alpeggio dei bovini. Nelle Alpi la transumanza interessa, però, anche buona parte del versante meridionale, nonché alcune aree a Nord e a Est dello spartiacque. In passato le transumanze ovine avevano un raggio molto più esteso e i percorsi attraversavano lo spartiacque alpino e i confini degli stati. Dalle vallate alpine francesi le pecore si spostavano oltre che verso la Provenza verso la pianura piemontese mentre dalle zone pedemontane tra Ivrea e Novara i greggi raggiungevano le vallate valdostane. Dalle alpi marittime i greggi di Roaschia (Cuneo) si spostavano in inverno verso la pianura lombardo-emiliana. I pastori trentini (della Val di Sole, Val di Non, Tesino) in inverno si spostavano verso la pianura lombarda (bresciano e mantovano) e veneta. Quelli veneti e friulani in estate si dirigevano in Carinzia. La transumanza ovina è quella bergamasca. Dalle aree padane di svernamento (basso Piemonte, bassa Lombardia, Emilia) le greggi dopo aver sostato per un certo nelle zone di origine dei pastori tra la Val Seriana e la Val Camonica si dirigevano oltre lo Spluga, il Bernina raggiungendo i Grigioni e oltre il Tonale. Anche a Nord delle Alpi nella Germania meridionale e sud-occidentale era praticata la transumanza ovina: dagli altopiani del Giura svevo e francone le greggi si spostavano in autunno a Sud per utilizzare le stoppie sui campi già mietuti della pianura danubiana; in inverno risalivano a Nord nella regione tra il Reno e il Meno. Nelle Alpi la transumanza ovina daterebbe all’XI-XII secolo. (fonti!)


Pastore bergamasco con i figli, il cane e il gregge in un ex-voto

La transumanza bergamasca

Le greggi che ancor oggi alpeggiano da giugno a settembre nelle alpi dell’Alta Valle Seriana, delle Valle di Scalve e della Valle Camonica svernano ancor oggi in un’area che comprende, oltre a quelle di Bergamo e Brescia le provincie di Milano, Lodi, Cremona, Mantova, Piacenza, Parma Pavia, Lecco, Como, Varese, Novara, Vercelli e Alessandria. Tra i greggi transumanti è possibile distinguere quelli che utilizzano l’alta pianura e quelli che si portano nella bassa pianura dove, di norma, possono disporre di foraggi migliori. In tempi recenti oltre alle risorse marginali tradizionalmente utilizzate dai greggi argini di canali, bordi di strade, margine dei campi spesso in violazione delle norme sul pascolo, i greggi utilizzano sempre più frequentemente spazi periurbani dove le attività agricole vere e proprie non sono più esercitate, sedimi di vie di infrastrutture di comunicazione (compresi aeroporti).
Il pascolamento intorno alle mura di Bergamo e in alcune zone suburbane della città ha assunto un valore che non è solo simbolico indicando che il pascolo ovino rappresenta un mezzo ecologicamente ed economicamente sostenibile per la cura di quella fascia territoriale, sempre più importante, che costituisce la frangia urbana, e che non ha più caratteristiche agricole ma non si desidera che assuma caratteristiche urbane.

In montagna

La presenza degli ovini negli alpeggi rappresenta una caratteristica delle montagne bergamasche. Nei primi anni ‘70 (POLELLI, 1975)sul totale di 31.827 ovini alpeggiati in Lombardia 18.243 risultavano caricati su alpeggi bergamaschi rappresentando il 22,9% del carico totale di bestiame alpeggiato in provincia. In Val Seriana alpeggiavano 9.574 capi ovini, 5.944 in Val Brembana e 3.725 in Val di Scalve. In Val Camonica erano alpeggiati 6.084 capi (il 71% di quelli alpeggiati in Provincia di Brescia). Solo in Val Seriana e in Val di Scalve il numero di ovini superava quello dei bovini. La ripartizione tra le varie specie di animali alpeggiati nell’ambito delle Comunità Montane della Lombardia è riportata nella Tab.6 dove si nota che solo nelle valli Seriana superiore e di Scalve il numero di ovini superava quello dei bovini. La massiccia presenza di bestiame ovino sui pascoli dell’Alta Valseriana è da mettere in relazione con alcuni elementi di svantaggio che caratterizzano diversi alpeggi della zona (pendenze notevoli, rocciosità, scarsezza di acqua, erbe dure) (SERPIERI, 1907).
La “Carta della Montagna” (MINISTERO DELL’AGRICOLTURA E FORESTE, 1976) metteva in luce come in seguito alla forte contrazione del carico di bestiame bovino delle alpi, determinata dalla perdita di 47.000 capi tra il 1960 e il 1970, nel territorio delle comunità montane lombarde il carico medio reale risultava del 30% inferiore di quello potenziale (76.133 UBG contro 53.411 caricate). Questo induceva gli autori dell’indagine ad auspicare un rilancio dell’allevamento della pecora Bergamasca.

“La potenzialità produttiva di vaste aree pascolive nelle alte valli ai fini dell’incremento della produzione di carne legata alla pecora gigante Bergamasca è rilevante (si stima superiore di 3 volte al carico attuale), tuttavia pur considerandone l’alta redditività, le limitazioni alla diffusione degli allevamenti ovini sono poste, in modo insuperabile, dalla deficienza dei pascoli vernini, a meno che non si attui in forma organizzata e associativa l’allevamento invernale, come del resto è praticato in alcuni paesi”.

Veniva pertanto auspicata una politica tesa ad incrementare piccoli allevamenti presso le aziende permanenti montane ed anche collinari (20-30 capi ciascuna) potrebbe ridurre la passività e gli inconvenienti invernali ed incrementare così il patrimonio ovino, considerata la vasta disponibilità di pascoli estivi. Oggi possiamo affermare che se vi è stato un aumento dei capi ovini alpeggiati e se il numero di alpeggi non utilizzati è rimasto contenuto, ciò è merito principalmente della pastorizia transumante. La Tab. 7 consente di confrontare i dati dell’indagine del 1974 con i dati più recenti relativi agli alpeggi della provincia di Bergamo
Dopo aver sostato sui “prati di casa” in genere di proprietà del pastore dove le greggi si trattengono a maggio o giugno per una quindicina di giorni o al massimo un mese in attesa di salire ai pascoli di montagna. Le greggi non raggiungevano direttamente gli alpeggi veri e propri ma, al fine dell’acclimatamento ed in attesa dello scioglimento delle nevi, sostavano su pascoli siti a 1.000-1.500 metri (‘ndà a tempurìt).
Oggi questo avviene più raramente e le greggi utilizzano questi pascoli “intermedi” solo per un breve periodo dopo lo scarico del bestiame da latte durante il mese di settembre. Anche i questo caso le forme di utilizzo si sono modificate. Infatti in passato la sosta degli ovini sul pascolo autunnale era molto importante ed era codificato dai capitolati d’alpeggio che prevedevano l’affitto o il subaffitto ai pastori solo per questo periodo. Secondo il SERPIERI (1907), che non mostrava certo molta simpatia per gli ovini, queste pratiche determinavano un eccessivo sfruttamento dei pascoli come avveniva, a detta di questo autore, sui “monti” di Clusone dove in autunno pascolavano le greggi di ritorno dalla Svizzera. L’accorciamento delle stazioni intermedie ha ridotto il periodo complessivo dell’alpeggio rispetto al passato. Ciò appare legato sia alle condizioni disagiate dell’alpeggio che alla riduzione dei maggenghi. I pastori in passato lasciavano la pianura alla fine di aprile o agli inizi di maggio; oggi, invece restano al piano sino a maggio inoltrato o persino a giugno quando si trasferiscono direttamente sugli alpeggi. I pascoli di alta quota (sopra i 1800-2.000 m.) sono utilizzati come in passato solo a luglio ed agosto “luglio in cima al monte settembre in fondo alla valle”.

In passato quando il gregge tipico era composto da 100-150 capi più pastori univano i loro greggi ed in questo modo alcuni erano sollevati dalla loro custodia e potevano trascorrere l’estate presso i paesi d’origine svolgendo lavori agricoli. Le complesse modalità dello sfruttamento delle diverse fasce altimetriche della montagna, volto all’utilizzo estensivo, ma il più ampio possibile risorse foraggere del territorio, è descritto dal PRACCHI (1940). Osservazioni molto interessanti sull’alpeggio e la transumanza relative agli anni ’20 sono riportate anche da SCHEUERMEIER (1974).
Le praterie alpine inframmezzate da rocce affioranti e spesso fortemente scoscese sono i pascoli tipici degli ovini.. Nonostante la non uniformità della cotica erbosa la le pecore trovano ottime piante foraggere in questo ambiente apparentemente poco ospitale. Esse devono però essere pascolate per tempo perché la carenza idrica e le condizioni climatiche determinano una rapida maturazione delle essenze erbacee con un forte aumento delle componenti fibrose e la riduzione della digeribilità e del valore nutritivo. Alcune Alpi sono in parte utilizzate dai bovini ed in parte dagli ovini; in questo caso gli ovini occupano le fasce più elevate e rocciose.
Spesso in questo caso il pastore può utilizzare il pascolo senza prenderlo in affitto stipulando accordi informali con i caricatori d’alpe. In altri casi, che nel corso degli ultimi anni si erano fatti sempre più frequenti, la diminuzione del bestiame bovino alpeggiato ha consentito ai pastori di affittare intere alpi. Spesso le alpi non più utilizzate per i bovini sono meno facilmente accessibili e meno dotate di strutture, ma possono risultare del tutto idonee per gli ovini. Nell’ambito dei grandi alpeggi utilizzati sia da bovini che da ovini i pastori hanno a disposizione alle quote più elevate solitamente dei baitelli rudimentali o dei rifugi ricavati utilizzando delle rocce spioventi come copertura e semplici muretti a secco. Non mancano comunque in alcuni alpeggi degli ovili in muratura e ricoveri per i pastori abbastanza confortevoli. Negli ultimi decenni i fabbricati delle alpi hanno ricevuto cure manutentive inadeguate (Rho, 1984), e ciò ha certo scoraggiato diversi pastori a continuare la loro attività. Attualmente da parte degli enti pubblici si assistite ad una rinnovata attenzione per gli alpeggi cui viene attribuita una funzione importantissima per il mantenimento dell’ambiente, del paesaggio e delle tradizioni della montagna. Ci si augura che tale interesse, al di là dei pur opportuni contributi elergiti ai caricatori, possa condurre ad oculati interventi di ripristino e di miglioramento delle dotazioni strutturali ed infrastrutturali delle nostre alpi.

La presenza delle pecore non è sempre considerata favorevolmente dai malgari. Da un punto di vista tecnico, però, se il gregge ovino è sorvegliato e gestito con attenzione, spostandolo frequentemente, evitandone la discesa anticipata sui pascoli riservati ai bovini ed evitando le soste prolungate in zone ristrette, la presenza di pecore sugli alpeggi può risultare positiva ai fini del mantenimento della qualità del cotico erboso. In particolare gli ovini, una volta che i bovini hanno abbandonato l’alpe, devono essere fatti pascolare sui residui non consumati dai bovini per il tempo sufficiente ad esercitare una conveniente “pulizia”. La capacità dell’ovino di utilizzare erbe dure, recidendo gli steli ad una ridotta distanza dal suolo, è utile al miglioramento dei pascoli degradati a seguito di carichi di bestiame bovino insufficienti e/o di sistemi di pascolo libero che non consentono l’uniforme utilizzo delle superfici. L’effetto del pascolo ovino determina 1) contenimento di essenze poco appetite dai bovini che tendono ad una forte copertura delle superfici a pascolo a scapito delle migliori foraggere; 2) apporto di azoto con le deiezioni su superfici poco o nulla fertilizzate dai bovini, 3) rottura con l’unghiello del cotico con conseguente arieggiamento del terreno e rottura delle dense formazioni di cervino (Nardus stricta) o altre essenze scarsamente appetite dai bovini. Se l’azione del pascolo ovino tende a ridurre le superfici “magre”, migliorando la composizione del cotico, bisogna anche ricordare che la sosta prolungata in alcune aree (per il riposo notturno e l’abbeverata) determina lo sviluppo di una flora ammoniacale (caratterizzata dalla presenza di Rumex ssp. Senecio ssp. Aconitus napellus, Urtica dioica) di nessun valore foraggero e potenzialmente dannosa per l’eccessivo assorbimento di elementi azotati dal terreno. Tale inconveniente è legato al mancato o non sufficientemente spostamento delle “mandre” (aree di riposo del gregge), vuoi per incuria o per oggettiva scarsità di località adatte .
Dopo l’alpeggio e l’eventuale permanenza sui maggenghi il gregge si sofferma per un periodo abbastanza breve nei paesi di origine dei pastori (Parre, Clusone, Rovetta e altri della Valseriana. Tale sosta è più breve che nel passato anche perché le possibilità di pascolo nei fondovalle e sugli altipiani (sui “pascoli di casa”) si sono ridotte in relazione ad una espansione degli insediamenti residenziali e produttivi spesso disordinata e poco attenta alle esigenze della produzione agrozootecnica. Giusto il tempo necessario per la tosa e l’esecuzione dei trattamenti sanitari e si riparte. Qualche anno fa era stato realizzato a Clusone un moderno impianto per l’effettuazione dei bagni a base di prodotti contro i parassiti della cute; purtroppo l’applicazione delle norme in materia di trattamento delle acque reflue ha determinato la cessazione di questa attività. Si pensa, però, di riutilizzare le strutture esistenti al servizio delle greggi in transito.

Trasferimento dai monti al piano

Il trasferimento in pianura avviene per mezzo di autoarticolati attrezzati per il trasporto del bestiame. Diversi greggi si spostano ancora a piedi sfruttando ovviamente vie di comunicazione ed orari con scarso traffico. L’aumento del traffico e della densità della rete viaria crea inevitabilmente delle difficoltà per lo spostamento dei greggi. Esse appaiono legate anche all’ottenimento delle debite autorizzazioni che sono condizionate alla situazione del traffico. Da parte degli utenti si nota, però, un atteggiamento più tollerante rispetto a qualche anno fa; probabilmente ciò è legato alla maggiore sensibilità nei confronti di un’attività che trasmette un’immagine ecologica e antica. Anche se i percorsi dei greggi hanno dovuto subire delle variazioni rispetto al passato ll pastore dimostra di adattarsi molto bene alle trasformazioni del territorio. Oggi utilizza le autostrade, che costituiscono delle vere e proprie “barriere naturali”, in modo non molto diverso da come utilizzava i fiumi spostandosi lungo i loro bordi dove, a volte, riesce nelle “zone di nessuno” utilizzabili anche per il pascolo.
In passato venivano organizzati anche trasporti ferroviari con carri bestiame tra la Vallecamonica e Cremona e, ancora più in là nel tempo, era praticato anche il trasporto lacuale. GOLDANIGA (1995) riferisce che le greggi si imbarcavano a Pisogne per raggiungere Iseo o Sarnico a seconda della destinazione finale. La via d’acqua era più costosa ma, ovviamente più comoda. In alternativa le greggi che si dirigevano verso Rovato e Chiari o Soncino, dovevano raggiungere Fraine, salire il monte Zone e scendere a Marone, sulla riva del lago, per raggiungere Iseo. I pastori camuni che si dirigevano nel milanese dovevano invece transitare per Lovere e di qui raggiungere la Val Cavallina e Gazzaniga. Il percorso della transumanza durava circa dieci giorni.
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La pianura (la batìda)

L’area all’interno della quale il gregge si sposta nel periodo invernale può essere più o meno ristretta; spesso è costituita da un comprensorio di 3-4 comuni. All’arrivo della primavera, con le semine, il pastore è costretto a spostarsi in aree diverse da quelle utilizzate nel periodo tra novembre e febbraio quando può usufruire delle ampie superfici lasciate libere dalla raccolta del mais e lasciar pascolare le pecore sulle stoppie. Quello primaverile è forse il periodo più difficile perché sono più frequenti i rischi di sconfinamento in terreni dove possono essere arrecati danni all’agricoltura. In mancanza di zone di pascolo utilizzate sulla base di accordi di vario tipo, normalmente non scritti, con i proprietari, i pastori devono utilizzare i bordi dei canali, le ripe, le zone fluviali dove sono utilizzati i terreni demaniali sino a sfruttare ogni striscia verde disponibile. A volte i pastori dispongono di “punti d’appoggio” costituiti da ricoveri più o meno precari eretti in terreni presi in affitto dove è possibile la somministrazione di fieno quando le condizioni atmosferiche sono particolarmente avverse per la permanenza della neve sul terreno.
Spesso una parte del gregge –le femmine in procinto di partorire- è ricoverata sotto tettoie o presso fabbricati agricoli (presi in affitto o, a volte, di proprietà del pastore o di parenti) mentre il rimanente del gregge continua gli spostamenti a breve raggio nelle aree di pascolo. Molti pastori però non dispongono di ricoveri neppure in caso di necessità e, in caso di forti nevicate, nell’impossibilità di trovare provvisorio rifugio presso qualche azienda agricola, trovano riparo in aree boschive in prossimità dei fiumi. Operazione sempre necessaria è la somministrazione del sale che viene eseguita utilizzando a volte le strade al fine di evitare lo scioglimento del sale al contatto dell’umidità del terreno.
Solo in caso particolare (siccità, maltempo eccezionale, fortissime nevicate) il pastore abbandona la batìda (l’area entro la quale si sviluppano i suoi spostamenti invernali con il gregge). La batìda è “assegnata” ad ogni pastore mediante una regola tacita, rispettata dagli altri pastori, la cui violazione può comportare gravi contrasti che, a tutt’oggi, possono sfociare in risse durante le quali i contendenti non esitano a passare alle vie di fatto. In passato la maggior parte degli scontri erano provocati dalla presenza di pastori che in mancanza di batìda si spostavano secondo modalità effettivamente “nomadi”; tali pastori venivano chiamati remènch. L’uso di questo termine non è però chiaro in quanto ‘nda a remènch significa in generale intraprendere il percorso della transumanza invernale. Del resto anche il concetto di batìda non è univoco dal momento che può essere intesa sia come area che come percorso.

Altre testimonianze tenderebbero invece a lasciar credere che all’interno di una situazione di relativa stabilità (grazie al rispetto della “legge non scritta” dei pastori) vi fossero dei disturbatori. GALIZZI VECCHIOTTI (1960) riferisce di pastori poco scrupolosi le cui greggi sono scherzosamente definire dai colleghi “ d’assalto”.e che “Di notte vengono sospinti di proposito sui campi interdetti: il gregge è composto in questo caso di ovini silenziosi –escluse in questo caso le belanti fattrici – senza campanaccio, guidati da cani istruiti a far ubbidire gli ovini senza abbaiare”.
Testimonianze da noi raccolte confermerebbero che la batìda fosse qualcosa di più di una semplice area di pascolo da occupare e sfruttare, ma un vero e proprio “bene” oggetto di cessione, il tutto ovviamente nell’ambito di un codice che prescindeva dalle leggi dello stato e dal diritto romano ma che, a detta di alcuni pastori, era scrupolosamente rispettato. Chi lo violava poteva inizialmente farla franca, magari grazie alla prepotenza, alla forza fisica, alla violenza, ma incorreva nell’ostracismo da parte degli altri pastori e, spesso, si ritrovava all’ospedale. La batìda in analogia con i vecchi diritti consuetudinari è comunque legata all’uso; chi non la può utilizzare deve cederla ad un altro pastore, chi vende il gregge cede con esso anche il diritto all’uso della particolare batìda. Queste regole non scritte erano essenziali quando le basse pianure del Po venivano occupate da centinaia di migliaia di ovini divisi in una miriade di piccoli greggi, ma conservano ancor’oggi indubbia importanza. Possiamo immaginare quanta importanza rivestisse, in passato, la regola che nell’attraversamento delle batìde degli altri pastori, durante il percorso per raggiungere la propria, il pastore (o conduttore) dovesse utilizzare entro lo stretto necessario l’erba lungo il cammino non potendo effettuare più “pasti” all’interno della stessa batìda altrui. Al di là del rigore con cui la “legge dei pastori” veniva fatta rispettare è giusto ricordare che il codice di valori del pastore prevedeva anche forti elementi di solidarietà di gruppo. Non solo i pastori si prestavano vicendevolmente aiuto per la tusa ma, in caso di necessità (per esempio in caso di forti nevicate) erano pronti a cedere a chi si trovava in situazione peggiore parte della batìda. In caso di perdita del gregge (sequestri, malattie) tutti i pastori concorrevano con una pecora alla ricostruzione del gregge del pastore che lo aveva perso, secondo un criterio di mutua assicurazione che gli agricoltori introdurranno solo allo scorcio di questo secolo, spesso per iniziativa del clero o di organizzatori socialisti.

Oggi mentre nei pressi delle città i pastori non trovano difficoltà a reperire zone di pascolo qualche difficoltà è segnalata all’interno dei Parchi che, oramai, occupano tutte le aste fluviali tradizionalmente utilizzate dalla pastorizia bergamasca. Tali difficoltà, dovute alla presenza di numerose aree interdette al pascolo per la presenza di rimboschimenti o di aree di ripopolamento della selvaggina, possono spiegare alcuni degli abbandoni di pastori verificatisi negli ultimi anni.

Le dimensioni dei greggi che scendevano delle valli erano tradizionalmente di 100-150 capi; indicazioni in tal senso sono offerte dai documenti relativi al sequestro di greggi da parte delle autorità; ciò almeno a partire dal XVII. Nel medioevo, invece, i greggi durante fase “monastica” della pastorizia e probabilmente anche successivamente, quando la transumanza era organizzata da ricchi imprenditori, erano composti da diverse centinaia di capi. Per secoli comunque il numero di 100-150 capi affidati ad un pastore ed ad un aiuto ha rappresentato lo “standard” della pastorizia transumante bergamasca. ROTA (1910) considera il gregge tipico costituito da 100 capi “compresa ogni età e sesso”. Ancora prima dell’ultimo conflitto gli autori che si sono occupati della pecora Bergamasca (MARIANI, 1930, ASTORI, 1942) concordavano nell’indicare tale numero come la normale dimensione del gregge. L’ASTORI, anzi, definiva “prosperosi” i “greggi di 100-150 capi, guidati da un uomo, dal famiglio e dal cane”. Purtroppo questi autori non ci hanno fornito informazioni sulla composizione del gregge. ROTA (1910) lamentava che in alcuni casi si utilizzasse solo un ariete per 100 pecore. I greggi hanno iniziato ad divenire più consistenti dopo gli anni ’50 quando si sono innescati una serie di processi che hanno portato all’abbandono dell’attività da parte di molti pastori, al mancato rimpiazzo con nuove leve e a profonde trasformazioni degli aspetti economici, sociali e tecnici della pastorizia. Ha inciso sicuramente il forte declino del prezzo della lana. Essa nel dopoguerra valeva 700-900 lire (equivalenti a 18-23.000 lire attuali!) e rappresentava la principale voce di entrata della pastorizia. I pastori hanno cercato di compensare la perdita di valore della lana puntando sulla produzione di carne ed ampliando la dimensione dei greggi.
GALIZZI VECCHIOTTI (1960) riferiva che, all’epoca, il gregge medio era composto da 250-300 capi ed era sempre guidato da un uomo tra i 30 e i 50 anni e da un “ragazzo” (famèi) di 15-25 anni. L’età media del pastore risultava agli inizi degli anni ‘90 di 46 anni, con 28 di esercizio della professione alle spalle (RIZZI ET AL. 1998) dimostrando che da questo punto di vista le cose non sono cambiate. Negli anni ’70 la dimensione tipica del gregge aveva raggiunto le 500 unità, ma non ha cessato di aumentare tanto che, negli anni ‘80 raggiunse i 700-800 capi (CARISSONI, 1985, BALDUZZI, 1985). Un’indagine (BOLLA ET AL. 1993) condotta agli inizi degli anni ’90 su tutti i greggi transumanti della regione (risultati in totale 80) ha messo in luce una consistenza media del gregge, pari a 480 capi, nettamente inferiore a quella già indicata per gli anni ’80 . Ciò dipende dal fatto che oltre ai greggi bergamaschi (27) sono stati considerati anche i greggi bresciani (40) che risultavano, in media, nettamente meno numerosi di quelli bergamaschi (350 capi i bresciani, 640 i bergamaschi). In ogni caso risultava significativo che nel 68% dei greggi considerati vi era stata una variazione in aumento della consistenza negli ultimi 5 anni.
0ggi molti greggi raggiungono i 1.000 capi, ma la conduzione è sempre affidata ad un pastore esperto (spesso il proprietario stesso) e da un aiuto (a volte un immigrato di origine nord-africana o albanese). Ben difficilmente la consistenza dei greggi potrà crescere ancora dal momento che le difficoltà di sorveglianza e di spostamento sono già notevoli. L’evoluzione della pastorizia transumante, che nella seconda metà del XX secolo si è manifestata nel macroscopico aumento della dimensione del gregge, è il risultato della diminuzione del numero dei pastori e dalla conseguente maggiore disponibilità di pascoli per coloro che hanno continuato ad esercitare questa professione. D’altra parte è risultata anche una scelta obbligata perché la produzione lorda vendibile a prezzi costanti ricavabile da ogni singolo capo è diminuita costantemente. La lana ha assunto un valore negativo (il costo della tosa supera il ricavato della vendita della lana) ed il prezzo della carne, in flessione costante al netto dell’inflazione, si è rivalutato solo negli ultimi anni in seguito al sorgere della nuova componente della domanda di carne ovina costituita da gruppi etnici di immigrati extracomunitari. L’aumento della dimensione del gregge ha di necessità comportato delle modificazione nella tecnica di allevamento transumante.
Il gregge a S.Martino secondo Gallizzi Vecchiotti era composto come dalla Tab. 8.
Per agnelli e agnelle si intendono maschi e femmine dalla nascita al termine dello svezzamento, che avviene dai 3 mesi di età. In alcuni casi agli agnelli nati dopo la tusa di marzo si riserva il termine di tendrett (tenerelli), per novelli e novelle si intendono i maschi e le femmine dallo svezzamento all’eruzione dei picozzi1 permanenti (14-16 mesi) che in genere corrisponde con l’epoca del primo parto, i pastori chiamano però agnello o agnellone anche il soggetto maschio destinato alla produzione di carne non ancora sottoposto alla castrazione. Le pecore dopo il primo parto sono dette fature (fattrici) distinguendo eventualmente tra fature propriamente dette e tendrere se madri di tendret.. I maschi da riproduzione sono detti masc o cutì o anche bar. Quest’ultimo termine è utilizzato dai pastori camuni, ma è anche diffuso in ampie zone della Lombardia a testimonianza di una antica radice che secondo diversi autori (TOGNALI, 1979, CARISSONI, 1985) sarebbe di origine preindoeuropea. Rispetto a solo una decina di anni orsono il numero dei castrati è sensibilmente diminuito sia per la riduzione della domanda da parte dei tradizionali mercati romagnoli e dell’Italia centro-meridionale sia per la crescente domanda di agnelloni interi di peso sino a 50-60 kg da parte degli immigrati islamici. Vi è da dire che il tradizionale castrato di 80 kg allevato sino alla fine degli anni ’80 era già stato sostituito da un tipo più leggero avviato al macello a 60-70 kg.

Gli altri animali al seguito del gregge bergamasco

Un asino, un cane e 5-7 capre accompagnavano immancabilmente il gregge bergamasco durante la transumanza. Tutt’oggi nel 67% dei greggi sono presenti asini sostituiti o affiancati però abbastanza frequentemente dai cavalli oggi presenti nel 38% dei greggi (RIZZI ET AL. 1998). In passato erano sufficienti 5 capre ma i greggi erano molto più piccoli per cui oggi sono necessarie almeno 10-20 capre e 2 becchi. Anche il numero degli asini è aumentato e oggi spesso se ne contano da 3 a 5 ed anche più. La funzione delle capre è di grande importanza dovendo svolgere da “balie” per gli agnelli rimasti orfani o la cui madre è affetta da patologie della mammella.

Le capre. Le capre, al contrario delle pecore, sono “balie universali” accettando non solo i capretti di altre capre ma anche i cuccioli di ogni specie (puledri, cerbiatti, bambini). Anche se il latte della capra è meno nutriente di quello della pecora la maggiore quantità prodotta consente all’agnello di essere svezzato senza problemi; inoltre la lunga lattazione delle capre consente di sfruttare la sua attitudine a fungere da balia anche per più agnelli successivamente. In passato le capre erano ancor più importanti perché i pastori consumavano essi stessi il loro latte, circostanza che oggi appare occasionale. I pastori bergamaschi non prestano alla scelta delle capre la stessa attenzione con la quale allevano le pecore. Normalmente le capre sono acquistate o scambiate e, all’interno del gregge, si possono trovare esemplari di razze diverse. Al pastore interessa l’attitudine materna e una discreta capacità lattifera unita all’assenza di corna che possono sempre creare dei problemi. Nel gregge è possibile rinvenire a volte un campionario di razze di capre disparate da quelle autoctone (Bionda dell’Adamello, Frisa Valtellinese e derivati) a quelle a diffusione intrenazionale allevate negli allevamenti con stabulazione permanente (Camosciata delle Alpi, Saanen) a quelle delle razze mediterranee (Maltese); non mancano neppure le capre nane e gli incroci derivate da queste a testimoniare l’assoluta e quasi ostentata indifferenza del pastore per una specie che si sente quasi in dovere di disprezzare per sottolineare, una volta di più, la sua viscerale predilezione e passione per la pecora. In generale, però, il tipo di capra presente si avvicina al tipo “Bionda dell’Adamello”, allevata sia in Valcamonica che in Val di Scalve e spesso acorne, carattere, come si è visto, ricercato dai pastori.

Gli asini. Quanto agli asini la cui presenza sta diventando rara, (se si esclude qualche zona di montagna e, per l’appunto, i pastori bergamaschi) il reperimento di riproduttori con buone caratteristiche sta diventando difficile e spesso i pastori sono costretti ad approvvigionarsi fuori regione. A volte l’asino è sostituito dal cavallo (frequentemente di razza Aveglinese) che, pur se meno adatto, è oggi reperibile più facilmente ed a condizioni economiche relativamente vantaggiose. Il pastore bergamasco prediligeva gli asini dell’Amiata (Toscana) e ricercava anche la presenza di certe caratteristiche morfologiche. Il ruolo dei pastori bergamaschi per la conservazione della specie asinina è senz’altro importante considerando che, almeno nelle nostre regioni, questa specie è quasi a rischio di estinzione. Alcuni pastori riferiscono come da parte di strutture ospedaliere si sia richiesto loro di fornire latte d’asina per uso terapeutico pediatrico. I pastori in questione si sono prestati a fornire quanto richiesto, non senza sottolineare, nel riferire la cosa, che certe “tenerezze” non sono certo frequenti. L’asino è a tutt’oggi indispensabile per trasportare gli agnelli neonati che nei primi giorni di vita (4-5) non sono in grado di seguire il gregge. All’asino viene applicato un telone impermeabile nel quale sono ricavate su ogni lato diverse tasche (sachète) dove vengono collocati gli agnelli non ancora in grado si seguire il gregge; tipico era anche un foro rotondo dove fissare il paiolo (peröl). Il carico dell’asino comprendeva anche un grosso ombrello, tre bastoni per reggere il paiolo (tripé) e una coperta pesante . I pastori dispongono anche di bisacce doppie fatte di tela che si possono portare sulla spalla in grado di contenere due agnelli che sono utilizzate prevalentemente sulle alpi, ma, all’occorenza, anche in pianura.
Oggi gli asini possono essere utilizzati anche per il trasporto del materiale per realizzare recinzioni temporanee.
Il cane (grèp, garòlf, baiùs). Nel gregge oggi sono presenti 3-4 cani pastori. Non si tratta di “pastori bergamaschi” con pedigree, ma di soggetti che a volte appartengono al tipo di cane bergamasco e avolte no. Il cane bergamasco si riconosce per l’occhio “gazzuolo,” ossia con colore dell’iride di un occhio diverso dall’altro, pelo lungo di tonalità grigie con la tendenza a formare bioccoli nel posteriore, orecchie semi-erette, taglia media. Spesso i cani utilizzati nei greggi bergamaschi risultano dall’incrocio di diverse razze di cani da pastore. Diversi sono i motivi per i quali i pastori prediligono gli incroci; per qualcuno vale la ricerca di una maggiore velocità e potenza, altri non apprezzano la lunghezza del pelo del pastore bergamasco, specie in caso di pioggia.
I pastori sogliono dire che “un cane vale più di due uomini” (in alcune versioni il numero di uomini sale a tre o più). Come per le capre anche per i cani il pastore bergamasco non assegna importanza alle caratteristiche morfologiche. Quello che conta è l’attitudine all’addestramento e al lavoro. Nel corso dei loro trasferimenti, inoltre, ben difficilmente i pastori transumanti potrebbero controllare le cagne in calore ed evitare accoppiamenti con soggetti di qualsivoglia razza. Ciò spiega perché il pastore bergamasco è stato selezionato da agricoltori e da cinofili appassionati e perché i pastori non sono coinvolti se non marginalmente nella valorizzazione e diffusione della razza. Ciò rappresenta certo uno svantaggio per il miglioramento dell’attitudine al lavoro di questa razza che fa parte anch’essa del patrimonio delle razze di animali domestici della provincia di Bergamo e della Lombardia. Il cane sta sempre vicino al pastore ed interviene con prontezza quando riceve i caratteristici comandi che possono consistere in fischi o solo cenni della mano o del capo. Deve rincorrere le pecore che si sbandano e prendono direzioni sbagliate rincorrendole e riportandole nel gruppo. Deve sorvegliarle e tenerle unite durante il passaggio delle strade ed in altre circostanza durante le quali la dispersione del gregge determinerebbe gravi inconvenienti. A volte, in prossimità di passaggi obbligati, i cani si fermano in punti critici per controllare il passaggio del gregge, in altri casi, essi corrono avanti ed indietro lungo i fianchi del gregge I cani devono essere decisi; quelli che non sanno imporsi alle pecore sono definiti “molli”. Il cane non deve essere neppure troppo aggressivo, a quest’ultima categoria appartengono i soggetti che intervengono con durezza sulla pecora producendo lacerazioni con i denti. Molto apprezzati sono i cani con una presa “leggera”; essi si fanno temere dalle pecore senza provocare lesioni.

La batidùra. Nell’ambito del gregge transumante assume importanza oltre agli asini, alle capre, ai cani anche la batidùra, una pecora adulta che si è distinta per la capacità di guidare il gregge (raramente a questa funzione può assolvere anche un castrato “maturo”). Il pastore guida invece il gregge stando in coda.

Altri aspetti della vita pastorale

La tosa. La tusa viene effettuata con modalità differenti In passato la tusa richiedeva la collaborazione vicendevole tra i pastori. I pastori costituivano una squadra di tosatura che provvedeva a tosare i vari greggi dei partecipanti. La tusa veniva eseguita a mano con il fórbes un attrezzo simile alle molle del camino che è forse simile dall’età del ferro e che in passato era utilizzato anche per tagliare i capelli. Un pastore riusciva a tosare 20-25 pecore al giorno. Le tecniche di tosatura erano diverse. La pecora poteva essere posta in decubito sul fianco su un telo dove si raccoglieva il vello e con le zampe legate (erano utilizzati dei particolari fermi in legno con legacci in cuoio). Essa poteva essere tenuta seduta tra le gambe del pastore. La capacità del tosatore consisteva, oltre che nella velocità, anche nella capacità di tagliare il più vicino possibile alla radice del follicolo il vello senza ferire la pecora. Per la tosa le pecore vengono radunate in luoghi pianeggianti e chiuse all’interno di un recinto. Oggi la tosatura viene sempre eseguita a macchina da squadre di tosatori professionisti provenienti anche dalla Scozia e dalla Nuova Zelanda Mentre un pastore è in grado di tosare a macchina un centinaio di pecore i tosatori riescono a tosarne 200 al giorno e i più abili neozelandesi riescono a tosarne anche 300. Il costo della tosatura si aggira attualmente sulle 2500-2700 lire a capo e supera il valore della lana. Per questa ragione alcuni pastori, da qualche anno a questa parte, hanno cercato di limitare ad una le tosature saltando quella primaverile. Pare però che il minor costo per la tosatura e il maggior valore della lana (più lunga e quindi più apprezzata) non compensino la perdita in carne determinata dai vari inconvenienti di un vello eccessivamente lungo. La tosa che viene saltata in questo caso è quella primaverile normalmente più sporca, specie quella delle pecore che hanno pascolato nelle aree fluviali con presenza di arbusti spinosi e dove spesso aderiscono al vello le “lappole”, capsule aculeate della solanacea Datura stramonium. Tali capsule deprezzano gravemente la lana potendo essere rimosse solo manualmente ad una ad una. La lana autunnale è invece migliore in quanto le pecore sostano sulle aree erbose dei pascoli montani. La lana tosata, lana sösia viene sistemata in grossi sacchi e commercializzata direttamente cedendola all’unico lanificio gandinese che ancora oggi esegue la lavatura. La lavatura, che comporta sino a 10 cicli di lavaggio (ne bastano 5 per le lane inglesi) determina il calo del 45% circa del peso della lana sucida.

Castrazione. Viene eseguita ancora nella maggior parte dei casi a mano mediante tensione endoscrotale dei testicoli in soggetti di un anno 5-6 mesi di età. Altri metodi (tenagllie, elastici) sono meno utilizzati. In passato veniva invece prevalentemente eseguita su soggetti di maggiore età (12 mesi) (GALIZZI VECCHIOTTI, 1960).

La nöda. Per marcare le pecore al fine di distinguere quelle di diversi proprietari specie quando si uniscono più greggi per la monticazione, si utilizzano vernici a colori vivaci con le quali si tracciano delle strisce di colore di solito sulla schiena, a volte sulle spalle o sulla la fronte. In passato in assenza di tatuaggi e marche auricolari (utilizzate per l’identificazione degli animali ai fini dell’applicazione dei regolamenti comunitari, dell’attuazione della profilassi di stato e del funzionamento del Libro Genealogico) era utilizzata la nöda praticata asportando della cartilagine auricolare dal margine del padiglione con delle forbici o praticando con apposita tenaglia un foro al centro del padiglione auricolare della forma delle iniziali del proprietario.

Preparazione della bèrna o bèrgna, sbègna La berna rappresenta uno degli alimenti tipici del pastore. La preparazione della bèrna rappresentava il solo modo per conservare la carne di animali morti per incidenti durante l’alpeggio. Essa richiedeva tempo e pazienza ma sull’alpe il lavoro di sorveglianza era relativamente più agevole che in pianura e il pastore poteva dedicarsi a questa attività come all’intaglio dei bastoni. Lavate le interiora si spellava la carcassa e si divaricavano le costole, si disossava e si infilavano delle stecche di legno per mantenere la carne appiattita. Una volta salata veniva essiccata all’aria. I pastori consumavano anche le code degli agnelli abbrustolite alla fiamma mentre molto utilizzata era la minestra di riso con latte di capra e con tanti perüch (spinaci selvatici).

Bastone (scavrì) Un lungo bastone è sempre stato il distintivo del pastore. Era di solito realizzato con rami di abete e, nel periodo d’alpeggio, nei momenti di riposo il pastore lo ornava con incisioni. Oltre al bastone tipico del pastore molto lungo e senza manico i pastori utilizzano anche il bastone “da mandriano”, realizzato con rami di sorbo.

Oggi vengono utilizzati anche degli appositi attrezzi “prendi ovini” con delle anse alle estremità foggiate in modo particolare ed atti a bloccare e trattenere l’arto della pecora.

Mantello. Un “accessorio” che sembrava anch’esso parte integrante dello stesso modo di essere del pastore (vedi foto) Con la cessazione della produzione del tessuto utilizzato per confezionare il gabà l’abbigliamento del pastore rimane collegato alla tradizione solo grazie all’uso di giacconi in pesante fustagno con ampie tasconi per riporre gli agnelli. La grande varietà e disponibilità di abbigliamento “tecnico” realizzato per il mercato della “vita all’aria aperta” con le nuove fibre sintetiche (sic!) mette a disposizione dei pastori molti tipi di capi adatti alle sue necessità. Nella prospettiva tutt’altro che peregrina che la lana nostrana possa essere valorizzata per confezionare abiti sportivi resistenti alla pioggia, l’utilizzo da parte dei pastori di indumenti realizzati con la lana delle loro pecore avrebbe probabilmente un buon effetto promozionale.

Mungitura e produzione di formaggi. L’attitudine alla produzione di latte delle pecore bergamasche doveva essere superiore in passato quando era valutata in 180 l (SCIPIONI 1924). Essa viene valutata nell’ambito della descrizione dei caratteri della razza pari a 120 l anche se è probabile che oggi, in parallelo con il miglioramento dell’attitudine alla produzione della carne, l’attitudine lattifera sia inferiore al passato. La produzione di latte è inizialmente piuttosto abbondante nella pecora Bergamasca ma, specie al giorno d’oggi, declina rapidamente. I pastori utilizzavano oltre al latte di capra anche quello di pecora che, però, a differenza di quello caprino, era sempre caseificato a causa del suo elevato contenuto di grasso e quindi della scarsa digeribilità. Le pecore in passato venivano munte una volta che l’agnello era in grado di soddisfare il suo fabbisogno con il pascolo; più recentemente in considerazione della riduzione dell’attitudine lattifera i pastori ottengono i modesti quantitativi di latte che desiderano utilizzare separando le pecore dagli agnelli ancora durante il periodo dell’allattamento. Fino al XIV-XV secolo la pecora bergamasca era utilizzata più per il latte che per la carne perché la produzione di formaggio vaccino era ancora poco diffusa. La pecora Bergamasca introdotta negli Abruzzi dall’inizio del ‘900, è stata utilizzata anche in tempi non lontani per la produzione di latte e, inizialmente, la razza Fabrianese, derivata in tempi recenti dalla Bergamasca, era considerata a duplice attitudine.

Taglio della coda, Salassi. Il taglio della cosa oggi non è più praticato. Era motivato da una maggior pulizia del vello e dalla la scabbia. Di fatto, però, le code degli agnelli erano consumate dai pastori che, dopo aver tolta la lana, le abbrustolivano. In passato il pastore era anche un po’ chirurgo e utilizzava coltelli con varie lame per praticare incisioni e salassi. Queste pratiche non sono del tutto scomparse.

 

Forme contrattuali. In passato i grandi proprietari affidavano in consegna il gregge ad un pastore per tutto l’anno pagandolo a seconda del numero degli animali e delle difficoltà del pascolo. Molto diffusa era la soccida che prevedeva la presa in consegna del gregge da parte del pastore il quale si impegnava a pagare tutti i tributi di cui il bestiame era gravato e corrispondeva al proprietario 1 kg di lana all’anno. I contratti di soccida prevedevano che dopo 3-5 anni il gregge fosse diviso a metà tra conduttore e proprietario. I proprietari non perdevano però il contatto con il gregge e di tanto in tanto salivano sugli alpeggi per controllarlo. (ASTORI, 1942).
L’origine dei contratti di soccida è molto antica. CARISSONI (1985) riferisce di numerosi verbali reperibili negli archivi dei paesi della Valleseriana relativi a contratti di soccida risalenti a diversi secoli e ne fornisce un esempio datato 28 agosto 1509 in Gorno:

“Giovanni Filippo Abate, di Gorno concede a soccida, a Giovanni Accorsi di Bertolino, dello stesso luogo, 46 pecore veronese con un foro all’orecchia destra, che lo stesso Giovanni Accorsi aveva ricevuto a titolo di deposito ed a soccida, a norma degli Statuti della Val Seriana superiore, perché le guardi, le costudisca, le nutra ecc. per anni 4 p.f. dando e consegnando ogni anno a detto Giovanni Filippo e per i primi 3 anni, di tonsura in tonsura, metà della lana raccolta in dette pecore e loro nati, e nell’ultimo anno consegnandogli soltanto due quintali di tutta la lana tosata come sopra; saranno infine del presente contratto di soccida, divise tra le parti le dette pecore e i loro nati in parti uguali con un supplemento di lire 40, a titolo di restituzione di altrettante ricevute a sostegno del presente contratto a favore del concedente, Fatto sul cimitero della chiesa di S.Martino di Gromo, presenti come testimoni Maifredo Corna, Giovanni Corna, Pietro fu Raimondo Stefani e Gio Francesco di mastro Pietro”

Ancora più antichi sono i contratti registrati dal notaio Pastore della Chiesa di Pasturo (Valsassina) nei primi decenni del ‘400. Sono registrati 6 contratti per un numero di pecore variante da 7 a 20 e 18 contratti di soccida per una sola vacca ciascuno. Nel caso delle pecore tutti i contratti hanno durata triennale e comportano il versamento al soccidante della lana ricavata da una tosa ogni anno (PENSOTTI, 1976). E’ interessante notare che lo stesso notaio, nel medesimo periodo, registrò anche due contratti di affitto di greggi In un caso vennero affittate 36 pecore, nell’altro 23, sempre per 20 soldi e 12 once di lana e per la durata di tre anni. L’affitto di bestiame, compresi gli ovini, è documentato in contratti dell’inizio del XIV secolo in Valseriana (ALEMANNI, 1983).

Attualmente sono ancora utilizzate delle forme di “mezzadria” che consistono nell’affido di un gregge ad un conduttore con l’impegno a dividerlo dopo 3 anni. Alcuni piccoli proprietari danno ancora “a fida” le loro pecore corrispondendo al pastore, che normalmente è proprietario della maggior parte degli animali che conduce, dalle 200 alle 220 lire al giorno. Spesso due pastori si associano per poter condurre insieme i loro animali. Rispetto al passato sono quasi scomparsi i casi di ricchi imprenditori operanti in altri rami di attività proprietari di numerosi greggi. Diversi macellatori e commercianti, essi stessi in passato pastori, risultano proprietari di migliaia di capi, ma, normalmente, anche in questo caso, qualche membro della famiglia continua ad esercitare l’attività pastorale o mantiene comunque la qualifica di imprenditore agricolo.

La commercializzazione. Il BENEDINI (1976) riferendosi alla situazione bresciana dell’ ‘800 riferiva che: “Della lana si fanno depositi a Brescia, presso due o tre commercianti, e a Sale Marasino e Marone (Mandamento di Iseo), centri della fabbricazione delle coperte di lana. I contratti di vendita della lana si fanno di consueto nella seconda domenica di marzo. Hanno però luogo anche in settembre, al momento stesso della tosatura”. I pastori in passato operavano prevalentemente nell’ambito dei mercati. Erano importanti quelli di Clusone, primo, secondo e terzo lunedì di settembre, Albino, 10 settembre, Oggiono in settembre, Madonna del Bosco, il 4 Marzo. In tempi più recenti i pastori partecipavano anche alle fiere di Novara e di Brescia. Oggi la maggior parte delle contrattazioni si svolge per telefono e la partecipazione alle manifestazioni specializzate del settore è finalizzata alla vendita e all’acquisto di riproduttori di pregio.

Rapporti tra pastori e agricoltori. Già si è detto circa il cresce dell’ostilità degli agricoltori verso la pastorizia transumante bergamasca. Mano a mano che nuove aree venivano valorizzate dal punto di vista agricolo, che i diritti di proprietà divennero esclusivi, che venivano introdotte nuove coltivazioni, lo spazio per i pastori si restringeva e sempre meno valevano di fronte per gli agricoltori il “grasso” lasciato dalle pecore e quello che i pastori offrivano in cambio dell’utilizzo dei pascoli. Ancora negli anni ‘30 i pastori camuni potevano “tenere buoni” i piccoli coltivatori con delle coti di terza qualità ma con gli agricoltori della “bassa” i rapporti andarono peggiorando tanto più quanto aumentava il patrimonio bovino e le misure di profilassi sanitaria. I greggi venivano sono stati spesso accusati di essere dei vettori di gravi malattie infettive del bestiame trasmissibili dall’ovino al bovino quali Afta epizootica e Brucellosi. Oggi i pastori tendono a stabilire accordi con almeno una parte degli agricoltori della batìda.

Il Gaì. Utilizzato dai pastori transumanti dell’area alpina (bergamaschi, biellese, bresciani, trentino-tirolesi, veronesi) serviva per non farsi comprendere dagli estranei e per favorire la comprensione tra pastori provenienti da aree con dialetti e lingue differenti. Fino agli anni ’50 parlare gaì era condizione per essere riconosciuti come pastori e un pastore non otteneva risposta da un altro se non gli si rivolgeva in gaì. La convulsa e per certi versi disastrosa modernizzazione degli anni ‘50-’60 non ha mancato di sconvolgere anche il mondo dei pastori, un mondo che, come abbiamo visto, non è mai stato immutabile, separato ed arcaico. Nel giro di una generazione il gaì è passato dalla condizione di lingua viva a quella di lingua (quasi)morta. E’ interessante, però, che molti pastori più o meno giovani abbiano sentito l’esigenza di riappropriarsi del gaì studiando anche il lessico ed i frasari riportati dalle varie opere a stampa e in particolare quella del FACCHINETTI (1921), una specie di “oggetto di culto”. L’ibridazione con la parlata locale e la povertà del lessico sono segni della difficoltà di recupero di una piena competenza linguistica; d’altra parte l’interesse per l’antica lingua dei pastori testimonia come il pastore di oggi sia ancora interessato a fare valere una sua identità specifica. Il gaì è stato considerato un gergo o, equivocando la figura sociale del pastore, una lingua degli “esclusi”, una “lingua di classe” (SANGA, 1977). Sicuramente il gaì è parte dell’identità del pastore bergamasco e dei pastori transumanti delle aree geograficamente e culturalmente contigue ed in un certo senso è un “fossile linguistico” che grazie ad un carattere fortemente conservativo ha trasmesso ai nostri giorni materiali elementi di substrato linguistico molto antichi. Come molti “gerghi” anche il gaì ha contribuito al patrimonio lessicale del dialetto e, in tempi recenti dell’italiano regionale. Sul gaì esiste una letteratura abbastanza copiosa a partire dai classici studi del Tiraboschi (1864, 1879) e dal famoso lessico del FACCHINETTI (1921). Numerose le pubblicazioni recenti sul gaì (DE CAMPO, 1970; SANGA, 1977; AMERALDI, 1989; GOLDANIGA, 1995). Il tema del gaì è stato trattato anche dal VOLPI nella sua opera “Usi e costumi bergamaschi” (1937) e dalla CARISSONI (1985) nel suo fondamentale lavoro sui pastori bergamaschi.

Evoluzione recente della transumanza bergamasca

Le condizioni di vita del pastore per quanto disagiate sono notevolmente cambiate negli ultimi anni. Nell’attività della transumanza si può rintracciare un “nocciolo” di elementi costanti e vari aspetti suscettibili di evoluzione. Abbiamo già messo in evidenza come la transumanza si sia evoluta nel corso dei secoli modificando molti dei suoi aspetti tanto che l’immagine di un’attività sempre uguale a sé stessa, caratterizzata da immutabili tratti di arcaismo che si sono perpetuati da un remoto passato ad oggi risulti del tutto infondata. E’ indubbio che il pastore, dovendo oggi sorvegliare con un aiutante 1.000 capi, invece dei 150 del passato, pur dedicando meno tempo alla sorveglianza del gregge è più impegnato in altre operazioni relative alla cura degli animali. Mentre, però, una volta normalmente dormiva sotto le stelle, utilizzando un telo come giaciglio, le scarpe o le rive di un fosso come cuscino, il tabarro come coperta (magari tenendosi vicina qualche pecora per fornire un po’ di calore in caso di freddo pungente), oggi utilizza dei mezzi attrezzati a rustico camper. La disponibilità di automezzi a trazione integrale ha facilitato anche i trasporti del materiale necessario.
L’immagine del pastore che si prepara la polenta sotto le stelle è almeno in parte anacronistica dal momento che, se anche in passato i pastori non disdegnavano frequentare le osterie per rifocillarsi, oggi, di norma, pranzano in trattoria. Il peröl, però, non manca quasi mai anche al giorno d’oggi. Anche oggi in alcune circostanze la vita del pastore non è comunque priva di disagi, legati spesso alle avversità climatiche.

Le modificazioni introdotte nel sistema di pastorizia transumante sono state rese possibili anche grazie all’introduzione di nuovi mezzi messi tecnici. Ultimamente i pastori che, in precedenza, avevano iniziato a munirsi di radiotrasmittenti per restare in contatto con le famiglie, utilizzano normalmente il telefonino, non solo per comunicare con la famiglia, ma per svolgere le transazioni commerciali, senza allontanarsi dal gregge, e organizzare gli spostamenti.
Sicuramente tra le varie tecnologie moderne questa sarebbe la più apprezzata dai pastori del passato. Di grande aiuto risultano anche le recinzioni mobile di rapida realizzazione costituite da paletti in plastica con anima e punta metallica collegati da una rete in materiale sintetico e facilmente infissi nel terreno e rimossi. Questa innovazione è di grande importanza consentendo di radunare e
confinare rapidamente e facilmente il gregge. Ciò consente sia di evitare danni alle coltivazioni che di poter eseguire più agevolmente delle operazioni sugli animali: marcature, trattamenti sanitari. In generale la possibilità di realizzare recinzioni mobili allevia di molto il compito di sorveglianza del gregge; un’indagine recente (RIZZI ET AL. 1998) ha messo in evidenza come solo in un terzo dei casi il pastore resti presso il gregge durante la notte mentre nel 10% dei casi le pecore sono ricoverate in un ovile e solo nel 2% affidate alla sola custodia dei cani. Tra le innovazioni introdotte recentemente figura anche il crescente utilizzo di mangimi. Agli inizi degli anni ’90 il 30% delle greggi transumanti poteva usufruire di integrazione con mangimi mentre l’utilizzo di sali minerali è ormai generalizzato (91% dei greggi) (RIZZI ET AL., 1998). L’accresciuta dimensione dei greggi impone degli orientamenti nuovi alle tecniche di transumanza; dal punto di vista riproduttivo si tende sempre più ad evitare i parti nel periodo della transumanza primaverile e durante l’alpeggio. Come abbiamo visto trattando dell’alpeggio si è anche abbreviato il periodo della monticazione che una minoranza di allevatori tende persino a non praticare del tutto. Questa tendenza, però, come quella alla sedentarizzazione degli allevamenti deve essere considerata come una scelta personale, che modifica profondamente la natura stessa del sistema di allevamento della pecora Bergamasca. Anche in questo caso non ci pare di poter affermare di essere di fronte ad un cambiamento del sistema pastorale perché anche in passato non mancavano i casi di pastori che tendevano a sedentarizzarsi (a cominciare dai famosi “pergamaschi” del ‘400). La trasformazione dell’allevamento da transumante a stanziale è stata molte volte preconizzata ed auspicata anche nel passato, ma ci pare di poter escludere che questa forma di allevamento potrà mai prevalere su quella transumante, almeno nel futuro prossimo e forse fintanto che esisterà la pecora Bergamasca. Come hanno osservato giustamente SUSMEL ET AL. (1992) le forme di allevamento stanziali o semi-stanziali “comportano un forte aumento degli investimenti strutturali sia dei costi alimentari, molto ridotti nella transumanza. La sedentarizzazione per avere successo deve essere accompagnata da un’intensificazione e da una valorizzazione economica delle produzioni” che, aggiungiamo noi, oggi può essere realizzata solo in casi particolari. La produzione di agnelloni o agnelli pesanti bergamaschi può essere senz’altro attuata in condizioni stanziali dove i più rapidi accrescimenti possono in parte compensare i costi fissi. La disponibilità di terreni idonei alla coltivazione del mais ceroso può consentire la formulazione di razioni economiche somministrate con la tecnica “unifeed”. Nelle nostre condizioni, però, sono gli alti valori del capitale investito (terreni, fabbricati) che tendono a ridurre l’economicità di questo sistema di allevamento che può essere giustificato laddove la produzione è integrata con la macellazione, la vendita diretta, l’utilizzo nella ristorazione agrituristica.

La transumanza bovina

La transumanza bovina nasce dopo quella quella ovina e mentre quest’ultima appare manifestare nuovi segni di vitalità all’inizio del XXI secolo, essa rappresenta per lo più un ricordo dal momento che se ne conservano solo delle tracce. Eppure il fenomeno della transumanza bovina nelle Alpi appare di grande portata storica ed economica strettamente intrecciato all'evoluzione dell’allevamento bovino e all’industria casearia non solo nell’area alpina, ma anche in quelle limitrofe. “Epicentri” della transumanza bovina sono stati da una parte le Alpi e Prealpi svizzere, dall’altra le Prealpi lombarde. In Svizzera la distanza tra i pascoli delle pianure e le valli alpine è tale da scoraggiare il trasferimento delle mandrie. Qui i mandriani che durante l’estate vivono sulle alpi “erano costretti, durante l’inverno, ad alloggiare e a far nutrire il loro bestiame presso i contadini delle valli che compensavano con latticini” . Il Niederer prosegue così nel delineare la figura del mandriano transumante svizzero (definito qui “pastore d’altura”) :

“Vivendo d’estate sugli alpeggi con le loro vacche e d’inverno in simbiosi con i contadini delle valli, questi ‘pastori d’altura’ hanno formato dal XVI secolo nelle Alpi e nelle Prealpi settentrionali (nell’Emmental, nell’Enttlebuch, nei cantoni di Glarona, Schwytz, nell’Appenzell, nella Gruyère, eccetera) una corporazione tutta particolare, con una mentalità completamente diversa da quella dei proprietari agricoli. Essi non tralasciavano mai di vantare la loro grandissima libertà, la libertà dei nomadi rispetto ai contadini sedentari, attaccati al loro pezzo di terra da coltivare. Nella seconda metà del XVI secolo, i ‘pastori d’altura’ svizzeri sono diventati i maggiori produttori di formaggi a pasta dura, destinati soprattutto all’esportazione, che hanno, a poco a poco, soppiantato la produzione di burro e di formaggiuo acido. E ogni anno andavano persino a vendere il bestiame nei mercati del Milanese o della Borgogna. (…) I ‘pastori d’altura’ sono scomparsi quando i contadini delle basse vallate hanno abbandonato le colture cerealicole per l’allevamento e la produzione lattiera, privandoli così del fieno per l’inverno. Inoltre, dal principio del XIX secolo, i caseifici paesani avevano iniziato a fabbricare formaggio per l’esportazione, facendo così ai montanari una concorrenza sempre più forte, alla quale essi alla fine non hanno più saputo far fronte.”

Diversa e più complessa appare la parabola dei mandriani transumanti lombardi anche se vi è tuttora scarsa consapevolezza dell’importanza delle relazioni che sono intercorse in passato tra la montagna e la pianura e, in particolare, del ruolo degli allevatori transumanti delle valli orobiche nel promuovere lo sviluppo delle moderne aziende zootecniche e dei moderni caseifici della “bassa”. Il ricordo (spesso diretto) della tradizionale transumanza stagionale delle mandrie bovine tra le valli bergamasche e le cassine della bassa è però ancora vivo presso gli allevatori.

Una storia tanto importante quanto poco conosciuta

Come tutte le tradizioni che si trasmettono oralmente quelle relative alla transumanza bovina lomnarda tendono, di generazione in generazione, a ad assumere dei contorni sempre più indefiniti. Gli allevatori, forse per un malinteso pudore, evitano di autocelebrare sé stessi e i loro avi. Con l’eccezione di Cattaneo (considerato con sufficienza da molti contemporanei e posteri per i suoi interessi “vili”) pochi intellettuali hanno ritenuto degne di attenzione storie che “sentono” di formaggio stagionato e di lettiera. La storia della transumanza bovina rappresenta, però, un elemento fondamentale nel quadro della storia economica e sociale della Lombardia e alcuni studi storici recenti ci consentono, operando uno squarcio in una storia fin qui dai contorni vaghi, di tracciare il percorso che ha portato dalla transumanza ovina a lungo raggio del XII-XIII sec. all’affermarsi della figura del “pergamasco” e quindi alla nascita e allo sviluppo del sistema della cassina e della moderna azienda zootecnica stanziale tra XV e il XVIII sec.
Dal punto di vista della storia economica e sociale la transumanza bovina, riconosciuta oggi così importante alla fine del medioevo e all’inizio dell’età moderna, è stata considerata in seguito un fenomeno “ad esaurimento” non abbastanza importante per divenire oggetto di una storia non puramente settoriale.
Dal nostro punto di vista, e cioè dal punto di vista di una storia sociale e culturale del mondo agricolo lombardo, l’importanza della transumanza bovina bergamasca non cessa con la presa d’atto dell’irreversibilità del processo di sedentarizzazione dei “bergamini”, probabilmente già molto avanzato nel XVIII quando le strutture agricole della bassa (almeno nelle zone più avanzate del milanese e del lodigiano) possono considerarsi stabilizzate.
Oltre all’importanza del ruolo della transumanza bovina nella genesi della moderna industria casearia lombarda nel XIX secolo (basti pensare a come il polo caseario melzese debba la sua fortuna alla natura di tappa obbligata sui percorsi della transumanza che collegavano le prealpi bergamasche e lecchesi con le zone di più intensa zootecnia da latte lungo il basso corso dell’Adda) vi sono diversi altri elementi che ci inducono ad approfondire la storia della transumanza bovina dal XV al XX secolo, una storia che appare più importante di quanto si poteva supporre in passato.

Allevatori puri

La comprensione del ruolo della transumanza nel corso dei secoli è a nostro avviso fondamentale per comprendere il carattere peculiare della tradizione allevatoriale lombarda e probabilmente anche per ricostruire attraverso elementi storici e culturali l’identità collettiva dei nostri allevatori.
Le capacità tecniche degli attuali allevatori delle aree della bassa più nettamente caratterizzate dall’indirizzo zootecnico (che rappresentavano le aree di svernamento privilegiate dei bergamini/malghesi) sono riconosciute elevatissime. Non è difficile scorgere in questa attitudine “genetica” all’allevamento dei nostri imprenditori agrozootecnici il retaggio di una cultura di “allevatori puri” che può essere spiegata solo con la profonda influenza della transumanza non solo sul sistema di allevamento, sui rapporti sociali ed economici, ma anche sulla cultura degli agricoltori di matrice bergamina.
Ancora pochi decenni fa, nell’ambito dei contratti che da secoli regolavano il rapporto tra bergamini e proprietari dei fondi agricoli della bassa, veniva precisato che le operazioni di rinnovo della lettiera, allontanamento, trasporto e stoccaggio delle deiezioni erano a carico del “padrone”. Il bergamino e i suoi sottoposti si dedicavano anche durante il periodo trascorso al piano delle operazioni legate al foraggiamento (e al pascolo), alla mungitura e alla trasformazione del latte: le stesse svolte in estate sui pascoli della Val Brembana e limitrofe. Indicativo di questo carattere di “allevatore puro” è il ritratto che dei malghesi degli anni ’30 del XX sec. ci ha lasciato Paul Sheuermeier nella sua classica e monumentale opera “Il lavoro dei contadini”: “Questi ‘bergamini’, che come piccoli re nomadi fanno la spola continuamente tra le Alpi e il Po, con il bestiame e le famiglie, che si occupano per tutto l’anno di latte e di pascoli, la cui mandria rimane sempre unita, e quasi non hanno una dimora fissa neppure ne paese natale, sono stati ritrovati soltanto nelle valli alpine del bergamasco”.

Allevatori = Bergamaschi?

E’ interessante osservare come dai “pergamaschi” del XV sec. (descritti nei lavori di E. Roveda) e i “bergamini” di Sheuermeier della prima metà del XX sec. l’associazione tra valli bergamasche e questa figura di allevatore transumante si mantenga ben stretta e che essa venga messa in evidenza da osservatori che pure hanno avuto modo di constatare la presenza di figure e di sistemi di allevamento analoghi in altre aree della Lombardia e in buona parte dell’arco alpino. E’ estremamente significativo a questo proposito che nel classico vocabolario della lingua milanese del Cherubini il bergamì sia definito come proveniente dalle valli della provincia di Bergamo (analoghe considerazioni valgono per la lingua cremonese). L’uso di definire “bergamini” i panni prodotti a Bergamo nei secoli d’oro del lanificio bergamasco conferma indirettamente che questo termine era utilizzato nel XVI-XVII secolo come sinonimo di “bergamasco”.
Oltre che a definire il mandriano-imprenditore zootecnico transumante, il termine bergamino ha, sino a tempi a noi vicini, indicato anche il “mungitore” (famèi) nelle zone del pavese e della bassa lodigiana. La confusione è probabilmente legata ad fatto che nelle famiglie bergamine con un numero elevato di figli maschi (e/o con poco bestiame) alcuni di essi dovevano effettivamente mettersi al servizio di altri bergamini o degli agricoltori (fitàul) con bestiame proprio. Ciò che ha caratterizzato il bergamìn (termine che nel milanese fa riferimento senza ambiguità al mandriano-imprenditore) era la proprietà della mandria di bovine da latte accompagnata eventualmente da quella di terreni e fabbricati nelle zone di origine ma mai da proprietà nella “Bassa”. Il bergamìn non prendeva neppure in affitto i fondi ma dagli affittuari ( in qualche caso dai proprietari-conduttori)acquistava il fieno e l’ “erbatico” e con essi le “regalie” che consistevano mell’uso della stalla e dei locali di abitazione (eventualmente anche del caseificio) oltre a legna da ardere.
Ill termine bergamina era termine utilizzato nella “bassa” per indicare la vacca in lattazione e anche le vie della transumanza percorse stagionalmente dalle mandrie o anche la stalla delle vacche. Nelle aree di origine dei bergamì (alta Valbrembana) il termine bergamina contraddistingue, invece, la mandria bovina in trasferimento o in stalla distinguendola dalla malga che rappresenta la mandria al pascolo (l’uso del termine malga in questa accezione è comune all’area che comprende le alte valli del Bitto e la Valtartano, aree legate da una cultura comune alla Valbrembana in ragione di antiche migrazioni dalla Valbrembana stessa alle limitrofe valli orobiche valtellinesi). Bergamino è quindi colui che guida la mandria in trasferimento. La comune radice berg (montagna) potrebbe lasciare aperta l’ipotesi di un significato del termine bergamino (colui che guida la mandria in montagna) diversa da quella legata alla provenienza territoriale dei mandriani transumanti? Crediamo, però, che l’ipotesi possa essere scartata sulla base della considerazione storica che l’utilizzo del termine “bergamino” nella “bassa” è stato preceduto da quello di “pergamasco” che non lascia spazio ad alcun dubbi circa il riferimento ad una provenienza da Bergamo.

Sorge allora un interrogativo cui appare subito interessante poter rispondere: perché questo nesso indiscusso tra le valli orobiche (compresa la Valsassina) e la transumanza bovina?
Una spiegazione appare legata alle caratteristiche favorevoli per il pascolo bovino dei pascoli alti dell’alta Val Brembana della Valtaleggio, della Valsassina e di una parte della Valseriana alla relativa scarsità, in queste stesse aree, di foraggi in grado di consentire il mantenimento invernale del bestiame bovino e alla facilità di accesso alla pianura
Questa ipotesi che tiene conto di caratteristiche morfologiche e geografiche delle valli orobiche si colora di aspetti storico-politici qualora si consideri che lo stretto legame tra Valli bergamasche e territorio milanese ha potuto essere favorito dall’appartenenza allo Stato di Milano di alcuni territori della Val Taleggio e della Vallimagna all’interno del “triangolo d’oro” dei bergamini.
E’indubbio che il binomio pianure del milanese e valli bergamasche (mediato dalle terre brembane milanesi e dalla Valsassina) rappresenti una spiegazione del fenomeno bergamino. L’emergere del ruolo dei mandriani transumanti bergamaschi nell’ambito della complessiva realtà alpina può essere spiegato infatti non solo con la complementarietà di risorse agricole del piano e delle valli, ma anche con una felice combinazione di capacità tecniche e imprenditoriali valligiane e la disponibilità nell’ambito del milanese di ingenti risorse economiche originatesi dalle fiorenti attività commerciale e industriali cittadine e destinate, dalle classi dirigenti milanesi, alla modernizzazione dell’agricoltura. Ciò è tanto più vero quanto più si consideri che la fertilità del terreno della Bassa è il risultato di massicci investimenti finanziari operati a partire medioevo e non da una situazione naturale originaria.
All’interno del fenomeno bergamino comunque al di là dei rapporti territoriali a lunga distanza con la pianura sembra che abbiano avuto grande importanza anche i rapporti intervallivi ed in particolare quelli con la Valsassina. Come abbiamo visto il confine tra la repubblica di Venezia e il Ducato di Milano non correva lungo lo spartiacque (tutt’oggi Morterone alla testata della Valtaleggio appartiene alla provincia di Lecco); questa circostanza, unita alla presenza di “goggie” che rendono difficile il collegamento con il fondovalle brembano, ha ovviamente facilitato il passaggio verso la Valsassina. Si deve anche osservare come tra la Valsassina e valli brembane la cresta montuosa lascia il posto in più punti ad ampie distese di pascoli a lieve pendio (Piani di Bobbio, Piani di Artavaggio) che, non a caso furono aspramente contese tra le comunità dei due versanti non risultando agevole l’individuazione delle linee di confine (si veda la “guerra dei Piani di Bobbio che nel 1735 portò ad un conflitto a fuoco tra allevatori di Valtorta e di Barzio).
Una certa omogeneità a cavaliere del confine politico era legata anche alla appartenenza di Averara, Torta e Taleggio alla Pieve di Primaluna in Valsassina (Riceputi, 1997); queste parrocchie pertanto seguivano il rito ambrosiano. Se si aggiunge che le valli Taleggio e di Averara rappresentavano “terre separate” caratterizzate da privilegi giurisdizionali, confermati dai Duchi di Milano prima e dalla Serenissima, si comprende come il confine che separava la Valsassina dalla Valbrembana non fosse un elemento tale da ostacolare scambi e contatti ma semmai di promuoverli. E’ noto infatti che tra i due versanti il movimento di prodotti, bestiame e uomini fu nei secoli sempre intenso. Dal punto di vista della storia dei bergamì risulta molto importante la secolare emigrazione di allevatori verso la Valsassina. Come riporta Nangeroni (1958): “Nei secoli scorsi, vi fu una notevole migrazione di abitanti dediti all’allevamento da questa valle [la Val Taleggio] alla contigua Valsàssina (Ducato di Milano) e di qui alla bassa pianura milanese: donde la frequenza di cognomi tipici di Taleggio nel Milanese, nel Lodigiano e nel Pavese oltre che nel Lecchese (Manzoni, Arrigoni, Taeggi, Galbani, Arnoldi, Invernizzi, Orlandi, ecc.)”. Questa osmosi tra Valli brembane e Valsassina nell’ambito della storia dei bergamini induce ad individuare il Culmine di S.Pietro come un “centro simbolico” di questa realtà; ciò non solo per ragioni geografiche ma, soprattutto per la presenza di una chiesa che ha rappresentato in passato il punto di riferimento religioso dei bergamini, essendo anche una parrocchia molto particolare,attiva solo durante il periodo di pascolo.

Il ruolo dei bergamini negli ultimi due secoli

Al secondo interrogativo che abbiamo posto, relativo cioè alle modalità attraverso le quali anche dopo la sedentarizzazione delle prime generazioni di bergamini/malghesi hanno continuato ad incidere significativamente sul sistema zootecnico della bassa e sulla nascita dell’industria casearia è possibile secondo noi fornire adeguata spiegazione attraverso l’indagine storica. Il periodo da esaminare (XVIII-XX secolo) è ancora abbastanza vicino per poter disporre non solo di fonti scritte, ma anche di una messe di fonti orali che, se non raccolte in modo sistematico secondo precisi intenti di ricostruzione storica, rischiano di essere irrimediabilmente perdute. Relativamente al fenomeno bergamino negli ultimi secoli non mancano squarci interessanti sulla sua dimensione sociale e culturale, ma la frammentarietà delle informazioni non consente di delineare un quadro abbastanza nitido.
Il legame con il mondo “bergamino” degli agricoltori stanzializzati (e divenuti “fittavoli”) può essersi mantenuto attraverso i rapporti parentali (i “bergamini” anche dopo generazioni dalla stanzializzazione continuano a praticare l’endogamia all’interno del gruppo d’origine che- aspetto fondamentale- continua a comprendere gruppi residenti nelle comunità d’origine), ma anche attraverso l’affermarsi della pratica dell’alpeggio del bestiame da parte degli allevatori stanziali della bassa, pratica ancora significativa negli anni ’50 del XX sec. E’ probabile che gli aspetti zootecnici e quelli sociali del persistente rapporto tra i discendenti dei bergamini e la montagna tendessero a rafforzarsi reciprocamente. Il forte legame del mondo “bergamino” con le tradizioni è testimoniato anche da manifestazioni di forte valore simbolico come la presenza –poco o nulla legata ad interessi economici- di allevatori della bassa di origine bergamina a fiere zootecniche di montagna come quella di Pasturo in Valsassina.

Bergamini e circuito economico

Il ruolo tutt’altro che marginale esercitato dai malghesi nell’ambito dell’economia della “bassa” anche in epoche non lontane può essere spiegato con l’importanza della funzione di raccordo tra le risorse della montagna e della pianura. Quest’ultima fino a pochi decenni fa (e cioè sino all’avvenuto risanamento del bestiame dalle forme tubercolari legato alla diffusione delle misure profilattiche e alla rivoluzione nelle tipologie costruttive dei ricoveri) era, è bene ricordarlo, totalmente dipendente dalla montagna per il rifornimento del giovane bestiame mentre la stesse condizioni di efficienza produttiva e riproduttiva delle bovine adulte erano largamente dipendenti dalla “ginnastica funzionale” praticata sui pascoli alpini e prealpini.
Ma il ruolo dei bergamini non si esauriva in una funzione di raccordo tra risorse della montagna e della pianura. Esso consisteva anche in un importante ruolo commerciale che può spiegare il grande sviluppo nella bassa dell’economia non solo agrozootecnica ma anche agro-alimentare. Già si è accennato al legame tra la transumanza gestita dai bergamì e il sorgere a Melzo e a Gorgonzola di un formidabile polo caseario che con il tempo ha assunto importanza anche al di là dell’ambito regionale. Il formaggio Taleggio (tradizionalmente indicato come “stracchino”) e il Quartirolo lombardo sono prodotti strettamente legati nella loro origine alla transumanza. Ma la storia di questi prodotti tipici e del caseificio lombardo non è certo da ridurre al contributo di tecnica casearia “montanara” dei bergamì. Essi hanno fornito infatti un determinante apporto imprenditoriale e commerciale.
Se è vero che i mandriani nomadi si potevano avvantaggiare dell’inserimento nel circuito di rapporti commerciali delle aziende capitaliste della pianura è anche vero che il loro spirito intraprendente ha senza dubbio contribuito all’allargamento dei circuiti commerciali stessi dell’economia zootecnica della bassa. In una differenziazione di ruoli che risale probabilmente a diversi secoli orsono ma che consentiva entro i gruppi famigliari estesi una certa intercambiabilità in funzione delle condizioni economiche e delle vicende famigliari. (ancora nel XX secolo il figlio di un furmagiàtt precocemente scomparso poteva per esempio unirsi allo zio e recarsi in alpeggio)

I bergamini da mandriani nomadi sono divenuti commercianti di formaggio, titolari di aziende casearie. “Bergamini” sono i mercanti di formaggi che a Milano hanno lasciato il ricordo nell’omonima via e che disponevano di depositi e di locali di stagionatura fuori delle mura della città nel Burgh di furmagiàtt (l’attuale Corso S.Gottardo) e a Corsico in località dove che attraverso la via dei Navigli (Pavese e Grande) i latticini potevano facilmente affluire dalle aree del Pavese e del Milanese della “valle del Ticino” dove i bergamini tendevano a stabilirsi preferenzialmente durante l’inverno.
Bergamini erano in origine gli imprenditori caseari che diedero vita ai primi caseifici resisi autonomi dalle aziende agricole e che poterono svilupparsi grazie alla disponibilità di latte in aree dove erano presenti numerosi bergamini. I casi più noti di aziende sorte per iniziativa di famiglie di bergamni sono quelli della Invernizzi e della Locatelli.
Questa differenziazione del ruolo economico dei “bergamini” (un termine utilizzato anche per la figura del bergamino-salariato-mungitore) ha indotto in tempi non troppo lontani ad utilizzare il termine di “malghesi” per contraddistinguere i mandriani che continuavano a praticare la transumanza mantenendo proprietà, residenza, legami famigliari presso le comunità di valle. I “malghesi” del secolo XX rappresentano quindi quella componente del “popolo dei bergamini” che ha mantenuto lo stile di vita, i rapporti contrattuali tipici di una tradizione secolare.

Il contributo dei bergamini allo sviluppo storico della “filiera latte” della bassa lombarda non potrebbe essere compreso senza la considerazione del loro ruolo che ab initio fu legato all’economia monetaria e all’assunzione del rischi d’impresa. Sappiamo che i bergamini nell’ambito della comunità di villaggio rappresentavano l’elemento economicamente più dinamico e “imprenditoriale” tanto da identificarli con una “aristocrazia contadina” (o protoborghesia rurale.). Tanto più era numerosa la mandria e quanto più l’allevatore si tratteneva al piano con i propri animali. I mandriani più grossi (ma anche quelli più intraprendenti “rudi e selvaggi” come ebbe a dire Scheuermeier) lasciavano il piano ai primi di giugno per raggiungere direttamente i pascoli di montagna utilizzando “alpi” meglio attrezzate e con tipologia di fabbricati che si distingueva da quella dei piccoli allevatori che trascorrevano l’inverno nelle valli (“casalini”)(Nangeroni, 1958). Questi ultimi. chiusi all’interno della dimensione di un’economia di sopravvivenza mantenevano con fatica i loro capi durante l’inverno nverno alimentandoli con foglie, rami di brugo, paglia di panico e altri miseri “sottoprodotti” e, appena possibile in primavera si spostavano sui maggenghi (Serpieri, 1907). La differenza non era solo di quantità: i bergamini, in forza del carattere commerciale della loro economia (e della disponibilità di denaro), fin dal medioevo hanno esercitato la compravendita di bestiame, foraggi e formaggi. Prima di partire per le valli i malghesi acquistavano o affittavano bestiame dalla pianura così come lo rivendevano alla discesa dai monti. Se rispetto alle altre figure della comunità di valle i bergamini potevano certo impostare le transazioni commerciali da una posizione di forza, la disponibilità di denaro consentiva loro di porsi in modo non subalterno rispetto ai soggetti con i quali entravano in relazione economica nella pianura partire dai proprietari dei fondi. Tutti questi aspetti, al di là di indicazioni piuttosto vaghe, attendono di essere approfonditi così come quelli relativi al rapporto tra bergamini e comunità d’origine, rapporto che potrebbe senza dubbio contribuire a spiegare le ragioni del declino economico della montagna nel XIX e XX secolo.

Tabella
Alpi caricate da Bergamini Alpi caricate da Casalini
Composizione mandria bovina giovane bestiame > vaccine giovane = 60-70% vaccine
Cavalli sì anche gruppi no
Capre mai frequenti
Pecore mai si in alcune zone


Capraio a Milano all’inizio del ‘900. La mungitura avveniva in strada e il latte era immediatamente venduto all’acuirente

La transumanza caprina

La transumanza caprina non è stata sinora oggetto di studio. In Valle Camonica la transumanza caprina aveva anch’essa una notevole importanza. Era praticata da caprai di mestiere che in primavera si recavano nella bassa bresciana e nei pressi della città. In passato queste capre transumanti erano utilizzate anche per fornire latte fresco agli ospedali (Promessi sposi lazzaretto) De Agostini -Vita pastorale nell’Adamello. La maggior parte dei caprai transumanti camuni provenivano da Mù (un tempo comune, oggi frazione di Edolo). Ancora immediatamente prima della seconda guerra mondiale da Valle di Saviore tre caprai transumanti si spostavano ancora nella bassa bresciana. A Casirate d’Adda i Casarotti originari di Cedegolo rappresentano un esempio di famiglia di caprai camuni transumantiche si sono fissati in pianura allevando vacche da latte (da qualche anno abbandonate in favore delle bufale).


L’utilizzo dei pascoli alpini: l’alpeggio

La centralità dell’alpeggio nella cultura delle comunità alpine è sottolineata da feste e riti ancora diffusi e dal forte valore simbolico e identificativo di tutto ciò che ruota intorno a questa pratica. Il legame tra la cultura alpina e quella nomade-pastorale delle popolazioni che occuparono le valli alpine che, dai Golasecchiani ai Galli, erano accomunate dall’ascendenza celtica alla quale sono riconducibili una particolare abilità nell’allevamento e nel caseificio (Cantarelli, 2000).
Vale la pena ricordare come nel periodo dell’alpeggio (sopratutto nel mese di luglio) cadano le ricorrenze di numerosi Santi tra i più importanti tra quelli oggetto del culto delle popolazioni della montagna lombarda. Tali feste sono tutt’oggi sottolineate con l’accensione la sera della vigilia di falò sulle cime dei monti o presso le alpi e i maggenghi che in passato erano accompagnati da riti propiziatori e apotropaici di antichissima origine (salto dei giovani pastori tra le fiamme e passaggio del bestiame tra i fuochi a scopo di purificazione) che trovano precisi corrispettivi nel folklore europeo di matrice celtica. Si potrebbe aggiungere che le alpi nella cultura alpina sono sede “preferenziale” di entità fatate e personaggi dell’aldilà (come le “anime confinate”, “caccia selvaggia”) che testimoniano della sopravvivenza di elementi religiosi precristiani. Importanti sono anche i riti comunitari legati al caricamento dell’alpeggio e alla smonticazione. Tali feste oggi si sono mantenute in aree più conservative (Svizzera, Tirolo) ma erano molto sentiti anche sulle nostre montagne (Secondo Pietro Pensa la festa della discesa dall’alpe era la festa più importante dell’anno in diverse comunità della Valsassina). Tutt’oggi la salita all’alpeggio è sottolineata come una ricorrenza importante a Grosio che rappresenta un’occasione per indossare il costume tradizionale.
A Premana (in Valvarrone, provincia di Lecco) dove l’alpeggio assumeva connotati comunitari particolarmente forti si praticavano riti comunitari anche in alpe (pàst) che ancor oggi mantengono una loro vitalità legata all’associazionismo locale . Sempre a proposito degli aspetti culturali si può aggiungere che nell’ambito delle comunità montanare l’alpeggio ha sempre conferito un certo prestigio a coloro che lo praticavano (valore di iniziazione e di partecipazione piena alla dimensione comunitaria). E’indubbio che con le trasformazioni sociali e culturali che hanno portato alla disgregazione della comunità alpina tradizionale l’alpeggio abbia assunto sempre più nell’immaginario collettivo il significato di un ambito relativamente libero dalle costrizioni e dalle regole imposte dall’esterno (stato, chiesa) e condizione della continuità degli elementi tradizionali e di autoidentificazione.
Il recupero di interesse per l’alpeggio di questi ultimi anni è senza dubbio legato a questa sua valenza simbolica che esprime, dopo decenni di mortificante subalternità culturale, un recupero di identità culturale e territoriale. Si tratta quindi di un patrimonio che va al di là dell’importanza dell’aspetto produttivo, ma anche al di là di quello più ampiamente economico (turistico) e ambientale.
Bastano queste poche osservazioni per comprendere come alla continuità delle attività pastorali legate all’alpeggio siano associati significativi valori storico-culturali. Essi, oltre che esprimersi nella cultura materiale e immateriale legata all’alpeggio, sono cristallizzati in un paesaggio rappresentato dal mosaico di boschi e pascoli e da un fitto reticolo di infrastrutture viarie e di strutture di supporto all’attività pastorale e casearia che rappresentano il risultato di secoli di attività. Tali valori oltre che per l’identità delle comunità alpine assumono importanza anche per l’identità territoriale complessiva della regione (tenuto conto dello stretto rapporto che ha legato per secoli l’alpeggio alle cascine della Bassa e dell’origine alpina della maggiorparte degli attuali allevatori di pianura così importante ai fine dell’affermazione di quella cultura dell’allevamento e della tradizione casearia che caratterizzano la Lombardia). Esse rappresentano risorse importanti per lo sviluppo di un turismo interessato alla piena dimensione ecologica del territorio che comprende anche quella umana. E’importante anche sottolineare come la continuità del sistema dell’alpeggio è legata strettamente agli aspetti culturali. Il recupero di interesse degli allevatori di montagna nei confronti dell’alpeggio è dovuto sì ai contributi, ma anche alla percezione di un ritorno di interesse della comunità locale (e non solo) nei confronti di un patrimonio che rischiava di essere identificato con un elemento di un attività economica settoriale (e marginale), un fatto importante per la “categoria” agricola e nulla più. L’alpeggio a seguito della specializzazione delle aziende zootecniche di montagna (spesso simili agli insediamenti zootecnici della pianura) è divenuto sempre più il luogo dove si continua a realizzare un contatto tra la gran parte dei membri della comunità locale non più direttamente coinvolti nell’attività agricola e la realtà di un sistema pastorale che rispecchia quella che in passato era la dimensione comune della vita in montagna.

Il contatto con i turisti ed i residenti realizzato in alpe rappresenta anche l’occasione concreta attraverso la quale chi qui lavora lavora può percepire in modo diretto quanto sia diffuso nella società l’apprezzamento e il riconoscimento per la propria attività (e questo conta sicuramente di più delle affermazioni dei tecnici, politici, amministratori, ricercatori in occasione di convegni).
La presenza di giovani e dell’elemento femminile negli alpeggi è fortemente legata a questa percezione. Come in passato l’alpeggio tende a conferire un prestigio sociale a chi lo pratica e questo tanto più quanto ci si rende conto della scarsa sostenibilità, specie in montagna, di quei sistemi di allevamento (300 vacche Frisone, cuccette, trattrici da 200 CV) e dell’importanza di trovare soluzioni di redditività al di fuori della crescita quantitativa e dell’intensificazione produttiva. Il forte apprezzamento commerciale dei formaggi d’alpeggio e la crescente domanda di servizi agrituristici in alpe non rappresentano solo un elemento del bilancio aziendale, sono anche il “temometro” di una sanzione sociale positiva nei confronti di un sistema con impatto ambientale positivo. E’molto importante che il grado di prestigio professionale sia sempre più legato alla qualità del formaggio prodotto in alpe, al prezzo spuntato nella vendita diretta, alla capacità di offrire servizi agrituristici che si confanno all’ambiente semplice dell’alpe e sempre meno al numero di vacche, agli indici genetici, alle “schiene dritte”, ai CV delle trattrici e a tutti quegli elelementi di una cultura che, forse, in un recente passato è servita al superamento anche psicologico di una condizione “contadina” di inferioriorità socio-culturale , ma che ora rischia di costituire un elemento di nuova ghettizzazione e di sviare dalle opportunità di recuperare un ruolo sociale, economico, culturale sempre più importante nella società agriterziaria del XXI secolo.

Questa premessa circa il carattere di risorsa culturale dell’alpeggio è importante per comprendere perché la successiva trattazione si occupi non solo di aspetti tecnici ma anche dell’evoluzione storica del sistema di alpeggio (e più in generale di sfruttamento dei pascoli alpini). E’importante ricordare che il valore produttivo dell’alpeggio è indissolubilmente legato al suo carattere di riproduzione di saperi tradizionali che partecipano alla determinazione del valore economico del prodotto zootecnico contribuendo a definire (insieme alle caratteristiche dell’ambiente fisico) le sue caratteristiche intrinseche, ma rappresentando anche un “valore aggiunto” in sè. Ovviamente questo “valore aggiunto” di tipo culturale è potenziale e può tradursi in valore effettivo attraverso un’azione di divulgazione e promozione sull’esperienza (il più possibile “dal vivo”) da parte del cittadino-turista-consumatore dell’ambiente e dei processi produttivi ad esso legati. L’aspetto linguistico rappresenta non solo un elemento culturale essenziale di conoscenza e vaorizzazione della realtà del sistema dell’alpeggio ma anche, in termini molto pratici, un modo di superare quella barriera di incomunicabilità e di diffidenza tra chi opera dal punto di vista tecnico o amministrativo e gli “utenti” delle risorse in questione. La conoscenza dei termini a tutt’oggi utilizzati dagli allevatori relativamente alle pratiche d’alpeggio (spesso senza corrispondenza in italiano) è molto importante per attivare un flusso di scambio di conoscenze bidirezionale e per facilitare l’adozione di soluzioni tecniche idonee per una più razionale utilizzazione delle risorse pascolive alpine ai fini produttivi, turistici, ecologici. Tale adozione deve tenere in debito conto anche le conoscenze pratiche dei “malghesi” e il loro punto di vista al fine di evitare di prospettare soluzioni elaborate a tavolino che non tengano conto dei numerosi risvolti che nella pratica, specie in un ambiente con forti condizionamenti naturali, contrattuali, economici, giuridici.


Trasporto latte dal sito di mungitura alla pista grippabile dove sarà caricato su un fuoristrada

L’alpeggio (monticazione estiva o estivazione) consiste tradizionalmente nello sfruttamento dei pascoli alpini e prealpini per il periodo estivo da parte del bestiame ed in particolare delle vacche da latte con trasformazione sul posto del latte. Nella Alpi la maggiorparte dei pascoli alpini in quota sono ancor’oggi utilizzati con bestiame da latte. In alcune realtà quello che appariva un elemento costitutivo della pratica dell’alpeggio, ossia la lavorazione del latte sul posto, è venuto meno dal momento che il latte prodotto sui pascoli viene trasportato a valle e lavorato in caseifici cooperativi. E’quello che succede in Trentino dove la presenza diffusa di caseifici sociali in tutte le valli e la dotazione con strade camionabili delle alpi hanno indotto ad abbandonare la tradizionale caseificazione sul posto. Anche se questa scelta appare giustificata dagli importanti investimenti realizzati per dotare i caseifici di strutture e attrezzature moderne in grado di rispondere ai requisiti delle rigide normative igienico sanitarie introdotte dalla Ue () .....
In Lombardia la produzione di formaggi durante l’alpeggio è ancora la regola. In base alle domande inoltrate alle ASL nel 1999 ben 433 alpi (con una produzione di 13.036 t di latte) hanno dichiarato di produrre formaggio per la commercializzazione durante l’alpeggio. In altre 350 alpi si lavora il latte per autoconsumo o vendita diretta. Si tratta di una produzione relativamente modesta (meno del 10% del latte prodotto nella montagna lombarda) ma che assume un rilievo economico importante dal momento che il latte prodotto durante l’alpeggio è utilizzato per produrre formaggi di elevata tipicità che contribuiscono all’economia della montagna attraverso un effetto “indotto” da non sottovalutare. I formaggi e gli altri prodotti caseari d’alpe costituiscono un importante richiamo turistico di cui si avvantaggiano gli esercizi commerciali, alberghieri e il settore della ristorazione tradizionale e agrituristica. Essi, inoltre, contribuiscono in modo fondamentale all’immagine di naturalità e tradizionalità della produzione casearia della montagna che se ne avvantaggia anche nella sua componente semiindustriale ormai largamente diffusa.

Tabella. Ripartizione alpeggi per provincia (Servizio Veterinario regione Lombardia 1998)
Provincia Alpi censite
Bergamo 155
Brescia 313
Como 63
Lecco 48
Pavia 2
Sondrio 205
Varese 3
Totale 789

Tabella. Ripartizione alpeggi che lavorano il latte per destinazione del prodotto (Servizio Veterinario regione Lombardia 1998)

Provincia solo autoconsumo solo vendita diretta commercializzazione latte lavorato e tipi di prodotto negli alpeggi con commercializzazione
formag. stag. >60 gg formag. stag.
<60 gg ricotta
fresca ricotta stag. burro latte lavorato (t)
Bergamo 2 68 80 51 39 16 5 30 3.339
Brescia 41 155 103 92 43 26 13 55 3.823
Como 35 16 31 28 15 10 3 22 1.026
Lecco 2 13 32 20 14 7 7 10 839
Sondrio 33 42 187 184 8 57 26 20 4.010
Totale 113 294 433 375 119 116 54 137 13.036

Nelle Alpi vi sono altri pascoli che non sono utilizzati per il bestiame bovino (e/o caprino) da latte. Essi se collocati in zone al di sopra dei pascoli riservati ai bovini da latte sono spesso riservati al giovane bestiame bovino, alle vacche asciutte, alle pecore e alle capre pur rimanendo i pascoli nell’ambito della superficie dell’alpe. A volte alpi già caricate con bestiame da latte sono caricate esclusivamente con bestiame asciutto, con pecore da carne od equini. Le categorie di bestiame meno esigente possono anche utilizzare pascoli posti al di sotto o al di sopra della fascia delle alpi che neppure in passato erano sfruttati per l’alpeggio. In tutti questi casi, quando il bestiame trasferito sui pascoli di montagna non viene utilizzato per la produzione di latte non si può parlare di alpeggio ma di una forma di monticazione stagionale per lo sfruttamento dei pascoli alpini. Non agevola la distinzione tra alpeggio e altre forme di sfruttamento pastorale delle risorse foraggere alpine-distinzione fondamentale dal punto di vista della comprensione e della valorizzazione dei sistemi zootecnici alpini- il rilascio da parte delle Asl dei certificati d’alpeggio (mod. 7, obbligatorio per lo spostamento del bestiame da un comune all’altro) anche a bestiame che utilizza in modo estensivo se non del tutto brado (ossia senza controllo) pascoli che in passato erano utilizzati per l’alpeggio ma che, spesso da decenni, hanno vista cessare la loro funzione.
Ciò che distingue l’alpeggio dal generico sfruttamento dei pascoli in quota da parte del bestiame è proprio il tipo di controllo cui è sottoposto il bestiame. Non si può assolutamente parlare di alpeggio quando il bestiame (in particolare ovino e caprino) viene lasciato del tutto privo di sorveglianza libero di spostarsi sulle montagne passando anche da una valle all’altra con tutta una serie di conseguenza negative. Si può forse definire ancora “alpeggio” (più a fini di polizia veterinaria che zootecnici), la pratica di monticare equini e bovini asciutti sotto sorveglianza sia pur non giornaliera dal momento che queste categorie di bestiame utilizzano quantomeno una determinata area di pascolo. Dal punto di vista dei regolamenti di polizia veterinaria per “alpeggio” e “transumanza” si intende lo spostamento stagionale del bestiame rispettivamente nella cerchia alpina e sugli appennini. In realtà dal punto di vista dei sistemi pastorali la distinzione tra “transumanza” ed altre forme di spostamento stagionale del bestiame attiene il raggio del trasferimento. Si può parlare a ragione di “transumanza” per descrivere il sistema di allevamento della pecora bergamasca che si esercita tra la pianura lombarda ed emiliana e le vallate alpine. In passato una vera e propria transumanza riguardava anche il bestiame bovino da latte che svernava nelle stalle della Bassa e a Maggio si spostava sulle Prealpi. Tale spostamento, effettuato a piedi, richiedeva più giorni di cammino. Sia l’”alpeggio” che la “transumanza” sono forme di “monticazione”. Lo spostamento degli animali alla fine del periodo estivo viene denominato “demonticazione”. Nel caso delle greggi è previsto dalle regolamentazioni di Polizia Veterinaria anche il “pascolo vagante” che, a differenza dell’alpeggio o della transumanza non è legato a spostamenti stagionali tra diverse fasce altimetriche ma qualsiasi spostamento del gregge da un comune all’altro indipendentemente dalla stagione. La cosiddetta “pastorizia transumante” è in realtà una “pastorizia vagante” perché agli spostamenti dal piano ai pascoli alpini e viceversa vi sono anche, di norma, spostamenti nell’ambito del territorio di pianura (vedi il concetto di batida al cap. sulla Pecora Bergamasca).

La durata dell’alpeggio

E’ legata in gran parte all’altitudine della stazione. Va da un minimo di 60 ad un massimo di 120 giorni anche se, nella maggior parte dei casi si osserva una durata di 70-80 giorni.

Stazioni d’alpeggio
Il numero di stazioni (denominati anche tramuti dal piemontese o mutate dal lombardo) varia da 1 a 5. Più frequentemente le alpi sono suddivise in 2-3 stazioni. Quelle a quote più basse vengono utilizzate sia nella fase di salita che di discesa. Il dislivello tra le stazioni è di 100-150 m ma può arrivare anche a 700 m. In ogni stazione esiste un fabbricato adibito alla prima lavorazione del latte anche se in genere solamente al “piede dell’alpe” o, comunque nella stazione principale esiste la casera per la stagionatura del formaggio. Quando l’alpe si articola in due stazioni è frequente distinguerle in casera/baita/malga “bassa” e “alta”.

Bestiame alpeggiato nelle alpi

Le specie e categorie di bestiame che si possono trovare nelle alpi indicate nella Tabella (). Anche se in senso stretto il concetto di alpe è utilizzato per indicare l’insieme di pascoli e di fabbricati costantemente utilizzati durante l’estate per l’abitazione dei pastori, il ricovero del bestiame e la lavorazione del latte possono essere incluse nell’utilizzo delle alpi quelle forme di attività pastorale che implicano una custodia continua degli animali o che quantomeno implicano una presenza costante del bestiame in determinate aree di pascolo. Non può essere compreso nell’utilizzo delle alpi il pascolo “vago” (ossia senza custodia) delle greggi caprine e ovine che vengono rilasciate in tarda primavera dai proprietari e sottoposte a controlli saltuari. Questo bestiame, al contrario dei bovini e degli equini che occupano durante la stagone aree definite di pascolo può spostarsi anche di molti chilomentri attraverso le creste da una valle all’altra ed è assolutamente improprio ricondurre questa forma di pascolo all’ alpeggio.

