Corso di educazione informale per docenti

Corso di educazione informale per docenti

 

 

 

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Corso di educazione informale per docenti


PARTIAMO DAI CONCETTI DI BASE: EDUCAZIONE E FORMAZIONE

Formazione: Per formazione il più delle volte si associa l’aggettivo professionale e si vuole intendere l’apprendimento e, quindi, l’attività di trasmettere, attitudini orientate allo svolgimento di una determinata attività lavorativa.

Educazione:
Intende il processo di integrazione sociale e di trasmissione culturale mediante il quale, nell’ambito di concrete situazioni storiche, ambientali e familiari, si struttura la personalità umana. A differenza della didattica la metodologia educativa si occupa non solo dei modi di trasmissione dei contenuti dell’apprendimento, ma anche di tutte le altre componenti che mirano alla formazione dell’individuo e sottintende di conseguenza un’organizzazione complessiva che prevede luoghi, oggetti, momenti, attività, persone ed esperienze specifici. La metodologia alla quale noi facciamo riferimento è quella nonformale caratterizzata da un rapporto relazionale e basata su di un apprendimento esperienziale con il quale non vogliamo dire che si “apprende” dall’esperienza ma si “apprende” come usare l’esperienza e, quindi, in una prospettiva valutativa, qualitativa e quantitativa ho “appreso” quando sono capace di riutilizzare quanto ho appreso dall’esperienza. Non si tratta di una ripetitività passiva ma una rielaborazione personale, olistico, che si sviluppa in un processo che necessita tempi lunghi.
L’educazione può essere:
Formale: necessita programmazione, è gerarchicamente strutturata; per intenderci inizia con le elementari e termina con la formazione e il più delle volte il contesto ha un carattere valutativo (voti);
Informale: processo quotidiano, non preorganizzato, è spontanea e non è finalizzata a qualcosa di specifico: vedo uno con i capelli verdi e li voglio fare anche io…(rapporti familiari, con gli amici, con estranei, etc.)
Nonformale: è caratterizzata da: un’attività organizzata con obiettivi ben definiti ed è rivolta ad un gruppo di riferimento, da una libera adesione dei destinatari a differenza della scuola dell’obbligo dove l’“adesione” è appunto obbligatoria, da una progressione delle attività in un processo esperenziale, grande importanza viene data al rapporto dei pari e a quello intergenerazionale con l’educatore/operatore. Gli obiettivi sono: contribuire allo sviluppo della leadership intesa come autodeterminazione, (auto)consapevolezza, autonomia dell’individuo e della membership intesa come sviluppo di un sistema valoriale di riferimento.
Le relazioni che si possono ritrovare singolarmente o alternate nei processi educativi sono:
Dall’alto verso il basso: processo maggiormente orientato al tirar dentro, l’attività dell’educatore/formatore è mirata al trasferimento di informazioni e nozioni al formando;

Dal basso verso l’alto: processo maggiormente orientato al tirar dentro, ma in senso opposto l’attività è mirata al trasferimento di informazioni e nozioni in un’ottica di aspettativa del formando rispetto al ruolo dell’educatore/formatore;

Relazionale: interscambio tra formando e educatore/formatore in un’ottica del tirar fuori in un processo di riflessione paritaria.

In genere il nostro ruolo di educatori si muove soprattutto nell’orbita dell’ultima tipologia di relazione che tende a creare, come vedremo più diffusamente dopo, un contesto avalutativo, di accoglienza e di ascolto. Vero è che qualunque contesto, educativo o formativo che sia, alternerà nello svolgimento delle sue attività tutti i momenti precedentemente indicati.

I punti in comune tra educatori/formatori e formandi
Qualità delle relazioni;
Attenzione ai processi che si vogliono mettere in piedi o che si mettono in piedi e condividerli;
Interscambio;
Non considerare i formandi come destinatari finali e per i formando non sentirsi tali perché parliamo di formando come soggettoprotagonista e parte attiva e non passiva del processo educativo;
Conoscenza e condivisione degli obiettivi: costruire in comune (accoglienza e ascolto) gli obiettivi che si vogliono perseguire;
Educatori/Formatori non come portatori di modelli o di metodo ma di valori e azioni esperenziali e di competenza intesa come la fusione delle 3 sfere:

 


 

MOTIVAZIONE
Ci consente di attivare le 3 sfere

 

CHE COS’È L’EAS
L’Educazione allo sviluppo fa parte delle cosiddette Nuove Educazioni Trasversali (alla mondialità, all’intercultura, all’ambiente, ai diritti, alla pace…) inizialmente espresse da soggetti della società civile diversi dalla scuola: organizzazioni non governative di cooperazione internazionale, associazioni di volontariato, parrocchie, enti culturali, sindacati e altri. L’Educazione allo sviluppo in particolare è nata durante il periodo di fervore terzomondista seguito alla decolonizzazione dell’Africa e in un primo momento si era caratterizzata soprattutto come Educazione alla cooperazione internazionale.

In quel contesto i destinatari principali non erano gli studenti e gli insegnanti, bensì gli appartenenti agli enti che promuovevano gli incontri e la società civile che si muoveva intorno ad essi.
La scelta di concentrarsi sull’ambito scolastico nasce da una considerazione che appare centrale: il mondo studentesco è composto da persone che per esperienze di vita non hanno potuto sviluppare quelle rigidità e quelle modalità di accettazionegiustificazione delle ingiustizie che spesso accompagnano invece il mondo degli adulti manifestando maggiore capacità e disponibilità di ascolto, a rimettere in discussione le proprie convinzioni.

Non va dimenticato l’importante ruolo degli insegnanti: il ruolo del docente permette infatti di dare continuità ai discorsi intrapresi soprattutto nell’ambito di un progetto di formazione integrato rivolto a docenti e studenti e basato su processi di scambio fra animatori e insegnanti che conferiscono sostenibilità nel tempo alle tematiche affrontate.

L’Educazione allo sviluppo non è una “materia” o un’area disciplinare, quindi, bensì un insieme di principi coerenti per la scelta di metodologie operative, di finalità e di contenuti nell’ambito della didattica scolastica e non solo.

La metodologia operativa
La metodologia operativa si contraddistingue per una forte attenzione al coinvolgimento e alla motivazione delle classi: strumenti di comunicazione visiva, giochi di ruolo, tecniche di interattività e di comunicazione “calda” vengono largamente usati per arrivare allo scopo.
Particolare cura viene rivolta alle rappresentazioni mentali e alle esperienze concrete delle ragazze e dei ragazzi: far emergere i loro pregiudizi per poterli analizzare e decostruire insieme e inserire le loro esperienze concrete nel quadro delle grandi dinamiche globali del rapporto Nord Sud (ad esempio partendo dalle scarpe da tennis che portano ai piedi per raccontarne il processo di fabbricazione e tutte le relative implicazioni sociali). Questo modo di operare è utile per far comprendere alle ragazze e ai ragazzi che il mondo è uno e interrelato concetto che suggerisce l’idea che ogni azione locale orientata da criteri di giustizia possa dare un contributo positivo all’evoluzione del sistema globale.

Dalle ultime considerazioni emerge l’apporto dell’Educazione allo sviluppo rispetto alla ridefinizione delle finalità scolastiche; essa contribuisce a stimolare nelle ragazze e nei ragazzi atteggiamenti e comportamenti di cittadinanza attiva sia attraverso lo studio di tematiche sociali importantissime, sia e soprattutto sollecitandoli ad impegnarsi in prima persona nella risoluzione dei grandi problemi affrontati.

E per i contenuti? Come si fa?
Per ciò che, invece, riguarda i contenuti, il discorso sull’Educazione allo sviluppo è più complesso. Non trattandosi di una “materia” non è possibile presentare un elenco di argomenti (il “programma” per intenderci); è possibile, invece, individuare grazie ad essa alcuni grandi problemi che riguardino una o più discipline per costruire la programmazione didattica in funzione di questi. Allo stesso modo possono procedere gli animatori nella progettazione dei percorsi destinati a studentesse e studenti intorno ai macroproblemi dell’Educazione allo sviluppo che sono facilmente individuabili quali ad esempio: squilibri fra Nord e Sud del mondo (principali cause e conseguenze della situazione di squilibrio, i possibili rimedi, etc), il concetto di sviluppo umano, intercultura, cittadinanza, pace e non violenza, diritti umani, legalità, etc.

Qual è il ruolo dell’animatore
Innanzitutto che cos’è l’animazione? E’ un metodo di educazione che si traduce in tecniche di intervento utilizzabili nelle classi o in tutte le realtà in cui si svolgono incontri di eas.
L’animazione è molto usata negli incontri di eas perché strettamente legata al mandato dell’Educazione allo sviluppo stessa: il fine dell’eas non si esaurisce nell’informare o nel sensibilizzare sui temi del rapporto Nord Sud e dell’interdipendenza fra i popoli, ma si prefigge lo scopo di creare consapevolezza e di proporre nuovi atteggiamenti e nuovi comportamenti.

In questo senso e con questi obiettivi, l’approccio educativo deve farsi esistenziale proponendosi non più come mera trasmissione di un sapere, ma come proposta di nuove sintesi a livello conoscitivo e culturale.

L’animatore dovrebbe abbandonare la pretesa di consegnare un sapere pietrificato in dati, notizie e concetti, per offrire invece alle ragazze e ai ragazzi l’opportunità di entrare direttamente in contatto con la complessità dello sviluppo, partendo dalla messa in discussione delle loro conoscenze, e arrivando a responsabilizzarli verso la ricerca di nuovi significati. Per tale ragione, è opportuno che l’aula si trasformi in un laboratorio di esperienza dove gli studenti, attraverso l’animazione, il gioco, e la discussione, possano ricercare nuovi modi di interpretare le problematiche proposte e diventare loro stessi gli autori della propria conoscenza.

Alcuni suggerimenti pratici:
Una conoscenza che parte dai ragazzi
Prima degli incontri le ragazze e i ragazzi possiedono già alcune idee su cosa sia lo sviluppo e sugli argomenti correlati. Valorizzare queste loro preconoscenze può diventare un elemento che facilita il processo di apprendimento: gli individui infatti vedono la realtà attraverso gli strumenti e i significati che traggono dalle proprie idee sul funzionamento del mondo, di conseguenza per promuovere in loro un cambiamento è indispensabile confrontarsi con i loro vissuti e con tutte le credenze attraverso le quali essi si rapportano al mondo e percepiscono se stessi.

Un laboratorio sociale
I percorsi di Educazione allo sviluppo privilegiano, quindi, un orientamento attivo, centrato non solo sulla discussione ma anche sull’azione concreta. L’inserimento di tecniche animate quali i giochi di simulazione, oltre a vivacizzare gli incontri rendendoli meno noiosi, creano un contesto attraverso il quale i ragazzi possono porsi interrogativi, esplorare, raccordare esperienze, opinioni personali e di gruppo per poi riempire di un nuovo significato la propria esperienza, stimolando processi di decentramento nell’assunzione di un ruolo preciso che consente di guardare al tutto da una nuova prospettiva, mentre nel confronto successivo con gli altri si possono rivisitare le infinite angolature che caratterizzano una problematica. Il contesto ludico predispone, inoltre, le ragazze e i ragazzi ad una maggiore libertà d’azione e di sperimentazione, perché in quel caso non si sentono giudicati per le loro idee e si sentono rassicurati dalla mancanza di valutazione per la risoluzione che danno alle consegne.

L’aula diventa così un vero laboratorio in cui le classi possono sperimentare strategie d’azione e di analisi e mettere in campo le proprie competenze sociali, mentre la cooperazione e il lavoro di gruppo promuovono già in sé l’apprendimento di atteggiamenti solidali e interculturali.

Una conoscenza di gruppo
Nei contesti di apprendimento la relazione assolve un importante funzione cognitiva. E’ attraverso il confronto e la negoziazione delle proprie idee, delle proprie emozioni, delle proprie esperienze personali, che si arriva a ridefinire in modo condiviso un sapere e a interiorizzare strutture e significati.
Il ruolo che ci aspetta come animatori è quello di chi sa porre attenzione alle modalità relazionali di ragazze e ragazzi basato su un orientamento pedagogico capace di sollecitare e incoraggiare atteggiamenti e capacità di ascolto, di comunicazione dialogica, gestione dei conflitti, creatività ed elaborazione costruttiva delle differenze. Il confronto deve essere però in grado di restituire ai soggetti una visione globale e articolata, dove la frammentarietà converge in una conoscenza condivisa. In questo senso è importante rapportarsi alla classe come se fosse un gruppo, un unico soggetto di apprendimento.

Un animatore regista
In questa logica di animazione, l’animatore si assume compiti e funzioni specifiche quasi da direttore d’orchestra o da regista.
Egli deve riuscire a regolare momenti di “astinenza”, ovvero mettersi da parte per far lavorare i ragazzi, e di partecipazione favorendo e stimolando gli apprendimenti per tutelare le discussioni e orientarle alla costruzione dialogica dei significati.
Fondamentale nel raggiungimento di questi obiettivi è la capacità di creare un clima positivo che faccia percepire alle ragazze e ai ragazzi un senso di accettazione e di libera espressione.

Alcuni principi e alcuni suggerimenti pratici nelle attività di eas ricordando di adattarsi ai singoli contesti:
• Accoglienza incondizionata ma critica e consapevole;
• Apertura verso ciò che di nuovo può emergere;
• Atteggiamento educativo (relazione educativa dialogica che sostituisce la pretesa di trasmettere un sapere unidirezionale);
• Preferenza per ciò che unisce più che per ciò che divide;
• Assenza di giudizio e di valutazione;
• Sapersi esprimere;
• Saper ascoltare;
• Saper analizzare informazioni e conoscenze identificandole, decodificandole;
• Accettare le differenze e negoziarle in gruppo;
• Stabilire relazioni positive;
• Reggere il conflitto;
• Assumere autorevolezza e responsabilità;
• Tenere conto dei diversi livelli e dei diversi stili cognitivi (non perdere nessuno)
• Tenere sotto controllo la temperatura (cioè il livello di coinvolgimento emotivo)
• Valorizzare più che le conoscenza, i dubbi e i perché;
• Stare ALTI!!!!
• Non avere paura dei silenzi: sono momenti elaborativi se protratti per pochi minuti ma protratti possono creare disagio nei partecipanti; attenzione quindi agli sguardi dei ragazzi, imparare ad interpretarli e intervenire con frasi o domande stimolo.

Attenzione agli spazi, al tempo e alle dinamiche fisiche
La massima efficacia sarà data da una corretta interazione fra tutte le metodologie e i linguaggi che verranno utilizzati a tal fine fondamentale sarà la costruzione di una scaletta d’intervento in cui si ponga la dovuta attenzione alla disposizione non solo dei contenuti (la mappa concettuale), ma anche delle metodologie con cui proporle senza dimenticare di tenere sempre presente di accogliere, ovviamente negli incontri successivi al primo, le esigenze, parole, sentimenti, silenzi dei ragazzi.

A) La comunicazione e il problema dello spazio
Molti relatori tendono ad affidare i propri risultati comunicativi alla qualità dei contenuti e alle loro abilità oratorie, elementi indispensabili per valorizzare l’impatto su un pubblico, ma insufficienti se non affiancati da un’attenzione alla cura dello spazio.
Lo spazio di un’aula scolastica spesso non è dotato di caratteristiche che facilitino il lavoro, a maggior ragione l’osservazione di alcune norme di preparazione all’incontro risulta di particolare importanza.
Prima di tutto è utile arrivare nell’aula con un certo anticipo così da poter condurre i preparativi senza l’affanno del tempo. Sistemare i propri fogli, i propri strumenti (videocassette, carte geografiche, ecc.), e i mezzi tecnici (videoproiettore, computer, ecc.) così da potersi muovere senza impacci durante l’incontro è un ottimo presupposto per evitare tempi morti e rallentamenti che producono un calo d’attenzione in chi ascolta.
In secondo luogo sistemare le sedie delle ragazze e dei ragazzi a semicerchio questa scelta, da un punto di vista comunicativo, produce una serie di notevoli vantaggi: toglie barriere fisiche alla voce e allo sguardo dell’animatore, toglie alle ragazze e ai ragazzi il pretesto per nascondersi e per distrarsi, offre un’immagine di lezione meno istituzionale, permette di spostare le persone nella classe per le successive modalità di interazione. Questi elementi positivi vengono ulteriormente rafforzati dall’attenzione a che lo sguardo e la voce dell’animatore non si dirigano fissi davanti a sé, ma si muovano in modo semicircolare, andando a fermarsi a turno su tutti i presenti. Il corpo stesso è opportuno che non resti immobile (è molto brutta l’immagine di un animatore seduto dietro una cattedra), e che si avvicini alle persone più distratte richiamandone l’attenzione semplicemente attraverso la riduzione della distanza.
Infine un consiglio tanto banale quanto solitamente disatteso: conviene prestare molta attenzione all’illuminazione, all’areazione e alla temperatura dell’aula; un’aula buia, caldissima e piena d’aria viziata può annullare tutte le migliori virtù comunicative di un ottimo animatore!

B) La comunicazione specifica con i ragazzi.
Oltre alla disposizione accurata degli spazi e alla scelta degli strumenti di comunicazione visiva, un’altra arma di coinvolgimento a disposizione dell’animatore è la scelta dei linguaggi specifici. La filosofia generale che dovrebbe accompagnare questo aspetto del lavoro è quella per la quale non è possibile pensare che la maggior parte delle ragazze e dei ragazzi si sforzi di ascoltare linguaggi e concetti troppo teorici e lontani dalla loro esperienza quotidiana. La capacità di “andare verso i ragazzi” sforzandosi di compiere scelte che risultino in sintonia con la loro sensibilità è una delle qualità più importanti per un animatore perché testimonia della sua capacità di empatia.
In termini molto concreti questi concetti possono tradursi in un’attenzione particolare riservata all’uso della musica come mezzo per introdurre e spiegare i contenuti (i video musicali in particolare abbinano l’impatto delle note con quello delle immagini); la cura nel far emergere le immagini mentali (le preconoscenze e i pregiudizi) delle ragazze e dei ragazzi relativamente a un problema per procedere poi insieme a una loro analisi critica (e a una loro eventuale decostruzione) si rivela una strategia appropriata per introdurre un punto di vista diverso da quello dominante; infine l’attenzione ai vissuti dei ragazzi stimola l’interesse: parlare di migrazioni dopo aver condotto nella classe una ricerca sugli spostamenti di nonni e bisnonni, oppure parlare della scopertaconquista delle Americhe partendo dall’alimentazione quotidiana dei singoli o ancora trattare lo sfruttamento del lavoro infantile basandosi sull’abbigliamento sportivo presente nella classe sono tre esempi di strategie utili ad abbattere il livello di astrazione del discorso e a far sentire le persone partecipi dei contenuti di cui si parla.

D) Quali sono le metodologie comunicative e interattive
Per la traduzione concreta dei concetti esposti possono essere utilizzate alcune metodologie riconducibili a due categorie: le metodologie comunicative e le metodologie interattive.
Nelle prime l’effetto di coinvolgimento è dato dalla sostituzione o dall’affiancamento della relazione frontale (“l’animatoreprofessore”) con modalità di comunicazione più stimolanti (video, CD Rom, ecc.).
Nelle metodologie interattive avviene un passo successivo: il “pubblico” delle ragazze e dei ragazzi viene chiamato a partecipare alla discussione esprimendo le proprie idee attraverso modalità appositamente strutturate.
Entriamo soprattutto nel merito di quest’ultime:

IL BRAINSTORMING
Il Brainstorming è una tecnica molto utilizzata nei contesti educativi e formativi; è di facile uso perché si può adattare alle più diverse situazioni ed è un agile strumento per sollecitare la discussione e scaldare l’ambiente; inoltre, agendo a livello di preconoscenze e di socializzazione, crea un’atmosfera ottimale per l’apprendimento e la sperimentazione.
Come evidenzia la traduzione italiana del termine inglese, Brainstorming significa usare il cervello (brain) per prendere d’assalto (storm) un problema. Esso consiste nel “lanciare” i partecipanti in una “corsa cerebrale sregolata” durante la quale ciascuno esprime il proprio punto di vista sull’argomento aggiungendo idea ad idea, concetto a concetto, finché tutti non hanno tirato fuori i propri pensieri.
Partire dalle ragazze e dai ragazzi, dalla loro visione del mondo, dalle loro idee sulle cause della povertà permette di rimettere in discussione la loro preconoscenza, di ragionarci insieme, di confrontarla con altri punti di vista e di riempirla di un nuovo significato.
Le modalità di svolgimento sono varie: si possono costruire attività in piccoli gruppi, o singolarmente e solo successivamente visionare il materiale prodotto, oppure condurre direttamente un Brainstorming insieme a tutti i partecipanti.
Fin dall’inizio, definire chiaramente il problema, l’argomento da affrontare e gli obiettivi che si vogliono raggiungere, non ponendo limiti predefiniti alla discussione del problema. L’unica specificazione potrebbe riguardare la durata della sessione.
1. Incoraggiare un clima positivo chiarendo che non si è in un contesto di valutazione e che non sono ammesse critiche ai commenti dei compagni. Le idee non debbono essere commentate o valutate durante lo svolgimento. Un atteggiamento di critica può inibire qualche membro del gruppo nel proporre le proprie idee.
2. Stimolare il gruppo a realizzare il Brainstorming nel modo più informale e divertente, portando tutte le idee possibili, da quelle più concrete a quelle apparentemente irrealizzabili, creando un ambiente nel quale la creatività è apprezzata. Occorre, comunque, mantenere il Brainstorming aderente all’oggetto e cercare di indirizzare le persone verso soluzioni pratiche.
3. Incoraggiare i partecipanti a costruire appoggiandosi sulle idee degli altri, a cercare combinazioni, abbellimenti e miglioramenti.
Segue la fase di giudizio, di riorganizzazione finale delle idee raccolte che dovrà essere studiata ed elaborata, collegando informazioni, classificando i nodi fino a raggiungere una configurazione tale da trarre le necessarie conclusioni.

LA TELA DEL RAGNO
La “tela di ragno” è una metodologia molto semplice e molto efficace per favorire la partecipazione collettiva.
Essa consiste essenzialmente in questo: si scrive al centro di un cartellone, cerchiandola, una parola chiave (nel caso specifico questa parola era “povertà”) e si invitano i ragazzi a ricercarne le cause, e quindi le cause delle stesse; queste, cerchiate a loro volta, vengono segnate tutte attorno alla parola chiave, e collegate ad essa con frecce che esprimano il nesso di causalità. Alle ragazze e ai ragazzi si chiarisce anticipatamente che la tecnica utilizzata sarà quella del “brain storming”. Una volta entrati nella ricerca delle opinioni è importante sottolineare come non sia necessaria l’unanimità sulle parole espresse, spesso anzi potrà esserci disaccordo senza che ciò assuma un’importanza rilevante, perché non è previsto commento alcuno fino a quando il cartellone non sarà completamente terminato. Solo quando questo sarà avvenuto, i vari concetti verranno ripresi e sottoposti a riflessione comune.

IL DIBATTITO ANIMATO
La tecnica del dibattito animato (o “dibattito che ti cambia”) può essere utilizzata per confrontarsi su cause o conseguenze di una certa situazione oppure per discutere le opinioni relative ad un determinato problema. Lo spostamento fisico delle ragazze e dei ragazzi e la creazione di gruppi d’opinione contrapposti favoriscono il coinvolgimento e la libera espressione dei punti di vista.
Per lo svolgimento occorre che l’animatore prepari 4 cartelli e li faccia fissare agli angoli dell’aula. Ognuno fra i cartelli recherà una fra le seguenti diciture: “SONO D’ACCORDO”, “NON SONO D’ACCORDO”, QUALCHE VOLTA SONO D’ACCORDO”, “NON SO”.
Una volta terminati i preparativi, l’animatore sottoporrà ai presenti un’affermazione (eventualmente tratta dalle risposte uscite durante un Brainstorming o una Tela del ragno precedenti). La formula con cui introdurla potrebbe essere: “la… causa principale della povertà nel sud del mondo… è…”; al termine dell’affermazione le ragazze e i ragazzi si alzeranno e andranno sotto il cartello che meglio rappresenta il loro punto di vista.
Una volta avvenuta la disposizione delle persone, l’animatore dovrà assumere il ruolo di facilitatore di dibattiti, in questa veste egli darà la parola a turno ai vari gruppi d’opinione e chiederà a uno o più fra i componenti di argomentare il punto di vista. Compito del facilitatore sarà sia il mantenimento di un ordine di interventi, sia la proposta di nuove informazioni nei momenti in cui il dibattito dovesse languire o le posizioni irrigidirsi.
Quando la situazione apparirà esaurita il facilitatore ritornerà animatore, inviterà le persone a tornare al loro posto e, se è il caso, proporrà un’interpretazione propria relativa all’argomento.