 

Tabella Carico di bestiame sulle alpi lombarde (Censimento 2001 Sialp Regione Lombardia)
PROVINCIA BG BS CO LC SO PV VA LOMBARDIA
Tori 54 71 44 9 99 4 0 281
Vacche lattifere 3049 5543 1152 791 7176 0 45 17756
Vacche nutrici 358 433 407 3 258 264 15 1738
Bovini > 2 anni 2192 2360 308 630 2140 30 0 7660
Bovini < 2 anni 2889 2422 329 594 3341 119 100 9794
Equini 747 480 116 136 621 0 7 2107
Caprini 1879 3526 2343 2187 4902 0 280 15117
Ovini 26572 17081 585 2623 3873 0 10 50744
Suini 243 433 226 92 492 0 0 1486
UBA bovini 7386 9860 2108 1789 11678 369 120 33311
UBA totali 12401 13431 2664 2647 13615 369 171 45298
% UBA bovini 59,6 73,4 79,2 67,6 85,8 100,0 70,4 73,5

Tabella – Censimento Alpeggi Regione Lombardia 2001
Alpi Aziende conferenti Addetti Provincia Uba
bovini Uba
totali Sup. pascolabile Sup.
totale
126 632 343 Bergamo 7386.4 12401.1 18119.0 41183.5
176 869 401 Brescia 9860.2 13431.3 24812.4 57501.8
51 202 137 Como 2108.4 2663.6 5243.3 11339.7
45 226 146 Lecco 1789.4 2646.9 2847.7 10591.9
4 22 12 Pavia 369.4 369.4 481.8 481.8
264 1542 777 Sondrio 11677.6 13614.9 32436.4 101286.8
3 7 5 Varese 120 170.5 409.8 505.9
669 3500 1821 Lombardia 33311.4 45297.5 84350.5 222891.4

 

Tabella – Censimento Alpeggi 2001: Addetti
Maschi Femmine Età media
BG 285 54 43,8
BS 321 82 48,1
CO 104 33 44,8
LC 106 42 50,8
SO 567 210 45,2
PV 10 0 48,3
VA 3 2 45,0
Regione 1396 423 46,6

Tabella – Confronto carico di bestiame alpeggiato nel corso del XX secolo
SONDRIO BERGAMO COMO LECCO
1902 1970 2000 1905 1970 2000 1905 1970 2000 1905 1970 2000
Vacche latt. 23095 11603 7434 12093 4249 3407 4224 1552 1559 3089 1039 794
Bovini asciutti 16219 10415 5580 11075 8014 5135 3083 1106 681 2717 2119 1233
Equini 237 318 621 n.d. 221 747 n.d. 92 116 100 47 136
Caprini 20938 1781 4902 532 196 1879 3785 1737 2343 3510 294 2187
Ovini 48177 3151 3873 3513 18243 26572 3358 973 585 46 937 2623
Suini n.d. 1886 492 n.d. 428 243 n.d. 465 226 n.d. 151 92
UBA bovini 22140 16105 11678 12347 8397 7386 4030 1835 2108 3168 2345 1789
UBA totali 32251 17505 13615 12920 11116 12401 5050 2408 2664 3776 2568 2647
% UBA bovini 68,6 92,0 85,8 95,6 75,5 59,6 79,8 76,2 79,2 83,9 91,3 67,6
Alpi caricate 407 351 264 195 182 126 73 65 51 64 51 45

 

Alpi a villaggio Alpi unitarie
Diffusione Lecchese (esclusa Valsassina), Valchiavenna, Media Valtellina Altre zone
Proprietà/conduzione Multiproprietà indivisa a conduzione diretta dissociata
Proprietà comunale gravata di uso civico goduto direttamente in forma dissociata Multiproprietà indivisa gestita con salariati
Multiproprietà indivisa affittata a un caricatore
Proprietà comunale affittata a uno o pochi caricatori
Proprietà comunale gravata di uso civico goduto in forma associata

Tabella - Modalità di gestione del pascolamento e della lavorazione del latte in alpeggio
Pascoli Caseificio
 Gestione dissociata
 Gestione unitaria con salariati
 Gestione unitaria a turno  Gestione unitaria privata
 Gestione dissociata
 Gestione unitaria turnaria presso un caseificio comune (cooperativo, comunale, associato)
 Gestione unitaria cooperativa presso un caseificio comune con salariati
 Gestione unitaria cooperativa presso il caseificio del socio di turmo
 Gestione unitaria privatacon compravendita del latte

La giornata tipo in alpe
ore attività
5.00 sveglia
5.50-7.00 mungitura
7.30-9.00 lavorazione latte
9.00-11.30 conduzione mandria al pascolo e attività varie (preparazione recinti/ pulizie/ manutenzioni/ raccolta e taglio legna)
11.30-12.00 abbeverata vitellame e attività varie (preparazione colazione)
14.00-16.00 lavorazione latticini
16.00-16.30 rientro mandria
16.00-18.00 mungitura
18.00-19.00 lavorazione latte
19.30-21.30 pascolo serale (“cena”) / preparazione recinti
21.30-22.00 rientro mandria

Alpi a gestione unitaria: organizzazione e personale
Ieri Oggi
personale presente 8-12 2-5
divisione del lavoro e gerarchia accentuata ridotta
compiti del casaro
lavorazione del latte e dei latticini (aiuto casaro per mansioni ausiliarie) anche mansioni ausiliarie in caseificio, mungitura e altre incombenze
governo del manzolame e del bestiame non bovino addetti specializzati pastori a turno
custodia bestiame
pastorelli i pastori posano recinzioni elettriche o pascolo libero

Trasporti in alpe

Ieri Oggi
mezzi di trasporto utilizzati • someggio con muli (anche asini e cavalli)
• trasporto sulla persona: bilanciere, gerlo, gerla, “cadrega”, “brenta”, (bidone del latte con cinghie)
• trasporto con attrezzi (“barelle”) • cavalli (rari i muli)
• vari autmezzi: fuoristrada, autocarri (specie per trasporto bestiame), moto da trial, trattrici agricole, motocarriole, trasporter 4x4
• fili a sbalzo (per materiali vari)
• elicotteri (per soccorso, trasporti di materiali, formaggi)

Fonti di energia in alpe

Ieri Oggi
fonti di energia • legna
• idraulica
• animale • gpl
• gasolio
• pannelli solari
• rete distr. elettricità

Materiali utilizzati

Ieri Oggi
materiali utilizzati
• legname
• pietra locale
• ferro, rame, alluminio • acciaio
• plastica
• gomma

Lavorazione latte e produzione latticini

Ieri Oggi
materiali del caseificio legno, alluminio, rame legno, alluminio, rame, acciaio, plastica
riscaldamento del latte in caldaia fiamma viva di legna fiamma di legna, fiamma da gpl, caldaie a vapore
scrematura affioramento affioramento, scrematrici centrifughe
funzionamento zangola manuale, idraulico a motore
caglio
in pasta autoprodotto liquido prodotto industrialmente
aggiunte al latte per la caseificazione a volte siero acidificato a volte fermenti di produzione industriale
aggiunte al siero per la produzione di mascherpa (ricotta) siero acidificato, allume di rocca acidi organici (latico, citrico)

Bestiame

Un secolo fa oggi
mungitura a mano presso le casere o le baite delle diverse “stazioni” d’alpeggio, ma anche sul pascolo spesso anche a macchina (più frequentemente presso le casere, a volte con sistemi mobili)
pascolo custodito da pastorelli o mandratura in bàrech libero, turnato in recinzioni elettriche
taglia vacca lattifera 200-350 kg 450-800 kg
stadio fisiologico vacche lattifere In piena lattazione o nella seconda metà di lattazione (parti stagionalizzati) Molte nella fase finale di lattazione, ma anche alcune “fresche” o in procinto di partorire, molte asciutte
bestiame non bovino presente muli, pochi cavalli, parecchi maiali, spesso pecore e capre e bassa corte Abbastanza frequenti i cavalli, pochi maiali, a volte capre, poche pecore (i grossi greggi utilizzano alpeggi a parte)
composizione mandria bovina tutte le categorie, molto vitellame poco vitellame, molte manze e vacche asciutte, pochissimi tori
alimentazione solo erba di pascolo (fieno in caso di necessità) e sale pastorizio spesso si ricorre alla somministrazione di mangimi o alimenti concentrati (cereali)

Vegetazione e fauna

• Scomparsa dei segaboli (porzioni di superficie sfalciabile)
• Forte aumento degli arbusteti
• Aumento del bosco
• Generagizzata ricomparsa o aumento delle presenza ungulati selvatici (camoscio, cervo, capriolo, cinghiale)
• Sporadica ricomparsa dei predatori (lupo, orso, lince)

 

Giornata tipo in alpe

Le attività elencate possono distribuirsi in modo differente durante la giornata o assumere maggiore o minore impostanza in ragione di diversi elementi: carico di bestiame e disponibilità di personale, presenza di famigliari o personale ausiliario, sistema di governo del pascolo, lavorazione del latte una o due volte al giorno, tipo e varietà dei latticini prodotti.
Dove la disponibilità di personale lo consente il casaro è sollevato in tutto o in parte da alcune delle mansioni indicate. All’inizio della stagione è frequente osservare come anche il casaro partecipi alla mungitura; con l’avanzare della stagione si riduce il numero di vacche in lattazione e il casaro deve dedicare più tempo alla lavorazione dei latticini (per esempio deve girare e pulire le forme di formaggio destinato alla stagionatura che si accumulano sulle scalere). Il casaro è normalmente sollevato dalle incombenze di conduzione al pascolo e recupero della mandria mentre, al termine della giornata, può aiutare i pastori a predisporre le recinzioni. La carenza di personale può condizionare anche la lavorazione del latte e la trasformazione in latticini (“vorrei fare anche la ricotta, ma non ho tempo”).
In passato come si è già avuto modo di osservare molte delle operazioni “ausiliarie” erano svolte dai pastorelli. La ridotta disponibilità di personale tende ad accentuare gli aspetti negativi di sistemi di gestione della mandria in alpe già presenti nel passato. Spesso si mantiene la mandria in recinti presso le casere o comunque nei loro pressi per periodi eccessivi con conseguenze negative sia dal punto di vista della possibilità di ingestione di foraggio che della distribuzione della fertilità.
Quando presso le casere sono presenti delle recinzioni fisse (spesso ancora realizzate in legno) come in diverse “malghe” della Valcamonica e Valseriana il problema si presenta in forma accentuata. Non solo la mandria trascorre la notte entro questi recinti (dove viene rinchiusa alla sera dopo un breve pascolo serale (“cena”) ma anche durante il giorno il bestiame trascorre molte ore entro questi recinti con il risultato della distruzione del cotico. Le motivazioni di questo sistema sono legate al desiderio di evitare le perdite di tempo e la fatica del recupero al mattino della mandria in caso di pascolo libero notturno.


Tabella. Terminologia relativa alla topografia dell’alpeggio

termine significati contesto
alpeggio A) sistema di sfruttamento dei pascoli alpini al di sopra di 1.000 m durante il periodo estivo con bestiame da latte che presuppone la presenza continuativa di personale e di fabbricati per il ricovero del medesimo e degli animali nonché per la lavorazione del latte. terminologia tradizionale e zootecnica
B) periodo durante il quale il bestiame permane sui pascoli alpini generale
C) trasferimento del bestiame verso i pascoli alpini reg. polizia veterinaria
D) sinonimo di alpe (vedi oltre) generale
E) sinonimo di maggengo (vedi oltre) Valcamonica
alpe A) unità pastorale costituita dall’insieme di pascoli e fabbricati necessari al ricovero del personale e del bestiame e alla lavorazione del latte nel corso della stagione d’alpeggio lomb. = aalp terminologia tradizionale e zootecnica
grangia A) sinonimo di alpe Piemonte
montagna A) sinonimo di alpe Lombardia muntagna/muunt/mut
malga A) sinonimo di alpe Alpi orientali (anche valli Lombardia orientale)
B) i fabbricati necessari al ricovero del personale e del bestiame e alla lavorazione del latte Alpi orientali
C) sinonimo di casera
D) la mandria dei bovini alpeggiati si mantiene in Valchiavenna/Valtellina/Bergamasca/italiano arcaico/vecchia letteratura tecnica
casera A) sinonimo di alpe Veneto
B) locale dove si lavora il latte generale
C) locale dove si stagiona il formaggio Lombardia
D) il fabbricato dove si trovano i locali per la lavorazione del latte e la stagionatura dei formaggi e più in generale il centro dell’alpe lett. tecnica
limite superiore dell’alpe A) quota più elevata raggiunta dai pascoli di pertinenza dell’alpe letteratura tecnica
piè d’alpe A) stazione a quota più bassa dove spesso si trovano gli edifici per la lavorazione del latte o per la conservazione dei formaggi generale
maggengo A) l’insieme del fabbricato (solitamente comprendente stalla e fienile) e dei prati-pascoli annessi lett. tecnicca
monte A) sinonimo di alpe
B) sinonimo di maggengo
cassìna A) sinonimo di maggengo Lombardia
prealpe A) idem
löogh A) idem Lombardia
prati A) idem
maso A) idem Trentino
avèrt A) area di pascolo sovrastante l’alpe coincidente con la testata di una valle stretta, molto sassosa, provvista solo di piccoli bàrech valli lariane occidentali
stazione d’alpeggio A) suddivisione dell’alpeggio comprendente pascoli, ricoveri e locali per la lavorazione del latte che consente lo sfruttamento delle diverse fasce altimetriche dell’alpeggio in successione generale
tappa A) sinonimo di stazione d’alpeggio
tramuto A) idem Piemonte/lett.tecnica
mutada A) idem lomb. (mudàda)
posta A) idem
cambio A) idem
segàboli le aree destinate allo sfalcio per la produzione di una scorta di fieno (prevalentemente da consumare durante l’alpeggio in caso di emergenza) lomb. segabòi
monti di fieno selvatico aree al di sopra delle alpi (spesso molto rocciose e ripide) dove gli animali non riescono a pascolare e dove si raccoglieva l’erba secca (Festuca varia) con il falcetto (seghèz) o, a volte, a quote più basse aree impervie a pascolo magro indipendenti dalle alpi lomb. mùnt de ìsiga (vìsiga)


Una nevèra per la conservazione della neve ai fini del raffreddamento del latte

La confusione terminologica come appare dalla tabella è evidente. E’opportuno riconoscere che mentre alcuni termini hanno assunto un significato univoco, almeno nel contesto del linguaggio tecnico, altri rimangono legati ad un contesto geografico. Il caso dei sostantivi “alpe” e “malga” è emblematico. Dal momento che si tratta di sinonimi e che il termine indica la stessa realtà in aree diverse ogni tentativo di trasferire questi termini nel linguaggio tecnico o nell’ italiano standard attribuendo ad essi significati differenti è destinato a creare maggiore. L’uso dell’uno piuttosto che dell’altro termine non può essere lasciato al caso o alla preferenza individuale (magari influenzata dalla circostanza che il termine “malga” –effettivamente più arcaico e più specifico- possa suonare più evocativo, più “esotico” e quindi più accattivante). L’uso del termine “malga” (di origine prelatina) è proprio di un’area delle Alpi centro-orientali ben definita che comprende una parte della Lombardia orientale (nella Lombardia occidentale, nella Valtellina e nella maggiorparte delle valli bergamasche non è usato), il Trentino, l’altopiano di Asiago e le Dolomiti bellunesi e una parte del Friuli occidentale. Al di fuori di quest’area si è mantenuto con significati translati (malga = mandria –o anche gregge- nella Lombardia occidentale; malghese/malgaro = caricatore d’alpe o anche pastore). Qui il termine “alpe” (anch’esso di origine prelatina) ha, però, assunto con la latinizzazione l’ampio uso che anor oggi conserva e che comprende il riferimento all’unità pastorale di alpeggio.

 

I modelli di migrazione verticale stagionale indicati mettono in evidenza come la funzione dei maggenghi spesso si confondeva con quella delle alpi e come la distinzione tra alpi vere e proprie e forme di utilizzo diverso dei pascoli alpini non sia sempre agevole. Mentre nel caso di allevatori che conducevano d’estate il loro bestiame ogni giorno sui pascoli riconducendolo alla sera nelle stalle annesse all’abitazione permanente o nei pressi del villaggio è abbsatanza evidente che non si possa parlare di “alpeggio” nei vari casi dove il maggengo si confonde con l’alpeggio vi è un margine di incertezza nella definizione. A volte, spesso, il ruolo del maggengo si confondeva e si scambiava non con quello dell’alpeggio, ma con quello delle abitazioni permanenti. Mazzi (2001) ha raccolto diverse testimonianze che indicavano come in Val Vigezzo (Vb) i “monti” fossero abitati anche durante l’inverno ad eccezione di annate di siccità che costringevano gli alpigiani a scendere a valle. Si tratta, però, in questo caso di siti non molto elevati (1.300-1.500 m) nettamente al di sotto del limite delle abitazioni permanenti di aree più interne alla catena alpina . In ogni caso le testimonianze relative ai “monti” della Val Vigezzo sono significative riguardo al modo di vita invernale nelle dimore alpine isolate. La difficoltà di comunicazione con i paesi del fondovalle a causa delle maggiori precipitazioni nevose del passato determinavamo un isolamento quasi totale. Con un pò di scorte di farina e pochi altri commestibili per gli umani e con quelle di fieno per le bestie l’inverno veniva superato senza gravi problemi utilizzando il latte e la carne degli animali. In Val Vigezzo, ma anche in altre realtà le capre rappresentavano la “scorta alimentare” dei montanari che ne macellavamo qualcuna conservando le carni insaccate o salate.

L’esempio della Val Vigezzo (ma possono valere considerazioni analoghe per altre zone dell’area dei laghi lombardi) illustra anche come non sempre è agevole la distinzione tra alpi e maggenghi; nell’ambiente prealpino vi sono forme di utilizzazione dei pascoli che si avvicinano molto all’alpeggio così come esercitato all’interno della catena pur discostandosi dal modello “classico”.

La trasformazione dei maggenghi in alpeggi da una parte e un abitazioni permanenti dall’altra rappresenta un fenomeno attuale. Laddove il tracciato di strade ha consentito l’agevole collegamento dei maggenghi questi sono stati trasformati (e vengono tutt’ora trasformati) in aziende zootecniche con abitazione permanente. In qualche caso ciò vale anche per ex-alpi poste a quote non elevate.

Ai fini della distinzione tra le alpi e i pascoli utilizzati con altre forme di sfruttamento possono valere, oltre alle considerazioni sopra svolte circa l’orientamento produttivo e la presenza di fabbricati, i seguenti ulteriori criteri: collocazione del “piede” al di sopra dei 1.000 m di quota, utilizzo da parte del bestiame bovino della sola stagione estiva (gli ovicaprini possono trattenersi anche all’inizio dell’autunno), distanza dalle sedi permanenti tale da non potersi effettuare il movimento giornaliero dalle stalle delle medesime ai pascoli, presenza continuativa di personale addetto alla custodia del bestiame.

La distinzione tra maggenghi e alpi non è sempre possibile in base ad un criterio altimetrico (i maggenghi delle alte valli sono a quote più elevate delle alpi delle basse valli). I maggenghi a differenza delle alpi dove la produzione di fieno è (o meglio era) sempre accessoria e legata alla necessità di alimentare gli animali in caso di eventi metereologici avversi avevano in passato un carattere prevalente di “prati di monte” ovvero prati-pascoli necessari alla costituzione delle scorte di foraggio conservato. Laddove i maggenghi sono collocati in una fascia altimetrica intermedia tra le sedi permanenti e le alpi la loro distinzione è netta.
La durata di permanenza dell’alpeggio varia tra 60 e 120 giorni. Più frequentemente è di 70-80 giorni. Essa è condizionata dallo sviluppo altimetrico ma anche da altri fattori legati alla disponibilità di acqua e al carico di bestiame.

Nell’ambito delle Alpi lombarde si possono classificare le alpi come dalla seguente Tabella
Le casere d’alpeggio sono collocate per la maggiorparte a quote tra i 1.400 e i 2300 m mentre le zone più elevate del pascolo bovino possono arrivare a 2.500-2.600 m. Al di sopra vi possono essere aree di pascolo utilizzate dagli ovicaprini. Dal punto di vista morfologico la classica alpe all’interno comprende una parte di terreni a moderata pendenza caratteristichi delle testate delle alte valli dove si

Tabella. Classificazione delle alpi lombarde in base all’altimetria
alpi piede limite superiore
basse 1.000-1.500 <1.500
medio-basse 1.000-1.500 1.500-2.000
medie 1.500-2.000 <2.000
medio-alte 1.500-2.000 >2.000
alte >2.000

formano i torrenti o dei ripiani glaciali; al di fuori della catena alpina vera e propria le alpi possono comprendere aree di larghi crestoni erbosi o di solo versante sfruttando selle o ripiani per la localizzazione delle casere. Nelle zone calcaree la collocazione dei fabbricati d’alpe è condizionata dalla presenza delle rare sorgenti o delle “bolle” (“lavaggi”).
Il numero di stazioni è compreso tra 1 e 5, più frequentemente 2-3. Il dislivello tra le stazioni va da un minimo di 100-150 m ad un massimo di 700, quello tra il “piede” dell’alpe e le zone più alte di pascolo può superare i 1.000 m come in Valle Albano (Como). In passato la lavorazione del latte era più frequentemente eseguita nei semplici fabbricati con coperture temporanee presenti in ogni stazione (il calécc delle valli del Bitto rappresenta un esempio di persistenza di questa tipologia). Mancando un locale per l’affioramento della panna era regola utilizzare il latte intero. Con la diffusione della produzione di burro la lavorazione del latte si è concentrata presso le “casere” attrezzate con locali dove il latte veniva e viene tuttora posto in bacinelle di rame immerse in acqua di sorgente corrente.

 

Maggenghi (“cascine di monte”)

I maggenghi (denominati localmente anche monti, prati, prati di monte, masi, cascine) rappresentano come nel caso delle “alpi” un insieme di fabbricati zootecnici e di superfici a prato-pascolo. Sono collocati nelle Alpi centrali in una fascia altimetrica che va dai 900 ai 1.800 metri. La differenza tra “maggenghi” e “alpi” è legata alla modalità dell’utilizzo delle risorse foraggere. Presso i maggenghi sono prevalenti i prati falciabili (“segatizi” dal termine lombardo segà = falciare il fieno). Presso i maggenghi il fieno ottenuto era utilizzato sopratutto come scorta per l’annata successiva quando, a primavera, il bestiame si spostava dalle sedi invernali alle “cascine di monte” (maggenghi). In misura più limitata il fieno ottenuto nei maggenghi era portato a valle per costituire scorte per l’inverno. Il pascolo nei maggenghi era praticato nelle aree marginali ( spesso di proprietà comunale) al limite dei boschi o, molto spesso, sotto il ceduo stesso. Alla discesa dagli alpeggi (e comunque dopo lo sfalcio) il bestiame utilizzava il ricaccio dei prati. Nelle zone prealpine meno elevate il bestiame trascorre tutto il periodo estivo presso i maggenghi dal momento che questi sono collocati sul piano culminale e non è possibile disporre di stazioni più elevate. Per maggengo si intende sia il periodo trascorso dal bestiame presso queste località che, per estensione, il luogo fisico costituito dall’insieme di prati-pascoli e stalle-fienili. I maggenghi al contrario delle alpi, spesso gestite in forma indivisa, sono sempre gestiti in forma privata famigliare e i fabbricati insistono normalmente su terreni di proprietà privata costituiti da prati-pascoli situati al limite (inferiore) di boschi e pascoli di proprietà comunale che, come visto servono ad integrare la produzione foraggera dei prati falciabili.
In ragione di una maggiore uniformità dei sistemi di conduzione la tipologia dei fabbricati rurali che si può trovare presso i maggenghi è molto più uniforme. Varia il tipo di materiale (dalle cassine costruite esclusivamente in pietra della zona prealpina ai bàit costruiti esclusivamente in legno dell’Alta Valtellina alla prevalente soluzione mista: il piano terra in pietra e la parte superiore in legno). La struttura sviluppata orizzontalmente o verticalmente in funzione dello spazio disponibile, della morfologia del terreno ecc. prevede una piccola stalla al piano terreno (capienza massima 10-12 capi) e un fienile al piano superiore. La stalla è di solito parzialmente interrata per agevolare la conservazione del calore animale nei periodi freddi primaverili e autunnali. Il fienile invece è posto invariabilmente al piano superiore dove può ricevere una migliore ventilazione evitando i rischi di surriscaldamento, gravi nel caso di costruzioni totalmente o parzialmente in legno e comunque tali da compromettere la qualità del fieno ottenuto. Molto raramente le stalle e i fienili sono separati. Anche se la tipologia delle singole costruzioni è molto simile è possibile distinguere maggenghi isolati (con costruzioni sparse) e maggenghi “a villaggio”. I primi sono nettamente più frequenti. Nei maggenghi dove spesso non si trasferisce che una parte della famiglia e dove il periodo di occupazione stagionale è più breve non esistono locali adibiti al riposo degli alpigiani come accade invece negli alpeggi. Per il riposo notturno veniva utilizzato il fienile stesso (che a volte serviva per anche per la lavorazione del latte). Nel maggengo spesso, oltre al governo degli animali (regulà), spesso utilizzato anche nella forma italianizzata “regolare le bestie”) e alla fienagione (segà) si praticava la lavorazione del latte quando non era possibile (per la distanza) portarlo a valle e lavorarlo nel caseificio (di solito turnario) del paese o privatamente. Se il latte doveva essere lavorato sul posto all’interno della baita si ricavava un rudimentale locale per la lavorazione. Non era presente, invece, un locale per la stagionatura dfal momento che il formaggio era portato regolarmente a valle.

Normalmente i maggenghi sono maggiormente oggetto di abbandono delle alpi. I motivi sono diversi ma riconducibili alle caratteristiche del tipo di gestione “unifamiliare” e a quelle morfologiche e vegetazionali delle zone ove erano stati ricavati. Spesso i maggenghi si trovano disseminati lungo i versanti delle vallate collocati in posizione intermedia tra il fondovalle e la fascia delle alpi (collocate nei pianori al di sotto delle vette , nelle conche alla testata delle valli, o sul piano culminale). Nelle zone dei maggenghi la pendenza è normalmente più elevata e la vegetazione climax è costituita da formazioni arboree (faggeta o pecceta); si diceva infatti che i maggenghi erano “rubati al bosco”. Mentre le alpi occupano la fascia superiore della vegetazione arborea, ma anche fasce di prateria alpina, il maggengo è tutto all’interno della fascia di vegetazione arborea. Dal momento che l’avanzata del bosco è molto più rapida verso il basso che verso l’alto (il processo di ricolonizzazione delle fasce al limite superiore della vegetazione arborea è molto più lento per ragioni bioclimatiche, disseminazione ecc.) è evidente che in assenza di utilizzo i maggenghi sono presto inghiottiti dalla foresta. Contribuisce all’abbandono dei maggenghi il fatto che le superfici a modesta pendenza sono poco estese o del tutto assenti e quindi scoraggiano una gestione pascoliva di un qualche significato economico da parte delle aziende zootecniche attuali. In passato i maggenghi venivano raggiunti a piedi o con i muli, oggi, tranne nelle situazioni più “fortunate” (dove i maggenghi hanno a volte subito anche la trasformazione in “seconde case” e in vere e proprie villette ) l’impossibilità di tracciare una strada o solo una pista svolge un ruolo decisivo nell’indurre gli allevatori a “dimenticare” i maggenghi. Il cambiamento delle strutture zootecniche, che hanno visto la sparizione dei piccoli e piccolissimi allevamenti e la concentrazione del patrimonio bovino in allevamenti di decine di capi, rende inoltre impossibile l’utilizzazione dei maggenghi non solo in base a considerazioni relative della disponibilità foraggera (ed idrica) e alla pendenza, ma anche alle caratteristiche dei ricoveri per il bestiame che, tradizionalmente, erano di ridotte dimensioni e non si prestano, tranne che in alcuni casi, ad essere ristrutturati senza pesanti interventi (poco giustificabili sul piano finanziario ed ambientale). In diversi casi i maggenghi (a “villaggio”) si sono trasformati in abitazioni permanenti venendo a costituire delle vere e proprie frazioni, in molti casi sono stati lasciati al completo abbandono.
Laddove, ma la circostanza non è molto frequente, il maggengo offre superfici più ampie ed è raggiungibile con automezzi, la possibilità di costruire nuovi ricoveri ha consentito di poter continuare il loro utilizzo; in questi casi il tipo di utilizzo -basato sul pascolamento dei prati un tempo falciati- si è avvicinato a quello dell’alpeggio tanto che parecchi maggenghi si sono trasformati nelle stazioni più basse delle alpi soprastanti. Indipendentemente da quest’ultima soluzione, da incoraggiare quanto più possibile in quanto ampia le superfici delle alpi e, sopratutto, la durata dell’alpeggio, il recupero dei maggenghi in quelle situazioni dove non risulta possibile, per le caratteristiche pedologiche e climatiche delle stazioni, l’impianto di formazioni boschive stabili con buone caratteritiche di sfruttamento economiche e/o protettive, si deve pensare a forme di gestione territoriale basate sull’integrazione di criteri di utilizzo pastorale e di gestione faunistica. Considerata l’importanza del mantenimento di un mosaico di formazioni boschive e di superfici a copertura erbacea (per la prevenzione degli incendi, il mantenimento della biodiversità, la fruibilità della montagna per le attività di raccolta e di svago, il mantenimento dei quadri paesistici ecc.) risulta conveniente un utilizzo dei maggenghi mediante forme di pascolo controllato: con ovini e caprini (inserendo i maggenghi in circuiti di pascolo guidato o con la mandratura), con asini attraverso un pascolo confinato. La complessità del ruolo dei maggenghi nella vita della montagna è testimoniata anche dal fatto che molti insediamenti permanenti di oggi sono derivati da vecchi maggenghi.

Altre forme di sfruttamento dei pascoli alpini e prealpini

Le alpi e i maggenghi presuppongono un’organizzazione di tipo aziendale con fabbricati, infrastrutture per la raccolta e la distribuzione dell’acqua, viabilità ecc. Non tutti i pascoli alpini e prealpini sono però utilizzati nell’ambito di alpi e maggenghi. Già si è visto come nei maggenghi il bestiame (almeno fino alla raccolta del foraggio) utilizzasse con il pascolo aree non pertinenti all’azienda ma bensì incolti produttivi o sterili e aree boscate di proprietà comunale. In alcuni villaggi che disponevano solo di pascoli non distanti dai “beni d’inverno” l’alpeggio e il maggengo sono sostituiti da trasferimenti giornalieri del bestiame e sul pascolo non esistono strutture permanenti. In alcuni casi gli stessi villaggi dispongono di maggenghi e alpi per i bovini mentre gli ovicaprini utilizzavano pascoli magri da dove rientravano giornalmente al villaggio (o ai maggenghi). Le pendici erbose ripide e brulle venivano invece utilizzate per la raccolta del “fieno selvatico” che si praticava a mano con il falcetto (seghèz). Questa operazione, sempre faticosa, era spesso pericolosa e veniva eseguita anche da donne e ragazze e oltre che sui “monti da fieno selvatico” sopra i villaggi veniva eseguita anche ad alta quota al di sopra delle alpi sui ripiani erbosi delle coste rocciose che gli animali non potevano raggiungere. Di seguito alcune testimonianze di informatori valtellinesi e camuni:

“Quando eravamo giovani si partiva la mattina in quattro o cinque, si camminava magari un ora o due per fare un carico di legna o fieno selvatico per potere tenere un vitello in più, perché quello dei prati non era sufficiente. Un terzo del fieno lo facevamo nel bosco”. P.D.T. di Spriana, classe 1909, intervista raccolta il 2.8.79 da A. Dell’Oca e D. Benetti, in: pag.48

“…se io le facessi vedere dove andavano le donne a prendere il fieno lei non ci crederebbe. Di notte le ragazze che erano su un po’ d’età, alle 2-3 partivano e andavano su per la valle di Togno, fin su in alto per falciare quella erba secca che aiutava al mantenimento delle bestie. (…) andavamo su in ottobre, novembre, anche dicembre su per i boschi. Falciavamo quell’erba secca il patüsc. Ne prendevano un carico sulle spalle e poi scendevano”
L.S. maestra di Spriana, classe 1895 raccolta il 18.9.76 a Spriana da A e D. Benetti, in: p 34

“Fieno sì, fieno ne avevano abbondanza [le capre] tutte perché quello che non facevi nei prati ‘ndavi fuori a segare ... la vìsiga come disévum una volta, come disévum nóotre in montagna, la ìsiga ... ‘nà a mahà la ìsiga ... perché veniva falciato tutto il posto dove non andava il bestiame, si andava la gente a falciare ...e poi si dava quello lì ...”
B.P., classe 1923, intervista raccolta da I. P. (Corso di laurea in tutela e valorizzazione del territorio montano) a Valle di Saviore il 2000 trascritta da M.Corti.

l’importanza del fieno selvatico per l’economia alpestre è testimoniata dalle controversie legali intorno al diritto di raccolta del medesimo ancora nella seconda metà del XIX secolo (De Agostini, 2001) pp.94-98. Il diritto di raccolta del fieno selvatico comportava anche delle prescrizioni che ci appaiono curiose. Negli articoli del capitolato d’affitto dell’Alpe di Soé in Val Bodengo di proprietà della fabbriceria della chiesa di Bodengo del 1772 è previsto l’obbligo per l’affittuario di dichiarare ad alta voce entro la festa di S.Pietro (29 giugno) sulla piazza della chiesa il luogo da lui scelto per tagliare il “fieno di bosco” nell’ambito della superficie dell’alpe non utilizzabile dai bovini. L’affittuario scelte le sue balze lasciava le altre a disposizione di tutti gli abitanti della frazione di Bodengo; il primo che vi arrivava praticava con il falcetto un taglio nell’erba: la nöda che aveva funzione di segno di riconoscimento attribuendogli il diritto di falciare quella zona. In Val Bodengo come altroveil taglio il fieno selvatico costò la vita a parecchi di coloro che lo praticavano (De Agostini, 2001)


Incidente durante la raccolta del fieno selvatico in un ex-voto

 

Forme di proprietà e di gestione delle alpi

La proprietà delle alpi è in Lombardia in gran parte comunale o comunitaria. Al contrario le forme di conduzione sono prevalentemente private risultando rare le associazioni o società per la gestione cooperativa delle alpi. Gli alpeggi più di altre aziende agricole hanno mantenuto nel tempo le medesime forme di proprietà e di gestione. Ciò è dovuto alla presenza di diritti promiscui e usi civici. Sullo stesso terreno possono essere diversi i soggetti che detengono la proprietà del suolo e del soprassuolo e soggetti diversi possono esercitare i diversi diritti di pascolo, legnatico, raccolta delle foglie. Con la diffusione della proprietà privata nei fondovalle nei pressi del villaggio il carattere comunitario dell’uso dei boschi e dei pascoli venne rafforzandosi e a legarsi con l’appartenenza alla comunità locale mentre l’importanza del possesso fondiario venne affievolendosi. Nella maggiorparte dei casi il Comune in quanto ente amministrativo è subentrato nella proprietà alle forme associative degli originari del villaggio (“antichi originari”, “vicinie”, “università agrarie”) trasformando la proprietà da comunitaria a pubblica. In altri casi, però, la proprietà comunitaria è stata trasformata in proprietà privata sotto forma di condomini, proprietà indivise, società. Ancora sino a ... vi erano ancora alpeggi di proprietà delle vicinie o degli antichi originari (Canton Ticino e Patriziato). Agli inizi degli anni ’70 il 64,5% della superficie degli alpeggi lombardi era di proprietà comunale mentre solo il 29,6% di proprietà privata. Il rimanente 5,9 apparteneva a Enti (ecclesiastici, di beneficienza, ospedali, E.N.E.L., Azienda Regionale delle Foreste).
La proprietà comunale prevale quasi ovunque. Tra le eccezioni si segnalano oltre alla montagna pavese e al Triangolo Lariano, dove prevale la proprietà privata individuale, anche la Valchiavenna e la Val di Scalve dove prevalgono forme di proprietà privata indivisa di (rispettivamente il Condominio e Società). La Valchiavenna si distingue nettamente dalla Valtellina (dove la proprietà comunale supera anche la media regionale con il 78 % della superficie) presentando ben un 54,3% di superficie totale degli alpeggi di proprietà comunale.

Tabella Forme di proprietà degli alpeggi (% della superficie)
Privata Comunale Enti
Pavia 100,0 0,0 0,0
Brescia 19,4 73,2 7,4
Bergamo 35,3 52,1 12,6
Como 13,5 85,7 0,8
Sondrio 34,3 61,2 4,5
Varese 0,0 100,0 0
Totale 29,6 64,5 5,9
Fonte: Polelli, 1974

Le alpi censite nel 1998 dal Servizio Veterinario della Regione Lombardia sono risultate 789 di cui 46% di proprietà privata. L’abbandono ha quindi riguardato alpeggi di propietà comunale.

Nell’ambito della proprietà privata le superfici si distribuivano nel modo seguente

Tabella (distribuzione della proprietà privata per tipo)
Una persona
/ditta <10 persone/ditte >10
persone/ditte Condominio Antichi originari Società varie
Pavia 0,0 55,8 44,2 0,0 0,0 0,0
Brescia 36,8 38,7 0,0 4,7 4,1 15,8
Bergamo 16,9 55,1 11,1 11,1 3,2 13,0
Como 47,2 17,9 13,9 13,9 0,0 21,0
Sondrio 7,5 23,3 17,1 48,8 0,0 3,3
Varese 0,0 100,0 0,0 0,0 0,0 0,0
Totale 14,8 31,5 11,7 33,5 1,1 7,4
Fonte: Polelli, 1974

Proprieta delle alpi pascolive lombarde (2001, Fonte Irealp)
1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15
BG 34 4 3 10 0 0 3 2 4 0 1 1 1 101 27
BS 16 8 4 9 0 2 1 2 0 0 10 0 1 166 18
CO 10 1 0 0 1 0 0 0 0 0 3 0 2 42 3
LC 15 0 0 0 0 0 0 0 0 0 2 0 0 42 6
SO 101 5 4 13 13 2 2 0 7 1 11 0 0 124 26
PV 1 0 0 0 0 2 0 0 0 0 0 0 0 1 0
VA 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 3 0
Regione 177 18 11 32 14 6 6 4 11 1 27 1 4 479 80


1 Persona singola
2 Comproprietari legati da parentela
3 Società di fatto
4 Comunanza o proprietà indivisa
5 Consorzi
6 Cooperativa o simile
7 Società per azioni o di altro tipo
8 Ente morale, di beneficienza od ospedaliero
9 Ente ecclesiastico
10 Demanio statale
11 Demanio regionale
12 Provincia
13 Comunità Montana
14 Comune
15 Proprietà mista

La proprietà condominale è tipica della Valchiavenna dove sono diffusi i Consorzi d’alpeggio, ma si trovano forme analoghe anche nelle valli bergamasche e lariane. La proprietà è indivisa e suddivisa in quote (erbate, vaccate) equivalenti al diritto di alpeggiare l’equivalente di un capo di bovino adulto. Le vendite e le successioni ereditarie (l’erbata è divisibile e alienabile) hanno portato ad un fortissimo frazionamento di questi titoli di propietà facendo si che il numero dei proprietari si elevasse a diverse centinaia. All’origine, invece, queste comunioni erano composte da un numero dimitato di proprietari spesso legati da vincoli parentali, ciò almeno nei casi in cui esse derivarono dalla divisione ereditaria di una proprietà privata; anche nel caso di trasformazione di proprietà collettive è presumibile che i comproprietari non fossero numerosi corrispondendo alle famiglie originarie del villaggio o di una singola contrada.
Ad un utilizzo diretto da parte dei proprietari dell’alpe è subentrato in diversi caso in ragione dell’aumento del numero dei proprietari e del loro distacco dall’attività zootecnica quando non dalla stessa residenza locale, l’affitto ad (uno o più) allevatori già proprietari o a uno o pochi caricatori-imprenditori esterni alla comunione che hanno intrapreso la gestione indivisa dell’alpe. In passato era frequente anche la suddivisione di un alpe condominiale in diverse “partite” che in parte venivano affittate e in parte condotte direttamente dai comproprietari. Queste forme di proprietà in passato non hanno favorito una gestione razionale dei pascoli data la difficoltà, in presenza di numerosi proprietari, di assumere le decisioni necessarie all’esecuzione dei miglioramenti o solo all’adozione di criteri adeguati di sfruttamento del pascolo. L’eliminazione (forzata) della proprietà privata collettiva di villaggio che in alcuni casi ha dato luogo alla formazione di forme di proprietà privata indivisa nella maggior parte dei casi ha dato luogo alla formazione di una proprietà pubblica (comunale). Essa, nella maggior parte dei casi, è rimasta sino ad oggi ai Comuni . A proposito della proprietà comunale dei pascoli, dei boschi e delle alpi si deve osservare che spesso essa riguarda beni collocati nel territorio amministrativo di altri comuni sia in ragione del ruolo preminente esercitato da alcuni Comuni nell’ambito delle valli (che li ha portati a possedere diverse alpi dislocate in un ampio territorio vallivo) che di un criterio di vantaggio reciproco tra Comuni vicini che li portava a distribuire proprietà (e diritti d’uso) su un territorio più vasto di quello di pertinenza amministrativa in modo da sfruttare meglio le diverse vocazioni produttive dei singoli ristretti territori; in questo modo Comuni collecati a quote basse potevano disporre di alpi mentre quelli molto elevati potevano disporre di boschi e castagneti più in basso. La dislocazione delle proprietà comunali al di fuori dei limiti censuari è da collegare anche alle divisioni che in passato hanno dato vita a comunità autonome in luogo di più antiche forme di aggregazione di più villaggi.
Indipendentemente dalla formazione antica o recente la proprietà comunale ha spesso coinciso con il mantenimento delle forme di godimento collettive. Se si prendono in esame le forme di conduzione delle alpi lombarde (Tab. ) si osserva come in provincia di Sondrio negli anni ‘70 -ma la situazione non è sostanzailmente mutata- assuma ancora rilevanza il godimento dell’alpe in “uso civico”. Un aspetto negativo di questo istituto è rappresentato dal fatto che il godimento è esercitato in forma “indivisa”; ciò significa che la gestione della mandria e, spesso, anche la lavorazione del latte avvengono tutt’oggi in forma individuale, un sistema incompatibile con una gestione razionale della risorsa pascoliva in quanto preclude l’applicazione dei piani di pascolamento consentendo a ciascun “utente” (se non perviene spontaneamente alla determinazione di aderire ad una gestione unitaria) di esercitare in modo anarchico il pascolo “libero” e di lasciar sostare il proprio bestiame per qualsivoglia tempo in prossimità delle baite (con le conseguenze note sulla qualità del pascolo e l’integrità del cotico erboso).
Questi problemi, che oggi affliggono alcune delle più belle alpi valtellinesi, in passato erano molto più gravi in relazione alla forte estensione della presenza di usi civici. Ancora all’inizio del XX secolo anche una buona parte delle alpi vere e proprie e, sopratutto dei pascoli di bassa montagna, della Provincia di Como (compresa quella di Lecco) era goduta attraverso usi civici che venivano esercitati -in primavera e autunno- anche sulle alpi che, nel periodo di alpeggio, venivano affittate. Un esempio interessante di applicazione degli usi civici di pascolo è costituito dalla “Costa del Pallio” in comune di Morterone (Lecco), pascolo, oggi di proprietà dell’Azienda Regionale delle Foreste e in passato utilizzato dai piccoli allevatori di Morterone. Il Serpieri nell’Indagine sui pascoli alpini della Lombardia eseguita nel 1903-1908, riferisce di come giornalmente da Morterone salisse qualche decina di proprietari di bestiame con 800 capi bovini sorvegliati ciascuno dai propri proprietari “senza turno di custodia” e che per abbeverarsi dovevano spostarsi ad un’ora e mezza di cammino sotto le falde del Resegone e che alla sera rientravano nelle piccole stalle del paese (dove dovevano venir foraggiati!). Il pascolo iniziava il 10 giugno e dopo un mese la Costa del Pallio era già brulla e il bestiame doveva restare a valle presso i beni privati (prati-pascoli) dei proprietari.

Forme di conduzione delle alpi lombarde ()
Diretta del proprietario Affitto a uno o pochi caricatori Affitto a soc. di alpeggio tra proprietari di bestiame Affitto a società di altro tipo Godimento degli abitanti in forma associata Godimento abitanti in forma individuale Sup. abbandonata
Pavia 24,4 0,0 75,6 0,0 0,0 0,0 0,0
Brescia 8,2 73,8 6,0 1,0 4,6 0,2 6,2
Bergamo 5,4 87,1 2,4 0,3 0,0 0,0 4,9
Como 3,4 65,0 5,3 3,2 0,0 0,2 22,9
Sondrio 6,4 44,4 13,8 0,0 2,4 23,6 9,3
Varese 0,0 9,0 0,0 91,0 0,0 0,0 0,0
Totale 6,4 58,6 10,0 0,7 2,3 12,7 9,3
Fonte: Polelli, 1974

La forma di conduzione dell’alpe condiziona la tipologia “insediativa” della medesima e il regime di pascolo e il sistema di lavorazione del latte. Nelle alpi godute in “uso civico” o possedute da parecchi comproprietari è diffusa la forma dell’ Alpe-villaggio mentre nelle alpi affittate a uno o pochi caricatori associati o condotte direttamente dal proprietario o da pochi proprietari associati si osserva la forma dell’Alpe-unitaria (Alpe-casera) con uno o pochi fabbricati funzionalmente distinti ed accorpati.
Nell’ultimo caso la gestione è ovviamente unitaria mentre nelle Alpi-villaggio vi possono essere diverse modalità di gestione. In alcuni casi tradizionalmente veniva praticato un sistema turnario sia per la conduzione e la custodia della mandria al pascolo che per la lavorazsione del latte in un’unica casera e vi potevano essere anche tettoie e stalle “collettive” per il ricovero del bestiame. In altri casi solo uno di questi aspetti era gestito in comune e gli altri in modo “dissociato” (quindi ogni allevatore possedeva la propria stalla e lavorava il latte per proprio conto). I sistemi “dissociati” sono, come si è già avuto modo di osservare, incompatibili con l’attuazione dei piani di pascolamento. In passato la gestione individualistica del pascolamento era meno dannosa perché i proprietari (o meglio i ragazzi) conducevano al pascolo guidato il proprio bestiame favorendo un utilizzo più uniforme del cotico ed evitando una forte selettività. Oggi i piccoli allevatori che usufruiscono dell’uso civico o che posseggono “paghe” di un alpe posseduta in società o condominio sono spesso figure part-time e non sono certo disponibili ad impegnare personale nella custodia di pochi capi. Mentre nelle alpi gestite in modo unitario al sistema del pascolo guidato con custodia continua del bestiame sono subentrati, almeno in molte situazioni, sistemi di pascolo turnato o razionato in quelle a gestione “dissociata”, a meno di difficili accordi per una gestione turnaria del lavoro di realizzazione delle recinzioni elettriche, si è affermato sistematicamente il pascolo “libero” che implica una scarsa utilizzazione delle risorse foraggere e il progressivo deterioramento della qualità del pascolo.

L’organizzazione dell’alpeggio tra aspetti tradizionali e nuova realtà

I fabbricati dell’alpeggio

Casera. Rappresenta l’edificio principale dell’alpeggio, può essere collocata al piede dell’alpe o anche a quote più elevate laddove vi sia una superficie di terreno con ridotta pendenza. E’ denominato báita, cassìna, malga, cà.
Locale ricevimento latte. Esiste solo in fabbricati recenti.
Locale sosta latte e affioramento. Può essere un locale annesso alla casera collocato più all’interno, nella posizione più fredda (esposizione, interramento) dove è possibile addurre acqua corrente.
Casèll del lacc Piccola costruzione per la sosta e l’affioramento del latte. Può anche parecchio distante dalla casera per sfruttare sorgenti di acqua fredda, in questo caso può essere molto piccolo, in parte interrato e basso coperto da piöde, terra e zolle erbose tanto da renderlo quasi invisibile. Denominazioni: casèl del lac, baitèl del lat, bàit, bàita, fregèe, casinèl.

Nevèra (giazèra). Costruzione con all’interno un pozzo profondo parecchi metri per la conservazione della neve nelle alpi comasche e lecchesi a bassa altitudine ed utilizzata per raffreddare il latte appoggiando le bacinelle (conche) direttamente sulla superficie della neve. Diffuse anche nel Canton Ticino.
Cucina (locale con focolare per la lavorazione del latte). Vi si trova una grande caldaia (caldera) che mediante il turnér (cigagnöla, màsca, scegógna, puléna) braccio mobile viene allontanata o posta sul fuoco del focolare circolare in muratura, nel locale vi sono tavoli di scolo, zangole, contenitori per la ricotta, mensole (scalere), saladura, ecc. Denominazione: caséra.
Locale per la conservazione del formaggio. Deve essere un locale in grado di mantenere un’ elevata umidità, per questo motivo è bene che sia in parte almeno interrato. Denominazione: casèra, sìlter, cànua, canevèt.
Locale preparazione e consumazione pasti e soggiorno. Spesso non distinto dalla cucina per la lavorazione del latte è presente solo in fabbricati di recente fabbricazione o ristrutturazione. In particolare lo stesso focolare (furnèla) utilizzato per il riscaldamento del latte e la cottura della cagliata veniva utilizzato per preparare i pasti per il personale.
Locale riposo notturno. Spesso non vi è un locale separato e i pastori dormono in soppalchi o, semplicemente in una zona del locale cucina e/o soggiorno delimitata da semplici tende; nelle alpi più attrezzate il personale ha a disposizione delle camerette. In passato non esistevano letti ma pagliericci (lècc) costituiti da cassoni riempiti di paglia su cui dormivano i pastori.
Servizi igienici. Non esistevano fino a non molti anni orsono, sono obbligatori per poter lavorare il latte con autorizzazione sanitaria alla vendita e contribuiscono a rendere le condizioni della vita d’alpeggio non troppo diverse da quella del fondovalle. Nelle ristrutturazioni più recenti è prevista la realizzazione di servizi igienici separati per il caseificio e per i locali di abitativi.
Non sempre le realizzazioni recenti si rivelano funzionali alla vita durante l’alpeggio. In particolare la realizzazione di appartamentini per i conduttori non tiene conto delle esigenze di vita comunitaria che rendono estremamente importante la presenza di spazi comuni per il consumo dei pasti dal momento che questo rappresenta il momento in cui il personale si trova riunito ed in cui è possibile discutere dei programmi di pascolamento e dei vari aspetti della gestione. La presenza di ampi spazi comunitari è importante anche per poter accogliere i proprietari del bestiame che salgono in alpe e per praticare quelle forme di ospitalità e convivialità che contribuiscono a rompere l’isolamento ed a intrattenere rapporti sociali con persone del paese, amici, turisti specie in occasione delle festività agostane che cadono nei periodi in cui il lavoro tende a farsi meno duro.

L’organizzazione della “casera” (intesa come centro aziendale) è presente nelle situazioni migliori con edifici di più recente costruzione o in alpi di grandi dimensioni a gestione unitaria; nelle alpi gestite in modo dissociato con la tipologia “a villaggio” o nelle piccole alpi a gestione famigliare un unico locale viene (veniva) utilizzato per la lavorazione del latte, la preparazione dei cibi e il riposo di uomini, donne e bambini. In questo caso lo stesso focolare è utilizzato per cucinare i cibi e per la cagliata del latte. In queste baite spesso non vi è neppure un camino ed il fumo e la “zona notte” è delimitata da teli. Nelle alpi a gestione unitaria dove esiste una grande casera i locali per il riposo notturno sono spesso delimitati da pareti in muratura o, quantomeno, in legno. Non mancano esempi di una situazione intermedia tra le alpi organizzate come azienda famigliare e le alpi a gestione dissociata. Anche nella montagna lombarda sono presenti infatti esempi di casere utilizzate in modo cooperativo; in questo modo anche nelle “alpi a villaggio” mentre le strutture per il ricovero del bestiame e degli alpigiani sono più o meno numerose e di proprietà di ciascuna famiglia. Anche in questi casi il “centro” dell’alpe è costituito dalla casera oltre che da fontane per l’abbeverata del bestiame e, nelle alpi più grandi, dalla cappelletta.


Una brande “bolla” per la raccolta dell’acqua piovana in Valle Intelvi

Tabella Edifici e strutture per il ricovero e l’abbeverata del bestiame in alpeggio

Stalla. Ricovero per animali malati o in procinto di partorire di piccole dimensioni presente nelle alpi a gestione dissociata dove è ricavato spesso al piano terra della baita o nelle alpi a gestione unitaria prive di stallone (sc-ctala, masùn, masün).
Stallone. Stalla chiusa su tutti i lati due corsie in grado di contenere fino 50-80 vacche in caso di maltempo (baituu, stalùn).
Stallone con tettoie. Al fine di aumentare la superficie coperta alcuni stalloni presentano dei porticati laterali.
Tettoie. Costruzione con tetto ad una falda aperto su uno o tre lati; una sola corsia (tècia, penzàna, sòsta, camàna).
Sòstra. Tipo intermedio tra la stalla e la tettoia presenti nelle alpi comasche, un lato è aperto con arcate distanziate regolarmente, due falde, a volte il lato aperto si apre su un cortile chiuso.
Bàrch. Tipo intermedio tra la sòstra e la semplice tettoia (stabiél, baitél).
Porcilaia (stabièl). A volte comprende parchetti esterni, all’esterno truogoli (àlbi) scavati in un tronco o nella pietra (solo recentemente di cemento).
Bàrech/barèch. Recinto di pietre a secco circolare o rettangolare utilizzato per la custodia della mandria durante la notte o il riposo diurno specie nelle alpi dove erano presenti burroni o altri pericoli, può essere adiacente alla cassìna o isolato.
Barchèt. Costruzione per ricovero degli ovini senza copertura stabile; al posto del tetto vi sono delle travi per sostenere rami frondosi collocati all’inizio dell’estate (Alto Lario Occidentale) (in disuso).
Caléc’. Costruzione formata da bassi muretti a secco, per la copertura si usavano tavole di legno o coperte di lana di fabbricazione casalinga (palòrc), oggi teloni impermeabili (nelle valli del Bitto, Valvarrone, Alta Val Brembana). Tutt’ora utilizzati, parecchi sono in fase di ristrutturazione; la tipologia non è sostanzialmente alterata ma si è introdotta la malta in luogo della costruzione a secco.
Baitél. Costruzione, spesso molto primitiva, ricavata al di sotto di lastroni di roccia utilizzata dai custodi delle pecore o, in caso di emergenza dai pastori dell’alpe (tutt’ora utilizzate).
Pozze/lavaggi. Realizzate nelle Alpi calcaree per la raccolta delle acque piovane; serbatoi con fondo in terra battuta dove il bestiame può entrare ad abbeverarsi (a “guazzo”) o che lasciano defluire per gravità l’acqua regolata da saracinesche a fontane collocate a quota leggermente inferiore (bùla, pùza, lavàg’). Oggi si realizza l’impermeabilizzazione con teli di plastica non esenti da rotture e da impiegare dove la pozza è recintata senza possibilità di ingresso dei capi a guazzo. Fondo in cemento ricoperto da uno strato di materiale terroso e argilloso
Abbeveratoi. Realizzati in tronchi, muratura o calcestruzzo (funtàna).
Cisterne. Realizzate in muratura e anche calcestruzzo per raccogliere l’acqua piovana dai tetti (anche centinaia di m3) nelle alpi calcaree.
Recinti per capre e pecore. In passato realizzati in legno, oggi si utilizzano le reti per gli ovini mentre i caprini sono solitamente liberi di scegliersi i siti di riposo notturno.
Recinti per vitelli/torelli. Realizzati anch’essi in legno e, più recentemente in filo spinato. La presenza di vitelli è per lo più limitata ai soggetti che nascono in alpeggio mentre non vi sono più torelli da ingrasso.
Siepi vive. Erano utilizzate in passato per proteggere i “segaboli”, ossia le superfici falciabili che servivano per realizzare in alpe una scorta di fieno in caso di necessità; erano utilizzati anche per proteggere le piccole coltivazioni che si realizzavano in alpe (segale, rape, cavolfiori) (ciudénda).
Muretti a secco. Utilizzati in funzione di contenimento delle scarpate dei sentieri e delle mulattiere di accesso, per la delimitazione dei pascoli di pertinenza di alpi limitrofe, per impedire l’acceso del bestiame a zone pericolose.

Nell’alpeggio la distribuzione dei fabbricati e le loro caratteristiche rispondono a rigidi criteri di funzionalità anche se gli orientamenti sono mutati notevolmente nel tempo. In passato (almeno sino al XIX secolo il bestiame non disponeva di ricoveri chiusi ed era costretto ad utilizzare in caso di cattive condizioni atmosferiche (grandine, nevicate) le fasce boscate ai margini delle aree a pascolo o le grotte naturali. La costruzione di stalloni e tettoie (vedi la Tabella per le diverse tipologie) rappresenta un miglioramento recente degli alpeggi introdotto per di più nel XX secolo. In diverse situazioni (come per esempioVal Taleggio) non esistevano nè tettoie nè bàrech e dopo la mungitura serale le vacche venivano legate con una corda ad un picchetto infisso nel terreno. Alla mattina venivano munte ancora legate al picchetto. Il sistema oltre ad evitare la dispersione degli animali consentiva la fertilizzazione uniforme del pascolo; l’area dove gli animali venivano tenuti al picchetto veniva spostata ogni 2-3 giorni o anche ogni giorno specie verso la fine della stagione. La diffusione degli “stalloni” è da mettere in relazione alla presenza di bestiame con maggior potenziale produttivo e, in particolar modo, alle ridotta capacità di adattamento alle brusche variazioni climatiche delle vacche che, ancora negli anni ’50 e ’60, giungevano a volte in alpeggio direttamente dalle stalle a posta fissa della Bassa.
Negli ultimi decenni sia in considerazione dei costi di costruzione e dell’onerosità degli investimenti, sia sulla base della minor disponibilità di personale, e quindi dell’esigenza di facilitare le operazioni di governo degli animali, sono state realizzate più frequentemente tettoie aperte. Esse infatti, sia in caso di mungitura che di necessità di riparo dalle intemperie, consentono di effettuare lo spostamento della mandria in tempi più rapidi oltre che di facilitare le operazioni di pulizia. Gli “stalloni” realizzati diversi decenni fa sono oggi inadatti al ricovero del bestiame a causa della taglia più elevata dei bovini attualmente allevati. Fino all’introduzione della razza Brown Swiss che ha sostituito la Bruna originale le vacche alpeggiate in Valtellina, Valsassina, Val Brembana pesavano 400-500 kg, mentre in altre zone (Alpi Comasche) soltanto 300-350 kg. La diffusione di bestiame Brown di taglia più elevata (600-700 kg) oltre ad altri problemi (esigenze alimentari, non idoneità a pascoli con pendenze relativamente elevate) comporta problemi di utilizzo delle vecchie stalle. Gli animali, infatti, a causa della ridotta lunghezza della posta devono disporsi diagonalmente o appoggiare gli unghioni degli arti posteriori nella cunetta di pulizia. E’evidente la riduzione di comfort per l’animale e l’aumento dei problemi di pulizia. In queste vecchie stalle -a doppia corsia- le mangiatoie sono addossate alle pareti e rendono disagevole la somministrazione di fieno e/o concentrati. Esse possono essere ristrutturate realizzando una sola corsia con corridoio di alimentazione centrale o adattate a sale di mungitura anche se, come vedremo trattando dei sistemi di mungitura in alpeggio, nella maggiorparte dei casi è preferibile l’adozione di sistemi di mungitura mobili da utilizzare sul pascolo che consentano al bestiame di evitare spostamenti e di utilizzare e fertilizzare il pascolo anche durante la notte.
Vale la pena osservare che i fabbricati costruiti negli ultimi decenni utilizzando tecniche e materiali moderni e a costi molto elevati (in ragione della difficoltà di trasporto, spesso con elicottero), dopo pochi decenni si presentano spesso diroccati o in grave stato di degrado. Anche la funzionalità di questi fabbricati rispetto alle reali esigenze dell’alpeggio lascia molto a desiderare e mette in evidenza la carenza di competenze specifiche da parte dei professionisti oltre che un insufficiente scambio di informazioni tra i proprietari (nella maggior parte dei casi i Comuni, i progettisti, i malghesi, i tecnici con competenze specifiche). Anche se in passato la disponibilità di ricoveri per il bestiame era limitata i fabbricati per la lavorazione del latte e il ricovero dei pastori erano spesso in muratura. In documenti dei primi decenni del XVIII secolo (Archivio Stato Milano, Fondo Agricoltura, Parte Moderna “Pascoli”) il comune di Vedeseta, preoccupato di offrire ai grossi bergamini affittuari dei pascoli condizioni igieniche per la lavorazione del latte (l’affitto dei pascoli rappresentava il principale cespite per il comune ed esso mantenere elevati i canoni di affitto) stabilisce dei precisi capitolati d’appalto per la manutenzione e la costruzione di fabbricati in muratura sulle alpi specificando dettagliatamente tecniche e materiali di costruzione.

Le figure dell’alpeggio

caricatore imprenditore agricolo che conduce in alpeggio (di sua proprietà o preso in affitto) fino a centinaia di capi bovini di sua proprietà o presi a custodia per il periodo estivo dietro adeguato compenso bergamìn/
malghées/
caregadur
soci gli allevatori che si associano per caricare un alpe; una volta si distingueva tra bergamì/malghées (allevatori di una certa consistenza che trascorrevano l’inverno nella Bassa) e casalini (piccoli allevatori che restavano nei paesi di montagna) sòci
capo il caricatore o uno dei soci o un pastore; al capo compete il piano di pascolamento (dàa l’erba) e la gestione del personale, solitamente esegue anche tutte le operazioni manuali cap/
regidúr
casaro figura centrale nell’alpeggio, dal casaro dipende la riuscita economica dell’impresa dal momento che il ricavo del formaggio dipende dall’incidenza di scarti, dalla qualità e dal buon aspetto delle forme, può partecipare anch’egli alla mungitura e allo spostamento della mandria casèr
aiuto-casaro un salariato che esegue le stesse operazioni degli altri pastori ma che può aiutare il casaro nell’estrazione della cagliata, trasporto e taglio della legna, trasporto del formaggio, preparazione dei pasti, con la diminuzione del personale in alpeggio questa figura è quasi scomparsa casinèr
pastori/mandriani/malghesi/malgari personale salariato che esegue tutte le operazioni di mungitura, governo della mandria, manutenzioni, trasporti, ai più anziani sono risparmiati i lavori più faticosi pastúr/
malghées
proprietari del bestiame piccoli allevatori che affidano ad altri il loro bestiame e restano a valle per eseguire il taglio del fieno e altri lavori agricoli lacèr/
casàlin
pastorelli presenti spesso ancor oggi sugli alpeggi hanno l’incarico di spostare il bestiame e di eseguire le incombenze più leggere, possono anche partecipare alla mungitura cascìi
capraio giovane o anziano il capraio ha particolare dimestichezza con le capre che riesce a richiamare anche a grande distanza con vocalizzazioni , fischi, somministrazione di sale; se giovane ed inesperto il capraio deve svolgere un lavoro molto faticoso perché le capre tendono a sfuggire verso le cime (specie verso la fine dell’alpeggio), ad invadere il pascolo delle vacche e a disperdersi caurèr/
cavrée
pecoraio si occupava della custodia del gregge e, soprattutto, di evitare che esso invadesse i pascoli destinati alle vacche da latte, spesso utilizzava come ricovero un baitél posto a quote elevate pegurée
addetto alle manze figura oggi scomparsa perché i pastori si occupano al di fuori dei tempi dedicati alla mungitura, allo spostamento della mandria da latte e dalle altre faccende anche della cura delle manze. Queste spesso sono condotte a pascolare in zone impervie anche molto distanti dalla casera e la loro sorveglianza e spostamento richiede di effettuare faticosi trasferimenti a piedi manzulèr

Censimento Alpeggi 2001 Regione Lombardia
ADDETTI
Maschi Femmine Età media
BG 1 285 54 43,8
BS 2 321 82 48,1
CO 3 104 33 44,8
LC 4 106 42 50,8
SO 5 567 210 45,2
PV 6 10 0 48,3
VA 7 3 2 45,0

Regione 1396 423 46,6
Fonte: Irealp

Approvvigionamento idrico, potabilizzazione

Gli alpeggi sorgono in zone la pendenza è più limitata (a volte in avvallamenti detti fópe) in prossimità di sorgenti, laghetti o di impluvi dove l’acqua dei torrenti scorre per tutta l’estate. Nelle zone dove l’approvvigionamento idrico è più difficoltoso si provvedeva ad addurre l’acqua con canalette (lés, léc’) realizzate in passato in terra o in legno ed ora sostituite da opere fisse con prese (pozzetti) e tubazioni interrate o da tubazioni in materiale plastico. Ai fini dell’attività di trasformazione è importante non solo la disponibilità quantitativa della risorsa idrica ma anche la sua qualità (potabilità) che può richiedere la realizzazione di nuove opere di captazione e adduzione e la manutenzione di qualle esistenti. Nelle alpi che sorgono su terreni di natura calcarea si deve disporre di serbatoi per l’accumulo dell’acqua piovana dal momento che l’infiltrazione in profondità delle acque meteoriche riduce notevolmente la presenza di acque superficiali e di sorgenti. Tradizionalmente si è ricorso in queste alpi alla realizzazione di pozze che sfruttano quanto più possibile la morfologia del terreno e che venivano impermeabilizzate con materiale argilloso o, semplicemente, grazie all’azione di costipamento esercitata dagli unghioni degl animali che, per abbeverarsi, entravano “a guazza” nell’acqua. Questa pratica, ancora in uso, è da scoraggiare per l’inevitabile contaminazione dell’acqua con il materiale fecale. In passato l’impermeabilizzazione delle pozze era realizzata, oltre che con l’azione esercitata dall’entrata degli animali, coprendo il fondo con strati di foglie secche e di argilla. In tempi più recenti si sono utilizzati teli incatramati e quindi teloni di plastica; questi ultimi hanno caratteristiche migliori ma non sono esenti da inconvenienti (l’entrata accidentale di animali può danneggiarli). In ogni caso le pozze dovrebbero essere recintate per impedire l’entrata della mandria e l’acqua dovrebbe essere distribuita al bestiame realizzando una conduttura in grado da addurre l’acqua dal fondo della pozza ad un abbeveratoio posto a quota leggermente inferiore. Nelle alpi povere di acque si utilizzavano anche delle cisterne in muratura o calcestruzzo che raccoglievano l’acqua piovana dai tetti. Per la distribuzione dell’acqua al bestiame si utilizzavano in passato tronchi o monoliti scavati, più recentemente sono state realizzate vasche in muratura (con malte idonee) o calcestruzzo. La realizzazione delle vasche d’abbeverata (“fontane”) dovrebbe comprendere una platea in battuto di calcestruzzo per evitare la creazione di un’area fangosa a seguito dell’assembramento del bestiame e gli effetti della fuoriuscita d’acqua durante l’abbeverata stessa. E’ovviamente importante al fine di evitare danni al cotico erboso delle area a valle delle “fontane” che queste dispongano qualora l’erogazione dell’acqua sia continua di un “troppo pieno” e di una canalizzazione dell’acqua in uscita dalla vasca. Altro accorgimento utile per evitare che gli animali si disturbino reciprocamente durante l’abbeverata o l’entrata stessa degli animali è rappresentato dalla “protezione” della vasca con tondini di ferro piegati.
Oltre alle esigenze idriche degli animali in alpeggio l’acqua è necessaria per la trasformazione casearia e gli utilizzi domestici ed eventualmente a quelli agrituristici. Anche dove la quantità di acqua disponibile è abbondante spesso è la qualità che non corrisponde alle esigenze di garanzia igienico-sanitaria degli operatori e a quelle della produzione casearia.
Per migliorare la qualità microbiologica dell’acqua destinata alla pulizia e al lavaggio delle attrezzature destinate alla trasformazione casearia le acque devono subire dei trattamenti chimici o fisici.
La clorazione delle acque presenta diversi inconvenienti mentre il trattamento con raggi UV-C presenta diversi vantaggi:

 semplice funzionamento e manutenzione delle lampade;
 limitato ingombro delle attrezzature;
 assenza di altereazioni delle caratteristiche chimiche ed organolettiche dell’acqua trattata.

Le lampade ad UV-C producono una luce a 254 nm che irraggia per alcuni secondi l’acqua proveniente che scorre all’interno di un tubo trasparente di teflon. L’effetto biocida della radiazione ultravioletta consente la sterilizzazione dell’acqua. Per il funzionamento delle lampade in assenza di corrente elettrica continua (220 v – 50 Hz) si possono utilizzare batterie a 12 V ricaricabili mediante l’uso di generatori di corrente o di altre fonti alternative.

Viabilità, trasporti

Trasporti. Viabilità Ieri e oggi. Muli, cavalli, fuoristrada, teleferiche (fili). I fili a sbalzo sono stati introdotti nel XIX secolo in seguito alla disponibilità di idonee funi d’acciaio. Il trasporto someggiato è tutt’ora impiegato in numerosi alpeggi. A differenza del passato l’animale più utilizzato è il cavallo. Quest’ultimo, pur trasportando un peso proporzionalmente inferiore rispetto al proprio peso corporeo rispetto al mulo e richiedendo maggiore addestramento al someggio è oggi maggiormente utilizzato a causa della larga diffusione di questa specie in relazione alle svariate utilizzazioni cui si presta (traino, produzione di carne, attività equestri in ambito agrituristico e amatoriale). La produzione di muli è andata restringendosi anche per la minor disponibilità di stalloni asinini di pregio. Il numero degli asini, infatti, è in aumento ma, spesso, si tratta di soggetti importati di taglia e conformazione insoddisfacenti alla produzione mulattiera (anche prescindendo dai necessari requisiti di iscrizione ai Libri Genealogici per l’autorizzazione alla monta). In ogni caso il mulo robusto può portare un carico someggiato di 150 kg (un terzo del proprio peso) mentre il cavallo può portare un peso pari ad ¼ del proprio peso.
Mentre in passato il trasporto animale era utilizzato per coprire l’intero percorso dal fondovalle all’alpeggio oggi, spesso, esso serve solo per coprire percorsi più brevi collegando l’alpe con il sito più vicino accessibile ai mezzi motorizzati fuoristrada. Diversi alpeggiatori utilizzano motociclette da trial per percorrere sentieri e mulattiere la cui stretta carreggiata non consente il transito di veicoli a quattro ruote. Con questi veicoli si spostano anche sui pascoli per recuperare le mandrie o per spostare
L’accessibilià con automezzi è considerevolmente migliorata negli ultimi decenni.

Tabella – Classificazione delle alpi lombarde per tipologia di accesso
Strada
camionabile Strada per
automezzi Pista per
fuoristrada Mulattiera Sentiero
pedonale
BG 20 28 56 86 1
BS 24 43 118 51 1
CO 12 4 21 24 1
LC 9 12 18 26 0
SO 91 23 67 128 0
PV 1 0 3 0 0
VA 1 1 0 1 0
Lombardia 158 111 283 316 3
% 18,1 12,7 32,5 36,3 0,3
Fonte: Irealp

Autoproduzione di energia

La stragrande maggioranza degli alpeggi non sono allacciati alla rete di distribuzione dell’energia. Per il fabbisogno delle utenze (mungitrice, zangola, agitatrice, scrematrice, scalda-acqua elettrico, necessità domestiche) di un alpeggio media (3 addetti, 60 capi) sono necessari nel complesso 23 kWh con picchi massimi di assorbimento tra 1 e 5 kW (Bechis et al. 1996). Le esigenze di autoproduzione di energia elettrica vengono solitamente soddisfatte con generatori a gasolio (5 kW). Tale soluzione anche se non richiede elevati costi di investimento comporta oneri di manutenzione, trasporto del combustibile, rumorosità, inquinamento. Le soluzioni alternative per l’autoproduzione di energia in alpeggio consstono nelllo sfruttamento dell’energia idraulica o di quella solare. Nel caso dell’utilizzo dei pannelli fotovoltaici si deve prevedere l’integrazione con un gruppo elettrogeno quando i consumi eccedono i 2 kWh. Al di sopra dei 10 kWh è più opportuno il ricorso al solo gruppo elettrogeno a meno che non sia possibile (grazie alla disponibilità di salti d’acqua con sufficiente portata e dislivello) sfruttare una microcentrale idroelettrica. Tale soluzione diviene conveniente al di sopra di consumi giornalieri di 4 kWh. Sia il solare che l’idroelettrico implicano costi di investimento elevati che possono essere affrontati solo in presenza di contribuzione finanziaria da parte degli enti pubblici.

Rifornimenti idrici e potabilizzazione

 

Attrezzature

Tubazioni in plastica. In passato ricavate da tronchi. Fili elettrici paletti in plastica o con anima metallica rivestita in plastica punta in metallo e .... precedentemente isolatori con vite da legno per infissione in paletti. Il paletto in legno per quanto economico reperibile sul posto deve essere conficcato nel terreno con una mazza e la punta deve essere spesso rifatta

Perché ci sono le caane e i fili senò chi e và ancamò su i monti ? La vita ch’em fàa nüm, và ...., ma chi? ... Ci sono le caane che si và su a prender l’acqua ... prima non c’erano ... adèss ci sono i fili, mettono là le manze e vanno...

Da un intervista a Pietro Vitali Giana di Taleggio, classe 1921, agosto 2001 raccolta dall’autore

La qualità del latte in alpeggio

Cellule somatiche. Questo parametro rappresenta un punto debole della qualità del latte prodotto in alpeggio; non è difficile rinvenire medie superiori alle a 1.000.000 di cellule/ml . I motivi di tali valori elevati sono in parte da ricondurre a fattori fisiologici in quanto la lattazione nelle bovine allevate in montagna è ancora in buona parte stagionalizzata con parti autunno-invernali e messa in asciutta alla fine dell’estate. Dal momento che in fine lattazione il conteggio delle cellule somatiche fornisce anche in mammelle in perfette condizioni sanitarie valori più elevati è logico attendersi valori mediamente più elevati. I valori molto elevati di cellule somatiche riscontrati nel latte prodotto durante l’alpeggio sono, però, riconducibili a fattori di stress legato alle condizioni climatiche (sbalzi termici, forte vento, forti precipitazioni), a fattori sociali (formazione della mandria a partire da gruppi di capi provenienti da diversi allevamenti nelle prime fasi dell’alpeggio), a fattori alimentari (variabilità della qualità del foraggio, sospensione del pascolamento a seguito di avversità metereologiche), all’adattamento alle condizioni del pascolamento e ai trasferimenti da parte di bestiame proveniente dalle stalle e con ridotta attività locomotoria. Lo stato infiammatorio della mammella si traduce in una modificata permebilità dei vasi sanguigni che, oltre a riflettersi nell’aumento di cellule nel latte comporta un aumento nel latte si sieroalbumine e sieroglobuline ed una variazione della composizione in sali. Mentre aumentano i cloruri diminuiscono calcio e magnesio fondamentali nei processi della coagulazione delle caseine del latte. Nel latte proveniente da vacche con affezioni mammarie anche in assenza di manifestazioni cliniche evidenti l’alterazione composizionale è profonda e coinvolge anche gli enzimi con aumento delle proteasi alcaline (plasmina) che influenza l’idrolisi delle proteine (beta-caseina) anche prima della mungitura e durante la conservazione del latte con conseguenze sulla qualità del formaggio particolarmente nel caso di quelli a pasta dura.

Pascolo e caratteristiche organolettiche dei prodotti

Negli ultimi anni sono state intraprese diverse ricerche per mettere in evidenza come l’alimentazione al pascolo possa influire su alcuni componenti del latte importanti dal punto di vista organolettico e dietetico. Dal punto di vista delle qualità sensoriali sono state studiate in particolare le sostanze volatili presenti nel latte e nei formaggi. Nel formaggio come nel vino la maggior parte delle sostanze aromatiche derivano dai processi di fermentazione durante la trasformazione della materia prima. Vi sono, però componenti volatili presenti in bassa concentrazione, ma in grado di caratterizzare il prodotto sotto il profilo organolettico che provengono dalle piante di cui gli animali si sono alimentati. Tra le componenti volatili presenti nelle piante una categoria molto importante è costituita dai terpeni, metaboliti secondari della pianta con funzione di repulsione dei parassiti p di attrazione degli insetti pronubi. Dal punto di vista chimico i terpeni sono costituiti da due o più unità isopreniche a 5 atomi di carbonio e appartengono alla compnente insaponificabile dei lipidi. Si distinguono monoterpeni (mircenecimenelimonene pineneterpineneI terpeni sono abbondanti in alcune famiglie quali Pinaceae, Labiate, Mirtaceae, Umbrelliferae, Asteraceae. l foraggio dei pascoli, ricchi di dicotiledoni, tra cui quelle delle citate famiglie, è molto più ricco di terpeni rispetto a quello dei prati. La concentrazione in terpeni aumenta con la stagione dal momento che queste sostanze si concentrano nei fiori e nei frutti. Con un ritmo di sfruttamento del pascolo intensivo (più cicli di ricaccio) e il mantenimento delle piante allo stadio vegetativo si avrà meno conventrazione di terpeni nel foraggio mentre con un slo ciclo di utilizzazione, come avviene in montagna o in altri pascoli seminaturali, la presenzadi fioriture esalterà la componente terpenica. Il pascolo di montagna, anche a prescindere dal ritmo e dalla fase di utilizzazione, è comunque più ricco di essenze aromatiche tanto che diversi autori hanno mostrato come sia possibile discriminare tra pascoli a diverse quote sulla base dell’analisi dei terpeni. Da decenni si conosce la presenza dei terpeni nei formaggi, ma negli ultimi anni sono stati chiariti i meccanismi di passaggio dal foraggio al latte che avviene in 48 ore (Viallon et al, 2000). Non tutti i terpeni presenti nelle piante passano nel latte; alcuni di essi subiscono una trasformazione nel rumine che porta alla presenza nel latte di terpeni non rinvenibili nel foraggio (Schlichterle-Cerny et al.. 2004). Anche i fieni di montagna somministrati al bestiame durante il periodo invernale contengono terpeni anche se in misura inferiore al foragggio raccolto fresco o consumato direttamente al pascolo durante il perodo estivo; tale presenza consentirebbe di doscriminare anche in inverno i formaggi di montagna ottenuti con fieni locali da quelli prodotti con latte di vacche alimentati con foraggi acquistati in pianura (Battelli et al. 2004). Diventa più difficile discriminare tra il latte e i formaggi di animali alimentati solo con foraggi e quello di animali che ricevono anche alimenti concentrati. Vi è evidentemente un effetto di diluizione ma, probabilmente, se la quantità di concentrati somministrata non è elevata l’effetto si confonde con altri fattori di variabilità della concentrazione di terpeni.

Prodotti ottenuti al pascolo e salute umana

Gli studi sulla specificità dei prodotti animali ottenuti tramite alimentazione al pascolo sono di grande interesse in relazione alle recenti acquisizioni sulle proprietà biologiche di alcuni acidi grassi e loro derivati. In aggiunta a quanto noto sull’importanza degli acidi grassi essenziali queste conoscenze mettono in evidenza come la riduzione del contenuto lipidico degli alimenti (come nei prodotti “light” ottenuti mediante manipolazioni industriali) comporti anche un minor apporto dietetico di sostanze con valore protettivo comtro le patologie cardiovascolari e cardiache (Parodi, 1996).
Diversi composti lipidici e non rilevanti ai fini delle patologie umane risultano modificati nel latte degli animali allevati al pascolo in confronto con quelli alimentati con concentrati, insilati. Nel loro insieme risultano migliorate le proprietà:

• antiossidanti
• antibatteriche
• antitumorali
• antitrombogeniche

Per quanto riguarda i composti a proprietà antiossidante si osserva come il latte delle bovine alimentate al pascolo risulti più ricco in carotene e vitamina E (Ferlay et al., 2002). Un effetto positivo del pascolo si nota anche per alcuni composti ad azione antibatterica quali polifenoli, lattoferrina e tiocianato (Ferlay et al. 2002). Di grande interesse è la riduzione dell’indice di aterogenicità (basato sui rapporti tra composti in grado di agire nel senso di contrastare o favorire l’insorgenza di aterosclerosi) e di trombogenicità
Il rapporto acidi grassi -3/acidi grassi omega 6 influisce sull’indice trombogenicità. Tale rapporto è più basso nel latte di vacche durante il periodo di alimentazione invernale rispetto a quanto è dato di constatare nel caso dell’alimentazione al pascolo (Stene et al. 2002). Tra gli acidi grassi ad azione biologica positiva si nota nel latte di vacche alimentato al pascolo un aumento degli isomeri di C18:1 e dei CLA (acido linolenico coniugato). Un aumento di cis9C18:1 e di CLA sono stati osservati da Durand et al. 2002, un aumento in acido oleico e in 9cis11trans CLA (acido rumenico) da Martin et al. 2002, l’aumento di CLA da Stene et al., 2002. L’aumento di cis 9, trans 11 CLA (che tra i CLA è quello biologicamente più attivo) è stato osservato nel latte di vacche in alpeggio ( Batelli et al., 1999). Tale composto è prodotto per l’azione dell’enzima (acido linoleico isomerasi) da parte di un batterio anaerobio, il Butyrivibrio fibrisolvens (Parodi, 1994) ed è legato all’alimentazione a base di foraggi freschi ricchi di acidi grassi poliinsaturi. Nelle situazioni in cui i CLA aumentano tende ad aumentare anche la componemte degli acidi grassi poliinsaturi a lunga catena (PUFA) tra cui ci sono i CLA e gli acidi grassi omega-3. L’aumento dei PUFA (oltre che di CLA) è stato osservato da Batelli et al, 1999. Mentre il miglior rapporto insaturi/saturi (e soprattutto PUFA/SA, migliora gli indici di aterogenicità e trombogenicità, l’aumento dei CLA è considerato con grande interesse in relazione con il potere anticancerogeno di questi composti. Il foraggio essiccato in reazione alla termosensibilità degli acidi grassi non consente di ottenere gli stessi risultati ottenuti con l’erba fresca.
Nei bovini allevati al pascolo nelle regioni temperate dell’America Latina risultano più bassi il contenuto in lipidi intramuscolari e colesterolo (Rearte, 1998). Morgante et. al. 200x hanno riscontrato un più basso indice di trombogenicità e aterogenicità in agnelli Istriani mantenuti al pascolo rispetto a quelli alimentati con concentrati. Una maggiore concentrazione di è stata osservata anche da Piva et al. 1999 in agnelli di razza Gentile di Puglia. Matthes e Pastuschenko, 1999 hanno osservato una migliore concentrazione di  3 e un miglior rapporto  3/ 6 sia in agnelli allevati in modo estensivo al pascolo che in vitelloni di varie razze con finissaggio al pascolo (Matthes et al. 2000, Matthes e Pastuschenko, 1999). In agnelli alimentati con concentrati in sistema intensivo (drylot) i livelli di lipidi muscolari sono più elevati rispetto ad agnelli al pascolo, ma la concentrazione in colesterolo è inferiore (Rowe et al, 1999). Un aumento di colesterolo negli animali allevati al pascolo è stato osservato in vitelloni anche da Hornick et al, 1998; tale differenza era però compensata dall’aumento della proporzione di acidi grassi mono e poliinsaturi, dalla riduzione di calo alla cottura, e dello sgocciolamento nonché da una maggiore tenerezza.

Altre caratteristiche. Il latte delle bovine alpeggiate in confronto con quelle mantenute in stalla contiene una maggiore quantità di β-carotene, Vitamina A ed E ed una minore di colesterolo (Battelli et al, 1999) CLA (acido linoleico coniugato)

La caseificazione in alpe

Aosta Friuli V.G. Piemonte Lombardia Veneto Bolzano Trento Totale
alpi censite/
stimate (n) 479 62 750 789 425 1.732 272 4.509
alpi con produzione latte (n) 375 40 376 612 268 86 200 1.957
alpi con lavorazione latte (n) 212 40 197 612 87 60 92 1.300
Produzione latte in alpe (t) 13.700 850 4.500 20.000 10.452 800 9.500 59.802
alpi che inviano latte
ai caseifici (n) ? - - - 181 26 108 315
Latte lavorato in alpe (t) 7.500 850 ? 13.500 ? ? 5.300

Latte trasformato in caseifici (t) 6.200 - - - ? ? 4.200

Le lavorazioni tradizionali

La finalità della produzione casearia in alpe era rappresentata tradizionalmente dalla produzione di formaggi in grado di conservarsi a lungo

formaggi magri o semigrassi
formaggi grassi (Bitto, Formài de mùt)
stracchini
formaggi di puro latte caprino
formaggi misti di latte vaccino e caprino
formaggi misti di latte vaccino, caprino ed ovino
ricotte e mascherpe

Il formaggio d’alpe è tradizionalmente prodotto con latte crudo (non trattato termicamente). Dove si produce burro il latte della mungitura serale viene posto nelle bacinelle di affioramento ampie e basse (conche o ramine). In alcuni casi venivano usati anche vasi di rame stagnato di forma alta e stretta. Il raffreddamento è facilitato dall’ immersione in acqua fredda corrente. Al mattino la panna viene separata dal latte e messa nella zangola (a stantuffo o ..) per la preparazione del burro.

La produzione del formaggio grasso non comporta l’uso di fabbricati per la conservazione del latte e attrezzature per la fabbricazione del burro. Anche la manodopera viene ridotta e quindi ben si adatta alle esigenze delle alpi dove ci si deve spostare frequentemente da una stazione (mutata) all’altra.

 

Produzione casearia in alpeggio e normative igienico-sanitarie

L’applicazione della normativa comunitaria relativa al rispetto di norme igieniche nella produzione e lavorazione del latte con il D.P.R 54/97 ha comportato un problema non semplice nel caso della lavorazione in alpe. La Lombardia è la regione dove si produce la maggior quantità di formaggio d’alpe in oltre 600 casere d’alpe. Si tratta di un contesto produttivo ed ambientale molto particolare dove la continuità della lavorazione secondo criteri e procedure tradizionali è condizione non solo per il mantenimento e la valorizzazione di produzioni tipiche spesso di eccellenza ma anche di un sistema zootecnico di utilizzazione di ampie superfici a pascolo che produce importantissime esternalità positive in termini ecoambientali e turistici. Le linee guida per l’applicazione del DPR 54/97 sono state emanate in Lombardia con la D.G.R. n. 42036 del 19.03.1999. In base alle circolari del Ministero della Sanità n.16 del 1.12.1997 e della Regione Lombardia n.23/SAN del 15.05.1997 è stato possibile da parte della Regione attribuire un riconoscimento provvisorio ai caseifici d’alpe in attesa della formalizzazione del riconoscimento definitivo in modo da consentire il proseguimento dell’attività di trasformazione e commercializzazione del latte. Le scadenze dell’iter per il riconoscimento definitivo sono state indicate nella Delibera della Giunta Regionale sopra citata. In seguito a domanda di riconoscimento presentata dagli interessati al Servizio Veterinario dell’ASL il Servizio stessi hanno effettuato un sopralluogo presso tutti gli alpeggi al fine di verificare il rispetto dei requisiti minimi. In seguito ai sopralluoghi i Servizi Veterinari delle ASL hanno provveduto a comunicare ai conduttori le prescrizioni per poter adeguare le strutture. I piani di adeguamento delle casere d’alpeggio concordati con i Servizi Veterinari hanno condotto alla presentazione (entro il 31.12.2000) di progetti di ristrutturazione. I lavori dovranno essere completati entro il 30.9.2003 e, previo sopralluogo di verifica del Servizio Veterinario dell’ASL sono stati rilasciati i riconoscimenti definitivi alle casere. In relazione al numero elevato di realtà dove i lavori non erano stati ancora eseguiti è stata concessa una proroga.

• Completa separazione del locale adibito alla lavorazione del latte dai locali ad uso cucina e abitazione;
• completa separazione dei ricoveri degli animali dal locale di lavorazione del latte con esclusione di ogni collegamento;
• Servizi igienici non direttamente comunicanti con i locali di lavorazione, possono essere utilizzati quelli annessi all’abitazione, se vi è sufficiente pressione dell’acqua anche una doccia con acqua calda e fredda;
• Separazione per i locali lavorazione latte e stagionatura prodotti lattiero-caseari;
• Pavimento almeno in cemento lisciato con possibilità di raccolta ed evacuazione delle acque di lavaggio, infissi in materiale resistente atto ad evitare l’entrata di animali indesiderabili e provvisti di retine anti mosche (ammesso il legno), pareti pulibili (non vi è quindi l’obbligo della piastrellatura);
• Almeno un lavabo con acqua corrente possibilmente nel locale di lavorazione;
• I materiali a contatto con il latte devono essere adatti (facili da lavare e da disinfettare) e resistenti alla corrosione fatte salve le deroghe per i prodotti con caratteristiche tradizionali;
• Allontanamento fumo mediante camino;
• Aree antistanti l’ingresso del laboratorio in cemento o pietra;
• Acqua conforme ai parametri microbiologici previsti per il controllo minimo C1 dell’Allegato A del D.P.R. 236/88
Acqua derivata da presa alla sorgente e condutture sino alla casera, trattamento con cloro (previa trealizzazione di serbatoio o raggi UV.


Terminologia attrezzature tradizionali del caseificio

Caldaia per il riscaldamento del latte Culdéra, Caldéra, Pairöö/Paröl (paiolo per piccole quantità), Culderìna/culdiröö (piccola caldaia)
Frangicagliata Lìra (da caseificio), Furchét (rudimentale da un ramo), Rudèl (pistone da zangola verticale), Curtèl (coltello), Canèla (bastone per mescolare la polenta)
Recipienti per il latte Brentèl (in legno, a spalla, 10 l) brenta (più grande, 20 l) bidùn (moderno in alluminio)
Spannarola Cóp (in legno) sc-panaröla (piattino in metallo), Cazü (in legno a forma di mestolo), salvigèra (schiumarola da cucina)
Stampi/assicelle per il burro Sc-tampìn/palét
Fascere in legno
Spersola
Sgabello per mungere Scagn, Scagnèl,
Secchio per mungere in legno Segiuu, Sécia, Ségia
Secchio per mungere in alluminio Sedèl,
Zangola penàgia
Bidone per il trasporto del latte
Braccio girevole per spostare la caldaia dal fuoco Scegógna, Sigàgna, Scigógna, Cigagnöla, Sigagnöla, Puléna, Màsna,
Colini per il latte (e supporto) Culì, Cul (e trèta), Cól (sc-calét),
Imbuti Pedriöö, Pedriöl, Pidriöl, Pidriöö

 


La struttura temporale dei sistemi di produzione basati sul pascolo

Sistema descrizione orizzonte temporale delle dinamiche
sistema pascolivo Rappresenta l’insieme di risorse animali e foraggere e alle modalità della loro interazione. Dal punto di vista dell’animale è definito in base alla specie, razze, stadio fisiologico e livello produttivo degli animali, alla durata stagionale del pascolamento, e al sistema di pascolamento adottato. Dal punto di vista foraggero comprende la natura delle risorse, l’intensità degli interventi agronomici, le influenze climatiche. pluriennale (aggiornamenti stagionali)
sistema di pascolamento definisce le modalità di accesso degli animali alle risorse foraggere del pascolo in base all’assenza o presenza di restrizioni spaziali e temporali pluriennale (aggiornamenti stagionali)
piano di miglioramento strutturale sulla base delle dotazioni strutturali e della natura e situazione delle risorse pascolive individua gli interventi strutturali necessari ad attuare un piano di gestione coerente con gli obiettivi economici ed il miglioramento del pascolo pluriennale
piano di miglioramento agronomico sulla base della situazione attuale delle risorse pascolive pluriennale
piano di gestione definisce, in situazione di ordinarietà, il sistema di pascolamento, il carico idoneo, un ipotesi di massima di piano di pascolamento, l’utilizzo delle strutture zootecniche, individua i siti e i sistemi idonei per la mungitura, il riposo, l’abbeverata, il ricovero del bestiame. Pluriennale (aggiornamenti stagionali e infrastagionali)
piano di pascolamento definisce il carico animale idoneo, la suddivisone in parcelle del pascolo, la durata della presenza degli animali in ciascuna parcella, il numero di passaggi su ciascuna parcella, l’eventuale assegnazione di ciascuna parcella ad un determinata categoria di bestiame stagionale (aggiornamenti settimanali)
programma di pascolo giornaliero in sistemi di pascolo liberi, razionati o guidati stabilisce le aree utilizzabili e gli spostamenti giornaliero (aggiornamenti infragiornalieri)

Il sistema pascolivo comprende l’insieme dei fattori modificabili solo in una dimensione temporale pluriennale mentre altri fattori possono essere oggetto di modificazione attraverso decisioni gestionali in un ambito temporale molto più ristretto, sino ad arrivare alle decisioni giornaliere (utilizzo delle aree di pascolo per la giornata, variazione dell’integrazione alimentare) o persino da attuare di ora in ora (spostamento della mandria o del gregge da una zona all’altra).

I piani economici pluriennali riguardano le componenti meno facilmente modificabili del sistema di pascolo: innanzitutto le scelte relative alle superfici da acquisire (da acquisire mediante affitto o altre forme contrattuali più o meno informali), o da cedere, ai miglioramenti agronomici (approvvigionamento idrico, miglioramento della viabilità, drenaggi, spietramenti, concimazioni, decespugliamenti, lotta alle infestanti erbacee) alla struttura delle risorse animali dell’azienda: specie, razze allevate.

Per pieno pluriennale non si intende uno strumento formale, ma l’insieme delle decisioni a medio termine dell’azienda zootecnica. Molto importanti a questo riguardo sono, nell’ambito della zootecnia alpina, le decisioni riguardo alla stipula di contratti d’affitto pluriennali delle alpi, o quelle relative all’abbandono della pratica dell’alpeggio a favore di sistemi di allevamento intensivi.

Sulle decisioni di carattere pluriennale influiscono considerazioni di diversa natura basate sia su situazioni già in essere che su aspettative. Tra le considerazioni che inducono gli allevatori a formulare le loro scelte a medio termine appaiono le seguenti:

• evoluzione climatica basata sul decorso delle ultime stagioni e sulle generali previsioni di una modificazione globale del clima;
• evoluzione del mercato sia con riferimento ai prodotti che ai mezzi tecnici;
• evoluzione delle filiere produttive;
• evoluzione del potenziale animale;
• evoluzione normativa e delle politiche di sostegno;

Queste considerazioni possono risultare più o meno influenti sulle decisioni gestionali in funzione anche di aspetti soggettivi: età, stile di vita, capacità tecniche e gestionali dell’allevatore.

Mentre l’evoluzione climatica, il crescente apprezzamento per i prodotti tipici e biologici, un consolidato orientamento della Pac a favore dei modi di produzione zootecnici estensivi e sostenibili giocano tutti a favore del mantenimento dei sistemi pascolivi, non si può non considerare come altri fattori esercitano influenza contraria. Tra questi fattori negativi vanno annoverati: la crescente potenzialità produttiva delle razze cosmopolite i cui programmi di miglioramento non tengono conto l’adattamento alle condizioni estensive; i vincoli contrattuali che penalizzano il mancato conferimento stagionale del prodotto (filiera latte). Le modificazioni degli stili di vita degli allevatori contribuiscono a rendere meno accettabili le condizioni spesso disagevoli di vita e di lavoro nelle alpi. Negli ultimi anni il divario tra le condizioni di vita in alpeggio e quelle delle sedi permanenti del fondovalle si è accentuato a seguito della diffusione di stili di vita e abitativi ormai indistinguibili da quelli urbani (disponibilità di servizi igienici, riscaldamento, allacciamento alla reti fognarie, elettriche, telefoniche, di distribuzione del metano, viabilistiche).
Se nelle alpi vi è una presenza di giovani proporzionalmente superiore a quella media del settore ciò è dovuto al fatto che per molti allevatori la vita dell’alpeggio, al di là dei disagi, presenta elementi gratificanti che si affiancano alle considerazioni di ordine economico. I caricatori d’alpe continuano a godere nell’ambito della comunità professionale e locale di un prestigio particolare; dopo anni di assenza di attenzioni per il settore della zootecnia alpeste, l’effetto congiunto della introduzione di varie misure di sostegno economico e della diffusione di forme di agriturismo ha ribaltato l’immagine “residuale” di questa attività con il risultato di accrescere l’autostima di chi di questo mondo è il protagonista. Queste considerazioni non devono però farci dimenticare l’esigenza di adeguamento delle condizioni di vita a quelli che appaiono degli standard irrinunciabili.

Programmazione delle decisioni su base annuale/stagionale

Posto che le decisioni sulla disponibilità di superfici e sugli interventi per migliorarne la produttività rientrano principalmente in un orizzonte temporale pluriennale, nell’ambito dell’annata o della stagione l’allevatore per adeguare il proprio potenziale foraggero alle esigenze degli animali allevatti e all’andamento climatico può adottare decisioni quali: l’acquisto di foraggio extra-aziendale, una opportuna calendarizzazione delle risorse foraggere (compresa la realizzazione di erbai). Dal lato del potenziale animale la possibilità di adattamento alle risorse foraggere disponibili può essere realizzata no solo mediante l’acquisto o la vendita di animali ma anche la programmazione delle date di parto (dove il ritmo riproduttivo è stagionalizzato) che può essere ottenuta (in funzione della specie) mediante tecniche di stimolazione, flushing, modifica della durata della lattazione. Quest’ultima nei sistemi estensivi rappresenta una delle modalità più importanti di adeguamento del potenziale animale al potenziale foraggero (come nel caso tipico di messa in asciutta precoce in caso di stagioni siccitose). Le decisioni su base annua o stagionale devono tenere presente delle conseguenze sul potenziale foraggero dell’andamento climatico; la valutazione della disponibilità idrica e delle somme termiche in corrispondenza di determinate fasi fenologiche dello sviluppo delle essenze foraggere sono fondamentali per prevedere la produttività dei pascoli durante la stagione di utilizzo e operare quelle misure di “correzione” cui si è fatto riferimento salvo poi apportare gli opportuni aggiustamenti di breve periodo sulla base della stima della produttività al momento dell’effettivo utilizzo da parte degli animali. Per effettuare queste stime l’allevatore (o il tecnico) opera un giudizio sintetico in base all’esperienza tenendo presente i fattori fondamentali che determinano la produttività e le caratteristiche qualitative del pascolo: l’altezza e la densità del cotico e la composizione botanica del pascolo. Le scelte gestionali in questo ambito dovranno tenere conto anche delle variazioni di condizione corporea degli animali (BCS).

Programmazione mensile/settimanale

In un ambito temporale così limitato l’aumento della potenzialità foraggera del pascolo non è realizzabile; è possibile però in caso che la disponibilità foraggera ecceda il fabbisogno degli animali decidere di affienare parte delle superfici che altrimenti sarebbero state lasciate a pascolo trasferendo nel tempo questa eccedenza e riducendo l’eventuale ricorso a foraggi conservati di origine extra-aziendale. Escludendo i casi di approvvigionamenti di fieno di soccorso (che assume carattere di eccezionalità ed esulano dall’ambito delle normali decisioni gestionali) la possibilità di adeguare il fabbisogno nutritivo degli animali animale a variazioni di breve periodo è legata ad una variazione della quota di alimenti integrativi (concentrati). Dal punto di vista della disponibilità di foraggio anche per una valutazione “a breve” del potenziale foraggero si terrà conto dell’altezza del cotico mentre dal lato dell’animale sarà lo scostamento delle produzioni osservate dagli obiettivi di produzione a suggerire le decisioni opportune a riportare il sistema in una condizione di equilibrio. Nel caso di sistemi di pascolo basati sulla suddivisione in grandi settori di pascolo dove gli animali sostano anche più settimane uno dei fattori da considerare sarà rappresentato anche dall’entità dei residui.

Programmazione giornaliera

In alcuni sistemi di pascolamento che prevedono il confinamento della mandria/gregge per più giorni nella stessa area l’unica decisione a questo riguardo può riguardare l’anticipo (posticipo) dell’utilizzo della parcella successiva. In altri sistemi (pascolo libero, pascolo guidato, pascolo razionato) la programmazione giornaliera può essere più complessa. Il caso dell’utilizzazione estensiva di pascoli naturali mediante percorsi di pascolo guidato, tipica del pascolo caprino, rappresenta un esempio di notevole complessità dei programmi giornalieri di pascolo (vedi cap.).
Le decisioni riguardano: la durata del soggiorno degli animali in determinate aree, il numero di aree utilizzate nell’ambito della giornata dagli animali, la durata complessiva del pascolamento, la quantità (e qualità) di fieno e/o concentrati da somministrare ad integrazione del pascolo.
Tali decisioni tengono conto delle condizioni atmosferiche, del comportamento degli animali, dell’entità dei residui, dalla produzione (nel caso del latte).


Capra intenta a pascolare Festuca varia


I sistemi di mungitura nell’ambito dei sistemi pascolivi

Le operazioni di mungitura condizionano fortemente l’organizzazione del pascolamento. La tendenza alla riduzione della fatica e la rarefazione della manodopera spingono a cercare soluzioni che consentano l’esecuzione della mungitura meccanica. Non sempre queste soluzioni appaiono, però, favorevoli dal punto di vista dell’utilizzazione del pascolo e della produttività degli animali.

Tabella. Sistema di mungitura al pascolo
Mungitura a mano  sul pascolo;
 presso il centro aziendale, la casera o le stazioni d’alpeggio
Mungitura a macchina  mungitura a macchina alla posta nella stalla (con carrello di mungitura, linea del vuoto fissa e secchi o lattodotto);
 sala di mungitura
 mungitura sotto tettoie con linea del vuoto fissa:
 mungitura sul pascolo con sistemi mobili

La mungitura a mano veniva in passato eseguita anche nelle zone meno accessibili del pascolo utilizzando poi sistemi di trasporto sulla persona (brente munite di cinghie) o il trasporto animale. In passato, spesso, le bovine venivano legate a dei picchetti, pratica che risultava necessaria nelle zone declivi. Oggi si tendono ad utilizzare per la mungitura a mano le zone più comode, a pendenza moderata e facilmente raggiungibili con automezzi in grado di trasportare i bidoni di latte.
In questo modo si aumenta il tempo di permanenza delle mandrie nelle aree di riposo determinando trasferimenti di fertilità che favoriscono la diminuzione di qualità del pascolo. Un addetto è in grado di mungere 6-9 capi/ora.

La mungitura meccanica quando è eseguita mediante impianti fissi presso la casera impone lunghi trasferimenti al bestiame, determina l’accumulo di deiezioni all’interno dei ricoveri e in prossimità dei fabbricati contribuendo allo sviluppo della flora nitrofila e sottraendo fertilità alle aree di pascolo a maggior distanza dal centro aziendale. Se la mungitura è eseguita alla posta vi sono notevoli perdite di tempo legate all’entrata e all’uscita degli animali e all’attacco e distacco dalla posta.
L’utilizzo dei vecchi stalloni d’alpeggio si rivela notevolmente gravoso quando vengono adattati per la mungitura alla posta. E’molto difficile la somministrazione del mangine dal momento che la mangiatoia cui sono attaccati gli animali corre lungo la parete del fabbricato (non vi è una corsia di alimentazione laterale). Anche le operazioni di rimozione delle deiezioni sono gravose. In compenso gli animali sono tranquilli durante le operazioni di mungitura. E’ possibile mungere 10-15 capi/ora.

Questi perditempo sono ridotti in caso dell’utilizzo di una vera sala di mungitura più o meno rudimentali. A volte una tettoia è attrezzata con una linea del vuoto senza particolari strutture per la movimentazione e il contenimento delle vacche in mungitura; in altri casi è presente una fossa di mungitura e dei rudimentali battifianchi in legno. In tutti questi casi si utilizzano mungitrici a secchio e si può arrivare ad una produttività di 20-40 capi/ora.

In diversi alpeggi (specie in Svizzera, ma anche in Trentino e in Valtellina) sono state realizzate delle vere e proprie sale di mungitura con impianti a “spina di pesce” o a “tandem”. Questi impianti hanno un significato economico quando il periodo d’alpeggio è lungo (>90 giorni) e dove le aree di pascolo non presentano forti dislivelli e risultano dislocate entro una breve distanza dal centro aziendale che, idelmente è collocato al centro dei pascoli. Trattasi di una condizione molto rara nei pascoli alpini. La Malga Sperimentale “Juribello” della Provincia Autonoma di Trento (gestita dalla Federazione Allevatori di Trento), che è provvista di una moderna sala di mungitura, a partire dal 2002 introdurrà un sistema di mungitura mobile, scelta effettuata in base alla constatazione che le aree più lontane dal centro aziendale stanno subendo, nonostante un carico di bestiame più che adeguato, un degrado progressivo per l’invasione del Rododendro e di altre arbustive mentre le superfici in prossimità della sala di mungitura (dove si svolge il pascolo notturno) presentano una forte infestazione da Rumex alpinus nonostante la lotta condotta contro questa essenza negli anni passati. Un elemento decisivo a favore dell’impianto di nuove sale di mungitura presso le casere è costituito anche dalla difficoltà di ammortamento degli investimenti (considerata la scarsa utilizzazione nell’arco dell’anno degli impianti).

I sistemi di mungitura mobile stanno incontrando sempre di più il favore dei tecnici. Le motivazioni sono da ricercare nei segienti vantaggi:

 Possibilità di adozione di sistemi di pascolo turnato o razionato con il mantenimento della mandria giorno e notte all’interno della medesima parcella e possibilità di regolare agevolmente il carico istantaneo in funzione delle esigenze di recupero e buon mantenimento della qualità del pascolo;
 Drastica riduzione degli spostamenti della mandria con conseguente limitazione della spesa energetica per la locomozione e la riduzione dei fenomeni di sentieramento ecc.;
 Riduzione dei tempi di sosta presso i dintorni della casera (o dei fabbricati delle stazioni d’alpeggio o di mungitura) con una conseguente migliore gestione delle restituzioni di fertilità;
 Riduzione dei tempi di lavoro (trasferimento della mandria, spargimento delle deiezioni accumulate durante la mungitura e l’attesa presso gli impianti fissi di mungitura).

I sistemi di mungitura mobile presentano costi molto più contenuti di una sala di mungitura (da 20 a ) e quindi il loro costo può essere ammortizzato molto più facilmente. La loro utilità è però maggiormente evidente laddove esistono le seguenti condizioni:

1. Ampia superficie di pascolo specie se distribuita lungo un asse longitudinale (come nel caso di una vallata);
2. Dislivelli altimetrici di una certa importanza;
3. Viabilità interna;
4. Disponibilità di acqua.

Il requisisito 3. può non risultare necessario se si utilizzano mezzi semoventi (trasporter) o sistemi portati dalla trattrice agricola. Il requisito 4. può non risultare necessario se l’impianto mobile è dotato della sola linea del vuoto e si utilizzano mungitrici a secchio che possono essere lavate presso la casera.

Nella scelta di un sistema mobile oltre alle condizioni sopra indicate è necessario tenere conto delle seguenti caratteristiche:

 Costo contenuto;
 Facilità di spostamento del sistema;
 Riparo efficace dalla pioggia;
 Facilità di cattura e di liberazione degli animali;
 Possibilità di separazione delle bovine in attesa da quelle già munte;
 Possibilità di somministrazione di concentrati;
 Comfort del mungitore e della bovina durante le operazioni di mungitura.

Di seguito vengono analizzate le caratteristiche dei diversi sisemi, i loro pregi e difetti e l’ambito di impiego.


Tabella
Tipologie di sistemi di mungitura mobile per bovine utilizzabili sui pascoli
Caratteristiche Vantaggi Svantaggi
Sistema semovente: attrezzatura montata su transporter Utilizza un mezzo a trazione integrale (15-30 kw), 6-8 poste; molti modelli
17 vacche/ora Mobilità;
Facilità di posizionamento;
Superamento di forti pendenze (>60%) Impiego esclusivo del mezzo;
Ritmo di lavoro ridotto;
Scomodità addetti
Intelaiatura metallica autoportante con poste e mangiatoie dotata di ruote (trainabile) peso : 0,7-1,0
lunghezza: 6-8 m
larghezza: 2-2,5 m
3-4-6 poste
20/vacche/ora Costi contenuti;
Discreta mobilità;
Buon contenimento bovine; mobilità limitata per pendenze elevate (>35%);
Scomodità addetti
Sala di mungitura su ruote (carro con pianale) Peso: 2-3 t
Larghezza: > 7 m
33 vacche/ora
6-8 poste
sistemi a spina semplice, spina doppia o a tunnel Comodità addetti;
Buona osservazione bovine in mungitura;
Velocità di lavoro elevata Necessità di disporre di una trattrice di elevata potenza per il traino;
Scarsa mobilità;
Permanenza in sito per periodi lunghi e degrado cotico



Tabella. Altri sistemi mobili di mungitura.
caratteristiche vantaggi svantaggi
Telaio metallico con poste senza ruote spostato da una trattrice agricola; si utilizza il sollevatore idraulico varie Scomodità di lavoro;
Lunghi tempi di attacco e distacco;
Rischio di danneggiamento del cotico
Sistemi rudimentali: le vacche sono legate ad un carro o ad una rastrelliera dove passa la linea del vuoto varie Non necessita di forti investimenti Scomodità di lavoro;
Lunghi tempi di attacco e distacco;
Mancanza riparo dalle intemperie;
Sistema portato da motocarriola 2 o 4 poste Economico, Limitate poste, scomodità di lavoro, non adatto a lunghi spostamenti
Carro a due ruote trainato da motocoltivatore Economico, buona mobilità Scomodità di lavoro
Sistema portato dalla trattrice agricola; si utilizza la presa di forza della trattrice Sistemi a 4 poste
Peso: 0,1-0,15 t
Buona mobilità;
Evita il danneggiamento del cotico Limitato numero di poste;
Ridotta capacità di lavoro;
Impiego esclusivo della trattrice;
Scomodità di lavoro;
Lunghi tempi di attacco e distacco;




La possibilità di utilizzare un sistema di mungitura mobile rappresenta una condizione importante per un migliore utilizzo del pascolo sia sotto il profilo zootecnico che agronomico. La ridotta disponibilità di manodopera e l’esigenza di operare in condizioni di lavoro meno disagevoli, sempre più sentita dal personale più giovane, hanno determinato l’introduzione di sistemi di mungitura meccanica utilizzando dove disponibili gli stalloni o le penzane.
Gli inconvenienti di tali sistemi sono evidenti. Nel caso la mandria trascorra la notte nel ricovero (eventualità più frequente nelle alpi site a quote più elevate), si determina carico di lavoro importante per il rinnovo della lettiera e per lo spandimento del letame a fine stagione. Una conseguenza molto negativa dal punto di vista delle prestazioni zootecniche degli animali è rappresentata dalla mancata utilizzazione del periodo serale e notturno per l’attività di pascolo, attività che, normalmente si protrae sino alle 9.30-10.30 (ora solare). Considerando che il pascolamento sui pascoli alpini è caratterizzato da una bassa velocità di ingestione del foraggio e che quindi il tempo complessivamente dedicato all’attività di pascolo rappresenta un fattore limitante ....., la riduzione dell’accesso al pascolo nelle ore serali delle vacche in lattazione è da considerare in modo estremamente negativo. Solo in caso di condizioni meteorologiche tali da ostacolare il pascolamento il ricovero notturno può risultare favorevole in termini produttivi. Nelle altre circostanze l’effetto del calo della temperatura notturna (per quanto effettivo anche in condizioni climatiche normali) non assume verosimilmente entità tale da compensare l’effetto del ridotto periodo di pascolamento.
Nei casi in cui la mandria viene condotta sul pascolo per trascorrervi la notte gli inconvenienti sono due: 1) si allungano i percorsi giornalieri (dislocamento orizzontale e verticale) con un conseguente aumento delle perdite energetiche legate all’attività di locomozione, 2) il personale è costretto a recuperare la mandria (che nei sistemi di pascolo libero può raggiungere anche zone di riposo alle quote più elevate dell’alpe) al mattino presto allungando il tempo di lavoro e aumentando i disagi.

Stime del fabbisogno energetico per la locomozione

UFL per lo spostamento

k*s*PV / 7113 x 1000

k = 2 (joule) per la componente orizzontale
k = 28 (joule) per la componente verticale
s = spostamento in metri
PV = peso vivo dell’animale (kg)


Struttura spaziale del sistema di pascolo

boccata proiezione sul terreno dell’area della boccata (cm2)
postazione di pascolo l’area di pascolo utilizzabile dall’animale senza muoversi piccola scala
unità di pascolo area omogenea dal punto di vista vegetazionale entro la quale l’animale pascola muovendosi solo con piccoli spostamenti senza bisogno di riorientarsi

area di pascolo
(feeding area, secteur) l’insieme di unità di pascolo spazialmente contigue ed eventualmente delimitate da ostacoli fisici allo spostamento del bestiame

settore (stazione) di pascolo
(Eng. camp, Fr. quartier) insieme di aree di pascolo con in comune punti di abbeverata o aree di riposo grande scala
pascolo può essere composto da uno o più settori in funzione dell’estensione


In montagna il settore di pascolo comprende aree di pascolo utilizzate durante una data epoca e caratterizzate dalla stessa altitudine il fattore che più di ogni altro condiziona la precocità della vegetazione e l’epoca di sfruttamento con il pascolo. La suddivisione in stazioni è legata ad un calendario di pascolamento definito che gli allevatori locali conoscono molto bene.

Unità di pascolo e area di pascolo rappresentano dal punto di vista scientifico e gestionale gli elementi più importanti

L’unità di pascolo è definita da caratteri omogenei (altitudine, esposizione, configurazione del terreno, pietrosità, visibilità, natura del suolo, accessibilità, produttività, caratteristiche botaniche

La divisione in aree di pascolo in montana risponde principalmente alla delimitazione da parte di ostacoli fisici: torrenti, ghiaioni, pareti o creste rocciose, frane, boscaglie dense. In ragione della loro estensione, tipo di vegetazione e accessibilità le aree di pascolo possono essere più o meno eterogenee al loro interno.

Il valore dal punto di vista della gestione pastorale delle aree di pascolo dipende oltre che dalle caratteristiche di accessibilità, produttività, pendenza ecc. anche dalla loro posizione in relazione alle aree di riposo diurno, aree di pernottamento, saliere, punti di abbeverata, passaggi obbligati, chôme.

Sistemi (metodi) di pascolamento

Pascolo turnato (a rotazione) Prevede il confinamento per periodi di più giorni in parcelle delimitate da recinzioni. Il turno (in giorni) corrisponde alla durata del periodo che intercorre tra un ciclo di utilizzo e il successivo ed è uguale a T = (n-1)t, dove t = periodo di permanenza in una singola parcella e n = numero di parcelle in cui è suddiviso il pascolo. Nei pascoli di pianura e di collina a produttività omogenea la superficie di ogni singola parcella e la durata di permanenza possono essere uguali. Nei pascoli a bassa produttività ed eterogenei l’ampiezza delle parcelle e/o il numero di giorni permanenza normalmente sono variabili. Le recinzioni possono essere mobili o fisse.
Pascolo razionato E’ un sistema di pascolo confinato in cui gli animali restano all’interno della parcella per un giorno o una parte di una giornata. Viene realizzata con recinzioni mobili.
Pascolo al picchetto Sistema tradizionale di pascolo razionato in cui un singolo capo è legato ad un picchetto mediante una fune e che consente all’animale di pascolare entro il perimetro della circonferenza il cui raggio è pari alla lunghezza della fune.
Pascolo guidato Prevede la presenza di un pastore che conduce la mandria/gregge attraverso aree di pascolo utilizzate in successione nel corso della giornata.
Pascolo libero Gli animali hanno accesso all’intera superficie del pascolo senza limitazioni spazio-temporali.
Pascolo pilotato I pastori si limitano ad avviare la mandria/gregge verso alcune aree di pascolo ed, eventualmente a spostarla nel corso della giornata senza esercitare il controllo continuativo sul pascolamento.
Sistemi misti Solitamente si caratterizzano per una differenza tra la gestioen del pascolo diurno e di quello notturno. Mentre, ad esempio, gli animali possono pascolare liberamente durante il giorno, nel periodo notturno possono venir confinati in aree non lontane dal centro aziendale in modo da evitare ai pastori l’impegno della ricerca della mandria e del suo trasferimento verso la zona di mungitura qualora non si effettui la mungitura sul pascolo

Gestione del pascolo turnato

Il pascolo turnato consiste nella suddivisione della superficie pascoliva disponibile in parcelle di produttività simile in cui gli animali restano confinati per un mumero limitato di giorni. Oltre che a tenere conto della produttività la suddivisione in parcelle non può non tenere conto delle necessità di approvvigionamento idrico, punti di ombreggiamento, aree di riposo, accessibilità con mezzi meccanici, posizionamento dell’impianto di mungitura mobile ecc.
Nei terreni pianeggianti o a modesta declività la facile accessibilità di ogni area del pascolo e la distanza relativamente ridotta dal centro aziendale consentono l’utilizzo di carri-botte per la fornitura dell’acqua d’abbeverata e di strutture trainate provviste di rastrelliere e tettoia per la distribuzione di integrazioni alimentari. Si deve tenere presente che nei sistemi di pascolo in cui gli animali restano all’aperto anche durante la notte è necessario prevedere, specie nel caso di ruminanti in produzione lattea, la possibilità di distribuzione al pascolo sia di concentrati che di fieno. Quest’ultimo è necessaria sopratutto in primavera quando l’erba è povera di fibra, acquosa e ricca di proteine.
I parametri tecnici per la gestione del pascolo turnato sono i seguenti:



Tabella. Parametri tecnici per la gestione del pascolo turnato
Parametro Descrizione
t Tempo di soggiorno degli animali nella singoa parcella (giorni)
T Turno = tempo tra due successive utilizzazioni della medesima parcella (giorni)
N Numero di parcelle (n)
s Superficie della singola parcella (m2)
S Superficie totale del pascolo (m2)
C Cicli di pascolamento (n)
P Periodo di pascolo (giorni)
q Fabbisogno giornaliero alimentare di un singolo capo (UFL, UFC, kg s.s.)
Q Produttività del pascolo (UFL/ m2, UFC/ m2, kg s.s./ m2)
K Coefficiente di utilizzazione del pascolo (%)
A Carico animale, numero di capi componente la mandria/gregge (n) (UBA)
UBA= Unità Bovino Adulto, UFL = Unità Foraggera Latte, UFC = Unità Foraggera Carne (o Cavallo)

E’facile osservare che l’applicazione dei parametri tecnici del pascolo turnato presuppone l’omogeneità del pascolo dal punto di vista della produttività e della qualità. Si tratta di presupposti che non sono certo presenti quando la morfologia del terreno determina variazioni importanti delle caratteristiche del pascolo anche nell’ambito di superfici limitate in ragione della diversità di radiazione solare (a sua volta determinata dalla pendenza e dalla presenza di coni d’ombra), di umidità, fertilità (anch’esse direttamente o indirettamente legate alla morfologia del terreno). Anche in terreni pianeggianti o lievemente ondulati, però, i parametri del pascolo turnato possono variare in funzione della stagione e dell’andamento metereologico. Il fattore che risulta normalmente variabile è la lunghezza del turno. Quest’ultima è minore nel periodo tra la primavera e l’estate quando la produttività è elevata e si riduce nel periodo autunnale. Da cicli di utilizzazione primaverili di 20-40 gg si può passare a cicli di 40-60 gg. La differente lunghezza del turno è compensata dall’affienamento di alcune parcelle nel periodo di massima produttività del pascolo. Tale procedura consente di utilizzare il surplus di produttività del pascolo per la creazione delle scorte di foraggio conservato per l’inverno o, in generale, per il periodo di deficit di produttività pascoliva. In un sistema pascolivo stanziale che non prevede forme di estivazione o transumanza degli animali la possibilità di equilibrare il potenziale foraggero con la potenziale animale senza ricorrere all’acquisto di foraggi dall’esterno è legato sia alla sincronizzazione tra la produttività vegetale e animale (epoca di parto, messa in asciutta) che alla possibilità di differire con l’affienamento l’utilizzazione del foraggio.

La durata del turno è in funzione sia della produttività del pascolo che della specie animale utilizzata. La produttività del pascolo è influenzata dalle precipitazioni e dalla loro distribuzione, dalla temperatura, dalle concimazioni. La specie animale condiziona la lunghezza del turno in funzione dell’altezza ottimale del cotico., ossia l’altezza che massimizza la velocità di ingestione per unità di tempo e che minimizza lo spreco per calpestamento e allettamento da parte degli animali in decubito. In base a quanto osservato sulle caratteristiche anatomiche delle diverse specie vi è una differenza non solo per quanto riguarda l’altezza minima di utilizzo, ma anche per quella ottimale che, nei piccoli ruminanti è pari a 7-12 cm e, per il bovino intorno a 17-20 cm. I turni saranno quindi più brevi nel caso di pascolo di ovini e caprini e più lunghi per i bovini. Data la produttività del pascolo e la specie animale utilizzata che condizionano T i parametri che possono variare sono t e N. La scelta di tempi brevi di permanenza è legata alle considerazioni circa il vantaggio conseguibile in termini di k riducendo la durata del periodo. Quanto minore è il periodo a disposizione degli animali quanto meno sarà possibile esercitare la selezione. Avendo a disposizione grandi superfici e utilizzando la medesima area per parecchi giorni gli animali utilizzano inizialmente le essenze più appetite tralasciando quelle meno gradite la cui maturazione nel frattempo può determinare un ulteriore riduzione di appetibilità. Se nel caso di pascolo razionato (periodo di permanenza ≤ 1 g) o di periodi di pochi giorni il coefficiente di utilizzazione da parte di vacche da latte può essere pari al 70% nelle stesse condizioni scende al 50% in caso di lunghi periodi di permanenza. La scelta del periodo di permanenza nella singola parcella è legato anche alla specie utilizzata. Nel caso di ovini e caprini da latte (specie più selettive) la necessità di operare per periodi molto brevi è superiore se si vogliono ottenere k del 50-60%.
Naturalmente va tenuto conto della minore o maggiore facilità di realizzazione delle recinzioni nelle date condizioni operative e anche della minore o minore facilità di risolvere i problemi legati alla necessità di assicurare in ogni parcella punti di abbeverata, ombreggiamento, riposo. Una volta considerati questi aspetti, e quindi fissato N (o t) i parametri risultano come dalle seguenti formule:

T = (N-1)t
N = T/t +1
t = T/N-1

Le considerazioni di cui sopra valgono nel caso sia stato già stabilito, sulla base della produttività del pascolo e di una data disponibilità di superfici di pascolo il numero di animali (carico di bestiame)

A = Q*S*P/q*k

o, viceversa, dato il numero di animali stabilita la superfice da destinare al pascolo.

S = A*q*P/Q*k

Può risultare utile anche verificare in base alle condizioni date (S, A, Q, q, k) la durata del periodo di pascolo. Essa infatti in caso di carico animale elevato o di bassa Q (per esempio carenza idrica) può risultare inferiore al periodo stagionale potenzialmente utile per il pascolamento.

P = S*Q*k/A*q

P = S*Q*k/A*q

Gestire l’eterogeneità del pascolo

Nelle condizioni del pascolamento estensivo su pascoli naturali e semi-naturali l’eterogeneità del pascolo può essere molto accentuata. In montagna questa eterogeneità è accentuata; basti pensare all’effetto dell’esposizione, delle pendenze e delle variazioni di pendenza sulle condizioni di umidità del terreno e quindi sulla composizione floristica e la produttività. Anche in un sistema di pascolo libero o con suddivisione in grandi settori o stazioni di pascolo, come avviene nella maggior parte dei casi sui pascoli alpini, la conoscenza della struttura spaziale del sistema pascolivo può consentire di prevedere la distribuzione spaziale del carico di pascolo al fine della introduzione di accorgimenti o di pratiche di governo del bestiame atte ad ottenere una migliore utilizzazione delle superfici. I fattori che determinano la distribuzione spaziale degli animali pascolanti sono legati alle caratteristiche del cotico (struttura, produttività, qualità nutrizionale del foraggio) ma anche ad aspetti morfologici e topografici. La distanza, i dislivelli da superare per raggiungere un’area di pascolo, le asperità del terreno, la pendenza, la presenza di aree di riposo (caratterizzate da superficie piana e la possibilità di ombreggiamento), la vicinanza a punti di abbeverata, la posizione relativa ai percorsi tipo effettuati dagli animali, condizionano l’utilizzabilità da parte degli animali delle superficici pascolive.
L’esperienza o l’osservazione consentono di conoscere la struttura spaziale del pascolo e di intervenire per rimuovere i fattori che limitano o impediscono il pieno utilizzo della produttività potenziale. L’intervento più comune a questo proposito riguarda i trasferimenti del gruppo di animali che vengono effettuati dai pastori. Spesso invece di lasciare agli animali la scelta delle aree di pascolo verso le quali dirigersi sono i pastori a guidare il gruppo sino alle zone di pascolo o sino a punti da cui essi non possono che proseguire verso determinate aree. I pastori utilizzano questo metodo per migliorare l’utilizzo delle aree più decentrate del pascolo o quelle il cui utilizzo implica il superamento di tratti di terreno accidentato che gli animali spontaneamente non effettuerebbero.
I trasferimenti oltre che a far dirigere al mattino il gruppo di animali al pascolo verso determinate aree di pascolo diurno possono essere effettuati nel corso stesso della giornata quando il pastore valuta che sia necessario stimolare l’attività di pascolo. Oltre a trasferire gli animali i pastori possono intervenire aumentando i punti di abbeverata sia fissi (fontane, pozze di raccolta dell’acqua piovana) che temporanei (parziali sbarramenti di corsi d’acqua per creare dei punti di facile abbeverata realizzati con pietre e terra, utilizzo di vasche in plastica facilmente spostabili e derivazione dell’acqua mediante tubi flessibili in materiale plastico). Sempre nell’ambito dei miglioramenti del pascolo rientra la creazione di piste in grado di far superare agevolmente agli animali dei tratti di terreno accidentato, la realizzazione di punti d’ombra mediante piantumazioni o tettoie. Gli animali gradiscono anche la presenza di strutture che consentano loro di esercitare agevolmente l’attività di self-grooming mediante sfregamento contro palizzate. Tra i vari mezzi per rendere più frequentati settori di pascolo altrimenti trascurati dagli animali uno dei più facili da realizzare è quello delle saliere realizzate mediante rulli o semplicemente sistemando il sale pastorizio tra delle rocce, sotto dei massi in modo da evitare il dilavamento e favorire una utilizzazione graduale. Gli allevatori hanno a disposizione anche un altro mezzo per condizionare il comportamento al pascolo: la selezione. Gli elementi del comportamento (ritmo di boccata, tempo di pascolo, selettività) sono influenzati dal tipo genetico. E’ possibile che gli schemi di comportamento al pascolo siano caratterizzati da una elevata ereditabilità (). La selezione a favore di animali con attitudine ad utilizzare in modo più uniforme il pascolo, se esercitata nell’ambito degli animali “leader” potrebbe risultare efficace anche tenendo conto che non sono emerse correlazioni genetiche tra questo carattere e le attitudini produttive. Non si può escludere, però, che la selezione a favore di “leader” con buona attitudine ad utilizzare il pascolo più uniformemente venga almeno in parte controbilanciata dalla possibilità per i soggetti collocati nei bassi livelli della scala gerarchica di accedere più facilmente alle zone di pascolo più appetibili dalle quali erano precedentemente esclusi dai soggetti dominanti.

Comportamento al pascolo e gerarchie sociali

Nei bovini parrebbe che i soggetti “leader” che nell’ambito della mandria occupano regolarmente le posizioni alla testa del gruppo durante gli spostamenti seguiti dai soggetti “follower”. I soggetti che occupano i gradini più bassi della scala gerarchica si collocherebbero invece tra gli “indifferenti” meno connessi con la mandria. Nel caso dei caprini i soggetti “leader” non sembrano coincidere con i dominanti. Alla guida del gregge si alternano solitamente diverse capre mature. Nel caso dei caprini, che manifestano una spiccata capacità selettiva tanto da essere collocati nella categoria dei “browser” (o meglio dei “semi-browser”) e che appaiono più delle altre specie domestiche in grado di sfruttare le formazioni vegetali più disparate entrando spesso in contatto con essenze diverse, parrebbe che l’esperienza rappresenti una dote particolarmente importante.

Comportamento al pascolo

Il comportamento degli animali al pascolo è in gran parte riconducibile alla selettività con la quale gli animali utilizzano le risorse disponibili e che consiste nella capacità dell’erbivoro di utilizzare un foraggio con un valore nutritivo superiore a quello medio del pascolo. La selettività si esplica a diversi livelli della struttura spaziale del pascolo. Gli erbivori di piccola taglia sono in grado di operare meglio la selettività a livello della più piccola unità di pascolo selezionando anche tra singole piante erbacee presenti nel cotico e anche tra singole parti botaniche (foglie, geme, rametti, infiorescenze, culmi). I grandi ruminanti per esercitare la selettività devono ricorrere di più allo spostamento. Nella seguente tabella (Bullock e Amstrong, 2000) vengono riportate alcune caratteristiche salienti del comportamento alimentare delle diverse specie.






Tabella. Caratteristiche di comportamento alimentare al pascolo delle diverse specie
Specie Modalità di utilizzo Selettività Classificazione Altezza ottimale cotico pascolato (cm) Altezza minima cotico pascolato (cm)
Bovino Strappa con la lingua bassa pascolatore 8-12 2,5-3
Ovino Morso/taglio elevata Pascolatore/brucatore 6-7 1-1,5
Capra Morso/taglio elevata Brucatore/pascolatore 6-7 1-1,5
Cavallo taglio moderata pascolatore 1,5-2
Asino taglio moderata pascolatore 1,5-2
Maiale scavo Scavatore/pascolatore/brucatore


Bisogna aggiungere che le differenze tra tipi genetici all’interno della specie sono spesso importanti nel determinare il comportamento al pascolo. Gli ovini di piccola taglia, per esempio, possono essere assimilati alle capre per quanto riguarda selettività e attitudine al brucamento; i ponies, qiando confrontati con gli altri cavalli appaiono maggiormente in grado di utilizzare materiali vegetali lignificati e le essenze arboree ed arbustive.



Fattori che determinano il comportamento alimentare

Il comportamento alimentare dipende sia dalle caratteristiche dell’animale sia da quelle della pianta

Caratteristiche legate alla pianta Caratteristiche legate all’animale
• accessibilità (altezza, spine)
• facilità di manipolazione (area fogliare, flessibilità, morfologia fogliare, disposizione foglie sul culmo o sul ramo)
• presenza di fattori antinutrizionali e tossici
• contenuto di energia digeribile e, secondariamente, di proteine, minerali. • caratteristiche anatomiche
• stato fisiologico
• stato di riempimento del digerente
• stato corporeo (riserve lipidiche)
• bilancio idrico
• livello metabiliti ematici e tossine
• esperienze alimentari precedenti (palatabilità, repulsione)

Le differenze di tipo anatomico influiscono sulla diversità di modalità di utilizzazione del pascolo da parte delle diverse specie. La diversa mobilità e dimensione dell’apparato boccale del bovino rispetto ai piccoli ruminanti, la presenza degli incisivi superiori negli equini (che determina la modalità di taglio dell’erba e, quindi l’utilizzo del cotico di ridotta altezza) rappresentano fatti molto evidenti. Un’altra differenza tra grandi e piccoli ruminanti è legata al fatto che il volume dei prestomaci aumenta proporzionalmente alla taglia dell’animale (peso vivo = P.V.) mentre il metabolismo (e quindi i fabbisogni di mantenimento) aumentano secondo il fattore P.V.0.75.
Ciò spiega perché gli animali di taglia meno elevata sono tendenzialmente costretti ad essere più selettivi.
Meno evidenti ma altrettanto importanti sono altre differenze anatomo-fisiologiche quali il diverso sviluppo dei vari comparti dell’apparato digerente, la velocità di transito intestinale ecc. Basti pensare come la minor efficienza nutrizionale delle fermentazioni dell’intestino crasso (colon e cieco) rispetto a quelle ruminali costringa gli equini a trascorrere molto tempo (circa 18 ore al giorno) rispetto ai ruminanti (che pascolano sino al 60% del tempo giornaliero).

Il comportamento al pascolo comprende sia il comportamento alimentare che il comportamento spaziale. La selettività si esprime sia nella scelta tra le piante o parti di piante disponibili nella postazione dove l’animale si trova in un determinato momento, ma anche dalla sua dislocazione spaziale. Da questo punto di vista oltre ai fattori legati alle caratteristiche della pianta e dell’animale (e alla loro interazione) risultano importanti anche i seguenti fattori:

Caratteristiche legate alla pianta Caratteristiche legate all’animale
• abbondanza relativa e assoluta nell’ambito di una unità/area di pascolo • esperienze di pascolo precedenti (informazioni spaziali e temporali relative alla presenza delle essenze)
• posizione dell’animale all’interno del gruppo

Dal punto di vista delle interazioni tra comportamento alimentare e comportamento sociale non si deve dimenticare che oltre ad una gerarchia intraspecifica (all’interno del gruppo di animali della stessa specie) al pascolo possono determinarsi anche dei rapporti interspecifici per la presenza di più specie; in questo caso l’accesso alla risorsa alimentare può essere condizionato dai rapporti di dominanza che si instaurano tra le specie (per esempio i bovini risultano dominanti sugli ovini).
Oltre ai rapporti di dominanza tra specie diverse l’utilizzo del pascolo è condizionato anche per altri versi dalla presenza di più specie nella stessa area; basti pensare al rifiuto da parte dei bovini di consumare l’erba in zone pascolate o solo transitate dagli ovini.

Il risultato dei fattori che condizionano il comportamento al pascolo determina l’ingestione giornaliera (espressa in sostanza secca e unità di valore nutritivo), la qualità della razione (unità nutritive per kg di sostanza secca ingerita) e quindi in un apporto di principi nutritivi.
Da un punto di vista qualitativo il comportamento al pascolo si traduce anche in una determinata composizione botanica dell’insieme del foraggio ingerito che può essere espressa semplicemente dal rapporto tra graminacee, leguminose altre famiglie o dal contributo delle singole essenze alla ingestione giornaliera.

L’ingestione giornaliera è determinata dal tempo totale di pascolo (min./giorno) e dal ritmo medio di ingestione (g di s.s./min.) determinato dal ritmo di ingestione istantaneo durante tutti i cicli di pascolo. I fattori che influenzano l’ingestione giornaliera sono indicati nella Fig.


vedi presentazione PPT


Il ritmo di ingestione massimo è condizionato dalla taglia dell’animale ed equivale a 0,63 PV0,71 g/min. dove PV rappresenta il Peso Vivo in kg). Come si vede l’esponente dell’equazione è di poco inferiore al fattore 0,75 che definisce il peso metabolico.
Il ritmo di ingestione istantaneo è determinato da due elementi: peso (espresso come sostanza secca) della singola “boccata” e numero di “boccate” per unità di tempo. Sia il peso massimo della “boccata” che il ritmo di manipolazione del boccone aumentano in maniera proporzionale a PV0,7 (da PV0,67 a PV0,76 e PV0,70 rispettivamente). La capacità ingestiva massima aumenta quindi negli animali nella stessa misura in cui aumentano i fabbisogni energetici.
La struttura del cotico (che influenza sia il peso della boccata che la cadenza delle boccate) interagisce però con le caratteristiche anatomiche degli animali. Mentre l’area della aumenta nella stessa proporzione della massa corporea, la larghezza dell’arco incisivo (in mm) è pari a 8,6 PV0,36. Questo aspetto è molto importante poiché in presenza di un cotico alto la velocità sarà condizionata in presenza di un cotico alto pochi cm il volume (e quindi il peso) della boccata è direttamente proporzionale alla lunghezza dell’arco incisivo poiché la prensione è limitata ad una sottile banda di steli erbacei.
In queste condizioni i grandi erbivori sono ovviamente penalizzati. Queste differenze tra animali di diversa taglia sono legate all’area della boccata; la profondità della boccata, invece non pare influenzata dalla taglia dell’animale ma solo dall’altezza del cotico e risulterebbe sia per i bovini che per gli ovi-vaprini pari al 35% dell’altezza del cotico.

La penalizzazione dei grossi erbivori su pascoli con cotico basso o su pascolo aereo con essenze con lamine fogliari di ridotta dimensione o disposte in modo tale da non poter essere radunate con un unica boccata, dipende dal fatto che la riduzione del peso della boccata non può essere solo in parte compensato dall’aumento della sua cadenza. Questa dipende da un insieme di movimenti di prensione e di masticazione e di movimenti misti (prensione e masticazione) la cui frequenza trova dei limiti nelle caratteristiche anatomiche che limitano il numero massimo di movimenti mandibolari per unità di tempo. Una ridotta massa dei bocconi (cotico basso o brucamento di foglioline , gemme ecc.) determina un rapporto sempre più sfavorevole tra movimenti mandibolari “utili” e quelli necessari alla prensione e manipolazione del boccone.
Nel caso della capra che è in grado di utilizzare le più svariate essenze erbacee, arbustive ed arboree è possibile riscontrare una grande differenza nel peso delle singole boccate (da 0,1 a 1,0 g s.s.) dove i valori più bassi si registrano per il pascolo erbaceo caratterizzato da cotico basso e per arbusti con foglie di ridotte dimensione e per di più “protette” da spine (biancospino) mentre i valori superiori si osservano per il frassino seguito dal castagno. La morfologia delle foglie (semplici, composte, a pagina espansa o lineare) è ovviamente molto importante nel determinare la dimensione del “boccone”. Nell’utilizzare le foglie composte del frassino per esempio la capra non utilizza labbra e incisivi (“morso di punta”), ma “sfila” le foglie dal picciolo facendo passare la foglia composta di traverso alla bocca.
Per alcune piante arbustive (ontano verde, frassino, rovo) la velocità di ingestione istantanea nella capra è pari a 10 g s.s. /min. (pari alla massima teorica) mentre su pascolo erbaceo con cotico basso tale valore si riduce della metà (Corti et al., 1999). La relazione tra ritmo di ingestione e peso del boccone nell’ambito di questo studio è risultata pari a y = 4,90 + 5,57x, dove y è la velocità di ingestione (g s.s./min.) e x il peso del boccone (g s.s.).


Il peso della singola boccata condiziona pertanto il ritmo di ingestione istantaneo. Un basso ritmo di ingestione medio durante i cicli di pascolo può essere compensato da un aumento del tempo di pascolo totale. Questo però è soggetto a numerosi vincoli. Vi sono innanzitutto dei “tempi persi” legati alla gestione (trasferimenti per la mungitura, da e per le aree o i settori di pascolo); inoltre l’utilizzazione digestiva degli alimenti richiede che i bovini e gli ovi-caprini dedichino una parte importante del tempo giornaliero alla ruminazione. Vi è un tempo massimo di pascolamento giornaliero pertanto che non può essere oltrepassato. Considerando tutti questi elementi appare evidente come la struttura del cotico, la sua densità (intesa come superficie fogliare per unità di superficie del terreno) e, soprattutto la sua altezza condizionino la capacità dell’animale di ottenere dal pascolo una razione in grado di soddisfare le esigenze per il mantenimento e per la produzione. Appare quindi evidente l’importanza della scelta di destinare pascoli con caratteristiche differenti a diverse categorie di animali e, nell’impossibilità di disporre di pascoli con caratteristiche qualitative idonei alle categorie di animali allevati di operare le opportune integrazioni alimentari.
La scelta dei pascoli adatti alle diverse categorie di bestiame deve tenere conto anche altre delle caratteristiche che determinano l’ingestione quantitativa anche di quelle legate alla qualità del foraggio e, in particolar modo, al suo contenuto in energia digeribile. Dalla scienza dell’alimentazione dei ruminanti sappiamo che il fattore che più condiziona il valore energetico del foraggio è la presenza di carboidrati strutturali. Il parametro più utilizzato per predire il valore energetico dei foraggi qualora si disponga solo di una valutazione chimica è il contenuto in NDF.

UFL per lo spostamento

k*s*PV / 7113 x 1000

k = 2 (joule) per la componente orizzontale
k = 28 (joule) per la componente verticale
s = spostamento in metri
PV = peso vivo dell’animale (kg)



La gestione del pascolo caprino

L'allevamento caprino semi-estensivo si differenzia da quello intensivo per il diverso ruolo che l'alimentazione al pascolo riveste nei due sistemi. Nell'allevamento intensivo il pascolo è assente o di importanza marginale, in quello semi-estensivo rappresenta la chiave di volta del sistema. Nonostante questo scarse attenzioni sono prestate da tecnici ed allevatori al miglioramento e alla razionalizzazione delle tecniche di pascolo. Le tecniche di pascolo guidato, controllato o soltanto “pilotato” sono scarsamente utilizzate. Secondo una mentalità che, ancora una volta, non è certo quella dei vecchi caprai (personaggi oggetto di considerazione sociale nelle piccole comunità alpine e prealpine e dotati di una loro antica professionalità), le capre devono “arrangiarsi” e trovare “quello che c'è”. Senza una accorta “educazione” delle caprette da parte del capraio, senza l'applicazione di una regolarità nei tempi e nei circuiti di pascolo, senza l'ausilio di cani addestrati il pascolo diventa difficile e poco produttivo sia per le capre che per gli allevatori. Lasciate a loro stesse, senza “educazione”, in mancanza di una selezione che modifichi la struttura del gregge (a favore di “buone leader” e “buone pascolatrici”) i greggi caprini tendono a “camminare” eccessivamente a “perdere tempo” nella ricerca di un foraggio migliore che non c'è, si disperdono e vanno incontro ad una serie di inconvenienti. Oltre a questi aspetti che potremmo definire di “efficienza pascoliva” si devono tenere in considerazione anche quelli ecologici. Un pascolo “anarchico” non solo non consente alle capre di “riempirsi” ma porta ad una cattiva utilizzazione delle risorse foraggere potenzialmente commestibili e alla produzione di danni ambientali (sovrapascolamento, scortecciamento, compromissione della ripresa vegetativa delle piante, erosione, caduta di sassi, sentieramento ecc.).
L'applicazione di criteri tecnici al pascolamento è quindi nell'interesse degli allevatori sia dal punto di vista produttivo che da quello della possibilità di riconsiderazione di una normativa vincolistica (Reg. Forestale. Reg. Lombardia) che trova (parziale) giustificazione in forme di pascolo “anarchiche”.

Dove il pascolo caprino deve essere comunque escluso
-Formazioni boschive di alto fusto disetanee dove si verifica, almeno in teoria, una rinnovazione continua nel tempo e nello spazio messa a “rischio” dall'accessibilità delle giovani piantine al morso degli animali;
-Formazioni boschive di alto fusto coetanee sia nella fase iniziale che in quella finale in cui deve essere garantita la rinnovazione se questa avviene in modo naturale, ciò vale anche dove si intenda intervenire con tagli a raso;
-Cedui semplici o matricinati coltivati, laddove i polloni non abbiano raggiunto uno sviluppo in altezza e diametro tale da non essere danneggiati dal pascolamento;
-rimboschimenti e rinnovamenti artificiali.
Oltre alle considerazioni circa la struttura e le essenze presenti nella formazione forestale va ovviamente tenuta in considerazione la densità della medesima. Tante più radure vi sono all'interno del bosco tanto più il bestiame riuscirà ad alimentarsi con piante erbacee ed arbustive e tanto più utile per l'animale e meno dannoso per il bosco risulterà il pascolamento.
Altre zone che devono essere evitate sono quelle dove vi è forte presenza di turisti che può provocare dispersione e persino smarrimento di soggetti poichè specie i capretti seguono le persone e non riescono a ritrovare la strada del ritorno al gregge o alla stalla. Ovviamente devono essere teunute lontane le capre da orti e giardini nella prossimità dei centri abitati.

Alimenti complementari al pascolo (tipo di fieno e di concentrato) (capre)

Contrariamente a quanto ritengono alcuni il pascolo non rappresenta un sistema di sfruttamento “primitivo” delle risorse foraggere in grado di fornire solo modeste produzioni. Come abbiamo visto le capre sono in grado di mangiare molto e di scegliere bene il loro alimento. Se la produzione lattea durante il periodo stallino invernale è elevata grazie all'utilizzo di buoni fieni e di concentrati quando le capre saranno condotte al pascolo, e consumeranno gradualmente sempre più foraggio verde, saranno in grado spinte dall'elevato fabbisogno di alimentarsi abbondantemente e di mantenere elevate produzioni. Spesso si assiste anche al “recupero” di produzione quando si portano le capre sul pascolo. In tal caso però la produzione non potrà essere così elevata come sarebbe stata se in stalla le capre avessero ricevuto energia sufficiente. Con l'impiego prevalente del pascolo come risorsa alimentare si possono tranquillamente ottenere produzioni di 600 kg di latte durante la lattazione sempre che vi sia una adeguata integrazione (mediamente 0,4÷0,6 kg di concentrato). Normalmente gli alimenti concentrati utilizzati come integrazione sono costituiti da cereali (meglio se schiacciati) poichè, almeno nei nostri ambienti, è difficile che nei foraggi di pascolo (erbaceo, arbustivo ed arboreo) vi sia una carenza di proteine. Alcune essenze come l'ontano, ma anche l'erba di pascolo di alta montagna sono molto ricche in proteine tanto che durante l'estate in alpeggio la situazione tipica è rappresentata dall'eccesso di proteine, in queste condizioni il foraggio può anche essere ricco di zuccheri fermentescibili e potrebbe essere opportuno sostituire ai cereali come integrazione energetica degli alimenti ricchi di fibra facilmente digeribile (polpe di bietola). Non risulta normalmente opportuna una integrazione con concentrati ricchi di proteina (come quelli utilizzati per le vacche da latte) in quanto non farebbe che aggravare lo squilibrio alimentare. Bisogna anche tenere conto che gli spostamenti sul pascolo determinano un considerevole aumento dei fabbisogni energetici mentre non influenzano quelli proteici. I fabbisogni più importanti sono quelli rappresentati dagli spostamenti verticali ossia dai dislivelli altimetrici. Con percorsi in piano di 2-4-6 km i fabbisogni energetici di mantenimento aumentano rispettivamente del 5-10-15%, mentre molto più marcato è l'aumento che si registra con un dislivello di 200 m. (+30%) e ancor più di 800 (+60%). In situazioni di alpeggio nelle alpi orobiche l'aumento del fabbisogno risulta superiore del 50% il che significa 1 kg di latte! Ciò significa che le capre che in alpeggio, senza alcuna integrazione, producono 3 kg di latte al giorno una quantità di energia sufficiente a produrre 4 kg in stalla. E' sufficiente questa osservazione per apprezzare l'importanza quantitativa e qualitativa dell'apporto con il pascolo e quanto sia preziosa questa risorsa.

In conclusione di questo capitolo ci sembra utile riportare alcune testimonianze raccolte dalla viva voce della gente di montagna che assumono, a nostro avviso, un valore altrettanto importante di tante disquisizioni tecniche .

“Una volta nella montagna c’erano i sentieri, si poteva passare dapertutto, adesso ci sono le piante. Una volta c’erano i sentieri, li tenevano puliti, passavano capre, passava gente. Li teneva puliti la gente, anche le capre fanno i sentieri “


“Una volta passavo su un monte, e sui monti le capre vanno via la mattina e tornano la sera. Quando nel mese di agosto vanno su sotto i ghiacciai a mangiare quell’erba buona, alla sera non tornano”

“La capra rovina il bosco se è giovane, quando il bosco è su alto, poco ci può fare. Quando il bosco è formato la capra non fa niente. Tanti anni fa la Forestale ha levato le capre, adesso danno le sovvenzioni. Prima le capre tenevano pulito, le capre mangiano le spine; adesso sui sentieri della Forestale, sulle mulattiere dopo due anni non si può più passare.”


“Le capre si tenevano perché mangiavano lo strame che adesso rimane nei boschi, ogni famiglia ne aveva”

p 74 M.T. di Prestinè (Arigna) classe 1909 raccolta il 2.12.79 da A. Dell’Oca e D. Benetti

 




I vantaggi ecologici del pascolo estensivo

Tab. Confronto tra sistemi pastorali e zootecnici intensivi in montagna

SISTEMI PASTORALI SISTEMI ZOOTECNICI INTENSIVI
usi complementari delle diverse fasce territoriali utilizzo squilibrato del territorio
• protezione ambientale
• mantenimento biodiversità • impatto ambientale negativo (specie azoto)
• perdita di diversità biologica
• usi ricreativi
• riproduzione cultura tradizionale • abbandono dei versanti e alta quota
• perdita diversità culturale


I sistemi di alimentazione degli animali di interesse zootecnico basati sul pascolo non sono di per sè “ecologici”. Il pascolo può determinare impatti negativi sull’ambiente sia in sistemi intensivi che espensivi. Il pascolo su terreni leggeri (come nella zootecnia da latte olandese) comporta perdite di azoto per lisciviazione dei nitrati a causa dell’urinazione (in stalla si avrebbe, però, perdita di ammoniuaca nell’atmosfera). Nei sistemi pastorali estensivi in aree aride il pascolamento può determinare desertificazione. In Brasile l’allevamento estensivo basato sul pascolo è realizzato a spese della distruzione della foresta pluviale.

La trattazione seguente tiene conto della realtà di molte aree europee interessate a forme di abbandono dell’attività agricola.

Da qualche anno a questa parte si è andata consolidando sul piano scientifico la convinzione che i sistemi di pascolo estensivi svolgano un ruolo positivo sugli equilibri ecologici e che il loro mantenimento sia preferibile alla situazione che si verrebbe a creare a seguito dell’abbandono di ogni attività pastorale. Le evidenze scientifiche indicano come la conservazione della maggior parte degli habitat degli spazi aperti (e anche di diversi habitat boschivi) sia legata all’attività di pascolamento secondo i tradizionali metodi estensivi. Da queste considerazioni discende il sempre più frequente utilizzo di programmi ambientali che prevedono l’impiego del pascolo come strumento di una gestione ambientale finalizzato alla conservazione o alla reintroduzione di singole specie o di biocenosi e, più in generale per mantenere particolari ambienti. Se, da una parte, la riduzione o l’abbandono di sistemi di pascolo intensivo rappresenta una opportunità, il declino dei sistemi di pascolamento estensivi rappresenta un pericolo per la qualità dell’ambiente (Bullock e Amstrong, 2000). In alcuni paesi negli ultimi anni si è molto diffuso l’utilizzo del pascolamento con animali domestici come mezzo per gestire la copertura vegetale e conseguire determinate obiettivi ecologici. Tra questi paesi si segnalano il Regno Unito, l’Olanda e la Francia mentre l’Italia appare in forte ritardo. Le ragioni di tale ritardo possono essere in parte spiegate con le differenze climatiche ma dipendono in gran parte da fattori politici e culturali (illustrati in altre parti del testo).


A favore dei sistemi pastorali vi è la loro capacità di creare e mantenere delle condizioni che soddisfano al requisito di una buona stabilità dell’ecosistema. A prescindere dai pascoli ricavati al di sopra del limite superiore della vegetazione arborea (dove le formazioni vegetali spontanee sono costituite da essenze erbacee) anche nei piani inferiori un pascolo estensivo può determinare l’instaurarsi di formazioni vegetali seminaturali (antropoclimax). Il valore ecologico di queste formazioni naturali è legato al fatto che con il pascolamento si afferma la presenza di un elevato numero di specie vegetali ed animali (macro e microfauna) ossia di un buon indice di biodiversità. La stabilità ecologica delle formazioni vegetali risultanti da una lunga e continua utilizzazione pascoliva è dimostrata dal fatto che, spesso, l’evoluzione vegetazionale dopo l’abbandono è piuttosto lenta mostrando i suoi effetti (solitamente negativi) a distanza di anni quando diventa difficile il recupero. Alle formazioni vegetali corrispondenti ad un raggiunto e sufficientemente stabile equilibrio ecologico legato al pascolamento corrispondono dei biotopi antropo-zoogenici che possono contribuire efficacemente al mantenimento di specie animali e vegetali rare e minacciate.

Dal momento che l’evoluzione della copertura vegetazionale in conseguenza dell’abbandono delle utilizzazioni pastorali può essere valutata positivamente solo quando l’insediamento del bosco avviene in tempi rapidi e che le foreste, sull’Arco Alpino (ma non solo) hanno già rioccupato molte delle superfici più adatte al loro ritorno (quelle, per intenderci, “rubate” dall’uomo con il disboscamento delle quote intermedie tra il fondovalle e la zona degli alpeggi) non deve sorprendere che negli “Orientamenti.per una agricoltura sostenibile.” si affermi che

“agli effetti del mantenimento della biodiversità non è auspicabile un ulteriore avanzamanto della foresta a danno dei pascoli”

L’affermazione che il problema attuale non sia rappresentato dalla difesa della foresta dal pascolo ma dalla difesa del pascolo dalla foresta assume portata storica considerando che la scienza e la politica hanno sostenuto negli ultimi due secoli una accanita polemica a favore dell’estensione delle zone boscate.
Siamo di fronte quindi ad un problema culturale.

Alla “svolta” si è pervenuti grazie alle osservazioni scientifiche rese possibili dalla presenza nella montagna europea di ambienti dove l’abbandono del pascolamento data da ormai da molti anni.

“... la forte eterogeneità morfologica, geologica e climatica del territorio italiano determina una notevole variabilità floristica e vegetazionale dei fascoli e dei prati, per i quali risulta quindi assai complicata una valutazione generale dell’evoluzione in atto, e Studi e sperimentazioni eseguite negli ultimi anni in differenti contesti ambientali italiani e stranieri, permettono però di intravedere degli effetti tendenzialmente svantaggiosi in questa dinamica che, eccetto laddove venga favorito il rapido reingresso del bosco, porta spesso al degrado del cotico erboso e alla formazione di tipologie vegetazionali di modesta ricchezza floristica e dal destino evolutivo interno. In particolare si è osservata la contrazione delle superfici aperte pascolive, la riduzione del valore pastorale (unità di misura della qualità e della produttività del cotico erboso), la semplificazione e la banalizzazione delle risorse, con conseguenti riduzioni di produzioni di foraggio, erosioni genetiche e abbassamento dei livelli di biodiversità, peggioramenti paesaggistici, compromissione di habitat di animali selvatici.”


Prima di addentrarci nei diversi aspetti che inducono gli ecologi e i conservazionisti a valutare positivamente la presenza del pascolo estensivo conviene anteporre qualche considerazione di carattere generale. L’idea che la natura lasciata a sè stessa pervenga alla condizione di un equilibrio “ottimale” tra specie vegetali e tra vegetali ed animali si scontra con la constatazione che i fattori che in natura consentono di pervenire a questa condizione e di mantenerla (incendi e alluvioni) non sono compatibili con l’esistenza di una vita sociale organizzata. Anche presupponendo una totale deantropizzazione del territorio montano, eventualità del tutto negativa dal punto di vista sociale, le conseguenze degli eventi catastrofici sui territori densamente abitati a valle risulterebbero comunque disastrose per i territori popolati a valle. In condizioni naturali gli erbivori selvatici rappresentano un fattore di stabilità dell’ecosistema. Anche in questo caso, però, il forte aumento delle popolazioni di ungulati selvatici sull’arco alpino (caratterizzato per la parte centro-occidentale da una vera e propria reitroduzione spontanea) ha messo in evidenza i limiti di una soluzione esclusivamente “naturalistica” dei problemi di equilibrio ecologico dei terrirori alpini. E’facile constatare che se da una parte l’abbandono delle attività agropastorali in quota e, sopratutto, sui versanti, ha ampliato l’habitat di questi selvatici, d’altra parte la consistenza delle loro popolazioni risulta fortemente limitata dalla riduzione degli ambienti adatti a fungere “da quartieri invernali”. L’antropizzazione del fondovalle (insediamenti residenziali, industriali, terziari, infrastrutture) e la bonifica agricola di terreni un tempo caratterizzati da vegetazione boschiva riparia e soggetti a periodiche esondazioni limita le risorse trofiche e gli spazi invernali per questi animali. La dimostrazione è data dalla necessità di provvedere con alimentazione invernale di soccorso o, secondo gli orientamenti più recenti della gestione faunistica, alla predisposizione di “coltivazioni a perdere” necessarie per impedire l’aumento dei già rilevanti danni alle colture arrecati dai cervi. E’evidente quindi che solo un ragionevole equilibrio tra specie erbivore domestiche e selvatiche può risolvere il problema dell’equilibrio tra bosco e superfici erbacee. Nell’ambito di questo equilibrio deve essere rimarcato come la presenza del pascolamento degli erbivori domestici mantenendo l’alternanza di fasce boscate e di pascoli ed impedendo la chiusura delle formazioni boschive può contribuire ad aumentare le risorse trofiche di cui gli ungulati selvatici attraverso due meccanismi: 1) aumento della “frangia” tra superfici dove il bosco è stabilmente insediato e le superfici a vegetazione erbacea (dove la varietà di vegetazione erbacea e arbustiva consente di reperire materiale vegetale edibile anche in diverse fasi stagionali); 2) disponibilità di ricacci erbacei primaverili ed autunnali nel sottobosco e nelle radure boschive.
Questi meccanismi favoriscono la soluzione del problema del reperimento alimentare nella cruciale fase primaverile e tendono a controbilanciare efficacemente la potenziale concorrenzialità tra erbivori domestici e selvatici durante il periodo estivo quando, come già accennato, le risorse trofiche sono al culmine della disponibilità.
L’evoluzione dei pascoli in seguito all’abbandono delle attività pastorali comporta delle successioni di formazioni vegetazionali che possono variare sia per la durata che per l’esito del processo evolutivo. L’idea che all’invasione da parte delle essenze arbustive succeda inevitabilmente una formazione boschiva secondaria è da ritenere decisamente semplicistica (Hopkins, 1996).
In funzione delle condizioni pedologiche e ambientali (scarsa fertilità, umidità), della capacità di competizione e inibizione da parte del cotico erboso nei confronti dell’invasione arborea, l’affermazione di una bosco può essere più o meno rapida e condurre o meno ad una formazione in grado di rinnovarsi naturalmente e di garantire una funzione protettiva, estetica e dove le circostanze lo consentono anche economica. Dove la fertilità del suolo è scarsa gli arbusti, avvantaggiati dalle ampie riserve di fosforo e di azoto dei loro grossi semi sono avvantaggiate rispetto alle graminacee che, essendo caratterizzare da semi di piccole dimensioni sono anche penalizzate dalla carenza idrica che ostacola l’utilizzo dell’azoto. In queste situazioni di scarsa fertilità e umidità, però, anche la crescita del bosco è difficile.

In molti casi il processo di affermazione del bosco esige molti decenni nel corso dei quali le formazioni arbustive o arboreo/arbustive tipiche di questa transizione caratterizzano un paesaggio che, sin dai primi stadi dell’invasione abustiva, manifesta una drastica riduzione della biodiversità, una scarsa qualità estetica, la difficile progressione sul terreno degli escursionisti, cacciatori, raccoglitori di funghi o essenze aromatiche (ma anche squadre anti-incendio), dove è facile l’innesco degli incendi boschivi e gravi le loro conseguenze. In alcune situazioni le formazioni boschive appaiono instabili (formazioni ecotonali) e soggette ad una trasformazione ciclica dove l’insediamento della vegetazione arborea non è accampognato dala capacità di rinnovazione e quindi di stabilità.
In queste condizioni l’insediamento di essenze arboree è limitato o comunque accompagnato dalla persistenza di un consistente strato arbustivo. Questo tipo di formazioni miste con forte presenza arbustiva rappresenta l’esito, oltre che dell’abbandono dello sfruttamento con il pascolo o della coltivazione foraggera, anche del degrado di coltivazioni arboree da frutto (castagneti) e di boschi cedui maggiore nel caso di superfici meno facilmente accessibili e più declivi. In altre situazioni questo tipo di formazioni boschive sono il risultato di misure di malintesa “conservazione ambientale” da parte di “piani di salvaguardia” adottati da “Parchi” e “Riserve naturali”. In queste condizioni si assiste ad un accumulo pericoloso di sostanza organica combustibile nello strato inferiore erbaceo e nello strato intermedio arbustivo. L’erba secca e il materiale accumulato negli strati inferiori possono costituire l’innesco allo sviluppo dell’incendio che la presenza dello strato intermedio arbustivo estende a tutto l’insieme della vegetazione con la conseguenza dello sviluppo di un “fuoco totale” che raggiunge elevatissime temperature. In queste condizioni il suolo subisce una forte alterazione con la formazione di uno strato impermeabile che riduce l’infiltrazione delle acque meteoriche aumentando il rischio di smottamenti.
Il ruolo del pascolamento nell’ambito delle formazioni boschive suscettibili a degrado e rischio di incendi e instabilità è molteplice:
• riduzione dell’accumulo di materiale combustibile negli strati inferiori;
• riduzione della massa arbustiva, solitamente molto appetita, a vantaggio della vegetazione erbacea;
• riduzione della vegetazione arborea degli strati più bassi grazie al brucamento dei rami più bassi (operato con particolare efficienza dalle capre fino a 1,8 m di altezza);
• facilitazione della decomposizione di materiale vegetale attraverso l’azione meccanica degli unghielli

Questi effetti non solo riducono (in modo più o meno efficiente in relazione alla massa raggiunta dalla vegetazione arbustiva) la biomassa potenzialmente combustibile ma creano una soluzione di continuità tra gli strati inferiori del profilo vegetazionale e quelli superiori riducendo la gravità delle conseguenze dell’incendio. Dal punto di vista più propriamente selvicolturale l’effetto di “pulizia” del sottobosco e la defogliazione dei rami più bassi delle essenze arboree nonchè l’eliminazione dei polloni possono favorire lo svettamento delle piante e l’evoluzione di boschi ad alto fusto o, quantomeno verso formazioni di maggiore qualità forestale e paesistica.

Questi interventi possono risultare come conseguenza “secondaria” di un’attività agropastorale ordinaria ma possono divenire oggetto di una vera e propria politica di difesa contro gli incendi in cui l’attività pastorale è finalizzata oltre che alla pulizia del sottobosco alla creazione e alla manutenzione di fasce tagliafuoco o altre zone finalizzate alla creazione di interruzioni della presenza di materiale combustibile e “fasce tampone” disboscate tra la foresta le strade di comunicazione e le superfici agricole da dove può originarsi l’incendio. Nel Sud della Francia questa strategia è attuata mediante diverse modalità che possono prevedere degli appositi contratti tra pastori e servizio anti-incendio. In alcuni casi sono stati realizzati nell’ambito di comprensori forestali nuovi allevamenti ovicaprini per meglio rispondere alle esigenze di questa politica di difesa dagli incendi boschivi.
Vale la pena rilevare che in ambito alpino l’esigenza di nuove strategie di lotta agli incendi boschivi pur interessando in modo più drammatico le Alpi marittime caratterizzate da un clima secco anche in altre aree dell’Arco Alpino durante la stagione invernale in assenza di precipitazioni e in assenza di manto nevoso gli incendi possono risultare di notevole estensione e gravità.

Anche in Lombardia è in corso un’esperienza pilota promossa dalla Comunità Montana Bassa Val Seriana con il sostegno della Regione Lombardia che consiste nell’utilizzo di greggi di ovini di razza Bergamasca (1.500 capi + 50 capre ciascuno) per il pascolamento di aree facilmente e periodicamente soggette all’incendio. L’obiettivo è principalmente quello dell’eliminazione del residuo paglioso (Molinia ssp.) che costituisce ai margini delle strade e delle boscaglie facile innesco al fuoco (sempre doloso) e il contenimento della vegetazione arbustiva. Questo “pascolo di servizio” è reso possibile grazie alla predisposizione di punti di abbeverata realizzati utilizzando i mezzi in dotazione delle squadre antiincendio ed è realizzato sia attraverso la mandratura (realizzazione di recinzioni dove il gregge sosta durante il giorno e riposa durante la notte).
Oltre al conseguimento dell’obiettivo principale la presenza del pascolo in funzione di prevenzione degli incendi ha dimostrato di svolgere una funzione positiva sulla biodiversità (aumento delle specie erbacee in seguito alla fertilizzazione anche laddove la Molinia presentava una copertura quasi totale, maggiore luminosità del sottobosco per il brucamento dei rami più bassi e insediamento di essenze erbacee anche laddove queste erano scomparse) e sulla di fauna selvatica (maggiore disponibilità di ricacci per la lepre). Come vantaggi “secondari” ma non certo trascurabili è migliorata la percorribilità dei sentieri e la fruibilità delle aree interessate per attività di raccolta funghi (maggiore penetrabilità e migliore possibilità di rinvenimento di miceli data la pulizia del sottobosco e l’eliminazione dei rami bassi.)

Oltre che la difesa dall’incedio un sistema di pascolamento estensivo può risultare positivo anche per la prevenzione di altri danni ambientali. Il pascolo (meglio se praticato utilizzando in modo complementare più specie animali) assicura una buona copertura vegetale che riduce la superficie di terreno denudata soggetta a dilavamento ed erosione. Tanto più il cotico è uniforme e fitto tanto più risulta attenuato l’impatto sul terreno delle acque meteoriche. Il pascolamento seleziona piante con fusti bassi, con buona capacità di ricaccio alla base e di sviluppo di stoloni. Questo favorisce un cotico denso e con un forte sviluppo superficiale dell’apparato radicale. Il pascolo, attraverso lo spargimento delle deiezioni tende a favorire la colonizzazione vegetale dei terreni nudi e aumentando lo spessore del terreno migliora la stabilità delle superfici, migliora la capacità di infiltrazione delle acque meteoriche, riduce la velocità di deflusso delle acque stesse.
Oltre all’azione di defogliazione delle piante erbacee e di spargimento delle deiezioni ricche di sostanza organica, il ruolo del pascolamento sul cotico erboso è legato anche all’azione meccanica dell’unghiello degli erbivori domestici. Esso consente di rompere e scalzare i cespi fortemente addensati di essenze come Nardus stricta che, non appetite dal bestiame ad eccezione che agli stadi fenologici precoci (a causa della silicizzazione delle foglie che le rende dure e taglienti) tendono in mancanza di competizione a sottrarre inevitabilmente spazio alle essenze foraggere. L’azione dell’unghiello favorisce anche la penetrazione dell’aria e dell’acqua nel terreno e quindi a favorire una maggiore varietà di specie rispetto a quelle tolleranti una situazione di relativa asfissia che può determinarsi quando lo strato superficiale tende ad essere occupato da uno spesso e inestricabile “feltro” di radici superficiali. Tra le azioni positive del pascolamento sul mantenimento di buone caratteristiche idrologiche del terreno risulta molto importante quella costituita dalla riduzione della necromassa. In assenza di pascolo o in presenza di sottopascolamento una grande quantità di residui vegetali (fusti, foglie) si accumula sul terreno impedendo il ricaccio nella stagione successiva di una buona parte delle essenze erbacee che in precedenza costituivano il cotico. Questo fatto risulta di particolare importanza in montagna a causa dell’effetto di compressione (allettamento) esercitato dalla coltre nevosa e dal fatto che, in concomitanza con l’abbando del pascolamento tendono a prevalere quelle essenze erbace ad elevato portamento (fino a 1-1,5 m di altezza) che sono favorite nella competizione per la luce. Tra le specie di graminacee ad elevato portamento che si rinvengono nei nostri ambienti alpini e prealpini troviamo: Molinia caerulea, Brachypodium pinnatum, Calamagrostis arundinacea, Deschampsia cespitosa, Arrhenatherum elatius. Con l’eccezione dell’Arrhenatherum che è essenza è tipica dei buoni prati falciabili le altre graminacee citate rappresentano essenze di mediocre o scarsissimo valore foraggero e sono indicatrici di una cattiva o insufficiente utilizzazione del pascolo. Nel caso della presenza degli animali pascolanti questo fattore competitivo delle essenze ad elevato portamento non aveva modo di estrinsecarsi ed anzi, come abbiamo visto, con il pascolo (specie ovi-caprino ed equino) tendono ad essere favorite le specie a basso portamento che sfuggono maggiormente alla defogliazione e tendono a svilupparsi orizzontalmente piuttosto che verticalmente contribuendo alla formazione di un cotico denso con ottimo grado di copertura del suolo.
Dopo l’abbandono del pascolamento, e prima dell’infiltrazione degli arbusti, alcune essenze ad elevato portamento possono occupare in modo quasi esclusivo ampie superfici, una volta mature vengono allettate dalla neve e, a primavera, il suolo si presenta coperto da uno strato paglioso estremamente scivoloso. Non a caso il tipo di copertura vegetale costituita dalle graminacee a portamento elevato ormai lignificate viene localmente definito nelle zone montane “paglione” .
Oltre a impedire il ricaccio tale strato risulta anche negativo per la stabilità delle masse nevose, per la velocità di scioglimento della neve, per l’infiltrazione dell’acqua. Questo materiale in caso di siccità è facile innesco di incendi a volte molto estesi e, inoltre, appare di difficile degradabilità (legata alla prevalenza della componente carboniosa e all’assenza dell’apporto di azoto con la fertilizzazione animale). Il problema dell’innesco degli incendi e quindi del “paglione” riguarda principalmente la Molinia e il Brachipodium, essente tipiche di ambienti secchi dal momento che la Deschampsia è tipica di ambienti tendenzialmente umidi. Il Molinieto (associazione di cui la Molinia caerulea può essere l’unica essenza presente) può essere presente in forma quasi pura su vaste pendici asciutte o sul piano culminale. Le caratteristiche della foglia della Molinia (larghe 3-10 mm, piatte e dure) favoriscono la formazione del “paglione” con gli inconvenienti connessi. Dal punto di vista dell’utizzazione foraggera si deve osservare che la Molinia nelle fasei precoci di maturazione è ben utilizzata dagli animali al pascolo (in particolare dai caprini) mentre il Brachipodium ha valore foraggero pressoché nullo. La Deshampsia, considerata una mediocre foraggera è utilizzata abbastanza bene prima della maturazione; in caso di carico di pascolo ridotto rimangono sul pascolo i cespi con le spighe mature con un effetto negativo dal punto di vista estetico e dell’uniformità della superficie del cotico che presenta caratteristici rilievi corrispondenti ai cespi di Deschampsia (con implicazioni negative per il sentieramento da parte degli animali e dello scorrimento delle acque nonché per la facilità di progressione dell’uomo).
Anche lo sviluppo di Nardus stricta, da luogo con la necrosi fogliare alla formazione di un tappeto di paglia grigia e scivolosa che presenta inconvenienti analoghi a quelli considerato nel caso di graminacee specie su ad elevato portamento. Nel caso del Nardeto l’effetto estetico negativo è legato al cromatismo e all’aspetto “arruffato” del cotico.
Il degrado del cotico in seguito alla cessazione del pascolamento è il risultato di diversi processi concomitanti. Uno dei più importanti è rappresentato dalla riduzione della fertilizzazione azotata operata dagli animali. Se è vero che una fertilizzazione eccessiva (come si riscontra in sistemi non razionali di pascolo e, molto spesso, nelle aree dove gli animali sono sottoposti alla mungitura) può portare ad una drastica riduzione delle essenze erbacee presenti che finisce per essere limitate a quelle con forte tolleranza per elevate concentrazioni di sostanze azotate nel terreno (Poa alpina, ortiche, seneci, aconiti, romici) è anche vero che una fertilizzazione equilibrata come quella garantita da un pascolo estensivo ma uniforme, assicura la presenza di un numero molto più elevato di specie che nel caso di sottopascolamento o abbandono. La trasformazione di buoni pascoli in nardeti è facilmente reversibile se con il ritorno del pascolo aumenta la disponibilità di azoto necessario per lo sviluppo di buone foraggere. Se però il sottoutilizzo o l’abbandono persistono si assiste ad una successione vegetazionale caratterizzata dalla presenza di specie arbustive e la reversibilità risulta ovviamente più difficile.
Il vantaggio ecologico del pascolo estensivo riguarda diversi aspetti: grado di biodiversità vegetale, grado di copertura vegetale del suolo e riduzione dell’impatto delle acque meteoriche, grado di infiltrazione delle acque, azione antierosiva dello strato radicale, formazione di humus (decomposizione più rapida dei residui vegetali per azione meccanica, fertilizzazion). In modo più o meno indiretto l’azione del pascolamento estensivo favorisce la presenza di specie selvatiche di mammiferi e di uccelli. La lepre e alcune specie di uccelli rappresentative della fauna alpina (in particolare la coturnice) vedono aumentate le loro risorse trofiche in relazione con l’azione del pascolamento che favorisce i ricacci di specie erbacee a forte appetibilità e digeribilità. Vedremo più avanti come l’azione di mantenimento delle superfici a copertura erbacea ed arbustiva giochi un ruolo fondamentale dal punto di vista della qualità dell’habitat dei grandi erbivori selvatici.
Tutto ciò si traduce in una complessiva qualità ecologica e paesistica del territorio che ha importanti implicazioni di ordine sociale ed economico. Prima di passare ad esaminare questo aspetto è importante soffermarsi sulle implicazioni economiche, ecologiche e sociali dell’ attività di prevenzione di disastri ambientali (alluvioni, frane, incendi) esercitata attraverso il pascolo estensivo. Si deve innanzitutto osservare che in considerazione della fortissima entità dei danni provocati dagli eventi calamitosi in esame anche una modesta riduzione della loro frequenza e virulenza (sicuramente ottenibile con un recupero delle attività agro-silvo-pastorali tradizionali) può tradursi nel risparmio di decine e decine di miliardi altrimenti sborsati per risarcimenti, lotta e prevenzione degli incendi, ripristino o ricostruzione di manufatti e infrastrutture danneggiate, opere idrauliche, opere di bonifica. Si consideri al di là dell’aspetto economico anche le implicazioni ecologiche delle opere e delle azioni di “difesa” messe in atto. Opere di cemento (di efficacia a volte discutibile e di durata comunque limitata) realizzate in quota con dispendio di uomini e mezzi (e con i relativi costi energetici), grandi quantità di kerosene e di gasolio bruciate dai mezzi anti-incendio (in un minuto un elicottero brucia oltre 3 l di carburante). Si pensi poi alle dotazioni e ai mezzi delle squadre anti-incendio che, anche quanto volontarie, devono avere costantemente a disposizione costose attrezzature (serbatoi, pompe, soffiatori ecc.), automezzi, tute ignifughe, caschi, al costo sistemi di rilevazione degli incendi. L’economia che ruota intorno al settore degli eventi calamitosi (imprese di costruzioni, progettisti, società di elitrasporto, produttori di attrezzature anti-incendio) rappresenta alimenta circuiti prevalentemente estranei al territorio e, fatto ancora più negativo, ha strumenti di lobbying efficaci per garantire la continuità di una politica che privilegi interventi costosi di lotta e ripristino rispetto ad una azione di prevenzione basata sull’incentivazione delle attività agro-silvo-pastorali con il coinvolgimento degli imprenditori agricoli locali.


(Reyneri et al. 2000). Il pascolo ovino con bassi carichi di bestiame è in grado di contenere la crescita delle essenze arboree invasive (Betula pendula e Populus treula) ma non risulta in grado di riudurre la presenza del popolamento. Pertanto la conservazione delle radure pascolive richiederebbe un’utilizzazione regolare e controllata attraverso sistemi di pascolo turnato mentre nel caso di recupero appaiono necessari i tagli sugli individui sfuggiti al pascolamento.
Cavallero et al. 2000) l’utilizzo di bassi carichi di bestiame non appare in grado di far regredire la flora arbustiva che invade i pascoli alpini (Vaccinium myrtillus, Arctostaphylos uva-ursi, Juniperus nana, Rhododendrum ferrugineum, Calluna vulgaris). Di queste specie una riduzione sensibile di copertura si è osservata solo per Vaccinium myrtillus, l’invadente più diffusa mentre per le altre specie è stato conseguito, comunque, un efficace contenimento. La brucatura ha interessato, però, solo Vaccinium myrtillus e Calluna vulgaris, che hanno un portamento, una consistenza ed una distribuzione che si avvicina di più alle essenze erbacee. Le altre essenze sono state comunque danneggiate e calpestate. Anche nel caso delle essenze utilizzate con la brucatura l’effetto del contenimentoappare più legato ad altre forme di danno poichè la brucatura non è mai stata severe con i carichi di pascolo adottati. Vaccinium uliginosus è stato efficacemente contenuto solo dagli equini.

(Lombardi e Cavallero, 2000) Sottolineano l’importanza di razionali pratiche di pascolamento al fine del contenimento dell’invasione dei pascoli da parte di infestanti arbustive. Il sistema di pascolamento influenza il grado di invasione arbustiva. Dove viene praticato il pascolo libero il fenomeno è più rilevante rispetto a dove si utilizza no delle recinzioni. La presenza di animali confinati per un lungo periodo giornaliero (compreso quindi il pernottamento) all’interno di determinate superfici riduce efficacemente la copertura delle specie invadenti poichè migliora la distribuzione delle restituzioni e aumenta la frequenza degli spostamenti alla ricerca del cibo con conseguente calpestamento. Tranne che in caso di evidente sottopascolamento, più del carico di pascolo risulterebbe importante il criterio di gestione del pascolamento adottato e, sopratutto, la gestione delle restituzioni.



Anche se, in generale il problema del sottocarico è maggiormente presente nell’ambito dei pascoli alpini non si deve dimenticare che localmente (alpeggi con buona accessibilità e con condizioni strutturali favorevoli alla trasformazione e commercializzaizone dei prodotti) possono presentarsi casi di degrado del cotico a causa di rottura del medesimo, sentieramenti, presenza di flora nitrofila. In questi casi come in quello più generalizzato dell’abbandono il grado di biodiversità tende a diminuire in relazione con l’evoluzione floristica riassunta nella Tabella. Da dove si ricava che le situazioni di equilibrio tra potenziale foraggero e carico di bestiame o di leggero sottocarico sono le più idonee anche a garantire la biodiversità vegetale.

Tabella. Rapporti fra livello di carico animale e specie che formano il cotico erboso
Sovraccarico Prevalenza di specie eliofile ed acidofile maggionnente resistenti al prelievo ed al calpestamento degli animali a danno di quelle meno adattate; comparsa di specie di reazione spinose e velenose, fino alla rottura del cotico erboso ed alla apertura di sentieramenti. Nei casi estremi il numero di specie tende a ridursi notevolmente.
Equilibrio Coesistenza di specie eliofile e sciafile, ma anche di specie nitrofile nelle aree maggionnente soggette ad accumulo di fertilità (in vicinanza delle stalle) e di specie arbustive nelle zone di più difficile accesso per gli animali. I livelli di biodiversità tendono ad essere piuttosto elevati in relazione alle caratteristiche stazionali (es: i pascoli su substrato calcareo sono maggiormente ricchi di quelli su substrato siliceo ).
Sottocarico Formazione di un cotico detto "a mosaico" per l'utilizzazione "a chiazze" (patch grazing) in cui aree abbandonate dagli animali ed invase da specie erbacee o legnose tipiche sono alternate ad aree sovraccaricate con evidenti fenomeni di accumulo di fertilità o di erosione del suolo. Questa coesistenza di situazioni, se non eccessivamente spinta, può pennettere un innalzamento dei livelli di biodiversità.
Abbandono Prevalenza delle specie legnose ed oligotrofiche a causa della riduzione delle deiezioni e della forte azione selettiva dei pochi animali pascolanti. La competizione per la luce dovuta allo sviluppo di piante di alta taglia (es. arbustive) e al continuo accumulo di lettiera, porta alla scomparsa delle specie eliofile, favorendo le piante sciafile. Nei casi estremi si possono avere situazioni molto compromesse con tipologie vegetazionali nettamente dominate da poche specie legnose (brughiera a Vaccinium(spp., Calluna vulgaris, Rhododendron spp., Erica spp.) o erbacee (Nardus stricta, Brachypodium spp., Festuca paniculata).
Sabatini e Argenti, 2001

Se la riduzione del carico entro certi limiti non compromette la biodiversità e altri aspetti della funzionalità ecologica del pascolo, la bassa utilizzazione comporta un effetto più marcatamente negativo sulla qualità del pascolo espressa dal rapporto composizionale tra essenze con buon valore nutritivo e quelle mediocre o scadenti dal punto di vista foraggero. Da un’indagine effettuata su 122 Alpeggi delle Alpi Occidentali e Centrali (Cavallero et al. 1977) è emerso come più della metà della superficie pascoliva fosse degradata, con il 32% di copertura arbustiva e il 22% di essenze erbace di scarso valore foraggero. Ciò è da ricondurre in misura variabile a modalità di gestione poco razionali, sottocarico o abbandono. Il raffronto tra i risultati di numerosi autori relativi a 14 diversi alpeggi relativi a qualità del pascolo e grado di utilizzazione (Sabatini e Aregenti, 2001) è piportato nella seguente Tabella che mette ben in evidenza la relazione tra diminuzione dell’intensità di pascolo e peggioramento del suo valore pabulare. Il sottocarico conduce frequentemente a situazioni a “mosaico” dove alle aree utilizzate (spesso anche intensamente) si alternano superfici dove penetrano essenze erbacee a scarso valore foraggero e essenze legnose (Festuca paniculata, Pteridium aquilinum, Brachypodium spp., Calluna vulgaris, Juniperus communis, Rhododendron ferrugineum, Vaccinium myrtillus ecc.). Una correlazione abbastanza stretta tra grado di utilizzazione del pascolo e Valore pastorale è stata rinvenuta da Savatini (1999) confrontando i risultati di diversi autori ottenuti in alpeggi dell’Arco Alpino. In buona misura questa riduzione è legata alla diffusione delle piante legnose che riducendo la quantità di radiazione solare incidente sul cotico favoriscono la penetrazione di specie sciafile di scarse qualità pabulari.
Relativamente al grado di utilizzaizone è interessante osservare la relazione rinvenuta da questo autore tra la percentuale di utilizzazione del pabulum stessa e la distanza dal luogo di ricovero notturno (nelle circostanze indagate ogni 100 m di distanza del punto del rilievo dal ricovero l’ utilizzaizone calerebbe del 10%). Queste considerazioni si collegano a quanto preso in esame nel capitolo sui sistemi di mungitura mobile (Cavallero et al., 1977).



Tabella Ripartizione percentuale delle superfici pascolive di diversa qualittà in 14 alpeggi di alta quota con il crescere del grado di utilizzazione
Malga Pascolo mediocre Pascolo invaso da arbusti Pascolo buono Livello medio di utilizzazione (%)
Chivion (Bl) 70 26 4 0
Drotelle e Chiastellin (Bl) 43 40 18 7
Manzina (So) 90 0 10 11
Meggiana (Vc) 19 81 1 12
Manzon (Bl) 70 30 0 14
Masucco (So) 74 17 9 18
Cecido (Bl) 62 37 1 20
Campobon (Bl) 35 58 7 23
Antola (Bl) 57 22 21 28
Londo (Bl) 34 12 55 32
Altumeira (So) 60 9 30 45
Dignas (Bl) 44 38 18 47
Venegiotta (Tn) 38 15 47 88
Valmaggiore (Tn) 19 0 81 94

Le indicazioni pratiche per una gestione conservativa delle superfici pastorali dell’Arco Alpino sono state illustrate da Lombardi et al. (2001):

 il controllo della vegetazione arbustiva è possibile anche con l’utilizzo di carichi ridotti anche se quello minimo efficace in funzione delle specie (ovini o bovini) e delle condizioni ambientali non può essere inferiore al 30-50%
 prevedere decespugliamenti localizzati ogni 4-7 anni (10-12 nelle aree a maggior quota);
 controllare i trasferimenti di fertilità evitando che si avvantaggiano le specie oligotrofiche (erbacee e, sopratutto, arbustive);
 utilizzare preferenzialmente sistemi di pascolamento a rotazione che consentono riducendo gli spostamenti degli animali e favorendo l’ottimizzazione del prelievo di erba, di realizzare elevati carichi istantanei e di limitare i trasferimenti di fertilità;
 in alternativa al pascolamento a rotazione prevedere un pascolamento guidato evitando il pernottamento presso le casere e indirizzando la mandria, anche mediante l’impiego di punti di richiamo (sale, punti di abbeverata, integratori), verso le aree degradate favorendo la regressione (sopratutto mediante calpestamento) delle specie invadenti;
 in caso di superfici particolarmente invase da flora arbustiva operare la mandratura (3-4 m2 /bovino/notte) o la stabbiatura (1,0-1,3 m2 /ovino/notte)


Il controllo della vegetazione arbustiva per mezzo del pascolo caprino

Numerose esperienze sono state condotte in altri paesi relativamente al controllo da parte delle capre di determinate essenze o di un insiemi di specie arbustive. L’interesse dell’utilizzo delle capre per queste funzioni è legato non solo alla spiccata preferenza per le foglie e le altre parti edibili delle essenze legnose, che rappresentano sempre una significativa componente della dieta anche in presenza di una buona disponibilità nel pascolo di essenze erbacee, ma anche alle particolarità comportamentali e alle caratteristiche anatomiche di questa specie e alla particolare tolleranza nei confronti di sostanze repellenti o antinutrizionali contenute in diverse specie di piante arbustive. Il consumo di ginepro (Juniperus communis) da parte delle capre può essere spiegato con una particolare capacità di detossificazione epatica delle sostanze (oli essenziali) di cui questa conifera è particolarmente ricca con azione potenzialmente epatotossica. Tale capacità sembra anche legata, entro la specie caprina, al tipo genetico (Pritz et. al, 1997).
L’efficacia del pascolo caprino nel recupero e nel mantenimento dei pascoli in presenza di flora arbustiva invadente è senz’altro superiore a quella di altre specie in ragione anche se rimane condizionata al alla produttività dei biotopi e al grado di infestazione. Nei pascoli collinari invasi da arbusti dei Monti Applachi negli Stati Uniti l’efficacia delle capre è risultata nettamente superiore a quella delle pecore (Magadlela et al, 1995). In un anno le capre avevano ridotto la copertura arvustiva dal 45% al 15% risultato che, con le pecore fu raggiunto solo dopo tre anni. I costi della rimozione della copertura arbustiva risultarono i seguenti:


Capre Pecore Taglio Erbicida
Costo ($/ha) 33 262 133 593

Nell’ambito delle essenze tipiche della macchia mediterranea la spiccata appetibilità per Cistus ssp. renderebbe possibile l’utilizzo delle capre per il controllo mediante metodi biologici di queste specie (Gomez Castro et al. 1992).
L’esempio di Cistus ssp. illustra, però, come le interazioni tra l’animale e il pascolo siano complesse e necessitino una accorta gestione. In presenza di Erica arborea nella macchia mediterranea le capre manifestano un comportamento di ricerca attiva di questa essenza, che tende quindi a rarefarsi, mentre la ridotta appetibilità relativa di Cistus ssp. non ne consente il controllo efficace con il pascolo (Lindberg et al. 1997). Nel caso di Erica arborea è stato messo in evidenza come il consumo di questa essenza sia in grado di consentire una elevata produzione lattea dal momento che si è verificato sperimentalmente come l’apporto di fibra, per quanto elevato, sia in grado di stimolare l’attività cellulosolitica, favorendo l’utilizzo dell’energia e la produzione di latte delle capre.
L’utilizzo delle capre per il controllo delle leguminose arbustive è stato proposto anche nel caso di Genista scorpius (Valderrabano e Torrano, 2000) al fine di ridurre i rischi di incendi nei rimboschimenti effettuati con Pinus nigra subsp. nigra nei Pirenei. I cespugli di Genista scorpius, infatti rappresentano un materiale combustibile molto pericoloso che può innescare anche l’incendio delle chiome e dare luogo all’incendio totale, aggravato dal carattere resinoso della conifera.
In questo studio è stato messo in evidenza come oltre al carico animale è importante valutare lo stadio fenologico più appropriato per il pascolamento. Le possibilità di sopravvivenza e il ricaccio delle gemme ascellari di scorta è significativamente diverso in funzione del periodo di pascolamento da parte delle capre. Nel citato lavoro di Valderrabano e Torrano (2000) la percentuale di sopravvivenza e di ricaccio delle piante di Genista scorpius risultavano pari, rispettivamente al 93% e 65% in caso di pascolo primaverile e del 58% e 32% con il pascolo autunnale.

L’utilizzo delle capre rappresenta un mezzo di lotta ecologico contro il cespugliamento e, in generale, l’invasione di essenze arbustive e spinose nell’ambito delle formazioni vegetali erbacee. L’utilizzo del pascolamento come mezzo di lotta contro le infestanti è interessante nell’ambito di gestioni naturalistiche (aree protette) dove i mezzi meccanici, e a maggior ragione quelli chimici, sono preclusi. Rahmann (1999) ha confrontato i costi del decescugliamento manuale di aree collinari della Germania centrale dove la cessazione da molte decenni del pascolamento ovino, in seguito alla diminuita redditività della lana, sta determinando l’invasione da parte di flora arbustiva di spazi aperti caratterizzati da rari biotopi antropo-zoogenici (quali Gentiano-Koelieretum) il cui mantenimento a fini naturalistici richiede interventi manuali di decespugliamento resi onerosi e costosi dalla forte pendenza delle superfici. Nelle condizioni della prova si è potuto verificare che l’intervento delle capre è comunque efficacie nei confronti della flora arbustiva (Viburnum opulus, Prunus spinosa, Cornus sanguinea, Rosa ssp., Frangula alnus) anche se la possibilità di eseguire il decespugliamento mediante il solo pascolamento è limitata alle situazioni dove la produzione di biomassa è più contenuta. Nelle situazioni più produttive l’intervento del pascolo quando complementare all’azione di decespugliamento manuale riduce i costi ad un terzo rispetto al solo intervento manuale. Al fine di ridurre i costi di manodopera è preferibile utilizzare carichi elevati per brevi periodi (due settimane).

In Italia l’efficacia dell’utilizzo delle capre per il recupero o il mantenimento di pascoli invasi dagli arbusti è stata verificata solo nel caso dell’ontano alpino (Corti e Maggioni, 2002) la cui elevata appetibilità da parte delle capre giustifica il loro impiego nel controllo di questa infestante altrimenti affidato a onerosi interventi di estirpazione. Nell’ambito di questo programma di ricerca gli autori hanno eseguito delle prove volte a verificare l’efficacia del pascolo caprino nella lotta all’Ontano verde (Alnus viridis) e alla Ginestra dei carbonai (Sarothamnus scoparius) . Si tratta di due tra le più importanti infestanti presenti in ambito alpino e prealpino, la seconda tipica dei versanti esposti a Sud e del piano montano inferiore rappresenta anche un elemento importante nell’innesco degli incendi che interessano in coincidenza con prolungati periodi di siccità invernale (come nell’inverno 2001/2002) l’area dei laghi lombardi e delle vallate prealpine.
La prova sull’Ontano (di cui una fase è già stata completata) ha messo in evidenza come i caprini siano in grado di praticare una defogliazione efficace degli arbusti. L’appetibilità dell’essenza in questione e il suo elevato valore nutritivo consentirebbero (grazie alla presenza di essenze erbacee in grado di equilibrare la razione) di mantenere le capre nell’ontaneto anche per periodi prolungati. La defogliazione dell’Ontano provoca il ricaccio della gemma di corta che, in presenza di un secondo ciclo di pascolamento, e quindi di defogliazione delle nuove foglie, potrebbe determinare l’esaurimento della pianta.
L’azione delle capre in caso di carichi elevati si esplica anche mediante scortecciamento. In seguito all’azione delle capre (che eliminano anche la flora erbaceo-arbustiva al piede delle piante costituita da lamponi e seneci) il taglio risulta facilitato. In caso di esaurimento delle piante l’azione di taglio risulterà risolutiva; nel caso di ricaccio il pascolamento delle ceppaie potrebbe comunque condurre ad un definitivo esaurimento.

L’efficacia del pascolo caprino in alternativa ad altri mezzi di recupero di superfici invase da flora arbustiva sembra condizionata da una serie di variabili che andrebbero attentamente valutate e che possono essere riassunte nello schema seguente:

 carico per unità di superficie;
 stagione/stadio fenologico delle essenze da controllare;
 diametro dei rami e rametti;
 appetibilità relativa ad altre essenze;
 penetrabilità della formazione vegetale;
 successione di cicli di defogliazione

Esperienze di utilizzo del pascolo con asini

Di notevole interesse appaiono le recenti esperienze di utilizzo del pascolo con asini per la gestione delle praterie di interesse naturalistico dell’ambiente insubrico. Tali esperienze avviate a metà degli anni ’90 sul Monte S.Giorgio nel Canton Ticino Moretti et al. (2001) hanno trovato seguito in Lombardia nell’ambito del Parco Naturale del Monte Barro. Attualmente (2002) anche il Parco del campo dei Fiori (ha manifestato interesse ad intraprendere analoghe inziative) L’obiettivo della gestione di queste praterie, che presentano una grande biodiversità vegetale e animale, consiste nella loro conservazione attraverso interventi di eliminazione selettiva delle specie-bersaglio responsabili dell’impoverimento floristico delle praterie stesse. Tali specie “indesiderate” nel Parco del Monte Barro (importante area protetta ricca di oltre 1000 specie vegetali compresi molti endemismi) sono rappresentate da Laserpitium siler (ombrellifera di grandi dimensioni), Carex humilis e Molinia sp. E, secondariamente, da Geranium samguineum, Rubus sp. e Pteridium aquilinum. Villa (2001). Gli interventi contro tali essenze effettuati a cura del Parco hanno compreso anche il diserbo selettivo (sia contro le essenze legnose che contro Pteridium aquilinum), intervento apparentemente in conflitto con le finalità e i criteri di gestione di un’area protetta ma significativo dell’importanza attribuita al valore della biodiversità da preservare. La gestione con gli asini si prefigge il controllo di Carex humilis, Molinia arundinacea e Laserpitium siler. Dal punto di vista dei costi degli interventi (anni 1998-2000) mentre quelli di decespugliamento sono risultati compresi tra 10 (intervento leggero) e 25 milioni di lire/ha e quelli di sfalcio intorno a 5 milioni/ha, il pascolo con gli asini ha comportato un costo di gestione (escluso l’acquisto degli animali, delle vasche d’abberata e dei recinti) di 1,3 milioni/ha.
Le esperienze svizzere indicano che l’introduzione del pascolo asinino in quanto modalità di gestione naturalistica favorisce nell’ambiente dei prati magri insubrici abbondanza delle specie di invertebrati mentre l’assenza di interventi porta all’impoverimento di questa presenza faunistica.

Confronto con la gestione con il pascolo (1994-1998) e l’assenza di intreventi in due aree del Monre S.Giorgio (TI)
Cat.invertebrati Numero di specie
Nessuna gestione
(loc. Paruscera) Pascolo biennale con asini in agosto (loc. Costa)
Prima
(1988-90) Dopo
(1998) Prima
(1988-90) Dopo
(1998)
Rapaloceri 55 31 17 22
Ragni 47 37 31 37

Pascolo di servizio in funzione paesistica, turistica, naturalistica.

L’impiego degli erbivori domestici nell’ambito di programmi di difesa dagli incendi boschivi rappresenta un esempio di una nuova dimensione dell’attività pastorale: il “pascolo di servizio”, attività che si caratterizza per l’assunzione da parte di finalità diverse dalla produzione di alimenti di un ruolo prevalente nella motivazione economica dell’attività pastorale stessa.
Il paese dove l’utilizzo del pascolo di servizio per la prevenzione degli incendi (mediante pascolo del sottobosco, pulizia delle fasce tagliafuoco ecc.) è più sviluppato è la Francia dove si è sviluppati veri e propri sistemi pastorali di servizio dove la nuova funzione è coniugata con la tradizionale transumanza tra le Alpi e la costa mediterranea o che prevedono il sorgere di nuovi allevamenti in contesti forestali (Balent, 1996). Tale attività trova esempio nei greggi utilizzati per la manutenzione del verde periurbano (Avogadri, 1999), delle piste da sci, delle aree di pertinenza aeroportuale (nelle aree di pertinenza dell’areoporto di Zurigo pascola da diversi anni un gregge di ovini da carne condotto da Mario Ziliani di Piancamuno- Valle Camonica. Sono diversi, ormai, gli esempi di pascolo di servizio realizzato per conseguire dei vantaggi mirati in termini paesistici e turistici. A Livigno (So) da diversi anni gli ovini di proprietà di numerosi allevatori part-time che nel corso della stagione invernale ricoverano gli animali nelle proprie stalle alimentandoli con il fieno da essi prodotto vengono radunati per costituire un gregge unico di diverse centinaia di capi affidati a pastori professionali che ricevono un compenso per il loro servizio di custodia da parte del Comune e sono incaricati di pascolare le superfici erbose della valle ed in particoalr modo quelle che i proprietari non sottopongono più a sfalcio.. All’Aprica, altra nota località di soggiorno estivo ed invernale in provincia di Sondrio, in assenza di un patrimonio ovino locale, il Comune dall’anno 2000 ha incaricato dei pastori di utilizzare con il proprio gregge transumante di pecore di razza Bergamasca le piste da sci e le superfici erbose nei pressi dell’abitato. Simili esperienze di pascolamento ovino finalizzato al mantenimento della qualità paesistica sono state avviate anche a Cortina d’Ampezzo.