METAPLAN
Le Fasi di lavoro:
1. Presentazione del lavoro. L’animatore illustra brevemente gli obiettivi e le caratteristiche del Metaplan e definisce la frasestimolo, la domanda, il problema su cui lavorare.
2. Organizzazione dei sottogruppi. Se il gruppo è numeroso è necessario suddividerlo in sottogruppi di circa 10 persone. E’ possibile far lavorare ciascun gruppo su una stessa domanda oppure su domande diverse.
3. Organizzazione dello spazio di lavoro. Il gruppo dei partecipanti si dispone in uno spazio che consenta il libero accesso alle pareti. Le pareti saranno suddivise in tante zone quanti sono i sottogruppi: Ogni zona sarà contrassegnata da un cartello, precompilato dall’animatore che contenga una frase stimolo, una domanda, un problema (ad esempio: “Lo sviluppo sostenibile è…”).
4. Elaborazione delle idee e compilazione dei cartellini (post.it).
• Ogni partecipante è dotato di un pennarello e di un numero di cartellini (post.it) predefinito. Il numero dei cartellini da assegnare sarà calcolato in modo che si possano attaccare dai 35 ai 40 cartellini sotto ciascuna “frase stimolo”
• Sulla base della “frase stimolo” i partecipanti scrivono una ideachiave su ogni cartellino, in stampatello, a caratteri grandi e con non più di sette parole. I cartellini che non rispondono ai requisiti richiesti verranno scartati.
• Quando tutti hanno terminato (è opportuno concedere un tempo piuttosto breve), i cartellini compilati vengono attaccati sotto la “frase stimolo”.
5. Classificazione dei cartellini. Il sottogruppo ordina i cartellini secondo criteri che si dà liberamente. Se compaiono due cartellini con la stessa idea ne viene scartato uno. I cartellini con frasi lunghe più di sette parole, vengono immediatamente scartati. Quando il sottogruppo concorda un criterio di classificazione che possa accomunare più cartellini (tornando all’esempio dello sviluppo sostenibile un criterio potrebbe essere “ambiente” un altro “problematiche sociali” e così via) questo viene scritto su un cartello colorato e vi si appende sopra l’insieme degli elementi che lo qualificano. Un criterio di classificazione può essere cambiato se ci si accorge che non funziona. Non ci sono vincoli al numero di cartellini che costituiscono un insieme. E’ vietato criticare le idee su cui si lavora.
6. Scelta delle idee più rilevanti. Ciascun partecipante ha a disposizione 10 voti da assegnare alle idee che ritiene più rilevanti, interessanti ecc. Questi 10 punti devono essere assegnati secondo modalità personali (potrà assegnare 5 punti a due sole idee oppure 2 punti a 5 idee, ecc.). La votazione viene effettuata aggiungendo delle crocette su ciascun cartellino. Si conteggiano i voti e si ordinano le idee di ciascun criterio dalla più votata alla meno votata.
7. Comunicazione. Il sottogruppo si accorda su una comunicazione/riflessione, che motivi i criteri di raggruppamento dei cartellini e nomina un relatore che illustra al gruppo intero i risultati del lavoro. L’insieme delle comunicazioni/riflessioni potrà eventualmente essere dibattuto da tutti i partecipanti al Metaplan e costituirà comunque la base di preconoscenze e preriflessioni a cui l’animatore potrà agganciarsi nel seguito del percorso per sviluppare l’argomento.

I GIOCHI INTERATTIVI
Giochi Interattivi sono strumenti didattici ottimi per mantenere alto l’interesse degli alunni e tradurre in esperienza concreta concetti astratti.
Si possono utilizzare varie tecniche di gioco a seconda dell’obiettivo che si vuole raggiungere:
Il Roleplaying, ad esempio, è utile per valorizzare una riflessione attenta sia agli aspetti relazionali sia a quelli emotivi, e per stimolare processi di decentramento. L’elemento che caratterizza il Roleplaying è l’interazione verbale e comportamentale tra due o più ruoli drammatizzati. Mettendo in scena una problematica, una situazione, e interpretando alcuni ruoli peculiari, i partecipanti hanno modo di vivere ed esprimere emozioni e riflessioni che si generano dall’immedesimazione.
La Simulazione giocata ha lo scopo, invece, di far vivere in gruppo un’esperienza che rappresenta un modello di realtà, con compiti definiti e distribuiti, per scoprirne le dinamiche e i processi al fine di comprenderne la complessità.
Infine, se la finalità dell’attività è analizzare in gruppo i processi decisionale e le capacità di raggiungere un obiettivo preciso si può ideare un Problem Solving le cui caratteristiche sono quelle dare ai destinatari il compito di trovare una soluzione praticabile ad un problema definito.
Tutti questi metodi pedagogici attivi sono simili nelle modalità di preparazione e di conduzione. Per tale ragione, spesso vengono trattati insieme e classificati con un'unica etichetta: Giochi di Ruolo oppure Simulate.
L’analisi del gioco: il debriefing.
Al termine della drammatizzazione, le ragazze e i ragazzi devono avere l’opportunità di riflettere su ciò che è accaduto e prendere consapevolezza dei contenuti e delle dinamiche emerse durante la simulazione. E’ essenziale che questi stimoli una discussione dialettica, centrata sulla negoziazione dei diversi punti di vista, per costruire un patrimonio collettivo all’interno di una cornice ben definita dagli obiettivi del Gioco di Ruolo. Per una presa di coscienza consolidata è necessario, inoltre, indurre i partecipanti a trovare le similitudini e le relazioni tra il gioco e la realtà, ciò permette di arricchire la conoscenza con ulteriori rapporti e di stabili vincoli e possibilità di applicazione di quanto emerso.
Tornati ad una situazione ordinaria, solitamente si avvia la discussione con una semplice domanda “Che cosa è successo?” , dopo di che, l’animatore deve essere in grado di porsi come guida durante il dibattito e, ascoltando i vari contributi, cercare di collegarli a ulteriori approfondimenti sull’argomento; una scelta diversa, potrebbe essere quella di lasciare campo aperto alle ragazze e ai ragazzi con l’animatore in disparte ad intervenire solo come facilitatore.
Al di là della scelta dell’animatore di essere più o meno presente durante il confronto, è bene valorizzare ogni contributo riportato, magari riprendendo alcune parole chiave usate dai partecipanti, oppure chiedendo agli altri compagni cosa ne pensano. Le osservazioni dell’animatore devono vestire un carattere ipotetico ed essere rilanciate sotto forma di domanda. In questo modo le ragazze e i ragazzi percepiscono se stessi come costruttori del loro sapere e questo tipo di atteggiamento mantiene un clima relazionale favorevole che stimola al continuo approfondimento.
La parte di discussione è molto importante e va preparata con attenzione; allo scopo potrebbe essere utile prepararsi una scaletta di domande, individuando da subito gli aspetti salienti su cui concentrare la riflessione.

 


Bibliografia essenziale sui contenuti e sulle metodologie nell’ambito dell’educazione allo sviluppo:
• Giovanni Bollea, Le madri non sbagliano mai, Universale economica Feltrinelli
• La psicologia del colore, a cura di Magda Di Renzo e Claudio Widmann
• Magda Di Renzo, Fiaba, disegno, gesto, racconto.
• Gianni Rodari, Grammatica della fantasia. Introduzione all’arte di inventare storie.
• Pauolo Freire, La pedagogia degli oppressi / L’educazione come pratica della libertà / Una scuola chiamata vita
• Daniele Novara, L’ascolto si impara. Domande legittime per una pedagogia dell’ascolto, Ega i
• Sigrid Loos, 99 giochi cooperativi, Ega Libri
• Sigrid Loos e Laura Dell’Aquila, Naturalmente giocando
• D. G: Singer e J. L. Singer, Laboratorio del far finta. Giochi e attività per sviluppare l’immaginazione, Ed. Erickson
• Insegnare i Diritti Umani, a cura di Flavio Lotti e Nicola Giandomenico, Ega Libri
• Compass. Manuale per l’educazione ai diritti umani con i giovani. Scaricabile in lingua inglese, francese e russa dal sito del Consiglio d’Europa, www.coe.int /education. In italiano il libro va acquistato e richiesto ai contatti indicati sul sito del Consiglio d’Europa
• Collana Crescendo della Emi:
• 1, nessuno e 100.000 (ir)responsabili. Itinerari didattici di educazione alla cittadinanza, di Michele Crudo
 Barra D., Beretta Podini W., Le migrazioni;
 Crudo M., Percorsi interculturali e modelli di riferimento;
 AA. VV., Mediterraneo. Il mare della complessità;
 Crudo M., La conoscenza dell’altro tra paura e desiderio;
 Grossi L., Rossi R., Lo straniero;
 AA. VV., Letterature d’Africa;
 Crudo M., Penelope è partita;
 AA. VV., Portare il mondo a scuola.
• Cittadini under 18, di D. Invernizzi
• La tela del ragno. Educare allo sviluppo attraverso la partecipazione. Manuale pratico per l’animazione sociale, di Massimiliano Lepratti e altri.
 Morozzi M., A. Valer: “Economia giocata”; EMI, 2001

Indicazioni bibliografiche in materia di libertà di religione e ruolo della scuola
• Sami A. Alldeeb AbuSahlieh, Les musulmans en Occident, entre droits et devoirs, L’Harmattan, 2001.
• Bastianoni P. (a cura di), Scuola e immigrazione: uno scenario comune per nuove appartenenze, Edizioni Unicopli, 2001.
• Corduas G., “L’intercultura nei banchi di scuola”, in Aa. Vv., La sfida di Babele, Incontri e scontri nelle società multiculturali, Claudiana, 2001.
• De Vita R., Berti F. (a cura di), Dialogo senza paure: scuola e servizi sociali in una società multiculturale e multireligiosa, Milano, 2002.
• De Vita R., Berti F. (a cura di), La religione nella società dell'incertezza. Per una convivenza solidale in una società multireligiosa, Milano, 2001.
• Giovannini V. G., Palmas L. Q. (a cura di), Una scuola in comune: esperienze scolastiche in contesti multietnici italiani, Fondazione Giovanni Agnelli, 2002.
• Haute Conseil à l’integration, L’Islam dans la République. Rapport au Premier ministre, Paris, 2001.
• Massimeo F., Portoghese A., Selvaggi P., Laicità e religioni nella scuola del 2000, Irssae Puglia, 1999.
• Nigris E., Fare scuola per tutti: esperienze didattiche in contesti multiculturali, Milano, 2003.


Centro Internazionale Studi Gentiliani


XV CICLO DI SEMINARI
“INCONTRI DI PRIMAVERA”
San Ginesio, 22 aprile 2008
Auditorium di Sant’Agostino

 

“LA LIBERTÀ DI RELIGIONE IN UN MONDO MULTICULTURALE TRA DIRITTO INDIVIDUALE, MIGRAZIONI ED ESIGENZE DI SICUREZZA COLLETTIVA”

 

Dispense didattiche

 

Consiglio Nazionale delle Ricerche
Istituto Studi Giuridici Internazionali Sede di Napoli
Via Pietro Castellino, 111, 80131 Napoli tel. 0816132322 fax: 0816132701
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Coordinamento e responsabilità scientifica:
Prof. Giuseppe Cataldi
Ordinario di Diritto internazionale presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Napoli “L’Orientale”
Responsabile dell’Istituto di Studi Giuridici Internazionali del CNR – Sede di Napoli

Intervento di apertura XV Ciclo di Seminari
Incontri di Primavera

Laicità dello stato, multiculturalismo e libertà di religione: i nodi vengono al pettine

Prof. Giuseppe Cataldi
Ordinario di Diritto Internazionale presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Napoli “L’Orientale”
Responsabile dell’Istituto di Studi Giuridici Internazionali del CNR – Sede di Napoli

Abstract

“At qui in alia civitate sunt,
hi si vivunt aliter atque nos vivimus in civitate nostra,
nos utique non offendunt”
Alberico Gentili

“Nel mondo ci sono chissà quante specie di linguaggi,
ma nessuno è senza significato.
Se, quindi, non conosco il significato delle parole,
sarò un barbaro per chi parla,
e chi parla sarà un barbaro per me”
San Paolo, Lettera ai Corinti

“Oh uomini,
in verità Noi v’abbiam creato da un maschio e da una femmina
e abbiam fatto di voi popoli vari e tribù,
a che vi conosceste a vicenda (…)”
Corano, La sura delle stanze intime (XLIX, 13)

Alberico Gentili e la libertà di religione
Il Gentili è noto soprattutto come uno dei massimi studiosi del diritto internazionale, da lui considerato come uno strumento attraverso cui pacificare l’Europa del XVI secolo, dilaniata dalle lotte di religione.
Nella esperienza emblematica delle migrazioni generate dalle persecuzioni religiose nell’età della Riforma e della Controriforma, Gentili è uno dei maggiori testimoni della durezza della condizione di tutti coloro che, spinti da situazioni politiche o motivazioni religiose, sono costretti ad abbandonare gli affetti, gli averi e la patria.
Sulla durezza, insieme drammatica e liberatoria, della scelta della fuga, lo stesso Gentili scriveva: “Durum spoliari patria, fortunis” (È terribile essere privati della patria e dei beni); “Libèrtas religioni debètur” (Alla religione serve libertà); “Inaudita praedicatio quae verbèribus èxigit fidem” (La religione, per sua natura, non tollera che qualcuno vi sia costretto con la violenza); “Conìugium quoddam Dei et hominis est religio” (La religione esprime un rapporto tra uomo e Dio, non tra uomo ed uomo) [De Iure Belli, 1598].
Nel 1598 viene pubblicato il De Jure Belli: opera summa della cultura politicogiuridica di Gentili e grande commentario delle principali questioni politiche e religiose del tempo. La rivendicazione della natura giuridica e non teologica della materia costituisce un altro punto chiave della originalità del suo trattato: “Silète Theòlogi in mùnere alièno”. Inoltre, sul piano del significato etico, il De Jure Belli è famoso per la difesa della libertà di coscienza e della tolleranza religiosa. “Relìgio eius est naturae, ut compèlli ad eam ìnvitus nullus debeat”.

Diritto alla libertà di religione e conflitti di religione
A livello internazionale il diritto alla libertà di religione è stato riconosciuto sin dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo del 1948 che, all’art. 18, garantisce, in particolare, il diritto di qualsiasi individuo alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Nell’ordinamento giuridico europeo, similmente, la garanzia della libertà di religione è prevista, in particolare, dall’art. 9 della CEDU mentre nell’ambito dell’UE, la garanzia alla libertà di religione è stata inserita nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea adottata a Nizza nel 2000, all’art. 10, e successivamente inclusa nella Parte II del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa.
Nonostante l’evoluzione che il diritto internazionale ha conosciuto in tale ambito, resta pur vero che “scontri” ed intolleranze, motivati dall’appartenenza a credi e religioni diverse, continuano, in forma più o meno grave, ancora oggi a manifestarsi. Sia le grandi questioni legate alla “guerra santa” contro l’Occidente promossa dall’integralismo islamico, che le più contenute, ma comunque importanti, vicende collegate alla pubblicazione delle vignette satiriche, all’indossare il velo islamico e all’esposizione del crocifisso nei luoghi e negli uffici pubblici, rappresentano tutti avvenimenti che costituiscono il perno intorno cui ruotano alcune forti tensioni che percorrono il mondo intero. Non a caso, secondo diversi studiosi, quando gli storici del futuro guarderanno a questo secolo, probabilmente vedranno la religione come la “principale forza motrice e distruttiva che ha influenzato spesso le idee di libertà, il concetto di nazionalità e, ancor peggio, andando contro i suoi stessi precetti di pace, i conflitti e le guerre” (PHILIP JENKINS). Il monito di questi studiosi va, dunque, nella direzione di evitare la definizione di “guerra di religione” e di “scontro di civiltà”, profetizzato da Samuel Huntigton e riconoscere, al contrario, che ci troviamo di fronte ad uno “scontro di intolleranze”. Emerge, pertanto, la necessità di incrementare il dialogo interreligioso, per aumentare la conoscenza delle e tra le religioni, capirne le differenze, come pure le similitudini, e aumentare, quindi, la comprensione tra gli uomini. Il dialogo interreligioso diventa così il massimo deterrente a qualunque tipo di intolleranza e permette di trasferire il ruolo della religione da “accusata” ad “accusatrice” .
Dalla notte dei tempi i conflitti di matrice religiosa sono numerosi: dalle crociate alla recente repressione cinese dei monaci tibetani; passando per gli interventi militari dell’occidente sul territorio della ex Yogoslavia, decisi a difendere i musulmani della Bosnia e del Kossovo dai serbi ortodossi e dai croati cristiani, fino ad arrivare all’infinita guerra per il controllo della Palestina.
La Nigeria, divisa in parti uguali tra cristiani e musulmani, è un paese in cui le persone si identificano prima con la loro religione e poi con il loro paese. Secondo il giornalista Shehu Sani, dal 2000 a oggi circa 20 mila persone sono state uccise in nome di Dio. A Kano, cuore del nord islamico, circa 7 anni fa è stata introdotta la sharia e molti dei cristiani costretti a fuggire sono finiti a Jos dove comincia il sud cristiano. La strada tra le due città è fiancheggiata da chiese e moschee in concorrenza tra loro.
Un altro crogiuolo di fedi in conflitto tra loro è Mosul in Iraq: città contesa tra curdi, arabi sunniti e turcomanni, un conflitto sul quale si è innescata anche la “pulizia religiosa” condotta da gruppi islamisti che hanno approfittato delle tensioni etniche locali per colpire i cristiani. Senza alcuna tutela, in un clima in cui la polarizzazione tra sunniti e curdi per il controllo della città non lascia spazio a identità terze. La morte di monsignor Rahho, vescovo caldeo di Mosul, ha riportato al centro dell’attenzione la drammatica situazione dei cristiani in Iraq ma, ancora, pochi mesi fa, una catena di attentati ha colpito le chiese di quella provincia. Molti cristiani hanno lasciato il Paese, alimentando l’imponente esodo iniziato dopo il 2003; altri, in una situazione in cui a tutti viene chiesto di schierarsi da una parte o dall’altra, hanno preferito convertirsi all’islam. Ma in tutto questo una buona parte di responsabilità è giocata anche delle potenze occidentali, e, nella specifica questione, alla svolta sunnita degli USA.

La tutela del patrimonio culturale in situazioni di crisi internazionale
Un altro aspetto che spesso caratterizza i conflitti di matrice religiosa consiste nella distruzione di edifici e simboli religiosi. I monumenti non vengono colpiti perché, essendo immobili, rappresentano un bersaglio facile; la ragione è un’altra, si vuole distruggere non l’opera in sé ma il suo significato simbolico. Anche quando sembra che non vi sia.
Sicuramente da ricordare è la distruzione dei Buddha di Bamiyan scolpiti nella roccia avvenuta ad opera dei Talebani in Afghanistan il 12 marzo 2001, nonostante le forti proteste della comunità internazionale. Sorgevano nella valle di Bamiyan, luogo sacro per le civiltà preislamiche che si erano succedute per secoli in Afghanistan prima dell’arrivo dei Musulmani, ed erano uno dei reperti archeologici più importanti del paese risalenti ad un periodo compreso tra il III e il V secolo d.C. Il governo dei Talebani, “chiarì” che l’intenzione di distruggere i Buddha, nasceva dal rispetto dell’editto iconoclasta promulgato dal mullah Omar e sostenuto dal Ministro della cultura Quadratullah Jamal, che, rifacendosi ad una rigidissima interpretazione dei precetti islamici, vieta la presenza nel Paese di qualsiasi forma d’arte, che in qualche modo sia testimonianza del passato idolatra e preislamico del Paese.
Koichiro Matsuura, Direttore generale dell’UNESCO, espresse una ferma condanna per l’operato del governo afgano rivolto alla “distruzione fredda e calcolata di testimonianze culturali che erano patrimonio del popolo afghano, anzi dell’umanità intera”. I Talebani si difesero dalle accuse dichiarando di non riconoscere le statue come bene culturale: non avendo valore culturale o artistico, avrebbero potuto preservare i Buddha solo in quanto oggetto di culto di qualche minoranza religiosa. Tuttavia, da secoli, il buddismo non era più praticato in Afghanistan.
Il caso dei Buddha di Bamiyan non è certo isolato. Nel 1992 i fondamentalisti induisti assaltarono e rasero al suolo la moschea di Ayodhya, edificata nel 1529 in onore di Babur, invasore turco che fondatore dell’impero Moghul. Con la distruzione della Moschea di Babur i fondamentalisti miravano a cancellare dall’India qualsiasi segno che potesse richiamare alla memoria il passato islamico dell’India.
Ultimo esempio da ricordare: l’abbattimento nel 1993 ad opera del Comando dell’esercito croatobosniaco del ponte di Mostar, in BosniaErzegovina, costruito nel 1566 dall’architetto turco Hajruddin. Il gesto non aveva alcuna valenza strategica militare se non quella di punire la città assediata e fiaccare il morale della popolazione. E’ da evidenziare, anche qui, la valenza simbolica del gesto: la distruzione del Ponte Vecchio suggellava la divisione tra etnie, che prima della guerra avevano vissuto insieme anche grazie al collegamento garantito dal ponte. Per i musulmani era il modo di raggiungere la città croata e viceversa ma era, prima di tutto, come tutti i ponti, un modo di comunicare, di passare “dall’altra parte”. Perciò andava distrutto.
Dopo nove anni di lavoro, il 24 luglio 2004, fu inaugurato il ponte ricostruito, frutto della solidarietà di diversi paesi europei, dell’impegno di realtà quali l’UNESCO e il World Monument Fund e, naturalmente, dell’iniziativa del governo bosniaco.
Basandosi sulla convinzione che i danni arrecati ai beni culturali, a qualsiasi popolo essi appartengano, costituiscono danno al patrimonio culturale dell’umanità intera, il diritto internazionale si occupa dei beni culturali sotto molteplici aspetti, in corrispondenza dell’interesse che non solo le singole persone bensì anche i popoli esprimono nei confronti delle “testimonianze” di culture diverse dalla propria e l’aspirazione a riconoscere i beni culturali come strumenti per la ridefinizione di concetti quali identità culturale e civiltà. E su questo punto occorre soffermarsi per domandarsi se la sintetica definizione “radici giudaicocristiane” da più parti proposta (in particolare con riferimento al Preambolo della Costituzione per l’Europa) possa adeguatamente rappresentare anche realtà, così importanti per la nostra cultura, come la civiltà nuragica in Sardegna o quella etrusca, che a tali radici non si rifanno certo.

L’11 settembre e il fenomeno del terrorismo internazionale
Una data spartiacque nelle relazioni internazionali e interreligiose è sicuramente l’11 settembre 2001. A seguito dei fatti del 9/11 e l’espansione su scala globale del fenomeno del terrorismo internazionale, secondo Asma Jahangir, avvocato pachistano per i diritti umani e relatore speciale della Commissione sui diritti dell’uomo sulla libertà di credo religioso, l’intolleranza religiosa è emersa in modo molto più significativo verso alcune religioni e, in particolare, l’Islam è stato direttamente collegato al terrorismo, portando allo scoperto un pregiudizio e una intolleranza che c’era sempre stata, ma, afferma Jahangir, “in modo latente”.
Quando parliamo di terrorismo internazionale automaticamente pensiamo a gruppi di persone che si ispirano a ideologie di matrice islamica, ma è una nozione vaga e soprattutto unilaterale. Terrorismo è anche quello degli Stati, quando attaccano Paesi che non hanno commesso alcun crimine internazionale, invocando la guerra preventiva o il diritto all’autodifesa, stravolgendo, in tal modo, il diritto internazionale.
Ma soprattutto è proprio in tema di garanzie e di limiti alla libertà di religione, in un contesto internazionale caratterizzato dalla lotta contro il terrorismo, che si pongono gli interrogativi più pressanti. Ad es. è lecito limitare la libertà di religione quando vi sono fondate esigenze di sicurezza nazionale? Ancora, i diritti (meglio: gli interessi) della collettività quali ad es. la sicurezza, l’ordine pubblico, la morale pubblica, “pesano” di più di quelli di ciascun singolo individuo? Le risposte a questi interrogativi derivano dalla applicazione di alcuni fondamentali principi: quello del bilanciamento tra interessi o diritti collettivi e diritti individuali; e quello del margine di apprezzamento statale. Il tutto all’interno del riconoscimento che esistono norme e principi sui diritti umani derogabili e norme e principi sui diritti umani che non tollerano alcuna forma di limitazione o deroga (ad es. il divieto di tortura o il diritto alla vita) nemmeno per motivi di ordine pubblico e sicurezza nazionale.
Quanto al problema del bilanciamento, ricordiamo la risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite n. 173 del 28 settembre 2001 recita che: tutti gli Stati hanno l’obbligo di sradicare il terrorismo, di proteggere i propri cittadini da atti di questa natura e, a tal fine, assumere una gamma esauriente di misure legislative, procedurali ed economiche, nonché di prevenzione, proibizione e criminalizzazione degli atti terroristici. Nello stesso tempo, considerata l’importanza fondamentale dei diritti umani e delle libertà fondamentali in una società democratica libera ed aperta, la risoluzione esorta tutti gli Stati ad assicurare che le misure restrittive dei diritti umani adottate come risposta al terrorismo operino un giusto bilanciamento tra le esigenze di sicurezza nazionale e le libertà fondamentali.
Quanto alla dottrina del ‘margine di apprezzamento’, questa è uno strumento interpretativo utilizzato dai tribunali internazionali sui diritti umani quale la Corte europea dei diritti umani (Strasburgo), per riconoscere agli Stati la facoltà discrezionale di restrigere o derogare ai diritti previsti dai testi convenzionali quando ciò sia necessario in una società democratica per preservare l’ordine pubblico e/o a garantire il rispetto dei diritti e delle libertà altrui. Le corti internazionali hanno fissato i criteri di applicazione nonché i limiti del margine di apprezzamento. Ad es. l’esistenza di un consenso più o meno ampio degli Stati contraenti su una materia non espressamente disciplinata nei testi convenzionali; l’esistenza di un rapporto di proporzionalità tra misure restrittitive adottate e scopi perseguiti; e appunto l’esistenza di un un equo bilanciamento fra l’interesse del singolo e quello della collettività.

Le migrazioni, pluralismo dello stato e laicità delle istituzioni
Il fenomeno delle migrazioni internazionali ha assunto negli ultimi anni una rilevanza sempre più significativa e questo non solo in relazione al numero di zone interessate, ma anche alla tipologia di soggetti coinvolti: un numero sempre più crescente di persone lascia il proprio Paese di origine alla ricerca di migliori opportunità di vita, o per sfuggire a guerre o persecuzioni. In Italia il fenomeno ha subito una rapida crescita ed una straordinaria trasformazione: in poco meno di venti anni si è realizzata la transizione da Paese di forte emigrazione a terra d’immigrazione tanto da farne uno dei paesi dell’Unione Europea soggetto ai maggiori flussi immigratori.
Le esperienze migratorie che nell’attuale momento storico coinvolgono massicciamente i Paesi dell’Europa hanno, innanzitutto, innescato una trasformazione antropologica degli spazi e delle strutture in cui si svolge quotidianamente la vita di comunità; spazi e strutture in cui la composizione dei diritti e doveri reciproci, in un quadro fatto di differenze culturali, etniche e religiose, si è fatta particolarmente delicata.
Lo spostamento massiccio di persone dal paese di origine a quello ospitante comporta l’incontro tra diverse culture, ognuna delle quali caratterizzata da diverse norme. Queste non sono necessariamente giuridiche, l’osservazione delle quali è garantita dal potere coercitivo di uno Stato, ma possono essere religiose, etiche, sociali, comportamentali, e molte altre ancora. Se l’incontro avviene tra norme compatibili tra loro non sussistono particolari problemi, ma se avviene tra norme incompatibili, o vi è un adeguamento da parte delle due culture, o si verifica uno scontro.
Ciò è quanto è avvenuto in relazione alla manifestazione di segni e simboli religiosi nelle scuole. La scuola, è evidente, ha ruolo strategico nella evoluzione delle comunità locali (un tempo monoculturali e monoreligiose) in comunità multiculturali e multireligiose in quanto primo spazio pubblico in cui queste differenze si rendono oggi più visibili. La tutela della libertà religiosa in ambito scolastico pone molteplici problemi sia sotto il profilo dei diritti individuali sia dal punto di vista dei diritti collettivi. Si pensi ad esempio, ai simboli di appartenenza etnicoreligiosa, come il velo islamico o a quelli più esplicitamente confessionali come il crocefisso (in Germania, oltre la sentenza sull’esposizione del crocifisso resa dal Tribunale costituzionale federale tedesco il 16 maggio 1995 vanno ricordate altre due del 30 luglio e del 24 settembre 2003 sull’uso del velo).
Da segnalare la legge emanata in Francia il 15 marzo 2004, la cosiddetta “legge sul velo islamico”. Tale legge ha posto all’attenzione dell’opinione pubblica una questione molto delicata, vietando agli studenti delle scuole pubbliche francesi di indossare i simboli religiosi vistosi, come ad esempio, il velo islamico, la kippà ebraica e le grandi croci cristiane.
La legge francese finalizzata all’applicazione del principio di laicità nelle scuole pubbliche, segna un momento di svolta fondamentale. In primo luogo, la Francia prende così fermamente posizione in una materia che tocca i diritti fondamentali in favore del rafforzamento, e forse anche dell’imposizione, del principio di laicità. In secondo luogo, rappresenta il primo tentativo da parte di un legislatore, non solo in Francia, ma anche in Europa, di regolare una materia che era fino ad oggi gestita attraverso timide e a volte contrastanti interpretazioni giurisprudenziali. Il testo della legge è molto scarno. L’articolo 1 introduce il divieto di portare all’interno delle scuole pubbliche (e anche nel corso delle attività extradidattiche quali le gite scolastiche), “segni o abbigliamenti attraverso i quali gli alunni manifestino ostensibilmente un’appartenenza religiosa”.
L’avverbio “ostensibilmente” è una via di mezzo alquanto ambigua tra due soluzioni estreme, ma comunque più chiare: se si fosse scelto “visibilmente” (o “volontariamente visibile”), come aveva suggerito la commissione di esperti nominata dal Parlamento nel 2004 (la cd. Commisson Stasi), il proibizionismo sarebbe stato radicale, fino alle croci e alle stelle di Davide portate al collo: il legislatore evidentemente non se la sentiva di arrivare sin lì. Se invece si fosse optato per “ostentatoriamente” la proibizione sarebbe stata chiaramente delimitata a tutti i segni non “discreti”, ma allora si sarebbe sostanzialmente confermata la disciplina preesistente della materia di origine giurisprudenziale (cfr. Consiglio di Stato francese 1989).
Resta da chiedersi se la legge francese sul velo raggiunga gli obbiettivi che ne hanno motivato l’adozione e cioè: applicare il principio di laicità dello Stato sia a beneficio della coesione nazionale sia al fine di garantire il rispetto delle differenze.
A proposito di laicità, non possiamo esimerci dal sottolinerare i pericoli derivanti da una incompiuta realizzazione del principio di laicità nelle istituzioni pubbliche in tutti quei paesi che, come il nostro, non lo sanciscono espressamente nelle carte costituzionali. In italia, ad esempio, il principio di laicità è ricavato in via interpretativa dalla Corte Costituzionale in base agli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 Cost., come un principio “supremo” del nostro ordinamento. Ciononostante esso è tutt’altro che recepito dal legislatore e a volte è applicato dalla stessa Corte costituzionale in modo incerto. Ancora, emblematica è stata in Turchia la vicenda che ha riguardato una docente universitaria, la sig.ra Hidayet Tuksal, cresciuta in una tradizionale famiglia musulmana di Ankara, e rispettosa dei precetti coranici inerenti la condizione della donna. La signora Tuksal si è sempre opposta a molte leggi laiche del suo paese e soprattutto a quella che imponeva alle donne di non indossare il velo nelle istituzioni universitarie, cosa che le è costata un provvedimento di allontanamento dall’insegnamento con la perdita del posto di lavoro (per inciso la legge turca è stata abrogata pochi mesi fa).
Ne deriva che le implicazioni del principio di laicità, inteso in senso ampio, come diretta espressione del modello pluralista, sono molte e tutte molto rilevanti, investendo non solo l’area del sentire religioso, ma anche quella della cultura, dell’arte, della scienza, dell’istruzione, di tutti i campi in cui il potere pubblico dovrebbe porsi come regola quella di una “neutralità attiva”, che consenta la massima espressione di garanzia di rimozione dei privilegi attribuiti a una singola confessione. La “libertà di scelta” è, infatti, l’aspetto più moderno della religione contemporanea e ciò implica che gli sforzi vadano compiuti in direzione di una laicità che sia funzionale al rispetto del pluralismo.

Reciprocità e intercultura
Non posso non ricordare, in questa sede, un fatto accaduto nel 2000. L’ordinanza del sindaco di Rovato (Bs) n. 86 del 21 novembre 2000 che istituisce “un’area di protezione e sicurezza pari a mt. 15 lineari intorno ai luoghi sacri e di religione cristiana” ispirandosi alla necessità di “salvaguardare i valori cristiani dalla incessante contaminazione di altre religioni” e, soprattutto, basandosi sulla reciprocità, cioè, sul fatto, che “altri Stati vietano l’ingresso in determinate aree ai non appartenenti ad una specifica religione”, rimarcando l’irrinunciabilità di questo principio. Premesso che l’ordinanza fu dichiarata nulla due mesi dopo con decisione prefettizia dell’11 gennaio 2001, mi preme, a partire da questo avvenimento, rilevare che: 1) Nella tradizione occidentale e cristiana, ancor più che in altri contesti, i diritti fondamentali sono collegati, nella titolarità agli individui e non agli Stati. A questi ultimi spetta riconoscere e non attribuire diritti di cui la persona umana è titolare semplicemente perché esiste; 2) La Costituzione italiana all’art. 8 prevede che “tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge” e all’art. 19 che “tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa…, di farne propaganda e di esercitarne in privato e pubblico il culto”; 3) Per quanto riguarda in particolare la reciprocità, l’art. 10 della Costituzione, al terzo comma stabilendo che “la condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali” rende superata la condizione di reciprocità, in particolare, in relazione a diritti costituzionalmente garantiti, e, comunque, subordina le previsioni normative interne al contenuto, in materia, delle norme internazionali alle quali il nostro ordinamento si sia conformato; 4) A proposito di queste ultime, giova forse ricordare che il diritto alla libertà di pensiero, coscienza e religione è riconosciuto nel Patto sui diritti civili e politici del 1966 (art. 18) e nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo (art. 9) senza alcuna possibilità di condizionarne il godimento alla reciprocità, principi, questi, che si ritrovano nell’art. 18 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo e nell’ordinamento comunitario. Da quanto detto, emerge una difficoltà pratica: pur volendo applicare la reciprocità, come fare con quei cittadini di paesi che, ad esempio, ammettono culti diversi dall’islam? Occorrerebbe forse costruire moschee riservate ai tunisini e magari vietate ai sauditi?
Dopo le tristi vicende che hanno riguardato le banlieu francesi e il fallimento del modello assimilazionista è importante oggi, quindi, ancora più di ieri scegliere l’interculturalità come modello avanzato di integrazione sociale che sia in grado di riconoscere attraverso la cittadinanza giuridica anche la “cittadinanza simbolica” degli immigrati consentendo di trovare strumenti che consentano di convivere nella differenza allontanando, in tal modo, il rischio dell’odio reciproco scaturente dalla ricerca, improbabile, di un’uniformità agghiacciante.
Prendiamo l’esempio del porcellino Norberto, gadget che una grande banca belgaolandese dava in omaggio ai suoi clienti. In quanto salvadanaio piaceva ai bambini, in quanto porcellino poteva irritare i musulmani di qui la scelta della banca di ritirare Norberto come gadget. Ecco quanto NON va fatto se si crede in una “società interculturale” il cui postulato fondamentale prevede che nessuna cultura abbia diritto di veto, di prevaricazione o, peggio, di minaccia sulle altre. Quale poteva essere “un’azione interculturale”?: ad esempio fare omaggio ai clienti islamici del tipico calendario che le banche propinano ai loro clienti continuando a regalare Norberto a tutti gli altri oppure, ancora meglio, concordare col cliente musulmano quale dei due gadget avrebbe preferito visto che i musulmani pur non mangiano la carne di maiale non è detto che escluderebbero di portare ai propri bambini il simpatico pupazzo a forma di maiale ricevuto in regalo; di questo passo, altrimenti, si dovrebbero censurare anche alcuni cartoni animati come la mucca Carolina o Dumbo in quanto, mucca e elefante, animali sacri alla religione induista. Meritano di essere ricordate, tra le altre, e solo perché più recenti, alcune vicende di costruzione interculturale: la storia del parroco di una città italiana che ha messo a disposizione alla comunità islamica della città la propria chiesa per la preghiera del venerdì e la costruzione del più grande polo di preghiera e meditazione buddista dell’occidente sulle colline pisane del comune di Santa Luce che ha visto, per la sua realizzazione, la consulenza della facoltà di ingegnera delle università di Pisa e Napoli. Accanto al tempio saranno costruite delle stanze per accogliere i monaci tibetani in fuga dalla repressione cinese.

Conclusioni
Concludendo, la religione, si presenta sia nel passato che nel presente come un’arma nelle mani del potere anche se ciò attiene soprattutto alle tre grandi religioni monoteiste: ebraismo, cristianesimo e islam. Sostiene l’egittologo tedesco Jan Assman nel suo libro “Non avrai altro Dio” che il monoteismo con la sua concezione di un Dio unico instaura un concetto di verità assoluta che riduce le verità di tutte le altre religioni al rango di menzogne e si presenta, quindi, di per sé, intollerante. Una tolleranza, dunque, che va costruita, per richiamare le interessanti affermazioni del giurista Zagrebelsky, attraverso “le ragioni del dubbio” che promuove dialogo e confronto al fine della costruzione di una verità suscettibile di essere continuamente riesaminata e riscoperta. Quindi, relativismo contro l’assolutismo delle religioni. Da buon giurista sottolinea come questo aspetto sia visibile anche nel conflitto tra l’universalità della legge e la storicità delle situazioni concrete. Quando, ad esempio, da “occidente” si proclama l’”universalità” dei diritti dell’uomo, questa viene a scontrarsi con l’esistenza di profonde differenze culturali di cui, allo stesso modo, si proclama il rispetto. L’”universalità” dei diritti umani può, quindi, in questo caso, presentarsi come una pretesa “verità assoluta” che contraddice se stessa nel richiamare la necessità del rispetto del relativismo culturale; ma ciò che va superato non è l’universalismo ma la sua versione astratta così come l’aspetto radicale del relativismo che rischia di ghettizzare ogni civiltà. E poiché non vi è regola per decidere tra le regole, è necessario un dialogo senza pregiudizi in cui tra regole che appaiono entrambe giuste si cerca di reperire quella equa.
“E’ necessario, scrive Zagrebelsky, che tutte le convinzioni e le fedi cessino di essere verità e si trasformino in opinioni quando diventano pubbliche. Senza questa capacità di trasformazione non si dà dialogo, così spesso retoricamente invocato e tanto meno democrazia.”. L’etica del dubbio, da cui discende la ricerca del dialogo tra posizioni differenti, non è il contrario della verità ma il suo presupposto a partire dalla consapevolezza che nessuno può possederla.
Da quanto detto ricordiamo ancora le parole di condanna del Gentili alle guerre di religione: “At qui in alia civitate sunt, hi si vivunt aliter atque nos vivimus in civitate nostra, nos utique non offendunt”. (coloro che vivono in un altro Stato seguendo le loro usanze, mentre noi seguiamo le nostre, certamente non ci fanno alcun male).

Libertà di religione:
l’evoluzione normativa internazionale

Dott.ssa Gemma Andreone
Ricercatrice del CNR Istituto di Studi Giuridici Internazionali –
Sede di Napoli