Dal punto di vista della “filiera pastorale” queste iniziative assumono un grande significato: gli effetti positivi del pascolamento sull’economia turistica del territorio non rappresentano più solo esternalità (il cui riconoscimento è affidato agli economisti dell’ambiente e ai politici), un sottoprodotto quasi accidentale di un’attività ancora orientata alla produzione di beni alimentari, ma il prodotto principale, espressamente remunerato, dell’attività pastorale. Mentre gli albergatori bavaresi di () corrispondono un contributo agli allevatori perché continuino ad esercitare la loro attività nelle forme tradizionali (giudicate un elemento di attrazione turistica tanto importante da consigliare il “ristorno” agli allevatori di una parte quel “plusvalore” incassato dagli operatori turistici ma, in realtà prodotto dagli operatori zootecnici), nel caso del “pascolo di servizio” l’ente committente indica come, quando e dove deve essere svolta l’attività pastorale. Sia nel caso del pascolo anti-incendio che in quello di servizio ai fini turistici il tecnico esperto di sistemi zootecnici estensivi e pastorali deve assumere queste nuove “produzioni” come elemento cui adeguare e orientare il sistema di allevamento sino a tenere conto di queste “attitudini produttive” nella scelta dei tipi genetici e delle altre variabili che definiscono il sistema.
Un’esperienza interessante nell’ambito dell’utilizzo del pascolo ovino per la manutenzione e la cura dell’ambiente è rappresentata dall’iniziativa del comune di Dumegge in provincia di Belluno. Essa mette in evidenza come l’esigenza di garantire la cura del paesaggio e di contrastare le conseguenze negative dell’abbandono attraverso la pratica del pascolamento può condurre alla riattivazione di circuiti economici e persino rapporti di solidarietà che affrontano il problema della cura del territorio della comunità suscitando energie endogene e sviluppo autosostenibile. A Dumegge l’”estinzione” degli addetti al’agricoltura motivata dallo sviluppo di occasioni di occupazione e reddito negli altri settori produttivi (su 2.400 residenti ne erano state censiti solo due attivi nel primario nel 1991), ha determinato una serie di conseguenze sull’ambiente naturale: abbandono dello sfalcio dei prati, scomparsa del pascolo in alpeggio, avanzamento e abbassamento di quota del limite del bosco. Queste conseguenze, evidenti a tutta la comunità, hanno deteminato una sensibilità per la manutenzione dell’ambiente riconosciuto bene primario per la collettività e tale quindi da giustificare dei costi a carico della stessa. Interpretando questa sensibilità l’amministrazione insediata nel 1990 ha preso in esame la possibilità di affidare ad un’azienda agricola (che avrebbe dovuto necessariamente essere reperita fuori comune) l’incarico di eseguire lo sfalcio dei prati in prossimità dell’abitato. Questa soluzione è stata scartata per una serie di ragioni: i costi, l’esclusione delle superfici non suscettibili di sfalcio e raccolta meccanizzata, la mancanza di restituzioni. Venne esclusa per l’onere finanziario e gestionale anche la scelta dell’acquisto di un cantiere di sfalcio da parte dell’Amministrazione.
Si fece quindi strada l’idea di utilizzare i piccoli ruminanti reintroducendo il pascolo pratica da lungo tempo abbandonata. Dal momento che sarebbero stati utilizzati i fondi dei privati proprietari si procedette ad un referendum che diede per risultato una percentuale di favorevoli al progetto di pascolo ovino pari a 98,5%. Al fine della gestione del pascolo ovino è stata creata nel 1993 una cooperativa “Val di Toro” e nel 1994 venne acquistato un gregge di pecore Biellesi. Il gregge ha iniziato a praticare il pascolo primaverile ed autunnale nei pressi dell’abitato e alla metà di giugno sale alla Malga Doana da molto tempo abbandonata. Durante i primi due anni il fieno per il mantenimento del gregge è stato acquistato mentre nel 1996 si è deciso di acquistare un cantiere di sfalcio. La gestione del gregge ha comportato alcune problematiche dal momento che localmente l’esperienza di questo tipo di allevamento era da lungo tempo scomparsa. Le difficoltà sono state, però, superate e i vantaggi anche a livello della qualità visuale del paesaggio sono stati talmente evidenti da essere riconosciuti anche dagli scettici.


Aspetti economici

Le esperienze di “pascolo di servizio” in Italia, ma anche in altri paesi sono ancora troppo limitate per poter tratte conclusioni sulle condizioni economiche. Il sistema di pascolo che massimizza gli obiettivi ecologici può comportare un bilancio negativo tra costi di allevamento e introiti. Il deficit tende ad elevarsi quando il sistema comporta costi per i ricoveri degli animali e l’alimentazione nella stagione di riposo vegetativo e di condizioni climatiche severe. Da questo punto di vista, nell’ambito della situazione alpina e prealpina l’integrazione dei sistemi di pascolo di servizio entro lo schema del sistema di transumanza ovina può risultare sostenibile sotto il profilo economico più di quei sistemi che utilizzano capre e asini. In generale i sistemi di pascolo di servizio di tipo “stanziale” con la localizzazione dei costi e dei ricavi in capo ad una azienda agricola appaiono più gravosi (in termini di compensazioni economiche da erogarsi da parte di Enti) rispetto a dei sistemi transumanti (come quelli utilizzati in Francia nell’ambito della prevenzione degli incendi in Costa Azzurra) o “volanti” (fino all’esempio – letterale- dei greggi elitrasportati che negli Stati Uniti sono impiegati per la prevenzione degli incendi nei grandi parchi naturali). Nel caso degli asini e delle capre (in grado di svolgere una azione “mirata” di decespugliamento che può essere confrontata con i costi elevati di interventi meccanici) l’utilizzo di gruppi di animali da spostare sul territorio in una logica di valle o, comunque, di un comprensorio sufficientemente ampio, può massimizzare i vantaggi e compensare i costi di trasporto e di mantenimento invernale. Nell’ambito di interventi promossi da Enti territoriali (Comunità Montane, Parchi) o da Consorzi forestali la maggiore qualità dell’intervento rispetto a quello meccanico e il suo carattere ecologico possono ovviamente essere debitamente tenuti conto in sede di un bilancio costi-benefici.

L’animale “giusto”

Da quanto esposto emerge come il pascolamento estensivo delle diverse specie di animali domestici, utilizzate da sole o in modo complementare, può conseguire, a certe condizioni, determinati risultati. L’animale “giusto” è tale prima di tutto in funzione dell’obiettivo. Quest’ultimo può essere anche molto diverso: in alcuni casi si tratta di eliminare o contenere lo sviluppo di essenze arbustive o di determinate essenze erbacee, in altri di ripristinare e mantenere l’eteogeneità della vegetazione. Si tratta di conoscere le caratteristiche non solo delle diverse specie, ma delle razze e delle diverse categorie di animali (sesso, stato fisiologico). Al di là del comportamento del singolo animale, nel valutare l’idoneità di un sistema di pascolamento a conseguire determinati obiettivi ecologici, va tenuto conto anche del grado di aggregazione del gruppo (che può essere forte nel caso degli ovini e debole nel caso dei caprini ). Questo aspetto può comportare una forte diversità di impatto sulla vegetazione. Nel caso degli ovini l’effetto del calpestamento, determinato dall’avanzamento compatto del gregge, e la pratica della “mandratura” possono compensare la selettività alimentare. L’effetto sulla vegetazione prodotto dal pascolo di una determinata specie è anche funzione del carico di bestiame che, nelle situazioni di pascolo naturale (pascoli alpini, boscaglie, brughiere, terreni umidi) può essere molto variabile scendendo al disotto di 0,1 Uba/ha. Se alcune specie tendono con l’aumentare del carico di bestiame ad un’utilizzazione più uniforme del cotico, altre (equini) a causa del più spiccato rifiuto al consumo di foraggio entro le aree utilizzate per la defecazione, tendono a produrre un “mosaico” vegetazionale più facilmente all’interno di piccole superfici di pascolo confinato che in condizioni di pascolo estensivo.
Ovviamente l’animale “giusto” non dipende solo dalla vegetazione (specie, struttura) ma anche dalle caratteristiche di clivometria e pedologia del terreno.


Sistemi di pascolo e specie animali utilizzate

La valutazione positiva delle implicazioni ecologiche del pascolamento deve essere accompagnata da alcune necessarie considerazioni sulla differenza di impatto dei possibili sistemi di pascolamento. Questi sono caratterizzati da una maggiore o minore grado di intervento dell’uomo nell’organizzare i tempi e gli spazi disponibili per il pascolamento animale. Gli estremi vanno da sistemi in cui gli animali sono mantenuti per periodi brevi (qualche ora) all’interno di superfici delimitate (mediante reti o recinzioni elettrificate) a quelli in cui gli animali sono sottoposti solo ad una sorveglianza a distanza (magari a distanza di settimane o mesi) e in cui l’unico intervento umano consiste nell’apporto di sale pastorizio o di qualche “soccorso” alimentare. I sistemi del primo tipo non contraddicono il carattere pastorale del sistema di sfruttamento perché sono realizzati tradizionalmente anche sui pascoli alpini. Sistemi di questo tipo erano realizzati in passato utilizzando il pascolo sorvegliato o recinzioni realizzate in legno o murature a secco . In questi sistemi l’“intensività” era data dall’ingente impiego di forza lavoro e rispondeva all’esigenza di ottenere il massimo utilizzo delle risorse vegetali (in condizioni dove le culture alimentari non sono possibili) da parte dagli animali domestici elemento indispensabile per garantire fonti alimentari all’uomo nel contesto di ambienti difficili.
In questi sistemi pastorali alpini al fine di riservare le risorse migliori alle vacche lattifere e di dedicare alle altre diverse specie e categorie di animali (vacche da latte, manze, pecore e capre) le aree più adatte dal punto di vista vegetazionale e della morfologia del terreno era dedicato un grande impegno di risorse umane alla sorveglianza e al trasferimento degli animali. Ciò era possibile grazie alla disponibilità sugli alpeggi di varie figure professionali specializzate nella cura delle diverse categorie di animali e dalla presenza dei pastorelli. Oggi, in ragione della ridotta disponibilità di personale, queste pratiche sono ovviamente state abbandonate. Spesso ci si limita a separare il bestiame bovino confinando le manze in zone di difficile accessibilità o comunque nelle aree meno favorevoli (a motivo della pendenza, dell’insolazione o altro) dove è possibile esercitare un controllo saltuario. A volte nella stessa alpe sono ancora presenti bovini e caprini da latte e in questo caso ci si preoccupa di mantenere le capre nelle zone al di sopra o al di sotto dei pascoli. Spesso, però, alla compresenza di diverse specie e categorie di bestiame si è sostituita una specializzazione nell’uso delle alpi che ha portato ad utilizzare i pascoli già “caricati” con vacche da latte e altri tipi di bestiame esclusivamente con manze o vacche “asciutte”, ovini, caprini, o anche equini o bovini da carne. Questa scelta è stata dettata sia dalle crescenti esigenze nutrizionali delle bovine lattifere la cui produttività, anche in montagna, è crescita vertiginosamente rispetto al passato, dalla ridotta accettabilità sociale delle condizioni di disagio e di isolamento che comporta la permanenza presso le Alpi non raggiungibili con automezzi e prive di strutture d’alloggio adeguate (locali separati, servizi igienici, isolamento termico) nonché dalla difficoltà di adeguamento delle strutture stesse alle normative igienico-sanitarie previste per lavorazione del latte. Il passaggio ad un sistema più estensivo dei pascoli alpini nelle Alpi dove non vi è più una presenza stabile del personale comporta una serie di conseguenze, a volte negative, che rispecchiano le diverse modalità con cui questo passaggio viene attuato (specie animale, carico di bestiame, grado di sorveglianza). Nel caso degli ovini esistono due modalità di utilizzo dei pascoli alpini: l’una con grossi greggi transumanti (anche 1.000-1.500 capi) sotto la custodia permanente di un pastore che, come in passato, utilizza come ricoveri i tradizionali “baitelli” di alta quota o vecchie strutture di alpeggio, l’altra con piccoli greggi di uno o più proprietari che esercitano una sorveglianza minima sui loro capi (saltuaria somministrazione di sale, controllo a distanza con binocolo). Anche le capre di piccoli allevatori precocemente messe in asciutta alla fine della primavera vengono spesso trasferite sui pascoli alpini durante l’estate e sottoposte ad una minima sorveglianza. Nel caso delle capre questo sistema non ha riscontro con le pratiche tradizionali (che prevedevano la custodia e la mungitura durante l’estate) e deve essere considerato una forma regressiva al di fuori degli schemi dell’attività pastorale. Anche l’aumento degli equini e la destinazione di intere Alpi a manze e “asciutte” rappresenta un elemento nuovo che comunque garantisce un certo grado di utilizzo dei pascoli preferibile nella maggior parte dei casi all’abbandono. Bovini ed equini in un sistema di pascolo brado o semi-brado tendono ad occupare aree ampie ma con caratteristiche abbastanza definite (copertura vegetale prevalentemente erbacea, pendenze non troppo accentuate, ampia prospettiva visuale) il che li porta a limitare la mobilità e a mantenere l’occupazione di una determinata area. Ovini e caprini in assenza di sorveglianza sono caratterizzati da maggiore mobilità che li porta ad occupare zone differenziate dal punto di vista morfologico e vegetazionale. Ciò comporta il pascolamento di aree non sempre idonee con rischio di danni potenziali all’ambiente all’interno del variegato e fragile ecosistema alpino. Il danno potenziale può riguardare l’innesco di fenomeni erosivi legati, nel caso degli ovini, alla tendenza a pascolare in formazione compatta anche su terreni in forte pendenza e con copertura erbacea discontinua e larga proporzione di suolo nudo. La necessità di definire le aree adatte o meno al pascolo ovino e di adottare piani di pascolo adeguati è stata sottolineata da Stadler e Wiedmer (1999) in uno studio su 20 aree di pascolo delle Alpi Svizzere. Nel caso delle capre la tendenza ad inerpicarsi su scarpate e terreni instabili nonché sui tetti delle baite può provocare danni a vari manufatti, cadute di sassi. La tendenza alla mobilità di queste specie può comportare anche un certo grado di disturbo per le specie selvatiche. In entrambe le specie, ma in particolare nel caso delle capre, caratterizzate dalla capacità di ergersi sugli arti posteriori e di raggiungere la vegetazione arborea sino a 1,80 m da terra e da una relativa maggiore predilezione per la vegetazione arborea ed arbustiva rispetto a quella erbacea, il pascolo senza controllo può comportare anche in relazione al rapporto tra animali e superficie interessata, danni forestali che possono risultare più o meno gravi in relazione al tipo di essenze (conifere piuttosto che latifoglie), alla loro varietà e al sistema di governo del bosco. Sia nel caso delle capre che delle pecore e, in minor misura, degli equini la caratteristica di questi animali di utilizzare l’erba recidendola o strappandola a breve distanza dal terreno può risultare positiva per l’evoluzione del cotico e il mantenimento della varietà delle essenze erbacee presenti nel pabulum in caso di un regime di pascolo controllato, ma negativa in circostanze di carico eccessivo di pascolo e, sopratutto, di ripetizione a distanza troppo ravvicinata del ciclo di utilizzo. Nel caso di un pascolo non continuato sulla stessa superficie pabulare il pascolo ovino (o caprino) è favorita la diffusione di specie a basso portamento, una migliore fogliosità e densità del cotico. Ma se il ritmo di utilizzazione è troppo elevato le riserve della pianta, localizzate nelle zone basali, tendono ad esaurirsi e con esse la capacità di recupero e di ricaccio della pianta a seguito di stress (freddo, carenza idrica).
Le diverse modalità di utilizzazione del pascolo da parte di diverse specie e categorie di animali possono essere convenientemente sfruttate per ottenere una combinazione ottimale degli obiettivi ecologici ed economici dell’attività pastorale. Negli ultimi anni la disponibilità di nuove tecniche per lo studio del comportamento al pascolo ha consentito il conseguimento di più approfondite conoscenze sulla materia. Si è compreso che il comportamento al pascolo e, in particolare, la selettività di utilizzo del foraggio disponibile che condiziona il grado di utilizzo del cotico e la sua composizione floristica, devono essere considerati su diverse scale spaziali e tenendo anche presente che spesso è il comportamento del gruppo oltre che quello del singolo individuo che spiega l’ effetto in termini di utilizzo del pascolo. Se il bovino appare poco selettivo a causa delle caratteristiche del proprio apparato boccale sulla minima scala spaziale (quella corrispondente alla superficie proiettata sul terreno della “boccata”) esso è in grado di esercitare una forte selezione spostandosi dove la composizione del cotico è più ricca di essenze maggiormente appetibili. Se il bovino non è in grado si selezionare nell’ambito della “boccata” tra le foglie di diverse essenze erbacee, esso è però in grado di tralasciare i cespi di essenze poco gradite. Questa selettività nelle vacche da latte tende ad essere accentuata e si esprime nella ricerca delle essenze meno fibrose e più ricche di energia digeribile e se non gestita attraverso un idoneo sistema di pascolamenti conduce ad un cattivo utilizzo dei pascoli. Se l’intera area di pascolo è disponibile (come nei sistemi che non prevedono un pascolo guidato o suddiviso in settori delimitati da recinzioni elettriche) le vacche tendono a utilizzare le aree con erbe in precoce stadio di maturazione; questo sui pascoli alpini si traduce nello sfruttamento troppo precoce delle aree con il foraggio qualitativamente migliore (di solito quelle a quota più elevata, ma non sempre poiché la scalarità di maturazione delle essenze erbacee è legata anche alla disponibilità idrica condizionata a sua volta dalla natura pedologica del terreno, esposizione ai venti ecc.). Nelle aree trascurate le essenze giungono a maturazione senza essere utilizzate e anche quando il foraggio migliore non sarà più disponibile l’avvenuta lignificazione non ne consentirà il consumo, ciò anche nel case di essenze con buon indice di appetibilità nelle fase fenologiche precedenti la maturazione. Le conseguenza di un sistema di pascolo non regimato anche nel caso delle vacche da latte possono essere pesantemente negative. Sia un carico di pascolo troppo basso sia l’assenza di un qualsiasi regime di pascolo tendente ad una più uniforme utilizzazione del pascolo determinano: 1) mancata utilizzazione di cespi di essenze poco appetite (tipicamente oltre a Nardus stricta, Deschampsia caespitosa) e una maggiore diffusione di queste essenze; 2) mancato pascolamento di aree di maggiore o minore dimensione dove insieme alle graminacee di minor valore pabulare si insediano cardi ed essenze arbustive (calluna vulgaris e quindi mirtilli, rododedri, ginepro, ontano alpino). La scarsa capacità selettiva del bovino favorisce la diffusione delle piante infestanti il pascolo anche per un effetto associativo: quelle essenze arbustive che, specie nelle prime fasi di sviluppo sono appetite anche dai bovini e potrebbero essere completamente defogliate e distrutte, sviluppandosi in prossimità di piante erbacee poco appetite, specie se ad elevato portamento, possono svilupparsi relativamente indisturbate. Questo aspetto è molto importante per comprendere la dinamica dell’insediamento della vegetazione arbustiva e quindi la perdita di superfice pascoliva. Quando i pascoli sono utilizzati da un numero di capi troppo basso e il sistema di pascolamento è lungi dal risultare adeguato al mantenimento dell’equilibrio. Ogni anno la superfice pascolabile diminuisce e con essa il numero di capi che, con un regime di pascolo “libero” possono esservi mantenuti. In questo modo si va dritti al completo abbandono.


Fig. da ............. Modello di variazione delle associazioni del pascolo alpino in funzione dell’umidità e della fertilità

Questa tendenza, però, può essere efficacemente contrastata come dimostrano anche esperienze in atto. Il recupero di superfici di pascolo perdute, il miglioramento della qualità dei pascoli e il mantenimento di una situazione di equilibrio possono essere conseguiti attraverso due metodi la cui efficacia è aumentata dalla loro concomitante adozione: utilizzo di più specie o categorie animali, utilizzo di piani di pascolamento basato sulla suddivisione e turnazione di settori di pascolo. Per quanto riguarda l’utilizzo di diverse specie o categorie di animali si tratta di sfruttarne la diversa selettività e modalità di pascolamento. Gli animali che non producono latte hanno esigenze alimentari inferiori e tendono a utilizzare anche quelle essenze rifiutate da animali più esigenti o le stesse essenze ma in uno stadio di maturazione più avanzato. Nei pascoli di minore qualità o nel caso di impiego di vacche da latte con un buon livello produttivo (>10 -15 kg/giorno) è necessario per non deprimere l’ingestione consentire una certa selettività; in questo caso diventa indispensabile il pascolamento dopo quello delle vacche da latte di manze o vacche asciutte o, ancora meglio degli ovini. Questi ultimi si dimostrano idonei alla rimozione dei residui tralasciati dalle vacche da latte per la capacità di utilizzare il cotico fino a 1-1,5 cm dal terreno, che per la caratteristica di formare un gruppo compatto che avanza con un regolare fronte di pascolamento e per la scarsa incidenza, in estate, di soggetti allattanti. Il passaggio degli ovini dopo i bovini non comporta alcun problema (come invece avviene nel caso inverso a causa del rifiuto dei bovini a consumare l’erba con presente tracce odorose del passaggio ovino) e veniva comunemente praticato in passato quando le pecore erano confinate nelle fasce più elevate da dove discendevano, dopo lo “scarico” dei bovini alla fine dell’estate, per utilizzare per un periodo abbastanza breve (una settimana o poco più) quanto rimasto sul pascolo destinato ai bovini. Oggi i greggi transumanti, gli unici con presenza di un pastore in grado di applicare un piano di pascolo, sono divenuti spesso troppo numerosi per poter occupare le porzioni meno favorevoli di un alpe e tendono come già osservato ad utilizzare attraverso contratti d’affitto interi alpeggi.
Nell’ambito di una corretta pratica pastorale applicata ad una scala territoriale sono però possibili diverse soluzioni che consentono di contemperare le esigenze dell’allevamento ovino e bovino nonché quelle di cura e manutenzione del territorio. Agli ovini possono essere assegnati dei pascoli secondo un criterio di rotazione poliennale. Gli alpeggi con pascoli degradati per sottoutilizzo possono essere concessi per diversi anni in affitto ai pastori transumanti con l’impegno, in caso di constatato miglioramento dei pascoli a concedere alla scadenza del primo contratto un altro alpeggio idoneo a soddisfare le esigenze del gregge. In questo modo l’alternanza tra bovini e ovini può essere realizzata se non nell’ambito della stessa stagione quantomeno nell’arco di diverse stagioni di pascolo. Un’ altra soluzione consiste nel riprendere nell’ambito degli alpeggi di maggiori dimensioni il sistema della compresenza di ovini e bovini. Questo sistema in aree ad esso idonee come l’Alta Valtellina venne abbandonato in passato a causa di preoccupazioni di ordine sanitario da parte dei proprietari del bestiame bovino che temevano la trasmissione di malattie infettive da parte degli ovini. La situazione attuale dei greggi transumanti non giustifica più queste preoccupazioni (Servizio Sanitario Regione Lombardia). Nell’ambito di un programmazione pastorale a scala territoriale il problema della dimensione dei greggi può essere risolto anche attraverso l’utilizzo dei pascoli di alpeggi limitrofi. L’ultima soluzione che sfrutta la mobilità dei greggi ovini in grado di valicare senza difficoltà le creste montuose e di percorrere considerevoli distanze può essere rappresentata dall’utilizzo a fine stagione dei pascoli di alpeggi tuttora caricati con bovini situati nella stessa area rispetto a quelli utilizzati dagli ovini. Un ruolo molto importante nell’ambito di un’attività pastorale volta alla cura e manutenzione del territorio può essere svolto anche dalle capre. Lasciate senza controllo esse possono provocare una serie di danni oltre a quelli già ricordati. Le capre quando non sono ricoverate per tempo al sopraggiungere dei rigori invernali a causa della neve e del ghiaccio spesso non possono essere facilmente recuperate anche a causa della tendenza a sottrarsi al contatto con l’uomo dopo mesi di vita allo stato libero. In queste condizioni gli animali che sopravvivono all’inverno sono comunque gravemente indeboliti e diventano suscettibili alle infestazioni di parassiti che tendono a trasmettere ad altri animali. I maschi (becchi) se non recuperati tendono a non lasciarsi più avvicinare dall’uome, nemmeno dal proprietario e a volte divengono aggressivi nei confronti dell’uomo e potenzialmente pericolosi. Animali lasciati senza controllo rappresentano in ogni caso un potenziale fattore di trasmissione di malattie infettive (attraverso le carcasse, le placente, i feti abortiti) e di contaminazione delle prese dell’acqua potabile e delle sorgenti. Questo sistema di allevamento brado, praticato in in condizioni climatiche proibitive come quelle alpine che vede in pieno inverno capre e pecore lasciate di proposito (o per intempestività nel ritorno alle stalle e sopraggiunta impossibilità di effettuarlo) non ha nulla a che fare con i sistemi pastorali tradizionali e dovrebbe essere sanzionato come previsto dalle normative. Il vantaggio ricavato dai proprietari degli animali (definirli allevatori o pastori è improprio e comunque immeritato) è limitato specie se lo si raffronta ai danni all’ambiente e alla collettività (interferenza con le specie eselvatiche e con l’attività venatoria, danni a manufatti e infrastrutture, rischi igienici e sanitari, danni forestali ecc.). Oltre alle perdite (animali morti per incidenti) lo stato nutrizionale e sanitario (parassitosi) di questi animali è spesso precario e questo limita fortemente la loro produttività. Nel caso delle capre la cui unica produzione è rappresentata in questo sistema semibrado dal solo capretto pasquale i parti tardivi, e la limitata produzione di latte delle madri non consentono il raggiungimento di pesi di macellazione soffisfacienti e comunque la capacità di produzione è largamente inferiore a quella potenziale anche tenendo conto della scarsa gemellarità .
E’ indicativo dell’insufficiente attenzione ai problemi pastorali che mentre da una parte sopravvivono anacronistici regolamenti di polizia forestale che impediscono il pascolo caprino in bosco (indipendentemente dalle effettive condizioni del soprassuolo e dalla presenza o meno di un controllo da parte del pastore) dall’altra si utilizzino risorse pubbliche per costosi interventi di recupero con elicotteri di greggi bloccati in alta montagna dalla neve a causa della negligenza dei proprietari. In questi casi l’intervento dovrebbe essere effettuato per evitare inutili sofferenze agli animali e i problemi sopra considerati ma il costo dovrebbe essere in parte sostenuto con il ricavato delle sanzioni comminate a norma di legge ai poco responsabili proprietari sino al sequesto degli animali nei casi più gravi o recidivi.

Se il pascolo brado degli ovini e dei caprini è da considerare negativamente, forme di pascolo estensivo anche nell’ambito di aree boscate deve essere incoraggiato. E’ già stato ricordato come il pascolo, particolarmente quello caprino, rappresenti se correttamente attuato un mezzo di prevenzione degli incendi boschivi e , più in generale, del degrado delle superfici boscate. Anche per quanto riguarda la definizione di “bosco” è opportuno rilevare che nell’ambito di una considerazione della gestione silvopastorale che tenga conto delle più recenti acquisizioni scientifiche e dei pronunciamenti di autorevoli organi politici (Commissione europea) si tratta di operare indispensabili aggiornamenti legislativi. Attualmente la normativa in materia forestale (Regolamento di massima e prescizioni di Polizia Forestale) classifica come “bosco” ogni superfice dove a seguito della cessazione dell’attività di sfalcio o di pascolamento da almento tre anni e per opera della disseminazione spontanea le essenze arboree ed arbustive abbiano superato il 20% della copertura del suolo.
Il recente D.L. 18 maggio 2001, n. 227 all’ art. 2, comma 6 si preoccupa di stabilire (in attesa che le Regioni procedano entro 12 mesi ad emanare nuove norme regionali di definizione del “bosco”) che: “ove non diversamente già definito dalle regioni stesse si considerano bosco i terreni coperti da vegetazione forestale arborea associata o meno a quella arbustiva di origine naturale o artificiale, in qualsiasi stadio di sviluppo, i castagneti, le sugherete e la macchia mediterranea, ed esclusi i giardini pubblici e privati, le alberature stradali, i castagneti da frutto in attualità di coltura e gli impianti di frutticoltura e d’arboricoltura da legno di cui al comma 5. Le suddette formazioni vegetali e i terreni su cui esse sorgono devono avere estensione non inferiore a 2.000 metri quadrati e larghezza media non inferiore a 20 metri e copertura non inferiore al 20 per cento con misurazione effettuata alla base esterna dei fusti ...” Come si vede una definizione molto “larga” che deve preoccuparsi di precisare che non sono bosco .... i giardini pubblici e privati.
Non distinguendo tra bosco e neoformazioni (spesso come visto rappresentative di una successione vegetazionale che non conduce ad una stabile formazione boschiva in grado di rinnovarsi naturalmente) ed applicando i vincoli previsti per i boschi veri e propri si tende a favorire in modo irragionevole la perdita dei pascoli. E’ ovvio che ci si trova di fronte ad un vero e proprio anacronismo legislativo che si rispecchia anche in altri articoli del sopracitato regolamento. I criteri attuali di classificazione del bosco potevano essere idonei 50 anni orsono quando, dopo le distruzioni dei boschi avvenute nel periodo bellico, vi era l’esigenza di favorire l’estensione delle aree boscate.
Il legislatore italiano pare non accorgersi di tutto questo influenzato da vecchi “dogmi forestali” e da nuove “pulsioni verdi”. La sopracitata Legge del maggio 2001 (una di quelle del “paniere” di fine legislatura) si preoccupa di ribadire all’art 4, comma 1 che “Costituisce trasformazione del bosco in altra destinazione d’uso del suolo, ogni intervento che comporti l’eliminazione della vegetazione esistente finalizzata ad un’utilizzazione del terreno diversa da quella forestale” e (comma 2) che “La trasformazione del bosco è vietata, fatte salve le autorizzazioni rilasciate dalle regioni in conformità con l’articolo 151 del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n.490, compatibilmente con la conservazione della biodiversità, con la stabilità dei terreni, con il regime delle acque, con la difesa dalle valenghe e dalla caduta di massi, con la tutela del paesaggio, con l’azione frangivento e di igiene ambientale locale”. In ogni caso la trasformazione del bosco deve essere compensata da rimboschimenti con specie autoctone, preferibilmente di provenienza locale, su terreni non boscati a spese del destinatario alla trasformazione di coltura nell’ambito del medesimo bacino idrografico.
C’è da chiedersi in quale mondo vivano i legislatori ed i loro consulenti scientifici. Oggi i villaggi di montagna sono stretti d’assedio dal bosco; gli scarsi (ed anziani) abitanti rimasti non sono in grado di fronteggiarne l’avanzata. Rispetto ad una situazione di sovrapopolamento umano della montagna, dove il bosco era sotto pressione a causa della’elevata utilizzazione di legna, foglia, foraggio da parte della popolazione oggi la situazione è ribaltata; la pressione dell’uomo e degli animali domestici sul bosco ha lasciato il posto ad una pressione crescente del bosco, degli ungulati selvatici e, in prospettiva anche dei grandi carnivori, sull’uomo, gli animali domestici e le risorse pascolive. Mantenere le anacronistiche prescrizioni di polizia forestale relative al pascolo in bosco, alla classificazione di bosco, all’assurdo divieto di pascolo nei terreni percorsi dal fuoco significa optare consapevolmente per una politica di eliminazione del presidio umano del territorio favorendo l’addensamento della popolazione e delle attività di allevamento nei fondovalle e nelle città e quindi l’accentuazione degli squilibri territoriali e dello sradicamento culturale e sociale.

E’interessante sottolineare come il divieto del pascolo così come quello di esercizio dell’attività venatoria nelle aree boscate percorse dal fuoco siano stati ribaditi con una “Legge-quadro in materia di incendi boschivi” (Legge 21 novembre 2000, n. 353) . La medesima legge si preoccupa di indicare anche la sanzione amministrativa per ogni capo (da 60.000 a 120.000). Dal momento che tali divieti non hanno alcuna attinenza con considerazioni di carattere ecologico (data la diversità di: caratteristiche dell’incendio, suoli, pendenze, piovosità, vegetazione e quindi degli effetti dell’incendio e dei tempi e delle modalità evoluzione del soprassuolo delle aree percorse dal fuoco) appaiono semplicemente l’espressione di una cultura che colpevolizza aprioristicamente pastori e cacciatori e di un persistente centralismo legislativo che non tiene conto delle enormi differenze tra le regioni mediterranee ed alpine. In queste ultime non solo l’incendio è raramente provocato dai pastori e quindi non ha significato il divieto di pascolo “dissuasivo” ma le condizioni climatiche e pedologiche solo in pochi casi determinano la sussistenza di rischi erosivi a seguito del pascolamento di aree percorse dal fuoco. Va anzi osservato che l’assurdo limite di 10 anni determina in assenza di pascolamento nelle “aree boscate” non costituite da fustaie la formazione di quella vegetazione erbacea ed arbustiva che rappresenta un ottimo innesco per il fuoco. La medesima legge ribadendo l’ispirazione anacronistica che vede il pascolamento solo come “nemico” del bosco alle voci dedicate alla prevenzione si limita a fare riferimento alle “operazioni silviculturali di pulizia e manutenzione del bosco”.

Per impedire la trasformazione nel “bosco” come definito dalle normative vigenti (anche se in realtà trattasi di formazioni ecotonali che non conducono ad una copertura arborea tantomeno dotata di stabilità e significato protettivo) risulta indispensabile attuare mediante il pascolamento o l’estirpazione una continua “pulizia” del pascolo. Si è visto, però, come a seguito di una situazione di sottopascolamento o di errata gestione del pascolo si assista a volte in pochi anni ad una invasione del pascolo da parte di arbusti con la conseguente riduzione della presenza erbacea e il mutamento del microclima e delle caratteristiche chimico-fisiche del suolo che determinano ulteriore insediamento degli arbusti e quindi delle essenze arboree. Il recupero del pascolo così trasformato è incentivato dai contributi previsti in base all’attuazione delle misure agroambientali delle CE (reg. 91/2079 e ora reg. 99/) è possibile laddove le essenze infestanti sono costituite da arbusti (sui pascoli alpini sopratutto Rododendron ssp. e Alnus viridis, su quelli prealpini Sarothamnus scoparius) ma non è possibile laddove si sia insediata seppur da pochissimi anni la vegetazione arborea (di solito rappresentata da laricini). Gli onerosi interventi di decespugliamento inoltre sono spesso limitati al taglio al piede delle piante in luogo del più risolutivo intervento di estirpazione o comunque taglio del fittone al di sotto del livello del terreno. L’intervento di estirpazione oltre al maggior tempo e fatica necessarie determina un danno al cotico e rischi di erosione del terreno.

Un mezzo economico ed efficace per limitare il cespugliamento dei pascoli e i conseguenti onerosi interventi è rappresentato da un pascolo caprino controllato. Esso, sfruttando la predilezione per le piante arbustive ed arboree delle capre se esercitato nelle aree che si desidera mantenere “pulite” risulta molto più efficace del pascolo di altre specie. Bovini, ovini ed equini non disdegnano le foglie delle essenze arboree ed arbustive e, in mancanza di meglio, operano anch’essi lo scortecciamento delle piante ma per “distoglierli” dal pascolo erbaceo è necessario mantenere un numero elevato di capi in rapporto alla superfice di pascolo. Inoltre lo spettro di essenze arboree ed arbustive consumate dalle capre è più ampio in ragione della maggiore resistenza a fattori tossici o antinutrizionali (alcaloidi, tannini, oli essenziali), ciò spiega il consumo da parte delle capre di piante come seneci (Senecio ssp.) e maggiociondolo (Laburnum anagryoides) contenenti alcaloidi, ginepro (oli essenziali dannosi per il fegato), corteccie (ricche di tannini), essenze spinose (cardi), e comunque poco appetite dai bovini come molte essenze povere di sostanza secca: felci, romici. In generale le capre utilizzano bene molte essenze erbacee non graminacee (comprese quelle a foglia larga e felci ) trascurate dai bovini e la cui la cui diffusione nel sottobosco delle fasce di pasclo arboreo confinanti con il pascolo e nelle aree periferiche del pascolo stesso può determinare la mancata utilizzazione da parte dei bovini e quindi la diffusione della flora arbustiva. Oltre a mantenere la “pulizia” del pascolo nelle zone marginali di esso secondo modalità che non solo non determinano competizione tra le due specie ma aumentano la disponibilità pabulare per i bovini, il pascolo caprino può essere utilizzato per operare il decespugliamento in mdo molto meno oneroso dei tagli e delle estirpazioni. Il pascolo dei ricacci delle ceppaie di arbusti sottoposti al taglio al piede può contenere la capacità di produrre polloni e, se ripetuto, determinare l’esaurimento delle piante. Ma un sistema di pascolo guidato o confinato (attuabile mediante la posa di reti elettrificate comunemente utilizzate per il pascolo ovi-caprino facilmente spostabili) può consentire anche l’eliminazione della flora arbustiva. Ciò è facilmente possibile per molte delle essenze arbustive presenti sui pascoli (ginestre, lamponi, ginepro, rosa canina, mirtilli, ontano verde) poco appetiti risultano i rododendri consumati dalle capre in scarsa misura probabilmente a causa della loro tossicità. Nel caso dell’ontano alpino (Alnus viridis) essenza largamente diffusa alta sino a 2,5 m la tendenza a formare boscaglie dense l’intervento per essere efficace dovrebbe essere eseguito quando la superficie non è ancora interamente occupata dagli arbusti e l’altezza delle piante non è massima. Nel caso degli ontani come di altre formazioni arbustive l’eccessiva densità raggiunta in caso di prolungata assenza di pascolamento non solo riduce la penetrabilità ma anche il rapporto tra la massa di foglie e altro materiale vegetale edibile e accessibile agli animali e la massa legnosa non utilizzabile nonchè la presenza di una copertura erbacea rendendo, oltre un certo limite, impossibile il ricorso al pascolo per contenere l’ulteriore diffusione del cespugliamento.

Se l’obiettivo di una gestione sostenibile dello spazio silvopastorale deve consentire un equilibrio tra gli interessi economici (produzione zootecnica, usi ricreativi, silvicoltura) e quelli di natura ambientale (biodiversità, protezione idrogeologica, tutela faunistica) il pascolo, fattore che ha concorso storicamente in modo determinante alla formazione del paesaggio culturale alpino le attività pastorali devono recuperare un ruolo fondamentale. E’ fondamentale, però, che tali attività vengano gestite attraverso una gestione consapevolmente orientata al perseguimento di tali obiettivi. Ciò significa che il territorio deve essere classificato in base agli impatti potenziali del pascolamento distinguendo anche le modalità più appropriate. In nessun caso il pascolo brado(specie per alcune specie dianimali) non può essere ritenuto un metodo sostenibile di gestione del territorio. La mancanza di forme di controllo degli animali in ambienti caratterizzati da un mosaico di condizioni morfologiche, litologiche, climatiche, vegetazionali comporta rischi di danni di diversa natura. Devono essere incentivate, invece, tutte quelle forme di recupero di economicità dei sistemi di allevamento tradizionali sia attraverso la forma del “pascolo di servizio” che attraverso la valorizzazione delle potenzialità produttive delle risorse animali (lane, carne, lana, servizi turistici). Considerando gli aspetti positivi e negativi legati alle caratteristiche di utilizzo del territorio pastorale da parte delle diverse specie animali appare utile la previsione di una destinazione specializzata di alcuni ambiti territoriali ma, più spesso la realizzazione di un utilizzo complementare e coordinato. La messa in atto di queste strategie presuppone forme di aggregazione dei produttori e un ruolo attivo degli enti territoriali. Nel capitolo saranno esposte alcune forme mediante le quali realizzare nuovi sistemi di gestione pastorale.

Le scale della biodiversità del paesaggio pastorale

La tutela della biodiversità animale e vegetale è divenuta una delle principali preoccupazioni nell’ambito degli orientamenti di politica agraria e di sviluppo rurale. Nell’ambito dei territori interessati alle attività agricole e di allevamento animale i territori di collina e di montagna non sono stati interessati all’affermazione dell’agricoltura e della zootecnia industrializzata il grado di biodiversità complessiva del territorio appare molto più elevato che in pianura. Poche sono le specie vegetali ed animali che si sono adattate ad un ambiente caratterizzato da una notevole uniformità e da bruschi cambiamenti levati al calendario del ciclo di coltivazione; scarse sono le aree a copertura vegetale “naturale” (argini, siepi, boschetti) relativamente non disturbate dalle lavorazioni meccaniche, trattamenti con prodotti chimici ecc. In questo contesto poche specie “opportuniste” riescono a prendere il sopravvento e a praticare una forte competizione o predazione a danno delle altre specie (si veda la grande diffusione della cornacchia grigia nelle aree ad agricoltura indisutralizzata).
Negli ambiti territoriali dove si esercitano le attività pastorali non solo vi è una porzione considerevole di territorio inutilizzato ma anche nell’ambito di quello utilizzato il grado di “naturalità” del paesaggio è più elevato e con esso il numero di specie vegetali e animali presenti. In montagna l’altimetria e gli interventi umani (pascolo, selvicoltura) rappresentano i fattori principali di variabilità del paesaggio e del grado di biodiversità. Si è già osservato che l’idea del “ritorno allo stato di natura” non è compatibile con la presenza delle attività umane (comprese quelle in territori a valle anche molto distanti) e che a prescindere dalla lunghezza dei tempi di raggiungimento di un nuovo stato di equilibrio il prezzo da pagare per il ritorno alla foresta è in molti casi, in funzione delle condizioni di pendenza, piovosità, natura del suolo, una forte incidenza di eventi franosi anche catastrofici. Un certo grado di intervento antropico (compreso quello rappresentato dalle attività pastorali) è invece positivo per mantenere quella alternanza tra superfici a copertura arborea, erbacea e arbustiva che consente anche su aree ristrette di riscontrare microambienti e microclimi diversi dove mammiferi, uccelli, insetti possono trovare le condizioni necessarie al reperimento di risorse vegetali, prede, rifugi, nidi.

La consapevolezza circa la necessità di introdurre in molti ambienti soggetti al venir meno degli interventi antropici a seguito della crisi economica delle tradizionali gestioni agricole una qualche forma di gestione che coniughi l’interesse naturalistico con l’esercizio di attività agro-pastorali si sta allargando anche ai responsabili delle Aree Protette sempre più consapevoli della perdita di valori naturalistici oltre che più ampiamente territoriali connessa alla perdita di superfici prative e pascolive a vantaggio delle “tristi boscaglie”.

Si è detto come l’abbandono del pascolamento (e delle attività di sfalcio dei prati) conduce in tempi più o meno lunghi ad una perdita di varietà di vegetazione. Molte specie di uccelli trovano il loro habitat nell’erba bassa, altre nell’erba bassa, molte altre nelle fasce di frangia tra un tipo di vegetazione e l’altro. Tali esigenze sono sia di tipo trofico che di nidificazione.
Una densa formazione di arbusti di una o poche specie togliendo luce e nutrimento alle piante erbacee e, spesso, acidificando il terreno riduce al minimo le essenze vegetali presenti; una densa pineta per l’effetto dell’inibizione sulla germinabilità dei semi dello spesso strato di aghi morti deposti sul terreno almeno in una certa fase del suo sviluppo riduce ancora di più il numero di specie erbacee e arbustive del sottobosco e con essa le varietà di vita.
Oltre a questo aspetto che può essere colto sulla territoriale di un’intera valle alpina o di unità di paesaggio vi è anche un altro aspetto della biodiversità che può essere colto solo sulla piccola scala, quella di una porzione di pascolo. Qui la biodiversità è legata al numero di specie erbacee presenti (e della microfauna).

Gli indici presi in considerazione per la valutazione della biodiversità a partire da rilievi della composizione floristica sono tre: ricchezza specifica del popolamento, l’indice di Shannon e l’indice di dominanza. La ricchezza specifica (N) viene semplicemente espressa attraveoo il numero di specie vegetali individuare nel corso del rilievo (N = n° di specie); in genere tale valore è influenzato dalle modalità del rilievo e dalla superficie campionata, e questo compromette in parte la confrontabilità dei dati.
r:indice di Shannon (H') prende in considerazione la struttura del popolamento vegetale considerando in particolare la frequenza relativa di ciascuna specie incon- trata, in altri termini della equitabilità. E' un indice che viene calcolato attraverso la formula seguente: H' = -.pi log2 pi dove (p) è la probabilità di incontrare una specie (i) nel rilievo. r:indice di Shannon varia da O (assenza di biodiversità per la presenza di un'unica specie) a 7, valore che negli ambienti temperati indica una altissima : biodiversità. L’indice di dominanza (R) misura la regolarità della frequenza delle specie presenti nei rilievi vegetazionali, risultando dal rapporto tra l'indice di Shannon (H') e il valore massimo che potrebbe raggiungere la diversità misurata (H max) nel caso in cui le specie presentassero tutte un'uguale frequenza ovvero fossero equidistribuite nel rilievo: R = H/Hmax dove Hmax = log2N. In base a questo rapporto, l'equitabilità varia da O a l, indicando al crescere del valore la tendenza ad un maggiore equilibrio della fitocenosi e quindi un minor rischio di estinzione ed erosione dei componenti.
Nei prati e nei pascoli collinari e montani, l'indice di Shannon (H') è positivamente correlato al numero di specie presenti (N); più in particolare è stato evidenziata una crescita del valore con l'aumento del numero delle dicotiledoni erbacee non appartenenti alla famiglia delle leguminose e aIl'equitabilità (R), mentre non varia significativamente al variare del valore pastorale ma tende ad incrementare con un carico animale equili- brato, evidenziando che il pascolamento dei domestici, quando è gestito con criteri razionali, non compromette la diversità delle praterie (Bornard et al., 1994; Reyneri, 1999).


La biodiversità si esprime anche, ovviamente, nei rapporti complessi che legano gli organismi viventi. Un caso emblematico è descritto da Bourn et al. (2000) che hanno preso in esame le condizioni di habitat di due specie di farfalle che, nel Regno Unito, occupano delle nicchie ecologiche ben precise. Si tratta di Thymelicus acteon e di Hippocrepis comosa. Mentre la prima dipende per la nutrizione larvale dalla più volte citata graminacea Brachypodium pinnatum e quindi può essere presente solo se il pascolo è assente o molto limitato, l’atra farfalla dipende, invece, per l’alimentazione larvale da una leguminosa Hippocrepis comosa che è presente nel cotico di altezza molto contenuta (<4 cm) e quindi in situazioni di pascolamento intensivo.
Il problema del rapporto tra Thymelicus acteon e Brachypodium pinnatum mette in evidenza come non sia facile conciliare le esigenze di conservazione di una specie con quelle della ricchezza degli ecosistemi. Brachypodium pinnatum, infatti , è una di quelle graminacee ad alto portamento che tendono a dominare le essenze a basso portamento (incluse quelle rare). Mentre in condizioni di equilibrio (bassi carichi di bestiame) il pascolo con compresenza di essenze cespitose e a basso portamento rappresenta il tipo vegetazionale che presenta la massima biodiversità vegetale, se la presenza delle essenze ad elevato portamento non è controllata dal pascolamento la loro dominanza porta ad una diminuzione della biodiversità non solo vegetale, ma anche animale considerato che molte specie animali dipendono dalle essenze caratteristiche di un cotico basso (Bobbink e Willems, 1987).
In Europa si calcola che su 195 specie di uccelli minacciate oltre il 40% lo siano a causa dell’intensificazione dei sistemi agricoli, ma oltre il 20% dall’abbandono (Tucker e Heat, 1994). Agli effetti del mantenimento di una larga varietà di uccelli è importante il mantenimento della vegetazione erbacea sia quella a cotico basso che quella a cotico alto.

Tabella Distribuzione per habitat delle specie di uccelli dell’Europa occidentale in funzione dei siti di nidificazione e alimentazione (numero di specie)
Habitat Nidificazione Alimentazione
Suolo nudo 18 40
Cotico basso 62 57
Cotico alto (con o senza cespugli) 81 47
Cespugli 20 12
Foresta 76 30
da: S.E. Van Wieren, 1998

Come si osserva nella Tabella riportata la maggior parte delle specie di uccelli predilige le superfici a cotico alto per la nidificazione ma per le risorse trofiche la maggior parte dipende dagli spazi aperti caratterizzati dalle praterie a cotico basso.

La diversità è avvertibile, al di là degli studi fitosociologici e zoologici anche attraverso elementi che possono essere colti anche dal turista. La presenza di diversi cromatismi nella copertura verde, i colori dei fiori e i voli delle farfalle sono aspetti di una qualità estetica cui corrisponde una grande biodiversità. Laddove in un prato sottoposto a concimazioni minerali, lavorazioni meccaniche, periodica risemina , le essenze erbacee sicontano sulle dita di una mano in un pascolo utilizzato in modo estensivo ma consentendo agli animali di “tenere testa” allo sviluppo vegetativo e di “restituire equamente” le sostanze nutritive con le deiezioni, in modo in pochi metri quadrati si contano decine e decine di essenze erbacee diverse.


La produzione di carne nei sistemi estensivi

Sistemi di produzione di carne estensivi

La produzione di carne nell’ambito dei zootecnici estensivi è stettamente legata alla disponibilità di abbondanti risorse pascolive in grado si far fronte alle esigenze alimentari degli animali per un lungo periodo dell’anno. Va innanzitutto premesso che un allevamento estensivo specializzato per la produzione della carne rappresenta un elemento estraneo ai sistemi agropastorali tradizionali. In passato la produzione di carne bovina rappresentava un elemento secondario nel contesto di sistemi di allevamento in cui ai bovini si chiedevano in via principale prestazioni dinamiche (trasporti agricoli, lavorazioni), produzione di latte e, solo secondariamente, di carne. In più la carne bovina non era ottenuta in via principale da determinate categorie di animali destinati alla produzione di carne, ma dai buoi e dalle vacche a fine carriera.
Anche l’allevamento ovino che oggi in Europa è indirizzato in gran parte alla produzione di carne (con l’eccezione di quei sistemi mediterranei specializzati nella produzione lattea) in passato vedeva l’interesse per la carne di gran lunga preceduto da quello della produzione di lana e di latte. Lo sviluppo degli attuali sistemi estensivi di produzione di carne bovina e ovina rappresenta un esito “moderno” di un processo di specializzazione di sistemi agricoli territoriali e zootecnici. Vaste estensioni di territori “marginali” dove le forme tradizionali “miste” di produzione agrozootecnica per l’autoconsumo o per il mercato locale sono entrate in crisi per la concorrenzialità con le produzioni delle aree ad agricoltura forte e per lo spopolamento sono state interessate da forme estensive di allevamento da carne bovino od ovino “specializzato”.
Il presupposto per l’affermazione di tali forme di allevamento è legato alla disponibilità di vaste superfici a pascolo non suscettibili di altre utilizzazioni agrozootecniche o forestali economicamente convenienti (morfologia, clima, pedologia, accessibilità dei mercati).

L’allevamento bovino da carne (linea vacca-vitello)

Una delle condizioni principali che rendono economicamente conveniente la produzione estensiva di carne bovina è rappresentato da condizioni climatiche favorevoli alla lunga durata del periodo vegetativo delle essenze pascolive ed alla produttività di biomassa vegetale. Sono condizioni che si ritrovano dove il clima non conosce gli estremi di temperature determinati dalla continentalità e/o dall’orografia, dove la piovosità è distribuita nel corso dell’anno, la radiazione solare non eccessiva. In condizioni climatiche di questo tipo è possibile praticare un allevamento “outdoor” senza che gli animali (una volta che si sia scelta la razza idonea) richiedano, anche in corrispondenza del parto, ricoveri e cure particolari. Oltre agli aspetti climatici la possibilità di esercitare l’allevamento bovino da carne estensivo è legata anche alle caratteristiche pedologiche del terreno. La presenza di suoli argillosi, unita alla concentrazione delle piogge nel periodo autunnale, limita fortemente nelle zone appenniche la possibilità di mantenere al pascolo i bovini per un periodo sufficientemente lungo dell’anno.

Sulla base di queste considerazioni è evidente che in Italia gli spazi per un allevamento del tutto estensivo su ampie superfici agro-silvo-pastorali siano estremamente limitati. Vi è, però, la possibilità laddove le condizioni economiche e tecnico-economiche lo consentano, di praticare forme di allevamento semi-confinato che giustifichino i costi sostenuti per il mantenimento delle fattrici a fronte dell’unico prodotto economico: il vitello. Tali condizioni sono date da:

 disponibilità per una considerevole parte dell’anno di superfici pascolive non destinabili ad altre utilizzazioni agricole o forestali (pascoli magri, cespugliati, sottobosco);
 possibilità di realizzare ricoveri estremanente economici con materiali di recupero per il confinamento inverbale;
 disponibilità di sottoprodotti aziendali o reperiti localmente per realizzare razioni invernali a basso costo.(stocchi di mais).


Toro Limousine su un pascolo prealpino. La monta naturale viene utilizzata non solo per la fecondazione delle vacche nutrici ma anche, come in questo caso per quella di bestiame da latte Brown dutante l’estate

Nell’appennino sono presenti, però, razze autoctone caratterizzate dall’attitudine a produrre carne di elevata qualità. Tali razze (Chianina, Marchigiana) grazie allo sviluppo della certificazione di qualità e dei sistemi di tracciabilità del prodotto carne possono recuperare uno spazio nell’ambito di sistemi di allevamento caratterizzati da elevati standard di rispetto della qualità ambientale oltre che del prodotto e quindi in grado attraverso la valorizzazione commerciale di compensare i maggiori costi rispetto alla carne bovina prodotta al pascolo in Irlanda e in Francia.
Da tempo è stato istituito il marchio di qualità 5R che contraddistigue la carne della Chianina, Maremmana, Romagnola, Maremmana e Podolica.
L’allevamento della razza Maremmana rappresenta un caso a sè in quanto esempio unico in Italia di allevamento bovino brado. Le condizioni ambientali delle Maremme e le caratteristiche della razza, che la rendono in grado di utilizzare per tutto il corso dell’anno la macchia mediterranea, riducono al massimo i costi di integrazione alimentare e di manodopera (consistente nella sorveglianza e nello spostamento). Si tratta di un sistema di allevamento bovino pastorale perfettamente adattato all’ambiente che ha tratta notevole impulso dalla crescente domanda di carne bovina prodotta con metodi di “agricoltura biologica”.
La possibilità di valorizzare la carne bovina prodotta con metodi “biologici” (che prevedono l’utilizzo del pascolo) tende ad allargare le nicchie entro cui sviluppare produzioni di carne bovina estensive. Al di fuori delle zone dell’Appenninino centrale, dove sono presenti razze autoctone (e dove è possibile valorizzare quindi anche il legame tra la razza e il territorio d’origine), le razze utilizzate per l’allevamento “vacca-vitello” sono la Limousine (razza francese molto rustica in grado di adattarsi anche a condizioni climatiche rigide) e la Pezzata Rossa, razza con il vantaggio di una grande flessibilità che le consente di essere utilizzata sia per la produzione di latte che per fungere da “vacca nutrice”. Anche nelle zone di alta collina dell’Appennino settentrionale (lombarda, emiliana e piemontese) e in qualche ambito prealpino si possono determinare nicchie favorevoli ad un allevamento estensivo da carne. Qui, oltre che l’allevamento in purezza della Limousine, è possibile prevedere l’utilizzo come nutrici di vacche di antiche razze autoctone a triplice attitudine producendo vitelli attraverso l’incrocio con tori di razze da carne specializzate e sfruttando la loro buona attitudine lattifera.

 

Laddove si pratica l’incrocio industriale si avrà cura di utilizzare tori di razze specializzate per la produzione di carne, in grado di produrre vitelli con buona attitudine all’accrescimento e buona incidenza di tagli carnosi, ma che, alla nascita, non presentino taglia elevata o morfologia tale (dimensioni della testa) da provocare problemi di parto. La scelta del toro è ovviamente legata alle caratteristiche morfologiche e alla taglia delle fattrici impiegate anche se la grande importanza che deve essere attribuita in questo tipo di allevamento alla facilità di parto tende a far escludere alcune razze da carne specializzate quali la Piemontese
La linea materna può essere rappresentata da una razza da carne specializzata (sempre che la produzione di latte sia sufficiente) o da incroci tra razze da latte e da carne o da razze a duplice attitudine (Pezzata Rossa) o da razze autoctone non specializzate. La buona produzione di latte è importante per garantire una buona crescita del vitello che compensi anche il ridotto sviluppo alla nascita.
o la Charrolaise. Al fine di evitare distocie (aspetto estremamente importante in considerazione della scarsa assistenza al parto che può essere assicurata alla fattrice) il piano alimentare dovrà tenere conto dell’esigenza di contenere lo sviluppo fetale e quindi le dimensioni del vitello alla nascita. In prossimità del parto il livello nutritivo sarà di poco superiore al mantenimento (mentre all’inizio della gravidanza si colloca intorno a 1,5 volte il livello di mantenimento).
L’efficienza tecnic-economica dell’allevamento “vacca-vitello” è legata alla programmazione dei parti e, possibilmemente, alla loro sincronizzazione oltre che al contenimento del periodo interparto. Dal momento che è estremamente difficile in una mandria bovina che tutte le fattrici presentino una cadenza di parto stagionalizzata si presentano all’allevatore due alternative: 1) di costituzione di gruppi omogenei di vacche; 2) utilizzo di trattamenti di sincronizzazione ormonale. Deve essere precisato a questo propostito che i trattamenti di sincronizzazione e quelli di superovulazioni sono espressamente esclusi nell’allevamento che intende conformarsi ai metodi di “agricoltura biologica”.
L’utilizzo di razze rustiche in condizioni di allevamento brado (come nel caso della Maremmana) prescinde ovviamente dalle considerazioni circa la necessità di sincronizzazione dei calori e dei parti dal momento che non si pratica nessuna forma di assistenza alla vacca partoriente e che le fattrici vengono lasciate costantemente insieme al toro. E’evidente che nell’ambito della “linea vacca-vitello” si differenziano sistemi semiestensivi (semiconfinamento, fecondazione artificiale, trattamenti ormonali) e sistemi molto estensivi con pascolo brado per tutto l’anno, monta naturale, sorveglianza minima da parte del personale dell’azienda.
Recentemente anche nelle zone alpine e prealpine sono state introdotti tipi genetici estremamente rustici come il bovino Highlander a pelo lungo originario della Scozia settentrionale nell’ipotesi di praticare un allevamento secondo la linea vacca-vitello adatto all’ambiente alpino. Questi animali (che pure richiedono di essere foraggiati con il fieno durante l’inverno) sono mantenuti in condizioni di allevamento e di pascolo non molto diverse da quelli degli ovicaprini sfruttando durante l’anno diversi piani vegetazionali (dai pascoli erbosi, alla foresta di conifere, ai castagneti). Il periodo di pascoloè così molto più esteso che nelle razze di bovini convenzionali con una indubbia riduzione dei costi. Si tratta comunque di una forma di allevamento che data la ridotta produzione carne (anche la Highlander come e più della Marammana non è certo razza da elevate rese in carne ed elevati accrescimenti ponderali!) necessita di essere affiancata da valenze polifunzionali. Presente nel Malcantone (regione del Canton Ticino) e in Val Bregaglia (Grigioni, a pochi km da Chiavenna) dove è utilizzata nell’ambito di un programma finalizzato al mantenimento dell’habitat del Gallo cedrone, l’Highlander è stata introdotta anche in Valsassina (Lc).

L’allevamento bovino alpino: indirizzo lattifero ma senza trascurare la carne

Buona parte del territorio alpino e appenninico non si presta ad un allevamento “vacca-vitello” per via delle condizioni climatiche che impongono, per un lungo periodo dell’anno, il ricorso alle scorte di foraggi conservati e il ricovero del bestiame. In queste zone, in primo luogo in quelle alpine, l’allevamento bovino stanziale era ed è giustificato dall’importanza economica della produzione e della trasformazione invernale del latte. La produzione di carne in questo contesto non può non assumere un ruolo secondario anche se, in passato, la vendita e l’ingrasso dei vitelli rivestiva un significato economico relativamente più importante di oggi, come dimostrano le scelte selettive a suo tempo operate in Svizzera per la Braunvieh tendenti ancora in pieno ‘900 a valorizzare non solo l’attitudine lattifera ma anche quella per la produzione di carne e quella dinamica . L’indirizzo seguito dal selezionatori svizzeri influenzò profondamente anche il patrimonio Bruno della Lombardia a seguito della sostituzione dei ceppi locali (a volte, come nel caso della Valsassina, dotati di spiccate caratteristiche lattifere e di discreta taglia, pari a 450 kg per la vacca) con quello svizzero. Tale sostituzione, frutto di una secolare politica di importazione dalla Svizzera interna (risalente al XVII secolo) venne accellerata nel XX secolo in seguito all’introduzione di regole dirigiste nel campo della monta bovina che determinarono la contrazione delle razze locali (specie nel vicino Trentino e nel Veneto) e nella convergenza del ceppo Bruno delle Alpi lombarde verso quello elvetico. Ne risultò una Bruna di taglia più elevata, morfologicamente più corretta (con meno difetti di appiombi, mammella, insellatura, divaricazione scapole ecc.), ma a volte solo più allineata ai principi di un formalismo inutilmente rigido rispetto ai caratteri esteriori (colorazione del mantello, forma e colorazione delle corna) e, molto probabilmente, dal carattere meno lattifero di alcuni ceppi autoctoni. L’affermazione della Bruna di ceppo svizzero con caratteristiche lattifere non particolarmente spiccate ha rappresentato la premessa per l’affermazione, a partire dagli anni ‘70 del ceppo americano. Tale “svolta” che in Italia ha determionato l’allineamento al tipo statunitense di B.S. se, da una parte, ha in qualche modo impedito una sostituzione ancora più estesa della Bruna con la Frisona ha, d’altra parte, rappresentato un elemento di crisi dei sistemi zootecnici tradizionali di montagna (e di altri ambienti svantaggiati) dove un animale con attitudine lattifera non esasperata, di taglia contenuta e con una discreta attitudine alla produzione di carne possiede migliori capacità di adattamento a sistemi agricoli territoriali sostenibili. Le vacche a duplice attitudine grazie alle riserve corporee che non mobilitano con rapidità come quelle a spiccata attitudine lattifera non sono in grado di garantire elevati picchi produttivi, ma possono in parte compensare le punte produttive più basse con una migliore persistenza della lattazione e, sopratutto, non risentono come le vacche più “spinte” di quegli inevitabili fattori di variazione ambientale che si riscontrano nei sistemi dio allevamento estensivi, in particolare negli ambienti di montagna e, comunque, difficili. Minore suscettibilità ai fattori di stress significa minore incidenza di morbilità e quindi di cure sanitarie, acquisto di medicinali, tasso di riforma e di rimonta, in definitiva minori costi. Tenenedo conto del grande differenziale tra il valore del vitello delle razze a duplice attitudine e di quelle spiccatamente da latte (inclusa la Bruna/Brown) non meraviglia che gli allevatori, in assenza di indicazioni tecniche si orientino spontaneamente nella scelta dei tipi genetici allevati su soluzioni “fai da te”.
Abbiamo già ricordato come in tali contesti risulti sempre meno sostenibile il conformarsi agli standard dell’allevamento in pianura dove l’obbiettivo di elevatissime produzioni di latte per capo, è raggiungiunto attraverso il soddisfacimento di elevati fabbisogni nutrizionali, forti investimenti strutturali nelle attrezzature e nei mezzi tecnici, elevati volumi di produzione di reflui zootecnici, condizioni che in montagna e nelle zone svantaggiate determinano costi più elevati e che si scontrano con crescenti vincoli di tipo ambientale e socio-economico.
Nella ricerca di diversificazione produttiva e nell’affermazione di una precisa controtendenza rispetto ai processi di specializzazione produttiva del recente passato l’azienda di montagna (e delle altre zone svantaggiate) oltre a sperimentare la (re)introduzione di altre specie animali rispetto al monoallevamento bovino da latte tende a rivalutare le razze autoctone o, comunque con una propensione lattifera meno esasperata. Ecco allora il confortante recupero della Rendena e della Grigio Alpina e la diffusione della Pezzata Rossa che vede aumentare il numero di capi e di allevamenti mentre la Bruna perde terreno a spese della Frisona, ma anche della stessa Pezzata Rossa.

Il panorama uniformemente “Bruno” della montagna lombarda dove i tipi autoctoni sono stati da tempo assorbiti dalla Bruna di ceppo svizzero a sua volta soppiantata da una razza a spiccata attitudine lattifera come la Brown Swiss, si è andato da qualche anno a questa parte variegandosi. Nei fondovalle dove è possibile una produzione foraggera intensiva (Valtellina, Valchiavenna, Valcamonica) la Brown è stata soppiantata dalla Holstein/Frisona mentre nella realtà più difficili hanno fatto capolino oltre alla Pezzata Rossa (un po’ dappertutto) anche la Rendena (nella realtà circoscritta, ma dinamica, delle vallate sopra Luino), ma, soprattutto vari tipi di incroci. Purtroppo quello cui si assiste, nella maggioparte dei casi è un meticciamento disordinato più che la ricerca di un preciso indirizzo d’allevamento; non solo è possibile trovare vacche nutrici (a volte anche munte) prodotte dall’incrocio PiemontesexBruna, Pezzata RossaxBruna, LimousinexBruna, Blu BelgaxBruna ma anche soggetti derivati dall’incrocio di vacche F1 con tori di varie razze. Nell’assenza di indirizzi coerenti e di scelte tecniche in grado di corrispondere alle esigenze dei sistemi territoriali alcuni allevatori sperimentano soluzioni empiriche di corto respiro. Ciò indica un sintomo di un disagio che gli enti “competenti” e i tecnici preferiscono ignorare -anche per non mettere in discussione la storica egemonia della Bruna- liquidandolo come “dilettantismo”. Tale disagio indica chiaramente, però, come, al di là di orientamenti tecnici e di interessi consolidati, l’esigenza di tipi genetici a duplice attitudine, con buona capacità di utilizzare i pascoli di montagna e con discreta produzione di carne oltre che di latte sia fortemente sentita in Lombarda come nelle altre regioni alpine.
Il trascurare queste esigenze continuando a concentrare l’attenzione sulle stalle “professionali” “in selezione” rappresenta un atteggiamento da struzzi o un’espressione di interessi corporativi di agenzie tecnoburocratiche in contrasto con gli interessi della comunità professionale degli allevatori (non riconducibile ai soli allevamenti “di punta!), del territorio e del più ampio consorzio sociale.. In una prospettiva territoriale il contadino, l’allevatore part-time che alleva la manza F1 risultato delle più svariate combinazioni genetiche (Bruna italiana, Pezzata Rossa, Blu Belga, Piemontese, Limousine) assume un ruolo più importante che l’allevatore “in selezione” di bestiame Bruno ad elevata produzione. Non sempre la “pagella” zootecnica coincide con quella ecologica, anzi! E’, infatti molto più frequente che l’allevatore non “evoluto” sotto il profilo zootecnico sia il primo che più facilmente continua a sfruttare i prati-pascoli in forme più o meno estensive, non il secondo!
Si tratta quindi di prendre in considerazione una esigenza reale legata alla valorizzazione della pluriattività e della multifunzionalità, della valorizzazione dei circuiti di commercializzazione legati alle produzioni locali e all’agriturismo, alla diffusione anche in montagna delle aziende che si conformano ai “metodi di produzione biologica”. In tali circuiti assumono valore non solo gli aspetti qualitativi per quanto riguarda il latte destinato alla trasformazione in prodotti caseari caratterizzati da una specifico connotato territoriale, ma anche quelli relativi alla produzione della carne che può assumere importanza non trascurabile nell’economia dell’azienda zootecnica di montagna.

La produzione di carne ovina nei sistemi estensivi

OVINI Macellazioni in Italia nel 2002

Categoria Capi t p.v. p.v. medio resa t p.m.
Agnelli 5.021.601 62.758 13 58,1 36.479
Agnelloni 699.338 17.219 25 52,0 8.960
Castrati 9.147 435 48 53,0 231
Pecore 608.438 25.630 42 48,7 1 2.473
Arieti 9.029 491 54 51,0 251
Totale 6.347.553 106.533 17 54,8 58.394


Gregge composto da tipi locali, Bergamasca e derivati, Suffolk e derivati; il limite di molti sistemi di produzione ovina in montagna è dato dalla difficoltà di valorizzare un prodotto allevato al pascolo per un’intera stagione d’alpeggio (agnello pesante) e non solo l’agnello da latte

La produzione principale dell’allevamento ovino in Italia è rappresentata dal latte. Gli agnelli delle razze da latte non si prestano all’ingrasso e vengono macellati precocemente. La produzione di agnelloni è limitata alle razze da carne e agli incroci tra razze da latte e da carne. Tra le razze da latte la più importante è la Sarda diffusa in buona parte d’Italia seguita dalla Comisana (di origine siciliana ma con presenza anche al Centro Italia). Al Nord la produzione di latte ovino è limitata al Piemonte dove troviamo la pecora delle Langhe e la Frabosana-Roaschina. La Sarda si è diffusa anche al Nord (allevata quasi sempre da pastori sardi), nell’Appennino emiliano e ligure e persino nelle montagne venete e friulane. Le razze da carne specializzate in Italia sono la Bergamasca-Biellese, la Fabrianese (derivata dalla Bergamasca mediante incrocio con popolazioni appenniniche), l’Appenninica (derivata da varie popolazioni merinizzate e influenzata dalla Bergamasca). La Merinizzata italiana (Gentile di Puglia) in seguito alla perdita di valore della lana merinizzata europea a fronte del basso prezzo della lana australiana di migliore qualità e anch’essa come altre razze merinizzate divenuta razza da carne. Anche altre razze minori al Nord e al Sud sono divenute razze da carne. La Bergamasca grazie al sistema di allevamento transumante e alla riduzione dei costi di alimentazione che ne consegue è utilizzata per produrre prodotti tardivi (agnelloni pesanti e castrati) che in altri contesti di allevamento non trovano condizioni di economicità a fronte del costo elevato dell’alimentazione invernale a base di foraggi conservati e alla concorrenza dei prodotti di origine extracomunitaria (Nuova Zelanda).

Sistemi produzione carne ovina in Italia
Kg p.v. Sistema allevamento razze
Agnello da latte leggero 8-10 Aziende da latte Sarda ecc.
Agnello da latte pesante 10-15 Aziende accessorie Razze locali non specializzate
Agnello pesante 25-30 Allevamenti di diverso tipo (importante sbocco commerciale) Razze locali, razze da carne, incroci
Agnellone 30-40 Allevamenti stanziali specializzati e transumanti Razze specializzate italiane ed estere ed incroci
Castrati 50-70 Allevamenti transumanti Bergamasca

La storia dell’allevamento ovino rappresenta un indicatore sensibile del rapporto tra attività zootecniche-pastorali e trasformazioni socio-economiche complessive. La pecora che già nell’antichità era alla base di un allevamento commerciale destinato alla produzione industriale di prodotti del lanificio nell’Alto Medio Evo assunse principalmente importanza per la produzione di latticini. Fino al XV secolo l’allevamento bovino da latte era scarsamente diffuso nella stessa pianura padana (nonostante già si producesse formaggio grana) e il formaggio più consumato era ancora quello pecorino. Dal XII secolo, però, la lana era tornata ad essere la ragione principale dell’allevamento ovino che fu alla base dello sviluppo dei grandi centri lanieri pedemontani (Biella, Borgosesia, Bergamo, Valdagno). In seguito, nonostante la crescente importanza dell’importazione di lane dall’estero il valore della lana restò sempre elevato mentre la produzione di latte ovino restava circoscritta all’autoconsumo o a zone limitate (Alta Langa, Alpi Marittime).
Con l’affermazione del Mercato Comune Europeo negli anni ‘50 mentre alcuni prodotti agricoli e zootecnici strategici divenivano oggetto di una politica rigidamente protezionista la lana, che rappresentava la materia prima di un settore importante dell’industria europea, venne classificata un prodotto industriale e venne liberalizzata la sua importazione dai paesi extraeuropei produttori. In consegenza di questa opzione politica il valore delle lane europee crollò e l’allevamento ovino già indirizzato alla produzione laniera dovette indirizzarsi verso la produzione di carne peraltro sostenuta (ancor oggi) da misure di sostegno che rappresentano una non trascurabile integrazione di reddito per chi esercita l’allevamento ovino da carne secondo moduli estensivi. L’allevamento ovino da carne si adatta meglio di quello bovino a differenti condizioni ambientali e climatiche trova condizioni idonee in ampi spazi territoriali della montagna alpina e appenninica. Oltre ai sistemi transumanti, di cui si è già trattato, sono diffusi nell’ambito della montagna alpina e prealpina dei sistemi di allevamento stanziale caratterizzati dalla ridotta dimensione dei greggi (10-30 capi) e dal carattere part-time. A volte gli allevatori di ovini da carne praticano questo allevamento come secondario rispetto a quello bovino o caprino (le pecore da carne utilizzano il fieno scartato dalle vacche da latte e, sopratutto, dalla capre da latte che sono in grado di operare una forte selezione anche sul foraggio, fresco o conservato, somministrato in mangiatoia). Altre volte gli allevatori di ovini sono pensionati o esercitano attività extra-agricole. L’aumento del numero di ovini negli ultimi anni nella montagna alpina e prealpina è legato ai seguenti fattori

• utilizzo di rustici già adibiti a ricovero per le vacche da latte in seguito all’abbandono di questo allevamento, dal punto di vista dei costi questi fabbricati richiedono ridotte manutenzioni mentre il costo d’ammortamento è già azzerato;
• utilizzo di superfici proprie o di altri proprietari nei “maggenghi” non più utilizzati per lo sfalcio e il pascolo bovino che rappresentano una risorsa foraggera gratuita e che, in caso di mancato pascolo comporterebbero oneri di slalcio e decespugliamento al fine di evitare l’invasione della vegetazione arbustiva ed arborea;
• utilizzo di pascoli di alta quota un tempo utilizzati dai bovini e/o dai caprini da latte e abbandonati a causa della scarsa qualità o accessibilità.

Tutti questi elementi, uniti alla citata concessione di contributi da parte dell’Unione Europea, mantengono molto basso il costo di allevamento che si riduce al di là delle spese per medicinali e sale nella provvista del fieno (prodotto normalmente in azienda) per il breve periodo di stabulazione invernale. A fronte di costi estremamente contenuti questo sistema d’allevamento non da luogo a volumi produttivi soddisfacienti. La stagionalità del mercato (condizionata dalla forte lievitazione dei prezzi in corrispondenza della Pasqua ) non consente di valorizzare prodotti diversi dall’agnello da latte risultando ancora molto limitata le produzione di agnelli pesanti e agnelloni.

Tabella Prodotti ovini nelle condizioni dell’allevamento stanziale alpino (peso vivo alla nascita ca 4 kg)
peso alla macellazione (kg) età alla macellazione (giorni)
agnello da latte pesante 10-15 30-50
agnello pesante 25-30 90-120
agnellone >35 >130

La produzione di agnelli da latte, a volte macellati anche più precocemente di quanto indicato in Tabella a causa della sopravvenienza delle festività pasquali non rappresenta certamente un modo adeguato di sfruttare la potenzialità produttiva del sistema di allevamento. Gli agnelli nati in primavera (almeno quelli nati nel periodo succesivo alla Pasqua) potrebbero essere mantenuti al pascolo insieme alla madre con costi aggiuntivi trascurabili ed essere macellati alla fine dell’estate. Tale prodotto date le condizioni di alimentazione “naturali” potrebbe essere adeguatamente valorizzato nell’ambito della ristorazione locale e per la preparazione di prodotti tradizionali a base di carne conservata (salata, essiccata, affumicata). La promozione della carne di agnelli pesanti e agnelloni allevati sui pascoli alpini presuppone il superamento della frammentazione dei produttori, accordi con le aziende di macellazione e trasformazione delle carni, marchi di qualità. E’quanto si sta cercando di fare nel caso di alcune razze autoctone dove la particolare qualità è ricondotta alla doppia specificità consistente nel tipo genetico e nel sistema di allevamento e di alimentazione. Si possono citare a questo proposito le razze ovina Sambucana (Valle Stura di Demonte in Piemonte) e di Alpago (sull’altopiano di Asiago) . Entrambi i prodotti (Agnellone Sambucano Tardoun e Agnello d’Alpago) sono divenuti Presidi Slow Food. Si tratta di esempi di valorizzazione ancora isolati perché la maggiorparte della produzione ovina dell’Arco Alpino non gode ancora di alcuna riconoscibilità. Nelle condizioni di allevamento ovino stanziale non vi sono margini economici per la produzione del castrato (soggetti macellati sopra gli 8 mesi del peso –nel caso della razza Bergamasca- di 70-80 kg).

Macellazioni di ovini e caprini per mese in Italia (Istat, 2002)

Prodotti derivati dalla carne ovina

Rappresentano un aspetto strategico della valorizzazione delle carni ovine allevate in modo estensivo specie sull’Arco Alpino. Qui esiste una radicata tradizione di conservazione delle carni ovine mediante salatura (salamoia), essicazione al sole, affumicatura. Tra i prodotti derivati di carne ovina citiamo i Violini (prosciutti) ottenuti oltre che con le cosce e le spalle di capre anche con le cosce di agnelloni e pecore adulte, tipici della Valchiavenna (So), la Mocetta della Valle d’Aosta (cosce e altri tagli di carne ovina salata), la Pitina del Friuli (carni ovine e miste macinate, salate e speziate), la carne di pecora affumicata della montagna veneta, la Bèrgna, tipica di Biella e della Vallecamonica (si tratta di carne ovina fatta essiccare al sole), il Bursàt di Livigno (So), carne ovina salata, aromatizzata e conservata all’interno di un involucro di pelle di pecora.

Parametri produttivi nell’allevamento ovino.

Negli ovini la specializzaizone nella produzione di carne è legata a tre diversi aspetti: precocità sessuale e ritmo riproduttivo; prolificità, conformazione e resa in carne della carcassa. Queste caratteristiche non sono presenti di solito contemporaneamente nelle diverse razze.
A differenza dei caprini gli ovini non presentano alle nostre latitudini un lungo e marcato anaestro stagionale e possono partorire anche due volte all’anno o, più comunemente due volte ogni tre anni. La loro potenzialità di produzione di carne è quindi più elevata. Oltre a ciò si deve aggiungere che in Europa sono state selezionbate razze ovine con una conformazione corporea che garantisce ottime rese in carne mentre nel nostro continente le razze caprine autoctone sono tutte da latte e, semmai, a duplice attitudine.
Nell’allevamento ovino estensivo basato sulla produzione dell’agnello da latte (allattato sotto la madre) la produttività è condizionata dalla cadenza riproduttiva delle pecore, dal numero di nati vivi, dalla mortalità degli agnelli sia nel periodo immediatamente successivo al parto che nel periodo dal parto allo svezzamento. Il peso raggiunto dagli agnelli alla vendita è condizionato dalla morbilità e dalla produzione di latte delle madri.

Tabella. Parametri produttivi nell’allevamento ovino da carne
Tasso di fertilità (Tf) N pecore gravide/N di pecore in età riproduttiva * 100
Tasso di prolificità (Tp) N agnelli nati/ N pecore partorite * 100
Tasso di fecondità (TF) N di pecore partorite/ N pecore in età riproduttiva * 100
Tasso di mortalità (Tm) N agnelli morti prima dello svezzamneto/ N agnelli nati * 100
Tasso di produttività (P) TF - TF * Tm

Nell’allevamento estensivo i vari fattori di stress che influiscono negativamente sulla produttività del gregge sono spesso legati tra loro e sono riconducibili a condizioni climatiche avverse. Di seguito prenderemo in considerazioni quali tra le determinanti della bassa efficienza riproduttiva (produttività biologica) sono condizionate dai fattori ambientali.

Tabella. Cause di ridotta efficienza riproduttiva
Motivo Descrizione Cause
Mancata /ridotta/ ritardata ovulazione prolungamento anaestro stagionale/basso tasso di ovulazione Iponutrizione (bassi livelli glicemia), carenze di oligoelementi, freddo, stress
Mancata inseminazione cause comportamentali, numero arieti insufficiente
Mancata fecondazione qualità del seme degli arieti, ostruzione delle tube o altri problemi anatomici
Mortalità embrionale Mancato annidamento placentare degli embrioni (entro 40 g dall’estro) difetti genetici dell’embrione, difetti del sistema utero-tubale della madre, stress, elevate temperature, iponutrizione
Aborto Morte del feto

Tra gli aspetti riproduttivi maggiormente influenzati dalle circostanze ambientali (nutrizione, clima) figura la mortalità embrionale. La mortalità embrionale comporta ridotta gemellarità e riduzione del tasso di fecondità. E’maggiormente grave quando si verifica verso la fine del periodo delle monte, ma anche in precedenza determina conseguenze negative: ritardo dell’epoca media del parto (particolarmente grave quando la produzione è legata ad un mercato stagionale) e dispersione dei parti. La mortalità embrionale anche se si verifica all’inizio della stagione riproduttiva compromette il tasso di fertilità perché influisce negativamente sulla successiva fecondazione risultando più difficile la progressione degli spermatozoi. Oltre a distinguere tra le conseguenze della mortalità embrionale all’inizio e alla fine della stagione riproduttiva si deve distinguere anche tra mortalità precoce (<13 giorni dall’estro) e tardiva. Nel primo caso il corpo luteo gravidico no ha potuto ancora instaurarsi e quindi la pecora tornerà in calore a 20 giorni di distanza dall’ultimo estro in modo che non risulta possibile distinguere tra mancata fecondazione e mortalità embrionale. Dopo il 13° giorno la morte embrionale determina un ritardo nel ritorno in calore. La forte mortalità embrionale che si verifica tra il 15° e il 20° dalla fecondazione determina un ritorno in calore ritardato tra il 25° e il 35° giorno. Tale ritardo consente di diagnosticare la mortalità embrionale.

Tabella. Cause ambientali di mortalità embrionale
Nutrizione Clima Altri fattori
-ipernutrizione
-iponutrizione
-carenza oligoelementi (Se, Cu, Zn, Mn)
-leguminose (fitoestrogeni)*
-crucifere (fattori antitiroidei) -caldo continuo dal giorno dopo la fecondazione
-freddo accompagnato da vento e pioggia (nei giorni immediatamente prima e dopo la fecondazione) -manipolazioni eccessive e trasporto
-immissione di pecore estranee nel gregge
* mortalità tra la terza e la quarta settimana; ** mortalità tra il 13°-19° giorno

Vale la pena sottolineare come in condizioni ambientali difficili la sopravvivenza di due embrioni si riveli particolarmente difficile. Entrambi gli embrioni possono morire in circostanze di iponutrizione o di stress materno in cui un solo embrione non subisce danni.
L’effetto del basso tasso di ovulazione e della mortalità embrionale si sommano determinando la bassa prolificità delle pecore mantenute in condizioni estensive . L’effetto dello stato nutrizionale e di conseguenza della condizione corporea (stato di ingrassamento valutato attraverso il punteggio BCS) è messo bene in evidenza dalle osservazioni effettuate su razze ovine in Gran Bretagna.

Tabella. Effetto della condizione corporea sulla prolificità nella pecora North County Cheviot (daGunn, 1983)
Body condition score 2.0 2.5-3.0 3.0
Prolificità 133 153 129

Tabella. Effetto dell’incremennto o decremento del peso corporeo all’accoppiamento sulla prolificità di pecore in Border Leicester x Scottish Blackface (da Gunn and Maxwell, 1978).
Direzione variazione peso vivo Perdita Mantenimento Aumento
Prolificità 158 178 196

 

Anche la mortalità neonatale è influenzata dalle condizioni ambientali. Le perdite di agnelli nelle prime ore di vita sono in genere legate all’ipotermia derivante dall’incapacità dell’agnello neonato di mantenere la temperatura corporea in condizioni di pioggia quando la perdita di calore per evaporazione dell’acqua che inzuppa il mantello (eventualmente accentuata dalla forte velocità dell’aria) è molto forte. Anche in queste circostanze un agnello mato da parto singolo ha più possibilità di sopravvivere rispetto ad agnelli gemelli. Oltre ad essere meno sviluppati i gemelli riescono con minore facilità ad essere protetti e riparati dalla madre. Queste considerazioni sulla maggiore vulnerabilità dei gemelli valgonoa nche per la mortalità post-natale (legata a carente assunzione di colostro/latte, malattie).

Produzione di carne con altre specie animali

La capra in Europa non è stata ovunque allevata principalmente per il latte e, secondariamente per le pelli (in passato molto ricercate per fabbricare scarpe e borsette e ora importate dall’Africa). Razze di capre da carne (se si escludono le razze nane africane) si sono sviluppate nel mondo solo in tempi recenti (Criollo nel Messico e Boera in Sudafrica, quest’ultima recentemente introdotta in Germania). Nella specie caprina il problema del sapore sgradevole delle carni dei soggetti maschi sessualmente maturi, specie in corrispondenza della stagione riproduttiva autunnale è ancora più accentuato che in quella ovina e l’allevamento di soggetti maturi rende necessaria la castrazione. Essa è praticata in Europa per consentire il consumo delle carni dei maschi mentre in altri continenti è utilizzata per consumare le carni di soggetti di circa sei mesi di età.
La produzione del caprettone è tipica del Sud Italia ma ormai è molto limitata. Al Nord in compenso il peso vivo dei capretti da latte macellati è più elevato. Mentre negli allevamenti specializzati da latte del Nord Italia il peso vivo del capretti alla macellazione è intorno ai 12 kg, negli allevamenti accessori e semiestensivi il prodotto destinato all’autoconsumo o alla vendita diretta può arrivare a 16-18 kg e oltre (capretto da latte pesante). Il capretto leggero è l’unico prodotto richiesto dalle rivendite tradizionali che in occasione delle festività di Natale (al Sud) e Pasqua mettono in vendita carcasse e mezzene non sezionate per il consumo diretto famigliare. Questa forma di commercializzazione è analoga a quella dell’agnello da latte anche se, come visto, la presenza sul mercato di importanti quantità di carne fresca (e congelata) di agnelloni esteri ha creato una maggiore diversificazione del mercato e dei consumi della carne ovina. La G.D.O. oggi commercializza carni ovine di varie categorie tutto l’anno per venire incontro alle esigenze di popolazioni immigrate di varie origini, ma anche in relazione alla destagionalizzazione del consumo di carne ovina in seguito alla diffusione di esperienze di consumo mediate dalla ristorazione tipica e dalla conoscenza di cucine europee ed extraeuropee che utilizzano largamente la carne ovina. Lo stesso non si può (ancora) dire per la carne caprina anche se si segnala qualche esperienza di commercializzazione presso GDO e rivendite tradizionali di capretti pesanti di produzione locale. Nel complesso il mercato di carne caprina è ancora fortememente condizionato dal consumo rituale durante le festività. Questo mercato da un lato consente di sfruttare una sostenuta domanda di capretti nel periodo immediatamente precedente la Pasqua, ma penalizza gli allevatori che non sono in grado di programmare le nascite. Nell’allevamento estensivo alpino caratterizzato da un sistema di monta non controllato sui pascoli nel periodo autunnale le condizioni ambientali che influenzano l’avvio della stagione riproduttiva e l’incidenza di mortalità embrionale (e quindi dei ritorni in calore), determinano uno “sfrangiamento” e uno “slittamento”del picco stagionale di natalità con la conseguenza di dover vendere i capretti dopo Pasqua (specie se cade tardi) e spuntare prezzi bassi o di dover vendere animali di ridotto peso vivo. La valorizzazione della produzione caprina estensiva richiede, come nel caso delle razze ovine, la tipicizzazione del prodotto-capretto , ma anche quella dei derivati dalle carni. Oltre agli ormai noti Violini di capra non si devono dimenticare tra i prodotti tipici dell’allevamento alpino i salamini di capra. Sono prodotti ottenuti da carne di capra accuratamente mondata dal grasso (il grasso caprino ha scarsa consistenza, può facilmente irrancidire e determinare odori sgradevoli) molto gustosi e di rapida stagionatura che spuntano buoni prezzi sui mercati locali. La produzione di carne nelle capre è limitata da una stagionalità riproduttiva che. A differenza degli ovini, non consente (a meno di manipolazioni ormonali o del fotoperiodo) di ottenere più di un parto all’anno. La produzione di carne dipende quindi dalla prolificità, dall’età di macellazione e dalla resa dei diversi soggetti e delle diverse razze. Nelle capre adulte i parti gemellari sono molto frequenti e non mancano qualli trigemini. Le razze selezionate per la produzione di latte in condizioni ambientali favorevoli presentano anche una migliore prolificità. Nelle primipare il numero di nati è in media di 1,3 per parto, mentre nelle pluripare arriva a 1,8. Nelle razze locali alpine le condizioni ambientali (monta allo stato brado) e la selezione a favore di parti singoli mantengono il numero di capretti nati per capra pluripara intorno a 1,2-1,3 con l’eccezione della Frisa Valtellinese, razza di grande taglia, che può presentare valori di 1,4-1,5 nati per capra.

Tabella – Macellazioni ovicaprine in Italia (2002, Istat)
Capi t p.v. p.v. medio resa t p.m.
Capretti e Caprettoni 500.215 4.755 10 61,2 2.912
Capre 83.175 2.976 36 48,5 1.442
Becchi 4.010 225 56 48,9 110

 

Equini

La carne equina ha una bassa penetrazione di mercato. E’utilizzata da consumatori abituali che ne apprezzano il gusto particolare o le qualità dietetiche (è molto ricca di ferro). Per molti consumatori il gusto della carne di cavallo risulta dolciasto e poco gradevole mentre altri sono condizionati da motivi psicologici e culturali. La carne di cavallo in passato era considerata la carne dei poveri perché ottenuta da animali da lavoro a fine carriera o perché disponibile durante guerre. Di fatto il consumo di carne di cavallo era poco sicuro perché molto meno conservabile di quella bovina o di altri animali a causa del pH, dell’elevato contenuto di zuccheri e azoto non proteico. Fino a non molti anni fa era possibile acquistare la carne equina solo in apposite rivendite autorizzate che, peraltro, non potevano reclamizzare altre carni. Ciò limitava la vendita alle città e alle zone rurali dove il consumo era più radicato. In Italia il consumo di carne equina è di soli 1,7 kg pro capite (l’Italia è comunque uno dei principali paesi ippofagi preceduto da Francia e dal Belgio che detiene questo primato). In Puglia (dove di consuma il 50% della carne equina) in Sardegna, ma anche nelle regioni padano-venete il consumo è più elevato della media.
Nelle regioni settentrionali il consumo di carne di cavallo (e d’asino) è tipico non solo di alcune aree lungo il Po, ma anche delle valli alpine. In Valtellina la Bresaola e la Slinzega si producono oltre che con la carne bovina anche con quella di cavallo mentre in Vallecamonica è diffuso il consumo della carne salata di cavallo.

Macellazioni di equini in Italia (2002, Istat)
Specie Capi t p-v- p.v. medio resa t p.m.
Cavalli 197.823 83.403 422 54,6 45.500
Muli e Bardotti 99 29 290 47,7 14
Asini 1.168 273 234 51,6 141

Il consumo di carne equina è coperto per il 75-80% da carne proveniente dall’estero o di animali macellati in Italia e importati vivi. La produzione di carne equina è limitata da considerazioni economiche. Il prezzo è relativamente basso in ragione dell’importazione da paesi con costi di produzione molto contenuti. Esso non è mai stato oggetto di sostegno dal momento che i paesi del Mec prima e della CE dopo erano fortemente deficitari e non vi era un consistente allevamento interno da difendere. L’unico prodotto che ha uno spazio di mercato è il puledro da latte (da non confondere con il puledro che può avere fino a due anni di età). Il lattone è svezzato a sei mesi sfruttando la buona attitudine materna delle fattrici (che possono produrre sino a 15 l di latte al giorno). Dal momento che nell’equino la stagione di monta è limitata alla primavera il puledro e la madre sfruttano in genere i pascoli estivi e il pulendro è venduto in quando la stagione di pascolo finisc. L’allevamento del puledro può essere conveniente solo dove si dispone di abbondante pascolo per un lungo periodo dell’anno; in tal caso esso può usufruire di una seconda stagione di pascolo estivo ed è venduto al secondo autunno. Il pascolo brado è praticato nell’Appennino dove i cavalli possono restare a lungo sui pascoli sfruttando anche zone collinari e di bassa montagna oltre ai pascoli più alti in estate. L’allevamento brado del cavallo consente di ridurre i costi e di ottenere un’elevata fertilità mantenendo lo stallone nel periodo primaverile con le giumente. Laddove, invece, le cavalle sono poche e devono essere portate ad una stazione di monta (o fecondate artificialmente a domicilio) la fertilità è sempre molto bassa (circa 50%) a causa del lungo periodo estrale e della difficoltà di individuare il momento favorevole per l’accoppiamento. Nelle Alpi la disponibilità di pascoli in quota non più utilizzati da altro bestiame consente di praticare per una parte dell’anno un allevamento semibrado del cavallo anche se non risolve il problema dell’alimentazione invernale; il cavallo a parità di peso vivo consuma sensibilmente più foraggio dei ruminanti a causa di un utilizzo meno efficiente della cellulosa. Se alla produzione del puledro da latte si aggiungono altre utilità (trasporti, lavori agricoli, agriturismo) il cavallo può però ancora oggi trovare una sua collocazione nell’azienda agricola di montagna. La razza equinba più utilizzata in Italia sia nelle Alpi che sugli Appennini è la razza Haflinger originaria di una località nei pressi di Merano (Bz).
Attualmente le macellazioni di asini sono in crescita a causa dell’aumento della presenza di questa specie grazie alle importazioni da paesi dell’Est e dalla Spagna di soggetti a basso costo che rispondono alle esigenze di allevatori amatoriali o comunque accessori interessati a un uso “multifunzionale” dell’asino (mantenimento di superfici erbacee e limitata produzione di carne). Gli allevamenti professionali puntano, invece, oltre che sulla carne, anche sulla vendita delle fattrici. La ripresa dell’allevamento asinino –entrato in crisi alcuni decenni orsono per la sparizione delle piccole aziende contadine che lo utilizzavano per i trasporti e per la sua sostituzione con mezzi meccanici- è condizionata dal costo dell’alimentazione invernale. L’asino per quanto meno esigente del cavallo richiede anch’esso interventi di mascalcia, vaccinazioni e la disponibilità di superfici asciutte.

La produzione di lana e altre fibre animali

Le produzioni cheratinose prodotte dai follicoli piliferi dagli animali si sono evolute al fine di proteggere gli animali dalle avversità climatiche (freddo, vento, pioggia). Successivamente alla domesticazione degli ovini (Ovis aries) l’uomo ha fissato con la selezione alcune mutazioni e dal tipo di mantello “selvatico” , simile negli ovini domestici primitivi a quello del muflone (Ovis musimon) e di altri mammiferi selvatici, si è sviluppato il vello lanoso fino ad arrivare alla produzione di fibre di estrema finezza attraverso processi selettivi che, in Australia, il paese dove la produzione di lana greggia e la ricerca scientifica sulla lana assumono maggiore importanza, sonoancora in atto. Le differenze tra il mantello e il vello lanoso degli ovini domestici “moderni” sono indicate nella seguente tabella.

Tabella. Differenza tra il vello lanoso degli ovini “moderni” e il mantello degli animali domestici e selvatici
Modalità di crescita Tipi di fibre Pigmentazione
Mantello Muta stagionale Strato esterno costituito da peli lunghi e grossolani, strato interno costituito da peli corti e fini Quasi sempre presente
Vello lanoso Crescita continua Unico tipo di fibre Spesso apigmentato

Nel corso della storia coevolutiva dell’uomo e della pecora sono state fissate dall’uomo una serie di mutazioni genetiche presenti nella specie ovina che in natura non avrebbero avuto alcuna possibilità di essere trasmesse alle generazioni successive per il forte carattere disadattativo. La crescita continua e l’assenza di muta rendono la pecora dipendente dall’uomo per la tosatura mentre il colore bianco della lana (a differenza del mantello di colore mimetico nell’ambiente del muflone) la renderebbero facilmente visibile ai predatori. Le mutazioni occorse nel processo di trasformazione del mantello selvatico in vello lanoso sono state:

 allungamento della fibra
 permanebte accrescimento della fibra
 riduzione ad una sola categoria di fibre (vello omotrico)
 merinos

L’ultima delle mutazioni indicate ha interessato una sola categoria di ovini: i Merinos, un tipo genetico evolutosi nel corso dei secoli in un lungo processo che ha visto razze con lana sempre più fine compiere un lungo percorso dall’Asia minore all’Africa del Nord ed infine alla Spagna. Tale mutazione consiste nella presenza di un numero elevatissimo di follicoli piliferi per unità di superficie cui consegue una estrema finezza della fibra che presenta diametro medio < a 20 .
Oltre alla lana merinos esistono altre fibre animali estremamente fini e pregiate ottenute dai caprini e dai camelidi.

Tabella Fibre animali pregiate
Denominazione della fibra Specie animale
Mohair Capra d’Angora
Cachemire Capra Cachemire e affini
Alpaca Alpaca (camelide)
Vigogna Vigogna (camelide)
Cammello Cammello (camelide)

L’interesse per le fibre animali pregiate è aumentato considerevolmente negli ultimi anni e l’allevamento delle Capre d’Angora e Chachemire si è diffuso anche in Europa ed in Italia. E’interessante ricordare, a questo proposito, che l’Italia è il principale produttore di tessuti Chachemire. Recentemente si è diffuso anche l’allevamento dei camelidi (alpaca). Si tratta di allevamenti che si adattano a condizioni ambientali caratterizzate dalla presenza di pascoli magri, clima freddo e asciutto e che quindi potrebbero prestarsi alla valorizzazione di superfici e ambienti marginali. Al di là di aspetti tecnici (deve ancora essere chiarita l’influenza delle condizioni ambientali sulla qualità della fibra) vi sono aspetti economici legati alle modalità di commercializzazione del prodotto che inducono ad assumere una posizione cautelativa rispetto alle possibilità di diffusione di questi allevamenti. Va osservato che il mercato di questi prodotti è fortemente condizionato dalle caratteristiche qualitative (il valore di un kg di fibra può variare da milioni a poche decine di migliaia di lire in funzione di una differenza di diametro medio di 2) e che solo i ceppi maggiormente selezionati di queste razze presentano le caratteristiche qualitative di eccellenza che spuntano prezzi elevati. Nel caso della Capra d’Angora il miglior materiale genetico è detenuto dal Sud Africa che vieta l’esportazione di materiale genetico. Ceppi di questa razza caprina originaria dell’Anatolia si trovano anche negli Stati Uniti, in Australia, Nuova Zelanda e anche in Europa ma la qualità è spesso inferiore. La capra d’Angora fornisce una fibra lunga e finissima (17) prodotta anche in quantità elevate (sino a 3-4 kg/capo/anno). Al contrario del Mohair il Cachemire (o Duvet o Down)è prodotto in quantità molto più limitate (0,2-0,25 kg/capo/anno) e può essere ottenuto solo mediante pettinatura manuale delle capre. Il Cachemire, infatti costituisce il sottopelo, lo stato interno del mantello della capra –come degli altri animalimai-costituito da fibre corte e sottilissime. La produzione della materia prima è controllata dalla Cina dove –nella parte sud-occidentale- si trovano le elevate aree montuose nelle quali la capra Cachemire è allevata. Anche nell’Asia centrale ex-sovietica sono allevate razze di capre che producono fibre di elevata qualità anche se inferiore al Cachemire vero e proprio. In Europa l’allevamento della capra Cachemire ha avuto origine in Scozia dove capre della locale popolazione feral sono state incrociate con soggetti di provenienza asiatica e dove, con sucecssive importazioni si è affermato un ceppo sufficientemente puro. Capre Cachemire sono presnti anche in Germania.