Abstract

Il diritto individuale alla libertà religiosa è collegata alla storia moderna europea cioè al periodo della Riforma protestante e delle guerre di religione. Infatti, nel mondo antico la religione costituiva il fondamento del potere politico e il culto religioso si confondeva così con il rispetto del potere sovrano. Il politeismo romano sembrava abbastanza tollerante dei culti di altri popoli, sempre se praticati nel rispetto dell’ordine pubblico, finché non iniziarono le persecuzioni contro i cristiani, determinate soprattutto dall’inconciliabilità del forte monoteismo cristiano con il politeismo e con l’obbligo del culto imperiale imposto dai romani. Solo con la Riforma protestante si inizia a parlare di diritto alla libertà religiosa. Ma esso era inteso solo come diritto posto a tutela degli Stati e non dei singoli individui.
Sul piano internazionale, il diritto individuale alla libertà di religione è stato riconosciuto a partire dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948. L’art. 18 della Dichiarazione, infatti, garantisce espressamente il diritto alla libertà religiosa e, più in particolare, il diritto di qualsiasi individuo alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione, con la precisazione che tale diritto “implica la libertà di cambiare religione o credo, e la libertà di manifestare la religione individualmente o in comune, in pubblico o in privato, attraverso l’insegnamento, le pratiche religiose, il culto e il compimento di riti”.
Con una formulazione più o meno identica, le libertà in materia religiosa sono state inserite in tutti i successivi strumenti internazionali relativi alla salvaguardia dei diritti dell’uomo. Tale è il caso del Patto sui diritti civili e politici adottato dalle Nazioni Unite nel 1966. Il Patto sancisce anch’esso all’Articolo 18 che ciascun individuo ha il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione, e che tale diritto include la libertà di avere o di adottare una religione o un credo di sua scelta, nonché quella di manifestare, individualmente o in comune con altri, e sia in pubblico sia in privato, la propria religione o il proprio credo. Tale libertà non può essere assoggettata a costrizioni che possano menomarne il contenuto fatta eccezione per quelle restrizioni previste dalla legge e necessarie per la tutela della sicurezza pubblica, dell'ordine pubblico e della sanità pubblica, della morale pubblica o degli altrui diritti e libertà fondamentali. La norma sulla libertà di religione come prevista dall’articolo 18 del Patto sui Diritti Civili e Politici, è stata oggetto di diversi interventi interpretativi resi dal Comitato sui diritti umani (organo di controllo sul rispetto del Patto da parte degli Stati contraenti); il Comitato nei suoi Commenti Generali (cfr. il Commento Generale n° 22 di interpretazione dell’articolo 18 nonché il Commento Generale n° 28 in tema di eguaglianza fra i sessi) ha ribadito non solo la centralità della disposizione pattizia in questione, ma ne ha riconosciuto la stretta interdipendenza con gli altri diritti garantiti dal Patto. In particolare, con riferimento al divieto di discriminazione nei confronti delle donne, il Comitato ritiene che gli Stati parte abbiano l’obbligo di adottare misure per garantire che le libertà di pensiero, di coscienza e di religione siano riconosciute in diritto e in fatto sia agli uomini che alle donne, con le stesse condizioni e senza discriminazione alcuna. Inoltre, secondo il Comitato l’articolo 18 non può essere invocato per giustificare la discriminazione contro le donne in nome della libertà di pensiero, di coscienza e di religione. A tal fine gli Stati parte devono fornire informazioni sulla condizione delle donne in materia di libertà di pensiero, di coscienza e di religione, e indicare quali passi sono stati compiuti o si intenda compiere sia per eliminare e prevenire le violazioni di tali libertà per ciò che riguarda le donne, sia per tutelare i diritti di queste ultime da ogni discriminazione. Secondo il punto di vista del Comitato, possono costituire delle violazioni dell’articolo 18 anche quelle norme nazionali che impongono alle donne un determinato tipo di abbigliamento da indossare in pubblico, e/o quando misure statali impongono alle donne determinate abitudini in materia di abbigliamento che siano in contrasto con la loro religione o con la loro libertà di espressione.
Sul piano giuridico europeo, la garanzia della libertà di religione è prevista nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, firmata a Roma nel 1950. In particolare l’art. 9 della CEDU, al primo comma, riconosce ad ogni individuo il “diritto alla libertà di religione”, e sancisce le modalità di esercizio di tale diritto includendovi “la libertà di cambiare religione o credo, così come la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti”. In relazione all’obbligo degli Stati contraenti di assicurare il diritto all’istruzione, inoltre, il Protocollo Addizionale n. 1, firmato a Parigi il 20 marzo 1952, all’art. 2 rinvia alla necessità che in tale ambito lo Stato si adoperi affinché l’istruzione e l’insegnamento siano impartiti nel rispetto delle “convinzioni religiose e filosofiche” dei genitori dell’educando.
La garanzia della libertà di religione come prevista dalla CEDU va intesa, in primo luogo, secondo una accezione negativa, nel senso che nessun individuo può essere direttamente coinvolto in attività religiose se non lo desideri e se non sia volontariamente membro di una data comunità religiosa. Da siffatto punto di vista, l’art. 9, interpretato sistematicamente con l’articolo 14 della CEDU, sancisce, l’obbligo per lo Stato di non far discendere dall’appartenenza di un individuo ad una religione privilegi o svantaggi che determinerebbero una ingiustificata discriminazione di tali soggetti ed una inammissibile violazione di entrambe le disposizioni. Per quanto riguarda l’accezione positiva della garanzia della libertà di religione, occorre evidenziare che la disposizione dell’articolo 9 della CEDU pone sugli Stati contraenti l’obbligo di adoperarsi affinché sia assicurata la tolleranza, e dunque sia consentito l’esercizio del pluralismo religioso e sia mantenuta la pace religiosa. Ne deriva il dovere per gli Stati membri della CEDU l’obbligo positivo di adottare le misure interne atte a mettere in pratica effettivamente tale principio. Il secondo comma dell’art. 9 della CEDU disciplina i limiti ai diritti di libertà in materia religiosa; in proposito, è opportuno precisare che tali limitazioni riguardano esclusivamente il diritto all’esercizio di una religione e non invece il diritto generale alla libertà di religione, né il diritto di cambiare religione. Il fatto che la limitazione riguardi esclusivamente le forme di manifestazione del proprio credo si giustifica in base alla constatazione che in una società democratica nella quale coesistono più religioni fra la medesima popolazione, può essere necessario accompagnare tale libertà con limitazioni che tendono a conciliare gli interessi dei diversi gruppi ed assicurare il rispetto delle convinzioni di ciascuno. Dalla garanzia prevista dall’articolo 9 della CEDU scaturisce, altresì, la possibilità per lo Stato di adottare legittimamente le misure necessarie al fine di reprimere le condotte private ritenute incompatibili con il rispetto della libertà di religione altrui. Ad esempio, tale è il caso della comunicazione di informazioni e di idee in violazione dello spirito di tolleranza e della necessità di garantire il pluralismo religioso, che devono connotare ogni società democratica.
Nell’ambito, poi, dell’ordinamento comunitario la libertà di religione, originariamente tutelata in quanto principio generale del diritto comunitario derivante dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, è stata inserita nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, adottata a Nizza nel 2000, successivamente inclusa nella Parte II del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, che non è entrata in vigore. Il diritto garantito dall’art. 10 della Carta di Nizza corrisponde a quello previsto dall’art. 9 della CEDU e, ai sensi dell’art. 52, par. 3 della Carta ha significato e portata identici anche in relazione alle limitazioni che ad esso possono essere apportate.
Disposizioni del tutto simili a quelle analizzate qui sopra, sono contenute dall’articolo 12 della Convenzione interamericana sui diritti umani del 22 novembre 1969, e dall’art. 8 della Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli del 28 giugno 1981. Nella Convenzione interamericana il significato e la portata delle disposizioni convenzionali non sono differenti da quelli propri della Convenzione europea dei diritti dell’uomo come testimoniato dalla giurisprudenza della Corte interamericana dei diritti umani (cfr. in particolare la sentenza del 5 febbraio 2001 sul caso relativo alla proiezione del film L’ultima tentazione di Cristo).
Il minimo comune denominatore delle norme internazionali sulla libertà religiosa presenti negli strumenti internazionali è che esse sono formulate in termini molto generali. Benché vi sia un ampio consenso tra gli Stati sul principio della libertà religiosa, persistono ancora molte divergenze soprattutto in relazione ai problemi concreti e all’interpretazione dei singoli termini contenuti nelle singole disposizioni dei trattati internazionali.
Secondo una visione pragmatica, il diritto alla libertà religiosa deve essere riconosciuto e garantito dagli Stati perché, e nella misura in cui esso è finalizzato ad assicurare la coesione sociale all’interno di ciascuno Stato e anche a garantire la pace a livello internazionale. Secondo questa idea la diversità di religione non deve essere eliminata, anzi deve essere riconosciuta e non contrastata. In altri termini, la libertà di religione non costituisce un fine in sé, ma soltanto uno mezzo per raggiungere l’obiettivo più ampio della pace sociale. In concreto, pertanto, l’obiettivo della coesione sociale diventa anche il parametro per effettuare il bilanciamento tra interessi e libertà contrapposti. Quindi la libertà di religione prevarrà solo se la sua applicazione realizza un miglior risultato in termini di pace sociale.
Una diversa impostazione la libertà di religione sarebbe, invece, fondata sull’esperienza storica piuttosto che sulle esigenze sociali. Ne consegue che la libertà di religione sarebbe meritevole di protezione in quanto destinata ad impedire, o nella misura in cui essa sia necessaria per impedire, violazioni di altre norme sui diritti umani. In altri termini il riconoscimento di siffatta libertà sarebbe necessaria ad evitare le frequenti e gravissime misure repressive (pena capitale, roghi, tortura, incarcerazione, esilio, ecc.) che sono state adottate nel corso della storia contro i dissidenti religiosi. La vicenda umana di Gentili costituisce una chiara prova del pericoloso legame che può incardinarsi tra l’idea di una verità religiosa assoluta ed intrinseca alla quale aderire ciecamente, e le misure repressive destinate finanche all’annientamento dei dissidenti, degli eretici, degli infedeli, degli atei, così come dei credenti in uno Stato radicalmente ateo. In altre parole, intesa in questi termini, la libertà religiosa servirebbe ad impedire, ad esempio, la violazione del diritto alla vita, del divieto di tortura, del diritto alla libertà di espressione o di riunione, e così via. Anche in tal caso la libertà di religione non viene vista come un fine in sé bensì come un mezzo strumentale alla realizzare di un altro fine.
Secondo un’altra visione più intimamente religiosa, la libertà religiosa troverebbe la sua ragion d’essere nella necessità che il sentimento religioso sia genuino e nel rafforzamento della convinzione dei credenti nella «vera religione».Promuovere la tolleranza religiosa è un interesse di tutti e soprattutto delle organizzazioni religiose minoritarie in uno Stato. La garanzia del rispetto delle verità di ciascuno e della libertà di culto è una esigenza insopprimibile per tutte le confessioni. Paradossalmente quindi ogni religione proclama la propria verità unica e sola, ma allo stesso tempo deve ammettere ed accettare la coesistenza di altre “verità” religiose. Tuttavia, non tutte le religioni ammettono la tolleranza religiosa, né possiamo ritenere che una vera religione possa essere soltanto quella che accetta l’idea di tolleranza, cioè l’idea di un compromesso pratico.
Infine, esiste anche un’idea liberale della libertà di religione capace di adattarsi al laicismo, al pluralismo e al multiculturalismo dominanti del mondo attuale, in cui è sempre più difficile cogliere la superiorità di una religione o di una convinzione rispetto alle altre. Ciascun individuo, può decidere quale convinzione sia migliore e lo Stato dovrebbe trattare gli individui come intelligenti e capaci di concepire la migliore vita per loro stessi, senza discriminarli, con gli unici limiti del rispetto delle libertà altrui e della tutela degli interessi della collettività. Tuttavia, il rapporto tra la libertà di un individuo e la eguale libertà di un altro individuo, così come il rapporto tra le libertà individuali e le esigenze della collettività pone numerosi problemi e rinvia sempre ad una decisione di bilanciamento dei contrapposti interessi che viene effettuata dalle autorità politiche e in ultima istanza dal giudice.
In relazione ai principali problemi che la garanzia della libertà di religione ha posto e continua a porre in concreto dinanzi agli organi internazionali di controllo, è il caso di evidenziare che anche laddove prevarrebbe l’approccio meno oltranzista nei confronti della libertà di religione, qualora appaia poco conveniente garantire l’autodeterminazione individuale, si tende ad optare per l’approccio storico, cioè evitare gravi violazioni di altri diritti fondamentali e assicurare la coesione sociale e la pace laddove la religione diviene strumento di azioni terroristiche.
a) Nozione di “religione” e di “convinzione” religiosa. Non c’è dubbio che siano considerate religioni e godano del diritto alla libertà religiosa le religioni tradizionali: il Cristianesimo, l’Islam, l’Induismo, il Buddismo e l’Ebraismo, nonché i Testimoni di Geova, Scientology, e simili. Tra le «convinzioni» religiose protette sono state inserite non solo quelle non giudaicocristiane e non religiose, come quelle agnostiche e atee, ma in generale tutte le quelle che raggiungono un certo livello di serietà, coesione ed importanza, o una visione coerente circa determinate fondamentali problematiche come, ad esempio, il pacifismo. Meno chiaro è se ricadono nel diritto alla libertà religiosa le convinzioni di carattere politico, come il nazismo e il comunismo, così come religioni quali il druidismo.
b) Blasfemia e altre offese al sentimento religioso. In diversi casi si è posto il problema se la manifestazione di un’opinione che potrebbe derivare, ad esempio, dalla proiezione di un film potenzialmente offensivo per una religione fosse compatibile con il diritto alla libertà religiosa. In questo caso, questi due diritti fondamentali vengono a confliggere. Secondo la Corte europea, nella nota sentenza OttoPreminger, la critica ad una religione (nella specie quella cattolica, maggioritaria nel Tirolo austriaco in cui la questione era sorta) è ammessa ma non può spingersi fino ad inibire i credenti ad esercitare la loro libertà di credo. Lo Stato deve anzi intervenire a tutela dei credenti e assicurare la “pace religiosa”. Il problema è stato, invece, nettamente risolto a favore della libertà di espressione dalla Corte interamericana dei diritti umani nella sentenza del 5 febbraio 2001 nel caso relativo al film L’ultima tentazione di Cristo e, più recentemente, in relazione alle vignette satiriche contro Maometto.
c) Proselitismo. Fino a che punto il tentativo di convincere altri ad abbracciare la propria fede è compatibile con il diritto alla libertà religiosa? Non è chiaro, anche perché qui gli stessi corollari del diritto alla libertà di religione entrano in conflitto tra di loro: il credente ha diritto a manifestare la propria religione tanto quanto gli altri hanno diritto a non subire interferenze nella propria libertà di convinzione religiosa. Il problema non è dunque di stabilire se un diritto fondamentale debba considerarsi più importante di un altro, bensì se all’interno del diritto alla libertà religiosa debba prevalere l’aspetto della manifestazione e comunicazione ad altri o quello alla non interferenza degli altri. È difficile far prevalere il secondo perché se lo si facesse si finirebbe per svuotare di significato il diritto a cambiare religione. Nella sentenza Kokkinakis la Corte europea ha distinto la “testimonianza cristiana” dal “proselitismo improprio”, definendo quest’ultimo come una “corruzione o una deformazione” del primo dal momento che contempla azioni di violenza e di lavaggio del cervello. La Corte ne ha dedotto che la legge che nella specie puniva come reato il proselitismo religioso non violava in sé l’art. 9 in quanto era necessaria a proteggere la coscienza religiosa del popolo greco.
d) Velo islamico. Finora la Corte europea ha sempre concluso che il divieto statale di indossare il velo islamico è legittimo, in quanto persegue in modo proporzionato il fine della protezione dei diritti altrui, l’ordine pubblico e la sicurezza pubblica, ai sensi dell’art. 9, par. 2, della Convenzione. Questo contrariamente a quanto asserito dal Comitato sui diritti umani delle Nazioni Unite che ha, invece, ritenuto il divieto del velo contrario al diritto alla libertà religiosa in una decisione del 2004.
Questa conclusione è stata raggiunta sia in un caso in cui il divieto era stato imposto ad un’insegnante di scuola pubblica elementare in Svizzera (dove il principio della laicità dello Stato vale per qualsiasi simbolo religioso di qualsiasi religione), sia in vari casi in cui il divieto era stato imposto sia ad una docente universitaria sia a studentesse di scuola superiore e dell’università in Turchia (dove il principio della laicità dello Stato opera soprattutto a tutela del pluralismo e contro il fondamentalismo islamico). La Corte ha sempre evitato di distinguere e, quindi, anche di fornire soluzioni diversificate (se il velo fosse integrale o meno, indossato da un’insegnante o da una studentessa, se nello Stato convenuto il velo fosse imposto dalla tradizione, o se il divieto del velo riguardasse qualsiasi simbolo religioso di qualsiasi religione, etc.) e non ha neanche chiarito come debba intendersi l’eventuale effetto di proselitismo che il velo potrebbe indurre.
e) Insegnamento religioso nelle scuole pubbliche. I trattati sui diritti umani generalmente prevedono il diritto dei genitori di educare i figli secondo le loro convinzioni religiose e filosofiche e il correlativo obbligo dello Stato di non interferire in tale diritto nelle scuole pubbliche. Su tali basi, ad esempio, è stata censurata come contraria all’art. 2 del I Protocollo addizionale alla Convenzione europea, la pratica delle punizioni corporali in una scuola scozzese, alla quale si era opposto uno studente (che per tale motivo era stato espulso) e i suoi genitori. Va rilevato, tra l’altro, e per capire come lo stesso diritto alla libertà religiosa possa operare in astratto in direzioni perfettamente opposte, che il diritto dei genitori ad educare i figli secondo le loro convinzioni religiose sia stato invocato in altri casi anche per lamentare il fatto, inverso, che le punizioni corporali non fossero inflitte a scuola, in presunto contrasto con certi passi biblici. Generalmente, però, i giudici interni chiamati a decidere sulle proteste dei genitori per l’assenza di punizioni corporali a scuola hanno respinto tali richieste.

A tale proposito si ricorda la sentenza della Corte Costituzionale del Sud Africa del 4 maggio 2000 nel caso “Christian Education South Africa C. Minister of Education. Nella fattispecie, la Corte era stata adita da un’asso¬ciazione di 196 scuole cristiane evangeliche indipendenti (rappresentanti un totale di circa 14.500 alunni) secondo cui « corporal correction… is an integral part of this ethos and that the blanket prohibition of its use in its schools invades their individual, parental and community rights freely to practise their religion ». Ad avviso dei ricorrenti le punizioni corporali nelle scuole trovava un inequivocabile sostegno in diversi brani della Bibbia e, trattandosi di un aspetto vitale della religione cristiana la loro assenza a scuola violava i loro diritti alla libertà religiosa e culturale. La Corte ha posto il problema in termini di molteplicità dei valori costituzionali e degli interessi presenti nel caso. Infatti, se da un lato la collettività ha l’interesse di ridurre l’uso della forza proteggendo il più possibile i bambini dalla violenza, dall’altro la potestà dei genitori può essere influenzata negativamente se lo Stato decide al loro posto su come educare i figli e limita allo stesso tempo la loro libertà di espressione religiosa. Tuttavia, il contrasto tra tali interessi contrapposti deve essere risolto secondo la Corte facendo prevalere il fatto che lo Stato ha l’interesse primario di proteggere gli alunni dal degrado e dai maltrattamenti, pur riconoscendo che « for believers, including the children involved, the indignity and degradation lay not in the punishment, but in the defiance of the scriptures represented by leaving the misdeeds unpunished »

f) Mutilazioni Genitali Femminili
Il tipo di mutilazione, l’età delle vittime e le modalità dipendono da molti fattori tra cui il gruppo etnico di appartenenza, il paese e la zona (rurale o urbana) in cui le ragazze vivono. Nel Tigrai la mutilazione viene praticata sette giorni dopo la nascita, in altre zone alla prima gravidanza, ma nella maggior parte dei casi l’età è compresa tra i quattro e gli otto anni. La pratica delle mutilazioni genitali femminili è antecedente all’Islam e la maggior parte dei mussulmani non la usano. Tuttavia nel corso dei secoli questa consuetudine ha acquisito una dimensione religiosa e le popolazioni di fede islamica che la applicano adducano come motivo la religione. Il Corano non parla delle mutilazioni, esistono solo alcuni hadith (detti attribuiti al Profeta) che ne fanno cenno. A conti fatti le mutilazione genitali vengono praticate anche da cattolici, protestanti, animisti, copti e falasha (ebrei etiopi) nei vari paesi interessati.
Gli sforzi internazionali per sradicare la mutilazione genitale femminile hanno una lunga storia, ma è solo in questo secolo, grazie anche alla crescente pressione delle organizzazioni femminili africane, che si sono raggiunti risultati concreti. La Commissione sui Diritti Umani delle Nazioni Unite sollevò il problema delle mutilazioni genitali femminili nel 1952 e questa questione fu a lungo oggetto di studi e di dibattito.
Finalmente nel 1984 l’ONU creò a Dakar, un "Comitato interafricano sulle pratiche tradizionali pregiudizievoli per la salute delle donne e dei bambini" (IAC). L’obiettivo principale dello IAC era dar vita a campagne di sensibilizzazione e formazione per attivisti locali, levatrici e membri autorevoli delle comunità locali. A partire dagli anni ‘90 le mutilazioni genitali femminili vennero riconosciute dalla comunità internazionale come una grave violazione dei diritti delle donne e delle bambine.
Nella Dichiarazione sulla violenza contro le donne del 1993, le MGF vennero dichiarate una forma di violenza nei confronti della donna e nel 1994 la collaborazione tra le agenzie dell’ONU e le ONG portò al varo di un Piano di azione per eliminare le pratiche tradizionali pregiudizievoli per la salute della donna e delle bambine. Questa intenzione venne poi riaffermata con la Conferenza di Pechino nel 1995. Nel settembre 1997 lo IAC tenne un convegno per giuristi nella sede dell’Organizzazione per l’Unità Africana (OUA) ad Addis Abeba che elaborò la Carta di Addis Abeba, un documento che chiede a tutti i governi africani di adoperarsi per sradicare (o drasticamente ridurre) le mutilazioni genitali femminili entro il 2005. Le mutilazioni vengono vietate anche dall’art.21 della Carta Africana sui diritti e il benessere del fanciullo.
In Italia la Costituzione vieta espressamente qualsiasi violazione dell’integrità fisica della persona (artt. 2, 3 e 32 Cost.) e di recente, anche in attuazione della Dichiarazione di principi e del Programma di azione adottati a Pechino il 15 settembre 1995 al termine della quarta Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulle donne, è stata emanata la legge n. 7 del 9 gennaio 2006 contenente disposizioni per la prevenzione ed il divieto delle pratiche di mutilazione genitale femminile. La novità introdotta da questa legge è la creazione di uno specifico reato: viene infatti introdotta un’autonoma sanzione penale, consistente nell’aggiunta di un comma 4bis all’art. 583 c.p., il quale punisce con una sanzione durissima (612 anni) chiunque provochi ”una lesione o mutilazione degli organi genitali provocata, in assenza di esigenze terapeutiche, al fine di condizionare le funzioni sessuali della vittima”. La norma prevede altresì l’applicazione della pena anche “quando il fatto è commesso all’estero da cittadino italiano o da cittadino straniero residente in Italia, ovvero in danno di cittadino italiano o di cittadino straniero residente in Italia e quando vi è stata richiesta del Ministro della giustizia”.

Dalla sintetica analisi che precede possono trarsi alcune importanti conclusioni.
1) Il diritto alla libertà di religione è nato come diritto strumentale all’esigenza di ridurre i conflitti interni e i conflitti internazionali sia nei rapporti tra Potenze cristiane europee sia tra queste ultime e le Potenze non cristiane extraeuropee. Poi tale diritto si è evoluto e perfezionato grazie alla Riforma protestante e alle guerre di religione. A partire dalla Dichiarazione Universale del 1948 la libertà di religione costituisce un diritto individuale da far valere contro le illegittime interferenze delle autorità statali e continua a contribuire a mantenere la coesione sociale sia interna agli Stati
2) Il diritto alla libertà religiosa, così come i diritti umani in genere, dipendendo da precise ragioni e circostanze storicopolitiche. I diritti umani sono storicamente relativi, anche se la loro natura è di apparire come assoluti nel momento in cui sono affermati. Anche se il diritto alla libertà religiosa viene inteso in ogni singola epoca e in ciascun contesto sociale e politico come un diritto che non può essere messo in discussione perché riflette valori assoluti, in realtà tale diritto, come gli altri diritti umani, deve sempre confrontarsi con altri diritti individuali e con le esigenze insopprimibili della collettività, e persino a volte con se stesso visto che può accadere che lo stesso diritto alla libertà di religione venga invocato in modo diverso e da persone diverse.
3) I diritti umani tendono a contrapporsi radicalmente alla verità religiosa intesa come verità assoluta e unica. Infatti, nel sistema internazionale ed interno sui diritti umani, il diritto alla libertà di religione deve essere inteso nel senso del rispetto della verità dell’altro. Quindi ciò che deve essere garantito è il pluralismo religioso che non deve assicurare solo la libertà di religione, così come invocata dalle organizzazioni religiose per affermare liberamente la propria pretesa di verità unica, ma anche come libertà dalla religione, cioè come diritto a non dover subire l’idea di verità unica propria di chi professa una fede religiosa.
Infine, bisogna sempre ricordare quanto sia pericoloso per la sopravvivenza del genere umano il fascino e il bisogno irresistibile di verità assolute che possono annidarsi nelle convinzioni più forti, nelle confessioni religiose e nella stessa dottrina dei diritti umani.

La cultura araba e il mondo islamico oggi

Prof.ssa Francesca Maria Corrao
Ordinario di Lingua e Letteratura Araba presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”

Abstract

GALASSIA ISLAM
Quanti universi si dischiudono dietro la parola Islam? Al di là della vaga nebulosa che ci presentano i media c’è un credo religioso diffuso in un ampia area geografica, che dal Nord Africa attraversa il Medio Oriente per spingersi nell’estremo oriente e oltre, sino a toccare le due Americhe, se si procede in senso orario. È facile immaginare che su una tale estensione si riscontrino usi e costumi differenti. L’Islam si è diffuso in epoche diverse e l’opera di proselitismo, svolta sin dagli inizi da emissari politici, nel corso dei secoli è stata compiuta soprattutto dai commercianti.
Un gran numero di musulmani è di etnia araba e vive nell’area che va dal Marocco all’Iraq; comunità di musulmani di etnie diverse si trovano in Somalia, in Senegal, Mauritania e poi in Yemen, in Afghanistan e Pakistan, per arrivare attraverso l’India nel Mali.
La propagazione dell’Islam inizia nel VII secolo d.C. dalla penisola arabica, e si estende verso l’Asia centrale e il nord Africa, grazie alla semplicità rituale del monoteismo annunciato dall’ultimo profeta, Muhammad. L’adesione alla nuova fede prevede il credo in un solo Dio (shahada); la preghiera (salat) cinque volte al giorno, in direzione della Mecca, preceduta dall’abluzione rituale; il digiuno (sawm) purificatore nel mese di Ramadan; il versamento dell’elemosina (zaqah), un decimo del ricavato in beneficenza; il pellegrinaggio (hagg) nei luoghi santi della Mecca, almeno una volta nella vita, per chi ha i mezzi per permetterselo. L’Islam guadagna adesioni tra gli umili perché semplifica i complessi riti e le restrizioni delle fedi preesistenti, predica la solidarietà verso i più deboli, il principio di uguaglianza tra tutti gli esseri umani, condanna l’usura, e, fatto rivoluzionario per l’epoca, dà alle donne la possibilità di ereditare in maniera più equa e di separarsi da un coniuge ingiusto.

Maometto, il profeta
Il Profeta, Muhammad, apparteneva a un ramo poco fortunato del potente clan dei Quraysh della Mecca. Lavorava come capo carovaniere per una facoltosa imprenditrice che sarebbe diventata sua moglie e una tra le prime fedeli, e sin da giovane i lunghi viaggi lo avevano messo in contatto con le culture che fiorivano ai confini della penisola arabica. Negli anni della maturità una forte crisi spirituale lo aveva portato a sempre più frequenti ritiri nel deserto, che si concludevano con la visione dell’Arcangelo Gabriele che gli annunciava la rivelazione del Verbo di Dio. All’inizio la lenta conversione del Profeta, e di una ristretta cerchia di familiari e amici, non aveva creato problemi alla nuova religione. Però, nel volgere di pochi anni, la predicazione dell’imminenza del giudizio universale e la condanna del politeismo aveva cominciato a insospettire i capi clan della Mecca – dove si svolgeva un’importante fiera annuale occasione di pellegrinaggio votivo per diverse religioni – che temevano un sovvertimento degli equilibri economici e politici della città.

Nel 622 il profeta emigrava a Medina, dove elaborava la costituzione, stabiliva il principio della libertà di culto per le tre fedi monoteiste, e si dedicava all’istruzione dei fedeli e al proselitismo. La conclusione di una serie di importanti alleanze con i clan della penisola permise a Muhammad, nel 632 di rientrare a Mecca, dove aboliva il politeismo e fissava le regole del pellegrinaggio. Alla sua morte la comunità scelse un vicario (khalifa, califfo) come guida politica militare e spirituale. Abū Bakr fece confermare il patto di fedeltà e di alleanza con le tribù convertite e i suoi successori proseguirono il proselitismo oltre l’Egitto in nord Africa a ovest e a nord est verso l’Asia centrale.

Il Corano
Con la versione definitiva del Corano si avviò anche l’organizzazione delle norme religiose e giuridiche. Il Corano, insieme ai detti del profeta (Hadith), costituiscono la sunna, che rappresenta l’aspetto essenziale della tradizione sacra, il cardine della legge islamica, la shari’a. Gran parte degli Hadith sono stati raccolti dalla tradizione orale, autenticati e interpretati, per analogia (qiyās) o per consenso (igmā‘), dai massimi esperti della legge islamica nel corso dei primi tre secoli dell’Islam.
Il Corano rappresenta, con le sue 114 Sure, la parola di Dio, le sue indicazioni morali e l’esempio da seguire per essere un buon musulmano. Ogni fedele sa che, al momento della morte, Muhammad lo accoglierà per presentarlo al Signore nel giorno del giudizio universale. I musulmani dunque sono chiamati a seguire un comportamento equo e corretto nei confronti degli altri esseri umani, e rispettoso del creato che gli è stato affidato da Dio con il compito di migliorarlo. Il tanto vagheggiato paradiso terrestre lo meritano coloro i quali hanno seguito le indicazioni date da Dio e trasmesse al suo profeta; ma solo Dio valuta la bontà o l’empietà del comportamento umano. In Dio è concentrato tutto il bene e il male, il diavolo non è un antagonista ma un angelo che si è rifiutato di inchinarsi dinanzi all’uomo, mera creatura di Dio.

Essere musulmano
La conversione all’Islam metteva a disposizione degli abili mercanti della penisola araba un codice preciso di comportamento. Il vero musulmano si manifesta nell’ambito e nei confronti della comunità. Il singolo credente ha una grande libertà nel suo rapporto personale con Dio, però temperato da un forte senso comunitario. Il grande filosofo alGhazalî (m. 1111) considerava che l’interesse personale anima l’essere umano a fare , ma i doveri sociali sono obbligatori e devono essere utili alla comunità. Il sovrano è responsabile del benessere dei suoi governati, deve assicurare che il codice di condotta islamico sia rispettato e che i produttori di beni materiali procedano equamente e onestamente. L’essere credenti si coniuga con il “fare”, con il vivere nella comunità attivamente, con l’agire nella vita sociale per la giustizia e l’equa distribuzione delle risorse .
La dinastia califfale Omayyade, trasferitasi a Damasco alla morte del quarto califfo, nel venire a contatto con civiltà più evolute aveva saputo assimilare, facendoli propri, i sistemi organizzativi più sperimentati in sede amministrativa (bizantini) e a riorganizzare la propria lingua e il proprio pensiero alla luce della grammatica greca. La politica tollerante, ma accentratrice del Califfato Omayyade compattò il malcontento dei neoconvertiti delle regioni iraniche con le aspettative di matrice spirituale degli alidi ; gli avversari formarono un movimento che portò alla nascita del califfato Abbaside (7501258). La nuova dinastia riusciva ad acquisire in breve tempo le tecniche idrauliche iraniane, ad assimilare la filosofia greca e la matematica indiana; inoltre grazie alla divulgazione dell’uso della carta cinese poteva trasmettere la propria cultura in modo più rapido . Nei secoli d’oro del califfato era possibile viaggiare dalla Spagna sino in India e trovare accoglienza nei caravanserragli, ricovero negli ospedali, e conforto nelle moschee, dove era uso comune parlare in arabo. (L’arabo, essendo la lingua di Dio, è ancora oggi parlato in ogni paese islamico, dove i bambini imparano a memoria il Corano in età prescolare.)
Grazie al contributo delle tante culture assorbite, prima fra tutte quella iranica, conobbe un vertiginoso sviluppo della produzione industriale, commerciale e del sapere. I commerci erano prosperi e un senso di relativa uguaglianza consentiva ai più abili neoconvertiti di accedere rapidamente ai più alti posti dell’amministrazione. Essi diedero enorme impulso agli studi filologici e religiosi nell’intento di perfezionare la conoscenza dell’Islam. L’integrazione delle nuove comunità favorì anche l’assimilazione del millenario patrimonio culturale delle diverse civiltà di origine. In questi secoli la civiltà islamica seppe recuperare e reinterpretare i patrimoni delle culture greca, iranica, indiana e turca.

Pluralismo dottrinario
Il rapido espandersi dell’impero aveva creato nuove esigenze cui non sempre Corano e Sunna avevano potuto offrire soluzioni. Secondo una tradizione attribuita al profeta si era fatto ricorso a una terza analisi, il parere motivato e unanime dei dotti (igma‘). A questo si erano successivamente aggiunti l’analogia(qiyās) e il parere (ra’y), ma su entrambi non vi era unanimità perché troppo legati all’umana e dunque fallibile natura del giurista. L’attenta esegesi del Corano, e degli hadīth, costituiva lo sforzo personale d’interpretazione del giureconsulto che ha contribuito a creare quel pluralismo dottrinario caratteristico del pensiero islamico. La lontananza geografica fra i diversi centri della cultura islamica e la pluralità di opinioni portò abbastanza presto alla nascita di diverse scuole giuridiche: la “hanafita”, ritenuta la più liberale perché da spazio al parere dei giuristi; la “malikita”, considerata la più conservatrice perché fa stretto riferimento al parere della tradizione medinese; infine la “sciafi‘ita” e la “hanbalita”. Quest’ultima, a differenza delle altre, sostiene la necessità di proseguire lo sforzo interpretativo, e per questo a partire dal XIX secolo è diventata importante referente del riformismo islamico che, al di là degli eccessi criminali di alcune minoranze, è impegnato in un drammatico confronto con la modernità occidentale. Non si può completare questo rapido accenno senza menzionare lo sciismo (che rappresenta l’11% dei musulmani nel mondo, in maggioranza iraniani) .

Cultura
Un importante contributo della civiltà islamica alla cultura mondiale è quello di avere mediato il passaggio dal mondo antico a quello moderno. Ha inoltre trasmesso all’Occidente la ricchezza della cultura orientale. La presenza islamica nell’area mediterranea tra l’VIII e il XV secolo ha contribuito anche a modificare positivamente il paesaggio. Con l’introduzione dei sistemi orientali di irrigazione, in Sicilia e in Andalusia, si è potuta diffondere in Europa la coltura degli agrumi e della seta. Le scoperte scientifiche e geografiche, come la misurazione delle distanze degli itinerari di Idrîs, sostituirono efficacemente le co¬ordinate geografiche di Tolemeo. Le strumentazioni sofisticate e i calcoli dei navigatori arabi permisero a Vasco de Gama la circumnavigazione dell’Africa e a Cristoforo Colombo la scoperta dell’America. Alle inno¬vazioni nel campo dell’ottica e della medicina si aggiungeva anche la trasmissione della filosofia .
La traduzione delle opere di Averroè e di AlGhazâlî introdusse in Occidente il dibattito tra teologi e filosofi sul primato della perfezione morale e quello della conoscenza, sull’obbligatorietà dei doveri sociali e sul valore etico del lavoro come utile (ma¡la|a) al bene comune. Questo nuovo modo di intendere l’etica del lavoro penetrò in Europa per il tramite dei Cistercensi, di S. Tommaso d’Aquino e dei francescani che difesero l’utilità sociale della produzione e del commercio. Dobbiamo all’Islam anche le traduzioni delle opere letterarie orientali, come il Libro di Barlaam y Yosafat (un rifacimento della storia della vita del Budda), il Kalila e Dimna e altre storie note poi come Le mille e una notte, che furono diffuse dai cantastorie.
Questa cultura che celebrava l’essere umano che si fa da sé, e sfida le avversità per cambiare il proprio destino dava voce alla nascente mentalità mercantile. La cultura orientale contribuiva così al formarsi di un pensiero alternativo ai costumi militari dell’ordine feudale e al monopolio clericale delle istituzioni culturali.
Al massimo dell’apogeo si manifestano però i primi segni che avrebbero accelerato la decadenza dell’impero. La difficoltà di gestire un dominio così vasto facilitava l’autonomia dei principati periferici; la mancata attuazione delle promesse di uguaglianza fece da detonatore per i movimenti di ribellione servile. In Andalusia l’ultimo erede sopravvissuto degli omayyadi aveva creato un califfato autonomo, In nord Africa, come anche in Sicilia, i governanti rispettosi del vincolo abbaside godevano comunque della più ampia autonomia. L’immissione dell’elemento turco a corte contribuì alla mercernarizzazione dell’esercito, che, con la decadenza politica dell’amministrazione centrale finì per trasformare il Califfo in una figura esautorata nelle mani dei militari turchi. Impossibile elencare i nomi di tutti i regni che si alternarono ritagliandosi piccole aree di potere sotto l’egida del fatiscente califfato abbaside; questo sopravvisse agli attacchi crociati, anche se a contrastarli furono successivamente gli eserciti selgiuchidi, curdi e mamelucchi. Solo la devastante potenza dei mongoli guidati da Hulegu, nipote di Gengis Kan, fece crollare l’impero facendo sprofondare la regione in un’apocalittica crisi storica (1258).
La lunga fase della decadenza storica, dopo l’epoca d’oro dell’impero califfale abbaside (7501258), ha visto introdurre profondi cambiamenti nella comunità islamica. I Mamelucchi, che fissarono al Cairo il centro del loro sultanato si autoproclamarono protettori del Califfato e introdussero usi e costumi turchi nella gestione del potere. La commistione di usi e credenze estranee all’Islam provocava il risentimento dei teologi più rigorosi; tra questi spiccava il nome di Ibn Taimiyya (XIV sec.) che denunciava la corruzione dei costumi e faceva appello all’urgenza di ripristinare l’antico spirito della fede pura per salvare le sorti dell’Islam. Tra le diverse cause di corruzione individuava l’ignoranza delle donne che ricorrevano a pratiche pagane per superare le paure del vivere quotidiano, e contaminando la fede facevano degenerare la società e i sacri valori dell’Islam.
Gli scritti di questo esegeta sono stati presi a modello da alcuni modernisti islamici che, all’inizio del XX secolo, volevano rinnovare lo spirito autentico dell’Islam per fare fronte al colonialismo occidentale.
Gli Ottomani, dopo la conquista di Costantinopoli (1457), riuscirono a ricomporre la compagine imperiale della comunità islamica dopo un lungo periodo di frazionamenti, e a rilanciare l’espansione islamica verso l’occidente attaccando l’Europa da Est. La loro strategia espansionistica prosciugò gran parte degli investimenti a detrimento dello sviluppo economico delle aree dominate. L’espansionismo industriale e politico dell’Occidente travolse un Medio Oriente impreparato e un nord Africa tecnologicamente arretrato sia nelle forme di produzione agricola che nei mezzi di comunicazione.
Il violento impatto con la cultura occidentale, provocato prima dall’occupazione napoleonica dell’Egitto, e successivamente mediato dalle traduzioni veicolate attraverso la stampa, causò un brusco risveglio dal clima medievale in cui l’impero era in gran parte ancora sprofondato. La reazione non si fece attendere, e in tale senso l’Egitto rappresenta un caso particolare. Un coraggioso leader dell’esercito ottomano, Muhammad Ali, riuscì a riunire sotto la sua guida tutta la popolazione e a liberare in poco tempo il paese; egli seppe anche promuovere una riforma strutturale e culturale che avviò la rinascita (nahda) economica e politica. Ma la modernizzazione rapida di alcune aree geografiche e di alcuni settori della società ha prodotto una spaccatura che con il tempo invece di risanarsi si è acuita.
Le nuove generazioni erano cresciute con l’orgoglio di avere sconfitto Paesi che, solo un secolo prima, sembravano economicamente irraggiungibili, e con una fede cieca nell’invincibilità del socialismo arabo. L’educazione di massa aveva contribuito all’emancipazione delle classi sociali disagiate, i cui figli hanno potuto accedere agli studi superiori elevando il tenore di vita dei paesi in questione. La crisi economica e la fine del socialismo ha coinciso con l’inizio dell’emigrazione verso Paesi culturalmente diversi innescando una profonda crisi identitaria. I giovani si trovano attratti da opposte forze centripete: da una parte un occidente libero ma per loro ghettizzante; dall’altra un sistema rassicurante ma rigidamente controllato come quello di alcuni regimi “islamici”.
Nei paesi dove i regimi militari hanno adottato la politica del nazionalismo socialista, la transizione verso una democrazia veramente rappresentativa stenta a decollare. L’innovazione è vista come un’eresia dai più conservatori, e l’individualismo è avversato perché minaccia l’ideale della comunità nazionale e religiosa. Il dibattito politico e le attività della società civile rimangono privilegio esclusivo di una ristretta cerchia intellettuale la cui formazione culturale è molto lontana da quella della grande maggioranza della popolazione. Alcuni gruppi di religiosi radicali si presentano ai più sprovveduti con fatiscenti progetti politici ispirati ad un astratto ideale islamico, spacciandoli come l’unica soluzione ai problemi economici e alla corruzione politica. Per gli ambienti laici e i musulmani moderati la forza di una formazione e di una informazione più critica unita all’intensificarsi dello scambio culturale tra le opposte rive del mediterraneo possono aprire oggi uno spiraglio di speranza in un avvenire che si presenta oggi a fosche tinta.

Da dove viene l’oscurantismo
Sin dai tempi dei primi quattro califfi la comunità islamica si è dovuta confrontare con la presenza di posizioni contrastanti. Nel tempo si è visto che le divergenze sono anche confluite in aperti conflitti. Molte delle correnti di pensiero che si sono formate nel tempo hanno ancora oggi un seguito, altre sono maturate come risposta all’impatto con il colonialismo occidentale. Più recentemente di fronte al fallimento delle ideologie per molti la religione ha rappresentato, e rappresenta, un punto di riferimento importante.
Nell’Islam ogni credente conosce a memoria il testo sacro, è dunque possibile usarne i versetti estrapolandoli dal loro contesto originario e trovare conforto nelle parole divine. Nella lettura dei versetti del Corano che parlano di giustizia il fedele può trovare le risposte che non trova nella crisi di modelli che la società moderna sconta. Il problema è però che certe frasi coraniche tolte dal contesto storico in cui sono state rivelate possono risultare intransigenti, fanatiche.
Come scrive il filosofo tunisino Muhamad Talbī, senza una lettura vettoriale del Corano qualsiasi versetto può essere frainteso. Egli sottolinea che ogni Sura del libro sacro inizia “Nel nome di Dio clemente e misericordioso” e questo secondo il filosofo sta ad indicare che la misericordia è la parola chiave che Dio ci ha dato per leggere il testo. Così, ad esempio, se si legge un versetto a proposito della condanna per adulterio in chiave misericordiosa, è logico che è meglio rimettere a Dio la scelta della punizione. Lo stesso autore ricorda che nel Corano è scritto che nella fede non c’è costrizione. Se prendiamo inoltre il termine jihād (sforzo per applicare la legge divina nella propria esistenza) non può sfuggire che, tra certi gruppi estremisti, il senso dato alla parola indica lo zelo volto a “fare osservare agli altri” la legge di Dio.
Gli esperti di legge e i giudici applicano la shari’a emettendo pareri in campo giuridico (soprattutto per il diritto privato) e religioso; intervengono anche per questioni etiche che riguardano la comunità. Com’è possibile allora che i gruppi degli estremisti interpretino il testo in chiave oscurantista? Il problema è da cercare a monte, nell’inestinguibile sete di giustizia che negli ultimi due secoli ha fatto aumentare la rabbia, la diffidenza e il rancore. Per molti i fallimenti registrati dai diversi sistemi politici sono attribuibili alla diffusa corruzione. Secondo i più fanatici, il riscatto non arriverebbe perché la fede è contaminata dai costumi corrotti ispirati dall’avido consumismo occidentale. Coloro che vorrebbero purificare l’Islam, e proteggere i loro figli dalla contaminazione di una civiltà ai loro occhi cinica e immorale. Credono che sia necessario ripristinare le rigide norme della società islamica dei primordi. Per questo la rivoluzione iraniana all’inizio aveva abolito il sistema scolastico di modello occidentale; il desiderio di emulare la purezza dell’Islam dei primi tempi aveva abbagliato i più entusiasti fedeli. Un simile bisogno di purificazione ha spinto i Talebani a distruggere le statue del Buddha; la venerazione di un oggetto di culto appartenente ad un’altra fede e di sembianze umane era ai loro occhi un’eresia.
Negli anni Ottanta la crisi economica e la mancanza di sbocchi lavorativi hanno prodotto un disagio che ha costretto le giovani generazioni di numerosi paesi arabi, quali l’Egitto, la Tunisia, l’Algeria e il Marocco ad emigrare. Chi emigrava nei paesi arabi ricchi ha subito il fascino della “solidarietà” islamica, e questo, messo al confronto con il cinico egoismo del modello occidentale, ha spinto alcuni giovani a cercare nella fede la speranza nel riscatto dall’ingiustizia. Ovviamente l’estrema semplificazione che qui delineo non rende giustizia alla complessità di una questione che presenta all’interno di uno dei paesi menzionati a titolo esemplificativo una miriade di sfaccettature. Il fallimento dell’ideale socialista, accompagnato dall’acuirsi della crisi palestinese prima e di quelle afgana e irachena, hanno radicalizzato la crisi identitaria che già il postcolonialismo aveva esasperato.

 

Rigorismo o coerenza?
Una delle cause di decadenza e corruzione derivante al rigido monoteismo islamico consiste nell’associare il culto dell’unico dio ad altro. Serve ricordare che i proseliti della corrente riformista wahabbita saudita (impostasi in Arabia nel XVII sec.) sono arrivati al punto di distruggere della tomba del profeta per evitare che divenisse oggetto di culto. In questa stessa ottica si inquadra il rigorismo dei Talebani che, inoltre, condannano la civiltà dei consumi occidentale perché impone la totale sottomissione dell’uomo alla legge del mercato. Questa visione rigida e distorta, a volte disumana, dell’Islam è condivisa solo da pochi estremisti. La maggioranza dei musulmani rifiuta la violenza anche se prova un profondo senso di frustrazione per le ingiustizie subite in campo politico ed economico. Se le masse più povere, nei paesi terzi, sono inclini a piegarsi alla rassegnazione di fronte all’iniquità e all’arbitrio, tra i giovani inurbati è più facile l’esplosione di rabbia o la disperazione che porta al suicidio di chi non vede in questa terra la speranza di un futuro migliore. Tuttavia, anche nei più disperati quartieri dei territori occupati in Palestina le flebili voci stanche della guerra cercano tra i nemici chi voglia ascolta il loro accorato grido di pace.
Oggi i mezzi di informazione trasmettono l’immagine di una cultura occidentale quasi esclusivamente consumistica; il riverbero di questa illusione è devastante in termini di frustrazione per coloro che ne sono esclusi. Per fermare il dilagare dei pregiudizi si può fare molto anche a livello locale, individuale, promuovendo scambi culturali, offrendo corsi di studio, seminari, stages di formazione su temi di comune interesse come l’elaborazione di principi etici globali, o la salvaguardia della natura.
Lo scambio di opinioni diverse può stimolare, se poste su un piano paritetico, dibattiti positivi e contribuire ad individuare soluzioni innovative. I valori etici della cultura islamica nel corso dei secoli hanno dimostrato di sapere accogliere le istanze di cambiamento pur rimanendo immutati nella sostanza.
E’ vero che non ci sono democrazie senza culture democratiche, ma è altrettanto vero che non c’è crescita culturale senza uno scambio di esperienze che metta su un piano paritetico saperi diversi.

La “guerra al terrorismo” tra aspettative di sicurezza e tutela dei diritti fondamentali dell’individuo

Prof. Paolo Palchetti
Associato di Diritto Internazionale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Macerata

Abstract

A partire dall’attentato terroristico dell’11 settembre 2001 l’atteggiamento di molti Stati in materia di lotta al terrorismo è cambiato. L’esigenza di garantire la sicurezza nazionale contro il rischio di nuovi attentati è sempre più sentita come prevalente rispetto ad altre esigenze e valori della società internazionali, quali in particolare l’esigenza di limitare quanto più possibile il ricorso all’uso della forza nelle relazioni internazionali e l’esigenza di assicurare la tutela delle libertà e dei diritti fondamentali dell’individuo. Basti qui fare riferimento a due esempi che forniscono una chiara indicazione di questa tendenza in atto nella società internazionale.
Come è noto, uno dei principi fondamentali che regola i rapporti tra Stati è quello che stabilisce il divieto di uso della forza nelle relazioni internazionali. Questo principio è sancito, in particolare, all’art. 2, paragrafo 4 della Carta delle Nazioni Unite. Il divieto di uso della forza incontra sostanzialmente solo due eccezioni. Uno Stato può infatti ricorrere all’uso della forza solo se autorizzato dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite o se agisce in legittima difesa. Ora, subito dopo l’attentato dell’11 settembre, gli Stati Uniti hanno dichiarato di essere vittime di un attacco armato e di avere di conseguenza il diritto di rispondere a tale attacco attraverso azioni in legittima difesa. Si pone dunque un problema: può uno Stato invocare il diritto di legittima difesa nei confronti di un attacco armato condotto non da un altro Stato ma da un gruppo di individui?
Finora, la tendenza prevalente era quella di ritenere che un attacco armato potesse provenire solo da uno Stato. La lotta contro gruppi terroristici dovrebbe invece essere condotta non con il ricorso all’uso della forza internazionale ma con la cooperazione tra Stati. In altre parole, se lo Stato X subisce un attentato terroristico di grossa entità posto in essere dal gruppo Y che ha una serie di basi di addestramento nello Stato Z, lo Stato X, invece che inviare i propri aerei a bombardare tali basi dovrebbe chiedere la cooperazione dello Stato Z affinché questo usi i propri poteri di polizia per arrestare i terroristi presenti sul proprio territorio e poi processarli o estradarli verso lo Stato X. Certo, questo modo di procedere non è esente da difficoltà. La possibilità di combattere un gruppo terroristico finisce per dipendere in gran parte dalla effettiva disponibilità di altri Stati a cooperare per realizzare tale obiettivo. Tuttavia, non tutti gli Stati sono poi effettivamente disposti a fornire tale collaborazione. Per esempio, non vi è dubbio che i Talebani, che al momento dell’attentato terroristico dell’11 settembre 2001 detenevano il governo dell’Afganistan, avevano stretti rapporti con il gruppo terroristico di Al Qaeda – ossia il gruppo responsabile degli attentati alle Torri gemelle. Era dunque difficile immaginare una qualche forma di collaborazione da parte dei Talebani nella lotta contro Al Qaeda. D’altro canto, l’opzione militare porta con sé seri rischi per la stabilità delle relazioni internazionali. Il paradigma della “guerra contro il terrorismo” lanciata dagli Stati Uniti chiarisce bene quali siano questi rischi. In principio, questa “guerra al terrorismo” comporta che uno Stato che sia vittima di attentati terroristici possa reagire contro il gruppo autore di tale attentato ovunque questo si trovi. Uno Stato sul cui territorio si trovino basi terroristiche potrebbe quindi essere costretto a subire un attacco militare che dal punto di vista del diritto internazionale dovrebbe essere considerato legittimo in quanto condotto per reagire ad un attentato terroristico. L’intervento armato potrebbe essere compiuto indipendentemente dall’esistenza di una qualche forma di tacita collaborazione tra tale Stato e il gruppo terroristico. Ora, è evidente che una tale estensione della nozione di legittima difesa rischierebbe di portare ad un superamento dell’idea che l’uso della forza costituisce solo un rimedio eccezionale al quale si può ricorrere solo in casi assai limitati. Uno Stato potrebbe così sfruttare la minaccia terroristica proveniente da certi gruppi per condurre azioni militari che sono in realtà finalizzate a realizzare altri obiettivi. D’altro canto, lo Stato che subisce un attacco armato per il semplice fatto che gruppi terroristici sono presenti sul suo territorio potrebbe essere spinto a reagire contro questa violazione della sua sovranità adottando a sua volta misure militari. I rischi di una escalation sono evidenti.
La nozione di “guerra al terrorismo” ha un’altra implicazione, che riguarda la tutela dei diritti fondamentali. Per capire questa implicazione bisogna fare una distinzione tra regole che si applicano in situazioni di pace e regole che si applicano nel corso di un conflitto armato. Quando l’azione dello Stato contro il terrorismo si svolge in un contesto di pace, attraverso la cooperazione penale tra i vari Stati, lo Stato è vincolato a rispettare le regole internazionali sui diritti umani. Tra queste regole, vi sono alcune regole inderogabili quali il diritto alla vita e il divieto di tortura. Vi sono poi garanzie fondamentali da rispettare, come il diritto alla libertà personale e il diritto di ricorrere ad un giudice per ottenere la tutela della propria persona e dei propri diritti. Quando uno Stato si trova in una situazione di conflitto armato la sua condotta è regolata da un gruppo di regole denominato “diritto umanitario”. Queste regole sono oggi contenute principalmente nelle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949. Il diritto umanitario parte innanzitutto dal presupposto che il diritto alla vita non sia un diritto inderogabile: il “nemico” (meglio, l’appartenente alle forze armate dello Stato contro cui si combatte) può essere ucciso nel corso delle ostilità. Il diritto umanitario cerca peraltro di “umanizzare” la condotta delle ostilità, imponendo di rispettare la vita di chi non è in grado di partecipare ai combattimenti, come i feriti o i malati, o di chi non partecipa affatto al conflitto, come i civili. Inoltre il diritto umanitario ammette che il combattente nemico possa essere detenuto, senza garanzie di ricorso ad un giudice, fino al termine delle ostilità.
Ora, se si qualifica la lotta al terrorismo come “guerra”, una delle conseguenze è che quadro normativo di riferimento diventa il diritto umanitario, il quale, come appena osservato, offre minori garanzie di tutela dell’individuo di quanto ne offrano le regole internazionali sui diritti umani. Per capire quali sono le conseguenze pratiche, basti pensare che in tempo di pace l’uccisione di un terrorista mediante il lancio di un missile contro la macchina dove egli si trova costituirebbe una violazione di una serie di diritti fondamentali, a cominciare dal diritto alla vita. Se invece si ritiene che tale azione si inserisca in una quadro di conflitto armato, il terrorista, in quanto combattente nemico, può essere considerato come un obiettivo legittimo di guerra. La sua uccisione potrebbe quindi essere giustificata. Inoltre, il diritto umanitario ammette, entro certi limiti, anche i cd. “danni collaterali”, ossia la possibilità che, per realizzare un obiettivo militare legittimo, risultino coinvolti anche civili. In altre parole, dal punto di vista del diritto umanitario, potrebbe essere considerato legittimo il lancio di un missile che, oltre ad uccidere il terrorista, colpisca anche i membri della sua famiglia che viaggiavano con lui.
Peraltro, gli Stati Uniti, per rendere più efficace la lotta al terrorismo, hanno addirittura negato che i terroristi godano dei più limitati diritti comunque riconosciuti loro dal diritto umanitario. La creazione e le regole di funzionamento del centro di detenzione di Guantanamo, infatti, non appaiono del tutto compatibile con tali regole.
L’altro esempio al quale volevo fare riferimento è costituito dalle cd. “liste nere” del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Il Consiglio di sicurezza è l’organo delle Nazioni Unite al quale gli Stati hanno affidato poteri importanti in tema di mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. Nell’ultimo decennio il Consiglio ha spesso utilizzato i suoi poteri nella lotta al terrorismo. Soprattutto sull’onda emotiva seguita all’attentato terroristico dell’11 settembre, l’azione del Consiglio si caratterizza per un inasprimento delle misure sanzionatorie a carico di individui sospettati di essere terroristi o di avere legami con gruppi terroristici. Queste misure determinano spesso una compressione grave dei diritti individuali. E’ questo il caso delle cd. liste nere. Il loro funzionamento è il seguente: uno Stato che, in base anche a semplici fonti di intelligence, ritiene che un individuo sia legato ad un gruppo terroristico, può chiedere al Consiglio di sicurezza di iscrivere il nome di tale individuo in una apposita lista. Dal momento in cui il nome di tale individuo compare nella lista, tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite (in sostanza tutti gli Stati della comunità internazionale) hanno l’obbligo di adottare una serie di misure nei confronti di tale individuo, tra cui, in particolare, il congelamento dei beni che ad esso appartengono e che sono presenti sul territorio dello Stato. L’unico rimedio a disposizione dell’individuo al quale sono stati congelati i beni è quello di chiedere allo Stato di cittadinanza di avanzare una richiesta al Consiglio di sicurezza per rimuovere il suo nome dalla lista.
Come ben si comprende, questo meccanismo incide pesantemente sul godimento di numerosi diritti fondamentali. Un individuo può vedersi privato della disponibilità dei propri beni per il semplice fatto che, sulla base di fonti di intelligence che non necessariamente hanno ricevuto l’avallo di alcun giudice nazionale, il suo nome è finito sulla lista del Consiglio di sicurezza. Inoltre, la tutela dei suoi diritti risulta in ultima analisi affidata alla volontà dello Stato di attivarsi a livello internazionale. Ovviamente lo Stato non ha alcun obbligo di farlo; qualora l’individuo, per motivi politici o di altro tipo, sia inviso allo Stato, egli non avrà sostanzialmente alcuno strumento di tutela da attivare.
I due esempi ora forniti offrono un rapido quadro della tensione oggi esistente tra l’esigenza di sicurezza nella lotta al terrorismo e l’esigenza di tutelare valori fondamentali quali la pace e i diritti umani fondamentali. Non vi è dubbio che, subito dopo gli attentati dell’11 settembre, la prima esigenza sia stata sentita come prevalente rispetto all’altra. Ciò ha determinato l’emergere di pretese o il realizzarsi di situazioni che rappresentano un passo indietro rispetto a conquiste giuridiche che si pensavano ormai consolidate. Per quanto queste vicende non siano ancora del tutto chiuse, si sono avute tuttavia alcune reazioni che vanno nella direzione di un riequilibrio tra queste due esigenze. Da una parte, infatti, l’idea della “guerra al terrorismo” sembra in parte avere subito un ridimensionamento. Se è vero che la grande maggioranza degli Stati aveva accettato come legittimo l’intervento militare degli Stati Uniti in Afganistan, rispetto ad altre vicende (si pensi all’intervento armato di Israele in Libano nell’estate del 2006) gli Stati hanno mostrato maggiore cautela. Inoltre, la tesi statunitense secondo cui i terroristi non godrebbero in sostanza di alcun diritto (vuoi in base al diritto internazionale dei diritti umani vuoi in base al diritto internazionale umanitario) è sempre più contestata, oltre che dalla opinione pubblica, anche da vari Stati, ivi compresi Stati europei. Infine, per quanto riguarda il sistema delle “liste nere” del Consiglio di sicurezza, alcuni interessanti sviluppi potrebbero venire dalla Corte di giustizie delle Comunità europee. La Corte si sta infatti occupando del ricorso di alcuni individui che contestano la conformità del sistema delle liste con i principi fondamentali dei diritti dell’uomo riconosciuti nell’ambito dell’ordinamento comunitario. Se la Corte dovesse riconoscere tale incompatibilità, gli Stati europei si vedrebbero costretti a farsi promotori di una profonda modifica di tale sistema.