La produzione di lana, aspetti economici

La lana non è attualmente considerata dall’Unione Europea un “prodotto agricolo” e pertanto non è oggetto di nessuna forma di aiuto alla produzione. Questa politica andrebbe rivista alla luce delle interessanti esperienze di valorizzazione delle lane locali in atto in Europa e, in particolare, nell’Arco Alpino dove dal Piemonte al Trentino al Nord Tirolo sono stati avviati innovativi progetti di utilizzo delle lane locali per la produzione di articoli di abbigliamento tipici e di articoli sportivi nonché per la promozione del suo utilizzo nella bioedilizia in funzione di isolante termico. E’utile sottolineare come la valorizzazione della lana affiancandosi a quella delle carni ovine (fresche e trasformate) può rappresentare per l’Arco Alpino un’occasione di rilancio di tradizionali sistemi pastorali in grado di consentire la conservazione delle risorse genetiche locali (razze a rischio di estinzione o in via di rarefazione) e, al tempo stesso, l’utilizzo di ampie superfici territoriali.
La qualità della lana è in funzione dell’utilizzo cui è destinata. Innanzitutto la qualità della lana o, meglio del vello intero come risulta dopo la tosatura dipende da due fattori che sono legati all’ambiente (vegetazione, clima, terreno) e al sistema di allevamento. La lana grezza è detta sucida e contiene impurità di diverso tipo: sabbia, sterco, residui vegetali, grasso e il “sudore”, ossia

Terminologia relativa alla lana
Sucida E’ la lana che non ha subito ancora alcun trattamento di pulizia e contiene ancora il grasso e le impurità
Lavata a fondo E’ sottoposta a uno a più cicli (in funzione del grado di sporcizia) di lavaggio con Na2C03, H20, detergenti
Bistosa Lana ottenuta da una delle due tose annuali (primaverile e autunnale)
Saltata Lana ottenuta da pecore fatte “saltare” ossia immergere in un corso d’acqua naturale o vasca di lavaggio

Lo scarso valore attuale della lana sucida “nostrana” (0,5 cent/kg) non coprendo neppure il costo della tosatura (1,3 E/capo) induce i pastori a non preoccuparsi di quegli accorgimenti che potrebbero ridurre il grado di sporcizia del vello.

La finezza media delle fibre costituisce, però, un parametro fondamentale perché da essa dipende l’attitudine dell lana alla trasformazione tessile. Una fibra più fine a parità di peso consente di ottenere una maggiore quantità di filato tanto è vero che nel sistema inglese di classificazione delle lane si esprime la finezza mediante una unità di misura che esprime il numero di matasse di filato ottenibili con un’oncia di lana pulita. La lana fine presenta molte più ondulazioni per unità di lunghezza, è più “arricciata” e questa sua caratteristica le conferisce elasticità. La maggior finezza e la maggior arricciatura determinano il potere isolante della lana in quanto l’intreccio più denso delle fibre per unità di volume di tessuto ha la capacità di “intrappolare” l’aria e di creare uno strato di aria ferma che si riscalda a contatto del corpo e riduce la dispersione di calore. Un capo di abbigliamento o una coperta di lana fine mantengono molto più efficacemente il calore corporeo rispetto ad un tessuto, più pesante, ottenuto con lana grossolana (come è facile constatare cercando di scaldarsi con quelle vecchie coperte di lana pesanti e ruvide che si trovano ancora in qualche rifugio alpino).
Oltre ad essere più “caldi” e leggeri gli articoli ottenuti con la lana fine hanno un grande pregio: la morbidezza e la minore suscettibilità all’infeltrimento. La morbidezza è lagata alla maggiore finezza ed elasticità delle fibre ma anche all’assenza di peli grossolani, spesso presenti con una certa percentuale nel vello delle pecore di razze a lana grossolana. La “giarra” o pelo caprino costituisce quella frazione di fibra che al contrario della lana presenta un canale midollare in analogia con il pelo non modificato dei mammiferi. Il “pelo morto” rappresenta un’altro elemento che riduce la valutazione commerciale della lana. Trattasi di fibre che, al contrario della fibra di lana che (come abbiamo visto) continua a crescere e non cade mai, si stacca dalla radice. I peli che si trovano frammisti alla lana sono più fragili e ne riducono la filabilità, la resistenza e l’elasticità; oltre a queste proprietà negative dal punto di vista meccanico ne presentano anche una molto importante dal punto di vista chimico: sono refrattari alla tintura e non consentono l’ottenimento di un tessuto di tinta uniforme.

Tabella. Caratteristiche della lana “fine” e di quella “grossolana”
Lana “fine” Lana “grossolana”
Diamtro medio fibre () 20 30-40
Lunghezza (cm) 10 20
Produzione (kg/capo) 2 4
Resa in lana lavata a fondo (%) 30-40 50-60


A dimostrazione, però, del carattere non assoluto delle caratteristiche qualitative della lana come di altri prodotti di origine animale si può osservare che proprio alla forte presenza di “pelo morto” è legato il caratteristico aspetto del tessuto sportivo “Tweed” tipico della Scozia. La mancata colorazione del pelo morto (che resta bianco) conferisce al Tweed come ad altri tessuti ottenuti con lane grossolane quell’effetto melange che li rende peculiari.
I tessuti di lana sportivi devono presentare qualità differenti da quelle dei tessuti ottenuti con lana fine. In questo caso la qualità non è data dalla leggerezza, dalla morbidità ma dalla resistenza all’usura e all’impermeabilità. Da questo punto di vista la lana grossolana si presta alla produzione di tessuti che, adeguatamente finiti e trattati, sono idonei all’impiego all’aperto per caccia e sport.
La crescente attenzione per l’utilizzo di materie prime ecologiche (rinnovabili e prodotte in un ambito bioregionale) nell’abbigliamento e nell’edilizia può aprire nuove prospettive di utilizzo delle lane nostrane per le quali sono venuti meno gli utilizzi tradizionali a causa della concorrenza delle fibre sintetiche e delle lane importate dai paesi extracomunitari dove l’allevamento è favorito dal clima e dalle grandi superfici di pascolo disponibili.
Le possibili utilizzazione delle lane “nostrane” prodotte dalle razze ovine dell’Arco Alpino


Provenienza e utilizzi delle lane “nostrane”
Caratteristiche provenienza utilizzi
Lane molto grossolane (>40-45 Razze da latte (Langhe), razze primitive Tappeti e moquettes, isolante per edilizia
Lane grossolane (35-40) Bergamasca-Biellese e derivate Materassi, coperte per cavalli, panno pesante per abbigliamento sportivo, feltro
Lane semigrossolane (<35) Sambucana Maglieria, coperte, tessuto sportivo

Elementi di bioclimatologia

Nei sistemi di produzione zootecnica estensivi e pastorali il clima esercita una influenza determinante sulle condizioni fisiologiche e nutrizionali degli animali e quindi sulle loro performance produttive e riproduttive. In alcune specie di animali domestici la durata del periodo di illuminazione diurna condiziona in modo sensibile la riproduzione nello stesso modo degli animali selvatici. Bovino ed equino presentano entrambi una gravidanza lunga e per poter partorire nel momento dell’anno favorevole (primavera) doveono riprodursi nel periodo privaverile-estivo; sono specie pertanto in cui la riproduzione è stimolata dall’allungamento del fotoperiodo (giorni lunghi); delle due, però solo l’equino è condizionato in modo evidente dalla stagione dal momento che dall’estate cessa la produzione di spermatozoi e l’ovulazione mentre nel bovino il condizionamento della stagione è quasi del tutto scomparso. Ovini e caprini e suini sono invece specie a “giorni corti” anche se nei suini e in alcune razze di ovini questa caratteristica si è in larga misura attenuata. Nelle diverse specie domestiche l’adattamento delle razze ai diversi ambienti ha modificato le caratteristiche delle diverse razze.
Mentre le capre tranne all’equatore presentano sempre una riproduzione in condizioni di accorciamento della durata della luce, gli ovini, che hanno più profondamente subito una differenziazione genetica sotto l’influsso della domesticazione, presentano situazioni molto differenziate. Nel Nord Europa le razze ovine presentano un estro stagionale autunnale come le capre, ma già nell’ambito del Mediterraneo (comprese le Alpi) e gli altri massicci montagnosi dell’europa centro-meridionale, molte pecore presentano un estro primaverile che determina una doppia stagione riproduttiva e di parto con “code” che in alcune razze e in grossi greggi (come è il caso della pecora Bergamasca) consentono di avere nascite distribuite lungo quasi tutto l’anno (pur se con punte autunnali e primaverili). Rispetto agli altri fattori (stimolazione delle presenza di individui dell’altro sesso, condizioni nutrizionali) il fattore fotoperiodo ha una importanza prelalente seguito per importanza dalla temperatura dell’aria.

Tabella. Durata dell’anaestro nelle diverse razze ovine o caprine del mondo (da Chemineau)
Zona specie/razza durata dell’anestro (giorni) fonte
Europa del Nord Mountain Blackface 226 Hafez, 1952
Border Leicester 234
Welsh Mountain 232
Ile-de-France 215 Thimonier y Mauléon, 1969
Cubras Alpinas 259 Chemineau et al., 1992a
Bacino del Mediterraneo Préalpes du Sud 131 Thimonier y Mauléon, 1969
Rasa Aragonesa 91 Abecia, 1992
Chios 101 Avdi et al., 1988
Barbarina 123 Khaldi, 1984
Tadmit 51 Ammar-Khodja y Brudieux, 1982
Trapico Criolla de Martinica 0 Mahieu et al., 1989
Barbados

Come in tutti i mammiferi l’impulso luminoso è percepito dalla retina; attraverso la connessione nervosa retino-ipotalamica l’informazione è trasmessa ai nuclei soprachiasmatici e paraventricolari dell’ipotalamo prima di passare per il ganglio cervicale superiore e di qui all’ipofisi. L’ipofisi sintetizza e secerne nel circolo sanguigno la melatonina, ma solamente durante la notte. E’ probabile che attraverso la durata di questa secrezione gli animali siano in grado di percepire la durata della notte e, di conseguenza, del periodo luminoso. La melatonina modifica la retroazione negativa degli estrogeni sull’attività neuroendocrina (Karsch et al., 1984)
La melatonina agisce probabilmente sulla porzione medio-basale dell’ ipotalamo. E’ probabile che esitano dei sistemi neuronali intermediari (como quelli della dopamina, noradrenalina o serotonina) tra la melatonina e i neuroni che producono LH-RH (Malpaux et al., 1993). Come noto il LH-RH (ormone stimolante la produzione dell’LH) agisce sull’ipofisi che oltre a LH produce FSH. Entrambi gli ormoni agiscono sulle gonadi (testicolo e ovario) che a loro volta aumentano la secrezione di steroidi che –a questo punto non determinando più un meccanismo di retroazione negativa (feed-back) consente l’avvio delle spermatogenesi e della maturazione e deiescenza dei follicoli ovarici.

Oltre al principale effetto legato alla variazione della durata del giorno (legato a sua volta alla latitudine) il clima attraverso i fattori orografici, continentalità ecc. presenta una serie di variazioni che unendosi ai fattori metereologici (circolazioni atmosferica, pressione) fanno variare i fattori fisici che caratterizzano le condizioni entro cui gli animali possono vivere, produrre e riprodursi. Tra i fattori fisici sono importanti:

 temperatura dell’aria
 umidità relativa
 velocità dell’aria
 radiazione
 pressione atmosferica

La temperatura ambientale esercita un effetto molto importante sugli animali dal momento che al di sopra e al di sotto di certi limiti “critici” l’animale deve attivare una serie di meccanismi comportamentali e fisiologici (con dei conseguenti costi energetici) per mantenere costante la temperatura corporea.
All’interno di un determinato range di temperatura ambientale (definito di “termoneutralità”) l’animale è in grado di mantenere costante la temperatura corporea senza che il metabolismo basale risulti alterato e, nel caso di temperature elevate, senza ricorrere a mezzi evaporativi. Entro l’ambito di termoneutralità l’animale si trova nelle condizioni ottimali per l’espletamento delle funzioni fisiologiche e comportamentali nonché di quelle produttive e riproduttive.
Il freddo negli animali in produzione zootecnica riduce la velocità di crescita corporea e la produzione di latte. L’influenza della temperatura sulla produzione di latte di vacche in alpeggio è stata osservata da D’Hour e Coulon (1994) e da Corti et al. (1999). In quest’ultimo studio si è registrato un aumento di 0,28 kg di latte di produzione giornaliera per un aumento di un grado della temperatura ambientale della notte precedente ed anche la velocità del vento è risultata correlata negativamente con la produzione di latte. L’influenza negativa di condizioni climatiche severe quali quelle riscontrabili sui pascoli alpini in presenza di situazioni metereologiche avverse è stata ossarvata da Guolf (1984) che ha riscontrato anche l’aumento del contenuto di cellule somatiche del latte. L’effetto negativo delle basse temperature è legato al minor afflusso di sangue alla mammella ed ad una ridotta secrezione di prolattina (Thompson, 1981). Nella vacca la temperatura ambientale al di sotto della quale si registra una significativa diminuzione della produzione di latte è pari a –5 C°, mentre tale limite sale a 5°C nell’ovino e a 10 °C nel caprino. La bovina, in compenso, in ragione della massa corporea più elevata presenta maggiori difficoltà nella dispersione del calore. La temperatura al di sopra della quale si osserva una diminuzione della produzione di latte nella specie bovina è pari a 21 °C (25°C nella pecora e 27°C nella capra). Le temperature elevate influenzano negativamente non solo la secrezione lattea ma anche il tenore in grasso. Le basse temperature influenzano negativamente la digetribilità delle proteine e della sostanza secca della razione mentre quelle elevate deprimono l’ingestione. L’effetto della temperatura sugli animali è condizionato dalle caratteristiche dell’animale (massa, caratteristiche anatomiche e fisiologiche, livello alimentare) e dagli altri parametri climatici (vento, radiazione, umidità relativa, precipitazioni, variazione di temperatura).

Per comprendere i meccanismi di adattamento degli animali alle alte e basse temperature (e quindi la capacità di utilizzare ambienti differenti da parte di diverse specie e razze di animali domestici) è opportuno richiamare i meccanismi mediante i quali l’animale scambia calore con l’ambiente.

Tabella. Mezzi di dispersione del calore corporeo
Non evaporativi Evaporativi
Radiazione Respirazione
Convezione Sudorazione
Conduzione Diffusione attraverso l’epidermide

La perdita per radiazione può essere influenzata dal colore del mantello dell’animale. Il colore chiaro riflette in parte la radiazione solare incidente ed è quindi più vantaggioso in un clima caldo rispetto ad un mantello scuro.

Le perdite per convezione dipendono dalla differenza tra la temperatura corporea e la temperatura dell’aria, nonchè dalla velocità dell’aria e dal contenuto di acqua della stessa. Gli animali possono adattarsi al clima modificando il gradiente tra la temperatura corporea e quella dell’aria in vari modi. Dal punto di vista fisiologico l’animale può depositare uno strato di grasso sottocutaneo con potere termoisolante e possono ridurre la temperatura della pelle attraverso la vaso-costrizione. Dal punto di vista anatomico possono modificare le strutture tegumentarie (peli, lana) per intrappolare l’aria negli strati più vicini all’epidermide e determinarne l’aumento di temperatura rispetto a quella esterna.

Per quanto riguarda le perdite per conduzione l’animale può modificare il proprio comportamento posturale. In condizioni di freddo l’animale evita il decubito per non disperdere calore attraverso il contatto con il terreno. Per difendersi dal freddo, dalla pioggia battente e dal vento gli animali restano preferibilmente in piedi a contatto gli uni degli altri spesso ponendosi a cerchio in modo da riparare gli animali i giovani che restano al centro del gruppo.

Per difendersi dal freddo gli animali, oltre a ridurre le perdite di calore corporeo, tendono anche ad aumentare la produzione di calore. Ciò è possibile attraverso l’aumento dell’ingestione al di sopra del livello basale e con lo sviluppo dell’ extra calore legato ai processi di assorbimento e digestione dell’alimento, attraverso l’accelerazione del metabolismo e la mobilizzazione delle riserve energetiche, (sotto l’azione degli ormoni), l’attività muscolare (movimento volontario ma anche “brividi” determinati da un riflesso incontrollato).

Meccanismi di reazione all’esposizione al freddo
Livello Risposta
Nervoso Lo stimolo termico è recepito dai recettori periferici (nell’epidermide) e dal sistema nervoso centrale
Endocrino Aumentano i livelli sanguinei di adrenalina, noradrenalina, tiroxina e cortisolo
Biochimico Mobilizzazione e ossidazione di glucosio e grassi (trigliceridi e acidi grassi liberi)
Fisiologico Aumento del ritmo cardiaco , diminuisce la frequenza respiratoria, brividi, vasocostrizione periferica

La difesa dal caldo è attuata attraverso meccanismi a volte speculari a quelli utilizzati per resistere al freddo (vasodilatazione superficiale, riduzione dell’ingestione di alimento, decubito, riduzione dell’attività muscolare). I meccanismi specifici con i quali gli animali cercano di aumentare la perdita di calore in condizioni di elevate temperature consistomo nei mezzi evaporativi. Gli animali provvisti di abbondanti ghiandole sudoripare si affidano al sudore ( continuo o discontinuo) mentre gli altri devono affidarsi ad un aumento della respirazione (è tipico il caso del cane).

Uno degli aspetti che devono essere considerati attentamente nell’ambito dei sistemi di produzione animali estensivi consiste nella diversa capacità di adattamento ai rigori climatici in funzione dello stadio fisiologico e di sviluppo degli animali. I neonati e gli animali nelle prime fasi di sviluppo sono particolarmente vulnerabili sia per la ridotta massa corporea rispetto all’adulto che per la mancanza di riserve adipose e di altri mezzi di difesa. La temperatura critica negli ovini è di 32-37 °C nel neonato e scende a 22-26 dopo 24-36h. Queste considerazioni inducono a considerare quale importanza rivesta, nell’ambito dei sistemi estensivi di produzione zootecnica e nei sistemi pastorali, la stagionalità dei parti che rappresenta un elemento cruciale del sistema dovendo tenere conto oltre che dei fattori climatici anche della disponibilità alimentare, del mercato ecc.

Le diverse specie animali e, al loro interno, le razze e le popolazioni ecologiche, presentano una grande varietà di forme di adattamento al clima.
I ruminanti, grazie alla grande quantità di calore prodotta con le fermentazioni sono in grado, a parità di altre condizioni, di proteggersi meglio dal freddo dei monogastrici. Anche nell’ambito dei ruminanti, però, il rapporto tra la massa corporea e il volume dei prestomaci può variare. Il bovino che, oltre alla notevole massa corporea presenta anche un elevato volume ruminale relativo è senza dubbio più resistente al freddo di una capra. Nell’ambito dei piccoli ruminanti l’ovino appare maggiormente in grado di adattaresi al clima rigido in ragione del vello lanoso che lo protegge ma anche della distribuzione dei depositi adiposi che, in questa specie, sono prevalentemente sottocutanei mentre nel caprino si localizzano di preferenza nella cavità addominale. Nell’ambito degli ovini è interessante l’adattamento al clima delle così dette razza “a coda grassa” presenti nel bacino mediterraneo. La necessità di superare periodi di siccità con scarsa disponibilità alimentare ha determinato in queste razze la localizzazione dei depositi adiposi nella coda. Differenze morfologiche molto evidenti tra le razze adattate ai climi freddi e quelli caldi si possono osservare anche nel caso dello sviluppo del padiglione auricolare che, attraverso la forte vascolarizzazione superficiale consente una forte dispersione di calore nei climi caldi, e, sopratutto nelle fibre prodotte dai bulbi piliferi dell’epidermide. Nell’ovino si possono osservare razze tropicali e subtropicali prive dei vello lanoso coperte da pelo corto e rado, razze a vello lungo e aperto che presentano una buona capacità di sgrondo dell’acqua meteorica (anche grazie alla presenza della lanolina che svolge azione idrorepellente) ma che resistono male al forte vento e razze a vello chiuso (tra cui le pregiate Merinos) che resistono bene al freddo e al vento ma non alla pioggia che tende ad inzuppare il vello e a determinare forti perdite di calore per l’evaporazione a contatto della superficie corporea. Questi ultimi esempi indicano come ler azze di animali domestici si siano specializzate per colonizzare vari tipi di ambienti che differiscono, dal punto di vista climatico, non solo per quanto riguarda la temperatura, ma anche la piovosità e la ventosità

La differente capacità da parte di alcune razze di sopportare i rigori climatici spiega perché nel contesto di sistemi di allevamento estensivi le razze meno produttive, sviluppatisi in ambienti caratterizzati dal clima rigido (montagne, altipiani) risultino spesso maggiormente in grado di fornire risultati produttivi ed economici superiori a quelli delle razze selezionate per conseguire livelli produttivi elevati in condizioni di ambientali (nel senso zootecnico) ottimali.

Uno degli aspetti più evidenti del rapporto tra meccanismi di adattamento climatico e produttività dei sistemi di produzione animali estensivi è legato alle perdite per neomortalità che si verificano nei sistemi di produzione di ovina e che condizionano il risultato economico dell’allevamento. Si tratta di un problema che interessa i sistemi di produzione ovina della Highland scozzesi ma anche i sistemi transumanti alpini delle nostre regioni. In estate, infatti, quando i greggi si trovano ad altezze di 2.000-2.500 m il peggioramento delle condizioni metereologiche provoca anche sulle nostre Alpi delle condizioni sfavorevoli per gli agnelli che nascono in questo periodo. Nella maggiorparte dei casi la mortalità neonatale per ipotermia si verifica a causa della pioggia che mantiene bagnato il vello del neonato conducendolo a morte entro 4 ore . Di seguito vengono riportati i dati relativi ad un confronto tra razze britanniche con riguardo alla capacità di resistenza degli agnelli neonati.

Tabella. Mortalità e resistenza all’ipotermia degli agnelli neonati
Razze Mortalità
(%) Ipotermia* 1h dopo la nascita (%)
di collina 3-9 1,6-9,1
di pianura di grossa taglia 2-9 0-36,4
di pianura di piccola taglia 10-13 47,1-84,6
primitive (ferali delle isole) 0 0-14,8
*temperatura rettale < 37,5 °C
Adattato e semplificato da: Slee (1987)

E’interessante notare come gli agnelli delle razze di collina, adattate all’ambiente a clima più rigido, presentino resistenza pari o superiore a quella delle razze di pianura di grossa taglia e come nelle razze più primitive (si tratta delle pecore di Soay e di Boreray che non presentano ancora un vello lanoso) la mortalità neonatale sia risultata nulla.

La mortalità neonatale può variare molto in considerazione del tipo di avversità climatica e del grado di isolamento termico offerto dal vello lanoso come indicano i seguenti dati ottenuti nell’ambito della medesima razza “rustica”.

Tabella. Resistenza al freddo di agnelli Welsh Mountain in diverse condizioni
Mortalità in prove di campo (%) Tempo (min.) per ridurre la temp. corporea di 4 °C
vello Tempo buono Tempo cattivo Freddo, vento Freddo, vento, pioggia
corto 6,7 41,7 228 38
lungo 2,2 9,8 980 81
da: Slee (1987)
L’effetto combinato del vento e della pioggia aumenta la dispersione di calore per evaporazione determinando una forte diversità nella temperatura critica sotto la quale l’animale non è più in grado di mantenere la termoregolazione. I dati successivi si riferiscono al confronto tra agnelli e pecore di diverso peso vivo in condizioni di vello asciutto e bagnato.

Tabella Temperature al di sotto delle quali la termoregolazione non è più efficace (velocità del vento = 20-25 km/h)
Peso vivo (kg) Vello asciutto Vello bagnato
pecora 25 -5 13
50 -25 -7
Agnello (di un 1 giorno) 2 -4 15
5 14 10
da: Slee (1987)

Nell’allevamento estensivo gli stess di natura climatica possono sovrapporsi a quelli nutrizionali (siccità, gelo, terreno coperto da neve)e rendere ancora più importante per gli animali disporre di adeguati mezzi di adattamento.
Nella seguente Tabella vengono indicate le temperature critiche inferiori negli ovini in funzione delle condizioni alimentari.

Tabella. Temperature critiche negli ovini (°C)
Lunghezza della lana (cm)
condizioni alimentari dopo la tosatura 2,5 12,0 20-30
digiuno 30
mantenimento 25 13 -4
piano alimentare alto 13 -20
da: Slee (1987)

E’ evidente come nella specie ovina anche la cadenza della tosatura oltre che dei parti deve tenere conto delle condizioni stagionali. Anche nell’ambito dei sistemi pastorali transumanti praticati nell’area alpino-padana una tosatura primaverile troppo anticipata o una tosatura autunnale ritardata possono determinare l’insorgere di malattier respiratorie e ridurre la produttività dei greggi.



Razze autoctone di animali domestici e tutela della biodiversità

La CBD Convenzione sulla tutela della biodiversità Rio de Janeiro 1992. La Ue riconosce nella tutela della biodiversità come elemento fondamentale della politica di Sviluppo e valorizzazione rurale che, a sua volta, rappresenta un pilastro della politica di Coesione sociale ed economica (Art. 130/A del trattato di Maastricht)

1992 stabilisce che ogni stato in quanto soggetto giuridico in grado di assumersi gli impegni previsti dalla Convenzione è titolare di un diritto/dovere nei confronti delle risorse genetiche presenti nel territorio sul quale si estende la propria sovranità. Ogni stato è pertanto obbligato a conservare le proprie risorse genetiche

I motivi che inducono a conservare la biodiversità nell’ambito delle specie animali di interesse zootecnico sono riconducibili all’esigenza di mantenere l’adattabilità della specie, una “plasticità” genetica che assicuri la capacità della specie di continuare ad essere utile per le esigenze umane anche di fronte a nuove e imprevedibili circostanze ambientali e sociali. La tutela della biodiversità lungi dal costituire un “vezzo” rappresenta un elemento essenziale per garantire il mantenimento delle condizioni che consentano alle produzioni animali di svolgere il loro ruolo. L’applicazione dei criteri della “rivoluzione industriale” all’agricoltura ha comportato una sostanziale modifica del ruolo svolto dall’epoca neolitica in poi dai processi agricoli. Anche l’agricoltura oggi contribuisce alla dilapidazione di risorse non rinnovabili e ad un inquinamento dell’ambiente che supera le capacità di autoregolazione dei cicli geo-chimici e biologici (vedi aumento di CO2). Tra le risorse che l’agricultura industrializzata sta dilapidando vi sono anche quelle genetiche. Tali risorse risultato della differenziazione delle culture agricole sotto la spinta della colonizzazione da parte della nostra specie dei più disparati ambienti terrestri si sono accumulate nel corso della lunga storia della simbiosi tra l’uomo e le specie via via entrate nell’orbita dei rapporti di domesticazione.
Nel mondo sono attualmente presenti 40 specie di animali domestici di interesse agricolo; di queste, però, un numero limitato (14) fornisce il 90% della produzione zootecnica mondiale.

Affrontando il tema della biodiversità animale è fondamentale rendersi conto del fatto che la diversità genetica è il risultato di un lento accumulo di questa risorsa nel corso di migliaia di anni e durante il periodo pre-industriale dello sviluppo delle società umane. Questa risorsa, però, può essere dilapidata in modo estremamente rapido. La drammaticità di questo fenomeno è evidenziata dalle seguenti dati: Il 30% delle razze di animali domestiche rischia l’estinzione, 6 razze vengono definitivamente perdute ogni mese. Solo in Europa, dove le condizioni generali di una società “avanzata” dovrebbero consentire azioni di salvaguardia della biodiversità, su 1.500 razze monitorate, 200 razze sono a rischio immediato di estinzione mentre altre 600 potrebbero trovarsi a rischio di estinzione entro vent’anni (). Nel citato documento della Fao “The case for conserving farm and related animals” si afferma “...tra non molto gli animali domestici, dopo migliaia di generazioni ottenute con accoppiamenti controllati, avranno bisogno del germoplasma delle razze selezionate a garanzia del proseguimento della specie. Infatti si prevede che nel futuro le razze cosmopolite arriveranno ad un livello di omozigosi tale da comprometterne la sopravvivenza stessa”.

A questa considerazione, valida sul strettamente biologico, se ne possono aggiungere altre che tengono conto anche dei crescenti vincoli di tipo normativo ed economico cui dovranno confrontarsi le produzioni zootecniche intensive nel futuro. L’esigenza di ricondurre all’interno di logiche sostenibili l’attività zootecnica e l’aggravarsi delle conseguenze della riduzione delle riserve di energia fossile ed delle stesse riserve idriche nonché dell’aumento delle emissioni nell’atmosfera e all’inquinamento da sostanze di sintesi condurrà ad una modificazione dei rapporti di competitività tra le produzioni animali (high-input/high output e quelle low input/low output) che contrasterà efficacemente l’aumento della domanda di prodotti animali da parte dei paesi in via di sviluppo.

Già oggi la PAC è chiaramente orientata ad incentivare i sistemi di produzione zootecnica estensivi. La logica che ha guidato l’attivazione delle misure agroambientali e la loro crescente integrazione con il complesso della politica agricola della UE è da rintracciare non solo nelle preoccupazioni di ordine ecologico ma, ancor più, alla insostenibilità dei costi che in passato aveva comportato lo smaltimento delle eccedenze delle produzioni zootecniche. Contenere le produzioni salvaguardando gli equilibri ambientali utilizzando lo strumento del sostegno diretto alle aziende sotto forma di incentivi agroambientali consente di ridurre lo squilibrio tra il volume della spesa agricola indirizzata alle aziende agricole intensive a favore delle piccole aziende e delle aree svantaggiate ed
evita (o comunque limita) il ricorso a misure di tipo amministrativo (quote produttive).

La “superiorità” delle razze standardizzate oggetto di programmi di miglioramento genetico in funzione della selezione per pochi caratteri legati alla redditività economica non solo è relativa ad un contesto economico ma è stata sopravalutata in relazione ai contestuali miglioramenti delle tecniche di allevamento (migliori condizioni ambientali) necessari per consentire l’espressione dei caratteri oggetto, più o meno unilaterale, di miglioramento (a fronte di una costituzione genetica rimasta per la maggiorparte non modificata).

Le ragioni che hanno condotto all’erosione dei patrimoni genetici animali

riallacciarsi alla “modernizzazione distorta”
peso interessi commerciali, peso associazioni di razza e enti zootecnici

La superiorità delle razze locali

La superiore produttiva (output per capo per unità di tempo) non corrisponde necessariamente ad una superiorità economica. E’ il rapporto tra il costo dei fattori di produzione e dei prodotti che determina la superiorità economica. Nell’ambito dei sistemi di allevamento la valutazione dell’efficienza produttiva deve tenere conto di vari aspetti al di là del mero volume fisico di produzione. Normalmente le razze locali appaiono in grado di compensare la minore potenzialità produttiva in relazione a caratteristiche quali:

• qualità delle produzioni;
• resistenza ai fattori climatici;
• resistenza alle malattie;
• fertilità;
• longevità;
• attitudine al pascolamento;
• attitudine al consumo di foraggi grossolani

I fattori che hanno condotto alla estinzione o alla situazione di pericolo di estinzione di numerose razze locali sono di ordine tecnico-scientifico, economico, politico, commerciale. Un aspetto importante del processo di riduzione della diversità genetica delle specie zootecniche è legato alle azioni dei soggetti pubblici e privati coinvolti nella gestione dei programmi selettivi. Lo stato attraverso la creazione o il finanziamento di centri e di programmi di selezione ha svolto un ruolo importante nella distruzione dei patrimoni genetici. Considerato uno dei principali mezzi del progresso agricolo il miglioramento genetico e la diffusione di soggetti e razze “migliorate” hanno rappresentato sino a tempi recentissimi un oggetto prioritario della politica agricola statale. La disciplina della riproduzione animale (legge ) riflette ancora la preoccupazione dell’autorità pubblica di tutelare l’azione di miglioramento genetico (considerata di interesse pubblico) e di non disperdere quanto conseguito attraverso l’oneroso intervento a totale carico dello stato. Da qui il divieto di utilizzare riproduttori non iscritti ai “libri genealogici”. Nel settore dell’allevamento ovi-caprino in considerazione della ridottissima quota del patrimonio allevato iscritto al L.G. delle specie ovina e caprina la legge 31/91 stabilisce una deroga. Non si deve dimenticare che al di fuori della disciplina sulla riproduzione animale gli organi responsabili della politica agraria hanno inciso in modo determinante sulla sorte di molte razze autoctone attraverso una politica dirigistica volta alla erogazione di sussidi per la sostituzione del bestiame locale con “soggetti migliorati”. La dichiarata volontà di eliminazione delle razze bovine autoctone dell’arco alpino a favore della Razza Bruna Alpina nel corso degli anni ’30 non ha fortunatamente avuto che un limitato successo. Tra le razze che hanno ricevuto un colpo mortale dalla politica , fortunatamente gli Ispettorati Agrari non applicarono con lo stesso zelo le direttive.
La politica degli incentivi all’acquisto di riproduttori di razze selezionate è però proseguita ininterrotamente sino ad oggi quando, grazie alle misure agroambientali della Ue le razze locali hanno potuto ottenere un riconoscimento (R.A. Programma di applicazione) che ha consentito l’erogazione di premi di allevamento in grado di controbilanciare gli svantaggi. Da diversi punti di vista, però, il cambiamento politico è risultato parziale in quanto ha comportato l’estensione delle ... previste in precedenza per i soggetti iscritti ai L.G. Acquisto greggi.

Registri anagrafici

L’istituzione dei registri anagrafici (iter !?) è derivata dalla necessità di tutelare le popolazioni locali a limitata diffusione per le quali l’istituzione dei L.G. risulterebbe non solo onerosa ma di difficilissima applicazione. L’esperienza dei L.G. della specie caprina (vedi caso della Capra Sarda) indica l’improponibilità dell’applicazione della logica che sottende l’istituzione dei L.G. nel caso di popolazioni allevate in condizioni estensive nelle quali il controllo della riproduzione (e quindi della paternità) risulta improponibile in termini di costi economici. A differenza tra L.G. e R.A. deve essere valutata anche alla luce della natura del L.G. stesso in quanto strumento di un programma selettivo basato sulla conoscenza del pedigree dei singoli soggetti, sulla determinazione di indici genetici, programmazione degli accoppiamenti. La funzione dei R.A. appare limitata, specie nelle razze a immediato rischio di estinzione al monitoraggio della popolazione ed, eventualmente (in presenza di ascendenze certe) ad una programmazione degli accoppiamenti in grado di limitare l’aumento dell’indice di consanguineità.

• nuove esigenze del mercato in connessione con l’evoluzione della domanda di beni e servizi legati a produzioni zootecniche non alimentari (allevamenti hobbistici, utilizzo di animali per attività sportive;
• cambiamenti ambientali (mutamenti del clima);
• nuove e non prevedibili malattie (sfruttando le caratteristiche di resistenza di particolari tipi genetici);

Oltre all’aspetto di “assicurazione” per il futuro la variabilità genetica di una specie domestica rappresenta un valore anche nelle circostanze presenti in relazione a:

• adattamento a forme di allevamento diverse da quelle commerciali ed intensive (allevamenti “rurali”, agrituristici;
• motivi economici: possibilità di valorizzazione di produzioni tipiche di nicchia legate a determinate razze (strategia di differenziazione e non riproducibilità di produzioni artigianali);
• necessità della ricerca scientifica (lo studio delle particolarità di alcune razze in particolare dal punto di vista della resistenza alle malattie e ai fattori climatici consente la comprensione di meccanismi fisiologici implicati, la disponibilità di tipi genetici fortemente differenziati consente di verificare gli effetti di determinati fattori).
• motivi ecologici (legati al ruolo di una razza adattata ad un determinato ambiente per il mantenimento di equilibri ecologici e per la cura e la conservazione dello spazio agro-silvo-pastorale: es. protezione dagli incendi);
• motivi storici e culturali (legati al significato di una razza nell’evoluzione dell’agricoltura e della società, alla funzione di identificazione per una comunità o un territorio, al ruolo delle razze autoctone nell’ambito di ecomusei e di ricostruzioni storiche -manifestazioni, produzioni cinematografiche);
• motivi sociali: in stretta connessione con i ruoli economici, ecologici e culturali le razze locali a limitata diffusione rappresentano una risorsa ed un’opportunità per i sistemi agricoli “deboli” e quindi una risorsa non solo per i paesi in via di sviluppo ma anche per le aree svantaggiate nell’ambito dei paesi “avanzati” e, in primo luogo, per le aree montane;

E’ importante sottolineare che la biodiversità delle specie di animali domestici è al tempo stesso un prodotto storico e culturale ed una risorsa economica, sociale e culturale. Distruggere la biodiversità a favore dell’affermazione delle razze standardizzate significa spezzare sistemi produttivi tradizionali. Deve essere ben chiaro a questo proposito che questo comporta non solo conseguenze sul piano economico e sociale ma anche sul piano del patrimonio più prezioso dell’umanità: quella diversità culturale che rappresenta in parallelo con la biodiversità delle specie animali e vegetali quell’accumulo di informazione garantisce all’umanità la capacità di adattamento alle mutazioni dell’ambiente naturale e sociale. Distruggere le razze non standardizzate significa distruggere i sistemi zootecnici che si sono sviluppati interno ad esse e quindi gli stili di vita e le conoscenze collegate ad essi.

Grado di rischio

Il rischio di estinzione si presenta in gradi diversi; sono diversi i fattori che espongono una razza al rischio. Le classificazioni adottate sino ad oggi tengono conto essenzialmente del limite numerico della popolazione che al di sotto di un certe soglie determina un ineluttabile impoverimento genetico delle piccole popolazioni.

Tabella. Le categorie utilizzate per la valutazione del rischio di estinzione
Classificazione descrizione
Razza estinta Non è più possibile ricreate con facilità una popolazione; l’estinzione è assoluta quando non è più disponibile materiale seminale o oociti o embrioni; il concetto potrebbe essere rivisto alla luce delle prospettive offerte dalle tecniche di clonazione
Razza in situazione critica Il numero delle femmine in condizione riproduttiva è inferiore a 100, quello dei maschi a 5, si trovano in situazione critica anche le razze in cui il numero di femmine in condizione riproduttiva è di poco superiore a 100 ma in presenza di un trend negativo della popolazione e di una percentuale di femmine accoppiate in purezza inferiore all’ 80%
Razza in situazione critica monitorata Nelle stesse condizioni della situazione critica; essa è però oggetto di un programma di conservazione o vi sono soggetti (istituti di ricerca, società commerciali) che si occupano del suo mantenimento
Razza in pericolo non immediato (vulnerabile) Il numero di femmine è compreso tra 100 e 1000 e il numero di maschi tra 5 e 20, si trovano in condizione di pericolo anche le razza in cui il numero di femmine è di poco superiore a 1000 presenza di un trend negativo della popolazione e di una percentuale di femmine accoppiate in purezza inferiore all’80%, ijnn modo corrispettivo la razza non è in pericolo se il numero di femmine è inferiore di poco a 100 ma il trend della popolazione è positivo e la percentuale di femmine accoppiate in purezza superiore all’80%.
Razza in pericolo monitorata Nelle stesse condizioni della situazione di pericolo; essa è però oggetto di un programma di conservazione o vi sono soggetti (istituti di ricerca, società commerciali) che si occupano del suo mantenimento
Razza non in pericolo ma vulnerabile in prospettiva Il numero delle femmine è superiore a 1000, ma inferiore a 5.000 il numero di maschi superiore a 20 ma inferiore a 100
Razza a limitata diffusione Il numero di femmine è compreso tra 5.000 e 10.000
Razza sconosciuta Tutte le razze per le quali non esista una documentazione ufficiale che ne comprovi l’esistenza

Nella definizione delle categorie di rischio si tiene conto oltre che della consistenza numerica “statica” anche del trend della popolazione e della percentuale si fecondazioni delle femmine in grado di riprodursi con riproduttori maschi di altre razze. Quest’ultimo parametro rimanda ad uno dei principali fattori di rischio l’erosione genetica. Si tratta di un processo che minaccia frequentemente le razze con popolazioni di ridotte dimensioni ed è determinato da circostanze che riguardano le strutture zootecniche (dimensione e dispersione degli allevamenti), ma anche i fattori commerciali, economici, sociali e normativi che favoriscono la presenza e la diffusione di razze alloctone in grado di porsi concorrenzialmente nei confronti della residua popolazione locale.
Per una comprensione approfondita della razza a rischio e quindi per stabilire l’approccio più efficace alla sua salvaguardia al di là delle esigenze classificatorie è importante disporre di informazioni organiche sui seguenti aspetti:

• grado di incrocio della popolazione;
• parametri riproduttivi (fertilità, fecondità, prolificità) ed intervallo generazionale, il basso tasso riproduttivo pone la razza in condizione di maggior rischio rispetto ad una popolazione di pari dimensione ma con parametri riproduttivo più elevati, un ridotto intervallo generazionale può consentire un recupero più rapido della razza - aumentando le possibilità di conservazione- ma può anche -in presenza di una gestione non corretta degli accoppiamenti- aumentare il grado di consanguineità;
• peculiarità del sistema produttivo (intensivo, estensivo, nomade), possono condizionare la possibilità di gestione e controllo degli accoppiamenti e la stessa riproduzione in purezza della razza;
• andamento della popolazione nel passato e trend presente, fornisce indicazioni circa la vitalità della razza e concorre ad individuare le cause della sua contrazione ..........i fattori che possono aver agito in corrispondenza dei periodi di inizio del declino o della sua accentuazione;
• isolamento geografico, dispersione o concentrazione della razza, l’isolamento geografico protegge la razza dall’erosione genetica ma se corrisponde alla presenza della razza in un ambiente limitato la espone ai rischi di epizoozie, cambiamenti climatici, economici, sociali, politici.
• grado di organizzazione degli allevatori

Concorre a definire la collocazione della razza nella scala di rischio l’esistenza, al di là della presenza di soggetti maschili e femminili in grado di riprodursi, di materiale genetico (sperma, oociti, embrioni, sequenze di Dna) e l’attivazione di schemi di conservazione in grado di integrare queste risorse genetiche crioconservate con la popolazione in vivo.

Razze a limitata diffusione ovvero non aspettare quando è troppo tardi ...

Al di sopra dei limiti convenzionali fissati dalla linee guida della Fao (1000 femmine adulte) vi sono numerose razze locali che meritano di essere monitorate perché esposte a un rischio di contrazione numerica e di riduzione della diversità genetica tale da condurre la razza nella situazione di pericolo. La Ue nell’ambito delle misure agroambientali attivate mediante il Reg. 92/2078 Misura D2 (oggi 99/1750) ha introdotto delle misure di salvaguardia delle razze di animali domestici “a rischio” che tiene conto di limiti nettamente più elevati di quelli di “pericolo” ampliando il concetto di tutela del rischio di estinzione ad azioni ti tipo preventivo. Può infatti risultare più efficace e meno costoso intervenire su razze a limitata diffusione prima del loro ingresso nell’area del “pericolo”. Le misure agroambientali si applicano a razze di animali domestico con consistenza inferiore alle 7.000 femmine adulte; tale limite è abbassato a 5.000 in caso di trend demografico positivo ed elevato a 9.000 in caso di trend negativo. Nel confermare i criteri previsti dal Reg. 2078 il Reg del 1999 ha stabilito che le misure siano applicabili in presenza di rischio di erosione genetica comprovato da dati scientifici approvati da organismi specializzati riconosciuti a livello internazionale. La misura prevedeva un contributo di 100 Ecu/Uba per una spesa complessiva di 709.000 Uba. L’erogazione dei contributi era condizionata all’assunzione di un impegno quinquennale (specificati nell’ambito dei programmi regionali d’applicazione) e ad alcune limitazioni (non più di 1,5 Uba/ha).

L’esigenza espressa dal reg. europeo è legata alla necessità di concentrare gli sforzi nel campo della tutela della biodiversità delle specie di animali domestici limitando i sussidi all’allevamento a situazioni di reale rischio. E’ evidente che la semplice attribuzione di nomi geografici a popolazioni locali può non corrispondere alla identificazione di un tipo genetico con una propria identità e tale di contribuire maggiormente alla conservazione della diversità genetica rispetto alle azioni svolte a favore di popolazioni che prese singolarmente risultano di limitata consistenza ma che non risultino isolate tra loro e che per di più possono risultare vicine dal punto di vista filogenetico. Dal momento che nell’applicazione delle misure agro-ambientali la finalità sociale non appare distinta da quella

Le strategie di conservazione

Gli strumenti per garantire la conservazione di una razza possono essere molto diversi in relazione alle caratteristiche della razza stessa e del contesto socio-economico-culturale del sistema di produzione . In una situazione di emergenza gli strumenti della conservazione ex situ possono evitare una imminente estinzione con perdita del patrimonio genetico; in situazioni meno critiche gli strumenti della conservazione ex-situ possono integrarsi con programmi di recupero e valorizzazione in situ nell’ambito di un sistema di produzione territoriale. Quando una razza non è più in grado di fornire beni e servizi sul mercato perde ogni valore socio-economico e non vi è altra strada della conservazione ex-situ. In quest’ultimo caso può comunque contribuire a dei valori ecologici, estetici e storico-culturali se la conservazione è legata alla presenza all’interno di Parchi naturali che si assumono la responsabilità dell’allevamento. Nell’ambito di iniziative di conservazione in vivo al di fuori di un sistema di produzione zootecnica è comunque possibile la realizzazione di iniziative in grado di assicurare una sostenibilità economica ai programmi di conservazione. I costi dell’allevamento delle razze in via di estinzione all’interno di parchi, ecomusei ecc. possono almeno in parte essere coperti valorizzando il carattere di attrattiva turistica di queste iniziative chiedendo al pubblico il pagamento di un biglietto di ingresso o garantendo un autofinanziamento attraverso la vendita di pubblicazioni, gadget e di prodotti particolari ottenuti dagli animali stessi.
La possibilità di avviare programmi di conservazione in situ (nell’ambito dei quali i soggetti della razza sono allevati nel contesto di aziende agricole private) è legata oltre alle produzioni zootecniche alla struttura dell’allevamento. La dispersione geografica e la presenza di un tessuto di piccole aziende (a volte part-time e carenti dal punto di vista della professionalità degli addetti) rappresenta un forte ostacolo all’associazionismo di razza. In assenza di quest’ultimo e quindi della capacità di azione collettiva e di rappresentanza dell’interesse specifico degli allevatori della razza l’attivazione di azioni di conservazione e valorizzazione è ostacolata dal peso sui centri decisionali e amministrativi di interessi consolidati in grado di esercitare più efficacemente la loro influenza sui soggetti della politica locale e regionale. La carente capacità di aggregazione degli allevatori locali può essere controbilanciata da associazioni di simpatizzanti che organizzatisi sulla base di una motivazione ecologico-culturale si fanno interpreti dell’interesse generale della società a tutelare le razze in via di estinzione e lo rappresentano presso i poteri pubblici.

 

Tabella

Strategia Modalità di attuazione
in situ/in vivo valorizzazione economica, incentivi per l’allevamento
ex situ/in vivo parchi, zoo, enti di ricerca, istituzioni apposite
ex situ/in vitro conservazione materiale genertico: aploide (ovuli, sperma), diploide (embrione), sequenze di Dna

Tab. Contributo delle diverse modalità di conservazione di una razza
Aspetto ex situ/in vitro ex-situ/in vivo in situ/in vivo
Evoluzione della razza e adattamento NO modesto SI
Tutela rischio di deriva genetica SI SI NO
Possibilità di studi sulla razza modesto modesto SI
Valori socio-economici NO modesto SI
Valori storico-culturali NO modesto SI
Valori ecologici NO modesto SI

“doppioni” la CDB indica la preferenza pèer la conservazione in situ

Valorizzazione economica

Un programma di valorizzazione economica deve basarsi sulle peculiarità delle popolazioni locali. Se è vero che le popolazioni autoctone non sono in grado di competere sul piano della produttività fisica con le razze cosmopolite altamente selezionate è anche vero che devono essere individuate delle strategie per consentire a coloro che le allevano di ricavare un reddito dignitoso (sostenibilità economica). E’ innanzitutto necessario conoscere e descrivere le caratteristiche economiche del sistema produttivo al fine di individuare le azioni da intraprendere. Queste possono essere ricondotte a tre strategie variamente combinate tra loro:

1. miglioramento del valore di mercato della produzione attraverso il raggiungimento di elevati standard qualitativi dei prodotti e loro specifica tipicizzazione (ciò comporta azioni sia a livello aziendale -assistenza tecnica, informazione-) che interaziendale (certificazione di qualità, la raccolta, la trasformazione , la commercializzazione, il marketing e la promozione);
2. ottimizzazione del sistema di produzione (mantenimento di bassi costi di allevamento legati alla rusticità degli animali allevati, rimozione di vincoli tecnici, input tecnici mirati) ;
3. integrazioni di reddito da parte della collettività quale riconoscimento per l’opera di mantenimento della variabilità genetica e per la conservazione dei territori marginali

Le produzioni ottenute dalle razze autoctone devono caratterizzarsi il più possibile dal punto di vista qualitativo sia utilizzando tecniche di produzione biologica sia stabilendo un ben preciso legame tra i prodotti, l’ambiente e le specifiche e tradizionali tecniche di lavorazione. La razza può divenire essa stessa un elemento di tipicizzazione come dimostra l’esperienza relativa alle produzioni casearie delle Alpi occidentali illustrata nei seguenti esempi:

Tabella.

Prodotto Razza
Fontina Valdostana
Razza Rendena Rendena
Beaufort Tarantaise*, Abondance*
Reblochon Tarantaise, Abondance, Montbéliarde
Abondance Tarantaise, Abondance, Montbéliarde
Comté Montbéliarde, Simmenthal
Laguiole Simmenthal, Aubrac
* produzione < 5.000 kg/lattazione, carico di bestiame < 0,7 capi/ha

In alcuni casi i disciplinari dei prodotti DOP prevedono oltre alla provenienza della materia prima da animali di una razza determinata anche requisiti inerenti il grado di estensività dell’allevamento. E’il caso del formaggio Beaufort che deve essere prodotto a partire da latte delle sole razze Tarantaise e Abondance allevate in allevamenti dove il carico di bestiame sia inferiore a 0,7 capi/ettaro, condizione facilmente verificabile che garantisce l’utilizzo dei foraggi aziendali nell’alimentazione. Non sempre è possibile creare una DOP al fine di valorizzare le razze autoctone; anche quando non appare consigliabile creare una nuova DOP è però possibile creare una differenziazione all’interno della DOP (è il caso della razza bovina Reggiana utilizzata per la produzione da parte di un Consorzio volontario di latterie di un Parmigiano-Reggiano che, all’interno del Consorzio dei produttori del PR si distingue per la scelta di lavorare il latte delle Reggiane)
Oltre ad individuare requisiti della materia prima e delle tecniche di lavorazione dei prodotti che valorizzino la razza e le tecniche di allevamento e di ambiente peculiari è necessario impostare le appropriate strategie di marketing per la promozione dei prodotti. La valorizzazione economica di una razza locale non può prescindere da una considerazione delle caratteristiche strutturali del sistema di allevamento tradizionale che, spesso, rischia non solo di non poter cogliere le opportunità offerte dalle produzioni di nicchia fortemente tipicizzate ma di regredire ulteriormente a seguito dell’impossibilità tecnico-economica di adeguamento alle crescenti requisiti igienici per l’espletamento delle attività di trasformazione. La disperisone dell’allevamento in piccole unità e la difficile accessibilità a strutture di raccolta, trasformazione e commercializzazione delle produzioni (sia per la dimensione delle produzioni stesse che per la collocazione geografica degli allevamenti) inducono a considerare come condizione preliminare e prioritaria di una strategia di commercializzazione la realizzazione di strutture in loco

• macelli
• raccolta del latte (lavorazione)
• commercializzazione dei prodotti
• controllo qualitativo sulle produzioni e assistenza tecnica

Erosione genetica

Rappresenta un elemento insidioso in grado di distrugge l’identità etnica di una popolazione autoctona. In presenza di erosione genetica anche popolazioni autoctone numerose sono a rischio di estinzione. La consapevolezza del valore della biodiversità e la formale adesione degli stati alla CDB rende oggi improbabile (almeno nei paesi a forte sviluppo industriale) azioni programmate, dichiarate e sistematiche di sostituzione di razze autoctone con razze cosmopolite. Ciò nonostante vi è ancora oggi il rischio di estinzione di razze autoctone a limitata diffusione per meticciamento con le razze cosmopolite. Rimane, infatti, l’effetto della pressione economica, commerciale e corporativa, il rischio della prevalenza di logiche che prescindono da una considerazione territoriale e sistemica e, nella realtà, controbilanciano ampiamente gli indirizzi politico-programmatici e l’apparente unanimismo a favore delle petizioni di principio a favore della conservazione e valorizzazione delle razze autoctone a limitata diffusione.
La logica aziendalistica che prevale a tutt’oggi nella gestione effettiva dell’intervento pubblico in agricoltura fa si che, a fronte di interventi più o meno efficaci e convinti a favore delle razze autoctone si assista tutt’oggi alla elargizione di contributi pubblici per l’insediamento di aziende “razionali” con razze “migliorate” anche all’interno delle aree, spesso limitate, che rappresentano la “culla” di razze autoctone tutelate. Tali interventi di “miglioramento” aziendale e “zootecnico” spesso non rispondono affatto a criteri di sostenibilità non solo sotto il profilo della tutela della biodiversità, ma anche di quello territoriale ossia della capacità di (ri)produrre paesaggio, natura cultura locale. Sotto il profilo genetico l’introduzione di una razza cosmopolita in un territorio dove essa non era ancora diffusa e dove sono presenti patrimoni genetici autoctoni comporta un inevitabile “irraggiamento” di capi (maschi e femmine) spesso acquistati dagli allevatori tradizionali allettati dalla prospettiva di un aumento delle performances produttive ottenibili con l’incrocio e quasi mai consapevoli che le performance produttive dei loro animali, nelle condizioni ambientali e nei sistemi zootecnici e pastorali entro cui si sono sviluppate le razze autoctone, non sono limitate dal potenziale animale. Uno degli aspetti insidiosi di questo fenomeno è rappresentato dal suo carattere “sommerso” e quindi poco controllabile e dall’impossibilità di quantificare la sua incidenza. L’erosione genetica si accompagna ad altri aspetti negativi che segnano l’introduzione di sistemi zootecnici intensivi nell’ambito di territori montani e svantaggiati sottolineando come la difesa della biodiversità nell’ambito delle specie di animali di interesse zootecnico è inscindibile dalle sue valenze biologiche, sociali, economiche e culturali. Il volume finanziario degli interventi di miglioramento aziendale (causa la forte incidenza dei costi edilizi e degli impianti tecnologici di un allevamento “moderno e razionale”) assorbono molte più risorse dell’insieme delle compensazioni erogate a sostegno alle attività agropastorali tradizionali. Ma per ammortizzare i costi fissi le aziende “modernizzate” sono costrette ad adottare moduli di produzione intensiva che portano alla riduzione dell’integrazione dell’attività zootecnica con il territorio a cominciare dalle risorse prato-pascolive. Sono altresì portate ad abbandonare le pratiche tradizionale di trasformazione aziendale dei prodotti a causa di esigenze di organizzazione aziendale che inducono alla specializzazione (e alla rinuncia di valore aggiunto) e quindi alla vendita di materie prime o semilavorati o della necessità di adeguarsi ai gusti di un mercato diverso da quello locale. Sia che si produca con tecniche diverse da quelle tradizionali per incontrare la domanda di mercati al di fuori del territorio o che si offra sul posto al consumatore-turista lo stesso prodotto che può acquistare nei punti vendita cittadini si produce una frattura con la tradizione locale. Tutto ciò è stato fortemente favorito dall’applicazione (a volte eccessivamente zelante) delle normative igienico-sanitarie. Alcune considerazioni inducono, però, a collocare all’interno della stessa realtà zootecnica le ragioni di una persistente minaccia “dall’esterno” alla conservazione delle razze a rischio. Se la politica di sostegno alle strutture agrozootecniche nelle aree montane e svantaggiate risente ancora notevolmente dell’approccio aziendalistico si deve notare come la prospettiva dei servizi di sviluppo e dei servizi tecnici operanti nell’ambito zootecnico sia ancora più lontana da un approccio territorialista indispensabile per garantire la coerenza della politica di sviluppo rurale nelle aree svantaggiate.
In passato l’esigenza di aumentare la disponibilità di alimenti di origine animale per la crescente popolazione delle aree industriali rappresentava sicuramente una priorità sociale che giustificava il sostegno pubblico alle attività tecniche atte a migliorare la produttività del patrimonio zootecnico. La valenza sociale del miglioramento genetico applicato alle razze di animali zootecnici in allevamento intensivo era indubbia e giustificava l’assunzione dei relativi oneri da parte dello stato. In questa prospettiva la valorizzazione delle risorse pubbliche investite imponeva la ricerca della più ampia ricaduta su tutto il patrimonio zootecnico dei miglioramenti ottenuti nel settore di punta (gli allevamenti appartenenti ai Libri Genealogici). La diffusione delle razze migliorate e l’estensione del numero di capi e di allevamenti inclusi negli schemi di miglioramento genetico delle razze principali rappresentavano quindi un obiettivo più che legittimo. Successivamente agli organi tecnici cui era affidata la gestione a livello centrale e periferico dei Libri Genealogici (AIA-Associazioni di razza-APA) sono stati affidati anche compiti inerenti la gestione di servizi di sviluppo alle aziende zootecniche. Tali funzioni che presero avvio con il “Piano nazionale di lotta all’ipofertilità bovina” nel lontano ……. si sono successivamente estese a diversi aspetti del menagement aziendale e alle varie specie allevate e, con il passaggio delle competenze in materia alle Regioni, in Lombardia è stato sviluppato un Servizio di Assistenza Tecnica agli Allevamenti (la cui gestione organizzativa è stata affidata all’ARAL) in grado di fornire un servizio di assistenza specialistica che copre aspetti alimentaristici, agronomici, selettivi ecc. Al contrario di altri stati in Italia queste attività (selezione e servizi di assistenza tecnica specialistica alle aziende zootecniche sono tutt’ora finanziati in larga misura con risorse pubbliche.
Dal punto di vista della conservazione delle risorse animali (popolazioni autoctone a limitata diffusione) e, più in generale della dimensione territoriale e del carattere sostenibile dei sistemi zootecnici e pastorali nelle aree montane questa realtà pone non pochi interrogativi.
Innanzitutto si deve osservare che pur svolgendo delle funzioni per conto dello Stato e delle Regioni il sistema delle Associazioni allevatoriali ha una natura giuridica privata ed ha alla base delle Associazioni territoriali e di razza composte da soci allevatori che sono portatori di precisi interessi imprenditoriali e commerciali. Per motivi legati all’incidenza del proprio prestigio personale, imprenditoriale, politico nell’ambito di queste Associazioni prevalgono gli allevatori “di punta” in grado di produrre soggetti d’élite e di partecipare attivamente alle attività selettive e collaterali e in stretto contatto con la struttura tecnica e organizzativa delle Associazioni stesse e delle strutture commerciali collegate (Consorzi, Cooperative) con funzione di “braccio operativo” per gli aspetti legati commercializzazione di materiale genetico e riproduttori. Se in un passato molto lontano la convergenza tra l’interesse pubblico e quello corporativo di quell’insieme costituito dalla minoranza degli allevatori “di punta” e dai tecnici, funzionari, dirigenti delle Associazioni e delle strutture ad esse collegate ha sostanzialmente coinciso con l’interesse sociale oggi questo appare quantomeno dubbio sollevando la questione dell’opportunità del finanziamento pubblico della struttura tecnica AIA-ANR-APA e di una sua diversa definizione giuridica.
Il tema della tutela e conservazione delle razze autoctone illustra bene il conflitto di interessi che si sta determinando tra alcune finalità di carattere sociale (sviluppo rurale integrato, biodiversità, multifunzionalità) e quello di una parte del mondo allevatoriale e della struttura tecnico-burocratica del “sistema allevatoriale” che opera in modo incisivo sulla realtà dei sistemi zootecnici territoriali grazie al supporto di strutture largamente finanziate dalle risorse pubbliche, secondo logiche spesso contrarie agli indirizzi della politica di sviluppo rurale e motivate da una prospettiva comunque settoriale e, spesso, corporativa. Nell’apparente “neutralità” della funzione di organo tecnico il sistema allevatoriale attraverso la gestione dei servizi di sviluppo e l’ampia delega di funzioni (che comprende anche la gestione dei Registri Anagrafici delle popolazioni a limitata diffusione) ha finito assumere un ruolo molto ampio e tale da influenzare direttamente e indirettamente la politica zootecnica. Ciò è dipeso dall’assunzione di un monopolio delle competenze tecniche in materia zootecnica che in passato erano largamente esercitate nell’ambito di organi tecnici della Pubblica Amministrazione (Cattedre Ambulanti, Ispettorati Agrari in seguito vittime della degenerazione burocratica delle strutture organizzative dei Governi Regionali e degli Enti locali). L’ampliamento delle funzioni di carattere tecnico svolte per conto della Pubblica Amministrazione e la deriva burocratica di quest’ultima (che l’hanno privata di una autonoma e diretta capacità di monitoraggio dell’evoluzione tecnico-economica del mondo zootecnico), hanno determinato l’assunzione di un ruolo di forte condizionamento del sistema allevatoriale sulle scelte politico-amministrative in materia zootecnica che va ben al di là di una legittima funzione consultiva. Si deve aggiungere che, come in altre organizzazioni in cui si intersecano diversi ruoli oltre a quello di rappresentanza di interessi comuni ad un gruppo sociale, nel sistema allevatoriale l’influenza sugli organismi politici ai vari livelli territoriali è levata anche al ruolo privilegiato che nell’ambito delle organizzazioni degli esponenti imprenditoriali di spicco del mondo agricolo sovente legati ad ambiti sindacali e politici. Ciò non è privo di influenza perché l’efficacia con la quale il sistema allevatoriale influenza le scelte politico-amministrative ha per contropartita la loro caratterizzazione nel senso più favorevole agli interessi della struttura tecnico-burocratica e dello strato (spesso elitario) di allevatori in sintonia con la medesima e in grado di fruire in termini di servizi erogati, valorizzazione commerciale, i maggiori benefici.
Da un punto di vista del sistema agroterritoriale ciò si traduce in un sostegno selettivo alla componente della produzione zootecnica più intensiva caratterizzata da forte impatto ambientale e meno in linea con i criteri dell’adeguamento agli obiettivi di sostenibilità e multifunzionalità.

Diversità genetica

(da spostare sopra) La biodiversità esprime la ricchezza dell’informazione genetica; a livello di specie l’adattamento nel tempo e nello spazio arricchisce e migliora l’informazione genetica della specie stessa, la riduzione della diversità genetica la impoversice. Nel caso delle specie di animali zootecnici la diversità genetica è il risultato di processi di adattamento condizionati dalle esigenze umane espresse nell’allevare gli animali domestici in determinati ambienti spesso molto diversi da quelli di origine delle specie selvatiche ancestrali, secondo determinate modalità e finalità. La disponibilità di risorse alimentari, di cure, di ricovero, la protezione dai predatori ha ridotto nelle specie domestiche l’esigenza di adattamento all’ambiente naturale. Nell’ambito delle popolazioni domestiche hanno pertanto potuto apparire e mantenersi caratteri che, in natura, rappresenterebbero un forte elemento di svantaggio. Ciò ha rappresentato un fattore di differenziazione che si è aggiunto al permanere degli effetti di una selezione naturale (specie per quanto riguarda gli effetti climatici) a seguito della diffusione della specie in nuovi ambienti (attraverso le migrazioni e le colonizzazioni o il commercio). Prima dell’affermazione del moderno concetto di razza (XVIII secolo) lo sviluppo delle attività agricole ha pertanto comportato l’aumento della variabilità genetica all’interno delle specie sottoposte alla domesticazione. In seguito, la creazione delle razze standardizzate ha rappresentato un fattore di riduzione della variabilità genetica all’interno delle specie domestica in quanto tale processo è consistito nell’”estrazione” da popolazioni più vaste e con un ampio grado di eterogeneità morfologica di soggetti con determinate caratteristiche. La riduzione della variabilità genetica all’interno delle razze così create è proseguita attraverso l’applicazione di programmi di selezione sistematica a favore di poche caratteristiche produttive .................................... e quindi attraverso la diffusione in ambiti geografici spesso distanti dei soggetti delle razze standardizzate e “migliorate”. Razze sintetiche, razze mendeliane .... fattori che in parte hanno compensato la perdita di variabilità genetica.

La diversità genetica nell’ambito delle specie zootecniche è comunque il prodotto di fattori economici, sociali e culturali e rappresenta una risorsa culturale ed economica .

Differenza fenotipica, polimorfismo del DNA



La conservazione delle razze come elemento chiave di tutela della biodiversità

La variabilità genetica nell’ambito delle specie di interesse zootecnico è rappresentata sia da una componente entro razza che da una componente tra razze. In generale si ascrive alla componente tra razze una quota pari al 50% della variabilità genetica entro specie. Ciò a prescindere dalle considerazioni circa il valore culturale delle razze induce a considerare della massima importanza la conservazione delle razze di animali domestici

Definizione di razza

Le definizioni che sono state fornite del concetto di razza sono innumerevoli . La definizione della Fao fa riferimento ad un gruppo omogeneo e subspecifico di animali domestici con caratteristiche esterne definibili ed identificabili che permettano di separarlo visivamente da altri gruppi analogamente definiti all’interno della stessa specie. Questa definizione coglie un aspetto cruciale ai fini di ogni politica di conservazione della diversità genetica che intenda far leva su fattori economici e culturali adottando le tecniche della conservazione in vivo ed in situ ossia all’interno di un sistema zootecnico dove le scelte degli allevatori -per quanto influenzate da incentivi e azioni di sostegno- assumo un peso decisivo. Dove una razza non è ridotta ad attrazione in un giardino zoologico e non dipende per la sua conservazione solo dall’interesse di Centri specializzati e da tecniche ex situ l’elemento della percezione e della identificazione gioca evidentemente un ruolo cruciale altrettanto importante dei fattori economici. La Fao fornisce anche un’altra definizione che non si limita a constatare l’esistenza di un gruppo subspecifico ma ne tiene in considerazione anche l’origine: “si definisce razza un gruppo omogeneo per cui la separazione geografica da un gruppo fenotipicamente simile ha portato a separarne l’identità”. Questa definizione non coglie ciò che differenzia il concetto di razza nell’ambito degli animali domestici rispetto alle specie selvatiche. La razza non appare tanto un prodotto di una differenziazione ecologica quanto il risultato di corcostanze economiche, sociali e culturali. Il concetto di isolamento per quanto da intendersi non solo in senso geografico quanto in senso zootecnico (razze diverse legate a sistemi zootecnici diversi possono convivere nello stesso ambiente geografico senza scambi genetici) è comunque essenziale per conferire alla nozione di razza un qualche significato. Risultato di un isolamento da altre popolazioni della specie (indipendentemente dai fattori storici, ecologici, geografici, economici, sociali, culturali) la razza tende ad una identità separata (e quindi in una diversa formula genetica per i caratteri visibili). Questa differenza non è rilevabile necessariamente a livello di singoli individui quanto a livello di gruppo il che significa che una razza può essere identificata anche attraverso una differente distribuzione e/o combinazione di caratteri visibili, caratteri che singolarmente presi possono essere presenti anche i soggetti di altre razze.
Alla formazione delle razze come fatto economico-produttivo e socio-culturale (fatto sanzionato in tempi successivi anche sul piano scientifico e amministrativo)
Le definizioni di razza tendono ad attribuire importanza diversa ai vari aspetti che contribuiscono a definirla: biologico da una parte e culturale (con gli aspetti economici, giuridici, amministrativi, etnografici). Se la formazione delle razze è un fatto essenzialmente socio-culturale è sicuramente vero che il risultato è una diversità di combinazione genetica

Concetto amministrativo e zootecnico-produttivistico

Da un punto di vista amministrativo la razza standard di razza, libro genealogici, schema di selezione caratteri decrivibili e trasmissibili a determinismo semplice messi (?) in rapporto con le attitudini produttive. La definizione di razza può essere legata a singoli caratteristiche morfologiche o funzionali (vedi cavalli) a ad un loro insieme. Concetto legato alla selezione di caratteri produttivi quantitativi. Iscrizione alla razza. Libri aperti, Libri chiusi. Concetto convenzionale. Miglioramento selettivo come intervento pubblico su un patrimonio (nazionale o regionale) con finalità economiche. Razze riconosciute ufficialmente Del resto il concetto moderno di razza si afferma in tempi recenti proprio in connessione di pari passo con race breed XVIII secolo.
In precedenza nel mondo antico non esisteva un concetto analogo (????????????) (genus, species, stirps, semen siminium)

L’aspetto amministrativo è di grande importanza perché il mancato adeguamento giuridico ai concetti emergenti di razza in relazione alla tutela della biodiversità
In passato il “risconoscimento ufficiale” ha comportato l’esclusione di patrimoni genetici locali veri e propri serbatoi di variabilità genetica. Incentivazione alla introduzione di razze migliorate per diffondere i risultati della selezione sostenuta dalle risorse pubbliche. Esclusione dai contributi Interessi commerciali, monopolio,


Razza ecologica, locale. La razza è espressione e risultato di un adattamento a vincoli, pratiche di allevamento, metodi di produzione, prodotti. L’adattamento dell’animale all’ambiente (clima, strutture agricole, rapporti economici e commerciali, fattori culturali) e le attitudini relative non hanno molto a che fare con i criteri della selezione “razionale”. La conservazione perde significato se considerata al di fuori delle pratiche tradizionali.

Aspetto etnologico

Al di là della razza intesa come “prodotto culturale” in senso lato si deve considerare la razza come elemento etnologico di differenziazione tra gruppi umani (legato al suo possesso e alle conseguenze delle scelte materiali ed economiche). Evidente nel caso della differenza tra le specie allevate la cristallizzazione di differenze culturali che la relazione tra una determinato gruppo umano e la razza da esso allevata non è meno influente. La razza diviene quindi un emblema ed elemento di autoidentificazione del gruppo. Questo aspetto sicuramente importante in stadi precoci della storia umana torna ad essere di grande importanza. La presa di coscienza dei problemi di identità e di conservazione dei patrimoni culturali tradizionali si traduce in una domanda sociale pressante che si può tradurre in varie iniziative. Inserire in questo contesto le attività di conservazione di una razza in pericolo di estinzione appare fondamentale. Se la diffusione delle razze “migliorate” ha rappresentato un episodio della penetrazione nello spazio rurale e nella fattispecie montano della cultura della pianura e quindi una pressione a disfarsi di uno dei tanti elementi di “arretratezza” oggi il riconoscimento del ruolo delle razze locali suona come un incentivo a riappropriarsi di un aspetto importante della cultura locale.

Bovini


Tabella: Razze bovine locali da latte allevate in Italia
Area di allevamento Capi controllati Allevamenti controllati Capi controllati per allevamento
Valdostana Pezzata Rossa Ao,Cn, To 13.369 1.153 11,5
Bianca Val Padana Mo, Re 307 47 6,5
Reggiana Re 840 120 7,0
Modicana Pa,Me,En,Rg,Ag,Tp,Sr 4.532 335 13,5
Pezzata Rossa d’Oropa Bi, Vc 3.425 213 16,0
Rendena Pd,Tn,Vc,Vr 3.876 214 18,1
Grigio Alpina Bz, Tn 8.578 1.022 8,3
Pinzgauer Bz 1.050 107 9,8
Valdostana Pezzata Nera Ao 1.505 567 2,6
Burlina Tv 266 14 19,0
Valdostana Castana Ao 5.460 803 6,8
Cabannina Ge 181 49 3,6
Varzese-Ottonese Pv,Pc,Ge 8 2 4,0
Puistertaler Bz 6 4 1,5
Cinisara Pa,En,Me,Tp 2.829 198 14,2
Note: la Razza Burlina è allevata nella zona del Monte Grappa, alle razze indicate deve essere aggiunta la Agerolese allevata nella penisola sorrentina, che conta circa 200 vacche.


Vacca Burlina dell’Altopiano di Asiago (anni ’30 del XX secolo)
Schede razze autoctone ovicaprine del Piemonte Lombardia , Valle d’Aosta , Veneto , Friuli Venezia Giulia

OVINI

Friuli Venezia Giulia

Razza ovina: Istriana
Sinonimi: Carsolina Area di origine: area carsica Nord-Adriatica al confine tra Italia, Slovenia e Croazia Origine: probabilmente da popolazioni locali con influenze balcaniche. Fa parte delle razze Pramenka parte del gruppo etnico Zackel. Area di diffusione: in Italia province di Gorizia e Trieste, nuclei anche in provincia di Pordenone Consistenza: circa 300 capi iscritti al registro anagrafico in Italia, 630 in Slovenia e circa 1000 in Croazia Descrizione morfologica: Taglia media, testa con profilo montonino, con femmine per lo più acorni. Corna a spirale aperta nei maschi. Vello grossolano a bioccoli aperti, tendenzialmente bianco con presenza di picchiettature nere e marroni soprattutto sul muso e sugli arti. Si possono avere soggetti completamente neri i marroni. Iniziative per la conservazione: Attività legate al Registro Anagrafico, attività di ricerca presso il Dipartimento di Scienze della Produzione Animale dell’Università di Udine (prove di macellazione e panel test legati alla produzione di carne). Analisi genetiche presso l’Università di Milano (Prof. Marta Zanotti). Associazioni di razza: Associazione Regionale Allevatori del FVG. Azioni per la valorizzazione: Attività didattica, di divulgazione e di ricerca presso aziende Carso. Prodotti tipici legati alla razza: formaggio pecorino, agnello.


Razza: Plezzana
Sinonimi: Bovška, Trentarka Area di origine: Alta valle dell’Isonzo Area di diffusione: Aree montane della Provincia di Udine (Alta Valle Isonzo, Alpi e prealpi Giulie, Tarvisiano), Consistenza: circa 70 capi in Italia, in Slovenia Origine afferiscono al gruppo delle razze alpine Steinschaf e Zaupelschaf Caratteristiche morfologiche: Razza rustica, taglia ridotta (35-45 kg), testa a profilo rettilineo o leggermente montonino, orecchie piccole e portate esternamente, generalmente acorne, vello prevalentemente bianco con presenza di soggetti completamente scuri (30%), bioccoli aperti e poco fitti Iniziative per la conservazione: attivazione recente del registro anagrafico Associazioni di razza: Associazione Regionale Allevatori del FVG Azioni per la valorizzazione: progetto di recupero zootecnico-ambientale presso il Parco Naturale delle Prealpi Giulie.

Piemonte

Razza: Garessina
Sinonimi: di Garessio Area di origine: Alpi cuneesi Area di diffusione: vallate della provincia di Cuneo (Valle Pesio, in particolare) Consistenza: circa 100 capi. Origine sconosciuta Caratteristiche morfologiche: sconosciute Iniziative per la conservazione: sconosciute Associazioni di razza: Gruppo allevatori Azioni per la valorizzazione:sconosciute Prodotti tipici legati alla razza : nessuno.

Razza: Savoiarda
Sinonimi: di Cuorgnè Area di origine: confine italo-francese Origine: affine alla Thones et Martod Area di diffusione: Provincia di Torino: Valle Chisone, Valle Susa , Valle Pellice Consistenza: 200. Descrizione morfologica: corna sempre presenti anche nella femmina, macchie nere sul muso, attorno agli occhi e sulle orecchie, pelle macchiettata sugli arti Iniziative per la conservazione: Presenza di arieti presso la Stazione Alpina di Sauze d’Oulz Associazioni di razza: Gruppo di allevatori (coordinamento Prof. J. Errante) Azioni per la valorizzazione: Azioni promozionali Wwf, Gruppo di allevatori Prodotti tipici legati alla razza: nessuno


Razza: Saltasassi
Sinonimi: Saltasass ( termine utilizzato localmente per indicare le pecore di piccole dimensioni sono chiamate Saltasàss, circostanza che mette in dubbio l’esistenza di una reale entità etnica con questa denominazione). Area di origine: sconosciuta Area di diffusione: Valle Isorno (VB), Comuni di Altoggio e Montecrestese (ma forse anche aree limitrofe), esemplari osservati anche nella piana di Domodossola, Consistenza : poche decine Origine sconosciuta Caratteri morfologici: piccole dimensioni, orecchie pendenti, macchie sul muso a volte presenti. Iniziative per la conservazione: nessuna. Associazioni di razza: nessuna. Azioni per la valorizzazione: nessuna Prodotti tipici legati alla razza: nessuno


Valle d’Aosta

Razza: Rosset
Sinonimi: nessuno Area di origine: sconosciuta Area di diffusione: Valle d’Aosta. Consistenza: 200 capi. Origine: sconosciuta, popolazione di origine incerta, classificata da Mason tra le razze alpine "a orecchio semicadente", il meticciamento e lo scarso interesse degli allevatori Valdostani per l’allevamento ovino sono la causa del principale calo demografico Caratteristiche morfologiche: Taglia: media, con pesi vivi nei maschi Kg. 60–70, nelle femmine kg. 50– 55 Testa: ben proporzionata, con profilo pressoché rettilineo. Il profilo montonino é più accentuato nei maschi. Caratteristiche sono le macchie con sfumature che variano dal fulvo rossastro al nero attorno agli occhi, sul musello e sulle orecchie. Orecchie: strette, di media lunghezza, in alcuni casi “mozzate”, orizzontali o leggermente pendenti. Corna: sono generalmente assenti, Nel caso di presenza, sono robuste e avvolte a spirale nei maschi, e più piccole nelle femmine Collo: di media lunghezza ben attaccato al tronco Tronco - di media lunghezza, conico e pieno. Arti - asciutti, ma robusti bianchi o con macchie che variano dal fulvo rossastro al nero. Unghielli: solidi neri o con striature giallo-avorio. Vello: bianco sporco semi aperto, con bioccoli di media lunghezza, ricopre tutto il corpo ad eccezione della testa, del ventre e degli stinchi. Alcuni soggetti presentano vello nero o marrone.
Iniziative per la conservazione: Arrivazione recente del Registro Anagrafico presso la sezione Ovi-Caprina dell'AREV. Associazioni di razza AREV Association Régionale Eleveurs Valdôtains.
Azioni per la valorizzazione: Alcune iniziative di valorizzazione della lana, e dell'agnello sono in corso, Prodotti tipici: Agnello e Lana Enti: AREV


Lombardia

Razza Pecora di Corteno
Sinonimi nessuno Area di origine Valle di Corteno (tra la Valtellina e la Vallecamonica, in provincia di Brescia) Area di diffusione idem Consistenza attuale 500 capi Origine: sconosciuta, fa parte del gruppo delle razze alpine ad orecchio semi-pendente; Descrizione morfologica: razza di taglia medio (peso vivo della pecora adulta: 59 kg, altezza al garrese 73 cm), profilo fronto-nasale moderatamente montonino, assenza di corna anche nella femmina, testa non pesante, orecchie semipendenti, vello aperto non sono rare le pigmentazioni. Iniziative per la conservazione: inserimento programma regionale applicazione misure agroambientali UE in favore razze in via di estinzione, Registo Anagrafico.
Associazioni di razza/consorzi di allevatori : nessuno Azioni per la valorizzazione: Viene mantenuta in vita la ricorrenza popolazre del giorno di Ferragosto di servire in piazza il piatto tipico ottenuto dalla carne di questa razza Prodotti tipici legati alla razza: il prodotto principale è l’agnello pesante di 30-40 kg utilizzato per la preparazione del cùz (spezzatino di carne fatta cuocere in abbondante grasso e spezie per parecchio tempo e conservata sotto grasso in recipienti di terracotta per tutto l’inverno) Enti: APA Brescia

Razza: Pecora Brianzola
Sinonimi nessuno Area di origine: Alta Brianza (provincia di Lecco) Area di diffusione: idem Consistenza : 150 capi, in ripresa. Origine sconosciuta Descrizione morfologica: razza di taglia grande (peso vivo della pecora adulta: 64 kg, altezza al garrese 75,4 cm), vello da aperto a semiaperto, bianco, orecchie pendenti, testa non pesante, profilo fronto-nasale montonino meno accentuato che nella Bergamasca. Caratteristiche: buona prolificità Iniziative per la conservazione: censimento e promozione a cura Comunità Montana Lario Orientale Associazioni di razza: Associazione allevatori Pecora Brianzola, associazione attiva sul territorio con lo scopo di ripopolare i greggi ovini della brianza con questa razza Azioni per la valorizzazione: Attualmente e in fase di attuazione un programma di consolidamento della popolazione attraverso piani di accoppiamento programmato con l’istituzione di geggi di selezione Prodotti tipici legati alla razza: nessuno

Razza: Pecora Varesina
Sinonimi nessuno Area di origine: Area di diffusione: idem Consistenza : poche decine di capi di cui per lo più incrociati con arieti Bergamaschi. Origine sconosciuta
Descrizione morfologica: razza di taglia grande (peso vivo della pecora adulta: ... kg, altezza al garrese .... cm), vello da aperto a semiaperto, bianco, in alcuni soggetti “moschettatura” della testa, orecchie da semipendenti a pendenti, testa non pesante, profilo fronto-nasale montonino meno accentuato che nella Bergamasca. Caratteristiche: elevata gemellarità Iniziative per la conservazione: nessuna Associazioni di razza: nessuna Azioni per la valorizzazione: nessuna Prodotti tipici legati alla razza: nessuno


Veneto

Razza: Alpagota
Sinonimi: Pagota Area di origine : popolazione autoctona bellunese che ha la sua zona di origine nell’Alpago, un anfiteatro naturale delimitato da nord a sud dalle Prealpi dell’Alpago e ad ovest dalla Val Belluna. Area di diffusione: Il suo allevamento è principalmente diffuso nei comuni di Chies, Farra, Pieve, Puos e Tambre, pochi altri allevamenti si trovano si trovano ancora in provincia di Belluno ed alcuni in provincia di Treviso. Consistenza attuale: ridotta di numero negli ultimi decenni anche a seguito di incrocio con la lamon. nel 1990 si era rilevata una consistenza di circa 1300 capi, alla fine del 2000 su 17 allevamenti se ne sono contati 589. gli allevamenti con più di 10 capi sono 45, numerosi invece i piccolissimi allevamenti e, tenendo conto anche di questi ultimi, si stima che i capi di questa razza non superino attualmente i 1400 capi. Origine: sconosciuta. Descrizione morfologica: Taglia media (altezza al garrese della pecora adulta 67 cm, peso vivo 50 kg). Testa acorne, in entrambi i sessi, proporzionata, con il profilo lievemente montonino nelle femmine e montonino nei maschi; le macchie che coprono la testa sono più o meno estese e numerose, di colore bruno con varie sue tonalità e raramente nero. Le orecchie, pure maculate, sono generalmente di media lunghezza, frequentemente possono essere corte ed in minore misura lunghe o assenti. Vello bianco, aperto o semi aperto, copre tutto il tronco e la parte prossimale degli arti, si estende al collo, alla base del cranio, alla coda, a volte sulla fronte. La testa e la parte rimanente degli arti sono generalmente privi di lana. Pigmentazioni: lingua e palato di colore rosa o grigio, con o senza macchiettatura. Testa e arti, sono coperti da macchie più o meno estese e numerose, di colore bruno o di sue tonalità, generalmente più scure, più raramente le macchie possono essere anche di colore nero. Caratteri produttivi e riproduttivi: Prolificità 146 (%) Iniziative per la conservazione: costituzione di un centro regionale per la conservazione della razza Associazioni di razza: nessuno Azioni per la valorizzazione: partecipazione al “Salone del gusto” di Torino, costituzione presidio Slow FoodProdotti tipici legati alla razza: salami di pecora; pendole


Razza: Brogna
Sinonimi .Brognola, Progna, Testa rossa, Ross a vis Area di origine: incerta. allevata principalmente in provincia di verona, ha come zona di maggiore diffusione la “Lessinia”, un altipiano che dai monti lessini degrada dolcemente verso la pianura padana. Area di diffusione: Delle cinque valli che solcano l’altipiano, la Val d'Illasi è quella con una maggiore presenza di allevamenti. I comuni più interessati sono Tregnago, Mezzane di Sotto, Illasi, Roverè Veronese, Selva di Progno e Grezzana. In minore numero Anche in altri comuni della provincia di Verona, e nei comuni di Chiampo, Crespadoro e Altissimo della provincia di Vicenza si trova qualche allevamento di piccola consistenza. La presenza di questa razza in un’area ben circoscritta e che coincide con un’isola linguistica di cultura nordica, fa pensare ad uno stretto legame tra le due realtà. Nelle praterie e nei boschi della Lessinia sin dai tempi antichi si è infatti insediata e sviluppata una comunità Cimbra. consistenza attuale .nel 1990 vi erano 1.400 capi, alla fine del 2000 su 17 allevamenti si sono censiti 556 capi. si stima che ci siano in lessinia 50 allevamenti con una consistenza complessiva di circa 1200 pecore. Origine: sconosciuta Descrizione morfologica: Taglia media (altezza al garrese della pecora adulta 68 cm, peso vivo 48 kg). Testa acorne in entrambi i sessi, poco frequente la presenza di corna rudimentali nei maschi. Proporzionata, con il profilo lievemente montonino nelle femmine e montonino nei maschi, con macchie più o meno estese di colore tendente al rosso. Le orecchie, pure maculate, sono di media lunghezza, portate di norma obliquamente verso il basso e talvolta orizzontalmente. Vello bianco, aperto o semiaperto, copre tutto il tronco, esteso al collo, alla base del cranio ed alla coda, alla parte esterna prossimale della gamba e meno dell’avambraccio (più limitatamente o quasi assente nella regione sterno ventrale), la testa e gli arti privi di lana. Pelle e pigmentazione Rosea, elastica e sottile. Lingua e palato di colore rosa o grigio, con o senza macchiettatura. Testa e arti, più raramente collo e tronco, sono coperti da macchie più o meno estese di colore rosso (anche con tonalità tendenti al castano chiaro o al bruno) Caratteristiche produttive e riproduttive: Discreta produzione di latte, prolificità: 153 % Iniziative per la conservazione: costituzione di un centro regionale per la conservazione della razza Veneto Agricoltura, Villiago Belluno Associazioni di razza: nessuna Enti: Associazione regionale allevatori (Arav), A.p.a. di Verona Azioni per la valorizzazione: nessuna Prodotti tipici legati alla razza: caciotta misto pecora

Razza .Lamon
Sinonimi: nessuno Area di origine Comune bellunese di Lamon. Area di diffusione: Un tempo il suo allevamento era diffuso in varie provincie del Veneto, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia; ora è limitato solamente al comune omonimo, ad alcuni altri comuni in provincia di Belluno, ed al comune di Fierozzo nella valle dei Mokeni in provincia di Trento. Nella prima metà del secolo scorso gli allevatori cercarono di migliorare la razza utilizzando soprattutto arieti Bergamaschi, con lo scopo di aumentarne la taglia e la produzione di carne. Allevata con il sistema transumante venne inoltre incrociata con la pecora Padovana e la pecora Trentina. Diminuita l’importanza economica di questo tipo di allevamento, la razza è andata scomparendo e dei 10.000 capi presenti nel 1960 ne rimangono oggi poco meno di 200. Un solo allevamento pratica ancora la transumanza. CONSISTENZA nel 1990 si contavano 600 capi, alla fine del 2000 su 12 allevamenti si sono il numero dei capi era ridotto a soli 177. anche tenendo conto dei piccolissimi allevamenti, si stima che i capi di questa razza non superino attualmente i 400 capi. Origine: sconosciuta Descrizione morfologica: Taglia grande (altezza al garrese pecora matura 74 cm, peso vivo 66) Testa acorrne, in entrambi i sessi, proporzionata, con il profilo lievemente montonino o montonino nelle femmine e montonino nei maschi, con macchie più o meno numerose di colore bruno o marrone scuro. Le orecchie, pure maculate, sono generalmente lunghe, larghe e pendenti, frequentemente possono essere anche di media lunghezza ed in minore misura corte o assenti. Vello bianco, aperto o semi aperto, con filamenti di lana lunghi, piuttosto grossolani e frammisti a giara, copre tutto il tronco, esteso al collo, alla base del cranio e volte anche sulla fronte, alla coda. Gli arti possono essere in parte coperti da filamenti di lana corta. La testa e la parte rimanente degli arti sono generalmente privi di lana. Pelle e pigmentazione Rosea ed elastica. Lingua e palato di colore rosa o grigio, con o senza macchiettatura. Testa e arti, sono coperti da macchie più o meno estese e numerose di colore bruno e sue tonalità generalmente più scure, più raramente le macchie possono essere di colore nero. Caratteristiche produttive e riproduttive: Prolificità 150 % Iniziative per la conservazione: costituzione di un centro regionale per la conservazione della razza Veneto Agricoltura- Villiago Belluno Associazioni di razza: Associazione regionale allevatori, A.p.a. di Belluno Azioni per la valorizzazione: nessuna Prodotti tipici legati alla razza: carne affumicata di pecora

CAPRINI

Valle d’Aosta

Valle d’Aosta e Piemonte

Razza-popolazione: Valdostana
Sinonimi: nessuno Area di origine: sconosciuta Area di diffusione: Valle d’Aosta, provincia di Biella e Provincia di Torino. Consistenza: 2000 capi. Origine: sconosciuta, la capra Valdostana è descritta dal Manenti (1939) che la annovera tra i tipi presenti in Piemonte. Caratteristiche morfologiche: Si differenza dal tipo alpino (vedi oltre) per l’incidenza prevalente di mantelli bruni e, sopratutto, per l’eccezionale lunghezza delle corna a sciabola e il profilo fronto-nasale marcatamente concavo. Iniziative per la conservazione: La sezione Ovi-Caprina dell'AREV, sta promovendo il riconoscimento della popolazione. Costituito un gruppo di lavoro coordinato. Programma Amaltea della Regione Autonoma Valle d’Aosta Associazioni di razza: AREV Azioni per la valorizzazione: Sfruttamento della carne degli animali a fine carriera (collaborazione con macellai locali) Prodotti tipici: vari tipi di formaggi di latte caprino o misti, spesso ottenuti in alpeggio, mocetta (carne salata e essiccata),, e salumi sia crudi che cotti. Utilizzo per le “battaglie delle regine” che si disputano in diverse località della Valle in analogia con le più famose “battaglie” delle vacche. Enti: AREV (Associazion Régionale Eleveurs Valdôtains). Comité Régional Batailles des Chèvres




Piemonte

Razza: Sempione
Sinonimi: nessuno Area di origine: sconosciuta Area di diffusione: capi sparsi nelle greggi ovine transumanti. Consistenza: 30 capi Origine: sconosciuta Caratteristiche morfologiche: pelo sempre lungo e corna sempre presenti, altre caratteristiche variabili Iniziative per la conservazione: nessuna Associazioni di razza: nessuna Azioni per la valorizzazione: nessuna Prodotti tipici: nessuno Referenti per la razza: nessuno

Razza : Vallesana
Sinonimi: nessuno conosciuto in Italia Area di origine: Vallese/Walliser Area di diffusione: (in Italia): Alcune vallate nelle provincie di Biella e Vercelli. Consistenza: (in Italia) circa 350 capi Origine: Vallese/Walliser Caratteri morfologici: vedi razza Walliser Iniziative per la conservazione: nessuna. Associazioni di razza: costituzione Gruppo di coordinamento tra gli allevatori (Prof. J.Errante) Azioni per la valorizzazione: nessuna. Prodotti tipici legati alla razza: sconosciuti

Lombardia e Piemonte

Razza: Alpina
Sinonimi Alpina comune (denominazione utilizzata in Piemonte), Popolazione caprina primaria delle Alpi lombarde, Nostrana Area di origine: Alpi centrali. Nell’ambito di una vasta area geografica (comprendente il Canton Ticino, i Grigioni, la Valtellina, la Vallecamonica, le Alpi Orobiche, il Lario, la Brianza, le valli del Verbano) è attestata una vasta circolazione di bestiame caprino sia attraverso l’acquisto di capi da rimonta (una volta comune anche alle capre oltre che alle vacche), che il commercio di animali da macello o da pelli e la transumanza (in passato praticata anche dai pastori caprini). Area di diffusione: un tempo diffusa su tutte le Alpi e Prealpi lombarde e anche nel territorio collinare pedemontano e di alta pianura ha visto restringersi il proprio areale a seguito dell’erosione genetica da parte di razze cosmopolite o standardizzate. E’ presente su entrambe le sponde del Lago di Como, in Valchiavenna, in Valtellina, nelle Alpi Orobiche, nelle valli bresciane. Oltre che in Lombardia è presente in Canton Ticino, Grigioni, Valli orientali della Regione Piemonte, Trentino occidentale. L’affinità delle popolazioni delle Alpi occidentali (in particolar modo delle valli della provincia di Torino) con quella delle Alpi Centrali è da sottoporre a verifica. Consistenza: (in Regione Lombardia) 15.000 capi, in rapida diminuzione a causa dell’erosione da parte delle razze autoctone standardizzate (Orobica, Frisa Valtellinese, Verzaschese, Bionda dell’Adamello) e delle razze cosmopolite (Camosciata delle Alpi, Saanen). Descrizione morfologica: razza di taglia medio-grande (peso vivo della capra adulta: 55 kg, altezza al garrese 75 cm), orecchie mediamente lunghe, erette, profilo fronto-nasale rettilineo, corna quasi sempre presenti, tendenzialmente lunghe, portate a sciabola, pelo corto o di media lunghezza, mantelli vari (bianco, nero, nocciola, biondo, grigio), frequenti grandi pezzature su fondo nero o nocciola o pezzature caratteristiche. Tra le varietà della Capra Alpina sono conosciute la “Pedula” (con mantello camosciato a fondo nocciola chiaro, la “Colombina” (Pfauenziege) e tipi che si avvicinano a quelli standardizzati autoctoni presenti nell’area di diffusione (Verzaschese, Orobica, Frisa Valtellinese, Bionda dell’Adamello) ma che non risultano conformi a qualche caratteristica morfologica. Iniziative per la conservazione: Registo Anagrafico Associazioni di razza: nessuna Azioni per la valorizzazione: nessuna Prodotti tipici legati alla razza: 1) zìngherlin (sàncarlin/cìnghèrlin/zìgher) (nome originario da lingue germaniche) prodotto tipico di tutte la vallate del Lario occidentale; consistente in un tipo particolare di ricotta ottenuta con l’aggiunte di latte intero, lavorata con sale e pepe fino e poi cosparsa o coperta di grani di pepe interi per consentirle la stagionatura (anche per tutto l’inverno). 2) mascàrpin; tipico della Valchiavenna, anch’esso ottenuto dalla lavorazione del siero con l’aggiunta di latte intero; può essere conservato affumicato; 3) fùrmagìn (pl furmagìtt): prodotti ottenuti anche con piccole quantità di latte mediante moderato riscaldamento del latte intero e aggiunta di caglio in tutte le Alpi e Prealpi lombarde; 4) viulìn de càvra (coscia o spalla aromatizzate e stagionate), 5) firùn (colonna vertebrale con annessa muscolatura essicata).

Lombardia

Razza: Lariana
Sinonimi: di Livo. Area di diffusione: Valli del Lario Occidentale. Rappresenta una varietà geografica della capra Alpina. Consistenza: 2.000-2.500 capi, in diminuzione a causa dell’erosione genetica da parte di razze standardizzate (Camosciata e Verzaschese). Descrizione morfologica: La Lariana si caratterizza per una ampia variabilità di colorazioni del mantello e presenta una taglia leggermente più contenuta rispetto ad altri ceppi della razza Alpina (altezza media al garrese 71 cm). Iniziative per la conservazione: Registo anagrafico. Associazioni di razza: nessuna. Azioni per la valorizzazione: è stato avviato un censimento della popolazione caprina della montagna comasca ed un programma di assistenza recnica. Prodotti tipici legati alla razza: vedi Alpina.

Razza: Bionda dell’Adamello
Sinonimi: Bionda, Mustàscia Area di diffusione Vallecamonica (Brescia), Valtrompia (Brescia) Valle di Scalve (Bergamo), Triangolo Lariano (Lecco) Origine: autoctona delle Alpi Centrali. Recentemente è stata riconosciuta come razza autoctona anche nella provincia autonoma di Trento. Una capra con caratteristiche analoghe all’attuale “Bionda” è raffigurata in un quadro della scuola del Londonio (XVIII secolo) famosa per la rappresentazione di paesaggi ed animali delle Alpi e Prealpi lombarde. Tipi analoghi: “Frisa rossa” o “Bormina” dell’Alta Valtellina (ora in forte regressione a causa dell’erosione da parte della Frisa Valtellinese). area di origine: Valle di Saviore (Vallecamonica, Brescia) e zone limitrofe. Consistenza: 2.500 capi, in aumento. Descrizione morfologica razza di taglia media con diametri trasversali ridotti in rapporto all’altezza e alla lunghezza (peso vivo della capra adulta: 56 kg, altezza al garrese 73 cm), orecchie mediamente lunghe, portate erette, testa leggera, profilo fronto-nasale rettilineo mai concavo, corna a sciabola non lunghe, spesso assenti, pelo uniformemente lungo, pezzature caratteristiche (aree a pelo bianco: striature sul muso, contorno dell’orecchio, estremità degli arti, zona perineale e sottocoda, scroto, addome). Iniziative per la conservazione: inserimento programma regionale applicazione misure agroambientali UE in favore razze in via di estinzione, Registo Anagrafico Associazioni di razza: Associazione allevatori per la tutela e valorizzazione della Capra Bionda dell’Adamello, nata nel 1996 si è occupata principalmente della valorizzazione della razza attraverso campagne informative verso allevatori locali e attraverso la diffusione dei prodoti tipi legati a quasta razza. Si è occupata della fase investigativa per l’approfondimento delle conoscenze sulla razza Bionda sensibilizzando gli allevatori a collaborare con istituti di ricerca. Responsabile attraverso i propri associati dell’aorganizzazione di diversi appuntamenti fieristici. Azioni per la valorizzazione: Cooperativa per la raccolta e la lavorazione del latte (a Edolo), mostre e iniziative promozionali (a Edolo). Prodotti tipici legati alla razza: fatulì, (formaggino presamico affumicato, la ricetta originale prevede l’affumicatura con rami di ginepro) Enti: APA Brescia




Frisa Valtellinese
Sinonimi: Frontalasca, Frisa, Frisa nera, Rezzalasca. Origine: autoctona delle Alpi Centrali, raffigurata con i caratteri morfologici chiaramente ascrivibili al ceppo della Val di Rezzalo in fotografie di capre transumanti ritratte a Milano nei primi anni del XX secolo. Area di origine: Val di Rezzalo (Comune di Sondalo, Sondrio). Area di diffusione: Valchiavenna (Sondrio), Valmalenco (media Valtellina, Sondrio), Alta Valtellina (Sondrio), sporadica in Vallecamonica, Valli bergamesche, area lariana; la diffusione della Frisa è stata favorita dalla presenza di soggetti con caratteristiche analoghe di colorazione del mantello in tutta l’area delle Alpi centrali (tanto da dar luogo a denominazioni specifiche come quelle di Fiora in Val Veddasca a cavallo tra la montagna varesina e ticinese). La denominazione Rezzalasca dovrebbe essere riservata al ceppo allevato nella zona di origine (Comune di Sondalo). Soggetti di razza Frisa sono attualmente introdotti anche in altre regioni italiane centro-settentrionali. Consistenza: 5.000 capi (la stima è difficile in base all’incerezza circa l’appartenenza alla razza di soggetti con uguale mantello allevati fuori della Valtellina e Valchiavenna), in aumento (a scapito della Alpina comune). Descrizione morfologica: razza di taglia molto elevata, di costituzione robusta (peso vivo della capra adulta: 65-70 kg, altezza al garrese 79 cm –82 cm nella Rezzalasca-), orecchie mediamente lunghe, portate erette, testa a volte pesante, profilo fronto-nasale rettilineo, leggermente concavo, ma a volte anche marcatamente montonino anche nella femmina, corna a sciabola lunghe, a volte tendenziamente aperte, raramente assenti, pelo uniformemente corto salvo in qualche soggetto una maggior lunghezza sulle cosce (bragadüra), pezzature caratteristiche (aree a pelo bianco: oltre alle due caratteristiche striature parallele che interessano la regione fronto-nasale e che dalla regione sopraorbitale si dirigono verso il musello dove si fondono, sono a pelo bianco anche il contorno dell’orecchio, l’estremità degli arti, la zona perineale e il sottocoda, lo scroto e, a volte, la regione addominale), piccole pezzature bianche a volte presenti con varia localizzazione. Soggetti con ampie pezzature sonoe sclusi dal Registo Anagrafico e si confondono con la varietà a mantello pezzato della Alpina comune. Caratteristiche produttive e riproduttive: buona attitudine alla produzione di carne (coscia molto carnosa, buona gemellarità (50-60%), peso alla nascita elevato e buoni accrescimenti del capretto) oltre che di latte, rusticità. Iniziative per la conservazione: inserimento programma regionale applicazione misure agroambientali UE in favore razze in via di estinzione, Registo Anagrafico. Associazioni di razza: nessuna Azioni per la valorizzazione: promozione del viulìn de càvra de Ciàvéna a Chiavenna (Sondrio). Prodotti tipici legati alla razza: viulìn de càvra de Ciàvéna (coscia o spalla aromatizzate e stagionate), firùn (colonna vertebrale con annessa muscolatura essicata). Enti: A.P.O.C. (Associazione produttori ovicaprini c/o Federazione Coltivatori diretti Sondrio), APA Sondrio.


Orobica
Sinonimi: di Valgerola. Area di origine: Valgerola (loc. Valgeröla), un gruppo di capre con i tipici caratteri morfologici attuali dell’Orobica è raffigurato in una stampa popolare dei primi anni del XIX secolo mentre fa ingresso a Milano da Porta Orientale (trattasi probabilmente di capre transumanti che durante la primavera soggiornavano in stalle al di fuori delle mura urbane (nei “Corpi Santi” della Città). Area di diffusione: Valvarrone, Valsassina, Alta Val Brembana. A differenza di altri tipi allevati nelle Alpi lombarde l’Orobica occupa un’area compatta e non si assiste ad una diffusione al di fuori della zona d’origine tranne qualche presenza sporadica nelle aree contigue della bassa Valchiavenna e dell’Alto Lario Occidentale. Consistenza: 4.000 capi, stabile. Descrizione morfologica: razza di taglia media, di costituzione tendenzialmente robusta con diametri trasversali, rispetto ad altre razze alpine, relativamente più sviluppati dell’altezza e della lunghezza (peso vivo della capra adulta: 50 kg, altezza al garrese 72 cm), orecchie mediamente lunghe, portate erette, testa a volte pesante, profilo fronto-nasale rettilineo, corna appiattite, dirette in fuori e verso l’alto con marcata torsione, raramente assenti, pelo uniformemente lungo, mantelli vari, uniformi o pezzati. Sono descritte numerose varietà legate al colore del pelo e alla distribuzione delle pezzature (marìn analoga alla Pfauenziege, farinèl, farinèl de sc-cénder, camósc’, nìgru, ecc. con numerosi tipi intermedi). Caratteristiche produttive e riproduttive: discreta produzione di latte in condizioni di pascolo estensivo, scarsa attitudine alla produzione di carne. Iniziative per la conservazione: inserimento programma regionale applicazione misure agroambientali UE in favore razze in via di estinzione, Libro Genealogico della Specie Caprina. Associazioni di razza: nessuno Azioni per la valorizzazione: in Valsassina iniziativa di raccolta del latte dei piccoli allevatori e trasformazione nei caseifici locali. Prodotti tipici legati alla razza: Bitto di Geröla (formaggio grasso d’alpe prodotto nelle Valli del Bitto, in bassa Valtellina, con l’aggiunta al latte intero di vacca 10% di latte caprino) e maschérpa (ricotta ottenuta con l’aggiunta di latte intero). Enti: ASSONAPA, Roma, APA Sondrio, APA Como e Lecco.



Verzaschese
Sinonimi: Nera di Verzasca. Area di origine: Valle Verzasca (Canton Ticino, CH). Area di diffusione: Valli del luinese (Varese), Lario occidentale (Como), Val Vigezzo (Verbania). Consistenza: 1.500 capi (nella sola Lombardia), in aumento. Descrizione morfologica: razza di taglia media, di costituzione tendenzialmente robusta (peso vivo della capra adulta: 55 kg, altezza al garrese 74 cm), orecchie mediamente lunghe, portate erette, profilo fronto-nasale rettilineo, corna a volte lunghe, a sciabola, sempre presenti, pelo corto, mantello nero. Caratteristiche produttive e riproduttive: buona produzione di latte in condizioni di pascolo estensivo, discreta attitudine alla produzione di carne. Associazioni di razza: Gruppo Allevatori Verzasca (opera in provincia di Varese). Azioni per la conservazione: inserimento programma regionale applicazione misure agroambientali UE in favore razze in via di estinzione, Registo Anagrafico, indagini sulla struttura della popolazione, raccolta seme di becchi. Azioni per la valorizzazione: realizzazione caseificio, marchio di tipicità, mostre e iniziative promozionali a Luino. Prodotti tipici legati alla razza: formaggelle (Formaggella del luinese) e “caprini” a coagulazione lenta prodotti da caseifici artigianali nella zona di allevamento, salamini. Enti: Comunità Montana Valli del Luinese, APA Varese, Istituto Sperimentale Italiano Lazzaro Spallanzani.




Nella Tab. Vengono riportati i dati relativi agli ovicaprini iscritti ai Registri Anagrafici nella Regione Lombardia


Tabella. Popolazioni ovi-caprine iscritte ai Registri Anagrafici in Regione Lombardia *
Provincia Razza Allevamenti (n) Fattrici (n)

Bergamo Frisa Valtellinese 2 2
Verzaschese 1 14
Bionda dell'Adamello 7 194

Brescia Bionda dell'Adamello 69 1368
Pecora di Corteno 20 233

Como, Lecco, Varese Bionda dell'Adamello 2 42
Verzaschese 34 1408

Sondrio Frisa Valtellinese 99 1867

Lombardia Allevamenti (n) Fattrici (n)

Bionda dell'Adamello 76 1562
Frisa Valtellinese 101 1869
Verzaschese 35 1422

Pecora di Corteno 20 233
*Dati Asso.Na.Pa. aggiornati al Luglio 2001


Appendice: Modelli di filiera corta per l’azienda zootecnica di montagna

Per l’azienda zootecnica di montagna che per tanti motivi non può superare certe dimensioni ci sono prospettive solo se si integra l’allevamento con la trasformazione, la valorizzazione commerciale diretta, l’agriturismo e un l’organizzazione aziendal compatibile con altre attività dentro e fuori l’azienda. Copn 30 vacche si può conseguire un reddito maggiore che con 50 a anche 100.
La vendita diretta del latte sfuso è un’esperienza che sta trovando anche in montagna dei riscontri positivi. Una piccola azienda valtellinese è stata la settima in Italia ad installare una distributrice e la prima ad affiancarla con una distributrice di yogurt e formaggi porzionati in atmosfera modificata.

La distribuzione automatica di latte crudo “in fattoria” . Gli impianti automatici di distribuzione del latte sfuso (che non subisce alcun altro trattamento se non la conservazione a temperatura di frigorifero e un mantenimento in miscelazione) sono già in funzione da alcuni anni in Austria, Germania e Svizzera; recentemente sono stati introdotti in alcune aziende zootecniche della Lombardia . Il cliente non deve far altro che inserire alcune monete nella gettoniera e prelevare la corrispondente quantità di latte utilizzando un proprio contenitore. Sia pure mediata da moderne tecnologie di distribuzione alimentare (e da un rapporto con una macchina piuttosto che con un contadin) ritorna la consuetudine del consumatore rurale che si reca ogni giorno alla stalla per acquistare il litro di latte (veramente) fresco. Tale consuetudine era quasi del tutto scomparsa a seguito dell’affermazione –anche nei piccoli villaggi alpini- di abitudini di consumo urbane.A suo tempo l’acquisto presso una rivendita di una confezione di latte sterilizzato (che, specie con le tecnologie di “prima generazione” risultava nutrizionalmente impoverito e con sapore di cotto” era stato vissuto come una conquista sociale, un passo decisivo verso l’emancipazione da ogni legame con la realtà agricola. Il prestigio di tale consumo “moderno” era tale che anche da determinare la presenza quasi universale nell’ambito delle famiglie con vacche da latte del tetrapack del latte UHT. Una situazione ben diversa dall’Inghilterra dove la mobilitazione a favore della commercializzazione del latte non pastorizzato ha rappresentato un elemento di difesa dell’identità rurale.

La piccola-grande rivoluzione delle distributrici automatiche del latte crudo sfuso

La diffusione (sempre più capillare) delle distributrici automatiche di latte crudo sfuso che hanno superato le 250 in Lombardia alla fine del 2006 rappresenta un fatto estremamente positivo che esce dalla dimensione "settoriale" in cui i fatti zootecnici ed alimentari sono stati sinora confinati. Va incoraggiata perchè consente alla popolazione di poter disporre di un latte che mantiene integre alcune delle propietà nutraceutiche di questo alimento e stabilisce un rapporto di fiducia - senza mediazioni - tra produttori e consumatori. Favorisce anche una prassi di consumo consapevole, che può solo favorire la diffusione di comportamenti eticamente ed ecologicamente "virtuosi". Dal punto di vista del produttore - che sa che il suo latte non sarà mescolato con quello di chissà quanti altri produttori - vi è uno stimolo ad osservare più scrupolosamente le "buone pratiche" e una nuova responsabilità. Dal punto di vista socioantropologico lo stabilirsi di questo legame tra produttore e consumatore fa si che il "cliente" si senta un po' partner dell'azienda zootecnica (coproduttore?), superando quel diaframma di invidie e diffidenza che ha accompagnato la transizione dall'agricoltura di sussistenza (quando tutti avevano le loro bestie da latte) a quella "imprenditoriale" (ora in crisi). A seguito di questa trasformazione l' "agricolo" era divenuto una specie di corpo estraneo, uno che "prende contributi" e che si percepisce un po' il monopolizzatore di alcune risorse che prima erano collettive (pascoli). Da qui le proteste, strumentali, contro la "puzza" (animali, letame) e una conflittualità negativa e paralizzante per entrambe le parti che ha contribuito a minare la coesione sociale del mondo rurale e a renderlo dipendente e passivo.
L' "agricolo" con lo sviluppo della vendita diretta si sente meno legato a quei centri esterni (le sedi dei consorzi, i burocrati, le istituzioni erogatrici di contributi) e più "integrato orizzontalmente" nella comunità locale, più apprezzato, più riconosciuto per il suo ruolo. Queste cose non sono affatto platoniche perchè da esse dipende la sostenibilità sociale delle aziende ovvero, in soldoni, la stessa loro continuità fisica (che non c'è se non si trova moglie, tanto per dirne una).
Ma non trascuriamo il punto di vista economico. L'incontro diretto tra produttore e consumatore consente al primo di ricavare tre volte tanto (c'è ovviamente da considerare l'ammortamento dell'attrezzatura, ma va considerato che il suo costo può calare se il mercato si amplia) e al secondo di risparmiare il 30% rispetto ad un prodotto di qualità inferiore acquistandone, oltretutto, uno che mantiene tutto il suo grasso che, altrimenti, viene puntualmente scremato in modo che il prodotto in commercio non abbia una virgola in più del minimo di legge.
Niente TIR sulle strade (solo qualche furgoncino che porta i bidoni di latte a qualche centinaio di metri o, al massimo a pochi km). Niente bottiglie di plastica da riclare, ma si porta da casa sempre la stessa bella bottiglia di vetro ! Un'esperienza educativa sconvolgente per un sistema economico che si regge sullo spreco petrolifero che comporta tra l’altro enormi entrate fiscali per lo stato.
Il sistema agroindustriale non è riuscito a bloccare sul nascere il fenomeno, sta cercando di reagire, ma è forse tardi. Certo le pressioni non mancano: disdette agli allevatori da parte di consorzi e cooperative di raccolta latte, minacce, riduzione (ma con quale legittimità?) del prezzo del latte che viene ancora consegnato alle centrali, pressioni (questo è grave!) da parte delle centrali sulle amministrazioni comunali per impedire l'istallazione di distributrici automatiche nelle piazze, davanti alle scuole, nei parchi pubblici; pressioni di una parte del mondo sanitario circa i "rischi" igienici che hanno comportato un inasprimento dei controlli e una maggiore severità nell’applicazione delle normative rispetto al periodo “pionieristico”..
Invece, in ogni comune (e pensiamo in primo luogo ai bambini ed alle scuole), dovrebbe poter disporre di latte crudo fresco incoraggiando e assistendo gli allevatori sia dal punto di vista dell'informazione sull'acquisto e gestione delle distributrici sia da quello dell'ottimizzazione della qualità del latte, mettendo a disposizione spazi pubblici per l'istallazione dei dispositivi, contribuendo alle spese per realizzare le strutture idonee e per alloggiare le distributrici stesse. Come hanno capito (e dicono) diversi allevatori che hanno intrapreso la strada della vendita diretta "non è per quel quintale di latte in meno che conferiamo che le centrali si arrabbiano tanto, ma perchè così impariamo a pensare con la nostra testa". Aggiungiamo che i manager dei consorzi/centrali cominciano a temere che se gli allevatori passeranno in tanti a vendere il latte da sè (o a trasformarlo in azienda) i loro lauti stipendio da 10.000 Euro diventeranno a rischio. Che la cosa possa cominci a dare un po’ fastidio (all’industria del latte) lo dice anche il fatto che i produttori di latte crudo (è sorto un apposito Consorzio per la tutela del latte crudo con sede a Crema presso l’Associazione regionale allevatori e un secondo, “indipendente”, è sorto nella bassa bresciana) hanno intrapreso (anche attraverso la distribuzione di appositi manualetti sul formaggio-fai-da te) una campagna per informare il consumatore sulla possibilità di trasformare in casa il latte e prodursi yogourt e formaggi. In questo modo le vendite si moltiplicherebbero e il consumatore diminuirebbe gli acquisti all' iper di formaggi industriali. In più, a fianco delle distributrici automatiche di latte crudio sfuso, stanno diffondendosi anche quelle di formaggio porzionato in atmosfera modificata e di yogurt.
Una piccola grande rivoluzione che da fiato al modello dell'azienda del territorio multifunzionale, con produzioni differenziate e "libera" dai vincoli con il sistema agroindustriale, tecnoburocratico, clientelare, un’azienda che non inquina e produce valori sociali che con la sua distributrice collocata in azienda o presso i luoghi di socializzazione (piazze, scuole, parchi pubblici, centri commerciali) si rende visibile e materializza un rapporto tra l’alimentazione e la realtà locale che era andato del tutto perso.

Tutti gli esempi di commercializzazione creativa: coop CSA u-picks B and Bs fatnno parte di un movimento di rilocalizzazione del sistema diproduzione alimentare produzione distribuzione e consumo che si pone al di fuori dei circuiti del sistema agroindustriale e assume la dimensione di una “civic agriculture” o di una “community supported agricolture” in quanto connette e risponde ai bisogni dell’economia rurale, delle comunità rurali, dei consumatorie dei produttori agricoli e alimentari. Ma siamo sempre sul piano economico. C’è la tesnione ad andare oltre anche superando la divisione dei ruoli tra produttore e consumatore dando vita a esperienze di produzione non commerciale non hobbistiche (DeLind) . Aggiornamento. Nella primavera 2007 le Regioni hanno emanato circolari che abbassano notevolmente le soglie dei parametri igienico-sanitari per il latte crudo venduto sfuso (la carica batterica totale massima ammissibile è stata ridotta da 50.000 ufc/ml a 25.000) ancora più scoperta l’azione dell’UTIF che ha sequestrato alcune distributrici perché non in regola con i criteri di omologazione delle macchine distributrici di liquidi (come le pompe di benzina, per intenderci).

Latte crudo e salute

Il regime di controlli igienico-sanitari cui sono sottoposte le aziende zootecniche rende difficile (o forse no se si pensa agli interessi industriali in gioco) comprendere perché dalle autorità sanitarie il latte “appena munto” sia ancora oggi spesso considerato “un rischio per la salute”.
L’utilizzo del siero fresco è stato ritenuto dalla medicina popolare altamente benefico. La conferma del fondamento di queste pratiche viene da osservazioni circa l’aumento del contento di glutatione di alcuni tessuti e della risposta immunitaria in topi da laboratorio alimentati con sieroproteine di latte vaccino non denaturate .


Appendice Produzioni agroalimentari tipiche e tradizionali

Tipico, tradizionale, locale, artigianale, nostrano, paesano, di fattoria: spesso queste definizioni (e altre simili) ricorrono frequentemente con riferimento ai prodotti agroalimentari. Esse presentano un largo margine di sovrapposizione e di ambiguità non solo nell’uso comune, ma anche in ambito normativo e tecnico. E’difficile stabilire quanto questa confusione sia da attribuire a superficialità e scarsa conoscenza degli aspetti tecnici e culturali della produzione agroalimentare (vedi Appendice n.) o ad una non disinteressata forma di disinformazione e di strumentalizzazione commerciale del consumatore. Di fatto sino ad oggi il richiamo alla “tipicità” ha costituito uno strumento di marketing molto efficace perché volto a rispondere ad una generica, ma forte e crescente domanda di differenziazione dei consumi, di riaffermazone di identità culturale, di sicurezza alimentare da parte del pubblico. La diffusione di una maggior consapevolezza circa gli aspetti nutrizionali, igienici, dietetici, culturali dei consumi alimentari e la tendenza al recupero e alla valorizzazione delle autentiche tradizioni rurali del territorio nonché l’allargamento dell’applicazione delle normative circa la tutela delle produzioni agroalimentari a qualità specifica consentono oggi di caratterizzare meglio i vari aspetti che definiscono tale specificità.

Oltre la “tipicità”
Il largo e fortunato uso dell’aggettivo “tipico” con riferimento ai prodotti agroalimentari ha oscurato quella che era una distinzione già ben presente nella legislazione. Prima dello “storico” Reg. Cee 2081/91, che ha sanzionato il principio della tutela giuridica in ambito comunitario (sovranazionale) delle denominazioni di origine dei prodotti agroalimentari, la legislazione italiana sulle denominazioni dei formaggi (Legge 125/54) distingueva tra formaggi a denominazione d’origine (per i quali vennero stabiliti i Consorzi di tutela), le cui caratteristiche derivano prevalentemente dalle condizioni proprie dell’ambiente, dai “formaggi tipici” prodotti in tutto il territorio nazionale secondo caratteristiche legate soltanto alla tecnica di produzione particolare. In questa accezione la tipicità è definita in termini di corrispondenza ad un “tipo” che può essere riprodotto osservando semplicemente delle prescrizioni tecnologiche che prescindono dalla materia prima e dalle condizioni proprie dell’ambiente di produzione (clima, terreno, fattori culturali). Nel linguaggio comune, invece, al concetto di “tipicità” si associa quello di “originalità” e “peculiarità” ossia si sottintende un riferimento ad un territorio. Ci si rende facilmente conto, però, che anche se la tipicità viene definita con riferimento ad un ambito geografico preciso più a meno ristretto le ambiguità commesse all’uso di questa qualificazione del prodotto agroalimentare non sono finite. Se per “tipicità” ci si attende la conformità a caratteristiche ben definite e costanti che differenziano il prodotto da quello di altri territori si potrebbe rimanere perplessi di fronte a prodotti che pur fortemente legati alle condizioni d’ambiente e alla tradizione del territorio non corrispondono ad un “tipo” presentando al contrario una forte variabilità legata alle condizioni artigianali di lavorazione, all’applicazione empirica di conoscenze tecnologiche non codificate. In questo senso il prodotto che presenta maggiore valenza tradizionale e un forte legame con il territorio (materia prima, condizioni di lavorazione, influssi stagionali) non risulta “tipico”.
La comprensione di questi aspetti è ovviamente cruciale per la definizione di strategie delle valorizzazione delle produzioni agrozootecniche. Il mantenimento di Sistemi Agricoli Territoriali differenziati in grado di corrispondere ad esigenze ben distinte (competitività e integrazione con l’agroindustria da una parte, integrazione con i circuiti locali e produzione di valenze ambientali e culturali dall’altra) è legato alla individuazione degli aspetti della qualità specifica delle produzioni che si intendono valorizzare, della dimensione della nicchia territoriale di produzione, dei richiami sui quali impostare le azioni promozionali. Preliminarmente ad ogni considerazione circa le soluzioni che si impongono di fronte all’esigenza di abbandono del generico richiamo alla “tipicità” è opportuno richiamare quelle che sono le condizioni giuridiche attuali che definiscono e tutelano la “tipicità”.


I prodotti DOP e IGP

Ponendo fine agli abusi consistenti nell’utilizzazione di denominazioni tradizionali a prodotti di imitazione ottenuti con tecniche industriali che prescindevano dai fattori produttivi legati alla zona di origine dopo un lungo travaglio la Ce nel 1992 ha introdotto la legislazione sulla tutela delle denominazioni di origine. Essa prevede il riconoscimento in tutti i paesi aderenti di quelle forme di tutela che precedentemente valevano solo all’interno dei singoli paesi. Gli strumenti di tutela sono la DOC, la DOP e la IGP. L’attestazione DOC (denominazione di origine controllata) è riservata ai vini mentre quella DOP (Denominazione di origine protetta) viene assegnata a formaggi, salumi, olio e prodotti ortofrutticoli. Per poter fregiarsi dell’appellativo DOP (Reg. Cee 2081/92) i prodotti devono essere ottenuti in zone geografiche determinate e limitate osservando gli usi locali, leali e costanti, utilizzando materia prima prodotta nell’ambito della stessa area. Le caratteristiche dei prodotti DOP devono essere essenzialmente od esclusivamente dovute all’ambiente geografico comprensivo di fattori naturali (clima, suolo) ed umani (conoscenze e abilità tecniche locali).
L’attestazione IGP (Indicazione geografica protetta) (Reg. Cee 2081/92). A differenza dei prodotti DOP, i prodotti IGP sono legati alla zona di riferimento di cui in genere portano il nome per una caratteristica o una fase del processo di produzione e trasformazione. Il nesso tra il prodotto e la zona è quindi meno stretto e diverso rispetto alla DOP e le materie prime possono provenire anche da altra regione e persino da paesi extracomunitari. E’ questo il caso della IGP “Bresaola della Valtellina” che viene prodotta industrialmente utilizzando carni di bovini sudamericani. Fino a qualche anno fa venivano importate le cosce congelate, oggi si importano tagli di carne sottovuoto già sottoposti a processo di salatura presso gli stabilimenti argentini. La tipicità di questo prodotto quindi rimane legata alla sola fase di stagionatura.

Secondo quando indicato dal Reg. 2081/82 i prodotti DOP e IGP devono essere controllati da organismi autorizzati in grado di garantire la conformità dei prodotti ai requisiti indicati nei disciplinari di produzione depositati in sede comunitaria. Gli organismi di controllo devono operare secondo la norma EN 45011 ed essere indipendenti dagli organismi di produzione (Consorzi di tutela). Quest’ultimo aspetto dovrebbe garantire una migliore garanzia per il consumatore relativamente al rispetto delle norme di produzione.


Denominazione area di produzione
Formai de Mut dell’Alta Val Brembana Dop 21 comuni Alta Val Brembana
Gorgonzola Dop Bs, Bg, Co, Lc, Cr, Mi, Pv, Cn, No, Vc, Al (in parte)
Grana Padano Dop Piemonte, Lombardia, Veneto, Trentino, Emilia
Parmigiano Reggiano Dop Pr, Re, Mo, Bo (sinistra Reno), Mn, (oltre Po)
Quartirolo lombardo Dop Co, Mi, Bg, Bs, Pv
Taleggio Dop Bg, Bs, Co, Cr, Mi, Pv, No, Tv
Provolone Valpadana Dop
Bitto Dop So
Casera Valtellina Dop So

Salumi
• Salame Brianza Dop
• Salame di Varzi Dop
• Bresaola della Valtellina IGP

Come si può rilevare dall’elenco con l’eccezione di alcuni prodotti di montagna il grosso della produzione Dop consiste in prodotti industriali spesso ottenuti anche in altre regioni. Tali prodotti, spesso, hanno visto fortemente modificate le tecniche di lavorazione rispetto alla tradizione da cui si sono sviluppati. Nel caso del Provolone la DOP ha sanzionato un “trapianto” di un prodotto caratteristico dell’Italia meridionale (dove è diffusa la tradizione della tecnologia della pasta filata) in un ambiente dalle tradizioni casearie completamente diverse. Se è vero che la tradizione di produzione del Provolone nell’area padana data ormai un secolo resta il fatto che essa è legata allo sviluppo dell’industria casearia padana secondo moduli industriali, alla crescente disponibilità di latte da parte delle aziende zootecniche specializzate ed alla formazione di un mercato nazionale (il Provolone prodotto in “Valpadana” è tutt’oggi consumato prevalentemente nel mezzogiorno d’Italia). E’evidente che se nel caso di alcuni prodotti DOP il legame con l’origine territoriale è stato “diluito” sia nell’estensione dell’area di produzione (basti pensare al Taleggio di .... Treviso) sia nella modificazione delle tecniche di lavorazione nel passaggio dalla lavorazione artigianale a quella industriale, nel caso del Provolone il legame storico tra prodotto e zona di “origine” è quantomeno discutibile. Anche se la DOP è stata attribuita a formaggi ottenuti in ambiti geografici limitati (come il Formai de mut in Lombardia o il Castelmagno o la Robiola di Roccaverano in Piemonte) si deve tenere presente che questo strumento è finalizzato a valorizzare il grosso della produzione lattiera lombarda e italiana ottenuta in condizioni di allevamento intensivo. I prodotti tutelati dalla DOP nell’ambito della produzione casearia complessiva possono essere legittimamente essere considerati “tipici” in quanto appaiono comunque vincolati a norme di produzione codificate che, per quanto adattate alle condizioni della produzione su larga scala, condizionano non solo i processi di produzione -limitando il ruolo dell’innovazione tecnologica e delle “economie di scala” e quindi contrastando la concentrazione industriale- ma, spesso, come evidente nel caso del Parmigiano che richiede l’uso di latte crudo fatto pervenire al caseificio a poche ore di distanza dalla mungitura e un rigido disciplinare di alimentazione delle lattifere, anche definendo i requisiti qualitativi della materia prima. In termini economici la vitalità di queste filiere produttive non solo riduce l’ambito di sostituibilità della materia prima latte con quella indifferenziata proveniente da altri paesi, ma consente la vitalità economica di un tessuto di piccole e medie industrie di caseificazione e, sopratutto, dei caseifici sociali cooperativi. Nonostante il carattere industriale piuttosto che artigianale di larga parte della produzione “tipica” e le tensioni che percorrono le filiere (vedi la contrapposizione all’interno dei produttori del Grana Padano circa l’utilizzo del latte pastorizzato) le produzioni “tipiche” DOP rivestono una funzione economica chiave.
Ciò vale sia nel settore della produzione lattiero casearia che in quella suinicolo salumiera dove il ruolo svolto dai grandi formaggi DOP (Grana padano, Parmigiano Reggiano, Gorgonzola ecc.) è svolto dai prosciutti crudi DOP (Parma e San Daniele). In generale le DOP rappresentano uno strumento prezioso (politica di marchio) dove la filiera è contraddistinta da una pluralità di unità produttive di trasformazione di dimensione non troppo difforme nessuna in grado di sviluppare una politica di innovazione di prodotto e di marca. E’ abbastanza evidente, invece, che in assenza dei presupposti per la penetrazione nel mercato regionale o comunque e in presenza di un numero molto ridotto di unità produttive gli oneri associati con il funzionamento degli organismi di tutela e di controllo non appaiono giustificati .
E’ pertanto opportuno chiarire a questo punto che il concetto di “prodotto tipico” appare prevalentemente legato a produzioni che rappresentano una quota significativa del mercato (vuoi nazionale o regionale) e che assumono un ruolo strategico rispetto alla valorizzazione della produzione del comparto agrozootecnico intensivo caratteristico del Sistema Agricolo Territoriale professionale caratteristico delle aree a maggior sviluppo agricolo della pianunura padana. Per le produzioni su piccola e piccolissima scala è opportuno individuare altre definizioni e, sopratutto, altri strumenti e strategie di valorizzazione. Come abbiamo visto sia in Lombardia come in altre regioni all’interno dell’elenco dei prodotti di origine animale Dop se ne trovano anche alcuni legati a territori molto limitati, legati a modalità di lavorazione artigianali. Questi prodotti rappresentano, però, solo una piccola parte di quelli presenti sul territorio ed espressione delle tradizioni locali del caseificio e del salumificio.

Specialità Tradizionali Garantite (Prodotti agroalimentari tradizionali)

La normativa europea recepita a livello statale (decreto legislativo 173/98) e regionale (DGR n. 6/49424 del 7 aprile 2000) prevede un’ulteriore strumento di valorizzazione delle produzioni agroalimentari locali tradizionali che, pur ancora presenti sul territorio sono spesso prodotte in ridotte quantità, a volte in uno o pochi laboratori artigianali o anche solo per autoconsumo al di fuori di qualsiasi filiera per quanto “micro”. In termini quantitativi questi prodotti danno luogo a flussi commerciali modesti, ma risultano importanti per le valenze storiche e culturali rappresentando una risorsa territoriale potenzialmente importante. Nell’elenco dei prodotti lombardi figurano ben 71 prodotti costituiti da carni e derivati e 71 derivati del latte. Si tratta, però, di un elenco molto eterogeneo che comprende prodotti artigianali sopravvissuti in piccole nicchie e prodotti industriali (vedi i “caprini di vacca”, l’ “italico”, il “fontal”), prodotti legati ad una specifica o estesi a tutta la regione (es. mortadella di fegato), prodotti relativamente famosi come il formaggio Branzi, il Bagoss, il Pannerone lodigiano, il salame d’oca della lomellina e prodotti sinora non attestati in nessuna pubblicazione.. A testimonianza di un lavoro ancora in buona parte incompleto si deve rilevare come non venga neppure citata la maschérpa, ricotta addizionata di latte di capra prodotta nella zona tradizionale di produzione del Bitto.
L’importanza di questi elenchi è comunque indiscutibile. Da una parte l’ufficializzazione (sia pure al di fuori di forme di tutela) dei prodotti in questione rappresenta un presupposto importante per la loro “riscoperta” ed è una premessa ad iniziative di valorizzazione. L’attestazione stessa dell’esistenza in vita di questi prodotti elimina di per sè un alibi in favore di coloro che non assumono alcuna iniziativa di salvaguardia e valorizzazione dei medesimi. Non si deve dimenticare, inoltre, che l’inclusione dei prodotti riportati nell’elenco regionale nel novero di quelli “tradizionali” rappresenta una condizione essenziale per la loro possibilità di sopravvivenza, recupero e valorizzazione. Grazie al riconoscimento ufficiale di “produzioni tradizionali” essi, infatti, possono usufruire delle deroghe alla norme comunitarie in materia di igiene nella produzione e conservazione degli alimenti.

Prodotti del territorio

Se nei termini della complessiva economia agroalimentare e del diritto è possibile definire “tipici” i prodotti tutelati da DOP e IGP come definire allora i prodotti che pur non potendo ambire a sbocchi di mercato risultano comunque importanti sotto il profilo delle politiche di sviluppo rurale specie nell’ambito dei territori di montagna e svantaggiati? In contrapposizione ai prodotti “tipici” che, come visto sono legati ad aree di produzione spesso molto ampie rispetto a quelle tradizionali si potrebbero definire “locali” i prodotti ottenuti attraverso tecniche artigianali fortemente legate alle condizioni ambientali. Questa connotazione appare però un pò asettica e può lasciare il dubbio che alla provenienza locale non corrisponda un “radicamento” nella realtà territoriale ma solo una più o meno casuale localizzazione di una struttura produttiva che utilizza tecnologie estranee alla tradizione del territorio. La presenza di una forte domanda di formaggi freschi ha spinto molti caseifici “locali” a intraprendere produzioni lontane dalla tradizione. Impossibile non definire “locale” la produzione di mozzarella dei piccoli caseifici bergamaschi ma chi se la sentirebbe di definirla una produzione “del territorio”? Questa definizione (mutuata non a caso dalla cultura francese) appare pertanto più appropriata dal momento che è riconosciuto abbastanza unanimamente che il “territorio” non è solo una realtà geografica ma una precisa realtà culturale. In molti casi, però, il recupero delle produzioni tradizionali si accompagna con la constatazione di una irriducibile varietà. Ciò non deve sorprendere dal momento che queste produzioni non hanno spesso mai avuto un rilievo commerciale senza che quindi sia mai emersa l’esigenza di una standardizzazione. In molti casi i “prodotti del territorio” emergono per la prima volta da un contesto di autoconsumo all’interno del quale l’evoluzione delle tecniche produttive ha semmai seguito una tendenza divergente risultato del complesso processo di adattamento alle condizioni ambientali di coltivazione, allevamento, conservazione e trasformazione dei cibi, ma anche dall’emergere di elementi culturali in grado di definire l’individualità della comunità locale rispetto alle altre presenti sul territorio. Di fronte a questa variabilità è più appropriato utilizzare la definizione di “prodotti di paese”. Data la piccolissima scala di produzione e l’altrettanto ridotta scala territoriale del “prodotto di paese” le sue possibilità di valorizzazione sono legate ad un’azione coordinata di promozione di marchi territoriali e di “panieri dei prodotti del territorio”.

Tabella
Tipologia di prodotto scala produttiva scala territoriale riconoscimento
tipico industriale/artigianale coordinata sovraregionale/regionale/provinciale DOP/IGP
del territorio artigianale/autoconsumo subprovinciale Prodotto tradizionale
di paese una o poche unità artigianali/autoconsumo comunale/subcomunale Prodotto tradizionale

 


Allevamento degli animali selvatici, gestione faunistica, ritorno dei grandi predatori

Definizione di animale selvatico, aspetti giuridici

La legge 157/92, recepita dalla L.R. 26/93 (con le succ. modifiche e i regolamenti applicativi) regola oltre all’esercizio dell’attività venatoria anche l’allevamento degli animali selvatici. Sono definiti animali selvatici ai sensi di queste normative i mammiferi e gli uccelli di cui esistono popolazioni che vivono allo stato libero e in modo stabile sul territorio regionale (compresi gli uccelli migratori). Gli animali delle specie classificate selvatiche rappresentano “patrimonio indisponibile dello Stato”. Al di fuori del prelievo venatorio e dell’allevamento (autorizzato entro precisi limiti) ogni forma di uccisione, ferimento, maltrattamento, detenzione, cattura, commercio dei selvatici rappresenta un reato penale. Il cacciatore può legalmente entrare in possesso dell’animale selvatico solo abbattendolo nel rispetto delle leggi e dei regolamenti e quindi nei tempi, con i mezzi e secondo tutte le modalità previste dalle normative. In nessun caso il capo abbattuto può divenire oggetto di commercio. I mezzi di caccia consentiti sono solo il fucile a canna liscia (cartucce a “pallini”) e quello a canna rigata (munizioni a palla). Quest’ultimo deve essere impiegati per i grossi animali e rappresenta anche il mezzo con il quale vengono prelevati i capi all’interno degli allevamenti di queste specie. L’appartenenza della fauna selvatica allo Stato ha delle importanti implicazioni anche per l’esercizio dell’attività agricola. A differenza di altri paesi (dove la fauna selvatica può costituire proprietà del fondo agricolo) in Italia il proprietario e conduttore dell’azienda deve consentire ai cacciatori l’accesso al proprio fondo (ovviamente con l’esclusione delle coltivazioni in atto e negli impianti arborei e vigneti sino a raccolta eseguite). Il proprietario del fondo può evitare di essere assogettato a questa “servitù” solo recintando il fondo (laddove non esistano barriere naturali quali fiumi e canali) con recinzione alta 1,2 m e chiedendo la classificazione in “fondo chiuso” dei terreni agricoli inclusi. Nel quadro legislativo e amministrativo attuale la tutela dell’agricoltore è affidata ai meccanismi di risarcimento dei danni provocati dalla fauna selvatica “ospite”. Le denuncie devono essere presentate tempestivamente alla provincia che provvede alle ispezioni mentre la liquidazione dei danni viene eseguita dagli organismi cui compete la gestione dell’attività venatoria: Comprensori Alpini di Caccia, nella “zona Alpi” e Ambiti Territoriali di Caccia nel rimanente territorio regionale. La condizione penalizzante per l’attività agricola della legislazione italiana sulla protezione della fauna selvatica e l’esercizio della caccia è stata parzialmente compensata con la disciplina in vigore

Non sono specie selvatiche quelle ritenute particolarmente dannose dal punto di vista delle produzioni agricole, della comprese tra le conservazione delle derrate alimentari, della salute quali i topi, i ratti e le arvicole (art. 2 L. 157/92) che pertanto possono essere oggetto di lotta con vari mezzi (esche avvelenate, trappole). Non ricomprese nell’elenco delle specie “nocive” vi sono altre specie quali il colombo torraiolo di cui è incerto lo status domestico piuttosto che selvatico, ma che risultano dannosissime all’agricoltura e molto rischiose per la salute pubblica.

Questa carenza legislativa risulta molto negativa in quanto limita l’efficacia degli interventi a protezione delle colture e degli allevamenti zootecnici (il colombo torraiolo che si alimenta nelle corsie di alimentazione delle stalle all’aperto rappresenta un pericolo di contaminazione degli alimenti per il bestiame). Tra le altre specie “nocive” va ricordata la nutria (“castorino”), specie esotica già allevata per la pelliccia e immessa sconsideratamente nell’ambiente con gravi conseguenze per la stabilità degli argini dove scava lunghe gallerie. L’alterazione degli habitat e degli agroecosistemi ha alterato profondamente i rapporti tra le specie selvatiche trasformando in “ problemi” alcune specie selvatiche. Basti citare l’aumento della presenza dei gabbiani già presenti sui laghi e sui fiumi interni (dai quali si trasferiscono anche giornalmente verso il mare) in seguito all’apertura delle discariche per lo smaltimento dei RSU che determina ulteriori danni alle semine in aggiunta a quelli indotti dalla proliferazione del colombo torraiolo. L’impoverimento degli habitat nell’ambito degli agroecosistemi (monocultura, eliminazione dei filari, delle siepi vive, utilizzo di prodotti chimici di sintesi per i trattamenti di protezione delle colture, meccanizzazione spinta, varie forme di disturbo antropico) ha favorito le specie in grado di adattarsi ad un ambiente sempre più degradato portando ad un aumento impressionante delle popolazione di alcuni corvidi (cornacchia grigia o gazza ladra a secondo delle condizioni ambientali) che hanno iniziato ad insediarsi stabilmente all’interno delle città, mentre nel territorio rurale oltre a costituire anch’essi (sia pure in misura minore rispetto alle altre specie di avifauna citate) un fattore di danno alle coltivazioni determinano una fortissima pressione di predazione nei confronti di altre specie che rischiano di veder ulteriormente ridotta la propria presenza.

Il ritorno dei predatori

Le profonde modificazioni degli agroecosistemi e, in particolare dei sistemi silvopastorali in seguito all’abbandono delle attività agricole e dello spopolamento montano a partire dagli anni ’60 del XX secolo ha determinato ulteriori e profondi cambiamenti nello status di altri animali selvatici ed il sorgere di nuovi problemi la cui risoluzione è resa a volte difficile dalle rigide prescrizioni della normativa sulla “protezione della fauna selvatica”. A questo riguardo giova osservare che la condizione di specie “scomparse o a rischio di totale estinzione” che ne ha determinato l’inserimento nell’elenco di cui all’art. 2, comma 1 della L. 157/92 risulta, fortunatamente, per alcune di esse, sicuramente anacronistica. Nell’elenco troviamo lo stambecco, i carnivori (lupo, sciacallo, lince, gatto selvatico), l’orso bruno, alcuni mustelidi (martora, puzzola, lontra), al cervo sardo, al camoscio d’Abruzzo, alla foca monaca, e a tutti i cetacei. L’inserimento di queste specie nell’elenco comporta una superprotezione con un significativo aumento della gravità delle pene e delle sanzioni previste per chi uccide, cattura, detiene, commercia questi animali rispetto a quelle previste per violazioni corrispondenti commesse nel caso di specie semplicemente “non cacciabili”. Questa condizione di superprotezione per i grandi carnivori può essere giustificata anche dopo la loro ricomparsa sull’arco alpino considerato il loro ruolo al vertice della catena alimentare e la criticità del loro popolamento in ragione delle ampie superfici a bassa o nulla antropizzazione loro necessarie (al contrario di altri carnivori quali la volpe -Vulpes vulpes- che per la loro capacità di adattarsi a diversi ambienti anche fortemente antropizzati e degradati -discariche di Rsu- hanno visto aumentare considerevolmente la loro presenza e sono quindi cacciabili anche al fine del contenimento della predazione su varie specie selvatiche) . Se la “superprotezione” che tutela i grandi predatori deve essere mantenuta a fronte di una rapida espansione del lupo e della lince sull’Arco Alpino e delle sempre più numerose segnalazioni di perdite di capi è necessario adeguare le normative vigenti al più presto prevedendo la rimborsabilità dei danni subiti dagli allevatori (ciò vale anche per l’aquila reale). Devono anche essere previsti fin d’ora degli interventi di abbattimento selettivo da parte delle guardie venatorie in caso di forte incidenza di predazione da parte di soggetti particolarmente aggressivi. Questa politica è seguita (vedi oltre) in Austria e in Svizzera e, al di fuori dell’Arco Alpino, in Norvegia paesi con una radicata cultura ambientalista.
Questa posizione dei paesi di lingua tedesca (in sintonia con l’apertura della caccia nel Parco nazionale dello Stelvio- settore altoatesino) non deve meravigliare. In questi paesi l’ecologismo è in sintonia con una tradizione culturale profondamente radicatata a livello popolare e non è pensabile un conflitto tra ecologismo e ruralismo. La tutela della ruralità, delle sue attività economiche e delle tradizioni è probabilmente vista come una condizione strategica per salvaguardare nel lungo periodo la possibilità di uno scambio e di un equilibrio tra uomo e natura che garantisca la stessa integrità dell’ambiente.
In Italia i problemi legati alla gestione della risorse naturali sono condizionati, invece, da spinte emotive ed ideologiche che sottendono una cattiva coscienza animalista ed ecologica, una cultura urbanocentrica, slegata dall’esperienza storica delle comunità rurali ed anzi ad essa contrapposta, e una grave ignoranza dei concreti problemi del territorio. Possiamo bene immaginare quali campagne verrebbero scatenate in caso di una gestione faunistica che prevedesse l’abbattimento dei grandi predatori! Ma da qui nasce la diffidenza e la contrarietà anche di coloro che accetterebbero di buon grado l’arricchimento dell’ambiente con questa fauna se fosse accompagnato da alcune garanzie. Garanzie che solo la revisione dello status di fauna super-protetta potrebbe introdurre.
Il problema della gestione dei grandi predatori deve comunque essere affrontato anche sul versante della gestione dei sistemi pastorali al fine di definire le condizioni e di una “convivenza” tra le attività pastorali e i predatori stessi. Le soluzioni prospettate (a volte con un certo semplicismo) rischiano di eludere i problemi aggravando la sfiducia degli allevatori che possono essere indotti a “farsi giustizia da sé”. Tra le soluzioni prospettate per la difesa delle greggi mantenute in condizioni di allevamento estensivo sono state proposte e attuate alcune misure la cui efficacia può aumentare se esse vengono adottate congiuntamente: l’utilizzo del cane mastino abruzzese, l’impiego di reti elettrificate, il raggruppamento dei piccoli greggi, l’impiego di avvisatori ottici ed acustici. Questi mezzi comunque non in grado di sostituire in termini di efficacia nella difesa dai predatori la custodia da parete dell’uomo.

L’utilizzo di cani appositamente addestrati è stato sperimentato sia nel caso della predazione da parte del lupo che da parte dell’orso dalla Norvegia ai Pirenei, dalle Alpi francesi alla Slovenia. La difesa efficace presuppone comunque la presenza di un numero non esiguo di soggetti ben addestrati. Quando il pastore è presente i cani difendono efficacemente il gregge, meno quando il gregge è affidato alla sola loro custodia con una presenza saltuaria dell’uomo; inoltre il cane mastino quando non interviene prontamente il pastore può produrre traumi e ferite alle pecore per interventi troppo energici. La scelta dei soggetti da impiegare e il mantenimento di un contatto con l’uomo è importante anche per evitare rischi per le persone che possono venire a contatto dei cani posti a difesa delle greggi. Alcuni soggetti per indole o per insufficientemente addestramento e controllo, manifestano comportamenti aggressivi con le pecore e con l’uomo. In Francia dove, dal 1993 al 2000 si sono registrate 7.000 uccisioni di pecore il mastino Abruzzese ha trovato largo impiego confermando la propria efficacia, ma anche mettendo in evidenza alcuni effetti negativi collaterali non trascurabili: a causa del rischio di comportamenti aggressivi nei confronti dell’uomo i pastori cercano di evitare le zone frequantate dagli escursionisti mentre il forte istinto di caccia della razza rischia di creare situazioni conflittuali con i cacciatori. Particolarmente perseguitate e predate dai mastini risultano le marmotte mentre non è trascurabile il disturbo all’altra fauna selvatica.

Quanto poi alle recinzioni elettriche e al raggruppamento delle greggi si tratta di una soluzione non sempre applicabile e non sempre efficace, per non parlare del ricovero notturno in ovili che stravolgerebbe completamente i sistemi di allevamento limitando in modo considerevole la possibilità di utilizzazione dei pascoli montani. La presenza del lupo sulle Alpi marittime ha già modificato la gestione dei greggi nelle vallate del cuneese mettendo in evidenza la difficoltà di una ottimale utilizzazione dei pascoli in presenza di greggi di grandi dimensioni. In Francia nelle aree con presenza del lupo il pascolo notturno non è più possibile e i pastori devono mantenere le greggi presso le baite. Ne deriva un peggiore utilizzo del pascolo specie nelle giornate calde quando le pecore, in assenza dei lupi, potevano pascolare nelle ore più fresche della sera recuperando il tempo trascorso in inattività durante le ore più calde.
Se il pascolo di greggi di grandi dimensioni anche su superfici limitate può avere effetti positivi sulla fertilizzazione di pascoli magri da recuperare il confinamento notturno presso le stesse aree “protette” rischia di determinare un trasferimento di fertilità con eutrofizzazione delle aree di sosta notturna e riduzione della fertilità delle aree pascolate durante il giorno. Si osserva anche come in presenza di efficaci misure di protezione dagli attacchi notturni il lupo tenda ad aumentare gli attacchi diurni
L’esperienza delle Alpi francesi, la più significativa considerando l’ampia area di presenza dei lupi e l’importanza economica e sociale della pastorizia ha messo in evidenza come, al di là dei danni da predazione diretti e indiretti (oltre alle pecore uccise e scomparse vi sono anche quelle ferite, che abortiscono e che ritornano in calore) comunque indennizzabili, vi è un impatto significativo in termini di aumento dei costi e di qualità della vita del pastore. I danni diretti sono quantificabili in 5 pecore uccise e in 4 scomparse per ogni attacco (gli attacchi possono ripetersi più volte contro lo stesso gregge nella nedesima stagione perché i lupi tendono a ripetere la predazione dove ha avuto successo) mentre non è facile stimare i danni da conseguenze di ferite, aborti, ritorni in calore.
Dal punto di vista dei costi vanno registrati i maggiori acquisti di foraggio legati all’impossibilità del pastore di abbandonare il gregge per recarsi a svolgere i lavori di fienagione e alla minore durata del pascolo. Quest’ultima è motivata da due elementi: il pascolo utile in presenza dei lupi è meno esteso che in loro assenza perché devono essere evitate le zone più pericolose dove l’attacco del lupo avrebbe conseguenze devastanti. Si tratta di zone che per la morfologia accidentata o la presenza di vegetazione arborea e arbustiva consentono al lupo di avvicinarsi con maggio facilità senza che la sua presenza venga avvertita o di quelle zone dove per presenza di pareti di roccia, passaggi obbligati, valloni le vie di fuga sono precluse o anche in quelle dove le vie di fuga risultano pericolose (salti e placche di roccia, burroni). Oltre alla morfologia del terreno e all’orografia conta anche un fattore stagionale. Il lupo predilige per i suoi attacchi le giornate piovose, nebbiose, ventose, quando il contatto visivo ed uditivo tra gruppi di pecore, tra le pecore e i cani, tra le pecore e il pastore e tra il pastore e i cani diventa più difficile. La maggior parte degli attacchi registati nelle Alpi francesi sono stati sferrati nel mese di settembre quando oltre alla maggiore incidenza di giornate di brutto tempo i greggi sono già scesi a quote più basse, al di sotto del limite della vegetazione arborea. Oltre a determinare una minore utilizzazione del pascolo e un maggior ricorso all’acquisto di foraggi la presenza del lupo ha spinto i pastori francesi in alcuni casi ad assumere un aiuto-pastore non solo per far fronte ad un carico di lavoro supplementare di 1.2 ore per pecora (recinzioni, spostamenti più frequenti, sorveglianza), ma anche per avere un cambio in caso di necessità di spostamento a valle. In generale la vita relazionale dei pastori, che in passato alla sera si facevano visita l’un l’altro nelle baite si è impoverita.

La presenza dei predatori non può quindi non tenere conto della condizioni locali entro qui si esercitano i sistemi pastorali e in particolare dell’esigenza di consentire un loro graduale adattamento. Non tenendo conto di queste esigenze si rischia di aggiungere un nuovo elemento di difficoltà nei confronti delle pratiche pastorali con il rischio di far venir meno la loro funzione di cura e manutenzione delle aree silvopastorali.

In Trentino gli orsi introdotti dalla Slovenia sono stati muniti di radiocollare in modo da seguirne gli spostamenti e di consentire ad apposite squadre di intervenire in caso di emergenza. L’esperienza del 2000-2001 ha insegnato che gli spostamenti degli orsi rilasciati in libertà possono essere di grande entità e scarsamente prevedibili. Un soggetto ha percorso la dorsale che separa il Trentino occidentale dalla Valle Camonica ed è giunto fin sopra il Lago d’Iseo; una giovane femmina ha percorso centinaia di chilometri attraversando la provincia di Bolzano e di Belluno per poi ritornare in Trentino e finire travolta sull’autostrada del Brennero. E’stato anche messo in evidenza come i radiocollari possono anche essere persi. E’ lecito poi a mantenere un buon margine di scetticismo sulla capacità della “squadra di emergenza” appositamente istituita di intervenire in tempo per prevenire aggressioni all’uomo o al bestiame. In ogni caso la Provincia di Trento prevede rimborsi per i danni da parte di orsi non radiocollarizzati e una certa disponibilità finanziaria per la “prevenzione” (recinti elettrici). Quanto agli orsi radiocollarizzati il Parco Adamello Brenta ha stipulato una polizza assicurativa a responsabilità civile per tutta la Provincia di Trento (come abbiamo visto, però, gli orsi non rispettano il confine provinciale...).
La convivenza tra le attività zootecniche pastorali estensive e quella del lupo, dell’orso e della lince devono essere valutate nell’ambito delle diverse aree. L’esperienza delle Alpi occidentali dove la presenza del lupo è ormai consolidata indica che il sistema pastorale risulta profondamente modificato (maggiore necessità di custodia, allestimento di recinzioni) secondo modalità che potrebbero anche essere accettabili ma che non sono prive di conseguenze potenzialmente negative (restringimento delle aree di pascolamento e quindi più problematica gestione delle restituzioni di fertilità). A differenza del lupo, che si è diffuso in modo spontaneo in relazione a decennali modificazioni del territorio e, sopratutto, del grado di antropizzazione, nel caso della lince e dell’orso il “ritorno” di questi grandi predatori è almeno in parte legato a reimmissioni che rischiano di creare delle forzature e dei conflitti anche gravi tra diversi interessi che rischiano di assumere connotati ideologici. In Svizzera la reintroduzione della lince ha determinato un forte conflitto tra “ecologisti” e pastori e si sono registrati episodi di avvelenamento di linci. In Francia, nel Giura, l’introduzione di linci in Svizzera nella zona di confine ha avuto per conseguenza centinaia di casi di predazione. In Lombardia la lince è stata segnalata nelle zone limitrofe al Canton Ticino, In Val Seriana e nell’Alto Garda. La diffusione della Lince (Felis linx) nelle Alpi centrali e occidentali non segna comunque grandi progressi, non tanto a causa del bracconaggio da parte dei pastori, quanto per il comportamento territoriale di questo felino notturno che necessita di un vastissimo territorio di caccia e di riproduzione. La frammentazione dell’habita legata all’antropizzazione delle Alpi rende difficile pensare ad una crescita della popolazione di linci e, a fronte dell’impegno sin troppo zelante dei programmi di reintroduzione svizzeri si deve registrare un almeno parziale insuccesso. L’impatto della lince sui sistemi pastorali in relazione al comportamento solitario dell’animale è limitato ai piccoli greggi con scarsa e nessuna custodia.

In Norvegia, paese di cui nessuno mette in dubbio la sensibilità ecologica, la frequenza di predazione di ovini da parte dei lupi ha determinato l’avvio di un piano di abbattimenti nelle regioni montagnose al confine con la Svezia dove la predazione del lupo ha parimenti raggiunto parimententi un’incidenza di un certo rilievo. In Svizzera la presenza di lupi nel Vallese risale al 1995; più recentemente essa è stata accertata nel Canton Ticino e nei Grigioni. Nel 2000-2001 sono stati avvistati lupi anche nelle zone lombarde limitrofe al Ticino e ai Grigioni meridionali del Ceresio e del Lario. Nella primavera del 2001 è stata con sicurezza accertata la cresenza di un giovane maschio in Val Bregaglia, valle grigionese a Sud delle Alpi a poca distanza da Chiavenna (So) e che lascerebbe supporre una prossima avanzata verso l’Engadina. In questo caso non si tratta di segnalazioni non confermate di sporadice denunce di predazione di ovini. L’esame degli ovini uccisi e il calco delle impronte lasciate nella neve dal soggetto non hanno lasciato dubbi e il Servizio caccia del Cantone ha stabilito l’abbattimento dell’animale avendo superato il numero di prede ovine la soglia massima di 50 prevista dalla normativa vigente. Il lupo della Bregaglia è il terzo abbattuto in Svizzera negli ultimi anni. Nella primavera del 2003 il parlamento svizzero ha respinto di misura una proposta del Cantone dei Grigioni tendente a depennare dall’elenco delle specie protette il lupo. Il motivo per il quale la proposta è stata respinta è da ricercarsi nell’adesione della Svizzera alle convenzioni europee di protezione della fauna selvatica ma, a dimostrazione della serietà del problema il parlamento si è impegnato a ricercare soluzioni per tutelare l’attività pastorale.
Non minori problemi e perplessità solleva la presenza dell’orso. Se è vero che questo plantigrade si ciba prevalentemente di alimenti di origine vegetale e che componente animale è rappresentata per lo più da resti di animali morti, per lo più di piccoli mammiferie da insetti, non si può dimenticare, però, che la dieta dell’orso, sia pure in piccola parte, comprende animali domestici, prevalentemente pecore (ma possono anche essere attaccati giovani bovini). La predazione si verifica dove vi sono greggi numerose ed incustodite. Si deve osservare che se gli animali domestici rappresentano una fonte alimentare secondaria per l’orso è anche vero che la predazione comporta l’uccisione di un numero molto più elevato di soggetti rispetto a quelli che l’orso utilizza e che delle carcasse abbattute viene utilizzata solo una piccola parte corrispondente ad organi interni. E’ quindi abbastanza fuorviante citare studi sulla composizione percentuale della dieta dell’orso per cercare di minimizzare l’impatto predatorio sugli animali zootecnici. Quando l’orso assale il gregge con gli artigli mena fendenti micidiali che provocano ferite mortali per numerosi soggetti. Le conseguenze di questi attacchi sono particolarmente gravi nel caso di ovini ammassati.
Queste considerazioni assumono attualità in seguito agli episodi di predazione verificatisi nella primavera 2002 in Trentino che hanno avuto per protagonisti soggetti introdotti dalla Slovenia. In tre distinte circostanze sono state attaccati e predati caprini, ovini e suini.
Casi di predazione di ovini da parte di orsi si registrano in Norvegia, sui Pirenei (dove sono aggrediti anche i bovini) e in Austria. L’esperienza di quest’ultimo paese ci indica come la strategia dell’abbattimento selettivo dei capi particolarmente aggressivi e responsabili di numerose aggressioni agli animali domestici che abbiamo visto applicata in Svizzera, possa dimostrarsi efficace al fine di una convivenza tra predatori e attività pastorali che eviti una pericolosa conflittualità.
Su una popolazione austriaca di 20-25 orsi due si sono resi responsabili di attacchi e, una volta abbattuti, non si sono più lamentate perdite di bestiame.
In Italia un approccio fortemente ideologizzato al problema della salvaguardia dell’ambiente retaggio di una cultura fortemente urabanocentrica e di una radicata mancanza di familiarità della classe urbana media con la concreta dimensione del naturale, rende impensabile tale approccio “pragmatico”. Il protezionismo intransigente è espressione della cattiva coscienza ambientale della classe media urbana e tende a caricare di valenze simboliche alcuni aspetti del contesto naturale isolandoli da una concreta dimensione ecologica (che comprende anche l’elemento sociale e antropico) e assumendoli a simulacri della natura “incontaminata”. Queste considerazioni valide per alcuni aspetti assunti dalla “parchizzazione” e dalla politica forestale si ripresentano ora a fronte dalle sbandierate campagne di reintroduzione dei grandi predatori. E’importante sottolineare che la reintroduzione pone maggiori problemi della “riconquista” spontanea di quello che era l’areale ecologico della specie. La presenza del lupo deve esser valutata alla luce di questa “spontaneità”.

In Slovenia gli orsi sono 500-600 e non solo si sono registrati numerosi casi di aggressione alle pecore ma anche all’uomo in questi anni due contadini sloveni sono stati uccisi dagli orsi (sia pure in circostanze particolari). I responsabili dei programmi di introduzione dell’orso non solo minimizzano i rischi di predazione, sostenendo che il rischio è relativo alla sola specie ovina, ma nei loro rassicuranti interventi si guardano bene dal citare i casi di aggressioni mortali all’uomo verificatesi in Slovenia. L’asserzione che gli orsi sarebbero sotto costante controllo è stata smentita dalla perdita in diversi casi del radiocollare e dagli episodi degli incidenti stradali (l’orsa che si è scontrata con un auto di turisti tedeschi sull’autostrada del Brennero nel 2001) e dell’orso vagante alla periferia di Trento (2002).
Nel 2002 sono stati attaccati e uccisi dall’orso in diverse località diversi animali donestici: pecore, capre e persino maiali mentre gli alveari, dopo gravi devastazioni hanno dovuto essere protetti nelle zone (a rischio) con filo elettrico.
Di fronte alle perplessità e alle critiche che tengono conto dell’esigenza di contemperare la reintroduzione dei grandi carnivori le esigenze della sopravvivenza della pastorizia alpina nell’ambito dei sistemi territoriali estensivi, la reazione dei responsabili dei progetti di reintroduzione lascia intravedere (analogamente ai conflitti innescati dalla parchizzazione del territorio) un atteggiamento di arroganza e di superiorità culturale.
Tali atteggiamenti rimandano al contrasto sociale e culturale del passato tra le esigenze di habitat della grande selvaggina oggetto di attività venatoria aristocratica e quelle degli animali domestici allevati dalle comunità rurali. La forma ideologica che legittimava il diritto della classe signorile (e oggi della classe media urbana e della tecnocrazia “verde”) nei confronti della popolazione rurale tende ad identificarsi con un diverso status degli animali che sono oggetto degli interessi in conflitto. La “fiera” e il cavallo, ossia gli animali legati alle attività cavalleresche militari e venatorie (la caccia rappresentava nel mondo aristoctatico una forma surrogatoria e propedeutica alla guerra) incarnano nell’ideologia della classe dominante una intrinseca “nobiltà” mentre gli animali allevati dalle comunità contadine (secondo un gradiente che corrisponde alla loro specifica utilità per i più poveri) rappresentano l’animale “umile” metafora di ogni vizio e stupidità (vedasi le immagini associate al maiale, all’asino e alla capra).

In conclusione a questo paragrafo pare opportuno svolgere alcune considerazioni:
• il ritorno dei grandi predatori deve essere visto positivamente in quanto elemento di ristabilimento di un equilibrio ecologico (i carnivori rappresentano il vertice delle catene alimentari e svolgono una funzione fondamentale nelle biocenosi) e indicatore di un buon livello di integrità ambientale. Da questo non devono discendere, però, delle forzature pericolose e non può comunque valere l’inverso: se c’è il predatore (reintrodotto) l’ambiente è integro tanto che per molti naturalisti la reintroduzione è sbagliata ed è piuttosto importante migliorare l’ambinete e creare i presupposti per un ritorno spontaneo della fauna in questione;
• l’insediamento dei grandi predatori presuppone spazi molto estesi ed habitat adatti ancor meno facilmente rinvenibili che nel caso dei grandi erbivori selvatici, ma il territorio alpino è oggi compromesso da una forte frammentazione mentre sono poche le azioni per creare “cuscinetti ecologici” e “corridoi ecologici”;
• la presenza, e ancor di più, la reintroduzione programmata dei grandi predatori esigono una valutazione attenta dell’impatto sulle attività zootecniche estensive e pastorali e dovrebbe essere considerata compatibile solamente quando non compromette la funzione essenziale di cura e manutenzione del territorio che queste attività svolgono;
• la convivenza tra attività pastorali e grandi carnivori presuppone (al di là delle proposte dai fautori della reintroduzione) l’introduzione di misure di controllo passive ed attive ed in primo luogo abbattimenti selettivi nel caso di soggetti particolarmente aggressivi nonché il risarcimento dei danni prodotti.

Favorire la diffusione e l’introduzione dei grandi predatori nel territorio alpino sull’onda di una spinta emotiva venata di spettacolarismo può risultare pericoloso. Va osservato con molta franchezza che queste operazioni sono in grado di catalizzare la fantasia e l’attenzione del grande pubblico cittadino “consumatore” di protezionismo attraverso le riviste patinate e l’inflazione dei documentari televisivi sulla fauna esotica. Esso non è sicuramente in grado di valutarne l’importanza in termini di salvaguardia della biodiversità e di ripristino dell’integrità ammbientale ma sicuramente è portato ad assicurare più consenso a queste iniziative rispetto ad altre meno spettacolari ma più efficaci nella direzione del ripristino degli equilibri ambientali . Basti pensare che nello stesso Trentino nell’ambito dei ricercatori che si sono occupati della popolazione autoctona di orsi non tutti erano e sono favorevoli al programma di reintroduzione dell’orso con l’importazione di soggetti sloveni. L’operazione avrebbe richiesto un osservazione etologica approfondita dei singoli soggetti da trasferire come dimostrato dal caso dei soggetti “girovaghi”. L’esigenza di pubblicizzazione del progetto (legata oltre a considerazioni naturalistiche anche ad una promozione abbastanza trasparente di tipo turistico-commerciale come dimostra lo sfruttamento a vati livelli di comunicazione dell’immagine dell’orso) e la larga disponibilità di fondi europei (progetto Life Ursus) hanno pesato non poco sulle modalità e i tempi di realizzazione del medesimo.

Gli ungulati selvatici

Il nostro interesse si incentra sugli ungulati selvatici è motivato da più elementi. Innanzitutto queste specie, indicate nella Tab., sono, ad eccezione dello stambecco (Capra ibex) cacciabili e in alcuni casi (in funzione delle loro caratteristiche etologiche) allevabili e quindi oggetto di attività zootecnica finalizzata alla produzione di carne. In secondo luogo la reintroduzione di queste specie (spontanea nel caso dei cervidi e del camoscio) comporta crescenti problemi di interazione con la fauna erbivora domestica (trasmissione di malattie parassitarie e infettive, ibridazioni, competizione alimentare) e quindi interessa da vicino lo sviluppo dei sistemi pastorali montani. In terzo luogo la presenza degli ungulati selvatici, una volta che le popolazioni sono presenti in modo stabile e con consistenze rilevanti pone problemi più generali di gestione del territorio montano che vanno al di là del mero ambito naturalistico coinvolgendo da vicino gli interessi della zootecnia e della pastorizia nonché della gestione silvicolturale e financo delle stesse attività agricole.


Tabella – Ungulati selvatici presenti nel territorio lombardo
nome comune nome scientifico famiglia cacciabile allevata autoctona in Lombardia
capriolo Capreolus capreolus cervidi si no si
cervo Cervus elaphus cervidi si si si
camoscio Rubicapra rubicapra bovidi si no si
daino Dama dama cervidi si si no
muflone Ovis musimon bovidi si* no no
stambecco Capra ibex bovidi no no si
cinghiale Sus scrofa suidi si si Si**
*In aziende fausnistico venatorie
**la sottospecie attualmente presente è di origine ungherese ed è stata reintrodotta a fini venbatori ed ha sostituito la popolazione autoctona (Cinghiale maremmano), rispetto alla forma autoctona quella introdotta è di taglia più elevata, più prolifica e più aggressiva

Si deve osservare che lo stambecco è stato reitrodotto in tutte le Alpi dalla Parco del Gran Paradiso in Valle d’Aosta (già Riserva di caccia dei Savoia). Il ripopolamento con lo stambecco nelle Alpi e Prealpi lombarde è tutt’ora in corso. Il camoscio al contrario non è mai scomparso dalle nostre Alpi mentre per il cervo e il capriolo il ripopolamento è risultato in prevalenza spontaneo (anche se non sono mancati interventi, spesso inefficaci, di ripopolamenti di caprioli). Mentre il lupo proviene da Ovest (avendo risalito gli Apennini e raggiunto le Alpi marittime) il cervo ed il capriolo sono giunti da Nord-Est e nel loro spostamento verso Ovest hanno ormai colonizzato tutte le provincie alpine lombarde per passare in Piemonte. Alla timida apparizione e ripresa negli anni ‘70 è seguita negli anni ‘80 un consolidamento della presenza che, negli anni ‘90 ha iniziato a tradursi in chiari segnali del raggiungimento di una densità agroforestale eccessiva. Diverso è il problema del cinghiale la cui diffusione è legata a immissioni illegali o, in qualche caso, di “fughe” di soggetti d’allevamento. Anche se sono stati segnalati casi di ibridazione con il suino domestico (Sus scrofa domestica) il problema della reintroduzione del cinghiale per finalità venatorie è rappresentato dall’avvenuta sostituzione dei ceppi autoctoni con quelli di provenienza dall’Europa orientale caratterizzati da maggior taglia, aggressività e prolificità. Non vi è molto da dire sul muflone e sul daino, specie estranee alla fauna autoctona lombarda, se non che per il muflone, che è stato in passato in limitati areali di aree protette (Monte Moregallo) e Aziende faunistico venatorie delle Alpi lombarde (Val Belviso), non è prevista alcuna ulteriore diffusione mentre nel caso del daino la sua presenza è limitata a fondi chiusi dove viene allevato per scopi ornamentali.

Il fattore principale che ha determinato l’aumento spontaneo degli ungulati selvatici (nella fattispecie cervo e capriolo) è legato alla riduzione delle attività agricole e zootecniche in assenza di predazione. La gestione dell’attività venatoria (solo recentemente indirizzata verso la “caccia di selezione” ed ad un prelievo commisurato alla presenza effettiva dei selvatici accertata attraverso censimenti) è stata tale da non consentire un efficace controllo delle popolazioni di ungulati (a fronte anche di una riduzione del bracconaggio). La loro crescita, favorita dall’abbandono delle attività pastorali (che riduce il disturbo all’attività riproduttiva e aumenta, entro certi limiti, la disponibilità alimentare estiva) si è presto scontrata con una riduzione rispetto al passato delle risorse trofiche complessive dell’ambiente (specie di quelle invernali). Tale riduzione è stata causata da:
• rimboschimenti monoculturali (“poveri” dal punto di vista alimentare)
• distruzione dei boschi di ripa nei fondovalle a causa della bonifica agricola e dell’edificazione;
• distruzione delle aree di svernamento

La conseguenza di questi squilibri è rappresentata dall’aumento dei danni agricoli prodotti da questi animali che, alla fine dell’inverno e in primavera, scendono nei coltivi, vigneti, orti. La gravità del problema del reperimento alimentare nelle stagioni “critiche” è tale che sono stati segnalati casi di camosci avvelenati per il consumo di Prunus laurocerasus. Tale essenza estranea all’ambiente alpino -e quindi non riconosciuta come velenosa dagli animali- è ampiamente utilizzata per la realizzazioni di siepi sempreverdi caratterizzate da foglie lucenti color verde brillante . Il Prunus laurocerasus contiene in tutte le sue parti acido prussico ed è sufficiente il consumo di poche foglie, non a caso utilizzate in passato come insetticida, per determinare la morte di un camoscio. E’evidente che ci si trova di fronte ad una densità agro-forestale (DAF)eccessiva, anche senza che sia statto reggiunto il limite della densità biologica (DB) massima . Mentre quest’ultima è definita in termini biologici come il limite oltre il quale non sono più ottimizzate le possibilità riproduttive e la capacità di adattamento alle variazioni ambientali la DAF rappresenta un criterio di pianificazione della gestione territoriale che presuppone delle scelte di natura tecnico-economica; si tratta di definire qual’è il limite di “tollerabilità” del danno agro-forestale (o della competizione con le specie domestiche). La DB è definita in base ad alcuni indicatori della “salute” della popolazione. L’eccessiva densità porta ad una competizione intraspecifica ed interspecifica (non va dimenticato che vi sono rapporti di competizione per lo stesso territorio tra specie diverse, per esempio tra cervo e capriolo) per le risorse alimentari e per i territori di riproduzione (nel caso della femmina la competizione si attua per le zone di parto e porta i soggetti di minor rango a scegliere zone di partosfavorevoli con la conseguente maggior mortalità). Oltre alla mortalità in una popolazione eccessiva rispetto alle risorse del territorio si osserva una riduzione del peso vivo, uno sviluppo carente dei palchi, l’aumento delle tare, la riduzione della natalità, la diminuzione dell’incremento annuo della popolazione.
Oltre al danno agricolo e forestale l’aumento a volte vertiginoso delle popolazioni di ungulati selvatici (passati da 0 a centinaia di capi nell’ambito di piccole vallate) ha iniziato a rappresentare un elemento di interazione a volte negativa con l’attività zootecnica e pastorale. Se è vero che lo sviluppo delle popolazioni dei grandi erbivori selvatici sulle Alpi è legato alla riduzione del grado di antropizzazione e del carico animale allevato in rapporto alla SAF è anche vero che in determinati momenti stagionali o in determinati contesti territoriali così come si può verificare una grave incidenza di danno forestale da parte dei selvatici (sino ad impedire la rinnovazione naturale della foresta) è anche vero che si può determinare localmente una competizione alimentare tra erbivori domestici e selvatici e, fatto ancor più degno di attenzione, un forte rischio di trasmissione incrociata di malattie parassitarie ed infettive.
Si deve tenere bene presente che l’attuale densità delle popolazioni di erbivori domestici è legata ad una riduzione del grado di antropizzazione ma è indubbio che la sopravvivenza di attività agricole e zootecniche si dimostra cruciale per il sostentamento delle medesime. I cervi rappresentano una specie che utilizza di preferenza essenze erbacee. I pascoli e i prati-pascoli (questi ultimi presenti ad altitudini meno elevate e quindi preziosa risorsa alimentare in primavera ed in autunno) sono indispensabili per le popolazioni di cervi laddove non sono (o non sono più) presenti formazioni erbacee naturali a media e bassa quota (tipicamente brughiere e zone umide). Non è raro osservare gruppi anche numerosi di cerve che pascolano durante le ore serali e notturne pascoli e prati falciabili. Anche il capriolo in primavera prima che le gemme delle essenze arboree iniziano a rigonfiarsi e ad aprirsi trova un’essenziale forma di sostentamento nel ricaccio erbaceo dei prati-pascoli (Ramanzin et al., 1999). Di fronte ad un totale abbandono delle attività agricole e zootecniche queste specie si troverebbero in gravi difficoltà e dovrebbero probabilmente abbandonare gli ambiento colonizzati negli ultimi decenni. Una DAF eccessiva potrebbe portare comunque ad un certo grado di conflittualità con gli operatori agricoli che mantengono le superfici erbacee nell’ambito del piano montano inferiore a meno che da parte degli enti responsabili della gestione faunistica (CAC) non si generalizzi quella che è ancora una tendenza troppo poco seguita di concedere incentivi e contributi mirati agli operatori agricoli al fine della realizzazione di coltivazioni a perdere (destinate all’utilizzo da parte dei selvatici) in foresta o del mantenimento delle superfici sfalciate e pascolate. La competizione alimentare comunque si manifesta già in alcuni ambiti sul piano dell’utilizzo di risorse complementari. Durante l’autunno i greggi ovini e caprini si alimentano abbondantemente nel castagneto inselvatichito di frutti caduti a terra e che l’uomo non si preoccupa più di raccogliere (anche in ragione del ridotto calibro dei medesimi). Nell’ambito dei sistemi pastorali ovicaprini questa risorsa era divenuta negli ultimi anni molto importante perché assolveva allo scopo di creazione (grazie al forte contenuto in amido delle castagne) di una riserva alimentare e, persino, alla realizzazione di un flushing alimentare in corrispondenza delle monte con il noto effetto positivo della diponibilità di glucosio per l’ovario e il conseguente miglior tasso di ovulazione. Ora quasta fonte alimentare di elevato valore nutrizionale e del tutto gratuita è sempre più contesa da cervi e cinghiali che hanno ben presto imparato a cibersene.

Situazioni patologiche

In alcune aree del Parco Nazionale dello Stelvio la densità dei cervi ha raggiunto i 20 capi per 100 ha. Si tratta di densità di tipo zootecnico al di fuori di ogni criterio di gestione naturalistica. In queste aree il rinnovamento della foresta è del tutto compromesso. La popolazione mostra evidenti segni deperimento (ritardo nell’epoca della pubertà, ridotto sviluppo somatico) a conferma che la densità eccede di gran lunga anche quella massima biologica. Centinaia di carcasse restano a testimoniare a fine inverno di come l’equilibrio tra la popolazione e le risorse sia del tutto rotto. Finalmente dal 2002 sono stati avviati dei piani di abbattimento. Dal punto di vista dell’etica ambientale la riduzione di un area protetta ad una specie di zoo (le alte densità incoraggiano i visitatori che possono avvistare con fin troppa facilità i selvatici) o di allevamento all’aperto è manifestatamene più discutibile che una gestione rigidamente regolamentata dell’attività venatoria (come avviene in provincia di Bolzano).

Trasmissione di patologie

Il rischio più concreto di effetti negativi per l’attività zootecnica e pastorale legato alla crescente presenza di ungulati selvatici è però legato alla trasmissione “incrociata” di malattie.
Un certo punto di vista “naturalistico” ha portato a preoccuparsi maggiormente del rischio di trasmissione dal domestico al selvatico. Ciò è giustificato dal fatto che gli animali domestici possono più facilmente essere sottoposti a trattamenti (sverminazione, somministrazione di antibiotici) in grado di curare i soggetti ammalati e di impedire la diffusione delle patologie, ma forse non tiene conto che il selvatico proprio perché non sottoposto a trattamenti terapeutici e di profilassi rappresenta un “serbatoio” di agenti potenzialmente patogeni rispetto ai quali il domestico ha visto indebolirsi i meccanismi di difesa.
Come esempio di grave forma infettiva trasmessa ai selvatici si cita quello della cheratocongiuntivite contagiosa che, con epidemie ricorrenti (fortunatamente a distanza di parecchi anni l’una dall’altra) miete numerose vittime tra i camosci che resi ciechi non riecono ad alimentarsi e precipitano dalle rupi. Di queste epidemie (cui probabilmente non è estranea l’eccessiva densità raggiunta localmente dalle colonie di questi bovidi selvatici) vengono “incolpati” gli ovini. Recentemente, però, si fanno sempre più frequententi le segnalazioni di patologie che colpiscono gli animali domestici al pascolo in relazione al contatto con i selvatici e all’aumento della loro densità. Tale segnalazioni provenienti da realtà anche molto distanti dalla nostra evidenziano il rischio potenziale connesso con DAF eccessive e con un conseguente precario stato nutrizionale e fisiologico degli animali. Dal momento che i cervi tendono a pascolare anche in gruppi di parecchi capi i pascoli ed i prati-pascoli normalmente utilizzati da bovini ed ovicaprini è facile aspettarsi un aumento di infestazione di queste superfici da parte di parassiti tipici del cervo. E’ il caso dell’ Elaphus strongilus parassita polmonare che nel cervo, ospite usuale, non comporta particolari problemi ma che trasmesso alla capra secondo alcune segnalazioni determinerebbe gravi problemi neurologici (locomozione). Casi di aborti infettivi nella capra di cui si sospetta una trasmissione da parte degli ungulati selvatici.
Nel caso della capra si hanno notizie (testimonianze orali e fotografiche nonché l’interessamento al problema dell INFS) della presenza di stambecchi maschi presso greggi di capre nel momento dei calori. Gli stambecchi tendono a disturbare la riproduzione non solo perché i becchi subiscono la dominanza dello stambecco ma anche direttamente coprendo e fecondando le capre. L’ ibridazione dello stambecco con al capra domestica è stata da sempre ritenuta possibile dai montanari e vi sono notizie storiche che confermerebbero questa eventualità indicando anche la possibile fertilità degli ibridi anche se su questo aspetto vale la pena attendere i risultati delle indagini in corso da parte dell’ INFS.

“Anche gli svizzeri avrebbero volentieri voluto riacclimatare nel loro territorio questo maestoso animale, ma il re d’Italia non voleva staccarsene. Si fecero dei tentativi partendo da ibridi di stambecchi e di capre domestiche, che si mostrarono intrattabili, lasciandosi andare ai peggiori scherzi. Incrociati tra loro, ritornarono rapidamente al ceppo della capra” Pierre e Robert Hainard in Guichonnet p 415.


La densità delle popolazioni di ungulati selvatici e gli elementi base della gestione faunistica

Attualmente in base alla vigente disciplina legislativa dell’attività venatoria i censimenti delle popolazioni di ungulati selvatici sono eseguiti a cura dei CAC che, annualmente, devono redigere sulla base dei censimenti stessi i Piani di Abbattimento e, quindi procede all’indicazione ad ogni cacciatore dei capi prelevabili (numero e categoria). Nelle Aree Protette, provvedono gli enti delegati alla gestione faunistica (Parchi) ad eseguire il censimento della fauna.
Il monitoraggio dello stato di salute e di nutrizione delle popolazioni è effettuato attraverso l’esame dei capi abbattuti da parte dalle Guardie Venatorie delle Amministrazioni Provinciali che provvedono, prima che il cacciatore possa disporre della carcassa del capo abbattuto, ad eseguire rilievi biometrici sul sito di abbattimento.

Tab. Densità biologiche e Densità agro-forestali indicative in funzione della qualità dell’ambiente (capi /100 ha)
1 cervo = 2,5 caprioli = 2 daini



Alcune indicazioni utili alla gestione di una popolazione di ungulati selvatici sono riportate nella seguente Tabella:


Tab. Elementi conoscitivi di base per la gestione di popolazioni di ungulati selvatici
CERVO CAPRIOLO CAMOSCIO
Capacità potenziale (capi/100 ha) 1÷4 5÷16 4÷18
Prelievo in condizioni di stabilità (% capi) 25÷30 35÷40 15
Danni forestali +++ + +
Danni agricoli +++ +
Competizione con animali domestici bovini ovicaprini

Qualora si consideri che l’apertura della caccia ad una determinata specie ungulata cacciabile in un CAC spesso non viene concessa fin tanto che non si sono raggiunte le densità massime indicate nella Tab. e che la percentuale di prelievo spesso non raggiunge il 5% ci si rende conto del perché i danni agroforestali e gli incidenti stradali (determinati dalla collisione delle autovetture con gli ungulati selvatici, o al tentativo di evitare la collisione stessa) in molte valli alpine lombarde sono cresciuti in modo a volte intollerabile sino a far sorgere localmente dei Comitati spontanei di residenti per protestare contro i danni prodotti dai cervi e per chiedere la riduzione della loro densità.
E’interessante notare come nel caso del cervo l’interesse dei praticanti l’attività venatoria (interessatia ad un prelievo consistente) coincida con quello delle popolazioni locali mantre nel caso del cinghiale (introdotto dai cacciatori in zone dove la loro presenza è poco sostenibile) questi interessi divergano dal momento che i non cacciatori (escursionisti, agricoltori, residenti che coltivano orti e frutteti ai margini dei villaggi, cercatori di funghi) sono concordi nel chiedere l’eradicazione della specie non slo in ragione dei gravi danni alle coltivazioni, ai pascoli, ai prati ma anche in ragione del pericolo costituito dal comportamento aggressivo delle scrofe che, in caso di disturbo accidentale della nidiata da parte dell’uomo non esitano ad attaccarlo con consegueze potenzialmente molto pericolose.

I diversi impatti degli ungulati selvatici sull’ambiente agroforestale sono legati al comportamento alimentare e riproduttivo delle diverse specie e al diverso habitat. Il cervo trova il suo habitat nelle zone di media e alta montagna; in estate sale sino a 2.400 e in inverno resta prevalentemente in un range altimetrico tra gli 800 e i 1.500 m. Il cervo esige un bosco rado, senza sottobosco arbustivo e presenza di rampicanti che in considerazione della taglia e della presenza dei palchi nei maschi ostacolano la sua progressione. E’evidente che le boscaglie di transizione o non suscettibili per condizioni di fertilità, umidità ecc. di evolversi ad alto fusto, i boschi degradati non sono in grado di ospitare popolazioni di una qualche consistenza. I boschi puri di conifere non rappresentano certo l’habitat ideale per il cervo (la presenza ottimale di conifere non dovrebbe superare il 20%). Il cervo predilige il pascolo erbaceo e ciò spiega perché nell’ambito del territorio oltre alle aree boscate, indispensabili come aree di rifugio, devono essere presente ampie radure o l’alternanza di superfici boscate ed a copertura erbacea. E’importante anche la disponibilità di fonti di abbeverata. Il capriolo può occupare ambienti più differenziati tanto da poter insediarsi anche nelle zone di pianura e collina laddove sussistano boschetti, filari di essenze arboree ed arbustive; per queste ragioni la sua presenza nell’europa centrale è abbondante anche nell’ambito dei territori agricoli di pianura laddove il paesaggio agrario ha conservato elementi di naturalità. L’habitat ideale del capriolo è comunque quello della media montagna con prevalenza di bosto misto di latifoglie e conifere. Si adatta anche alle condizioni della bassa e alta montagna in relazione alla presenza del cervo che in quanto specie dominante tende a scacciarlo. Il capriolo è un animale che soffre molto per il disturbo antropico; molti soggetti finiscono vittima di incidenti stradali o dei cani randagi. Fuggendo in preda al panico i capriolo possono risultare vittima dell’infarto o di gravi incidenti traumatici. Il capriolo rappresenta la tipica specie “browser” termine inglese che indica in contrapposizione al pascolo erbaceo (“grazing”) il comportamento alimentare “browsing” (tradotto in modo non preciso con “brucare”) di quegli animali che si alimentano di numerose essenze (in prevalenza arboree ed arbustive) “spizzicando” pochi bocconi da una pianta per passare dopo pochi attimi ad un’altra ed ad un’altra ancora. Il capriolo, pur anch’esso ruminante, ha rispetto al cervo ha un apparato digestivo di minor mole e un transito digestvo più rapido che lo spinge ad utilizzare alimenti di maggiore densità nutritiva. Si spiega così la preferenza per i germogli, per le foglie verdi di essenze arboree ed arbustive ricche di zuccheri, grassi, proteine (il cervo in ragione della sua taglia e del maggior sviluppo degli organi digestivi è, invece, un tipico “grazer” avvicinandosi al comportamento alimentare dei bovini con i quali entra in competizione per il pascolo). Il capriolo si avvantaggia della presenza di un “mosaico” vegetazionale caratterizzato da varietà di specie di diversa morfologia, portamento e stadio i sviluppo. A differenza del cervo il capriolo si avvantaggia della presenza di un’abbondante vegetazione al suolo e del sottobosco di bassi arbusti (con i relativi piccoli frutti). Un perimetro frastagliato delle aree boscate favorisce la presenza della vegetazione di transizione tra le superfici erbacee e il bosco e aumenta la diponibilità alimentare per queste specie. Il capriolo è comunque in grado di utilizzare anche dei “ritagli” territoriali: canaloni ombrosi coperti di vegetazione arborea, ontaneti, alvei dei fiumi.
Animale adattabile dal punto di vista alimentare a vari ambienti il capriolo presenta, invece, delle forti esigenze di defininizione dello spazio territoriale in relazione al comprtamento sociale. Durante l’inverno l’unità sociale è formata da un gruppo composto da una femmina adulta con 2 figli di 6-8 mesi, una figlia di un anno e un maschio. Tra febbraio e aprile i maschi adulti stabiliscono una gerarchia che consiste nella conquista del territorio (o dei territori migliori). I giovani maschi (in gruppo) e maschi anziani (isolati) devono allontanarsi dalle aree occupate da un maschio territoriale. La fase territoriale che comporta la rigida difesa del territorio da parte del maschio che l’ha occupato dura da maggio ad agosto. Durante l’ultima fase del periodo territoriale si verificano gli “amori”: il maschio territoriale, dopo rituali di corteggiamento lunghi e complessi, feconda le femmine in calore presenti nel territorio da esso controllato. Il cervo, invece, non presenta un comportamento territoriale vero e proprio; ad ottobre dopo aver stabilito attraverso una fase di confronti e combattimenti una scala di dominanza il cervo dominante “conquista” il “campo degli amori”, un’area (di solito la medesima per molti anni) consistente in ampie superfici aperte delimitate dal bosco, e feconda le femmine presenti. Si deve osservare che sia nel caso del capriolo che, ancor più, del cervo è frequente che altri maschi non dominanti riescano a introdursi nel territorio di riproduzione e fecondare alcune delle femmine.
Un altro aspetto importante della biologia del cervo e del capriolo riguarda il ciclo di crescita e caduta del palco; a questo ciclo sono legate le fasi gerarchiche (il palco riveste un ruolo importante nello stabilire la gerarchia) ma anche la produzione dei danni forestali tipici prodotti da queste specie. Il palco nei cervidi (daino, capriolo e camoscio) costituisce una struttura ossea che viene prodotta annualmente. Le dimensioni e la ramificazione del palco sono in relazione allo stato nutrizionale e di salute degli animali e rappresentano un carattere sessuale secondario (negli animali castrati non si sviluppano). Il cervo che ha compiuto l’anno si definisce “fusone”, quello di due anni “forcuto” proprio in relazione allo sviluppo della ramificazione dei palchi. Nei cervi adulti in buono stato di salute e nutrizione le “punte” raggiungono il numero di 12. Alla crescita del palco segue la “pulitura” che consiste nella rimozione del tessuto cutaneo riccamente vascolarizzato che durante la fase di crescita ossea consente l’afflusso dei costituenti necessari alla mineralizzazione (Calcio innanzitutto). Il tessuto cutaneo a sviluppo ultimato si atrofizza e dissecca e l’animale lo elimina sfregandosi contro le piante (da qui i danni forestali). Il tessuto osseo (bianco) durante lo sfregamento contro le cortecce si colora con i tannini e altre sostanze coloranti, da qui il colore caratteristico dei palchi. La pulitura deve essere effettuata prima del periodo degli amori. Le “punte” sono in genere affilate e particolarmenti pericolosi sono i “pugnali”, le punte alla base del palco dirette in avanti. Nel capriolo i palchi cadono in autunno e la “pulitura” avviene in primavera. Nel cervo la “pulitura” avviene tra luglio e agosto e la caduta in inverno. Nel cervo che presenta stagione riproduttiva a settembre-ottobre la gravidanza dura quasi 8 mesi (34 settimane) i parti si verificano a giugno. Il capriolo che ri riproduce a luglio-agosto presenta una gravidanza particolare; in passato si riteneva che durasse 5 mesi (come le pecore e le capre), ma si è successivamente scoperto che essa presenta due fasi: la prima, della durata di 4 mesi e 1/2, vede l’embrione “congelare” il proprio sviluppo per tutta la sua durata, la seconda che inizia con la ripresa della moltiplicazione cellulare dell’embrione dura per l’appunto 5 mesi. Nella seguente Tabella sono indicate altre caratteristiche delle due specie in esame.


Tabella - Caratteristiche riproduttive degli ungulati selvatici
CARATTERISTICA CAPRIOLO CERVO
altezza al garrese (cm) 70-75 110-130 (maschio)
90-110 (femmina)
lunghezza del tronco (cm) 110-130 190-210 (maschio)
150-180 (femmina)
gravidanza (mesi) 4,5+5 7,8
peso alla nascita (kg) 1-1,5 8-10
peso adulto (kg) 20-25 (maschio)
18-22 (femmina) 130-180 (maschio)
80-110 (femmina)
allattamento (mesi) 6-7 6-7
latte prodotto (kg) 0,75 1,4-2
% grasso 6,7 10,0
% proteine 8,8 6,0
% lattosio 3,9 4,5

I danni forestali prodotti dagli ungulati selvatici

Caso emblematico Val Zebrù, sulla convivenza domestici-selvatici vedi citazione Dupont pag.

Il danno forestale può risultare da:

• brucamento
• scortecciamento
• “fregoni”

il brucamento può consistere in un danno lieve se interessa le foglie, più grave se interessa i rametti e gli apici vegetativi (in particolare il germoglio apicale delle conifere). A differenza degli animali domestici che possono assembrarsi in numero elevato in un’area ristretta se gli ungulati selvatici non si trovano in circostanze particolari il danno da brucamento non compromette normalmente il rinnovamento naturale della foresta. E’comunque più grave in inverno quando, in assenza di altre fonti alimentari e con una spessa copertura nevosa gli aghi delle conifere rappresentano spesso l’unica risorsa disponibile. Le specie arboree più interessate a danni sono l’abete bianco, il frassino, la quercia e, in minor misura, abete rosso, pino silvestre, faggio e pioppo. A differenza di altri animali (lepre) il troncamento dei rametti non è netto (in ragione dell’assenza di incisivi superiori). Il capriolo raggiunge con il brucamento altezze di 1,1 m, il cervo arriva sino a 1,7 m di altezza. Più gravi sono i danni da scortecciamento e da “fregoni”. Nel primo caso il danno si manifesta sia in inverno che in estate; in inverno gli animali sollevano la corteccia per alimentarsene mentre in estate in presenza di fonti alimentari di qualità sicuramente più elevata lo scortecciamento è legato ad aspetti comportamentali o, eventualmente, a squilibri nutrizionali. Lo scortecciamento è praticato con gli incisivi inferiori e rappresenta un danno letale per le piante se interessa tutta la circonferenza della pianta. Se, invece, gli è praticato solo su un lato del fusto il tessuto cambiale che rimane efficiente sull’altro lato può essere sufficiente alla risalita della linfa. Lo scortecciamento è praticato dal cervo preferibilmente su abete rosso, frassino, castagno (polloni), carpino e alberi da frutto; in minor misura sono danneggiati anche tiglio, pino silvestre, pino cembro, faggio, pipoo, larice, acero. I “fregoni” sono rappresentati dai danni da sfregamento del palco contro le piante. I fregoni da pulitura comportano il distacco di strisce di corteccia (danno da un solo lato della pianta) mentre i fregoni da “amori” che rappresentano un mezzo di demarcazione visiva del territorio oltre che una manifestazione di aggressività e una simulazione del combattimento comportano la rottura di rami e lo strappo completo della corteccia. Nella seguente Tabella sono indicate le entità dei danni prodotti dai cervi e dai caprioli. I fregoni danneggianom sopratutto i pini e i larici, in minor misura gli abeti e poco le latifoglie. Per distinguere i fregoni del cervo da quelli del capriolo valgono i seguenti criteri:

diametro della pianta (cm) altezza da terra (cm)
cervo 10-15 100-170
capriolo >3 20-80

Nel seguente prospetto viene indicata la diversa entità dei danni prodotti da cervi e caprioli.

Tipo di danno cervo capriolo
brucamento + ++
scortecciamento +++
fregoni +++ ++


Al fine di proteggere piante da frutto e forestali possono essere utilizzati dei manicotti di rete zincata amaglie esagonali sostenuti da due picchetti infissi nel terreno (l’altezza dipende dalla specie dalla quale si vuole proteggersi); tale strumento è efficace anche nel caso dei piccoli ruminanti domestici sempre che le maglie della rete non siano troppo ampie da consentire loro di utilizzarle come appoggi per raggiungere le fronde arboree. Per la protezione dai danni forestali possono essere utilizzati altri mezzi “passivi” quali sostanze repellenti e dispositivi pungenti. Su aree ristrette una protezione efficace è data dall’installazione di recinzioni fisse che per l’esclusione dei cervi devono essere alte 2,45 metri e 2,0 m nel caso dei caprioli. Il costo è molto elevato e giustificabile per aree non superiori a 10-15 ha. La posa di recinzioni elettriche dello stesso tipo di quelle usate per il pascolo confinato degli animali domestici è problematica sia per la necessità di stendere diversi fili ad altezze differenti: 25, 55 e 90 cm nel caso del capriolo, (20) 40, 90 e 130 cm in quello del cervo. All’interno delle superfici boscate è facile che la caduta di rami provochi un contatto tra fili e vegetazione (conducente per via del contenuto in acqua) con la conseguente esaurimento delle batterie; è necessaria perciò una particolare sorveglianza.

L’allevamento

L’allevamento degli ungulati selvatici appartenenti alle specie cacciabili è previsto sia a scopo di ripopolamento che ornamentale che di produzione di carne. Negli allevamenti zootecnici è possibile prelevare gli animali anche fuori dalla stagione venatoria (però solo da parte del titolare o di personale aziendale incaricato) utilizzando la carabina a canna rigata. Sistemi di immobilizzazione o di narcosi possono essere utilizzati per cure sanitarie, spostamento degli animali o spedizione di animali vivi ma non sono compatibili con la macellazione (stress, residui nelle carni). Gli animali d’allevamento devono essere di provenienza certificata da allevamenti, essere iscritti ad apposito registo ed essere contrassegnati da apposita marca con corrispondente matricola. In base a quanto sopra osservato a proposito del comportamento sociale e territoriale del capriolo l’allevamento è difficilmente realizzabile. Molto più facile l’allevamento del daino e del cervo che se abituati ad un contatto precoce con l’uomo manifestano un carattere docile. In ambenti molto favorevoli in condizioni di allevamento intensivo le densità di cervi possono essere molto elevate. In generale si considera come densità di riferimento nell’allevamento intensivo quella di 5 capi/ha. Nel caso dell’allevamento estensivo valgono le densità indicate come quella massime dal punto di vista biologico per i diversi ambienti.

Densità allevamento cervi
zona capi/ha
pianura 15-20
colline fertili con pascoli e boschi 6-8
collina poco fertile 1-3
montagna < 1.500 m 0,1-1

Negli allevamenti vi è la presenza di un maschio ogni 10-20 femmine. Il parto avviene a 2 anni (le femmine non devono essere coperte prima dell’anno e devono aver superato i 70 kg di peso vivo). Il grosso costo di impianto è costituito dalle recinzioni che devono essere realizzate con rete metallica alta almeno 1,4-1,6 m con tre fili metallici stesi al di sopra (il più alto a non meno di 180 cm dal suolo). Il filo elettrico ,alla sommità può essere elettrificato e un filo parimenti elettrificato può essere collocato all’esterno per evitare l’ingresso di randagi o predatori. Il perimetro della recinzione non deve presentare angoli acuti (i selvatici sono preda del panico quando chiusi in un angolo). I pali di sostegno della rete devono essere piantati a distanza di 6 (massimo 8) metri al fine di ridurre l’elasticità della recinzione che potrebbe risultare motivo di gravi lesioni nel caso di animali che si lanciassero contro la rete; devono essere interrati per 70 cm e emergere 2 m fuori terra. In un allevamento deve essere presente una struttura specializzata per la cattura degli animali costituira da un recinto circolare a pareti piene e lisce e possibilmente coperto con delle porte ad orologio che consentono di spostare gli animali da un apertura all’altra del “corral”. Le aperture corrispondono a diversi recinti e in questo modo gli animali possonoe essere spostati da un settore all’altro dell’allevamento. Il “corral” termina con un corridoio di cattura dove l’animale può essere immobilizzato o catturato in apposite casse per il trasporto in altra zona dell’allevamento o verso altri allevamenti. Deve essere particolarmente curata l’alimentazione (con concentrati) dei maschi, specie dopo le monte.

Foraggiamento degli animali selvatici

Nell’ambito degli allevamenti sono utilizzate delle strutture con tettoia, rastrelliera per il fieno e mangiatoia per la somministrazione del concentrato. Le stesse sono (o meglio erano) utilizzate anche nelle aree di ripopolamnento e di gestione faunistica sino a quando si è instaurato un criterio più “naturalistico” che ha teso ad escludere dalla gestione delle popolazioni selvatiche il ricorso sistematico al foraggiamento. La concentrazione degli animali presso le rastrelliere del fieno determina infatti una concentrazione pericolosa per la trasmissione dei parassiti. Queste strutture, in ogni caso, dovrebbero essere colocate in zone soleggiate e da dove gli animali possono controllare i dintorni, non dovrebbero consentire a più di 15 capi di alimentarsi contemporaneamente. Qualora il foraggiamento venga eseguito è più opportuno effettuarlo in autunno con forraggi grossolani. In inverno gli animali presentano metabolismo rallentato e utilizzano le scorte di grasso accumulate durante la buona stagione; inoltre il volume del rumine è ridotto tanto da non consentire di utilizzare i fieni e altri foraggi grossolani.