Centro Internazionale Studi Gentiliani


XV CICLO DI SEMINARI
“INCONTRI DI PRIMAVERA”
San Ginesio, 22 aprile 2008
Auditorium di Sant’Agostino

“LA LIBERTÀ DI RELIGIONE IN UN MONDO MULTICULTURALE TRA DIRITTO INDIVIDUALE, MIGRAZIONI ED ESIGENZE DI SICUREZZA COLLETTIVA”

Approfondimenti

Consiglio Nazionale delle Ricerche
Istituto Studi Giuridici Internazionali Sede di Napoli
Via Pietro Castellino, 111, 80131 Napoli tel. 0816132322 fax: 0816132701
e.mail: segreteria.napoli@isgi.cnr.it

Coordinamento e responsabilità scientifica:
Prof. Giuseppe Cataldi
Ordinario di Diritto internazionale presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Napoli “L’Orientale”
Responsabile dell’Istituto di Studi Giuridici Internazionali del CNR – Sede di Napoli

DIRITTO ALLA LIBERTÀ DI RELIGIONE: UNO SGUARDO NORMATIVO

Fonte: Università di Bologna

CONVENZIONE PER LA SALVAGUARDIA DEI DIRITTI DELL'UOMO E DELLE LIBERTÀ FONDAMENTALI (ROMA, 4.XI.1950)

Articolo 9 . Libertà di pensiero, di coscienza e di religione

1 Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, così come la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti.

2 La libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla pubblica sicurezza, alla protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica, o alla protezione dei diritti e della libertà altrui.

Articolo 10 . Libertà di espressione

1 Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera. Il presente articolo non impedisce agli Stati di sottoporre a un regime di autorizzazione le imprese di radiodiffusione, cinematografiche o televisive.

2 L’esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario.

PROTOCOLLO ADDIZIONALE N.1 ALLA CONVENZIONE PER LA SALVAGUARDIA DEI DIRITTI DELL'UOMO E DELLE LIBERTÀ FONDAMENTALI (PARIGI, 20.III.1952)

Articolo 2 . Diritto all'istruzione

Il diritto all’istruzione non può essere rifiutato a nessuno. Lo Stato, nell’esercizio delle funzioni che assume nel campo dell’educazione e dell’insegnamento, deve rispettare il diritto dei genitori di provvedere a tale educazione e a tale insegnamento secondo le loro convinzioni religiose e filosofiche.
A) La nozione "europea" di religione

Commissione europea dei diritti dell'uomo, X. c. Regno Unito, decisione del 4.10.1977
Fatto

Il ricorrente, detenuto presso una prigione inglese, chiedeva all'amministrazione carceraria di poter essere registrato espressamente come adepto della religione neo pagana denominata "Wicca" al fine di ottenere alcune condizioni di trattamento più favorevoli, ma si vedeva negare la richiesta. La mancata menzione dell'appartenenza religiosa accanto al proprio nome, secondo il ricorrente, violava l'art. 9 CEDU nella misura in cui gli impediva di manifestare le proprie convinzioni religiose mediante contatti con i compagni di prigione e di consultare libri di precetti religiosi.

E' necessaria una nozione minima di religione, perché possa sussistere un diritto pieno ad esercitare e manifestare la libertà religiosa?

Le sette sono religioni ai sensi dell'art. 9 CEDU?

La valutazione della Commissione di Strasburgo, in questa decisione piuttosto risalente, si impernia sulla necessità che la confessione religiosa sia almeno identificabile come tale agli occhi dei terzi e sul fatto che spetti al ricorrente fornirne la prova. Dalla decisione:

(...)The Commission notes in the first place that the entering of a prisoner's religious denomination in the prison record is of a pure formal character . A refusal to alter such registration cannot therefore in itself, without there being any particular hindrances attached to it, be considered to constitute a violation of Article 9 of the Convention . It would seem, however, that the registration entitles the prisoner concerned to certain facilities for the manifesting of his religion . It is evident that such facilities are only conceivable if the religion to which the prisoner allegedly adheres is identifiable . The Commission observes that in the present case the applicant has not mentioned any facts making it possible to establish the existence of the Wicca religion . Moreover, he has only generally held that,

because of the refusal to be registered as a member of the Wicca religion, he was deprived of his right to manifest his belief by contacting other members of his church and denied access to books on religious instruction . He has not submitted the slightest evidence to show, for instance, that he ever asked the prison authorities to provide him with the facilities he desired . Moreover, an examination

by the Commission of this complaint as it has been submitted, does not disclose any indication that the prison authorities on any occasion in fact enterfered with the applicant's right to manifest his religion to the effect that there is an appearance of a violation of Article 9 of the Convention (...)

Il ricorrente, nella fattispecie, non ha fornito elementi sufficienti per identificare la confessione religiosa cui apparteneva e non ha nemmeno chiarito che possibilità specifiche di esercizio religioso voleva ottenere con la registrazione; di conseguenza non sussiste alcuna violazione effettiva dell'art. 9 CEDU secondo la Commissione, che conclude il caso con la seguente massima:

Article 9 of the Convention : If the entering of a prisoner's religion in the prison record leads to the grant of cerrain facilities, there must, in particular case, at least be an identifiable religion .

B) La libertà di religione e l'informazione: blasfemia e censura

I LA BLASFEMIA

Corte europea dei diritti dell'uomo, Wingrove c. Regno Unito, sentenza del 25.11.1996

Fatto

Il Sig.Wingrove è un regista e produttore londinese che chiede l’autorizzazione alla diffusione di un suo cortometraggio di 18 minuti, privo di dialogo, denominato "Vision of exstasy" ed ispirato alla vita di Santa Teresa d’Avila. Le immagini da lui girate mostrano una giovane religiosa, che dovrebbe rappresentare la Santa, insieme ad un'altra figura femminile (che sarebbe la sua psiche) ed al Cristo in croce, in un contesto che evoca abbastanza fortemente ed esplicitamente l'erotismo. Esso è tale che l'autorizzazione richiesta gli viene rifiutata perché il filmato è considerato contrario alla legge sulla blasfemia, che è reato in Gran Bretagna.

Diritto di espressione (art. 10 CEDU) e tutela del sentimento religioso (art. 9 CEDU): quale diritto prevale?

Le eccezioni / limitazioni ad una libertà fondamentale vanno interpretate restrittivamente o largamente?

La dottrina di common law, ripresa dalla Corte di Strasburgo, dà la seguente definizione di blasfemia:

"Une publication revêt un caractère blasphématoire lorsqu'elle contient un quelconque élément de mépris, d'injure, de grossièreté ou de ridicule à l'égard de Dieu, de JésusChrist, de la Bible ou du rituel de l'Eglise d'Angleterre telle qu'établie par la loi. N'est pas blasphématoire le fait de prononcer ou de publier des opinions hostiles à la religion chrétienne, ou de nier l'existence de Dieu, dès lors que la publication est libellée en un langage décent et mesuré. Le critère d'appréciation est la manière dont les doctrines sont défendues, et non leur contenu en soi."

Appare chiaro che il reato di blasfemia considerato dalla Corte è tale solo in relazione ad alcune religioni e segnatamente la legge britannica protegge solo la religione cristianaanglicana. Inoltre la Corte ammette che l'amministrazione valuti con discrezionalità la necessità di tutelare il sentimento religioso. Dalla sentenza:

42. La Cour reconnaît que le délit de blasphème ne saurait, par sa nature même, se prêter à une définition juridique précise. Les autorités nationales doivent dès lors se voir accorder la flexibilité leur permettant d'apprécier si les faits de l'espèce relèvent de la définition admise pour cette infraction. (...)

50. Il est exact que le droit anglais sur le blasphème ne concerne que la foi chrétienne .(...) Le fait incontesté que le droit sur le blasphème ne traite pas à égalité les différentes religions professées au RoyaumeUni n'enlève rien à la légitimité du but poursuivi dans le présent contexte.

Ciò posto, la valutazione della Corte si focalizza in questo caso sul § 2 dell'art. 10 CEDU, giustificando perciò la limitazione del diritto di espressione sulla base dell'esigenza di protezione dei sentimenti altrui.

Dalla sentenza:

47. La Commission estime que le droit anglais sur le blasphème tend à éliminer les comportements dirigés contre les objets de vénération religieuse qui sont de nature à causer une indignation justifiée chez les chrétiens. Il en découle qu'en l'espèce, l'application de ces règles visait donc à protéger le droit pour les citoyens de ne pas être insultés dans leurs sentiments religieux.

48. La Cour relève d'emblée que, comme l'a souligné l'Office, l'ingérence avait pour but de protéger contre le traitement d'un sujet à caractère religieux d'une manière "qui est de nature à choquer (dans

le sens de susceptible de, et non de conçue pour choquer) quiconque connaît, apprécie ou fait siennes l'histoire et la morale chrétiennes, en raison de l'élément de mépris, d'injure, d'insulte, de grossièreté

ou de ridicule que révèlent le ton, le style et l'esprit caractérisant la présentation du sujet" (...) Voilà indéniablement un but qui correspond à celui de protection des "droits d'autrui" au sens du paragraphe 2 de l'article 10 (art. 102). Il cadre aussi parfaitement avec l'objectif de protection de la liberté religieuse offerte par l'article 9 (art. 9).

53. Une restriction à la liberté d'expression, qu'elle s'inscrive dans le contexte des croyances religieuses ou dans un autre, ne peut être compatible avec l'article 10 (art. 10) que si elle répond,

notamment, au critère de nécessité exigé par le deuxième paragraphe de cette disposition (art. 102). En examinant si les restrictions aux droits et libertés garantis par la Convention peuvent passer pour

"nécessaires dans une société démocratique", la Cour a cependant toujours déclaré que les Etats contractants jouissent d'une marge d'appréciation certaine mais pas illimitée. (...)

57. La Cour relève que le refus d'accorder un visa à Visions of Ecstasy visait à protéger les "droits d'autrui" et, plus précisément, à fournir une protection contre des attaques gravement offensantes concernant des questions considérées comme sacrées par les chrétiens. (...)

La Corte dunque conclude per la non violazione dell'art. 10 CEDU e per l'esigenza, in una società democratica, di limitare il diritto di espressione ai sensi del § 2 del medesimo articolo per tutelare il sentimento religioso.


II LA CENSURA

Corte europea dei diritti dell'uomo, OttoPremingerInstitut c. Austria, sentenza del 20.09.1994

Fatto

Il caso trae origine da una vicenda simile alla precedente: un'associazione austriaca senza scopo di lucro, che gestisce un cinema d'essai ad Innsbruck, annuncia la proiezione del film "Das Liebeskonzil" (Il concilio d'amore), un'opera in cui Gesù Cristo e la Madonna sono oggetto di forti caricature e dove vengono ridicolizzati, nell'ottica di mostrare gli eccessi cui può condurre la fede religiosa. Sussistendo in Austria il reato di denigrazione di dottrine religiose, il Tribunale regionale competente ordina il sequestro del film.

Diritto di espressione (art. 10 CEDU) e tutela del sentimento religioso (art. 9 CEDU): quale diritto prevale?

La ridicolizzazione del sentimento religioso dei credenti o la sua opposizione possono costituire una violazione della tolleranza, posta a fondamento di una società democratica?

Dalla sentenza:

46. The Government maintained that the seizure and forfeiture of the film were aimed at "the protection of the rights of others", particularly the right to respect for one’s religious feelings, and at "the prevention of disorder".

47. As the Court pointed out in its judgment in the case of Kokkinakis v. Greece of 25 May 1993 (Series A no. 260A, p. 17, para. 31), freedom of thought, conscience and religion, which is safeguarded under Article 9 (art. 9) of the Convention, is one of the foundations of a "democratic society" within the meaning of the Convention. It is, in its religious dimension, one of the most vital elements that go to make up the identity of believers and their conception of life.

Those who choose to exercise the freedom to manifest their religion, irrespective of whether they do so as members of a religious majority or a minority, cannot reasonably expect to be exempt from all criticism. They must tolerate and accept the denial by others of their religious beliefs and even the propagation by others of doctrines hostile to their faith. However, the manner in which religious beliefs and doctrines are opposed or denied is a matter which may engage the responsibility of the State, notably its responsibility to ensure the peaceful enjoyment of the right guaranteed under Article 9 (art. 9) to the holders of those beliefs and doctrines. Indeed, in extreme cases the effect of particular methods of opposing or denying religious beliefs can be such as to inhibit those who hold such beliefs from exercising their freedom to hold and express them.

In the Kokkinakis judgment the Court held, in the context of Article 9 (art. 9), that a State may legitimately consider it necessary to take measures aimed at repressing certain forms of conduct, including the imparting of information and ideas, judged incompatible with the respect for the freedom of thought, conscience and religion of others (ibid., p. 21, para. 48). The respect for the religious feelings of believers as guaranteed in Article 9 (art. 9) can legitimately be thought to have been violated by provocative portrayals of objects of religious veneration; and such portrayals can be regarded as malicious violation of the spirit of tolerance, which must also be a feature of democratic society. The Convention is to be read as a whole and therefore the interpretation and application of Article 10 (art. 10) in the present case must be in harmony with the logic of the Convention (...)

48. The measures complained of were based on section 188 of the Austrian Penal Code, which is intended to suppress behaviour directed against objects of religious veneration that is likely to cause "justified indignation". It follows that their purpose was to protect the right of citizens not to be insulted in their religious feelings by the public expression of views of other persons. Considering also the terms in which the decisions of the Austrian courts were phrased, the Court accepts that the impugned measures pursued a legitimate aim under Article 10 para. 2 (art. 102), namely "the protection of the rights of others".

Esiste in Europa una concezione omogenea del significato della religione rispetto alla società?

56. The Austrian courts, ordering the seizure and subsequently the forfeiture of the film, held it to be an abusive attack on the Roman Catholic religion according to the conception of the Tyrolean public. Their judgments show that they had due regard to the freedom of artistic expression, which is guaranteed under Article 10 (art. 10) of the Convention (…) and for which Article 17a of the Austrian Basic Law provides specific protection. They did not consider that its merit as a work of art or as a contribution to public debate in Austrian society outweighed those features which made it essentially offensive to the general public within their jurisdiction. The trial courts, after viewing the film, noted the provocative portrayal of God the Father, the Virgin Mary and Jesus Christ (see paragraph 16 above). The content of the film (see paragraph 22 above) cannot be said to be incapable of grounding the conclusions arrived at by the Austrian courts.

The Court cannot disregard the fact that the Roman Catholic religion is the religion of the overwhelming majority of Tyroleans. In seizing the film, the Austrian authorities acted to ensure religious peace in that region and to prevent that some people should feel the object of attacks on their religious beliefs in an unwarranted and offensive manner. It is in the first place for the national authorities, who are better placed than the international judge, to assess the need for such a measure in the light of the situation obtaining locally at a given time. In all the circumstances of the present case, the Court does not consider that the Austrian authorities can be regarded as having overstepped their margin of appreciation in this respect.

No violation of Article 10 (art. 10) can therefore be found as far as the seizure is concerned.

La Corte ha dunque concluso per la compatibilità con l'art. 10 CEDU dei provvedimenti di censura presi dalle autorità austriache.


Corte europea dei diritti dell'uomo, Giniewski c. Francia, sentenza del 31.01.2006

Fatto

Il Sig. Giniewski, giornalista, sociologo e storico parigino, viene condannato in Francia per il reato di pubblica diffamazione a causa di un articolo, uscito su un quotidiano, in cui sosteneva che l'antigiudaismo di una parte della dottrina cristiana avesse in qualche modo determinato l'antisemitismo e favorito l'Olocausto. Per la precisione, oggetto delle sue considerazioni era l'enciclica di Giovanni Paolo II "Veritatis splendor" del 1993. Dopo aver percorso i gradi di giudizio interni, il Sig. Giniewski ricorreva alla Corte di Strasburgo perché riteneva che la decisione giudiziaria presa nei suoi confronti violasse l'art. 10 CEDU.

Quali limitazioni alle libertà fondamentali contenute nella Convenzione possono ritenersi “necessarie in una società democratica”?

La legge francese in materia di libertà di stampa, in vigore all’epoca dei fatti, prevedeva:

Art. 29 “ Toute allégation ou imputation d’un fait qui porte atteinte à l’honneur ou à la considération de la personne ou du corps auquel le fait est imputé est une diffamation. La publication directe ou par voie de reproduction de cette allégation ou de cette imputation est punissable, même si elle est faite sous forme dubitative ou si elle vise une personne ou un corps non expressément nommés, mais dont l’identification est rendue possible par les termes des discours, cris, menaces, écrits ou imprimés, placards ou affiches incriminés. Toute expression outrageante, termes de mépris ou invective qui ne renferme l’imputation d’aucun fait est une injure. ”

Art. 32, comma 2 “ La diffamation commise par les mêmes moyens envers une personne ou un groupe de personnes à raison de leur origine ou de leur appartenance ou de leur non‑appartenance à une ethnie, une nation, une race ou une religion déterminée sera punie d’un an d’emprisonnement et de 300 000 F d’amende ou de l’une de ces deux peines seulement. ”

Il passaggio incriminato recita:

“ L’Eglise catholique s’autoinstitue seule détentrice de la vérité divine (...). Elle proclame fortement l’accomplissement de l’ancienne alliance dans la nouvelle, la supériorité de cette dernière (...) de nombreux chrétiens ont reconnu que l’antijudaïsme scripturaire et la doctrine de “ l’accomplissement ” de l’ancienne par la nouvelle Alliance, conduisent à l’antisémitisme et ont formé le terrain où ont germé l’idée et l’accomplissement d’Auschwitz ”.

La Corte, ribadendo che “ la liberté d’expression constitue l’un des fondements essentiels de toute société démocratique, l’une des conditions primordiales de son progrès et de l’épanouissement de chacun ” e che “ le manque d’une conception uniforme, parmi les pays européens, des exigences afférentes à la protection des droits d’autrui s’agissant des attaques contre des convictions religieuses, élargit la marge d’appréciation des Etats contractants, lorsqu’ils réglementent la liberté d’expression dans des domaines susceptibles d’offenser des convictions personnelles intimes relevant de la morale ou de la religion (voir Otto‑PremingerInstitut, précité, § 50 ; Wingrove, précité, § 58 ; …), rileva che l’articolo del Sig. Giniewski si inserisce nell’ampio dibattito sulle origini dello sterminio degli Ebrei e vi apporta un contributo intellettuale. E’ da considerarsi “ primordiale ” in una società democratica, secondo la Corte, consentire che tale dibattito possa svolgersi liberamente ed ogni limitazione alla libertà d’espressione è da considerarsi in maniera restrittiva .

Dalla sentenza:

1. La Cour considère surtout que le requérant a voulu élaborer une thèse sur la portée d’un dogme et sur ses liens possibles avec les origines de l’Holocauste. Le requérant a ainsi apporté une contribution, par définition discutable, à un très vaste débat d’idées déjà engagé (voir le paragraphe 24 cidessus), sans ouvrir une polémique gratuite ou éloignée de la réalité des réflexions contemporaines.

2. En envisageant les conséquences dommageables d’une doctrine, le texte litigieux participait donc à la réflexion sur les diverses causes possibles de l’extermination des Juifs en Europe, question relevant incontestablement de l’intérêt général dans une société démocratique. Dans ce domaine, les restrictions à la liberté d’expression appellent une interprétation étroite. En effet, si en l’espèce la question soulevée concerne une doctrine défendue par l’Eglise catholique, et donc un sujet d’ordre religieux, l’analyse de l’article litigieux montre qu’il ne s’agit pas d’un texte comportant des attaques contre des convictions religieuses en tant que telles, mais d’une réflexion que le requérant a voulu exprimer en tant que journaliste et historien. A cet égard, la Cour considère qu’il est primordial dans une société démocratique que le débat engagé, relatif à l’origine de faits d’une particulière gravité constituant des crimes contre l’humanité, puisse se dérouler librement (…).

La Corte conclude, dunque, riconoscendo che c’è stata violazione dell’art. 10 CEDU.

C) La manifestazione del proprio credo religioso: proselitismo e simboli religiosi

I IL PROSELITISMO

Corte europea dei diritti dell'uomo, Kokkinakis c. Grecia, sentenza del 25.05.1993

Fatto
Il Sig. Kokkinakis è un uomo d’affari greco in pensione, il quale proviene da una famiglia ortodossa, ma all'età di 17 anni diventa testimone di geova; egli, nel corso della sua vita, viene arrestato più di 60 volte per proselitismo in base ad una legge greca del 1938 che vieta il proselitismo nei confronti delle persone di fede cristiana ortodossa. La controversia trae origine dall'episodio in cui il Sig. Kokkinakis, insieme alla moglie, si è recato a casa della sig.ra Kyryakaki, moglie a sua volta di un prete ortodosso, ed annunciandole l'arrivo della buona novella, ha iniziato nel suo salotto delle letture religiose. Il prete ortodosso a quel punto, avvertito dalla moglie, ha chiamato la polizia e li ha fatti arrestare.

Il Sig. Kokkinakis si è rivolto alla Corte di Strasburgo poiché ha ritenuto che fosse stata limitata la sua libertà religiosa, sancita dall'art. 9 CEDU, benché il divieto di proselitismo in Grecia sia norma di rango costituzionale; l'art. 13 della Costituzione greca, infatti, lo dispone al comma 2:
There shall be freedom to practise any known religion; individuals shall be free to perform their rites of worship without hindrance and under the protection of the law.

The performance of rites of worship must not prejudice public order or public morals. Proselytism is prohibited.

Il proselitismo può essere considerato un modo legittimo di manifestare la propria libertà di religione in una dimensione "pubblica"?

La giurisprudenza del Consiglio di Stato greco del 1953 ha dato la seguente definizione di proselitismo:

"Article 1 of the Constitution, which establishes the freedom to practise any known religion and to perform rites of worship without hindrance and prohibits proselytism and all other activities directed against the dominant religion, that of the Christian Eastern Orthodox Church, means that purely spiritual teaching does not amount to proselytism, even if it demonstrates the errors of other religions and entices possible disciples away from them, who abandon their original religions of their own free will; this is because spiritual teaching is in the nature of a rite of worship performed freely and without hindrance. Outside such spiritual teaching, which may be freely given, any determined, importunate attempt to entice disciples away from the dominant religion by means that are unlawful or morally reprehensible constitutes proselytism as prohibited by the aforementioned provision of the Constitution."

Il Sig. Kokkinakis sostiene che proselitismo è cosa diversa dalla libertà di "cambiare religione o convinzione" o di "manifestarla in pubblico o in privato".

L'argomentazione della Corte di Strasburgo prende le mosse da alcuni principi generali. Chiarito innanzitutto il valore essenziale per una società democratica del pluralismo che può derivare dalla libertà religiosa come sancita all’art. 9 CEDU, la Corte afferma che detta libertà si sostanzia in un profilo interiore ed in un profilo di manifestazione esterna, il quale è connaturato alla fede stessa e che può spingersi sino al tentare di convincere gli altri. E precisa che il divieto di proselitismo può costituire una misura necessaria di restrizione alla libertà religiosa ai sensi del § 2 dell’art.9 CEDU.

Dalla sentenza:

31. As enshrined in Article 9 (art. 9), freedom of thought, conscience and religion is one of the foundations of a "democratic society" within the meaning of the Convention. It is, in its religious dimension, one of the most vital elements that go to make up the identity of believers and their conception of life, but it is also a precious asset for atheists, agnostics, sceptics and the unconcerned. The pluralism indissociable from a democratic society, which has been dearly won over the centuries, depends on it.

While religious freedom is primarily a matter of individual conscience, it also implies, inter alia, freedom to "manifest [one’s] religion". Bearing witness in words and deeds is bound up with the existence of religious convictions.

According to Article 9 (art. 9), freedom to manifest one’s religion is not only exercisable in community with others, "in public" and within the circle of those whose faith one shares, but can also be asserted "alone" and "in private"; furthermore, it includes in principle the right to try to convince one’s neighbour, for example through "teaching", failing which, moreover, "freedom to change [one’s] religion or belief", enshrined in Article 9 (art. 9), would be likely to remain a dead letter.

33. The fundamental nature of the rights guaranteed in Article 9 para. 1 (art. 91) is also reflected in the wording of the paragraph providing for limitations on them. Unlike the second paragraphs of Articles 8, 10 and 11 (art. 82, art. 102, art, 112) which cover all the rights mentioned in the first paragraphs of those Articles (art. 81, art. 101, art. 111), that of Article 9 (art. 91) refers only to "freedom to manifest one’s religion or belief". In so doing, it recognises that in democratic societies, in which several religions coexist within one and the same population, it may be necessary to place restrictions on this freedom in order to reconcile the interests of the various groups and ensure that everyone’s beliefs are respected.

Il proselitismo, dunque, rientra nel campo di applicazione dell’art. 9 CEDU. Ma per la Corte è necessario operare un ulteriore passo, quello di distinguere fra proselitismo ed abuso di proselitismo, e solo quest’ultimo è da considerarsi illecito. Per asserire ciò la Corte prende spunto da un rapporto del 1956 del Consiglio ecumenico mondiale, ove si qualificano di “proselitismo improprio” pratiche quali l’offerta di vantaggi materiali o sociali oppure l’esercizio di pressioni improprie su persone in stato di pericolo o bisogno o ancora l’impiego di violenza o tecniche di lavaggio del cervello per ottenere la conversione. E conclude nel senso di ritenere che le autorità greche, non avendo ben chiarito in che modo l’accusato avesse tentato di convertire abusivamente la Sig.ra Kyryakaki, hanno violato l’art. 9 CEDU.

Dalla sentenza:

48. First of all, a distinction has to be made between bearing Christian witness and improper proselytism. The former corresponds to true evangelism, which a report drawn up in 1956 under the auspices of the World Council of Churches describes as an essential mission and a responsibility of every Christian and every Church. The latter represents a corruption or deformation of it. It may, according to the same report, take the form of activities offering material or social advantages with a view to gaining new members for a Church or exerting improper pressure on people in distress or in need; it may even entail the use of violence or brainwashing; more generally, it is not compatible with respect for the freedom of thought, conscience and religion of others.

Scrutiny of section 4 of Law no. 1363/1938 shows that the relevant criteria adopted by the Greek legislature are reconcilable with the foregoing if and in so far as they are designed only to punish improper proselytism, which the Court does not have to define in the abstract in the present case.

49. The Court notes, however, that in their reasoning the Greek courts established the applicant’s liability by merely reproducing the wording of section 4 and did not sufficiently specify in what way the accused had attempted to convince his neighbour by improper means. None of the facts they set out warrants that finding.

That being so, it has not been shown that the applicant’s conviction was justified in the circumstances of the case by a pressing social need. The contested measure therefore does not appear to have been proportionate to the legitimate aim pursued or, consequently, "necessary in a democratic society ... for the protection of the rights and freedoms of others".

50. In conclusion, there has been a breach of Article 9 (art. 9) of the Convention.

II I SIMBOLI RELIGIOSI

1 La questione del crocifisso in Italia

TAR Veneto, I Sezione, ordinanza n. 56/2004

Fatto

Massimo Albertin e Soile Tuulikki Lautsi, quest' ultima nata nella città di Sipoo, in Finlandia, sono i genitori di Dataico e Sami Albertin, iscritti allo stesso istituto scolastico della provincia padovana. Nel corso di una seduta del consiglio d'istituto il Sig. Albertin, in riferimento all'esposizione di simboli religiosi all'interno della scuola, ne propose la rimozione, ma fu deliberato di lasciare esposti i simboli religiosi. La madre degli alunni, in proprio e quale genitore esercente la patria potestà sui figli minori, ha impugnato tale determinazione dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale del Veneto.

Argomentazioni in diritto sostenute dalla ricorrente

Dalla sentenza:

1.1 Il ricorso censura la deliberazione impugnata anzitutto per violazione dei principi d'imparzialità e di laicità dello Stato, e segnatamente del secondo, quale principio supremo dell'ordinamento costituzionale, avente priorità assoluta e carattere fondante, desumibile insieme dall'art. 3 della Costituzione, che garantisce l'uguaglianza di tutti i cittadini, e dal successivo art. 19, il quale riconosce la piena libertà di professare la propria fede religiosa, includendovi anche la professione di ateismo o di agnosticismo: principio confermato dall'art. 9 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, resa esecutiva in Italia con l. 4 agosto 1955, n. 848, che riconosce la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo.

Il rammentato principio di laicità, prosegue la ricorrente, precluderebbe l'esposizione dei crocefissi e di altri simboli religiosi nelle aule scolastiche, disposta in violazione della "parità che deve essere garantita a tutte le religioni e a tutte le credenze, anche areligiose": l'impugnata deliberazione del consiglio della scuola costituirebbe "aperta e palese violazione dei suesposti principi fondamentali del nostro ordinamento giuridico".

Che cos'è la laicità dello Stato? Quali dubbi di costituzionalità pongono le norme che autorizzano l'esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche?

Dalla sentenza:

5.1. (...) il crocifisso rappresenta la massima icona cristiana, presente in ogni luogo di culto e più di ogni altra venerata: esso può bensì assumere ulteriori valori semantici, ma questi non possono comunque mai completamente elidere quello religioso, da cui traggono comunque giustificazione e fondamento.

La norma in questione, dunque, impone che nelle aule delle scuole elementari e medie, luoghi sicuramente pubblici, sia apposto un simbolo il quale mantiene comunque un univoco significato confessionale, per tale percepito dalla massima parte dei consociati: e non si può essere certi che una siffatta prescrizione sia compatibile con i principi stabiliti dalla Costituzione repubblicana, nell'interpretazione che la Corte ha nel tempo delineato.

5.2. Invero, la laicità dello Stato italiano (...)costituisce, secondo il Giudice delle leggi, un principio supremo, emergente dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione, e, dunque, uno dei profili della forma di Stato delineata dalla Carta costituzionale della Repubblica, (così Corte cost., 12 aprile 1989, n. 203) e nel quale hanno da convivere, in uguaglianza di libertà, fedi, culture e tradizioni diverse (Corte cost., 18 ottobre 1995, n. 440).

Quale riflesso del principio di laicità (successivamente ribadito dalla Corte costituzionale con le sentenze nn. 259/90, 195/93 e 329/97), e, più specificatamente, dell'uguaglianza di tutti i cittadini senza distinzione di religione (art. 3 Cost.) e dell'eguale libertà davanti alla legge di tutte le confessioni religiose (art. 8 Cost.), l'atteggiamento dello Stato non può che essere di equidistanza e imparzialità nei confronti di ogni fede, senza che assumano rilevanza alcuna il dato quantitativo dell'adesione più o meno diffusa a questa o a quella confessione religiosa (sentenze nn. 925 del 1988, 440 del 1995 e 329 del 1997) (così Corte cost., 20 novembre 2000, n. 508).

In tale contesto, credenti e non credenti si trovano esattamente sullo stesso piano rispetto all'intervento prescrittivo, da parte dello Stato, di pratiche aventi significato religioso: esso è escluso comunque, in conseguenza dell' appartenenza della religione a una dimensione che non è quella dello Stato e del suo ordinamento giuridico, al quale spetta soltanto il compito di garantire le condizioni che favoriscano l'espansione della libertà di tutti e, in questo ambito, della libertà di religione (Corte cost., 8 ottobre 1996, n. 334); mentre valutazioni ed apprezzamenti legislativi differenziati e differenziatori tra le diverse fedi, con diverse intensità di tutela, verrebbero ad incidere sulla pari dignità della persona e si porrebbero in contrasto col principio costituzionale della laicità o nonconfessionalità dello Stato (Corte cost., 14 novembre 1997, n. 329).

5.3. Vi è dunque da dubitare che siano compatibili con le precedenti enunciazioni le norme dell'ordinamento generale le quali prescrivono, come detto, l'esposizione di un simbolo venerato dal cristianesimo nelle aule scolastiche, (così come lo sarebbe ogni altra disposizione che stabilisse la presenza di simboli di altre fedi): ciò non pare pienamente conciliabile con la posizione di equidistanza ed imparzialità tra le diverse confessioni che lo Stato deve comunque mantenere, tanto più che la previsione si riferisce agli spazi destinati all'istruzione pubblica, cui tutti possono accedere ed anzi debbono, per ricevere l'istruzione obbligatoria (art. 34 Cost.) e che lo Stato assume tra i suoi compiti fondamentali, garantendo la libertà d'insegnamento (art. 33 Cost.). (...) la presenza del crocifisso viene obbligatoriamente imposta agli studenti, a coloro che esercitano la potestà sui medesimi e, inoltre, agli stessi insegnanti: e la norma che prescrive tale obbligo sembra così delineare una disciplina di favore per la religione cristiana, rispetto alle altre confessioni, attribuendole una posizione di privilegio che, secondo i rammentati principi costituzionali, non può trovare giustificazione neppure nella sua indubbia maggiore diffusione (...)

Il TAR ha sospeso il giudizio, sollevando dinanzi alla Corte costituzionale questione di legittimità costituzionale per contrasto con il principio di laicità dello Stato, quale risultante dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione, delle disposizioni normative vigenti concernenti l'arredo scolastico. La Corte costituzionale (con ordinanza n.389 del 2004) ha previsto che fosse lo stesso TAR a decidere la controversia, mediante la seguente pronuncia:

TAR Veneto, III Sezione, sentenza n. 1110/2005

Che valore può assumere, in diritto, un simbolo religioso come il crocifisso rispetto alla laicità dello Stato?

Dalla sentenza:

6.1. Il crocifisso peraltro, come appare evidente, non può essere considerato semplicemente come un arredo, ma è un simbolo, un oggetto cioè che richiama significati diversi rispetto alla sua materialità, alla stregua di una bandiera, di uno scettro o di un anello nuziale. La questione si sposta quindi su quale sia il significato o i significati che tale particolare simbolo evoca, per verificare, alla luce delle norme vigenti, principalmente di rango costituzionale, se essi siano o meno compatibili con la sua esposizione in una scuola pubblica.

12.6. Doverosamente va rilevato che il simbolo del crocifisso, così inteso, assume oggi, con il richiamo ai valori di tolleranza, una valenza particolare nella considerazione che la scuola pubblica italiana risulta attualmente frequentata da numerosi allievi extracomunitari, ai quali risulta piuttosto importante trasmettere quei principi di apertura alla diversità e di rifiuto di ogni integralismo religioso o laico che sia che impregnano di sé il nostro ordinamento. Viviamo in un momento di tumultuoso incontro con altre culture, e, per evitare che esso si trasformi in scontro, è indispensabile riaffermare anche simbolicamente la nostra identità, tanto più che essa si caratterizza proprio per i valori di rispetto per la dignità di ogni essere umano e di universalismo solidale.

13.4. Il simbolo del cristianesimo la croce non può quindi escludere nessuno senza negare sé stessa; anzi, essa costituisce, in un certo senso, il segno universale dell'accettazione e del rispetto per ogni essere umano in quanto tale, indipendentemente da ogni sua credenza, religiosa o meno. (...) Il crocifisso costituisce sicuramente un simbolo diverso da una bandiera e inoltre in Italia l'evoluzione culturale non risulta altrettanto compiuta rispetto ai Paesi nordici, ovvero più correttamente e per evidenti ragioni storiche – ne manca la piena consapevolezza, ma tuttavia la laicità dello Stato e i principi costituzionali di libertà appaiono universalmente accettati in modo tale da consentire una nuova e aggiornata considerazione del simbolo della croce.

16.1. Riassumendo e concludendo, il crocifisso inteso come simbolo di una particolare storia, cultura e identità nazionale elemento questo immediatamente percepibile oltre che espressione di alcuni principi laici della comunità il che richiede invece un ragionevole sforzo interpretativo può essere legittimamente collocato nelle aule della scuola pubblica, in quanto non solo non contrastante ma addirittura affermativo e confermativo del principio della laicità dello Stato repubblicano.

16.2. Per tutte le su indicate ragioni il ricorso va rigettato, anche se la parziale novità delle questioni e i condivisibili valori di libertà invocati da parte ricorrente inducono il Collegio a compensare le spese di giudizio tra le parti. (...)

7.1. Questo Collegio non crede si possa dubitare che il valore costituzionale cui fare riferimento sia la laicità dello Stato, chiaramente sancita dalla Costituzione repubblicana. Laicità o aconfessionalità non significa affatto l'opposto di religione o religiosità, ma più semplicemente che lo Stato democratico riconosce una valenza autonoma alla sfera religiosa come estranea alla sua volontà di determinazione, in sostanza si proclama neutro rispetto alle diverse religioni a cui il cittadino può liberamente aderire ovvero anche non aderire, per convinzioni atee o semplice indifferenza rispetto al fatto religioso.

Stato laico vuol dire quindi il riconoscimento di una sfera autonoma lasciata in campo religioso alla libera determinazione del singolo; significa inoltre nel nostro ordinamento la regolamentazione a certe rapporti con alcune specifiche religioni, riconosciute purché non si pongano in contrasto con i valori fondanti della Repubblica, e, tramite lo speciale regime concordatario, con la chiesa cattolica.

Stato laico significa altresì, come logico corollario, che nella scuola pubblica in cui si devono formare i giovani anche ai valori di libertà, democrazia e laicità dello Stato, non è lecito imporre alcun tipo di credo religioso e anzi risulta doverosa un'educazione improntata alla massima libertà e al rispetto reciproco in tale campo.

7.3. Per completezza, va richiamato altresì l'articolo 9 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata il 4 novembre 1950 e ratificata con legge 4 sancisce il diritto inviolabile "alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione". Ad avviso di questo Collegio, tale norma internazionale come altre di analogo tenore, quali la Convenzione dei diritti del fanciullo siglata a New York il 20 novembre 1989 e ratificata con legge 27 maggio 1991 n. 176 – nulla aggiunge o toglie a quanto già chiaramente stabilito dalla nostra Costituzione in ordine alla aconfessionalità dello Stato, ma ne costituisce una mera conferma.

La Sig.ra Lautsi ha quindi impugnato la suddetta sentenza, che conferma l'obbligatorietà dell'affissione del crocifisso nelle aule scolastiche, dinanzi al Consiglio di Stato, ottenendo in via definitiva la seguente pronuncia ad essa sfavorevole:

Consiglio di Stato, VI Sezione, sentenza n. 556/2006

Il simbolo del crocifisso può avere, in Italia, una valenza propriamente educativa che ne giustifichi la presenza nelle aule scolastiche?

Rispetto della laicità dello Stato e rispetto dell'uguaglianza religiosa: una convivenza possibile, secondo il Consiglio di Stato, nell’ordinamento italiano?

Dalla sentenza:

(...)È evidente che il crocifisso è esso stesso un simbolo che può assumere diversi significati e servire per intenti diversi; innanzitutto per il luogo ove è posto. In un luogo di culto il crocifisso è propriamente ed esclusivamente un “simbolo religioso”, in quanto mira a sollecitare l’adesione riverente verso il fondatore della religione cristiana. In una sede non religiosa, come la scuola, destinata all’educazione dei giovani, il crocifisso potrà ancora rivestire per i credenti i suaccennati valori religiosi, ma per credenti e non credenti la sua esposizione sarà giustificata e assumerà un significato non discriminatorio sotto il profilo religioso, se esso è in grado di rappresentare e di richiamare in forma sintetica immediatamente percepibile e intuibile (al pari di ogni simbolo) valori civilmente rilevanti, e segnatamente quei valori che soggiacciono e ispirano il nostro ordine costituzionale, fondamento del nostro convivere civile. In tal senso il crocifisso potrà svolgere, anche in un orizzonte “laico”, diverso da quello religioso che gli è proprio, una funzione simbolica altamente educativa, a prescindere dalla religione professata dagli alunni.

Ora è evidente che in Italia, il crocifisso è atto a esprimere, appunto in chiave simbolica ma in modo adeguato, l’origine religiosa dei valori di tolleranza, di rispetto reciproco, di valorizzazione della persona, di affermazione dei suoi diritti, di riguardo alla sua libertà, di autonomia della coscienza morale nei confronti dell’autorità, di solidarietà umana, di rifiuto di ogni discriminazione, che connotano la civiltà italiana.

Questi valori, che hanno impregnato di sé tradizioni, modo di vivere, cultura del popolo italiano, soggiacciono ed emergono dalle norme fondamentali della nostra Carta costituzionale, accolte tra i “Principî fondamentali” e la Parte I della stessa, e, specificamente, da quelle richiamate dalla Corte costituzionale, delineanti la laicità propria dello Stato italiano. Il richiamo, attraverso il crocifisso, dell’origine religiosa di tali valori e della loro piena e radicale consonanza con gli insegnamenti cristiani, serve dunque a porre in evidenza la loro trascendente fondazione, senza mettere in discussione, anzi ribadendo, l’autonomia (non la contrapposizione, sottesa a una interpretazione ideologica della laicità che non trova riscontro alcuno nella nostra Carta fondamentale) dell’ordine temporale rispetto all’ordine spirituale, e senza sminuire la loro specifica “laicità”, confacente al contesto culturale fatto proprio e manifestato dall’ordinamento fondamentale dello Stato italiano. Essi, pertanto, andranno vissuti nella società civile in modo autonomo (di fatto non contraddittorio) rispetto alla società religiosa, sicché possono essere “laicamente” sanciti per tutti, indipendentemente dall’appartenenza alla religione che li ha ispirati e propugnati.

Come a ogni simbolo, anche al crocifisso possono essere imposti o attribuiti significati diversi e contrastanti, oppure ne può venire negato il valore simbolico per trasformarlo in suppellettile, che può al massimo presentare un valore artistico. Non si può però pensare al crocifisso esposto nelle aule scolastiche come a una suppellettile, oggetto di arredo, e neppure come a un oggetto di culto; si deve pensare piuttosto come a un simbolo idoneo a esprimere l’elevato fondamento dei valori civili sopra richiamati, che sono poi i valori che delineano la laicità nell’attuale ordinamento dello Stato.

Nel contesto culturale italiano, appare difficile trovare un altro simbolo, in verità, che si presti, più di esso, a farlo; e l’appellante del resto auspica (e rivendica) una parete bianca, la sola che alla stessa appare particolarmente consona con il valore della laicità dello Stato.

La decisione delle autorità scolastiche, in esecuzione di norme regolamentari, di esporre il crocifisso nelle aule scolastiche, non appare pertanto censurabile con riferimento al principio di laicità proprio dello Stato italiano.

La pretesa che lo Stato si astenga dal presentare e propugnare in un luogo educativo, attraverso un simbolo (il crocifisso), reputato idoneo allo scopo, i valori certamente laici, quantunque di origine religiosa, di cui è pervasa la società italiana e che connotano la sua Carta fondamentale, può semmai essere sostenuta nelle sedi (politiche, culturali) giudicate più appropriate, ma non in quella giurisdizionale.

In questa sede non può, quindi, trovare accoglimento la richiesta dell’appellante che lo Stato e i suoi organi si astengano dal fare ricorso agli strumenti educativi considerati più efficaci per esprimere i valori su cui lo Stato stesso si fonda e che lo connotano, raccolti ed espressi dalla Carta costituzionale, quando il ricorso a tali strumenti non solo non lede alcuno dei principî custoditi dalla medesima Costituzione o altre norme del suo ordinamento giuridico, ma mira ad affermarli in un modo che sottolinea il loro alto significato.

2 La questione del velo in Europa

Commissione europea dei diritti dell'uomo, Karaduman c. Turchia, decisione del 3.05.1993
Fatto

La Sig.na Karaduman, cittadina turca, avendo terminato gli esami universitari presso la facoltà di farmacia dell'Università di Ankara, richiede all'amministrazione della stessa il rilascio di un certificato provvisorio di laurea e deposita a tal fine una propria foto d'identità che la ritrae con un foulard in testa. Il rettore l'informa per lettera che tale foto non è conforme al regolamento di università e che il certificato richiesto le sarà rilasciato qualora fornisca un'altra foto, conforme al regolamento. La studentessa decide di fare ricorso al Tribunale amministrativo di Ankara perché ritiene che il comportamento dell’Università costituisca una violazione della sua libertà di religione, ma il Tribunale, precisando che il regolamento di Ateneo prescrive regole puntuali sull’abbigliamento degli studenti ed osservando che dalla fotografia la ricorrente non risulta adeguatamente identificabile, a causa del foulard che le incornicia il viso, respinge il ricorso. La studentessa non ottiene soddisfazione nemmeno in appello, ma nel frattempo la Corte costituzionale turca (con sentenza del 07031989) aveva emanato una sentenza nella quale stabiliva l’incostituzionalità di una legge che autorizzava gli studenti delle scuole superiori a portare il velo. Il principio sostenuto nella pronuncia costituzionale turca è quello secondo cui permettere di indossare il velo "può contribuire a creare dei conflitti sociali dato che alcuni avrebbero potuto pensare che le donne che non lo portano siano atee". La studentessa decide allora di presentare ricorso alla Corte europea di Strasburgo.