Tabella. Coefficienti per il calcolo del carico di bestiame
Categoria di bestiame UBA
Bovini oltre 2 anni 1,0
Equini oltre 6 mesi 1,0
Bovini da 6 mesi a 2 anni 0,6
Pecore e capre 0,15


Polifunzionalità agrozootecnica, turismo rurale, cultura.

Introduzione

A differenza dell’agricoltura industrializzata l’agricoltura intesa come attività integrata e multifunzionale, cardine di uno sviluppo rurale rispettoso dell’ambiente e della realtà socio-culturale del territorio, non è indirizzata alla produzione di materie prime per l’industria alimentare, ma alimenta circuiti agro-artigianali di nicchia la cui redditività è condizionata ad un rinforzo reciproco con l’attività turistica. L’agricoltura territoriale mantiene l’identità del paesaggio rurale, conserva spazi ricreativi, fornisce elementi di attrattività e interesse diretto (prodotti di qualità specifica, architetture, razze di animali), fornisce strutture di ospitalità, mette a disposizione servizi di vario tipo per il turista (noleggio di cavalli) e strutture e capacità professionali per l’organizzazone di attività dimostrative e didattiche. Tutto ciò non ha valore solo per le “aree marginali”, ma anche per le zone di agricoltura “forte” e industrializzata dove le pressioni a favore di un orientamento ecocompatibile e la riduzione del sostegno pubblico inducono a riorientarsi verso modelli territoriali sostenibili. Spostando la focale dall’agroindustria allo sviluppo territoriale e alla multifunzionalità il turismo rappresenta il referente cui l’azienda agricola ma, soprattutto, chi si occupa di sviluppo rurale e valorizzazione territoriale, deve orientarsi.
La conoscenza di alcuni elementi conoscitivi di scienza turistica e socioantropologia del turismo sono a questo punto altrettanto importanti della conoscenza delle proprietà nutritive degli alimenti e delle altre determinanti della qualità dei prodotti di origine animale per chi si occupa di sistemi agrozootecnici territoriali.


Agricoltura e turismo

Il turismo è legato all’agricoltura in molti modi. L’agricoltura produce condizioni (basti pensare al paesaggio) che rappresentano una materia prima dell’attività turistica, ma prima di tutto l’agricoltura fornisce materie prime. La ripartizione del valore aggiunto dei prodotti finali tra agricoltura e industria rappresenta ovviamente un punto cruciale.
Nel mondo le attività agricole (comprese quelle forestali e della pesca) rappresentano circa un terzo dell’indotto dell’attività industria turistica (Belisle, 1983). Questa realtà trova riscontro anche sul piano in Italia e in Europa.

Già ora in Europa l’industria turistica è superata in importanza solo da quella petrolifera e automobilistica; in Italia La spesa dei turisti in Italia nel 1998 è ammontata a 130 milioni di Euro e ha contribuito all’occupazione di 2.000.000 di addetti . Cosa comporta ciò per l’agricoltura?

Di questa spesa, però, solo 23 mld di Euro (il 18%) è stata introitata dall’industria turistica (alberghi e pubblici esercizi) mentre ben 10 mld di Euro sono stati speso per prodotti dell’agricoltura (8%) che però ha partecipato all’indotto turistico con il 21% dell’occupazione indotta (380.000 addetti). Il 12% del valore della produzione e il 5% dell’occupazione indotte è stato rappresentato dall’industria alimentare.

Lombardia regione turistica?

Una volta stabilito che l’industria turistica in Italia è (e sarà probabilmente ancora di più in futuro) uno dei pilastri del sistema economico, ai fini delle considerazioni sul rapporto agricoltura-turismo è indispensabile scendere al livello territoriale e chiedersi se questa vocazione trovi corrispondenza a livello regionale e come i sistemi agricoli territoriali lombardi ne risultino influenzati.

La Lombardia a dispetto di luoghi comuni duri a morire è una regione a forte vocazione agricola e turistica. Prima regione in Italia in quanto a produzione agricola in ragione del grande sviluppo degli allevamenti (da sola contribusice per un terzo alla produzionde di latte e per il 40% alla produzione di carne suina) è anche la regione che attira il maggior numero di turisti dopo il Veneto.
Se è vero che l’importanza turistica della Lombardia è legata al ruolo di Milano e al grande volume di turismo d’affari legato alle manifestazioni fieristiche e della moda è anche vero che Milano si sta affermando come una città turistica anche nel senso tradizionale (legato agli eventi culturali, alla visita alle pinacoteche e ai monumenti) e che la provincia di Brescia da sola rappresenta il 30% del turismo lombardo grazie all’importanza del grande polo turistico rappresentato dal Lago di Garda. Le previsioni indicano un forte potenziale di espansione per l’industria turistica lombarda che rappresenta un elemento fondamentale della nuova caratterizzazione terziaria della regione. Le potenzialità del turismo in Lombardia sono legate al supera dell’identificazione –ancora diffusa nell’ immaginario turistico- del turismo lombardo con la regione dei laghi. In effetti la “bassa” e la montagna (che rappresenta il 42% del territorio e fa della Lombardia una delle più importanti regioni alpine). Le identificazioni del turismo e della montagna alpina con la Valle d’Aosta e il Trentino-Alto Adige (avvalorata dai mezzi di comunicazione ed in primis dal “servizio pubblico” radiotelevisivo) così come quella del turismo enogastronomico e rurale con le zone collinari della Toscana e del Piemonte sono il risultato non solo di “vocazioni” intrinseche al territorio ma della capacità di promuovere l’immagine turistica di queste regioni attraverso aggregazioni di interessi, coordinamento di iniziative, strategie di comunicazione. Fenomeni come il “Brunello di Montalcino” o la nascita di Slow Food nel Piemonte sud-occidentale spiegano la non casualità di certi successi turistici e d’immagine; mostrano anche come al di là delle campagne promozionali e della partecipazione alle manifestazioni espositive del settore conta per la promozione turistica di una regione la capacità a livello locale (ossia di precisi “distretti”) di aggregazione degli operatori pubblici e privati comprendento tra questi ultimi, gli operatori turistici ma anche quelli commerciali, agricoli, culturali.

Gli elementi di forza dell’industria turistica lombarda sono identificabili nei seguenti:

• facile accessibilità dall’europa centrale e centro-orientale;
• buono standard di servizi, infrastrutture, sicurezza, qualità complessiva della vita (specie se confrontato all’Italia centro-meridionale);
• grande patrimonio artistico-monumentale suscettibile di migliore conoscenza e valorizzazione (specie rispetto ai “circuiti d’arte” tradizionali);
• grande varietà di situazioni climatiche e di ambienti naturali e culturali con conseguente diversificazione di proposte turistiche per tutte le stagioni dell’anno;
• qualità e varietà dell’offerta enogastronomica legata alle produzioni tipiche (la Lombardia tra le prime tre regioni in Italia per il numero di prodotti agroalimentari tipici).

Contrariamente ad un’opinione diffusa qualche decennio orsono l’industria turistica (dove l’innovazione e la professionalità, oltre che la disponibilità di supporti infrastrutturali e di servizio a livello territoriale, contano sempre di più) non appare destinata a svilupparsi nelle situazioni “arretrate” caratterizzate dall’abbondanza di mano d’opera, ma nelle aree più evolute. Ciò vale anche per il turismo rurale. E’evidente che la presenza di una ruralità in parte “sommersa” e poco presente nell’immaginario turistico (regionale ed extraregionale), ma caratterizzata da risorse molto interessanti e tutte da scoprire, unita ad un grado di sviluppo socio-economico elevato fanno della nostra regione una di quelle che hanno più possibilità in Italia di attivare un nuovo ciclo turistico a differenza di altre aree “mature” e che rischiano di vedere una fase declinante del ciclo.

Conflitto tra turismo e agricoltura

La sottolineatura delle grandi possibilità di sinergia tra agricoltura e turismo non deve fare dimenticare i fattori di conflitto.
Il conflitto tra agricoltura e turismo presenta esiti radicalmente diversi in funzione del modello di sviluppo territoriale e dei caratteri assunti dall’attività turistica. Un villaggio turistico isolato dal contesto territoriale che importa tutti i prodotti alimentari dal’esterno è diverso da un piccolo albergo inserito in un contesto rurale (dove gli stessi gestori mantengono legami con il mondo agricolo). Una stazione sciistica “artificiale” ad alta quota comporta impatti sull’attività zootecnica-pastorale ben diversi dal turismo estivo dei rifugi alpini e degli agriturismi attivi presso le alpi pascolive.
Il turismo presenta una serie di impatti economici in quanto tende a competere in modo aggressivo per le risorse: le aree da destinare a edificazione o per strutture ricreative (basti pensare allo spazio necessario per i campi da golf), la manodopera, l’acqua. Se la stagione turistica corrisponde con il picco di fabbisogno di manodopera le aziende agricole si troveranno in difficoltà a reperire manodopera stagionale perché il lavoro negli hotel e nei ristoranti è normalmente più attraente.
La sottrazione di aree agricole da parte del turismo (lottizzazioni, strutture sportive, centri commerciali) ha rappresentato un elemento di forte conflittualità in molte località turistiche delle alpi lombarde. Molti dei terreni migliori (adatti allo sfalcio meccanizzato del foraggio) sono stati “sprecati” da una pianificazione (!?) urbanistica che non ha tenuto conto né degli interessi strategici della zootecnia, né di quelli a lungo termine dello sviluppo territoriale. Lo scarso peso politico del mondo agricolo e il carattere estremamente rapido e disordinato della “transizione alla modernità” (che ha sgretolato le forme di coesione comunitaria tradizionale senza sostituirle con nuove in grado di contrastare l’individualismo e il corporativismo) hanno fatto passare in secondo piano gli interessi di lungo periodo del territorio e della comunità premiando interessi immediati e speculativi. Un minor impatto paesistico e agricolo si sarebbe ottenuto, se fosse prevalsa una logica di programmazione e uso oculato del territorio, contenendo l’edificato ai margini dei fondovalle e delle piane, ma purtroppo….
Quanto ai modelli turistici possiamo distinguere tra modelli “industriali” e “dolci”. Il caso del turismo invernale, che interessa direttamente la zootecnia di montagna è sintomatico. La dimensione degli investimenti (grandi alberghi, impianti di risalita, infrastrutture) richiede l’attivazione di forze economiche esterne al territorio ben poco interessate a valorizzare le sinergie con le strutture locali. Il turismo invernale si concentra in poche località dove in aluni periodi si raggiunge una forte concentrazione di residenti temporanei e di autovetture che comporta impatti ambientali negativi; impatti negativi sono costituiti a livello paesistico dalla presenza stessa degli impianti di risalita (piloni, stazioni, tagli dei boschi). La concentrazione della domanda di prodotti e servizi in tempi e località ben delimitate rende difficile “sincronizzare” la produzione locale con le esigenze del consumo turistico e questa domanda finisce per essere in gran parte soddisfatta da beni (di origine industriale) importati dall’esterno. A differenza di forme di turismo “dolce” (turismo rurale, culturale, naturalistico) che non presuppongono la presenza di grandi strutture e infrastrutture turistiche e viabilistiche il turismo sciistico (come altre forme di turismo “concentrato”) contribuisce alla marginalizzazione delle valli/aree “interne”.
Il conflitto agricoltura-turismo ha anche altri implicazioni più “sottili”. Il turismo di massa comporta lo stravolgimento degli stili di vita e dei valori dell’ambiente rurale contribuendo, anche al di là della concorrenza per le risorse, alla crisi delle forme di agricoltura tradizionale.
E’ bene riconoscere, però, che il turismo comporta anche dei benefici. La presenza di servizi ed infrastrutture realizzate per i turisti (a cominciare dalla viabilità) avvantaggia anche i residenti e le aziende agricole. L’assorbimento di manodopera in attività turistiche (o nell’indotto turistico) nei periodi di minor impegno in agricoltura può contribuire al reddito famigliare e alla sostenibilità economica delle aziende.

Turismo sussidiario all’agricoltura o agricoltura sussidiaria al turismo?

Da Rosenberg (op. cit.)

“Ad Abriès il turismo non ha mantenuto le sue promesse iniziali. Non è più sussidiario all’agricoltura , questa è anzi diventata sussidiaria al turismo ed è mantenuta in vita per essergli utile. Gli abriesini che vogliono continuare a fare i contadini sono arrabbiati e sdegnati che sia stato loro assegnato un ruolo di custodi del parco a vantaggio dei turisti. Inoltre essi sottolineano come il turismo sia una fonte di reddito persino più incerta dell’agricoltura. Anch’esso dipende dalle stagioni e dalle condizioni del tempo ma, a differenza del cibo, è qualcosa di cui si può fare a meno nei momenti di crisi economica. In ogni caso i funzionari agricoli del dipartimento continuano a promuovere il turismo quale unica soluzione per le regioni montane ‘arretrate’. Un agronomo che negli anni Cinquanta ha attivamente promosso le zone pilote del Queyras, adesso sostiene che in montagna l’agricoltura è impraticabile (intervista 1972). Il Queyras, che lui una volta considerava un modello di sviluppo agricolo, deve ora accontentarsi di soddisfare il bisogno di svago degli stressati abitanti delle città: ‘ l’agricoltore è il giardiniere della montagna: il turista vuole vedere un panorama diverso all’interno di un ambiente rurale’. “

“I vecchi abitanti di Abriès stanno per essere sostituiti da quelli immigrati di recente, persone che hanno portato da fuori le proprie risorse e che hanno capacità e capitali per sfruttare a fini turistici la neve, il sole e il paesaggio. Questi non hanno ereditato gli accessi alla base produttiva precedente –terre e animali- ma hanno solo un bisogno limitato di accedere a quelle risorse e alla manodopera del villaggio. Necessitano solo di alcuni animali che d’estate mantengano bassa l’erba sulle piste da sci (un servizio che può essere reso dalle greggi transumanti che vengono da fuori) e di una manodopera stagionale poco retribuita (che non deve vivere per forza nel villaggio) Quindi la popolazione indigena è per molti aspetti irrilevante per la necessità della popolazione immigrata. La ragione principale della loro presenza nel villaggio sono il tempo e il paesaggio, non la capacità produttiva della terra.”

Turismo e produzioni agro-alimentari

Tra i fattori che scoraggiano l’industria alberghiera a rifornirsi presso i produttori agrozootecnici locali sono stati segnalati (Telfer e Wall, 1996):

• preferenza del turista per i prodotti usualmente consumati;
• prezzi inferiori dei prodotti importati;
• desiderio degli hotels di disporre di alimenti di qualità igienica più sicura;
• desiderio degli hotels di una continuità di approvvigionamento più affidabile e difficoltà o incapacità di produttori agricoli o intermediari commerciali di garantirlo ;
• non conoscenza da parte dei managers delle strutture alberghiere dell’esistenza di produzioni locali;
• incapacità dei produttori locali di modificare le produzioni tradizionali e di aumentare il volume di produzione;
• mancanza di informazione da parte degli agricoltori circa le esigenze dell’industria alberghiera;
• inibizioni al rapporto tra albergatori e agricoltori (diffidenza reciproca, barriere interculturali);

Un elemento che inibisce fortemente lo sviluppo di una sinergia tra industria turistica e produzione agrozootecnica è legato alla stagionalità delle produzioni. Anche la zootecnia nella sua componente estensiva (quella che risulta più interessante valorizzare da questo punto di vista) è fortemente condizioanata al ciclo stagionale (attraverso il ciclo vegetativo dei pascoli naturali e semi-naturali).
Ben diverso è il caso dell’avicoltura o della suinicoltura industrializzate.
Nel caso della carne l’industria turistica per di più esprime una domanda particolare per alcuni tagli a discapito degli altri ponendo problemi per la commercializzazione delle carcasse. Pascual (1995) mette in evidenza come il turismo esprima una forte domanda, per quanto riguarda i tagli di carne suina, di prosciutti e di spalle, e di filetto per quanto riguarda la carne bovina. I produttori spagnoli avevano cercato di risolvere il problema congelando i filetti durante l’inverno, ma la disponibilità del medesimo prodotto surgelato a prezzi più bassi di origine olandese o ungherese aveva vanificato questa possibilità. Il medesimo autore osserva anche come le fluttuazioni dell’industria turistica di anno in anno comportino ulteriori difficoltà per le attività zootecniche che implicano cicli biologici lunghi.



La civiltà del “tempo libero”

Molte delle riflessioni sulla crescita della domanda di servizi e sulle forme che essa andrà assumendo nel prossimo futuro vertono sulla crescente disponibilità di “tempo libero” da parte degli individui delle società “avanzate”. Secondo una visione pessimistica la “liberazione dal lavoro” di buona parte della società, determinata dalla robotizzazione e informatizzazione, potrebbe implicare una rigida stratificazione sociale tra una minoranza attiva e una maggioranza con prevalente ruolo di consumo che, al fine di evitare tensioni sociali, dovrà essere “intrattenuta” in modo da dedicare passivamente il proprio “tempo libero” al consumo sottoponendosi ad una sorta di narcosi sociale somministrata dai “media”. A questa visione pessimistica (confortata dal carattere di molta produzione televisiva di “imbesuimento”) si può obiettare che se è vero che la produzione industrializzata di alimenti e di beni industriali (in particolare elettronici) assorbe in ragione di un aumento crescente della produttività sempre meno tempo di lavoro umano (liberando molte forze di lavoro da compiti manuali e anche dal lavoro non manuale ripetitivo) vi è un settore che può assorbire crescenti risorse umane liberate dal lavoro industriale.
E’ il settore della protezione dell’ambiente (compresi i sistemi agricoli e zootecnici estensivi e secondo tecniche di agricoltura biologica), della cultura, del turismo, settori che si muovono in una dimensione “qualitativa” che contrasta e compensa la tendenza all’uniformazione e alla quantificazione.
Questo settore è favorito dall’elasticità della domanda di questi beni e può quindi svilupparsi enormemente se la ricchezza sociale continuerà a crescere e se non interverranno nuove forme di forte sperequazione nella sua distribuzione. Nelle due ultime generazioni la ricchezza si è raddoppiata passando da una all’altra e anche se questo continuo aumento di ricchezza non è sempre percepito (in quanto nella valutazione della condizione personale pesa in modo fondamentale una componente comparativa) la maggior parte dei beni, in ragione della globalizzazione e dell’aumento della produttività fisica, sono sempre più a buon mercato. La difficoltà di cogliere l’aumento di ricchezza, a parte la gradualità del fenomeno (se si eccettua il terremoto sociale degli anni ‘60 del secolo scorso), è dovuta al fatto che sempre più beni “indispensabili” si aggiungono al nostro “paniere” e che sono cresciuti rispetto ai beni di consumo immediato e durevole quei servizi che assorbono molta mano d’opera e che teniamo in grande considerazione come “termometro” del nostro potere di acquisto (es. ristorante).
La crescita del “consumo” di cultura, di ambiente, di ruralità è legata ad una ripartizione del surplus di potere di acquisto che si genera grazie alla perdita di valore dei beni di consumo di massa “tradizionali”. Questo surplus si può dividere tra beni industriali “innovativi”, servizi legati al “tempo libero” e prodotti di consumo “qualitativi”. Le difficoltà della domanda che attualmente conosce il sistema economico sono legate alla difficoltà di stimolare il mercato con i prodotti di una innovazione tecnologica che non può essere sempre mantenuto ai ritmi sostenuti degli ultimi dieci anni.
La domanda di “tempo libero” può, però, orientarsi sia al puro “intrattenimento” che a consumi in grado di produrre socializzazione e arricchimento culturale. Se, da una parte le grosse concentrazioni di interessi che controllano le comunicazioni possiedono strumenti efficacissimi per indurre e orientare i nuovi consumi dall’altra, proprio come conseguenza della diffusione degli stili di vita (lavoro e consumo) legati alla nuove tecnologie, alla rapidità dei cambiamenti sociali, alla modificazione del tipo di relazioni sociali, si accentua la tendenza, motivata da forti bisogni psicologici, ad un impiego non consumistico del proprio tempo che lasci spazio ad esigenze di al recupero di rapporti sociali e con l’elemento naturale di tipo territorializzante (da consumatori globalizzati, onnivori e anonimi ad “abitanti di un territorio”).
Il sostenere che questi bisogni rappresentino dei “lussi” (bisogni secondari) dimostra una mancata comprensione della crisi della modernità. La loro curva di domanda pertanto tende ad essere rigida.

La divisione tra “tempo di lavoro” e “tempo libero” è un prodotto recente della società industriale (ed è forse destinata ad essere ridimensionata)

Nella società tradizionale la maggior parte delle persone erano impegnate in attività agricole, la produttività era infatti così bassa che la gran parte della produzione di alimenti era destinata all’autoconsumo e quindi solo una piccola parte della produzione poteva essere impiegata per il sostentamento della minoranza extra-agricola (artigiani, religiosi, funzionari, soldati, mercanti, aristocratici). L’autoconsumo non era limitato alle derrate alimentari ma a tutti i bisogni essenziali ai quali si doveva far fronte con le risorse e le capacità dell’ambiente rurale. Spesso gli unici acquisti sul mercato, all’esterno della comunità rurale, riguardavano arnesi in ferro e il sale (quest’ultimo bene fondamentale anche per lo sviluppo delle attività di allevamento e di trasformazione casearia); per il resto la casa, le supellettili, le stoviglie, il vestiario, il combustibile per cucinare e riscaldarsi tutto era prodotto con materie prime locali ottenute attraverso il lavoro dei campi e nei boschi e tramite l’allevamento. Nella maggiorparte dei casi la produzione avveniva nell’ambito della famiglia, in altri casi si ricorreva ad artigiani locali (anch’essi impegnati nell’attività agrosilvopastorale) con particolari abilità (così per esempio per la fabbricazione dei gerli o dei curàm, le funi di cuoio utilizzate per fissare i carichi sui carri) od all’aiuto di vicini o parenti (come per l’edificazione delle case).
Fino al XIX secolo l’abbigliamento contadino era costituito da capi in lana o lino attraverso un ciclo di produzione completo (dalla semina del lino, dalla tosatura delle pecore alla filatura e tessitura casalinga). Anche nelle cassìne della Bassa i salariati fissi oltre ad una piccola abitazione avevano diritto ad un orto e, attraverso varie forme contrattuali, potevano coltivare piccoli appezzamenti di mais (base dell’alimentazione) e di lino (utilizzato per la produzione di vestiario e biancheria). In montagna l’autoconsumo è persistito più a lungo con riguardo all’abbigliamento. Molte persone non necessariamente anziane raccontano oggi di come, da bambini, indossavano calzerotti e maglie di lana “nostrana” di cui ricordamo bene quanto erano pungenti. Nella società preindustriale solo una ristretta élite poteva permettersi l’acquisto di beni e servizi diversi da quelli forniti dall’agricoltura e dell’artigianato rurale. La produzione e il consumo di beni culturali (arti figurative, musica, spettacoli) era limitata dal numero ristretto degli esponenti dell’élite (re e principi, grandi proprietari terrieri, ricchi mercanti e banchieri) in grado di stipendiare o comunque mantenere presso di sè per lunghi periodi gli artisti e gli intellettuali. Per questi beni non esisteva un mercato.
Quanto al “tempo libero” c’è da osservare che la distinzione tra “tempo di lavoro” e “tempo libero” è una delle caratteristiche della società industriale. Nella società rurale tradizionale la distinzione tra attività produttive e di consumo non era netta ed ancora meno significato aveva la distinzione tra attività svolte a titolo professionale e non. Se per i pochi artigiani e commercianti e per i salariati agricoli della Bassa o per gli emigranti stagionali che scendevano dalle valli (muratori, decoratori, arrotini, spazzacamini, merciai ambulanti ecc.) poteva almeno in parte valere l’identificazione con una condizione professionale per la maggiorparte della popolazione rurale la condizione di vita era costantemente caratterizzata dalla fatica per procurarsi cibo, indumenti, combustibile. Questo “lavoro” coinvolgeva bambini e anziani, uomini e donne e quindi era una condizione permanente. Durante il tempo “libero” dai lavori agricoli, si sera, durante le giornate invernali le donne filavano e tessevano, gli uomini riparavano attrezzi e fabbricavano utensili per la casa, per il lavoro nei campi, per l’allevamento; alla stagione autunnale ed invernale erano dedicati i lavori selvicolturali. Nelle “veglie” invernali quando i componenti di più famiglie si radunavano nelle stalle (per sfruttare il calore prodotto dagli animali) mentre le donne filavano si raccontavano storie. Si trattava di occasioni di socializzazione e di trasmissione di conoscenze e difficilmente potremmo qualificarle come “lavoro “ o “divertimento”. Anche nella vita delle popolazioni rurali segnata da un ritmo incessante di attività necessarie a garantire la sopravvivenza vi erano delle occasioni di festa e divertimento che, però, dovevano rispondere ad esigenze di una ben precisa ritualità e rispondevano a finalità di rafforzamanto dei legami comunitari, stabilimento o ufficializzazione di legami di coppia. Anche i membri delle élites privilegiate pur disponendo di tempo da dedicare agli “ozi” finivano per dedicare gran parte di questo tempo ad obblighi rituali legati al loro ruolo sociale. Il concetto del “tempo libero” inteso come spazio di tempo di cui disporre a piacimento secondo l’inclinazione personale per dedicarsi ad attività “hobbies” che non producono utilità economica (ma che anzi richiedono l’impiego di risorse) è legato all’urbanizzazione e alla creazione della “classe media”. Oltre allo sviluppo degli “hobbies” il “tempo libero” comporta un impiego più “passivo” caratterizzato dalle attività di “intrattenimento”. Ma è sostenibile un sistema in cui il lavoro è sempre più una risorsa scarsa e preziosa e il “tempo libero” una risorsa così abbondante? Il sistema economico incorpora, oltre alla tecnologia, sempre più capitale naturale e risorse non rinnovabili nei prodotti e nei servizi per risparmiare lavoro (anche in agricoltura!), ma ciò comporta una crescita vertiginosa degli impatti ambientali e una dilapidazione di risorse.
La diminuzione del tempo di lavoro (riduzione delle ore di lavoro settimanali e della vita lavorativa) e la riduzione della fatica manuale creano la possibilità di un modello sostenibile di attività al di là del lavoro retribuito da dedicare non solo all’”intrattenimento” (imbesuimento?), ma anche all’arricchimento culturale, all’educazione permanente, a scopi di utilità sociale, ma anche a forme di autoproduzione agricola e artigianale. Le “city farm” e le forme di “agricoltura civica” rappresentano un modello dove consumo e produzione non sono più rigidamente separate.

Turismo come bisogno primario

Il turismo nasce come una forma di consumo di lusso, un “bisogno” molto sofisticato di una ristretta élite. La prima forma di turismo è “culturale” ed “educativa”. I viaggi rappresentano un fenomeno che coinvolge le élite aristocratiche a partire dal XVIII mentre nel XIX secolo. Per esse il turismo rappresentava il completamento della formazione culturale (grand tour in Italia). Con l’avvento dell’industria e il trionfo della borghesia si svilupperà una vera e propria industria turistica (ferrovie, grandi alberghi, località termali) ben lontana, però, dalle dimensioni che assumerà il turismo di massa già nella prima metà del XX secolo. Nonostante lo sviluppo dell’industria turistica e le dimensioni di massa che il fenomeno turistico ha assunto nell’ambito della società industriale il bisogno turistico rappresenta pur sempre un bisogno secondario la cui soddisfazione viene dopo quella di altri bisogni considerati più importanti. E’ vero che i soggiorni “climatici” sono considerati necessari per “disintossicarsi” dall’aria inquinata e dai ritmi stressanti delle metropoli, ma è anche vero che, nonostante le forme di turismo “sociale” (dopolavoro, colonie estive), questi bisogni restano in gran parte un lusso di chi può permettersi il loro soddisfacimento.
Nella società industriale la domanda turistica oltre che elastica aveva anche una forte connotazione stagionale. Queste caratteristiche hanno determinato una crescita del comparto turistico un pò casuale e disordinata e non è difficile rintracciare nella tendenza dell’offerta ad adattarsi all’elasticità e stagionalità della domanda, la connotazione scarsamente professionale e imprenditoriale del settore turistico.

Nella società post-industriale la domanda turistica modifica i suoi tratti. Innanzitutto considerata nel suo complesso la domanda turistica diventa meno elastica. Il bisogno di turismo corrisponde alla necessità di arricchimento e realizzazione culturale, ad esigenze psicologiche e relazionali. Ciò è legato a elevati livelli di istruzione connessi alle trasformazioni del lavoro (sempre meno caratterizzato da attività ripetitive e manuali). Il cambiamento della natura del lavoro e l’urbanizzazione hanno modificato la natura dei bisogni di svago e di riposo accentuando l’esigenza di un allontanamento dall’ambiente usuale di vita e di lavoro. Quanto all’aspetto relazionale il turismo assolve ad un deficit di socializzazione (basti pensare alla formula del “villaggio vacanze”) oltre che mantenere un forte valore di status symbol. I bisogni che spiegano l’accresciuta importanza del turismo nella società post-industriale sono molteplici ed è quindi ovvio che l’industria turistica conosca una forte differenziazione tanto che oggi più che parlare di turismo si preferisce parlare di turismi. Basti pensare come ai “classici” turismi: mare, montagna, affari, terme, città d’arte, pellegrinaggi si siano affiancati i turismi “emergenti”: congressuale, enogastronomico, rurale, esotico, d’avventura, naturalistico ecc.

Tab. Evoluzione dei bisogni e della domanda turistica
Società industriale Società post-industriale
Bisogni turistici Secondari, individuali Primari, in parte collettivi
Domanda turistica Elastica e stagionale Rigida e con stagionalità differenziata
Fonte: Cesdit, Il Turismo nella società e nell’economia italiana, Milano, 1997

L’evoluzione del reddito più che determinare l’espansione o la contrazione del turismo nel suo complesso (come nella situazione della società industriale con una domanda turistica elastica) può determinare lo spostamento della domanda da un turismo all’altro. Lo stesso consumatore tende a differenziare i propri consumi turistico-ricreativi riducendo la durata dei soggiorni ma distribuendo il consumo nell’arco dell’anno. Nel complesso il comparto turistico ha perso il carattere stagionale e ha assunto maggiore professionalità ed imprenditorialità.
Lo sviluppo della domanda turistica è influenzato anche da alcune considerazioni che riguardano lo scenario internazionale.

• L’attuale sviluppo del turismo “esotico” è legato al bassissimo costo dei beni di produzione locale e dei servizi nei paesi in via di sviluppo e quindi è destinato nel tempo a veder ridotta la sua concorrenzialità rispetto all’offerta turistica interna;
• L’allargamento ai paesi dell’Europa dell’Est dell’Unione europea e il miglioramento delle economie di questi paesi (oltre che di altri paesi extraeuropei) determinerà un aumento considerevole della domanda turistica nei paesi dell’Europa occidentale;
• Prevedibile permanenza di tensioni e conflitti internazionali e minacce terroristiche.


Festa in malga, Val di Sole


Turismo rurale


Le possibilità di integrazione tra agricoltura e turismo sono legate, oltre che alla ricerca di soluzioni che superino le conflittualità tra turismo “industriale” ed agricoltura locale anche e soprattutto allo sviluppo di forme di turismo rurale. La ridotta scala del turismo rurale, la capillarità delle strutture di ospitalità e ricreative, la loro gestione da parte di operatori agricoli o di operatori locali con legami con il mondo agricolo fa si che questa forma di turismo sia in grado di minimizzare le conflittualità con l’attività agricola e di sviluppare il massimo di adattamento, integrazione e sinergia.

Il turismo rurale (rural tourism), di cui l’agriturismo (farm tourism) rappresenta solo uno dei segmenti è uno dei comparti turistici in rapida crescita in tutto i paesi. Le ragioni di questa crescita sono da ricercare nella crisi (ecologica e sociale) dei modelli di vita metropolitani, nell’emergenza di nuovi bisogni, nell’ambito dei fenomeni culturali di reazione alla globalizzazione. Vale la pena richiamare alcuni aspetti sociologici che spiegano i caratteri di questa “domanda” al fine di comprendere meglio come debba svilupparsi l’offerta di prodotti turistici mirati e come l’agricoltura possa beneficiare di queste tendenze.

Emarginata sul piano economico la sfera rurale si è presa e si sta prendendo non poche rivincite sul piano ideologico. Negli anni ’70 le “mode” rurali erano viste come una conseguenza di una travagliata transizione alla società industriale, una forma di “nostalgia” per rendere meno duro l’impatto con l’urbanizzazione, in Italia è risultato più brusco e lacerante. Negli anni ’90 il boom dell’agriturismo, del turismo rurale, dei prodotti agroalimentari del territorio, degli stili rurali (architettura, alimentazione) appare tutt’altro che effimero ed interessa generazioni per le quali la “nostalgia” non può essere sicuramente chiamata in causa non avendo avuto esperienza personale diretta (e spesso neppure indiretta) della vita rurale. L’interesse per la dimensione rurale segue anche il boom (anni ’80) di un ambientalismo molto astratto, slegato dalle dimensioni sociali e culturali, dalla realtà dei territori. Questo ambientalismo (di cui la “parchizzazione” –vedi altre- ha rappresentato una delle manifestazioni) rifletteva la reazione dell’ambiente urbano agli esiti di una radicale antropizzazione degli ambienti metropolitani nel senso di un preteso recupero di “naturalità”. L’esperienza più matura degli anni ’90 ha messo in evidenza come l’Europa sia ben diversa dalla foresta pluviale dal momento che buona parte degli ecosistemi recano un’impronta antropica di lunga data rendendo difficile distinguere il “naturale” dal “non naturale”. L’importanza nella vegetazione spontanea europea di piante introdotte dall’uomo o introdottesi da altri ambienti a seguito delle modificazioni dell’ambiente operate dall’uomo sin da tempi preneolitici dovrebbe rappresentare un argomento molto convincente a proposito.
La considerazione che buona parte della biodiversità europea è legata all’esistenza di agroecosistemi tradizionali ha certamente riorientato in senso agri-ruralista molto del generico sentimento ambientalista diffusosi in precedenza. La ricomposizione del conflitto parchi-agricoltura e la consapevolezza che l’agricoltura sostenibile gioca un ruolo cruciale nella “riparazione” di ecosistemi compromessi sin all’interno delle “aree protette” ha favorito la convergenza di una larga parte del “turismo naturalistico” nell’alveo del “turismo rurale”. Nell’ambito di una attività agricola non intesa riduttivamente come produzione di materie prime agroalimentari, ma come complesso scambio e coproduzione tra uomo e natura ci sono le chiavi di uno sviluppo territoriale che salvaguardi l’”ambiente” producendo anche occasioni di lavoro, reddito, ricreazione, educazione, esperienze umane. Ciò spiega in parte il successo di un “turismo rurale” che pur comprendendo l’aspetto naturalistico offre certo più stimoli (e certamente si rivolge ad un segmento più vasto di potenziali consumatori) rispetto ad un turismo naturalistico di tipo “contemplativo”.
Certamente ci sono anche altri motivi oltre ad un generale desiderio di contatto con la natura e comunque a forme di turismo più sostenibili che spiegano la crescente domanda di prodotti turistici legati a comparti “emergenti”. Alcuni sono rintracciabili allo stile di vita metropolitano. Oggi il consumatore urbano tende a vivere e consumare nello stesso modo in tutte le parti del mondo dove vi sia un elevato livello di reddito; di conseguenza si vive la condizione di un crescente anonimato e si avverte il condizionamento crescente sui modelli di consumo ma più in generale sullo stile di vita da parte delle grandi società transnazionali. Il desiderio ovvio di sottrarsi a questo anonimato e controllo spinge a recuperare i legami con il territorio e la sua cultura a cominciare dal recupero delle culture rurali e dalle abitudini di consumo.
Il turismo della società industriale era motivato dall’esigenza di “ritemprarsi” delle fatiche del lavoro fisico e del intellettuale lavoro ripetitivo, dalla ricerca di aria “salubre” (considerata la qualità dell’aria urbana), dalla ricerca di divertimento “puro”. Oggi queste motivazioni non sono esaurite ma vi sono anche altre motivazioni alla base dei vari turismi “emergenti”: enogastronomico, culturale, rurale, naturalistico, d’avventura. Il comune denominatore di queste forme di turismo è un approccio attivo, il desiderio di fare esperienze in prima persona, di scoprire, di capire. C’è senz’altro una forte esigenza di arricchimento culturale e di socializzazione (il mondo cambia in fretta, i meccanismi sociali si fanno più complicati, la tecnologia si interpone tra le relazioni umane, si sono sciolti i legami famigliari, di vicinato, delle comunità professionali e territoriali), ma c’è anche un aspetto di ricerca di prestigio sociale in questo “attivismo turistico”. Se in passato era prestigioso poter permettersi di trascorrere lunge “ferie ristoratrici” oggi è, invece, prestigioso dimostrare di poter affrontare più volte all’anno viaggi più o meno avventurosi, di partecipare a quanti più possibile eventi culturali in città distanti ecc. Il senso è che a livello di massa il tipo di lavoro e il benessere raggiunto consentono di andare alla ricerca di esperienze stimolanti e non più di tranquilli periodi di relax.

Il turismo rurale corrisponde a molti dei requisiti del turismo come bisogno “primario”, bisogni che vanno al di là del puro “divertimento” e “relax”. Questi bisogni possono essere così riassunti:

• bisogno di identificazione (riscoprire la cultura del proprio territorio mediante una più generale conoscenza e consapevolezza della diversità culturale e del suo valore –quindi attraverso la conoscenza di più culture);
• bisogno di esperienze autentiche, di non essere spettatori passivi, di non essere totalmente dipendenti (contatti umani, comprensione di meccanismi naturali e sociali, acquisizione di manualità e saperi pratici “perduti”).

Stabilire un confine tra attività turistiche, educative, culturali, didattiche, ricreative diventa difficile nel caso del turismo rurale che è spesso tutte queste cose insieme e quindi svolge un ruolo sociale estremamente importante in una società urbanizzata impoverita di molti aspetti che nella società rurale contribuivano alla formazione della personalità e all’acquisizione di conoscenze.
La perdita di conoscenze sul mondo naturale, sulle tecniche di preparazione degli alimenti, delle lavorazioni artigianali, il mancato contatto con gli animali rappresentano elementi di deprivazione psicologica e pratica cui il turismo rurale può fornire qualche compenso utili anche a sviluppare il desiderio di mettere in discussione i modelli di vita e di consumo urbani e a praticare stili di vita nuovi.

Se queste sono le valenze del turismo rurale cosa rappresenta in concreto e come si distingue da altre forme di turismo?

Abbiamo già visto come il “turismo industriale” si caratterizza per la presenza di grandi strutture ed infrastrutture. Quindi la scala è importante. Non è possibile definire “turismo rurale” quello che prevede l’accoglienza in grandi alberghi (quindi i grandi complessi alberghieri creati dal nulla nell’ambito di un Parco non trappresentano “turismo rurale”!). La presenza di aree rurali con una loro precisa identità (paesaggio, stile di vita, forme culturali) rappresenta un requisito indispensabile. All’interno di queste aree il turismo rurale è quello che implica strutture di accoglienza semplici e di ridotte dimensioni: camere o appartamenti da affittare, campeggi senza lussi, ostelli, rifugi. Gli “agriturismi” a differenza di altre forme di turismo rurale implicano l’organizzazione dei servizi di accoglienza da parte di aziende agricole registrate in un apposito albo (in Italia registro delle imprese agricole presso la Camera di Commercio Industria Agricoltura e Artigianato della provincia). Il turismo rurale è definito anche dal tipo di attività ricreative e di strutture turistiche:

• ecomusei, musei agricoli, musei all’aria aperta;
• visite guidate alla scoperta del paesaggio e del territorio;
• escursioni a cavallo o con asini e muli;
• noleggio di cavalli, barche, carri (no mezzi a motore!);
• punti vendita e degustazione di prodotti del territorio;
• fattorie didattiche;
• enoteche, caseifici storici e altre strutture di trasformazione con attività dimostrative e didattiche;
• attività didattiche sul tema della lavorazione di materie prime agricole o forestali (alimentari, tessili, legno) presso aziende private o strutture territoriali;
• eventi promozionali sul tema dei prodotti del territorio;
• eventi tradizionali legati ai sistemi agricoli, alle razze del territorio ecc.



Caratteristiche positive del turismo rurale

• Valorizza gli ambiti territoriali più sfavoriti
• Attira un turista selezionato
• Favorisce l’integrazione tra attività agricole e artigianali
• Non richiede grosse infrastrutture ma favorisce restauro e riuso
• Mobilita e aggrega le forze locali

Nell’ambito delle attività di allevamento estensive e delle attività pastorali il turismo rurale valorizza:

• le razze animali originarie del territorio
• la viabilità pastorale (sentieri, mulattiere, tratturi)
• l’architettura (baite, baitelli, ricoveri per animali e pastori, fontane)
• le produzioni tradizionali (latte, carne, lana) conferendo un valore a produzioni escluse da circuiti commerciali di massa

Ruolo delle attività zootecniche e pastorali nell’ambito del rurismo rurale

Nell’ambito del turismo rurale gli animali rivestono un ruolo centrale. Nell’ambito di zoo-fattorie, fattorie didattiche, ecomusei, musei all’aperto gli animali esercitano un ruolo molto importante in quanto elemento di interesse immediato (nell’esperienza di conoscenza degli animali a differenza di quelle che riguardano i vegetali c’è un aspetto emotivo legato alla dimensione etologica –nei due sensi- del rapporto interspecifico).
Il successo di manifestazioni legate alla transumanza (o al trasferimento da e per l’alpeggio) è sintomatico delle potenzialità del turismo arurale animale. Garnier et al, 1995, notavano il successo e la moltiplicazione in Francia delle feste della transumanza, oggi possiamo constatarlo anche in Italia (Corti, 1993).

Tab. Animale “materia prima” turistica
Elementi Effetti
• Paesaggio “vivo” (effetto scenico)
• Feste e manifestazioni con animali
• Prodotti tipici
• Parchi tematici, ecomusei, aziende didattiche agrituristiche e agrididattiche sul tema di razze o particolari sistemi di allevamento • Promozione dell’immagine del territorio
• Ampliamento delle iniziative e dell’offerta turistica


Feste e manifestazioni con animali

• La transumanza
a) eventi in coincidenza del passaggio (muscicali, culturali in genere)
b) organizzazione di trekking (al seguito di mandrie/greggi)
• La monticazione/demonticazione
• La lotta delle “regine” (regiùre)
• Fiere storiche (rievocazione)
• Festa dell’alpeggio

Attività dimostrative con animali (in azienda, in alpe, in piazza)

• Mungitura (a/p)
• Lavorazione del latte (a/p)
• Tosatura (a)
• Prove di lavoro con cani pastore (a)
• Trasferimenti del bestiame (a)
• Nutrire gli animali (p)
• Caseificazione (a/p)
a = assistere; p = provare


Nell’estate 2003 saranno centinaia le manifestazioni turistiche (sopratutto in Trentino, ma in misura crescente anche in Lombardia, Veneto, Piemonte) che si svolgeranno presso le alpi pascolive utilizzate per il pascolo estivo del bestiame. Se si pensa che questa forma di “turismo rurale” è nata nel 1999 si ha un idea delle potenzialità di questo aspetto della multifunzionalità della zootecnia di montagna. Quanto alla sinergia turistica basta constatare come gli stessi esercizi alberghieri propongano pacchetti e week-end tematici in occasione delle più importanti manifestazioni (“Feste della transumanza”, “Feste dell’alpeggio”). In larga misura la chiusura del “circuito” (ossia la ricaduta a favore degli operatori zootecnici e pastorali) di queste iniziative è lasciata agli enti pubblici. In questo modo la filiera zootecnico-turistica è “lunga” e la ripartizione dei vantaggi poco efficiente dal momento che le attività di sostegno alla zootecnia di montagna, giustificate a livello locale dal suo ruolo ambientale, paesistico e direttamente turistico, interessano le aziende in modo ancora scarsamente correlato con la produzione di esternalità positive e “beni pubblici”. Non mancano, però, esempi di “filliere corte”. In Baviera in una località alpina gli albergatori si sono autotassati per garantire un contributo privato agli allevatori come remunerazione del mantenimento dell’attrattiva complessiva della località in buona misura legata al verde dei pascoli e alla presenza del bestiame. Nelle Alpi meridionali il Trentino e il Veneto vedono in attività in ciascuna realtà decine di agriturismi “di malga”. Ciò anche a particolari previsioni specifiche a favore dell’agriturismo in malga contenute nelle norme in vigore.


La Malga Bragolina: un caso esemplare

Nella Fig. viene riportato uno schema che illustra l’organizzazione dell’Agritur Malga Bragolina in comune di Trento. Questa struttura agrituristica rappresenta un esempio interessante di come le esigenze dell’attività di alpeggio e quelle dell’agriturismo possono essere soddisfatte con reciproco vantaggio.In questa malga si ritrovano diversi elementi che ne determinano l’attrattività dal punto di vista turistico:

• presenza di animali di una razza autoctona dell’arco alpino (Rendena)
• caseificazione sul posto e offerta di diversi tipi di formaggio (compresi i freschi)
• visibilità degli animali
• valorizzazione del contesto paesistico mediante la realizzazione di una terrazza-ristorante panoramica (ombreggiata da piante secolari: aceri di monte, tigli, faggi)
• valorizzazione ludico-pedagogica dell’ambiente e degli animali

E’ interessante osservare come la collocazione della vasca di abbeverata del bestiame e la realizzazione del percorso che dal pascolo conduce le bovine in sala di mungitura consentano ai frequentatori l’agevole osservazione degli animali che per diverse ore sostano presso la struttura agrituristica (la vasca di abbeverata e l’area di riposo sono collocate in prossimità del ristorante e dell’area destinata ai giochi dei bambini) e transitano sotto il muro di contenimento della terrazza ristorante. I giochi per i bambini sono realizzati interamente in legno locale e richiamano il tema degli animali (oltre a un grosso serpente ottenuto da un’enorme radice vi sono un cavallo e una vacca che possono essere cavalcati). Grazie alle interessanti caratteristiche della malga (raggiungibile in 15 minuti d’auto dalla città di Trento) presso di essa si svolgono durante la stagione estiva diversi eventi di carattere culturale e gastronomico () .


E’ possibile anche constatare come l’immagine dell’animale domestico (e qui la presenza di razze legate al territorio, gioca un ruolo determinante) venga anche ampiamente utilizzata nell’ambito della comunicazione turistica (deopliant, siti internet, poster). L’utilizzo di immagini di attività pastorale e di animali allevati in modo estensivo rappresenta sicuramente un modo per veicolare l’idea di un ambiente ben tenuto, con attività agricole tradizionali.

Alcune indicazioni circa l’interesse per l’animale domestico da parte del turista sono espresse dai seguenti risultati di indagini conoscitive


Tab. Immagine dell’Austria
Mucche 20,1
Vienna 15,3
Paesaggio, natura 15,3
Montagne 14,9
Ordine e pulizia 11,2
Costumi e tradizioni 10,5
Sci 5,7
Laghi, valli 8,4
Ist. “G.Penati” Univ. Di Verona (1991)

Tab. Cosa pensa della presenza degli animali al pascolo? (% intervistati)
Val Vigezzo Tremezzina Asiago
Mi sono indifferenti 0 0,0 2,5
Mi interessano, fanno parte del paesaggio 20 20,0
Creano un’atmosfera serena 33 24,5
Mi piace osservare il loro comportamento 18 14,6 43,5
Aiutano a conservare l’ambiente 22 9,0
Mi danno fastidio 1 0,0 0,5
Farli conoscere ai bambini 6 10,1 N
Avvicinarli e accarezzarli N 9,9 N
Corti, Clericò, Pangrazio, Lamberti, Pirola, dati non pubblicati

Tab. Cosa pensa della presenza delle capre negli alpeggi
Non mi interessano 32,0
Sono simpatiche 36,0
Comportamento interessante 14,0
Facilità di contatto 10,0
Mi interessano i prodotti 8,0
Corti e Curtoni (2000)


Strutture e attività che implicano un ruolo didattico, ricreativo e sportivo degli animali domestici

Musei all’aria aperta/Agricoltura storica

All’interno di queste aziende agricole (auspicabilmente sempre meno “musei” e sempre più centri di iniziative didattiche, culturali e scientifiche propositive) gli animali rivestono un ruolo enorme in quanto possono rappresentare il centro di raccolte di razze autoctone del territorio dove all’attività di conservazione si associa quella didattica. In queste aziende gli animali possono fornire anche la forza di trazione (dimostrazioni di trasporti e lavorazioni con bovini o equini).

Ecomusei

Sono caratterizzati da una tematicità. Possono essere focalizzati su una razza o un prodotto. Anche in questo caso il ruolo mussale più tradizionale può essere integrato con ruoli didattici e direttamente produttivi. Nella Valle del Bitto di Gerola è in fase di realizzazione un progetto dove alla casera di stagionatura del Bitto “Valli del Bitto” si affiancherà un museo del Bitto e della capra di Valgerola (Orobica) nonché un centro turistico per i visitatori. In un ecomuseo la sede fisica può essere limitata ad un Centro di “interpretazione” mentre del museo possono fare parte aziende agricole, pascoli, strutture di trasformazione, fabbricati rurali sparsi e lo stesso “paesaggio”. In un museo all’aria aperta o in un ecomuseo si organizzano dimostrazioni con animali dal vivo (mungitura, tosatura) e degustazioni guidate dei prodotti nonché laboratori didattici. L’ecomuseo comprende materiale didattico: audiovisivi, guide, tabelle informative, percorsi tematici che si snodano sul territorio, eventi periodici: mostre, feste, rappresentazioni. In Piemonte è in corso di realizzazione l’ecomuseo della pastorizia in Val Stura (tema la pecora Sambucana).
A differenza degli eventi che vedono protagonisti gli animali zootecnici specie nel contesto di azioni e di dimostrazioni che hanno per scenario le vie e le piazze di città e paesi (con forte contenuto di spettacolarizzazione), i percorsi ecomuseali ed ecoturistici rappresentano iniziative di prevalente valenza educativa e didattica.

“Zoo-fattorie”

Prendono questa denominazione quelle iniziative che sulla scorta di esperienze nordeuropee e specialmente inglesi presentano il rischio di banalizzazione e riduzione a “parco divertimenti tematico” in contrasto con criteri di una educazione ambientale e alla ruralità che preveda standard di coerenza culturale ed ecologica.


Turismo equeste

Attività sportiva che fa capo all’ANTE (associazione nazionale turismo equeste). Le aziende agrituristiche, ma anche altre aziende zootecniche, possono avere un ruolo in percorsi come punti tappa in grado di fornire assistenza (alimentazione, ricovero, cure).

Trekking con asini e muli

Il trekking someggiato rappresenta una proposta di ecoturismo che può integrarsi molto bene con attività agricole tradizionali. Asini e muli sono tutt’oggi utilizzati (per esempio per trasportare il formaggio prodotto sulel alpi pascolive a valle e per rifornire le alpi stesse con materiali). L’utilizzo multifunzionale dei quadrupedi someggiati per trekking e il servizio agli alpeggi (oltre che per la produzione di carne e la gestione conservativa di superfici a copertura erbacea) rappresenta un esempio stimolante di multifunzionalità. Oltre al trasporto di tende e altri materiali i quadrupedi (asini e muli) possono prestarsi come supporti per attività sportive quali canoa e deltaplano potendo percorrere gli accidentati sentieri che raggiungono le cime o costeggiano i corsi d’acqua di montagna. In Piemonte è attiva l’Associazione valorizzazione asino e mulo.


Il ruolo educativo, pedagogico, terapeutico degli animali agricoli

Al di là di un una finalità turistica, ricreativa, sportiva e genericamente didattica il rapporto con gli animali che si può realizzare nell’ambito di inziative sviluppate da aziende zootecniche con specifico indirizzo assume anche valenze propriamente educative pedagogiche e sinanche terapeutiche.

Nei confronti dei bambini il rapporto/contatto con gli animali domestici assume alcuni ruoli ben precisi:



• stimolo emozionale
• meccanismo ludico
• valenza educativa (approccio ai cicli biologici, responsabilizzazione e self control)
• facilitazione sociale

L’importanza di attività educative in ambito scolastico e agricolo sul tema degli animali è legata agli sviluppi, per alcuni aspetti rapidissimi dell’attuale civiltà tecnologica che vede i bambini immersi fin dall’infanzia in una serie di relazioni in cui il referente è costituito da strumenti tecnologici, fatto che rischia di tradursi in una virtualizzazione della realtà e in rapporto distorto con la vita reale.
Per sopperire in parte alla deprivazione di un indispensabile rapporto con la realtà organica si moltiplica il consumo di una natura “in pillole” fatta di audiovisivi. Nel migliore dei casi nel tentativo di recuperare una fisicità della dimensione naturale e specificamente animale, il pet sostituisce molto spesso entro le mura domestiche l’animale di peluche. Sicuramente positivo dal punto di vista del contatto con la realtà organica (anche con i suoi aspetti meno piacevoli) nonché per la responsabilizzazone del bambino che deve imparare a prendersi cura di un soggetto in larga misura dipendente, per la possibilità di manipolazione, relazione, affettività, espressività ludico-emotiva acc., il pet in quanto surrogato di un contatto con la natura e della possibilità di conoscenza e scoperta del mondo animale può diventare un fattore che limita e distorce il rapporto con il mondo animale.
Un tempo le occasioni per le esperienze del mondo animale erano molto più frequenti, nella cascina, ma anche solo nel giardino, nel campo di periferia, durante le visite ai parenti in campagna. Oggi anche durante le vacanze il bambino ha scarsa possibilità di scoperte e osservazioni autonome in località ormai spesso fortemente urbanizzate dove è più o meno costante la sorveglianza da parte dei genitori
L’animale domestico diventa oltretutto il surrogato di carenze relazionali affettive (genitori impegnati nel lavoro o separati e quindi, assenza di altri parenti nella famiglia mononucelare, scarsa possibilità di frequentazione di coetanei al di fuori della scuola ....) che arriva ad assegnare al pet il ruolo (oneroso) di guardiano-baby sitter-tutore.
Tutto ciò non può mancare di riversare sull’animale di casa una serie di aspettative che rischiano di restare deluse. Il rapporto con l’animale è condizionato negativamente anche dalla mancanza di dimestichezza con gli animali (risultato delle deruralizzazione) rende difficile cogliere le esigenze dell’animale domestico, capire manifestazioni etologiche e manifestazioni fisiologiche, percepite come anormali e fastidiose. Il risultato di tutto ciò è l’antropormorfizzazione dell’animale, la difficoltà di comunicazione, dall’eccesso di attenzione al disinteresse, la riduzione ad un giocattolo che quando non diverte più o disturba troppo o crea problemi di convivenza con i condòmini o i vicini diventa un “problema” (di qui abbandono, richieste di soppressione, cessione).
Non solo l’animale ma anche il bambino e i proprietari soffrono frustrazioni da quest’insieme di relazioni zooantropologiche reso problematico dalla perdita di una consuetudine con il mondo maturale e animale e con il tentativo di surrogarlo assegnando all’animale pet un ruolo unilaterale e precostituito, anch’egli insomma, un animale macchina che in analogia con la vacca-fabbrica del latte diventa una specie di macchinetta che deve espressioni di affettività, attività ludiche intense a comando, ricettore di moin, soprammobile, arma di difesa, status symbol.
La zoofilia rivolta solo verso gli animali d’ “affezione” unita ad un comportamento indiffrente verso gli animali da “utilità” è indice di una relazione zooantropologica distorta molto diffusa che preclude una corretta relazione con il mondo animale (e quindi priva le persone degli stimoli positivi che da essa possono ricevere). Favorire il contatto con gli animali, la conoscenza delle loro caratteristiche, esigenze appare molto utile sia come complemento dei percorsi formativi di bambini ed adolescenti sia come elemento di educazione per gli aduslti.
La fortissima attrazione “magnetica” dei bambini per gli animali (anche se solo nelle rappresentazioni di un libro) può essere incanalata verso attività pedagogiche con oggetto gli animali agricoli nella prospettiva di formare cittadini e consumatori più consapevoli del ruolo degli animali nell’ambito dei sistemi economici ed ecologici, di stimolare la crescita personale e le facoltà psicointellettive, ma anche arricchire e rendere più equilibrato il rapporto con gli stessi pet.

Esempi di attività da organizzare con bambini

• laboratorio di caseificazione
• mungere le capre
• dar da mangiare/allattare

Attività assistite dagli animali (AAA)

Si tratta di tutte quelle attività in cui gli animali hanno una funzione non direttamente terapeutica ma di sostegno psicologico (soggetti con difficoltà di socializzazione, trattamenti da tossicodipendenze). Con l’animale (accudito o anche solo frequentato assiduamente) si ristabilisce un rapporto di fiducia con un soggetto altro, si instaura un meccanismo di responsabilizzazione e di recupero di interesse per il mondo esterno, si stabilisce una facilitazione di relazioni interpersonali.

Terapie assistite dagli animali (AAT)

Consistono nell’utilizzo degli animali nel contesto di strutture specializzate (ma anche in aziende agricole previo controllo medico) per attività di sostegno di bambini e adolescenti con problemi (coordinamento motorio, equilibrio, difficoltà psichiche). Sono note l’ ippoterapia e l’onoterapia -da onos asino in greco). Sono proposte anche attività che coinvolgono anche altri animali (per esempio il contatto degli anziani con gli animali agricoli può contribuire a curare forme depressive rappresentando uno stimolo emozionale per coloro che in gioventù avevano avuto esperienza con essi).


Agriturismo (aspetti normativi non aggiornati all’ultimo reg. regionale!!)

L’integrazione tra l’attività zootecnica e quella turistica può realizzarsi secondo diverse modalità; la forma più diretta, che consente agli allevatori di “chiudere” la filiera zootecnico-ambientale direttamente in azienda, è rappresentata dall’erogazione di servizi turistici: ristorazione, alloggio, ma anche organizzazione di attività culturali, sportive e ricreative. La possibilità da parte dell’azienda agricola di fornire questi servizi è prevista dalla normativa sull’agriturismo (Legge , Legge Regionale, Regolamento). Gli obiettivi sociale ed ambientali che si è prefissi la legislazione agrituristica statale e regionale e la sucessiva politica di promozione della diffusione delle attività agrituristiche possono essere individuati nei seguenti:

• integrazione del reddito agricolo
• valorizzazione e recupero delle tradizioni del mondo rurale
• recupero del patrimonio di edilizia rurale
• freno all’esodo agricolo e allo spopolamento delle aree rurali marginali
• occasione per la coesione della famiglia rurale
• sensibilizzazione dei turisti/cittadini ai problemi del mondo rurale e dell’ambiente
• forma di turismo con impatto positivo sull’ambiente

L’azienda agricola e i titolari dell’attività agrituristica (non necessariamente lo stesso dell’azienda agricola) per esercitare l’attività agrituristica devono essere in possesso di determinati requisiti e di apposite certificazioni e autorizzazioni rilasciate dagli uffici competenti (Ufficio provinciale agricoltura, A.S.L., Sindaco del Comune). L’attuale normativa è basata sul principio della complementarietà dell’attività turistica rispetto alle tradizionali attività agricole produttive. La finalità principale dell’agriturismo è infatti quella di favorire la multifunzionalità delle aziende agricole e di garantire fonti di reddito integrative indispensabili in modo particolare nelle aree svantaggiate dove non è possibile praticare forme industrializzate di zootecnia e di coltivazione, non quello di creare dei ristoranti e alberghi “di campagna” o di normare i “bed & breakfast” rurali. L’esercizio di queste forme di turismo “rurale” o “verde” è sinora normato solo da alcune Regioni ma nè la legislazione statale nè quella lombarda se ne sono ancora occupate. Il riconoscimento di questo settore e una chiara distinzione tra “agriturismo” e “turismo rurale” sono comunque auspicabili per più di un motivo. Il riconoscimento del “turismo rurale” è coerente con una strategia di “Sviluppo rurale integrato” che ha per oggetto il territorio e non la singola azienda agricola “professionale”. Se l’estensione di alcuni benefici fiscali e normativi a soggetti diversi dagli imprenditori agricoli non è giustificata nelle aree agricole e turistiche “forti” essa è più che ragionevole nei territori “deboli” di collina e di montagna afflitti dallo spopolamento, penalizzati da una difficile accessibilià e da svantaggi naturali e sociali. Dal punto di vista politico risulta difficile l’inclusione o l’esclusione di determinati territori entro le previsioni di una normativa sul “turismo rurale”. Criteri come quello dell’assenza di esercizi turistici commerciali nel comune o nella località, del numero di abitanti (già la Legge 97 sulla montagna riconosce ai centri con meno di 500 abitanti sgravi fiscali per gli esercizi commerciali e la possibilità di deroga rispetto alla normativa sui trasporti di persone), della distanza da centri di servizi appaiono però sufficientemente oggettivi per evitare facili speculazioni.
Nei territori “deboli” la possibilità di offrire semplici servizi turistici anche da parte di soggetti diversi dagli imprenditori agricoli a titolo principale darebbe la possibilità ad operatori “rurali” (part-time, proprietari di terreni) comunque impegnati in attività agricole e zootecniche utili ai fini della manutenzione del territorio di integrare i proventi dell’attività agrozootecnica ricavandone delle motivazioni (economiche ma non solo) per l’uscita da una condizione “sommersa” e di autoconsumo e stimolando una ripresa e una continuità delle attività tradizionali. Quanto detto in un precedente capitolo rispetto alla rottura del legame con il territorio delle aziende zootecniche “professionali” dovrebbe indurre ad una rivalutazione ed ad un riconoscimento maggiore degli operatori rurali “non professionali” che, spesso, contribuisconono di più delle aziende specializzate con allevamenti intensivi (identiche a quelle di pianura in quanto a tecniche produttive e management) alla manutenzione del territorio e del paesaggio, al mantenimento dela biodiversità, della cultura e delle tradizioni. Introdurre limitatamente a determinati ambiti territoriali il “turismo verde” a fianco dell’ “agriturismo” avrebbe il vantaggio di estendere l’offerta di servizi turistici in aree da valorizzare dal punto di vista di un turismo sostenibile con una ricaduta positiva sui limitati circuiti dell’economia locale (spesso ridotti alla riscossione delle pensioni, al pendolarismo, al frontalierato) rivitalizzando l’ambiente sociale e culturale e quindi anche le stesse attività agricole e zootecniche; ciò, inoltre, eviterebbe quelle distorsioni attualmente presenti che spingono alcuni soggetti interessati a svolgere attività turistiche in ambito rurale ad “inventarsi” letteralmente delle attività agricole dal nulla con effetto negativo sull’immagine che l’agriturismo gode presso i consumatori e presso gli operatori agricoli “tradizionali”.


In ogni caso attualmente, almeno in Lombardia, l’offerta di servizi agrituristici debba essere inquadata in una precisa cornice giuridica che presuppone l’esistenza di un’azienda agricola e il carattere di connessione e complementarietà dell’attività turistica. Al di fuori della comprovata connessione e complementarietà con l’attività agricola tradizionale l’esercizio dell’agriturismo non è ammesso. La connessione è garantita dall’utilizzo anche attraverso opportuna ristrutturazione edilizia dei fabbricati già destinati all’attività agricola (non è ammessa l’edificazione di fabbricati nuovi da destinare all’attività agrituristica), dall’impiego nell’attività di ristorazione di una quota significativa di prodotti aziendali (in Lombardia il prodotto di origine aziendale utilizzato per la ristorazione agrituristica deve essere pari ad almeno il 40% del valore mentre lo stesso prodotto aziendale unitamente ai prodotti delle aziende agricole locali deve raggiungere almeno il 70% del valore totale dei prodotti alimentari e delle bevande somministrate). Qualora l’azienda non somministri alimenti o bevande le attività praticate in azienda devono comunque garantire la connessione con l’attività agricola. Ciò si realizza per esempio con l’attività ippica legata all’allevamento e alla produzione di foraggi, con l’attività pescatoria o venatoria legate all’acquacultura o alla produzione di selvaggina. Il carattere “integrativo” e non preponderante dell’attività turistica rispetto a quella agricola tradizionale dovrebbe essere assicurato dall’attestata “complementarietà” dell’attività turistica. Le attività turistiche autorizzate in azienda non possono assorbire in termini di ore di lavoro un tempo superiore a quello dedicato alle attività di allevamento e coltvazione. Al fine del computo dei tempi di lavoro richiesti dalle attività turistiche e agricole l’Ufficio provinciale dell’agricoltura utilizza una tabella allegata al vigente Regolamento che si riporta di seguito:

Tabella. Tempi di lavoro (giornate/anno) considerati ai fini della valutazione della complementarietà dell’attività agrituristica

Pianura Collina Montagna
ATTIVITA’ TURISTICHE
ospitalità rurale-posto letto/anno 4 4 4
ristorazione agrituristica per posti/anno 12 12 12
attività equestre per capo/anno 12 12 12
pesca sportiva per anno 300 300 300
agricampeggio per piazzola/anno 4 4 4
attività culturale-ricreativa ed educativa per persona 0,3 0,3 0,3

ATTIVITA’ ZOOTECNICHE
Bovini
10 capi in stalla tradizionale con mungitura meccanica 95 95 95
idem con mungitura manuale 300 300 300
10 capi in stalla a stabulazione libera e mungitura meccanica 85 85 85
10 capi ingrasso 18 18 18
Ovi-caprini
10 capi stabulazione fissa e mungitura meccanica 12 15 15
c.s. con 80 gg di pascolo 16 18 18
10 capi ingrasso 9 9 9
Avicoli
10 capi a conduzione famigliare 3 4 4
Equini
10 capi in strutture fisse 50 50 50

COLTIVAZIONI FORAGGERE tempi richiesti
prato stabile 12 25 25
medicaio 20 22 25
trifoglio pratense 12 16 20
marcite 16
prato-pascolo 5 7

E’ interessante osservare come la minore produttività delle aziende di montagna e delle piccole aziende non in grado di applicare la meccanizzazione (vedi le operazioni di mungitura) sono state tenute giustamente in conto. Per esempio un piccolo allevatore con 10 vacche in lattazione può gestire un servizio di risporazione con 25 coperti mentre per essere autorizzato ad un pari numero di posti l’allevatore che munge a macchiano e mantiene le proprie vacche in stabulazione libera dovrebbe avere una stalla per 35 capi in lattazione. E’interessante anche osservare come nel caso degli allevamenti ovi-caprini la localizzazione dell’allevamento in collina o in montagna e l’utilizzo del pascolo per più di 80 giorni conduca ad un aumento delle giornate lavorative per il govermo e la mungiutura (meccanica) di 10 capi da 12 giornate (pianura senza pascolo) a 18 (collina e montagna con pascolo).
Questi esempi sono molto calzanti per illustrare come l’applicazione sensata delle normative può concretamente tenere conto delle particolarità dei territori svantaggiati e dei sistemi zootecnici meno intensivi per controbilanciare in termini di redditi integrativi la loro minore produttività.
L’esercizio dell’attività agrituristica oltre ai requisiti basilari di connessione e complementarietà e soggetto ad alcuni vincoli. La legge quadro prevede un limite relativo al numero di camere e di posti letto (massimo 15 camere e 30 posti letto). La Regione Lombardia mediante il Regolamento attuativo della L.R. ha introdotto le seguenti limitazioni:

• utilizzo di fabbricati già esistenti nel 1994;
• massimo 80 coperti in sala;
• massimo 10 posti letto se le camere sono ricavate all’interno dell’abitazione dell’agricoltore (agriturismo in famiglia);
• massimo 20 coperti se il locale per la somministrazione dei pasti è all’interno dell’abitazione dell’agricoltore e viene utilizzata per la preparazione dei pasti la medesima cucina utilizzata dalla famiglia agricola;
• non sono ammessi impianti sportivi utilizzati al di fuori del contesto dell’attività agrituristica (per esempio piscine di dimensioni superiori rispetto all’utilizzo da parte degli ospiti);
• non sono ammesse attività sportive di carattere agonistico, finalizzate al rilascio di brevetti o che prevedano l’impiego di mezzi a motore.





L’affermazione da alcuni anni di un consistenze settore agrituristico (10.000 aziende in Italia di cui 500 in Lombardia, 3 milioni di presenze turistiche nelle strutture agrituristiche) consente di poter individuare i vantaggi e gli svantaggi della scelta dell’integrazione delle attività turistiche nell’ambito dell’azienda agricola. Consideriamo i vantaggi:

• realizzazione reddito supplementare (specie tramite attività di ristorazione);
• impiego in azienda a tempo pieno o part-time di membri della famiglia (specie donne);
• riutilizzo locali/edifici;
• valorizzazione piccole produzioni di qualità alimentari e non alimentari;
• compensazione svantaggi ridotta dimensione e indirizzo non specializzato;
• sollecitazioni socio-culturali esterne, maggior flusso informativo, migliore capacità di gestione dei rapporti con l’esterno;
• aumento rapporti con altre aziende;
• stimolazione di nuove capacità professionali e modelli di gestione aziendale

E’indubbio che al di là del miglioramento della redditività aziendale sono evidenti nella miglior capacità dell’azienda di acquisire ed utilizzare le informazioni (tendenze del mercato, interventi pubblici, opportunità offerte dal contesto territoriale) come conseguenza di sollecitazioni, scambi culturali, apertura a nuovi punti di vista. Di tutto ciò trae giovamento anche l’attività agricola tradizionale specie sotto il profilo dell’attenzione alla qualità in conseguenza della necessità e dell’opportunità di una verifica diretta della soddisfazione del consumatore che l’attività agrituristica introduce. Non si può negare, però, che a fronte di questi indubbi e significativi vantaggi l’azienda agrituristica debba far fronte a una serie di problemi dei quali è utile essere consapevoli. Tra gli inconvenienti legati all’attività agrituristica si segnalano:

• perdita di libertà personale sino all’intrusione nella sfera famigliare;
• rischio di assunzione dell’attività turistica come elemento focale
• minori attenzioni alla famiglia
• rischio di perdita motivazioni dei figli maschi
• isolamento dal contesto agricolo tradizionale



Attività agrituristiche

Le modalità di esercizio dell’attività agrituristica sono molte. Le normative spesso prevedono e disciplinano queste attività sia per quanto riguarda l’ospitalità che la ristorazione e le attività ricreative, sportive culturali ecc. E’interessante osservare che negli ultimi anni gli agriturismi stanno divementando la sede privilegiata di molte iniziative che difficilmente potrebbero trovare al di fuori del contesto dell’agriturismo la possibilità di svolgimento. Pertanto se è vero che molti agriturismi non sono nell’altro che dei ristoranti o pensioncine “campagnole” (o peggio!) è anche vero che il fiorire di iniziative culturali organizzate presso gli agriturismi indica come la funzione di rivitalizzazione e divulgazione della cultura rurale e di ....... educazione ambientale

Ospitalità e ristorazione

vendita di prodotti aziendali/altri prodotti tipici agricoli e artigianali locali
somministrazione cibi e bevande spuntini (cucina fredda)/ prima colazione (bed & breakfast)/ pasti caldi/
affitto di alloggi indipendenti ricavati nell’ambito dell’azienda agricola o in fabbricati di sua pertinenza miniappartamenti con cucina o uso cucina comune ricavati da: fienili /stalle/ ricoveri per attrezzi e macchine agricole/ alpi, maggenghi
affitto di camere all’interno dell’azienda nell’abitazione dei conduttori/nell’ambito dell’azienda
agricampeggio piazzole per tende/piazzole attrezzate per camper /servizi comuni

Attività ricreative, culturali, formative

attività ludico-ricreative per gli ospiti/ per il pubblico/ per bambini/ anziani/ portatori handicap
attività culturali visite guidate e/o supporti alla visita di siti di interesse storico e artistico/ eventi musicali/ eventi folkloristici/ mostre/ conferenze
attività naturalistiche allestimento percorsi e strutture per l’osservazione della fauna selvatica/ allestimento percorsi botanici/ visite guidate e supporti per l’osservazione della flora e della fauna della zona
attività formative, didattiche, pedagogiche corsi su argomenti agricoli, alimentari, ambientali, tradizioni rurali / museo contadino/ biblioteca / percorsi didattici in azienda/ “zoo-fattoria”/ orti e coltivazioni didattiche/ accoglienza scolaresche/ laboratori della manualità


Attività sportive e cura del corpo

attività salutistiche cure erboristiche/ ginnastica/ percorso vita/ bagni di fieno*/bagni di latte o siero
attività sportive agriturismo ippico/ agriturismo pescatorio/ agriturismo venatorio
altre attività compatibili con lo spirito ecologico dell’agriturismo (noleggio biciclette, tiro con l’arco, noleggio imbarcazioni non a motore ecc.)
* in realtà per i bagni di fieno si utilizza erba fresca un pò appassita

Altre attività

“adozioni”* “adozione” di animali di razze in via di estinzione/ piante di varietà in via di estinzione/ coltivazioni tradizionali/
attività enogastronomiche degustazioni guidate/ corsi di cucina/ corsi per enoamatori/corsi per assaggiatori di formaggi e altri alimenti
attività artigianali preparazioni alimentari/ produzioni tessili casalinghe a partire da materie prime agricole
attività di raccolta** raccolta frutta/ raccolta piccoli frutti/ raccolta piante aromatiche/ raccolta funghi/ raccolta castagne
*consistono in forme molto variabili di rapporto tra l’azienda e il consumatore che in cambio della corresponsione di denaro anticipata acquista diritto su dei prodotti (per esempio nel caso di una pecora formaggio, agnello, lana); in altri casi l’adozione consiste nella cura di piccole superfici coltivate o di singoli fruttiferi o filari laddove l’onerosità delle tecniche di coltivazione tradizionali rende non economica la produzione agricola commerciale (es. “adozione” dei terrazzamenti delle Cinque Terre in Liguria);
** si possono svolgere nell’ambito dell’azienda (in questo caso corrispondendo all’azienda il valore del prodotto detratto il costo di raccolta)

Oltre all’aspetto dell’offerta di servizi agrituristici vale la pena soffermarsi un attimo sul lato della domanda. L’identikit del fruitore tipo dei servizi e delle strutture agrituristiche (elevato livello di istruzione, estrazione cittadina) rischia di essere superato dalla crescita della domanda di agriturismo che coinvolge un pubblico sempre più vasto. Può essere utile, però, mettere a fuoco quelli che dal punto di vista del consumatore appaiono come i vantaggi dell’agriturismo:

• vacanze a prezzi contenuti;
• ambiente adatto per bambini;
• atmosfera tranquilla;
• assenza dei disturbi legati al turismo di massa;
• stimoli culturali a contatto ambiente diverso;
• possibilità di un rapporto amichevole con gli operatori;
• conoscenza degli animali e della natura.

a fronte di questi elementi che costituiscono le motivazioni della preferenza per l’agriturismo vi sono anche quelli che appaiono degli svantaggi. Questi motivi di insoddisfazione non possono, però, essere eliminati perché ciò comporterebbe lo snaturamento del carattere dell’agriturismo (per esempio non è auspicabile un maggior comfort realizzato a prezzo della trasformazione degli alloggi agrituristici in camere d’albergo a quattro stell). E’ invece meglio puntare ad una “selezione” dei consumatori e ad un miglioramento della qualità dell’offerta di servizi agrituristici che faccia leva sui punti di forza ( “contatto umano”, organizzazione di attività che non hanno riscontro nell’ambito delle strutture turistiche commerciali, “atmosfera rurale” con riguardo non solo all’architettura e alla cucina ma anche all’arredamento e allo “stile” dell’ospitalità). In ogni caso il turista “convenzionale” potrà trovare che l’agriturismo presenta:

• minori comodità rispetto alle strutture alberghiere tradizionali;
• necessità di adattamento a orari e esigenze dell’azienda;
• relativo isolamento, ridotta possibilità di “distrazioni”;
• possibile mancata corrispondenza con una immagine idealizzata;
• prezzi a volte più elevati rispetto a strutture turistiche di massa

La crescente domanda di ruralità, di contatto con la natura, di atmosfere autentiche,di ritorno alle radici culturali e alle tradizioni del territorio fanno sì che nell’ambito di una domanda di turismo e cultura che si mantiene elastica e con un trend in costante espansione la strategia del settore agrituristico non debba essere condizionata dall’ “inseguimento” dei consumatori che avanzano nei confronti dell’agriturismo i rilievi critici di cui sopra, ma ad una migliore caratterizzazione della propria identità e all’avvicinamento dei potenziali consumatori.

Elementi che favoriscono l’attività agrituristica

Sulla base delle considerazioni svolte circa le motivazioni culturali e sociologiche alla base dello sviluppo di un settore dell’offerta turistica legato alla valorizzazione della dimensione rurale non è difficile individuare alcuni requisiti importanti per il successo delle iniziative agrituristiche. Alcune sono legate all’azienda (indirizzo produttivo), altre al contesto territoriale (attrattive culturali e naturali), altre -molto importanti- al modo in cui l’azienda è stata capace di preservare e valorizzare alcuni aspetti del contesto rurale (architettura, razze e varietà tradizionali di animali e di piante coltivate, sistemi di produzione, trasformazione, conservazione e preparazione dei prodotti agroalimentari. Possiamo così riassumere i “requisiti” dell’attività agrituristica:

Indirizzi produttivi e aspetti strutturali
• indirizzo produttivo misto;
• presenza di animali in azienda (meglio se di razze autoctone);
• utilizzo di metodi di produzione sostenibili (meglio se “biologici”);
• carattere famigliare della conduzione con opportuna ripartizione di ruoli.

Fabbricati
• caratteri edilizi dei fabbricati da destinare all’agriturismo che rispecchino e rispettino le forme e i materiali dell’architettura rurale della zona;
• presenza di fabbricati adattabili all’uso come unità abitative indipendenti;
• presenza di fabbricati adattabili all’utilizzo per attività culturali e ricreative;
• armonizzazione dei fabbricati anche di moderna costruzione con destinazione produttiva con quelli adibiti ad agriturismo.

Localizzazione dell’azienda
• inserimento dell’azienda in un contesto di elevato valore paesaggistico;
• limitata distanza dai centri urbani o da aree a forte presenza turistica, ma sufficiente isolamento dal contesto urbanizzato;
• presenza in zona di monumenti, parchi e riserve naturali, tipici villaggi rurali.

Attività agrituristiche e allevamenti

Da quanto esposto nei paragrafi precedenti e sulla base di quanto preso in esame nel capitolo sulle attività educative, pedagogiche e terapeutiche con gli animali (vedi oltre) dovrebbe risultare evidente come l’attività di allevamento rappresenti un elemento chiave nel quadro della sviluppo di sistemi agricoli territoriali a carattere multifunzionale. In questi sistemi l’offerta di servizi agrituristici rappresenta un elemento importante ai fini del raggiungimento dell’obiettivo della sostenibilità economica. Dalle aree periurbane site all’interno di parchi agricoli o fluviali alle zone pedemontane, alle vallate alpine le possibilità di organizzare attività con animali a fini ricreativi e didattici risulta molto ampia.
La diversità genetica rappresenta una risorsa importante per l’agriturismo; d’altra parte è anche vero che se l’agriturismo rappresenta un’occasione importante per il mantenimento e la valorizzazione della diversità genetica è altrettanto vero che il mantenimento di una pluralità di razze rappresenta un elemento di interesse e di attrattività da parte degli utenti e un elemento di differenziazione molto forte e facilmente percepibile nei confronti di aziende zootecniche industrializzate nelle quali l’integrazione tra attività “convenzionali” e “agrituristiche” è molto problematica e conflittuale (o si riduce alla somministrazione di preparazioni alimentari ottenute dalle produzioni degli animali allevati).


Turismo, cultura, società rurale (qualche considerazione sociologica dalla parte dell’”offerta”)

Se la multifunzionalità deve rappresentare qualcosa di più di uno slogan o di un semplice “riorientamento” dei sistemi agrozootecnici si tratta di comprendere la natura della domanda sociale di nuovi prodotti, servizi e utilità per potervi far fronte in modo efficace e per orientare strategicamente le strutture agricole e il più ampio contesto rurale in funzione delle forme che (prevedibilmente) assumerà l’evoluzione di queste domande.
L’importanza delle considerazioni di tipo sociologico e antropologico vale a questo punto non solo per quanto riguarda la “domanda” (il consumatore di prodotti e servizi del turismo rurale), anche dal punto di vista dell’ “offerta”.
Già abiamo visto che il turismo non ha un impatto solo ambientale o economico, ma anche socio-culturale sulle comunità “ospitanti”. Si tratta di capire ora le interazioni tra realtà rurale e potenzialità turistiche. Se non ci occupassimo di questo rischieremmo di calare dall’alto idee e progetti destinati al fallimento. La capacità dell’azienda zootecnica di interagire con il turismo non dipende solo dalle strutture e risorse imprenditoriali (l’astratta combinazione dei fattori produttivi degli economisti neoclassici!), da un insieme di fattori sociali, istituzionali, culturali.
Dal momento che alla prospettiva aziendalista abbiamo già in premessa sostituito il punto di vista dello “sviluppo rurale integrato” la cosa dovrebbe risultare pacifica. Ma forse non è così e qualche riflessione è necessaria.

Il problema della multifunzionalità dei sistemi zootecnici va ben al di là di considerazioni tecniche e tecnico-economiche. La conoscenza delle strutture sociali e simboliche della società rurale è indispensabile per evitare un approccio fallimentare. Se gli stessi tecnici agricoli che fino a pochi anni prima sostenevano l’esigenza dell’intensificazione produttiva, della meccanizzazione, dell’ampliamento della scala produttiva e in generale un orientamento produttivistico si presentano oggi agli allevatori (sia a quelli “residuali” o “professionali”) sostenendo che il loro ruolo d’ora in avanti dovrà essere quello di “giardinieri dell’ambiente” e di “custodi delle tradizioni”e che il turismo è l’unica alternativa di sviluppo locale rispetto ad una agricoltura non più competitiva, la loro credibilità risulterà pari a zero ed è comprensibile che si determini una reazione negativa.

Di fronte ad una “riconversione” o ad un “ritorno al passato” calato dall’alto sulla base di considerazioni schematiche e “razionali” gli allevatori si rifugeranno nelle pseudocertezze della cultura produttivistica che, messa in discussione dall’esterno, tende ad essere identificata, paradossalmente, come un elemento di identità e di uno status da difendere. Questi aspetti saranno trattati nel paragrafo (Comparse da presepio?).
Se non si prendesse in considerazione il contesto storico, culturale e sociale il confronto nel tempo tra i “consigli” (e le imposizioni ) dei tecnici agricoli e dei funzionari agricoli appare sconcertante. Gli esempi sono numerosi. In un passato non troppo lontano (XIX secolo ma anche oltre nel XX) in nome della razionalità tecnica si sono combattute le forme di gestione collettiva delle risorse favorendo la trasformazione delle proprietà comuni in proprietà private , oggi si rimprovera ai contadini di essere individualisti e di aver abbandonato gli istituti comunitari necessari ad un utilizzo “razionale” delle risorse agrosilvopastorali. Fino a ieri si è incoraggiata l’intensificazione produttiva, la specializzazione, la meccanizzazione, l’adozione di strutture “pesanti” per il ricovero degli animali, l’adozione di bestiame “migliorato” e l’abbandono dei tipi genetici autoctoni; oggi vale tutto il contrario. Sino a ieri si è considerato necessario imporre una tutela rigida alle risorse boschive (l’inerzia e la pigrizia mentale e legislativa sono ancora ferme a questo assunto) mentre oggi si proclama l’esigenza di difendere i pascoli, le superfici a copertura erbacea, gli stessi nuclei rurali dall’avanzata di un bosco che troppo spesso non è oggetto di cure selviculturali subisce fenomeni di degrado e molto spesso non assolve ad una efficace funzione protettiva. L’allevamento della capra, qualificata spregiativamente “vacca del povero” e “distruttrice dei boschi” era bandito oggi viene spesso raccomandato come elemento di “diversificazione produttiva”. Continuando a presentare come “oggettivamente razionali” e “motivate da ragioni tecniche” le scelte suggerite o imposte agli operatori agro-zootecnici si rischia, come già osservato, di perdere ogni credibilità. Se, in passato la cadenza temporale dei cambiamenti sociali, tecnici, economici era tale che difficilmente una generazione potesse essere testimone di cambiamenti così rapidei da essere avvertiti oggi è vero il contrario e gli “indirizzi tecnici” di oggi devono confrontarsi con i rapopresentanti della stessa generazione cui erano stati presentati come “imperativi tecnici oggettivi” i precedenti (opposti) indirizzi. L’assunzione di un senso critico è fondamentale. Oggi non è sufficiente limitarsi ad esporre nuovi orientamenti, nuovi suggerimenti, indicare nuove prospettive, si tratta di rendere esplicite le premesse da cui derivano, bisogna “mettere le carte in tavola”. Le modificazioni del generale sistema sociale, istituzionale, economico, le nuove acquisizioni scientifiche, la nuova sensibilità culturale ed ambientale che determinano le nuove ”direttive” devono essere chiarite, ma non basta ancora; è necessario chiarire come si collocano gli interessi degli attori in gioco: degli operatori agricoli, la comunità locale, gli interessi esterni. Anche se non è facile ammetterlo le pretese soluzioni “tecniche” del passato riflettevano gli interessi economici, il desiderio di rafformanento del ruolo e dello status degli accademici, professionisti, tecnici, burocrati, funzionari che le promuovevano e il tipo di relazioni che questi intrattenevano con gli altri attori sociali e soggetti economici. Quanto più il tecnico, il professionista, il funzionario, il burocrate si sente parte di un “ceto professionale, intellettuale, burocratico” partecipe della cultura della classe media urbana , quanto meno partecipa empaticamente alla dimensione socioculturale dell’ambiente rurale, tanto più gli orientamenti “tecnici” promuoveranno interessi esterni e contrari al mondo rurale (organizzazioni burocratiche, strutture tecno-burocratiche, industria, operatori commerciali). Nelle società, come quella italiana, fortemente improntate da una cultura nazionale urbanocentrica tutto ciò ha pesato in modo particolare e non desta meraviglia il fatto che anche per la componente tecno-burocratica espressione di organizzazioni “agricole” vale la considerazione circa il ruolo da essa giocato di promozione –sotto la specie della “modernizzazione dell’agricoltura” di interessi spesso contrari alla società rurale.
Da questo punto di vista spingere (ieri) l’industrializzazione dell’agricoltura come (oggi) la sua “presepizzazione” (trasformazione funzionale al mantenimento del “folklore” e del “paesaggio” in funzione di interessi turistici esterni alla società rurale) ha la medesima valenza sociale anche se, apparentemente, si cerca di presentare l’operazione come un ribaltamento.
Promuovere l’integrazione tra agricoltura e turismo può pertanto sortire esiti opposti: l’ulteriore disgregazione e perdita di autonomia e di identità della società rurale o, al contrario, l’inversione del declino. I casi di Cortina d’Ampezzo e di Abriés sono estremamente sintomatici: in entrambi i casi si tatta di stazioni sciistiche (anche se una prestigiosa e l’altra di “serie B”) dove ci si è posti il problema dell’utilizzo di greggi ovine per il mantenimento del paesaggio e delle piste da sci. Ad Abriés, che rappresenta una comunità “povera” dove lo sviluppo turistico è avvenuto di recente, sotto l’impulso di politiche pubbliche e di iniziative imprenditoriali esogene in un contesto istituzionale di lunga tradizione di centralismo politico e amministrativo e di un forte apparato tecno-burocratico, l’utilizzo del “pascolo di servizio” (esercitato con l’impiego di greggi transumanti provenienti da fuori) ha determinato l’ulteriore marginalizzazione dell’attività zootecnica locale.
A Cortina d’Ampezzo dove sussistono le istituzioni comunitarie per la gestione del patrimonio agro-silvo-pastorale (le “Regole”) e una lunga tradizione di autonomia (Cortina è entrata a far parte dello stato italiano centralizzato solo nel 1918), dove l’attività turistica è gestita da operatori locali che rimangono tutt’ora proprietari di prati in proprietà privata e partecipi del patrimonio pascolivo e forestale regoliero l’interesse turistico e quello della proprietà agro-silvo-pastorale coincidono. Qui la soluzione adottata per la gestione del “pascolo di servizio” e l’utilizzazione dei prati è consistita nella creazione di una cooperativa per l’allevamento ovino che ha inventivato l’avvio di ulteriori iniziative private nel campo zootecnico.
Questi esempi indicano come la possibilità di successo e la valenza socioeconomica di soluzioni tecniche apparentemente identiche dipendano da circostanze di ordine sociale, culturale e istituzionale. Queste considerazioni potevano forse essere considerate non cruciali quando l’applicazione di nuovi sistemi agrozootecnici assumeva una valenza prevalentemente produttiva. L’analisi della situazione di sfondo si riteneva potesse essere limitata alle strutture fondiarie, alle forme di proprietà e di conduzione, alla disponibilità di manodopera e altre risorse immediatamente produttive, ai mercati e, in genere alle variabili di ordine socioeconomico, potevano essere semmai presi in considerazioni particolari istituti o tradizioni locali che si configuravano come un “ostacolo” o un “vincolo” all’introduzione delle nuove tecniche moderne. Sembrava meno importante l’analisi della struttura sociale locale, dei rapporti tra gli operatori agricoli e il resto della società locale, delle istituzioni e della cultura locale. In realtà anche in passato il circoscrivere l’approccio ai sistemi agricoli territoriali agli aspetti tecnico-produttivi e tecnico-economici ricondotti forzatamente a modelli aziendalistici non ha mancato di produrre conseguenze. Basta qui accennare al fatto che la modernizzazione delle strutture agricole troppo spesso e in troppe realtà non ha sortito sviluppo, non ha frenato la “fuga” dalle tradizionali attività agricole, non ha garantito il “ricambio generazionale”.

“Mentre un tempo la prosperità e la fertilità agricola coincidevano, oggi molti le considerano alternative. Alcuni anziani esprimevano questo concetto dicendo che in passato le giovani volevano un marito con molte mucche, mentre ora un tale partito sarebbe davvero indesiderabile”

L’attenzione agli aspetti sociologici (soprattutto per quanta riguarda lo status e il ruolo) è indispensabile per comprendere perché mentre la prospettiva di essere “i giardinieri dell’ambiente” viene rifiutata sdegnosamente viene, invece, considerato degno di stima “tenere puliti i prati e i boschi” quando queste attività vengono esercitate (normalmente da pensionati) senza alcun ritorno economico.
Il ragionamento va esteso al ruolo dei sussidi. L’operatore agricolo non considera “disonorevole” beneficiare di sussidi alla produzione o, comunque, al mantenimento di un potenziale produttivo (terreni coltivati, animali). Questo viene considerato una doverosa “compensazione” per la maggiore difficoltà a produrre in condizioni svantaggiate. Negli ultimi anni si è diffusa la consapevolezza che il grado di sostegno all’agricoltura di montagna e delle altre aree svantaggiate rappresenta un compenso per quelle esternalità che, indirettamente, l’attività agricola produce a favore dell’ambiente e del territorio e quindi, impersonalmente, alla società in generale. Rimane, implicito che è il ruolo produttivo è quello che conferisce identità e status all’imprenditore agricolo. Tale ruolo produttivo è caratterizzato da alcuni elementi che segnano l’emancipazione dalla condizione “tradizionale” e l’entrata nella modernità vissuta come il superamento di una condizione di inferiorità sociale e culturale. Produrre per il mercato, applicare la tecnologia alla produzione agricola, applicare quanto più possibile valutazioni quantitative al posto di quelle qualitative, sostituire le macchine al lavoro dell’uomo, affidarsi all’innovazione e a criteri “razionali” (quante volte si usano ancor oggi espressioni “stalla razionale”, “metodi di allevamento razionali”!), rappresentano gli elementi di un nuovo “orgoglio”, di un senso di integrazione sociale nel mondo moderno. Parallelamente alle modificazioni delle tecniche e delle strutture produttive si è evoluta una mentalità “moderna” che considera estranee all’impresa le considerazioni e i valori di ordine estetico, simbolico, etico, morale e, unico criterio valido dell’agire economico e dell’organizzazione della produzione, il perseguimento del massimo profitto economico. Al rispetto dei valori “socialmente condivisi” sono deputate le normative. L’operatore agricolo si sente almeno in parte sminuito quando “ammette” che, alla luce di un bilancio formale d’impresa, la redditività del suo lavoro e dei capitali investiti è del tutto insoddisfaciente e che la propria scelta di continuità dell’ attvità agricolo è motivata da considerazioni extra-economiche. Egli percepisce che il modello della razionalità d’impresa ben difficilmente può essere applicato nel contesto in cui opera ma valuta tutto ciò come impossibilità di sfuggire ad una condizione di inferiorità. Più difficilmente si rende conto, però, che questo modello di razionalità interna all’azienda appare sempre più in conflitto con considerazioni di ordine ecologico e sociale. Ancor più difficilmente si rende conto che il carattere che la “modernizzazione” del mondo rurale e della produzione agricola presenta larghi margini di ambiguità. Giova a questo proposito utilizzare le parole di uno storico autorevole: Eric R. Wolf

“La teoria della modernizzazione ambiva a rappresentare un tipo di sviluppo che si muove che si muove lungo una traiettoria unidirezionale, da un mondo ‘tradizionale’ verso una modernità razionale e innovativa. Tuttavia, quando sia il concetto di ‘tradizione’ che quello do ‘modernità’ vennero riesaminati alla luce dell’analisi delle componenti tanto mutevoli dell’economia e della politica, e con gli esiti più diversi a seconda delle classi sociali e delle regioni considerate, la ‘tradizione’ cominciò a essere vista come un qualcosa sempre meno tradizionale e sempre più compatibile con il cambiamento; mentre la ‘modernizzazione’ dal proprio canto, cominciò ad essere vista come un processo sempre più soggetto a fallimenti e inversioni di sviluppo rispetto a quanto i modelli lineari di progresso avessero potuto far prevedere.”

Non solo nel “terzo mondo” ma anche nelle aree rurali interne europee alla “modernizzazione” è, a volte, corrisposto uno “sviluppo del sottosviluppo”. Nel contesto delle nostre aree rurali interne e di montagna in particolare il sottosviluppo non è coinciso con un impoverimento materiale (anche in queste aree si è sviluppato un certo benessere che ha la sua espressione esteriore nello sviluppo di centri commerciali, motorizzazione privata ecc.), ma con l’aumento della dipendenza dall’esterno, con la perdita di significato economico della precedente base produttiva agricola, con la perdita di valori culturali ed identitari, l’impoverimento dei rapporti sociali. E’utile concretizzare con riferimento alle unità produttive agricole il concetto di dipendenza e di sottosviluppo. I termini dell’economia di mercato e della modernizzazione delle tecniche agricole –ovviamente influenzati dalla presenza o meno in loco di opportunità di lavoro extra-agricolo- hanno operato una drastica selezione delle unità produttive. Il salto verso una condizione professional-imprenditoriale può essere interpretato come un “successo” e un elelemento di “sviluppo” solo entro certi limiti. Innanzitutto per molti il “successo” è stato solo transitorio. L’impegno e le risorse impegnate per la meccanizzazione e la modernizzazione dell’azienda hanno in molti casi solo posticipato la cessazione dell’attività agricola. Questa operazione di “puntello”, aspetto di una “modernizzazione senza sviluppo”, ha avvantaggiato solo interessi esterni alla realtà rurale, sono state impegnate risorse locali (umane e materiali) e risorse pubbliche. La presenza delle residue aziende “professionali” rappresenta realmente un elemento di “sviluppo” intendendo con questo termine un fenomeno con caratteristiche durevoli in cui l’elemento economico non è disgiunto dagli aspetti sociali? Non è difficile ravvisare nella realtà delle aziende “professionali” elementi di debolezza e di dipendenza che, anche a prescindere dalla sempre minore integrazione ecologica con la realtà territoriale- portano a mettere in dubbio il fatto che esse rappresentino un elemento di sviluppo.
Il primo elemento di dipendenza è ravvisabile nel carattere che hanno assunto i processi di “razionalizzazione”, “modernizzazione”, “meccanizzazione”. Essi, molto, spesso, non sono stati sostenuti da una logica economica, ma socio-psicologica. Dal momento che l’industria e l’agricoltura industrializzata della pianura, rappresentano un modello culturalmente e socialmente superiore, l’adozione di schemi tecnico-organizzativi mutuati da questi contesti è apparsa ai tecnici e agli stessi operatori agricoli come la premessa ad una impostazione “razionale”.


L’ampliamento del volume di produzione, della produttività unitaria, l’aumento del grado di “imput” tecnologici e finanziari sono apparsi di per sé una premessa obbligata e, ciò che ha inciso negativamente l’unica percorribile, al fine di impostare l’attività agricola e zootecnica su basi “imprenditoriali”. I mezzi e i fini dell’attività economica sono stati confusi e invertiti. Un certo modulo zootecnico è assunto come dato; invece di dedurre dal contesto aziendale, territoriale, ecologico, di mercato il modulo tecnico-economico si è giunti a valutare se il contesto possa “sopportare” un dato modulo. Esistono le superfici minime per “smaltire” i “reflui zootecnici”? Quanti m3 è necessario sbancare per realizzare un ricovero zootecnico conforme agli orientamenti tecnici “razionali” (meccanizzazione dell’alimentazione, della mungitura, dell’allontanamento e stoccaggio delle deiezioni) per un numero “minimo” di lattifere ada lta produzione? I mezzi diventano i fini: il riporre il prestigio nella “modernizzazione” nella quantità, nel grado di impiego di tecnologia e di costosi apparati meccanici fa si che l’attività agro-zootecnica venga organizzata in funzione della copertura di pesantissimi costi fissi giustificati molto spesso per il loro valore extra-economico.

In un circolo vizioso che comporta una serie di anelli in cui non è più ravvisabile una logica economica il volume produttivo e la produttività sono imposti dalle strutture e dalla dotazione di attrezzature e macchinari; a loro volta il volume produttivo e la produttività impongono tutta una serie di scelte produttive e di organizzazione del lavoro. “Devo acquistare mangime e fieno da fuori perché ho troppe vacche e hanno una produzione elevata” “Non posso portare le vacche all’alpeggio perché producono troppo”. “Non ho tempo per segare i prati, ho troppi animali da governare”.

L’aspetto principale del “sottosviluppo” legato alla “modernizzazione” è proprio nel carattere dell’imposizione dall’esterno di un modello di razionalità che non ha presupposti e riscontro negli interessi economici, sociali, culturali della comunità rurale. Tale modello che si presenta come indiscusso e “superiore” viene assunto in modo subalterno dagli stessi operatori agricoli con il rischio che finiscano per scambiare la loro identità e i loro interessi con quello che è stato invece il frutto di una “catechizzazione” per nulla disinteressata e innocente.

Attrattività dell’attività zootecnica per donne e giovani: l’economicismo non è tutto

Ragionare in termini strutturali (dimensioni economiche, reddito comparabile, unità minima colturale ecc.) è importante ma la sopravvivenza dell’agricoltura specie in zone di montagna e comunque “difficili” è legata anche ad altri aspetti di natura culturale e psicosociale. In passato un allevatore con una mandria numerosa non aveva difficoltà a trovare moglie. La continuità aziendale non era messa a rischio dalla possibilità che un giovane abbandonasse l’attività agricola con la prospettiva di disporre di un reddito inferiore a quello garantito in azienda. Le esigenze di socializzazione, di garantirsi un certo prestigio nell’ambito della comunità, di riconoscimenti non solo economici da parte dei vicini e della “società” oggi pesano sulle scelte delle donne e dei giovani spesso più che le considerazioni economiche. Quindi se è vero che gli investimenti e i miglioramenti materiali e una certa dimensione economica sono ancora importanti è anche vero che possono non risultare determinanti: In alcuni casi la specializzazione, l’industrializzazione, l’intensificazione produttiva spingono l’azienda verso una forma di isolamento dal contesto sociale laddove l’azienda meno “imprenditoriale” può mantenere più contatti con l’ambiente locale e con i turisti. Anche quando l’attività agrituristica e agrididattica sono affiancate alle attività agricole convenzionali quali nuovi “reparti” dell’azienda sorgono una serie di conflitti tra le esigenze delle due componenti e in definitiva quello che viene presentato ai turisti e agli utenti è una “facciata” poco coerente con l’identità produttivistica dell’azienda. Se nuovi elementi di prestigio e di riconoscimento sociale vengono dal rispetto dell’ambiente, delle tradizioni agricole e di trasformazione, da un blasone di qualità riconosciuto all’azienda è evidente che la disaffezione dell’elemento femminile e giovanile può trovare rimedio in una riconsiderazione dei modelli aziendali dove l’elemento redditività sia bilanciato da altri aspetti.

Il ritorno dell’importanza simbolica dell’attività agricola

Coinvolgere in un progetto di sviluppo locale le forze locali significa far tornare l’attività agricola e quelle ad essa integrate al centro dell’interesse delle piccole comunità rurali. Mantenere l’identità del paesaggio e un grado minimo di fruibilità del territorio è una delle primarie funzioni sociali dell’agricoltura. In questo essa assolve ad un ruolo materiale ed anche ad un ruolo simbolico mantenendo un equilibrio e uno scambio regolato tra uomo e natura.

“Nel vecchio modello simbolico la gente univa le proprie energie per strappare alla terra quel poco di cui vivere e per sorvegliare le forze caotiche della natura. Alla luce di questo modello il passaggio all’economia moderna è stato un evidente fallimento. I boschi avanzano, molti prati non sono più falciati e vi sono anche indizi di un possibile ritorno degli orsi.”

Esisteva l’orgoglio dell’autosufficienza e dell’indipendenza, della capacità di strappare alla terra le risorse necessarie sorvegliando le forze caotiche della natura, della capacità di solidarietà e cooperazione contro le tendenze disgregatrici dell’invidia e dell’individualismo. A prezzo di grandi sacrifici la comunità rurale alpina aveva sviluppato con successo un modello di equilibrio con le proprie risorse. Oggi quest’orgoglio non c’è più l’inserimento nel mondo moderno è su una base di inferiorità e subalternità (chi siamo noi? Una periferia metropolitana? ), il senso della comunità è indebolito dalla cultura dell’affermazione individuale e dalla ricerca del massimo profitto economico. La comunità definita in precedenza sulla base di rapporti di solidarietà e di cooperazione finalizzati all’esercizio delle attività produttive tradizionali agro-silvo-pastorali e da un forte legame con il territorio, patrimonio comune e base del sostentamento materiale, ha lasciato il passo ad una comunità residenziale dai legami molto allentati. In molti casi la popolazione presente permanentemente rappresenta solo una parte (a volte minoritaria); gli altri membri rientrano al paese solo nel periodo estivo e in occasione di alcune festività. Dove la viabilità d’accesso scoraggia i trasferimenti giornalieri dal luogo di lavoro al paese e dove non è attivo il servizio scuola-bus la popolazione presente è spesso limitata alla componente anziana che trae il proprio reddito dalle pensioni e svolge attività agricole part-time o anche solo per autoconsumo e passatempo. Anche nei paesi dove sono presenti servizi sociali e centri di vita associata (bar, parrocchia, associazioni) il centro dell’interesse individuale della maggior parte degli abitanti è al di fuori del paese (lavoro, scuola, divertimenti, relazioni sociali). Dove sopravvive un’attività agricola professionale questa ha completamente modificato i propri connotati. Da dimensione collettiva caratterizzata da significato produttivo e simbolico, l’attività agricola produttiva si è trasformata in attività economica esercitata da una categoria professionale e rivolta al massimo profitto economico d’impresa. La logica imprenditoriale ha comportato una drastica riduzione del numero degli addetti sulla base della spinta alla meccanizzazione e del raggiungimento di un “reddito comparabile” anche se, come abbiamo visto, la “fuga dall’agricoltura”, specie dell’elemento femminile, è stata molto più ampia e determinata da motivazioni sociologiche più che economiche. In conseguenza della rarefazione degli operatori agricoli e dell’orientamento produttivistico la funzione di cura e manutenzione del territorio assicurata dall’attività agro-zootecnica tradizionale è venuta in gran parte a mancare, gli animali sono sempre chiusi in stalle di cemento prefabbricate, i prati non sono più falciati e i fabbricati rurali disseminati sul territorio vanno in rovina: alle trasformazione sociale si è accompagnata quella fisica del territorio. I patrimoni collettivi: boschi e pascoli hanno perso di valore, le alpi sono spesso abbandonate, sottoutilizzate o caricate con bestiame proveniente da fuori, le latterie cooperative di paese, momento di aggregazione sociale oltre che economica sono state in gran parte chiuse.

Queste trasformazioni sono avvertite dalla comunità come una perdita collettiva e, con più o meno ritardo rispetto alla cessazione della funzione pratica delle attività produttive tradizionali, si è cercato di recuperare la loro memoria come elemento di socialità e ritualità indirizzato al recupero di un senso di comunità che si era andato perdendo ma di cui si continua ad avvertire l’importanza e la necessità.

“Buona parte dell’attività rituale, organizzata ed informale, serve a puntellare il senso di solidarietà –o quanto meno di socievolezza- e ad ovviare a questa perdita di orgoglio. Si tratta per lo più di celebrazioni dei vecchi tempi quando era ancora possibile trarre motivi d’orgoglio e di solidarietà dalle attività produttive quotidiane. Un’esempio è la ritualizzazione delle cucina tradizionale. Polenta e frico era un piatto comune. Ora è considerato una celebrazione della tradizione carnica e viene servito in occasioni speciali. In molte case l’aspo e altri strumenti di lavoro tradizionali vengono utilizzati come decorazioni cui è demandato il compito di rievocare il passato. Le autorità comunali promuovono mostre fotografiche sull’emigrazione e su altri aspetti del modo di vivere di un tempo. La gente si deliziava a parlarmi degli arnesi tradizionali, come ad esempio degli zoccoli chiodati usati una volta dai boscaioli”

Le attività agricole hanno rappresentato il fulcro della comunità rurale tradizionele dal momento che la prosperità e la sopravvivenza della gente era strettamente legata ad esse e che la coesione comunitaria era alimentata e motivata dalla necessità di cooperare per lo sfruttamento delle risorse negli ambienti difficili come la montagna alpina. L’importanza della rivalutazione della cucina tradizionale contadina e il consumo collettivo di piatti tradizionali hanno in questo contesto un ruolo fondamentale; rappresentano un legame con il passato e con una vita “semplice” quando la comunità traeva dal proprio territorio il sostentamento e, dalle particolare tradizioni locali di ottenimento delle materie prime e di preparazione alimentare, un motivo di orgoglio e di identità. Le specialità di paese costituivano, insieme a forme di differenziazione linguistica e di costumi un elemento di identificazione nei confronti delle altre comunità tanto è vero che i soprannomi (più o meno canzonatori) con i quali gli abitanti di un villaggio (o di una regione) venivano chiamati da quelli vicini avevano spesso a che vedere con particari usi alimentari. Venuti meno altri elementi di differenziazione e di manifestazione del senso di appartenenza il cibo rimane l’ultimo (e più forte) elemento di identità culturale, carico com’è di valenze simboliche. Questo è il senso di molte “Sagre” sorte per genuino impulso locale e che si distinguono dalla miriade di manifestazioni dove il contenuto tradizionale è spesso in parte o del tutto sostituito da intenti promozionali o di generico intrattenimento e, al più, socievolezza.

Il desiderio di non perdere il legame con il passato e quindi il senso stesso dell’identità e del senso comunitari ha portato negli ultimi anni a moltiplicare le rievocazioni degli antichi mestieri agricoli e artigianali e degli antichi “sapori”. Spesso queste rievocazioni sono allestite con rigore filologico altre in modo naïf.
Oltre alla cucina tradizionale e agli strumenti delle attività agricole tradizionali una redifinizione in termini di socialità e ritualità ha interessato anche il patrimonio di edilizia rurale come nel caso del patrimonio delle baite di montagna. Se è vero che moltissime stalle-fienile sono state trasformate in seconde case (a volte vendute a “cittadini”) è anche vero che spesso, dopo un periodo d’abbandono, sono diventate luoghi dove riunirsi in occasione del ferragosto o di altre festività; laddove i maggenghi erano riuniti a villaggio o le singole unità erano sparse su superfici non troppo ampie ed esisteva una cappella o una croce queste celebrazioni assumono un carattere collettivo sottolineato, oltre che dalle grigliate e dall’esecuzione di musica, dalla celebrazione di funzioni religiose. Anche nel caso delle alpi/malghe la perdita di funzione produttiva è accompagnata in alcuni casi dall’assolvimento di funzioni di tipo sociale e ricreativo. Sono abbastanza numerosi i casi di alpi/malghe concesse ad associazioni locali (alpini, volontariato, cacciatori) che oltre ad occuparsi della manutenzione (straordinaria e ordinaria) delle strutture edilizie mantengono “pulite” le aree circostanti e organizzano feste durante il periodo estivo. La funzione simbolica delle manifestazioni collettive incentrate sulle alpi/malghe (che si tratti o meno di realtà ancora interessate dall’attiività zootecnica) assume particolare importanza perché molto spesso le esse rappresentavano il patrimonio collettivo più importante della comunità e la pratica dell’alpeggio segnava profondamente la cultura locale.

La ritualizzazione di alcuni aspetti della vita tradizionale legati al lavoro agricolo ed alla solidarietà comunitaria e la redifinizione in senso sociale e simbolico di alcuni elementi di continuità della gestione agro-silvo-pastorale del territorio rappresentano pertanto un’esigenza vitale di recupero del senso di comunità da parte di comunità segnate da spopolamento, decomposizione del tessuto economico tradizionale, “periferizzazione”.
Diviene cruciale alla luce di pressanti considerazioni ecologiche, culturali, socio-economiche e, di quello che è stato definito uno sviluppo locale autosostenibile affrontare con attenzione e sensibilità il problema del rapporto tra il recupero del senso della comunità e dell’identità culturale locale da una parte e la valorizzazione turistica, il mantenimento e lo sviluppo di attività agricole produttive, le esigenze ecologiche dall’altra.
Innanzitutto è evidente che il senso della rievocazione del passato può assumere valenze completamente diverse. La rievocazione di tipo nostalgico, fine a sé stessa, lascia nei protagonisti un impressione di tristezza e di rassegnazione per un presente che non può essere modificato e di un futuro che non ci sarà. Questo tipo di rievocazione, non stimola alcuna iniziativa di rivitalizzazione comunitaria, nessuna progettualità.

Da queste considerazioni si possono trarre alcune conclusioni:

• l’esigenza di mantenere forme di attività agricola legate alla cura e alla conservazione del territorio rappresenta in primo luogo un’esigenza della comunità locale;
• tale esigenza è di tipo materiale e di tipo simbolico;
• la rievocazione/riproposizione di forme di attività agricola tradizionale (razze, prodotti, tecniche) diventa elemento di coinvolgimento attivo di diversi soggetti al di là dei pochi agricoltori professionali e un fattore di rafforzamento dell’identità e della coesione della comunità (quindi questione di sopravvivenza!);
• il turismo culturale è alla ricerca di situazioni ed esperienze autentiche e può rappresentare una forma attraverso cui queste attività, finalizzate in primo luogo alle esigenze culturali della comunità locale, possono tradursi assumere valenza economica senza stravolgere la loro connotazione;
• il turista (pensiamo a quello con residenza secondaria che da anni e persino decenni frequenta regolarmente la località o agli originari del posto che vivono da anni altrove pur conservano abitazioni e legami) partecipando in modo attivo e propositivo a queste attività può sviluppare un senso di identificazione nella realtà locale tale da superare la conflittualità/estraneità tra residenti e “turisti facilitando lo scambio culturale e la creazione di una “comunità allargata”.

E’ evidente che le tradizioni frutto di mera “invenzione” non vanno nella giusta direzione di una sinergia tra agricoltura, turismo, risveglio comunitario. In una località delle alpi austriache il successo della “Festa dell’alpeggio” aveva indotto ad organizzare simile “Festa” tutte el settimane per la gioia dei turisti. Questo è un esempio da non seguire!


Paesaggio silvopastorale e turismo

La biodiversità rappresenta un fondamentale concetto ecologico. L’uomo è però in grado di apprezzarla non solo sul piano razionale e cognitivo ma anche su quello emozionale attribuendo ad un paesaggio ricco di biodiversità anche un positivo giudizio estetico. E’interessante notare che l’apprezzamento estetico di un paesaggio coincide normalmente con una valutazione di indici di biodiversità attribuita dagli esperti (). La comprensione di questo aspetto è cruciale perché può consentire, a certe condizioni, di tradurre una ricchezza ecologica, un valore ambientale in un valore economico. La tutela dell’ambiente in questa prospettiva non è più solo come si riteneva in passato un investimento sociale, un costo senza contropartite ma diviene un elemento dell’economia del territorio un fattore dinamico di sviluppo. Per comprendere il nesso tra evoluzione economica e sociale da una parte ha “liberato” le risorse primarie del territorio rurale dall’esigenza di essere impiegate allo scopo di produrre beni alimentari, dall’altra ha ridotto progressivamente a seguito dei processi di urbanizzazione e industrializzazione gli spazi non interessati dalla presenza di insediamenti residenziali e produttivi e dalle infrastrutture e da tutti i segni di in pesante intervento dell’uomo sul paesaggio e l’ecosistema. L’aumento del reddito e la riduzione del tempo di lavoro hanno costituito un altro aspetto fondamentale del passaggio dalla società industriale a quella caratterizzata dalla prevalenza delle attività terziarie e dell’ulteriore espansione dei modelli di vita urbani. A questi aspetti positivi hanno fatto da contrappeso quelli negativi legati alla congestione urbana, all’accelerazione dei ritmi di vita (lavoro, consumo, relazioni sociali), alla omologazione culturale, alla sovrastimolazione da parte del sistema informativo e di comunicazione. Tutti questi elementi concorrono a definire nuovi bisogni e domande da parte della società. La domanda di turismo e di “ambiente” hanno perso il connotato di bisogni secondari ed elitari per divenire bisogni primari irrinunciabili che riguardano la sfera psicologica, psicofisica e relazionale degli individui. Nell’ambito della domanda turistica complessiva sono cresciuti vari tipi di “turismi” alcuni dei quali fortemente indirizzati verso viaggi, soggiorni, escursioni caratterizzati dal desiderio di arricchimento culturale e di contatto con gli ambienti naturali. Il turismo nelle aree montane oltre al soggiorno “climatico” e alla possibilità di pratica sportiva offre rigenerazione psicofisica e occasioni di conoscenza dell’ambiente naturale. La cura e la conservazione del paesaggio assumono evidentemente un ruolo cruciale nel favorire la corrispondenza dell’offerta di determinare aree turistiche con la domanda e diviene elemento fondamentale dell’economia turistica. Se in passato il paesaggio era concepito riduttivamente come elemento di contemplazione estetica ( il bel “panorama”) da parte di una èlite di viaggiatori e turisti oggi diviene un elemento da vivere, entro cui inserirsi per la soddisfazione di bisogni fisici, psicologici e culturali dei quali la componente di effettiva fruizione sportivo-ricreativa è solo un aspetto. Il valore del paesaggio inteso come insieme di ecosistemi (e non solo come l’insieme che può essere colto dalla percezione visuale)_ non dipende solo dall’uso ma anche da alcuni elementi potenziali. Vi è innanzitutto un “valore d’opzione” (Gatto, 1988) che corrisponde al valore attribuito alla possibilità di poter usufruire ancora in futuro di un ambiente naturale o rurale con determinate caratteristiche. Sempre restando nell’ambito di una valutazione edonistica (che quindi prescinde dal valore sociale dei beni ambientali) la disponibilità del turista a sostenere delle spese per usufruire del “paesaggio” (o in modo più specifico di una riserva naturale o di un territorio rurale) dipende anche dalla soddisfazione che può procurare il solo sapere che un territorio ha mantenuto certe caratteristiche. Questo valore legato all’esistenza in sè di determinati ambienti è fondamentale al di à dell’espressione di una domanda di servizi “turistico-ambientali” anche per determinare la propensione del contribuente a sostenere il costo di politiche a favore dei beni ambientali e dello sviluppo rurale. E’ ragionevole ritenere, però, che i due aspetti: diretta fruizione turistico-ricreativa e atteggiamento del contribuente-elettore siano strettamente legati e che ben difficilmente una politica ambientale e rurale potrà trovare un forte e convinto sostegno sulla base delle sole motivazioni etiche o razionali. La fruizione diretta del’ambiente producendo una serie di esperienze emozionali e cognitive è sicuramente in grado di rafforzare il sostegno a queste politiche.

Tutto ciò è però fortemente condizionato dalla effettiva qualità del paesaggio così come percepita dai fruitori turistico-ricreativi. Da ciò l’interesse non solo scientifico ma anche applicativo allo studio degli aspetti in grado di condizionare la percezione estetica della qualità del paesaggio e delle metodologie per attribuire a determinati quadri ed unità di paesaggio un determinato valore e classificare il territorio in funzione di un uso più appropriato al fine di contemperare in una prospettiva di pianificazione territoriale le esigenze di protezione ambientale, di produzione agro-silvo-pastorale e di usi ricreativi.

Le acquisizioni teoriche e prtatiche in questo campo possono contribuire non poco a comprendere l’importanza del ruolo rivestito dalle attività pastorali nella formare, modellare e conservare il paesaggio e a valutare il loro contributo alla produzione di “valori ambientali”. Dal momento che l’attività pastorale sono in misura ridotta si avvantaggia degli effetti positivi prodotti attraverso la cura e la manutenzione del paesaggio sulla domanda turistica (vendita di prodotti e di servizi agrituristici) l’effetto da essa prodotta in termini di fruizione turistico-ricreativa del territorio si configura in termini economici come una “esternalità positiva” per gli altri settori economici (industria turistica) o come un’utilità sociale (per l’aspetto di tutela dell’ambiente). Al fine di riprodurre l’offerta stabile, continuativa di un paesaggio di qualità è indispensabile che oltre che a favorire l’integrazione con l’attività turistica è compito degli operatori pubblici stabilire un sistema di incentivi diretti e indiretti in grado di rappresentare una remunerazione in termini di reddito per l’utilità sociale prodotta dalle attività pastorali e non ricompensata direttamente dai meccanismi di mercato. L’importanza di valutare l’utilità prodotta consiste nel commisurare gli incentivi pubblici ad un effettivo servizio reso da chi esercita l’attività pastorale. In alternativa vi è il rischio di un assistenzailismo che risulta inefficace dal punto di vista degli obiettivi ambientali e sociali di uno sviluppo sostenibile.

Vale la pena a questo punto esaminare quali sono gli elementi che determinano l’apprezzamento della qualità del paesaggio tenendo presente che in larga misura essi sono influenzati da elementi psicologici legati alla storia evolutiva dell’uomo e quindi non suscettibili di determinare risposte differenti nell’ambito di gruppi di popolazione. E’ necessario, però, ricordare che rivestono notevole importanza anche le esperienze culturali e che quindi alcuni elementi valutativi possono variare in relazione a età, sesso, luogo di residenza, istruzione, ascendenza etnica ecc. Nell’esame del paesaggio e nella valutazione delle influenze delle attività agricole e pastorali su di esso è necessario anche tenere presente che il paesaggio è costituito da elementi permanenti (geo-morfologici), modificabili con lentezza (vegetazione, manufatti) o in continuo cambiamento (nuvole) e che il suo aspetto oltre alla natura degli elementi che lo costituiscono è determinato anche dalle condizione di luce, dalla stagione.

Tab. Alcuni elementi che determinano la qualità del paesaggio

Ordine ma non troppo. Un paesaggio ordinato produce un senso di controllo sulla realtà esterna e ne favorisce la comprensione. L’eccesso di variabilità e disordine determina un eccesso di informazione e quindi una scarsa concentrazione e capacità di lettura del paesaggio. Un paesaggio vario soddisfa il bisogno psicologico di esperienze nuove ed interessanti;
Libertà di movimento. La presenza di barriere è percepita come una limitazione alla potenzialità di esplorare il paesaggio;
Spaziosità/Scala del paesaggio La presenza di limitazioni alla visuale determina un senso di insicurezza. D’altra parte un paesaggio troppo aperto determina altrettanta insicurezza. Vedere ed esplorare senza essere visti fornisce il massimo del senso di sicurezza e quindi spiega la preferenza istintiva per paesaggi né troppo chiusi né troppo aperti;
Forma del paesaggio. Un paesaggio piatto è monotono; le linee ondulate inducono tranquillità;
Componenti cromatiche;
Non uniformità;
Senso di interezza;
Senso della continuità e della durata storica;
Elementi in movimento;
Ricchezza di colori, odori, suoni;
Tipicità.

L’animale nel contesto dei sistemi pastorali e zootecnici estensivi come elemento di produzione del paesaggio

Sulla base di quanto sopra indicato il ruolo dell’animale quale elemento costitutivo del paesaggio (e della qualità del paesaggio) appare duplice. Da una parte l’animale rappresenta un elemento scenico, la sua presenza, più o meno rilevante in funzione delle forme di aggregazione sociale degli animali al pascolo (che assumono il carattere compatto del gregge ovino compatto con caratteristiche di entità unica o quelle più sparse dei caprini e degli equini) e delle loro caratteristiche morfologiche.
E’ probabile che la variabilità dei colori e di altri caratteri visibili contribuisca ad un valore “estetico” degli animali zootecnici. In aggiunta a queste caratteristiche il pelo lungo e la presenza di corna lunghe e arcuate sono associate ad un carattere di “primitività” e “rusticità” che sottolineano il legame degli animali con il territorio montano (o comunque con ambienti “difficili”) e accentuano l’apprezzamento dell’animale come componente intrinseca e insostituibile del paesaggio.
E’ possibile che le razze più conosciute attraverso i media, risultino collegate a sistemi di allevamento intensivo e agli scandali alimentari e sanitari che hanno portato alla ribalta -purtroppo in termini negativi- il settore zootecnico.
In generale la presenza dell’animale rappresenta un elemento positivo per la qualità estetica del paesaggio (Corti e Pangrazio, 2001) riconducibile ad alcuni dei fattori sopra elencati che concorrono a spiegare le preferenze paesaggistiche: l’animale al pascolo rappresenta un elemento che rende il paesaggio vivo (così come altri elementi dinamici inanimati: le nuvole, l’acqua), al tempo stesso conferisce serenità e tranquillità al paesaggio. Il ritmo lento del pascolamento, sottolineato dei campani, la testa china dell’animale sull’erba infondono tranquillità perché l’uomo ha imparato da tempo immemorabile ad affidarsi ai sensi degli animali (spesso più sviluppati) per riconoscere la presenza di pericoli e di predatori: se gli erbivori pascolano in tranquillità possiamo essere rilassati ed è probabile che la vista degli animali al pascolo abbia un effetto fisiologico sul ritmo cardiaco e la pressione del sangue. Questo possibile risvolto sul benessere dell’uomo della presenza dell’animale allevato in modo estensivo sottolinea come ciò che appare superficialmente come valore estetico in realtà corrisponde a pulsioni e bisogni realmente importanti. Oltre all’aspetto tranquillizzante la presenza dell’animale è anche un elemento vivo che arricchisce di interesse il paesaggio. L’osservazione dell’animale e del suo comportamento è per l’uomo (bambino e adulto) un importante elemento di conoscenza del mondo esterno; in questo senso non è solo un elemento di curiosità; al contrario l’osservazione del comportamento animale corrisponde ad un bisogno innato ad una “zootropia” che trova tanta più occasione di gratificazione nell’ambiente rurale e pastorale quanto più la società industrializzata ed urbana costringono l’uomo a soddisfare questa pulsione con dei surrogati.

Se dall’animale in quanto elemento di interesse e di gratificazione in sè spostiamo l’interesse al paesaggio prodotto dalla presenza dell’animale nell’ambito di un sistema pastorale o zootecnico estensivo ci rendiamo conto che, ancora una volta, dietro la preferenza “estetica” vi è qualcosa di più profondo. Il contesto in cui sono inseriti gli animali d’allevamento, sempre che il pascolamento sia esercitato nelle forme di un buon utilizzo della risorsa pascolo, dà il senso di un paesaggio ben utilizzato, ben tenuto, ordinato. Le motivazioni psicologiche profonde di queste preferenze vanno ricercate nel complesso di sensazioni spiacevoli offerte da un paesaggio abbandonato dalla coltivazione e dall’attività pastorale .

Le erbe alte e i cespugli nella memoria ancestrale (e non) dell’uomo possono celare dei pericoli (dislivelli del terreno e buche, serpenti, predatori, membri di tribù nemiche), da qui una valutazione istintivamente negativa. Il bosco può nascondere altri pericoli (predatori, briganti, esseri soprannaturali). E’ probabile che anche una considerazione “economica” influisca il senso del “bello” e del “brutto” applicati alla percezione del paesaggio. Un prato od un pascolo ben utilizzati rimandano ad un’economia attiva e alla disponibilità di alimenti, al contrario le superfici abbandonate o mal utilizzate (residui erbacei, incespugliamento) rimandano ad uno spreco di risorse dietro il quale l’esperienza atavica scorge inevitabilmente la carestia e le sue drammatiche conseguenza. Oltre a queste considerazioni di tipo “evoluzionistico” (legate cioè alla psicologia profonda dell’uomo plasmata in centinaia di migliaia di anni di evoluzione e non agli influssi della cultura) valgono ovviamente anche delle considerazioni culturali legate all’esperienza professionale e alle forme di partecipazione sociale. E’indubbio che gli operatori agricoli (e gli esperti agricoli) assegnino una maggior preferenza ai paesaggi più antropizzati mentre gli aderenti ad associazioni ambientaliste prediligano maggiormente paesaggi “naturali”. Queste influenze non spostano di molto la valutazione del pubblico “medio” rappresentato dei fruitori del paesaggio. Sono proprio le preferenze di questi ultimi che assumono rilevanza economica in quanto la preferenza estetica può rappresentare la motivazione di una escursione o di un viaggio o di un soggiorno e dare vita ad un flusso economico (servizi turistici di alloggio, ristorazione, trasporto con l’indotto da essi attivato).

Non si deve ritenere che le motivazioni psicologiche dell’apprezzamento del paesaggio siano legate solamente al retaggio di uno stadio presistorico dell’esperienza umana o, comunque, di una realtà caratterizzata sino a pochi secoli fa dal confronto con i grandi predatori e con gli innumerevoli fattori di rischio (legati a fattori biologici e fisici) legati alla frequentazione di ambienti scarsamente antropizzati. La possibilità di cogliere con lo sguardo le caratteristiche del terreno e di prevenire le insidie nascoste dalla vegetazione conferisce un senso di sicurezza di tipo istintivo ma che trova motivazione anche in considerazioni effettuali: le erbe alte celano l’irregolarità del terreno e il procedere in queste condizioni può essere oggettivamente più rischioso (buche o ostacoli sulla superfici scarsamente visibili). Sui terreni non più sfalciati o pascolati il rischio di presenza (e quindi di incontro) con la vipera è reale. Nella svalutazione estetica del paesaggio non più oggetto di cure da parte dell’uomo la paura ancestrale del serpente si accompagna alla considerazione oggettiva circa l’aumento dei rettili. Al di là della presenza delle vipere possono essere numerose le presenze di una fauna e di una microfauna “indesiderate” che si accompagnano con la “rinaturalizzazione” del paesaggio. La “morsa” della vegetazione che ricolonizza la fascia già oggetto di coltivazione intorno ai villaggi di montagna non rappresenta solo una perdita in termini di qualità paesistica secondo i criteri estetici sopra considerati: ha anche conseguenze psico-culturali e igienico-sanitarie. I villaggi immersi in un microcosmo concentrico di ambiti a diverso grado di antropizzazione non sono più organismi in stretta connessione con l’insieme del territorio circostante, oggetto di cure, fonte di sostentamento, plasmato, disseminato di elementi simbolici, personalizzato attraverso una microtoponomastica capillare, solcato dal sistema nervoso della microviabilità, uno spazio vitale racchiuso entro confini materiali e simbolici che si estendevano fino ad incontrare lo spazio di altre comunità.

I villaggi diventano ammassi di pietre ordinatamente sovrapposte e di una vita comunitaria residuale o legata per interessi e attività ad altri ambiti territoriali; in luogo del reticolo di percorsi che collegavano il villaggio agli altri villaggi, ai campi, ai boschi, ai pascoli, alle altre vallate. rimane il cordone ombelicale del nastro d’asfalto che ha trasformato il villaggio in un cul de sac, in un’isola, in un margine. Laddove lo “sviluppo turistico”

Il senso di uno spazio vitale ridimensionato, la perdita di simbiosi con il territorio circostante sempre più estraneo ed ostile è fortemente legato alla scomparsa o al ridimensionamento di quella fascia di coltivi (in passato seminativi, poi prati) che rappresentava la giunzione tra lo spazio abitato e quello dei boschi e dei pascoli. In questo paesaggio irriconoscibile la perdita di identità paesistica (e non solo) è totale. Il senso di tristezza e di solitudine di chi “resiste in quota” sono fortemente incrementati dalla visione a pochi metri dalle abitazione di erbe alte che ingialliscono precocemente, dai rovi che inghiottono manufatti, terrazzamenti. Appena più in là un bosco cupo e denso da dove appaiono la volpe e il cinghiale (per citare solo gli sgraditi “visitatori” più comuni) che devastano orti e pollai sempre più blindati. Nell’immaginario collettivo delle comunità alpine la trasformazione dell’ambiente (deantropizzazione del territorio) e declino sociale e biologico della comunità sono significativamente associate.
In uno studio recente di un antropologo inglese. Patrick Heady su una comunità della Carnia ciò viene espresso con chiarezza:

“Quando la mia guida ha spigato loro che mi trovavo lì per studiare la società carnica e le sue tradizioni, uni degli uomini ha commentato che ero arrivato giusto in tempo. I carnici si stavano estinguendo e in cinquanta o cento anni gli orsi sarebbero stati gli unici abitanti della zona”

In questa battuta è forse possibile cogliere la reazione polemica delle comunità alpine rispetto ad una “coscienza ambientalista” di matrice cittadina che appare molto più preoccupata del ritorno degli orsi che della scomparsa delle piccole comunità insediate da secoli o millenni sul territorio.

“La gente parlava dei carnici, scherzosamente ma non troppo, come di una razza in via di estinzione. Non si stancava mai di sottolineare l’avanzata dei boschi su quelli che, fino a poco tempo prima, erano stati prati da sfalcio, di rimarcare come il bosco fosse scuro e ‘brutto’, e come incombesse sui villaggi e sulla residua terra coltivata, Secondo loro il crollo è non solamente fisico ma anche sociale.”

Sono considerazioni espresse con grande frequenza.

“L’ambiente non è più quello di un tempo, troppi cambiamenti, troppi rovi su quei campi una volta dissodati”

Che non si tratti solo di considerazioni estetiche o psicologiche dovrebbe apparire abbastanza evidente. Dietro l’apprezzamento per il lavoro agricolo, per la cura del paesaggio, ditero alla riprovazione per l’abbandono c’è una valutazione di ordine morale che rimanda alle radicate concezioni del mondo delle società agrarie.

Sempre a proposito delle comunità carniche da lui investigate Heady osserva:

“Da come la gente pratica lo sfalcio, risulta chiaramente che non è solo un modo per ottenere fieno ma anche un modo per imporre l’ordine. Un prato falciato viene descritto come net –‘pulito’- e vengono aspramente criticati quei vicini che non tagliano più l’erba e lasciano in questo modo la terra in uno stato di appariscente disordine. Lo sfalcio impedisce, inoltre, l’avanzata della boscaglia e degli alberi. Questa non era, probabilmente, una considerazione importante quando una buona scorta di fieno era economicamente essenziale per la maggior parte delle famiglie; ma attualmente è il motivo principale per tagliare l’erba. Una delle ragioni con cui si giustifica il desiderio di tenere i boschi lontani dall’abitato è che ciò consente allo spazio che lo circonda di restare ‘aperto’ alla luce. Un’altra è che , in questo modo, i serpenti –pericolo reale, se pur modesto – sono tenuti lontani dalle case. Sembra così sussistere un’alleanza de facto fra l’uomo e il sole contro la natura caotica.”

La luce solare nella visione cosmica delle comunità agrarie (riflessa dalla cultura tuttora radicata nelle comunità alpine) esercita un controllo moralmente benefico sui fenomeni della crescita naturale che neutralizza e controbilancia i poteri caotici dell’oscurità. Il sole e la luna rappresenterebbero secondo Heady : “elementi chiave di un modello simbolico che attribuisce a tutti i processi biologici un ruolo sociale appropriato”. Anche la paura del serpente appare legata ad elementi simbolici, a poteri dannosi, distruttivi.

Il mantenimento dello spazio agricolo tradizionale rimanda ad un ordine che non è solo estetico ma morale e simbolico e all’esigenza vitale di relazioni appropriate ed armoniche tra la comunità e ambiente naturale da una parte e all’interno della comunità dall’altro. Il timore del disordine esprime la paura per la disgregazione della comunità, paura che in passato era legata all’ equilibrio precario tra la popolazione e le proprie risorse naturali e oggi alla perdita di interessi comuni espressione del legame con il territorio e dall’esercizio di una solidarietà cooperativa. La perdita di valore delle risorse agrosilvopastorali, la riduzione delle loro stessa consistenza fisica coincidono con la perdita del patrimonio comune che per secoli ha unito la comunità nell’ autogestione responsabile di questo patrimonio. Tutto un universo di valori, di simboli, di fattori di identità e aggregazione viene cancellato da una “rinaturalizzazione” che toglie di mezzo

Il senso di un paesaggio curato e ordinato oltre che legato a tutti questi aspetti è da ricercare anche in altri elementi legati alla sicurezza, all’igiene e alla salute delle comunità rurali. Basti pensare alla presenza di parassiti come le zecche il cui incremento è legato all’abbandono delle coltivazioni.

Per il fruitore del paesaggio l’aspetto della qualità visuale non può essere disgiunto da una valutazione circa la fruibilità. Ancora una volta il giudizio “estetico” è condizionato da considerazioni “pratiche” più o meno legate a remote opportunità o pericoli. E’indubbio che il paesaggio “bello” è anche quello fruibile o con il semplice sguardo o con la percorrenza e ad un grado superiore con l’esplorazione. Tutte le barriere allo sguardo rappresentano altrettante limitazioni fattuali alla contemplazione del paesaggio e potenziali alla sua percorribilità ed esplorazione. Tornando al ruolo degli animali osserveremo che la loro influenza sulla produzione e sul mantenimento del paesaggio si esplica su due piani in analogia alle scale della biodiversità che abbiamo sopra analizzato : micropaesaggio e macropaesaggio. Dal punto di vista micropaesistico l’influenza del pascolamento si esplica attraverso il carico di pascolo, la gestione delle deiezioni, la gestione della selettività alimentare. Laddove a causa di un carico di pascolo troppo basso gli animali non “tengono testa” alla produzione di biomassa erbacea l’utilizzazione del cotico si limita alle essenze più appetite e il rapporto tra essenze a basso portamento (favorite in una situazione di intenso pascolamento) e quelle ad alto portamento si modifica a favore di queste ultime. Le essenze poco appetite avranno possibilità di completare il ciclo di maturazione e in mezzo al pascolo risulteranno ben evidenti. Il cotico risulterà di altezza disomogenea con cespi ingialliti emergenti dal cotico più basso e verdeggiante per il ricaccio delle essenze utilizzate. Tra le essenze che contribuiscono a questo fenomeno figura la Deshampsia caespitosa che forma dei cuscinetti semisferici che contribuiscono all’irregolarità del cotico (oltre al sentieramento che si produce negli avvallamenti tra i cespi e che favorisce l’erosione). Il sottopascolamento favorisce anche essenze a scarsissima appetibilità (tranne che negli stadi fenologici precoci) quali il Nardus stricta. L’effetto “estetico” della diffusione di questa essenza è legato sia al colore poco brillante (grigiastro) delle pagine fogliari filiformi (tranne che negli stadi fenologici precoci) che alla persistenza sul pascolo dei culmi spigati dell’anno precedente caratterizzati da aspetto paglioso. Altro aspetto negativo della diffusione del Nardus stricta è rappresentato dalla sua tendenza a occupare in forma quasi esclusiva il terreno con indici di copertura molto elevati che limitano moltissimo il numero di essenze e quindi la biodiversità ma anche la ricchezza cromatica legata alla fioritura delle essenze di diverse famiglie botaniche (unica nota cromatica che vivacizza il grigiore del nardetum è data dalla fioritura dei Leontodon ssp.). In generale i pascoli meno utilizzati vedono una regressione del numero di leguminose. Questo aspetto oltre a ridurre il valore nutritivo del pascolo ne riduce anche il valore estetico in quanto le leguminose sono caratterizzate da un colore verde più brillante che contribuisce in modo significativo al valore cromatico del cotico. Tutti questi effetti negativi sono legati ad un carico inadeguato o ad una gestione irrazionale del pascolamento che consente agli animali di distribuito in maniera disomogenea il carico effettivo di pascolo sulla superficie complessiva e si producono anche nell’arco di una sola stagione di pascolamento.

Si deve rilevare anche, però, che una gestione troppo uniforme e intensiva delle superfici pascolive può portare ad una omogeneizzazione dell’aspetto del cotico laddove si riduce la varietà cromatica legata alla differenza floristica, alla scalarità delle fioriture.

Gli effetti del pascolamento sulla scala macropaesistica si esplicano, invece, in un arco pluriennale. L’applicazione di carichi di pascolo insufficienti stagione dopo stagione porta a quella successione vegetazionale che dalla prevalenza delle erbacee ad alto portamento (macroforbie) conduce alla diffusione degli arbusti e da questi all’affermazione del bosco (o della boscaglia). Il risultato è rappresentato dalla “chiusura” del paesaggio e dalla trasformazione di un paesaggio già caratterizzato dalla presenza di formazioni vegetali erbacee, arbustive ed arboree, in un paesaggio uniformemente boscato. Questa omogeneizzazione ha diverse conseguenze negative sulla qualità paesistica: innanzitutto la presenza del bosco rappresenta una “barriera” visiva e riduce la scala del paesaggio.

In montagna spesso ciò significa perdita di punti di osservazione privilegiati con la conseguente impossibilità di ammirare cascate, vette ed altre emergenze paesistiche. La visuale dai percorsi in cresta o che tagliano i versanti verso valle è spesso preclusa dalla presenza di una vegetazione arborea ed arbustiva sviluppatasi in seguito all’abbandono dell’attività agropastorale cui era funzionale il reticolo di una microviabilità spesso funzionale al trasporto dei foraggi ottenuti dai prati-pascoli attraversati dai sentieri e dalle mulattiere. Più semplicemente molte abitazioni collocate sul versante non sono più in grado di fruire la panoramica delle valli sottostanti a causa della crescita a ridotta distanza dalle abitazioni di vegetazione ad alto fusto.

La chiusura delle formazioni vegetali boschive elimina l’alternanza e la variazione cromatica (tono uniforme di verde cupo al posto di un mosaico caratterizzato dalla presenza di macchie o ampie superfici con varie tonalità di verde e giallo in relazione della stagione).
Dal punto di vista della fruizione se è vero che il bosco maturo ha una funzione interessante dal punto di vista della raccolta di funghi e piccoli frutti è anche vero che la sua percorribilità ed esplorabilità sono ridotte rispetto al terreno aperto dove non mancano riferimenti topografici dalla difficoltà di individuare la direzione di marcia e la posizione ed è ancor più vero che le forme di successione al pascolo (cespuglieti, boscaglia) che spesso rappresentano formazioni permanenti rappresentano quanto di peggio in termini di fruibilità in quanto la progressione è gravemente ostacolata dal tipo di vegetazione. Per concludere pare interessante sottolineare che spesso quello che viene apprezzato del “paesaggio boschivo” è quella sottile linea di demarcazione con il pascolo e la compresenza nello stesso colpo d’occhio di pascolo e bosco. Il caso più evidente è costituito dal bosco coetaneo di Picea excelsa impiantato artificialmente. Al limite del bosco le piante si presentano verdeggianti con palchi ricchi di rametti verdi dalla base sino alla cima; all’interno è un deserto di scheletri arborei e un tappeto spesso di aghi che impedisce la germinazione di qualsiasi pianta: valore paesistico e biodiversità pari a zero. Questo caso (estremo) indica come il valore paesistico del bosco è condizionato dall’alternanza con le superfici erbacee utilizzate per lo sfalcio o il pascolo. Le valli completamente coperte da boschi assumono un aspetto opprimente e tetro; la presenza di prati e pascoli che si illuminano in presenza del sole conferisce al paesaggio un aspetto molto più vivo, rassicurante, ridente.

Riassumendo le considerazioni svolte e rammentando che il paesaggio rappresenta il risultato di interazioni tra elementi culturali e naturali e della loro sedimentazione nel corso dei secoli pare opportuno indicare le diverse valenze che assume la conservazione dei quadri paesistici tradizionali

• simbolico-identitaria (paesaggio come elemento di senso di autoriconoscimento e di appartenenza della comunità insediata)
• igienico-sanitaria
• estetica
• fruizionale (da parte dei residenti e dei turisti)
• psicologica
• storico-antropologico-culturale (mantenimento di diversità culturale e della possibilità di leggere e interpretare –a fini scientifico-culturali e turistici- la realtà territoriale

Gli usi ricreativi dello spazio pastorale

Il paesaggio pastorale “curato” non solo ha un valore estetico visuale maggiore, ma è più fruibile. Senza attività pastorale i sentieri scompaiono, i ponticelli, i muretti di contenimento, le fontane cadono in rovina. Molto spesso la flora che subentra al pascolo o al prato incolto è rappresentata da arbusti spinosi, erbe alte, cespugli dove la progressione è impossibile o penosa e non è facile orientarsi. Per garantire un minimo di percorribilità si deve assicurare una continua manutenzione (passaggi con decespugliatore sui sentieri) che risulta molto onerosa. Dove i residui delle piante erbacee cresciute sui sentieri sono lasciati sul posto si crea una lettiera scivolosa che in caso di sentieri esposti e stretti rende pericoloso il passaggio. Molto banalmente uso ricreativo del paesaggio pastorale significa che dove gli animali mantengono bassa l’altezza della cotica erbosa si può sdraiarsi a prendere il sole, a fare un pic-nic a giocare a pallone. Dove non ci sono più gli animali che pascolano nulla di tutto questo.



Protezione della natura e attività agropastorali tradizionali: dalla conflittualità alla collaborazione


La fase della “parchizzazione” colonialista

Un terreno che più di ogni altro testimonia come i gradi cambiamenti sociali e culturali degli ultimi anni abbiano influenzato le politiche di programmazione uso del territorio è quello del rapporto tra agricoltura e aree “protette”. In Italia la diffidenza della cultura ambientalista per il mondo rurale era sino a ieri fortissima (e... ricambiata). E’ palese che questo atteggiamento non rappresenti altro che il rispecchiamento del rapporto conflittuale tra una cultura fortemente urbanocentrica che ha ereditato da una storia di dominio della città sulle campagne affermatosi nel XII secolo, un pesante bagaglio di disprezzo per il mondo rurale. La conflittualità tra esigenze “protezionistiche” e attività agricole si è manifestata sin dall’inizio nell’impostazione vincolistica e dirigistica delle politiche di tutela delle aree reputate di forte rilevanza naturalistica. L’applicazione ai sistemi agroecologici di una mentalità improntata più alla pianificazione urbanistica che all’ecologia e una concezione che incasellava le attività agricole in una forma di “disturbo antropico” è legata ai caratteri della cultura italiana Paradossalmente, ma non troppo, quella che pareva espressione di una politica “progressiva” ricalcava alcune costanti conservatrici della vita sociale italiana. Le forme di dominio esercitate dalla città sul “contado” in epoca medioevale e moderna sono inquadrabili senz’altro nella categoria del colonialismo (obblighi a senso unico, diverso regime fiscale, disparità di tutela giuridica) ma hanno preteso di legittimarsi in senso “democratico” rispetto al sistema feudale. Con la creazione dello stato centralizzato e burocratizzato il mondo rurale, comprese le comunità alpine, che nell’ ancient regime avevano goduto di larghi spazi di autonomia videro ancora peggiorati i rapporti di dipendenza da centri decisionali esterni dal momento che lo Stato non si preoccupò di esercitare un controllo solo dall’esterno ma, attraverso i suoi emissari locali, iniziò ad occuparsi della gestione delle risorse locali, ad influenzare le attività agricole e i modi di sfruttamento dei beni collettivi (boschi e pascoli). Se nella fase di penetrazione del capitalismo nelle campagne e nelle montagne (XIX secolo) l’interesse dei centri del potere politico ed economico era indirizzata al controllo delle materie prime e alla “liberazione” della manodopera dalle condizione dell’economia di villaggio (per renderla disponibile per le attività estrattive e le industrie dei fondovalle e della pianura), nel XX secolo l’interesse dei centri economici urbani per la montagna si è indirizzato verso altre risorse: l’energia idroelettrica da una parte, i terreni agricoli, i boschi, i pascoli dall’altra come potenziali “materie prime” dell’industria turistica e come “spazio ricreativo”.
Non è difficile scorgere in quella che è la politica “prima maniera” della “parchizzazione del territorio” una continuità con le forme di esercizio dell’egemonia signorile o cittadina sul mondo rurale. Dal punto di vista dei residenti e degli operatori agrosilvopastorali il “Parco” non è apparso molto diverso da quanto appariva per i loro antenati la “Riserva di caccia”: una forma arrogante di espropriazione di diritti tradizionali ieri per il diletto degli aristocratici, oggi per lo “svago” dei cittadini stressati.
E’interessante osservare come la politica della “parchizzazione” e di un certo modo di tutelare l’”ambiente” a prescindere dalle tradizioni e dagli interessi delle comunità locali rurali rappresenta un mezzo di ridurre le contraddizioni e la conflittualità interne alle diverse componenti sociali e politiche urbane alle spese di una “piccolissima popolazione di montanari che, politicamente, può essere lasciata al proprio destino” .
Il “Parco” è una forma di alibi sociale utile a mettere in pace la coscienza “ambientalista” senza mettere in discussione i criteri complessivi della gestione del territorio e il modello economico antiecologico. Attraverso opportune “perimetrazioni” le aree di rispetto possono essere delimitate in modo da incentivare la speculazione urbanistica pronta a cogliere nel Parco una forma di promozione turistico-immobiliare. Dal punto di vista sociale i Parchi con la connessa rappresentazione della “natura incontaminata” (o quantomeno meno compromessa) hanno rappresentato nell’ultimo quarto di secolo XX anche una specie di “ammortizzatore” in grado di offrire opportunità ricreative e di “ricarica di natura” alle masse urbane non in grado di permettersi vacanze in paradisi esotici e di ritemprarsi dalle condizioni di invivibilità delle città. E’evidente in questa politica, al di là della contingenza delle operazioni politico-clientelari di basso profilo, la ricerca di un elemento di stabilizzazione e di consenso politico-sociale.

Le reazioni dei contadini di un villaggio alpino francese alla creazione di un Parco Regionale nella loro valle agli inizi degli anni ’70 sono vividamente descritte dall’antropologa americana Harriet G. Rosemberg:

“Nel Queyras il programma dei sussidi fa parte di un piano più ampio in cui la valle è stata designata da poco parco regionale. I sindaci dei comuni del Queyras e di Ceillac sono entusiasti del piano, sostenendo che preserverà l’unità ecologica delle regione impedendo, ad esempio, la raccolta di specie rare di fiori selvatici. Il sindaco di Abriès dice che questa attribuzione segnalerà a chi viene vhe sta entrando in un ‘territorio vergine’ dove non troverà il consumismo grossolano tipico delle grandio stazioni sciistiche. Bottegai e albergatori di Abriès sono a favore del parco perché pensano che porterà molti turisti, specialmente coloro che sono appassionati di alpinismo, di sci di fondo, della natura e delle bellezze architettoniche della valle. Questa designazione, tuttavia ha reso furibondi gli agricoltori. Non sono stati consultati quando il progetto è stato presentato e, ora che il parco è ormai costituito, non hanno alcun potere circa la sua gestione. Sono stati nominati ‘amici del parco’, un ruolo soltanto consultivo. Alcuni pensano che il parco sarà come le riserve indiane canadesi di cui hanno sentito parlare, e che saranno visti come animali strani proprio nella loro terra, Raccontano di un vecchio contadino di Saint Vérain che per 50 centesimi organizza visite in casa sua. Sulla facciata ha messo un cartello. ‘ La casa del passato’. Gli abriesi considerano questa attività disonorevole. Gli agricoltori sostengono anche che la creazione di un parco regionale non porta loro alcun vantaggio economico e potenzialmente può portare diversi svantaggi. Hanno paura che per proteggere alcune specie botaniche, in tutti i pascoli sia impedito il pascolo degli animali. Hanno anche paura che quando il parco assumerà i custodi, gli abitanti saranno esclusi perché non hanno le licenze che il governo immancabilmente richiede. Molti nativi di Queyras sostengono che il progetto del parco trasformerà la valle in un museo e perpetuerà l’idea che loro sono pittoreschi e diversi dagli altri francesi. Sono anche contrari al regolamento urbanistico del parco che, per quanto riguarda il restauro delle case, impone l’uso di materiali tradizionali, come l’ardesia, che adesso sono estremamente costosi. Il progetto del parco prevede anche la costruzione di tre impianti (che gli agricoltori considerano costosi) per il trattamento dei rifiuti e di un laboratorio di ricerca dell’Università di Marsiglia. Gli abitanti hanno accolto questa notizia con grida e fischi: quale beneficio possono mai avere da un laboratorio universitario?”

In Francia la realtà del radicato dirigismo e la mentalità tecnocratica hanno indubbiamente pesato negativamente sull’istituzione dei Parchi; in Italia, a volte la costituzione di aree protette è partita effettivamente “dal basso” ma anche qui la società rurale si è vista calare dall’alto delle iniziative che, almeno nella prima fase di vita dei Parchi, parevano apportare solo svantaggi alla società rurale locale. Dagli anni ’70 ad oggi fortunatamente molte cose sono cambiate. Rispetto ai progetti di sviluppo turistico e di “parchizzazione” calati dall’alto si attribuisce molta più importanza al coinvolgimento delle popolazioni locali e i progetti di sviluppo locale (ruolo delle attività di animazione sociale e culturale, Gruppi di Azione Locale).

La descrizione di presta ad alcune interessanti considerazioni: il disporre di un territorio in modo dirigistico senza riguardo per le forme tradizionali di utilizzazione agro-silvo-pastorale con la pretesa di una gestione “scientifica” naturalistica rappresenta una sorta di un nuovo paternalismo autoritario (le popolazioni locali non sono mature o sono troppo facilmente strumentalizzabili da interessi speculativi, le amministrazioni locali non hanno capacità progettuale.....). In questi atteggiamenti emerge la vecchia cultura giacobina, la diffidenza per l’autonomia locale e per la cultura rurale.

Di fatto il Parco, concepito e gestito in sintonia con una cultura protezionistica fortunatamente in fase di superamento, rappresenta un elemento di continuità con la riserva di caccia signorile: un ambito dove le attività agrosilvopastorali delle comunità rurali erano precluse o soggette a limitazioni al fine di mantenere l’habitat adatto per la presenza dei grossi ungulati. La selvaggina grossa proprietà intangibile del signore era “protetta” dal bracconaggio da severissime sanzioni penali (nel medioevo e oltre la pena capitale mediante impiccagione). L’introduzione del divieto di caccia, di forti vincoli alle attività agricole e agrosilvopastorali e persino ad attività come la raccolta dei funghi -indipendentemente da alcuna considerazione circa gli impatti positivi e negativi di queste attività- è stata percepita dalle comunità locali come una forma di esproprio tale da rinnovare le forme arroganti del passato. Questa percezione è stata rafforzata dalla constatazione che, almeno in una fase storica che si spera almeno in parte conclusa, il “Sistema delle aree protette” è stato gestito con criteri che spesso hanno avuto poco a che fare con preoccupazioni di ordine naturalistico relative all’effettivo mantenimento degli equilibri ecologici e alla realizzazione di miglioramenti e recuperi ambientali. Gli Enti Parco sono stati troppo spesso caratterizzati come altri enti pubblici dalla logica clientelare della distribuzione di poltrone, incarichi professionali, posti dirigenziali e posti di lavoro con il risultato che buona parte delle risorse sono state assorbite dalle “spese correnti” o da interventi di immagine) o, tutt’al più, finalizzati all’accoglienza dei “visitatori” e all’aspetto educativo-turistico. E’ abbastanza comprensibile che l’accettabilità sociale da parte del mondo rurale dei vincoli posti alle attività agricole all’interno delle zone protette è stata condizionata negativamente da tutti gli aspetti ricordati:

• la scarsa connessione tra i vincoli e la “zonizzazione” e le effettive esigenze naturalistiche e di orientamento dell’attività agricola in termini di compatibilità ambientale;
• la riproposizione nell’ambito della gestione dei “Parchi” di deteriori prassi politico-amministrative particolarmente stridente con la conclamata missione ambientale;
• l’assenza di incentivi, compensazioni, nuove opportunità a fronte delle limitazioni imposte (conservazione statica);
• la percezione della finalizzazione delle attività di tutela a vantaggio di interessi estranei all’ambiente rurale.

La percezione del Parco come “Parco divertimento” dei cittadini a spese della popolazione rurale è quanto di peggio le aree protette potessero produrre; per fortuna dopo la fase dell’ambientalismo fortemente urbanocentrico, illuminista e giacobino (forse anche per l’influsso di quanto in atto in altri paesi) ci si è resi conto da parti degli “enti gestori” che le testimonianze e le attività legate alla vita e alla cultura contadina rappresentano una risorsa preziosa e che per garantire nel tempo, la manutenzione, e qualità del territorio specie sotto il profilo paesaggistico risulta più efficace ed economico poter contare sulla capillare attività degli operatori agrozootecnici e pastorali e …. Dei loro animali.
L’uomo non è più un “disturbo” in grado di “contaminare” l’ “oasi felice” del Parco e ci si è resi conto che le pratiche agricole tradizionali contribuiscono a mantenere e migliorare il paesaggio e la biodiversità …. dd ad attirare turisti e finanziamenti pubblici facendo (giustamenente) leva sulla crescente attenzione per le produzioni territoriali di qualità e di nicchia, selle varietà di piante e razze di animali “trascurate” o in via di estinzione.

Dal conflitto alla collaborazione: la ricerca del consenso

Alcuni marchi di qualità alimentare dei prodotti sono stati sviluppati per primi da alcuni (Parco del Ticino in Lombardia, Parco Paneveggio Pale di S.Martino in Trentino); sono poi seguite altre iniziative.

Tra le esperienze più avanzate di supporto attivo di un Parco alle attività agrozootecniche presenti all’interno del proprio perimetro citiamo quella del Parco naturale Paneveggio Pale di S. Martino (Trento) limitandoci a indicare le iniziative da esso promosse a favore della filiera zootecnico-casearia (produzione foraggera dei prati e, sopratutto, dei pascoli, ricadenti per la stragrande maggioranza all’interno del Parco, produzione di formaggi tipici da parte del locale Caseificio sociale di Primiero); esse hanno riguardato:
• promozione di un indagine da parte dell’Ente Sviluppo Agricolo Trentino (Esat) sulle tipologie pascolive e prative;
• concessione di contributi per il mantenimento dei prati e dei pascoli sulla base della differente valenza ambientale (individuata attraverso l’indagine sulle tipologie) al fine di incentivare la continuità di utilizzo anche di quelle situazioni dove la coltivazione non è eseguita da agricoltori a titolo principale (in grado di usufruire dei contributi provinciali) e dove non è possibile la meccanizzazione delle operazioni di sfalcio e raccolta del foraggio;
• integrazione del reddito agricolo sotto forma di incentivi per la realizzazione di coperture tradizionali degli edifici rurali (con scandole ) e per il mantenimento dei tratti caratteristici delle sistemazioni esterne dei fabbricati, per la realizzazione di recinzioni in forma tradizionali (steccati) in sostituzione del filo di ferro (o, peggio, spinato);
• finanziamento di due studi sulla caratterizzazione dei formaggi prodotti con latte prodotto in malga: analisi della biodiversità batterica del formaggio “Nostrano di Primiero” e analisi innovative (isotopiche e aromatiche) per la marcatura dei formaggi prodotti con latte di malga;
• utilizzo del logo del Parco sul formaggio prodotto dal caseificio locale;
• organizzazione di escursioni guidate (con personale del Parco) alle malghe e di dimostrazioni presso le medesime di dimostrazioni di caseificazione e di degustazioni;

Parole d’ordine come “qualità territoriale” “marketing territoriale” “certificazione di compatibilità ambientale di filiera” sono oggi moneta corrente nei piani dei Parchi mentre diversi Parchi promuovono progetti basati sul pascolo di ovini ed equini (Sibillini con la pecora Soparvissana, Froane con la pecora Brianzola, Monte Barro con gli asini). Nel Parco del Monte Barro il pascolo con gli asini mira a proteggere preziosi endemismi che la “rinaturalizzazione” (ma in realtà il processo di abbandono è un processo sociale che contrasta con millenni di un influsso antropico con caratteri esso stesso di fattore “naturale” di creazione del paesaggio) mette a rischio. Nel Parco delel Groane salvando una razza in via di estinzione (la pecora Brianzola) si ottiene l’obiettivo di “salvare” un paesaggio vegetale semi-naturale tipico quale la brughiera a Calluna vulgaris.

Emblematica del superamento della fase di atteggiamento fortemente conflittuale tra Enti Parco e attività agrosilvopastorali, ( anche perché riguarda il primo Parco Nazionale istituito in Italia: quello del Gran Paradiso già riserva di caccia dei Savoia) è la testimonianza del Dr.Emanuele Dupont, Direttore della ricerca applicata all’Institute Agricole Régional di Aosta:

“Fino a 10 anni fa, se avessero potuto far scomparire le vacche dai nostri alpeggi, i dirigenti dell’Ente Parco sarebbero stati contenti. Oggi invece si sono resi conto che esiste un equilibrio tra quello che mangiano le vacche e quello che poi mangiano gli stambecchi e camosci; sono quindi gli stessi dirigenti dell’Ente Parco che chiedono agli allevatori di andare in alpeggio. Addirittura gli alpeggi di proprietà del Parco Nazionale del Gran Paradiso sono affittati a titolo gratuito agli allevatori che salgono in malga. Si è quindi completamente rovesciata la situazione”

Uno dei temi Progetto di “adozione” da parte dei Parchi di razze autoctone di specie di animali di interesesse zootecnico in via di estinzione: In realtà, pur non esistendo in Italia razze esclusive di Parchi o altri tipi di aree protette sono numerose le razze autoctone a limitata diffusione meritevoli di azioni di salvaguardia e valorizzazione: I Parchi in quanto ambiti di valore naturalistico e paesistico coincidono spesso con territori montani e collinari dove i sistemi di allevameno estensivi e i tipi genetici sono diffusi. La presenza delle razze autoctone in un Parco può costituire un motivo di particolare interesse dal momento in quanto elemento di un agroecosistema consolidato nel tempo in grado di contribuire ad una gestione delle attività agropastorale perfettamente compatibile con gli obiettivi di tutela dell’ambiente e del paesaggio perseguiti dal Parco. Un ruolo attivo del Parco per migliorare le condizioni di commercializzazione dei prodotti locali legati alle razze autoctone appare cruciale per miglioreare il reddito degli allevatori e facilitare l’adozione di criteri di gestione delle attività zootecniche e segnatamente del pascolamento, in sintonia con gli obiettivi del Parco. L’incoraggiamento di forme di pascolo regimato e con bassi carichi finalizzato anche al contenimento delle infestanti dovrebbe essere previsto nei piani di gestione delle aree protette mentre il divieto dovrebbe essere contemplato solo in particolari condizioni di vulnerabilità o di particolari elementi faunistici e botanici.


La questione forestale

Anche se non mancano segnali di un rapida modificazione dell’atteggiamento degli Enti Parco e di esponenti delle organizzazioni protezioniste (vedi oltre) non si può non rilevare come la cultura ambientalista in Italia sia ancora profondamente intrisa di pregiudizi antiruralisti e da una visione stereotipata dei problemi ambientali che rivela una profonda ignoranza della realtà territoriale concreta. Un esempio interessante è fornito dalla puntuale e ricorrente “emergenza incendi” che tutte le estati occupa tanto spazio sulla carta stampata e nei notiziari televisivi (un pò a corto di notizie). A parte i toni drammatici con cui si da notizia della “perdita di centinaia (sic!) di ettari” vengono somministrati dati statistici sulle superfici distrutte che potrebbero indurre l’ingenuo lettore/ascoltatore a credere che nel giro di pochi anni si potrà determinare la completa desertificazione del patrimonio forestale italiano. Con questa informazione emotiva, distorta e superficiale i reali problemi sociali ed ecologici, del territorio, di rilevante portata per la società nel suo complesso, restano del tutto sconosciuti alla gran parte dei cittadini. Le conseguenze di questa scarsa qualità dell’informazione relativa ai problemi del territorio rurale non sono da poco. L’approccio spettacolare e disinformativo ai problemi della salvaguardia ambientale rappresenta un pretesto e quindi una condizione per la perpetuazione di scelte politiche, legislative e amministrative profondamente sbagliate. Proprio sul tema degli “incendi boschivi” si deve lamentare il persistere di una normativa che scoraggia l’opera di manutenzione e cura del territorio attraverso l’attività pastorale (vedi) e di una politica che privilegia l’adozione di costosi mezzi di avvistamento e di spegnimemento (in grado di alimentare un considerevole giro di commesse, di appalti, di forniture) e che persevera in una politica clientelare di “riforestazione” che, come denunciato dai Servizi Segreti, in alcune regioni, vede gli operai forestali ed i “lavoratori socialmente utili” responsabili degli incendi dolosi, ma anche uno strumento di rafforzamento del controllo della criminalità organizzata sul territorio.

La “tutela del bosco” rappresenta un “luogo ideologico” irresistibile per certa cultura che si nutre di stereotipi. Difficile non cedere alla tentazione di ascrivere questa tendenza ai caratteri costitutivi della cultura degli intellettuali italiani che si alimenta di immagini letterarie e di ideologismi piuttosto che di ispirazioni e riferimenti alla realtà concreta . Dall’ Arcadia luogo letterario di una natura idealizzata e umanizzata alla “nuova Arcadia” di certo protezionismo che trae ispirazione da un modello altrettanto idealizzato di una natura deumanizzata. Come spiegare altrimenti il fatto che ancora oggi autorevoli “firme” giornalistiche di ispirazione ambiental-progressista citino tra gli scempi ambientali responsabili del degrado del territorio il “taglio indiscriminato dei boschi”. Si direbbe che nell’immaginario dell’intellettuale italiano progressista siano rimasti indelebilmente impressi gli echi polemico-letterari dei tagli massivi effettuati nelle aree montane per alimentare di combustibile, prima della diffusione dell’utilizzo del carbone fossile, la nascente industria tra ‘700 e ‘800 (e ascritti dalla storiografia veteromarxista alla rapacità speculativa del paleocapitalismo). Dopo i disboscamenti “indiscriminati” effettuati negli anni ’40 el ‘900, motivati dal venir meno durante la guerra del rifornimento di carbone e della necessità di procurarsi legna da ardere sul posto, gli anni ‘50 e ‘60 sono stati contraddistinti da una forte attività di rimboschimento e, successivamente, si è verificata l’estensione “spontanea” della superficie boscata per l’abbandono di prati e pascoli. Nel frattempo la “memoria storica” dei disboscamenti “storici” influenzando anche gli orientamenti tecnico-scientifici e normativi ha introdotto l’estensione dei vincoli forestali ed idro-geologici e severe limitazioni allo sfruttamento selvicolturale che hanno modificato in modo le modalità di esecuzione dei tagli riducendo drasticamente (specie nella nostra regione) quelli “a raso”. L’applicazione di tecniche di taglio colturale e di avviamento all’alto fusto, finalizzate ad ottenere popolamenti più strutturati e quindi più condizioni di maggiore naturalità in sintonia con le funzioni protettive e ricreative del bosco, ma, sopratutto, la riduzione del valore del legname in piedi nelle zone dove l’esbosco risulta meno meccanizzabile, la minor redditività dell’esercizio dell’attività economica di utilizzazione boschiva (con la conseguenza della rarefazione delle aziende), la riduzione della popolazione rurale (e quindi dell’esecuzioni del taglio di lotti di legname da ardere) rappresentano altrettante cause che hanno ridotto le provvisioni legnose. Quindi più superficie boscata e minor grado di utilizzazione. Invece che lamentare i “tagli indiscriminati” anche da parte dei tecnici forestali si individua nella scarsa utilizzazione dei boschi una causa del loro degrado auspicando un allentamento dei vincoli che limitano le utilizzazioni boschive. Politiche di incentivazione per la meccanizzazione forestale e per il settore della prima trasformazione (segherie) sono peraltro state attivate dalle Regioni al fine di cercare di mantenere e, possibilmente aumentare i “tagliatori”. Anche la creazione dei Consorzi Forestali ha l’obiettivo di promuovere le utilizzazioni boschive e la nuova legge forestale della Regione Lombardia (ancora in corso di discusisone nell’estate 2003) prevede contributi per ogni m3 di legname tagliato. Come si vede la consapevolezza che le priorità cambiano e che le “convinzioni scientifiche” sono opinabili e spesso condizionate da interessi sociali precisi si sta facendo strada almeno per quanto riguarda la rottura di alcuni tabù forestali.

La “questione forestale” è stata storicamente condizionata da posizioni ideologiche che nascondono conflitti sociali anche aspri sull’utilizzo delle risorse territoriali. In Francia l’attacco ai diritti e alle proprietà comunitarie, premessa della penetrazione dell’economia capitalista nelle campagne e nelle montagne si accompagnò alla cosidetta “polemica forestale” che vide protagonisti i geografi e il corpo forestale francese. Con la Rivoluzione le comunità locali erano state espropriate del controllo delle loro risorse. Il potere locale era passato da organismi eletti democraticamente ai sindaci nominati dai prefetti ed erano stati creati apparati amministrativi dipendenti dal centro con il compito di controllare capillarmente il territorio attraverso uno stuolo di funzionari rigidamente irrigimentati e militarizzati.

“Nel 1827 le autorità centrali promulgarono un complesso regolamento forestale che rendeva le foreste patrimonio della nazione: su queste lo Stato poteva dunque esercitare uno strettissimo controllo. Gli interessi commerciali e industriali erano salvaguardati ma ai contadini fu enormemente ridotto l’utilizzo di foreste e di pascolo. La trasformazione di queste risorse da locali a nazionali fu devastante per le comunità montanare che dipendevano dalle foreste per rifornirsi di legna da ardere, materiali da costruzione e per i pascoli. In tutta la Francia i contadini vi si opposere e in alcune zone dei Pirenei naque una vera e propria guerriglia (…) fino all’Ottocento i villaggi del Brianzonese erano riusciti a contrastare la volontà delle autorità centrali e a mantenere la loro autonomia nella gestione del patrimonio forestale. Ma lo Stato si interessò di nuovo alle foreste del villaggio, risorse naturali molto utili, specialmente per la cantieristica navale. La richiesta di legname da parte dei militari coincise con una campagna della pubblica amministrazione tesa a promuovere una gestione ‘scientifica’ delle foreste per aumentarne la produttività”.

A proposito dell’importanza del legname in quanto ‘risorsa strategica nazionale’ per la cantieristica navale Weber ha fatto osservare che quando le foreste poste sotto tutela e sottoposte alla gestione ‘razionale’ o create con il rimoschimento nella prima metà dell’ XIX raggiunsero la fase dell’utilizzazione economica la cantieristica non aveva già più bisogno di legname poiché le navi erano costruite in ferro. Nel frattempo, però, vaste zone della Francia rurale avevano subito un forte spopolamento. In realtà la finalità strategica della “politica forestale” può essere interpretata come un elemento fondamentale di una più ampia strategia di inglobamento delle comunità contadine nell’economia capitalistica con l’obiettivo di incanalare le comunità rurali verso attività economiche in grado di fornire materie prime per il mercato o verso l’emigrazione. E’importante chiarire in passato le comunità alpine erano state tutt’altro che immobili e incapaci di sfruttare le opportunità del mercato. Nell’età moderna le comunità alpine avevano svolto spesso un ruolo di protagoniste nei commerci e l’emigrazione era legata ai commerci stessi ed ad iniziative imprenditoriali. Il commercio di pecore, carni, pelli, formaggi ovini del Queyras che coinvolgeva il Midi della Francia e il Piemonte, il commercio di bestiame, latticini, fieno, legname dei bergamini lombardi, mettono in evidenza come la montagna era in grado di intraprendere strategie imprenditoriali attive che smentiscono l’immagine di comunità addormentate in un’economia e un’emigrazione stagionale di sopravvivenza.
L’inserimento nel mercato cui spingevano la tassazione, le norme forestali, la perdita dei diritti collettivi rappresentava un inserimento nel mercato subalterno, alle condizioni di una economia capitalistica che aveva altrove i suoi centri decisionali e che fu possibile solo dopo la perdita dei diritti politici parallela al rafforzamanto di strutture statali centralizzate e burocratizzate.
L’attacco alle comunità aveva bisogno, però, anche di una legittimazione ideologica. Ad essa provvedettero coloro che dipinsero i montanari come individui chiusi e selvaggi e, sul versante “scientifico” gli esperti agricoli e forestali che si preoccuparono di dimostrare l’irrazionalità dei sistemi agro-silvo-pastorali tradizionali.
L’ing. Surell, un amministratore forestale, nel 1841 con la sua pubblicazione “Etude sur les torrents des Hautes-Alpes, elabora la teoria del disboscamento per mezzo di incendi e abuso di pascolo come fattore essenziale dell’erosione e della torrenzialità.
[Lo studio di Surell]“divenne la bibbia dell’Amministrazione Forestale Dipartimentale. Quello studio fornì le argomentazioni per sottrarre ai montanari la gestione delle foreste provando come gli usi comunitativi di pascolare le greggi nelle foreste, oltre al taglio e alla pulizia dei boschi, avessero favorito un incremento delle alluvioni che nei due secoli precedenti avevano eroso grandi aree delle foreste delle Hautes-Alpes”
Le tesi di Surell ebbero risonanza e, in seguito, nel 1860, vennero fatte proprie dal famoso geografo Elisée Reclus e da forestali come Demontzey e Mougin In realtà diversi studiosi (forestali, geografi, botanici quali Lenoble, 1923; Blanche, 1923; Fourchy, 1944; Vigier, 1963) hanno messo in evidenza come la minor copertura dei versanti mediterraneo e meridionale delle Alpi siano da mettere in relazione a condizioni di suolo e di clima. Essi hanno dimostrato come la mancanza di copertura forestale delle zone individuate da Surell non fosse dovuta alla gestione delle comunità rurali ma che, semplicemente, tali zone si trovavano al di sopra del limite della vegetazione arborea. E’ certo che in condizioni di forte umidità la rigenerazione spontanea del bosco è più facile dopo i disboscamenti (come avviene nelle aree a Nord della catena Alpina) ed è altrettanto certo che la formazione del sottobosco nelle foreste di conifere è ostacolata dalla forte acidità determinata dall’accumulo al suolo degli aghi delle conifere. La confutazione dopo un secolo delle teorie di Surell negli anni ’40 del XIX secolo godettero di grande credito. La Rosemberg ha colto con parole di grande efficacia il senso socio-economico delle questione:

“Visto l’interesse dello Stato nei confronti del paptimonio forestale, conveniva giudicare inadeguata le gestione contadina del territorio. Terreni a pascolo, terre incolte, brughiere e tutti quei terreni che i contadini consideravano pascoli potevano essere considerate come aree da riforestare e da proteggere dalla ‘devastazione’ delle greggi di pecore . Eserciti di guardie forestali invasero i villaggi per le loro campagne contro l’allevamento ovino. Ai contadini fu impedito di portare al pascolo le pecore e, talvolta, anche le mucche, nei soliti alpeggi. Negli anni Quaranta diminuì il numero delle greggi negli alti villaggi alpini e i contadini furono privati di uno dei loro principali strumenti di acquisizione di denaro e di partecipazione al mercato. Nel suo rapporto del 1841 un sottoprefetto del Brianzonese notava come la regolamentazione sull’uso delle foreste provocasse una crisi di sussistenza dovuta alla rapida diminuzione delle dimensione delle greggi (…) La legislazione forestale non fu d’impedimento ai contadini soltanto nelle loro operazioni produttive e mercantili; fu una minaccia anche per le loro finanze. Gl i agenti forestali avevano il potere, che spesso usarono, di comminare multe per importi incredibilmente alti.”


Tabella – Parametri utilizzati in Svizzera per la conversione a Unità Bestiame Grosso
Animali della specie bovina
Allevamento e reddito
Vacche (senza le vacche madri e nutrici) 1,0
Tori e giovenche di oltre 2 anni 0,6
Bestiame giovane da 1 a 2 anni 0,4
Bestiame giovane fino a 1 anno 0,25
Tenuta di vacche madri e nutrici
Vacche madri e nutrici (senza i vitelli), vacche da ingrasso 0,8
Vitelli di vacche madri e nutrici fino a 1 anno 0,17
Ingrasso di bestiame grosso
Giovenche, tori e buoi di oltre 4 mesi 0,4
Vitelli per l’ingrasso di bestiame grosso fino a 4 mesi 0,08
Ingrasso di vitelli
Vitelli da ingrasso (2,8–3 cicli per posta) 0,1
Animali della specie equina
Giumente in lattazione e pregne 1,0
Puledri accompagnati dalla giumenta (compresi nel coefficiente della madre) 0,0
Altri cavalli di oltre 3 anni 0,7
Altri puledri fino a 3 anni 0,5
Muli e bardotti di ogni età 0,4
Pony, cavalli piccoli e asini di ogni età 0,25
Ovini
Pecore munte 0,25
Altri ovini di oltre 1 anno 0,17
Capretti fino a 1 anno (compresi nei coefficienti degli animali di sesso femminile) 0,0
Agnelli magri (ingrasso) fino a 1/2 anno che non devono essere compresi nelle madri (ingrasso di agnelli magri di un anno) 0,03
Caprini
Capre munte 0,2
Altri caprini di oltre 1 anno 0,17
Capretti fino a 1 anno (compresi nel coefficiente dell’animale di sesso femminile) 0,0
Capre nane: tenuta di animali da reddito (grandi effettivi, a scopo di lucro) 0,085
Altri animali da reddito che consumano foraggio grezzo
Bisonti di oltre 3 anni (riproduttori adulti) 0,8
Bisonti fino a 3 anni (allevamento e ingrasso) 0,4
Daini di ogni età 0,1
Cervi di ogni età 0,2
Lama di oltre 2 anni 0,17
Lama fino a 2 anni 0,11
Alpaca di oltre 2 anni 0,11
Alpaca fino a 2 anni 0,07
Conigli
Conigli di ogni età 0,009
Suini
Scrofe riproduttrici in lattazione (durata di lattazione 4–8 settimane, 5,7–10,4 cicli per posta) 0,55
Lattonzoli (compresi nel coefficiente della madre) 0,0
Scrofe riproduttrici non in lattazione di più di 6 mesi (ca. 3 cicli per posta) 0,26
Verri riproduttori 0,25
Suinetti svezzati (trasferiti per l’ingrasso con ca. 25 kg, 8–12 cicli o trasferiti per l’ingrasso con ca. 35 kg, 6–8 cicli per posta) 0,06
Rimonte e suini da ingrasso (ca. 3 cicli per posta) 0,17
Pollame da reddito
Galline da allevamento, galli da allevamento e ovaiole 0,01
Pollastrelle, galletti o pulcini (senza i polli da ingrasso) 0,004
Polli da ingrasso di ogni età (durata d’ingrasso ca. 40 giorni; 6,5–7,5 cicli per posta) 0,004
Tacchini di ogni età (ca. 3 cicli per posta) 0,015
Ingrasso preparatorio di tacchini (ca. 6 cicli l’anno) 0,005
Ingrasso di tacchini 0,028
Struzzi fino a 13 mesi 0,14
Struzzi di oltre 13 mesi 0,26
Altri coefficienti di conversione sono calcolati, se necessario dall’Ufficio federale dell’agricoltura in funzione dell’escrezione di azoto e fosforo degli animali.


Produttivismo e “post-produttivismo”

Le posizioni sui problemi agricoli non sono riconducibili solo a due visioni: produttivismo da una parte e sviluppo rurale dall’altra. Le posizioni ideologiche sono più complesse e bisogna comprendere come si sono formate. La visione produttivista non è sostenuta solo da chi ha interessi legati all’industria ma è anche saldamente radicata anche presso i produttori agricoli che hanno costruito –per decenni- la loro identità sociale, professionale, personale sulla loro funzione di produttori efficienti di prodotti alimentari. Per far comprendere ai produttori che il produttivismo può essere una trappola senza uscita non bisogna prenderli di petto parlando di multifunzionalità e sostenibilità ambientale. La politica produttivista degli anni ’60-’80 del secolo scorso era motivata da due obiettivi che, inizialmente, nel contesto della nuova comunità economica europea, rivestivano forte valenza sociale: garantire la sicurezza degli approvvigionamenti alimentari ad un Europa che si ricordava ancora delle penurie della guerra e consentire alle aziende famigliari di ottenere un reddito soddisfacente ad assicurare dignità e motivazioni economiche per la prosecuzione dell’attività agricola. Il meccanismo del sostegno al reddito attraverso i prezzi garantiti innescò una crescita produttiva vertiginosa grazie all’impiego massivo di mezzi tecnici (meccanizzazione, pesticidi, mangimi, concimi chimici) che presto divenne senza controllo. Nonostante le ingenti risorse investite nel sostegno dei prezzi (distruzione di derrate alimentari, esportazioni sottocosto, ammassi) che per molto tempo hanno divorato il bilancio comunitario le eccedenze produttive negli anni ’70-’80 raggiunsero livelli ingestibili mentre ci si cominciava a rendere conto dei danni ambientali prodotti dall’agricoltura e dalla zootecnia. Seguirono l’introduzione delle quote fisiche di produzione, i premi per il ritiro dei seminativi dalla produzione e l’abbattimento del bestiame ecc. Per quanto distorta (in funzione degli interessi industriali) per gli ex-contadini europei (divenuti farmers) la modernizzazione aveva comportato l’accesso ad una condizione sociale ed economica che li riscattava da una condizione di inferiorità sociale rispetto alla società urbana. La logica produttivistica comporta la centralità della produzione in termini fisici e della produttività (per capo, per ha) fino a far dimenticare che la produzione è un mezzo per produrre un reddito per il produttore e per soddisfare i bisogni del consumatore e non un fine. Una volta entrato nel meccanismo di integrazione nel sistema agroindustriale il produttore agricolo si trova, però, inserito in un meccanismo che condiziona la difesa del reddito all’aumento dell’intensificazione e della scala produttiva. Il valore aggiunto della produzione agrozootecnica diventa sempre più piccolo rispetto alla quota degli input produttivi e sempre più piccolo rispetto al valore del prodotto finale acquisto dal consumatore . Egli deve produrre di più aumentando gli input, ma la specializzione e la concentrazione produttiva fa scendere i prezzi dei prodotti e innesca una spirale senza fine in cui l’industria può ottenere materia prima agricola a prezzi sempre più bassi e vendere agli agricoltori sempre nuove tecnologie, attrezzature e mezzi tecnici. Non è nell’interesse dell’agricoltore restare all’interno di questa spirale che condiziona il reddito alla produzione. E’innegabile, però, che egli non sia neppure entusiasta di divenire un “giardiniere dell’ambiente” o qualcosa di simile. Teme di passare dalla dipendenza (relativamente impersonale) dell’industria e del mercato a nuove forme di dipendenza più sgradite perché personali o perché legate al capriccio di politici e burocrati. La prospettiva di passare dal ruolo di produzione di alimenti e di un utilizzo produttivo della terra ad un ruolo di produzione di servizi contrasta poi con una cultura pre-produttivistica ancora radicata nel mondo rurale, legata alle tradizionali culture agrarie che nell’attività agricola vedono non solo un elemento utilitaristico, ma anche una funzione morale legata all’ “accudimento” della natura e degli animali e al mantenimento di un ordine sociale e cosmico minacciato dalle forze del caos. Ciò spiega perché non è solo la grande azienda agrozootecnica industrializzata a “snobbare” le misure agroambientali e come la distinzione tra produttivismo e i nuovi paradigni “post-produttivisti” dello sviluppo rurale e della multifunzionalità non coglie la complessità dei conflitti sociali e delle posizioni ideologiche che si muovono sul terreno dell’agricoltura e della ruralità all’inizio del XXI secolo. Lo sviluppo di una “nuova ruralità” che può coincide con un tipo di “consumo verde” del territorio che assume le forme di un nuovo colonialismo urbano e rappresenta una forme di subordinazione e di ridimensionamento dell’agricoltura e del mondo rurale tradizionale . Il sociologo rurale inglese Marsden ha individuato tre dinamiche differenti: agroindustriale che comporta l’esasperazione delle logiche produttiviste, post-produttivista, coincidente con il “consumo verde” dello spazio rurale e di sviluppo rurale, caratterizzata da un nuovo ruolo dell’agricoltura, dalla rivalorizzazione di valori rurali già compromessi, dal radicamento territoriale delle filiere alimentari . Una proposta di caratterizzazione di tre linee che si contendono lo spazio rurale e che a nostro avviso riflette anche la realtà italiana è contenuta nella seguente Tabella .

Tabella I discorsi che si contendono le arene del rurale
Agroindustrialismo
(“produttivismo”)
(1) produttivismo, retorica ruralista ma disinteresse per cultura e identità rurali, distacco dell’agricoltura dalla dimensione rurale, crescente applicazioni tecnoscientifiche alla produzione agricola, manipolazione biotecnologica del vivente, prevalenza dei saperi esperti nella trasmissione delle consoscenze, standardizzazione, strategie di dislocazione produttiva verso aree a bassi costi.
Ruralismo urbano
(“neoruralismo”)
(2) rurale come estetica (del paesaggio, del cibo), “rurbanizzazione”, risorsa residenziale e fruizionale (“iddilio rurale”, spazio rurale come giardino), motivo gastronomico e turistico, conservazionismo ambientale, tradizioni museificate e mercificate, conflitti potenziali con la produzione agricola, ratificazione dell’inferiorità sociale mediante l’imposizione dall’alto di norme ambientali e comportamenti.
Agriecoruralismo
(“neocontadinismo)
(3) ridefinizione di una centralità dell’agricoltura nella dimensione rurale, focus su identità e dimensione territoriale, convergenza e ricomposizione natura-cultura e natura-società, possibile contrasto alla globalizzazione agro-alimentare, valorizzazione di vocazioni regionali mediante reti di alleanze, capacità di determinazione delle condizioni di mercato.


4. - Territorio, ecosistema, ambiente.

Cos’è il territorio? Qualcosa sulla bocca di tutti: politici, esperti di cose agricole, consumatori “evoluti”. Eppure per molti si ratta di un concetto vago o ridotto alla banalità di un’estensione spaziale, coincidente con ambiti politici o amministrativi. Per alcuni il territorio è determinato unicamente su basi storiche, per altri fisiche (per esempio idrografiche), altri è il supporto spaziale di attività e insediamenti umani. Magnaghi (urbanista territorialista attento alle dinamiche rurali) definisce il territorio come l’ambito dell’interazione tra la comunità umana insediata (con le sue specifiche culture) e ambiente e anche la “Realtà dinamica e pluristratificata risultato dell’interazione comunità-ambiente nel corso della storia”. E’ una definizione che supera la distinzione tra modulo naturale e modulo sociale quali compomenti del territorio anche se resta l’ indefinitezza della dimensione di «ambiente». Così come esiste una realtà sociale localizzata e una più ampia fino a comprendere la dimensione planetaria anche l’«ambiente» presenta una dimensione globale e dimensioni localizzate (ecosistemi).
Il concetto “ruralistico” di terroir che può ben essere tradotto con «territorio» riflette bene la coevoluzione tra pratiche produttive agricole e di trasformazione alimentare da una parte e caratteristiche naturali di un determinato ambiente dall’altra. Nei prodotti legati all’origine territoriale vi è un intreccio di specificità culturali e naturali; è l’interazione tra di esse che determina le caratteristiche di peculiarità. Ciò presuppone un territorio omogeneo ed identificabile.



Appendice: (di Angela Panighetti)


Il body Condition Score o BCS

Il Body Condition Score è un metodo di valutazione visiva e tattile che consente di valutare la condizione corporea di un animale e, quindi, avere informazioni sullo stato nutrizionale dei soggetti considerati. In particolare, il BCS è un indicatore della quantità di tessuto adiposo sottocutaneo che possiamo ritrovare in alcune specifiche regioni anatomiche di una vacca, nonché delle quantità di riserve energetiche possedute dal soggetto valutato.
L’applicazione di questo sistema, ideato da Edmunson e sviluppato poi da Fergusson et Al., fornendo indicazioni di massima sulle razioni alimentari impiegate e sull’andamento riproduttivo della stalla, è uno strumento importante per capire e rimediare eventuali problemi che insorgono all’interno di una mandria.
Il BCS è basato sull’attribuzione, all’animale osservato, di punteggio che va da 1 a 5:
- Punteggio 1: vacca sottopeso, emaciata;
- Punteggio 2: vacca molto magra;
- Punteggio 3: vacca in forma;
- Punteggio 4: vacca grassa;
- Punteggio 5: vacca obesa.
Questa scala prevede anche punteggi intermedi di mezzo e un quarto di punto (ad esempio: 2,5 – 3,75 – 3,25 ecc.). Essendo una valutazione soggettiva, tra operatori diversi possono notarsi delle differenze che, solitamente, ai fini di una corretta valutazione, non vanno e non devono mai andare oltre il quarto di punto.

• Importanza del BCS

Come già accennato, il BCS è uno strumento che misura l’efficienza del programma alimentare. Avere vacche in condizioni corporee estreme, troppo magre o troppo grasse, che presentano un’alta incidenza di dismetabolie, con notevoli riflessi negativi sia nella produzione quali-quantitativa sia nell’efficienza riproduttiva, è il risultato di un’alimentazione non corretta. Le vacche da latte, infatti, perdono peso e, in particolare, depositi adiposi, nel primo periodo di lattazione, depositi adiposi che verranno recuperati, in presenza di corretti apporti nutritivi, nelle successive fasi di lattazione e in asciutta. La quantificazione delle variazioni dello stato d’ingrassamento delle bovine effettuata attraverso il BCS può quindi aiutare a perfezionare e/o adeguare il razionamento nelle diverse fasi della lattazione, evitando di avere così in stalla animali troppo grassi o troppo magri.
La presenza nella mandria di una notevole percentuale di vacche obese è frutto di un’alimentazione non adeguata negli ultimi mesi di lattazione, dove con l’abbassarsi della produzione di latte, la bovina tende a recuperare condizione corporea, accumulando riserve. Anche periodi troppo lunghi di asciutta o un’alimentazione troppo ricca in questa fase possono portare ad un’eccessiva condizione corporea. Avere una vacca grassa al parto non è sicuramente un aspetto positivo: la bovina avrà molto probabilmente un parto difficile e, subito dopo, mostrerà un’assunzione di sostanza secca molto limitata, con maggiore possibilità di problemi metabolici e cali produttivi.
Anche avere vacche estremamente magre è sintomo di una errata razione alimentare, a cui seguono, vista la mancanza di riserve corporee, abbassamenti di produzione e di tenore in grasso e proteine presenti nel latte. A ciò si aggiunge una riduzione della fertilità, con calori poco manifesti o silenti.
Da tutto ciò si può dedurre l’importanza che il BCS può assumere come supporto alla gestione nutrizionale, sanitaria e riproduttiva di una azienda.

• Quando effettuare il BCS

Il BCS può essere effettuato in momenti diversi. Esso varia nel corso della lattazione e, quindi, per avere quadro della mobilitazione delle riserve corporee delle vacche da latte, sarebbe opportuno rilevarlo più volte, ma tre sono i momenti topici nei quali misurare la condizione corporea delle vacche:
- Alla messa in asciutta
- Al parto
- Dopo 60-70 giorni dal parto
All’inizio della lattazione, dopo il parto, si assiste ad un notevole incremento della produzione di latte. Questo incremento giunge ad un massimo tra la quarta e l’ottava settimana dal parto, quando si ha il cosiddetto “picco di lattazione”. In questa fase l’apparato digerente della bovina non è in grado di accogliere il quantitativo sufficiente per poter rispondere ai nuovi fabbisogni: l’aumento della produzione di latte può così avvenire anche senza un adeguato apporto alimentare, poiché la vacca attinge alle proprie riserve corporee, fondamentalmente lipidiche, per sostenere tale produzione. Sarà comunque necessario che la capacità ingestiva aumenti il più in fretta possibile per non ridurre la produzione o utilizzare troppe riserve corporee.
Tra la decima e la quattordicesima settimana di lattazione si ha il picco di massima ingestione dopodiché il consumo di sostanza secca, vista la minore produzione lattea, diminuirà. È perciò il periodo che intercorre tra il picco di lattazione e quello di ingestione e che viene coperto dalle riserve corporee dell’animale a cui segue una sua riduzione di peso vivo: ecco perché si procede a rilevare il BCS al momento del parto e 60-70 giorni dopo lo stesso.
Dopo il picco di massimo consumo di sostanza secca, a mano a mano che la lattazione va avanti fino a che la vacca entra in asciutta, l’ingestione cala meno velocemente della produzione e in questo modo l’animale, se alimentato correttamente, recupera le riserve corporee perse nella prima fase di lattazione e, quindi, il suo peso vivo tende ad aumentare.
Concludendo, i soggetti dovrebbero essere almeno valutati tre volte:
- Entro un mese dal parto, per correggere eventualmente la razione degli animali che hanno partorito fuori condizione (vacche troppo grasse o troppo magre al parto);
- A metà lattazione, per verificare che la razione sia corretta;
- A fine lattazione, per adeguare a meglio la razione da impiegare in asciutta affinché le bovine giungano al parto nella corretta condizione corporea.
Il BCS può essere eseguito non solo su vacche da latte, ma anche su manze per verificarne la corretta gestione: se vi sono dei soggetti magri, si corre il rischio che raggiungano la pubertà più tardi, problemi di taglia inadeguata al primo parto e scarsa lattazione. Se, al contrario, le manze risultano essere troppo grasse, vi possono essere delle infiltrazioni adipose a livello della mammella con perdita di produzione lattea.

• Come effettuare il BCS

Il Body Condition Score si basa su un’osservazione visiva e tattile di alcune specifiche regioni anatomiche della bovina, come indicato in figura:

In particolare, le zone che vengono considerate per la definizione del BCS sono:

- L’ileo e l’ischio: con la mano, si procede a toccare queste due tuberosità, rilevando o meno la presenza di tessuto adiposo. È ovvio che tanto più queste prominenze sono spigolose, tanto più l’animale è magro. Al contrario, tanto più ileo e ischio sono arrotondati, tanto più il soggetto è grasso.

 

- Le apofisi spinose e trasverse delle vertebre lombari. Con la mano si vanno a tastare i processi costiformi delle vertebre lombari: tanto più il soggetto è deperito, tanto più visibili sono le apofisi. In un soggetto grasso, invece, bisogna esercitare con la mano una certa pressione per riuscire a rilevarle.

 

- Lo spazio compreso tra ileo e ischio (groppa), nella zona del bacino. Si procede ad osservare questo tratto ponendosi lateralmente al soggetto. Se quest’area assume l’aspetto di:
 Una “V”, l’animale è magro e avremo un BCS inferiore a 3,25.
 Una “U”, il soggetto è in forma e il punteggio sarà superiore a 3,25.
 Una “U piatta”, il BCS è superiore a 4, ho un animale grasso.

 

- I legamenti sacro-iliaco e sacro-ischiatico. Più sono visibili, più l’animale è emaciato. Meno visibili sono, più il soggetto è grasso.

 

Generalmente, ciascuna pubblicazione inerente al BCS riporta delle tabelle o dei quadri riassuntivi. Questi, oltre ad essere un importante supporto per i principianti o i non esperti, consentono di determinare il punteggio relativo alla condizione corporea di una vacca in via più sbrigativa. In allegato, si può prendere visione della tabella utilizzata principalmente ai fini di questo lavoro, desunta dalla pubblicazione: “Body Condition Score”, di G.Tolasi e A.Ruggeri, supplemento alla rivista Large Animals Review dell’aprile 2003, Edizioni Veterinarie.

• Punteggi di BCS

Verranno qui di seguito mostrati e brevemente spiegati i diversi punteggi di Body Condition Score, ricordando che sotto il 2 le valutazioni perdono di significato e quindi questa valutazione non verrà presa in considerazione.

- BCS = 2
Sono delle vacche magre che si possono riscontrare all’inizio della lattazione quando si verifica un bilancio energetico molto negativo. Possono esserci problemi riproduttivi, anche se l’animale sembra in buona salute.
I legamenti sacro-ischiatici e sacro-iliaci sono molto evidenti, così come i processi delle vertebre lombari. Ileo ed ischio sono molto spigolosi e la zona del bacino è a “V” molto pronunciata. Talvolta il pelo è in cattive condizioni, è ruvido.

- BCS = 2,5
Rappresenta lo stato nutrizionale minimo che si dovrebbe avere in un allevamento con una buona gestione. Si riscontra spesso in bovine ad alta produzione all’inizio della lattazione.
I legamenti sacro-ischiatici e sacro-iliaci sono evidenti, così come i processi delle vertebre lombari, moderatamente distinguibili al tatto. Ileo ed ischio sono molto angolosi e la zona del bacino è a “V” pronunciata.

- BCS = 3
È lo stato ideale di condizione corporea per molti stadi di lattazione e rispecchia delle situazioni di bilancio energetico positivo per gli animali. Il soggetto è in forma.
I legamenti sacro-ischiatici e sacro-iliaci sono visibili, ma con consistente copertura muscolare e moderati depositi adiposi. I processi spinosi e trasversi delle vertebre lombari hanno delle estremità distinguibili con una sensibile pressione della mano. Ileo ed ischio sono rotondeggianti e si iniziano a percepire i depositi adiposi. La zona del bacino è ancora a “V”. La cute è mordila ed estatica.

- BCS = 3,25
È il punteggio ideale per vacche a fine lattazione o in asciutta.
La forma del bacino è a “U”, tende pertanto ad arrotondarsi. I legamenti sacro-iliaci e sacro-ischiatici sono visibili, ma sono ben evidenti, accanto ad una buona copertura muscolare, dei depositi adiposi. L’ileo e l’ischio si presentano ben arrotondati e i processi costiformi sono distinguibili solo con una marcata pressione della mano.

- BCS = 3,5
E’ il punteggio ideale per le manze al primo parto o per le vacche in asciutta, prossime al parto. Rappresenta la condizione corporea massima che la bovina dovrebbe avere in lattazione.
La forma del bacino è a “U”, arrotondata. I legamenti sacro-iliaci e sacro-ischiatici sono appena visibili, considerevoli la copertura muscolare e i depositi adiposi. L’ileo e l’ischio si presentano ben arrotondati con modesti depositi adiposi. Le apofisi spinose e trasverse sono distinguibili al tatto solo con una intensa pressione.

- BCS = 4
Sono degli animali piuttosto grassi. Sia che le bovine sono in lattazione o che siano in asciutta, la razione è troppo energetica e porta gli animali ad ingrassare. C’è la necessità di rivedere l’alimentazione di queste bovine, soprattutto considerando che le vacche troppo grasse al parto dimagriscono di più e hanno una minore capacità di ingestione dopo il parto, oltre ad avere una maggiore possibilità di patologie post-parto.
La forma del bacino è a “U” leggermente piatta. I legamenti sacro-iliaci e sacro-ischiatici non sono visibili, rilevanti la copertura muscolare e i depositi adiposi. L’ileo e l’ischio si presentano molto arrotondati con notevoli depositi adiposi. Le apofisi spinose e trasverse sono distinguibili al tatto solo con una forte e intensa pressione.

- BCS = 4,5
Sono bovine troppo grasse, che possono presentare problemi soprattutto riproduttivi. Anche qui, c’è la necessità di rivedere il programma alimentare adottato.
La forma del bacino è a “U” piatta. I legamenti sacro-iliaci e sacro-ischiatici non sono visibili, neanche premendo notevolmente. L’ileo e l’ischio tendono al convesso, si ha massima copertura muscolare e rilevanti depositi adiposi. Le apofisi spinose e trasverse sono rotondeggianti e non più distinguibili.

- BCS = 5
Le vacche sono obese. C’è una maggiore probabilità che si verifichi la cosiddetta “sindrome della vacca grassa” con problemi al parto, chetosi, ritenzione della placenta ecc.
Tutte le prominenze sono arrotondate e coperte. A livello del bacino, la struttura scheletrica non è rilevabile nemmeno con una notevole pressione. Lo stesso dicasi per i legamenti sacro-iliaco e sacro-ischiatico. L’ileo e l’ischio sono convessi, si ha massima copertura muscolare ed eccezionali depositi adiposi. Le apofisi spinose e trasverse sono anch’esse convesse e non più distinguibili.

 

Fonte: http://www.ruralpini.it/file/Materiali%20didattici/dispensa_edolo.doc.doc

Sito web da visitare: http://www.ruralpini.it

Autore del testo: Michele Corti

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