La pretesa violazione dell'art. 9, § 1 CEDU

La ricorrente, nel caso in esame, ha ritenuto che fosse stata violata la propria libertà di pensiero, coscienza e religione poiché, alla data del ricorso ovvero cinque anni dopo aver terminato gli studi universitari, non aveva ancora ottenuto il certificato di laurea. Inoltre l’imposizione di farsi fotografare a testa scoperta, l’avrebbe obbligata a contravvenire ai suoi precetti religiosi.

Il principio di laicità dello Stato deve consentire la manifestazione della propria religione?

Per la ricorrente sì e l'esercizio della seconda non intacca necessariamente la prima. Dalla decisione:

Elle soutient que l'acte de couvrir sa tête par un foulard fait partie des rites et des pratiques prévues par la religion.

(...) La requérante soutient en outre que le refus de l'université de lui fournir son diplôme constitue une ingérence dans sa liberté de religion et de conviction, qui ne peut être justifiée par le respect du principe de laïcité. Elle fait une distinction entre le principe de laïcité et la tenue vestimentaire. Elle soutient que la laïcité fait partie des principes politiques d'un modèle gouvernemental. Le fait de porter individuellement le foulard ou le turban islamique ne correspond qu'à l'accomplissement d'une pratique religieuse et n'enfreint pas la laïcité de l'Etat.

La Commissione, al contrario, ha ritenuto che la Turchia non avesse violato l’art. 9 CEDU sul presupposto iniziale che la fotografia ha la funzione di permettere l’identificazione delle persone e non può essere utilizzata allo scopo di manifestare le proprie convinzioni religiose. Ma soprattutto, la circostanza che la ricorrente avesse liberamente scelto di studiare in un’università laica in uno Stato a maggioranza musulmana, le impediva di opporsi ad atti legittimi di limitazione della libertà religiosa, posti in essere nei confronti degli studenti per “assicurare la convivenza ed integrazione di studenti appartenenti a religioni diverse”. Infatti, “nei Paesi in cui la maggioranza della popolazione aderisce ad una specifica religione, la manifestazione dei riti e dei simboli di quella religione, senza alcuna restrizione, può costituire una pressione sugli studenti che non sono praticanti o che aderiscono ad un’altra religione. Le università laiche, quando stabiliscono delle regole sull’abbigliamento, intendono evitare che certe correnti religiose fondamentaliste creino dei problemi all’ordine pubblico e non minaccino le credenze diverse".

Dalla decisione:

(...) Le Gouvernement défendeur soutient en deuxième lieu que l'obligation du respect du principe de laïcité imposée aux étudiants de l'université doit être considérée comme étant conforme aux restrictions prévues au par. 2 de l'article 9 (art. 92) de la Convention.

(...) La Commission est d'avis qu'en choisissant de faire ses études supérieures dans une université laïque, un étudiant se soumet à cette réglementation universitaire. Celleci peut soumettre la liberté des

étudiants de manifester leur religion à des limitations de lieu et de forme destinées à assurer la mixité des étudiants de croyances diverses. Notamment, dans les pays où la grande majorité de la

population adhère à une religion précise, la manifestation des rites et des symboles de cette religion, sans restriction de lieu et de forme, peut constituer une pression sur les étudiants qui ne pratiquent

pas ladite religion ou sur ceux adhérant à une autre religion. Les universités laïques, lorsqu'elles établissent les règles disciplinaires concernant la tenue vestimentaire des étudiants, peuvent veiller à ce que certains courants fondamentalistes religieux ne troublent pas l'ordre public dans l'enseignement supérieur et ne portent pas atteinte aux croyances d'autrui.

La Commission note que dans la présente affaire, le règlement de l'université concernant la tenue vestimentaire impose aux étudiants, entre autres, d'avoir la tête non couverte par un foulard. La

Commission prend également en considération les observations de la Cour constitutionnelle turque qui estime que le port de foulard islamique dans les universités turques peut constituer un défi à l'égard de ceux qui ne le portent pas. (...) La Commission considère que le statut d'étudiant dans une université laïque implique, par nature, la soumission à certaines règles de conduite établies afin d'assurer le respect des droits et libertés d'autrui. Le règlement d'une université laïque peut prévoir également que le diplôme qu'on fournit aux étudiants ne reflète en aucune manière l'identité d'un mouvement s'inspirant d'une religion et auquel peuvent participer ces étudiants.

La Corte ha dunque concluso che non c'è stata alcuna ingerenza nel diritto sancito dal § 1 dell'art. 9 CEDU.

Corte europea dei diritti dell'uomo, Refah Partisi (Partito della prosperità) e altri c. Tuchia, sentenza del 13.02.2003

Fatto

Nel 1996, il Refah Partisi (Partito della prosperità) era il primo partito del parlamento turco. Nel maggio del 1997 la Corte Costituzionale turca, su richiesta del procuratore, ne aveva ordinato la dissoluzione, con l'accusa di aver costituito "un centro di attività contrarie al principio di laicità garantito dalla Costituzione" per instaurare un sistema giuridico fondato sulla sharia, la legge islamica, che distinguesse i diritti e le libertà delle persone in funzione della loro appartenenza religiosa . Al suo presidente (ex primo ministro) e al suo vice presidente furono applicate delle pene, tra cui il decadimento dal mandato parlamentare e il divieto di presiedere un partito politico per cinque anni. E’ da tenere presente che, nei discorsi pubblici, gli esponenti del partito sostenevano la necessità di eliminare fisicamente gli avversari politici, se necessario, e non escludevano l’uso della guerra santa.

Che rapporto c’è tra democrazia e libertà religiosa?

Dalla sentenza:

90. For the purposes of the present case, the Court also refers to its caselaw concerning the place of religion in a democratic society and a democratic State. It reiterates that, as protected by Article 9, freedom of thought, conscience and religion is one of the foundations of a “democratic society” within the meaning of the Convention. It is, in its religious dimension, one of the most vital elements that go to make up the identity of believers and their conception of life, but it is also a precious asset for atheists, agnostics, sceptics and the unconcerned. The pluralism indissociable from a democratic society, which has been dearly won over the centuries, depends on it. That freedom entails, inter alia, freedom to hold or not to hold religious beliefs and to practise or not to practise a religion (see Kokkinakis v. Greece, judgment of 25 May 1993, Series A no. 260A, p. 17, § 31) (...)

91. Moreover, in democratic societies, in which several religions coexist within one and the same population, it may be necessary to place restrictions on this freedom in order to reconcile the interests of the various groups and ensure that everyone’s beliefs are respected (see Kokkinakis, cited above, p. 18, § 33). The Court has frequently emphasised the State’s role as the neutral and impartial organiser of the exercise of various religions, faiths and beliefs, and stated that this role is conducive to public order, religious harmony and tolerance in a democratic society. It also considers that the State’s duty of neutrality and impartiality is incompatible with any power on the State’s part to assess the legitimacy of religious beliefs (...)

92. The Court’s established caselaw confirms this function of the State. It has held that in a democratic society the State may limit the freedom to manifest a religion, for example by wearing an Islamic headscarf, if the exercise of that freedom clashes with the aim of protecting the rights and freedoms of others, public order and public safety (...)

While freedom of religion is in the first place a matter of individual conscience, it also implies freedom to manifest one’s religion alone and in private or in community with others, in public and within the circle of those whose faith one shares. Article 9 lists a number of forms which manifestation of a religion or belief may take, namely worship, teaching, practice and observance. Nevertheless, it does not protect every act motivated or influenced by a religion or belief (...)

The obligation for a teacher to observe normal working hours which, he asserts, clash with his attendance at prayers, may be compatible with the freedom of religion (...), as may the obligation requiring a motorcyclist to wear a crash helmet, which in his view is incompatible with his religious duties (...).

93. In applying the above principles to Turkey the Convention institutions have expressed the view that the principle of secularism is certainly one of the fundamental principles of the State which are in harmony with the rule of law and respect for human rights and democracy. An attitude which fails to respect that principle will not necessarily be accepted as being covered by the freedom to manifest one’s religion and will not enjoy the protection of Article 9 of the Convention(...)

99. The possibility cannot be excluded that a political party, in pleading the rights enshrined in Article 11 and also in Articles 9 and 10 of the Convention, might attempt to derive therefrom the right to conduct what amounts in practice to activities intended to destroy the rights or freedoms set forth in the Convention and thus bring about the destruction of democracy (...). In view of the very clear link between the Convention and democracy (see paragraphs 8689 above), no one must be authorised to rely on the Convention’s provisions in order to weaken or destroy the ideals and values of a democratic society. Pluralism and democracy are based on a compromise that requires various concessions by individuals or groups of individuals, who must sometimes agree to limit some of the freedoms they enjoy in order to guarantee greater stability of the country as a whole (...)

In that context, the Court considers that it is not at all improbable that totalitarian movements, organised in the form of political parties, might do away with democracy, after prospering under the democratic regime, there being examples of this in modern European history.

Secondo la Corte, dunque, la libertà religiosa consacrata all’art. 9 CEDU può incontrare dei limiti qualora si tratti di garantire, al contempo, il rispetto delle libertà altrui, dell’ordine pubblico e della sicurezza pubblica, ma anche della laicità dello Stato, che è connaturata ad un sistema fondato sullo stato di diritto e, dunque, democratico. Ecco che, in particolare, un sistema come quello ideato dal Refah, è inammissibile e contrario ai principi della Convenzione stessa perché sopprime il ruolo dello Stato come garante dei diritti individuali, dal momento che obbliga gli individui a rispettare non delle regole stabilite dallo Stato nell’esercizio delle sue funzioni ma delle regole di diritto imposte dalla religione (sharia) e viola il principio di non discriminazione. La Corte conclude per il contrasto ontologico, si può dire, tra rispetto della democrazia e dei diritti dell’uomo ed i principi su cui è costruito un regime fondato sulla sharia.

Dalla sentenza:

(…)the Court considers that sharia, which faithfully reflects the dogmas and divine rules laid down by religion, is stable and invariable. Principles such as pluralism in the political sphere or the constant evolution of public freedoms have no place in it. The Court notes that, when read together, the offending statements, which contain explicit references to the introduction of sharia, are difficult to reconcile with the fundamental principles of democracy, as conceived in the Convention taken as a whole. It is difficult to declare one’s respect for democracy and human rights while at the same time supporting a regime based on sharia, which clearly diverges from Convention values, particularly with regard to its criminal law and criminal procedure, its rules on the legal status of women and the way it intervenes in all spheres of private and public life in accordance with religious precepts. ... In the Court’s view, a political party whose actions seem to be aimed at introducing sharia in a State party to the Convention can hardly be regarded as an association complying with the democratic ideal that underlies the whole of the Convention.

Corte europea dei diritti dell'uomo, Leyla Sahin c. Turchia, sentenza del 10.11.2005
Costituzione turca

Art. 2

“The Republic of Turkey is a democratic, secular (laik) and social State based on the rule of law that is respectful of human rights in a spirit of social peace, national solidarity and justice, adheres to the nationalism of Atatürk and is underpinned by the fundamental principles set out in the Preamble.”

Art. 10

“All individuals shall be equal before the law without any distinction based on language, race, colour, sex, political opinion, philosophical belief, religion, membership of a religious sect or other similar grounds.

Men and women shall have equal rights. The State shall take action to achieve such equality in practice.

No privileges shall be granted to any individual, family, group or class.

State bodies and administrative authorities shall act in compliance with the principle of equality before the law in all circumstances...”

Art.13

“Fundamental rights and freedoms may be restricted only by law and on the grounds set out in special provisions of the Constitution, provided always that the essence of such rights and freedoms must remain intact. Any such restriction shall not conflict with the letter or spirit of the Constitution or the requirements of a democratic, secular social order and shall comply with the principle of proportionality.”

Art. 14

“The rights and freedoms set out in the Constitution may be not exercised with a view to undermining the territorial integrity of the State, the unity of the Nation or the democratic and secular Republic founded on human rights.

No provision of this Constitution shall be interpreted in a manner that would grant the State or individuals the right to engage in activities intended to destroy the fundamental rights and freedoms embodied in the Constitution or to restrict them beyond what is permitted by the Constitution.

The penalties to which persons who engage in activities that contravene these provisions are liable shall be determined by law.”

Art. 24

“Everyone shall have the right to freedom of conscience, belief and religious conviction.

Prayers, worship and religious services shall be conducted freely, provided that they do not violate the provisions of Article 14.

No one shall be compelled to participate in prayers, worship or religious services or to reveal his or her religious beliefs and convictions; no one shall be censured or prosecuted for his religious beliefs or convictions.

Education and instruction in religion and ethics shall be provided under the supervision and control of the State. Instruction in religious culture and in morals shall be a compulsory part of the curricula of primary and secondary schools. Other religious education and instruction shall be a matter for individual choice, with the decision in the case of minors being taken by their legal guardians.

No one shall exploit or abuse religion, religious feelings or things held sacred by religion in any manner whatsoever with a view to causing the social, economic, political or legal order of the State to be based on religious precepts, even if only in part, or for the purpose of securing political or personal interest or influence thereby.”

Fatto

Leyla Sahin è una studentessa della facoltà di medicina dell'Università di Istanbul cui era stato impedito di iscriversi ai corsi e di accedere agli esami perché non rispettava il divieto di portare i simboli religiosi nei locali universitari. Nel 1998 il rettore dell’Università aveva emesso una circolare in cui si affermava che, in conformità alle decisioni della Corte Costituzionale e della Corte di Strasburgo, “(...) le studentesse con la testa coperta (che portano il foulard islamico) e gli studenti con la barba (compresi gli studenti stranieri) non sono ammessi ai corsi e agli esami”. La Sig.ra Sahin ha impugnato tale circolare dapprima dinanzi il Tribunale amministrativo di Istanbul e quindi dinanzi il Consiglio di Stato, non ottenendo soddisfazione, ma anzi ricevendo sanzioni disciplinari da parte dell'Università. Da quel momento, per la ricorrente non è stato più possibile andare a lezione o sostenere un esame ed in seguito si è trasferita a Vienna (città ove era nata) per continuare gli studi.

La regolamentazione relativa al velo nelle università costituisce un'ingerenza nel diritto a manifestare la libertà religiosa?

La ricorrente sostiene che c'è stata illegittima ed ingiustificata ingerenza. Dalla sentenza:

76. The applicant said that her choice of dress had to be treated as obedience to a religious rule which she regarded as “recognised practice”. She maintained that the restriction in issue, namely the rules on wearing the Islamic headscarf on university premises, was a clear interference with her right to freedom to manifest her religion.

Anche in questa pronuncia la valutazione della Corte di Strasburgo è tesa ad indagare se tale ingerenza, che costituisce di fatto una limitazione posta al diritto di manifestare la libertà religiosa, sia inquadrabile nel § 2 dell'art. 9 CEDU e cioè se fosse giustificata da uno scopo legittimo e se fosse "necessaria in una società democratica".

Qui la Corte, rifacendosi ai principi già espressi nelle precedenti sentenze, ribadisce la centralità della neutralità dello Stato e del pluralismo religioso: (dalla sentenza)

107. The Court has frequently emphasised the State’s role as the neutral and impartial organiser of the exercise of various religions, faiths and beliefs, and stated that this role is conducive to public order, religious harmony and tolerance in a democratic society. It also considers that the State’s duty of neutrality and impartiality is incompatible with any power on the State’s part to assess the legitimacy of religious beliefs or the ways in which those beliefs are expressed (...) and that it requires the State to ensure mutual tolerance between opposing groups (...). Accordingly, the role of the authorities in such circumstances is not to remove the cause of tension by eliminating pluralism, but to ensure that the competing groups tolerate each other (...).

108. Pluralism, tolerance and broadmindedness are hallmarks of a “democratic society”. Although individual interests must on occasion be subordinated to those of a group, democracy does not simply mean that the views of a majority must always prevail: a balance must be achieved which ensures the fair and proper treatment of people from minorities and avoids any abuse of a dominant position (...). Pluralism and democracy must also be based on dialogue and a spirit of compromise necessarily entailing various concessions on the part of individuals or groups of individuals which are justified in order to maintain and promote the ideals and values of a democratic society (...). Where these “rights and freedoms” are themselves among those guaranteed by the Convention or its Protocols, it must be accepted that the need to protect them may lead States to restrict other rights or freedoms likewise set forth in the Convention. It is precisely this constant search for a balance between the fundamental rights of each individual which constitutes the foundation of a “democratic society” (...).

In riferimento al valore simbolico del velo, nella sentenza si legge:

(...) In addition, like the Constitutional Court..., the Court considers that, when examining the question of the Islamic headscarf in the Turkish context, there must be borne in mind the impact which wearing such a symbol, which is presented or perceived as a compulsory religious duty, may have on those who choose not to wear it. As has already been noted (see Karaduman decision ...), the issues at stake include the protection of the “rights and freedoms of others” and the “maintenance of public order” in a country in which the majority of the population, while professing a strong attachment to the rights of women and a secular way of life, adhere to the Islamic faith. Imposing limitations on freedom in this sphere may, therefore, be regarded as meeting a pressing social need by seeking to achieve those two legitimate aims, especially since, as the Turkish courts stated..., this religious symbol has taken on political significance in Turkey in recent years.

(...) The Court does not lose sight of the fact that there are extremist political movements in Turkey which seek to impose on society as a whole their religious symbols and conception of a society founded on religious precepts... It has previously said that each Contracting State may, in accordance with the Convention provisions, take a stance against such political movements, based on its historical experience (...). The regulations concerned have to be viewed in that context and constitute a measure intended to achieve the legitimate aims referred to above and thereby to preserve pluralism in the university.”

La corte conclude per la non violazione dell'art. 9 CEDU, in quanto il velo costituisce una manifestazione esteriore (se pur pacifica) molto forte ed evidente di un credo religioso, che la Corte mette in relazione con la libertà dei diritti altrui ed il mantenimento dell' ordine pubblico in un paese laico, ma a maggioranza musulmana, come la Turchia.

House of Lords, "caso Begun" (R (on the application of Begum (by her litigation friend, Rahman)) (Respondent) v. Headteacher and Governors of Denbigh High School (Appellants), Opinions of the Lords of Appeal del 22.03.2006

Fatto

Shabina Begum è un'adolescente di fede musulmana che frequenta la Denbigh High School, un istituto scolastico multiconfessionale di Luton, dotato di un regolamento sulle divise degli scolari (dress code). Tale regolamento prevede, proprio per le scolare di fede musulmana, una variante specifica dell'uniforme, cui Shabina si è sempre attenuta. A partire dal 2002, però, inizia ad indossare a scuola il velo (jilbab) e viene per questo allontanata dai corsi. Di fatto per due anni le sarà interdetto di frequentare la scuola e riprenderà gli studi solo dopo essersi iscritta ad un'altra scuola dello stesso distretto territoriale. Ricorrendo presso la Corte Amministrativa contro il regolamento della Denbigh High School, Shabina lamenta la violazione dell'art. 9 CEDU e dell'art. 2 del I Protocollo addizionale, ma non ottiene soddisfazione, dal momento che l'uniforme scolastica è considerata dai giudici britannici un'ingerenza legittima e proporzionata. La pronuncia emessa in secondo grado dalla Corte d'Appello capovolge le conclusioni emesse in primo grado ed interpreta le norme CEDU (tenendo abbondantemente conto degli esiti della giurisprudenza recente della Corte di Strasburgo ed in particolare della sentenza Sahin) nel senso della lesione del diritto di manifestazione della libertà religiosa. Se il contesto della Turchia, infatti, giustificava l'adozione di misure volte a tutelare l'ordine pubblico di fronte al dilagare del fondamentalismo, nel contesto britannico la situazione di Sahin è da intendersi come afferente a quella di una minoranza. La House of Lords, nella sentenza in esame, ritorna però sulle posizioni sostenute dal giudice amministrativo di primo grado.

Dinanzi alla possibilità di scelte alternative, è fondata la pretesa ingerenza nel diritto di manifestare la libertà religiosa?

Il punto di vista della House of Lords richiama il caso Karaduman a proposito della possibilità di compiere scelte alternative, pienamente compatibili con la libera manifestazione della libertà religiosa.

Dalle opinioni di Lord Bingham of Cornill:

23. The Strasbourg institutions have not been at all ready to find an interference with the right to manifest religious belief in practice or observance where a person has voluntarily accepted an employment or role which does not accommodate that practice or observance and there are other means open to the person to practise or observe his or her religion without undue hardship or inconvenience. (...)

Sul principio della proporzionalità della limitazione

Viene richiamata la sentenza Sahin. Dalle opinioni di Lord Bingham of Cornill:

32. It is therefore necessary to consider the proportionality of the school’s interference with the respondent’s right to manifest her religious belief by wearing the jilbab to the school. In doing so we have the valuable guidance of the Grand Chamber of the Strasbourg court in

Sahin, above, paras 104111. The court there recognises the high importance of the rights protected by article 9; the need in some situations to restrict freedom to manifest religious belief; the value of

religious harmony and tolerance between opposing or competing groups and of pluralism and broadmindedness; the need for compromise and balance; the role of the state in deciding what is necessary to protect the rights and freedoms of others; the variation of practice and tradition

among member states; and the permissibility in some contexts of restricting the wearing of religious dress.

Anche in questa sentenza, dunque, il diritto di manifestazione di una fede religiosa disposto dal § 1 dell'art. 9 CEDU assume un carattere non assoluto, nell'alveo del quale opera il margine di dicrezionalità dello Stato.

Riguardo alla violazione del diritto di insegnamento, sancito dall'art. 2 del I Protocollo CEDU

Dalle opinioni di Lord Bingham of Cornill:

36. The question is whether, between 3 September 2002 and the date, some two years later, of the respondent’s admission to another school, the appellants denied her access to the general level of educational provision available in this country. In my opinion they did not. A two year interruption in the education of any child must always be a subject for profound regret. But it was the result of the respondent’s unwillingness to comply with a rule to which, as I have concluded, the school were entitled to adhere, and, since her religious convictions forbade compliance, of her failure to secure another school where her religious convictions could be accommodated.

Dalle opinioni di Lord Scott of Foscote:

72. I find myself unable to accept that the respondent, Shabina Begum, was subjected to an unlawful exclusion from school. Nor can I accept that her school’s refusal to allow her to attend school dressed in a jilbab denied her “the right to education” (see article 2 of the First Protocol to the Convention) or was an infringement of her right to manifest her religion or beliefs (see article 9 of the Convention). To

explain these conclusions I must refer to some of the facts of the case.

D) La libertà religiosa e l'insegnamento
In materia di diritto all'insegnamento, il leadingcase è senz’altro Kjeldsen (e altri) c. Danimarca, sentenza del 7.12.1976, del quale seguono brevi cenni.

Tre coppie di genitori danesi volevano opporsi all'inserimento obbligatorio dell'educazione sessuale tra i programmi educativi della scuola elementare pubblica, previsto nel 1970 da una riforma legislativa nazionale che mirava, tra gli altri obiettivi, a ridurre il numero crescente delle nascite indesiderate. I genitori, ritenendo giusto affrontare l'argomento in sede privata, chiedevano la dispensa dall'insegnamento per i propri figli, ma essa veniva loro negata dalle autorità amministrative. Ricorrevano allora alla Corte di Strasburgo perché ritenevano che fosse stato violato l'art. 2 del I Protocollo della CEDU, che sancisce il diritto all'istruzione.

In questa sentenza la Corte dà un'interpretazioneguida della norma in questione, propendendo per la tesi secondo cui vige innanzitutto la libertà dello Stato di definire i programmi scolastici nell'insegnamento pubblico. I genitori non hanno il diritto di opporvisi e questo perché sussiste un'esigenza superiore, che è quella di garantire un insegnamento oggettivo, critico e pluralista, la tutela della quale spetta in primis allo Stato stesso. Affinché il diritto all'insegnamento, così come sancito dall'art. 2 del I Protocollo CEDU, sia dunque effettivamente rispettato, la Corte richiama lo Stato al rispetto delle convinzioni religiose e filosofiche dei genitori, prescindendo da ogni forma di indottrinamento, e dei criteri di "neutralità ed oggettività".


Corte europea dei diritti dell'uomo, Folgero e altri c. Norvegia, sentenza del 29.06.2007
Costituzione norvegese

Art. 2

“Everyone residing in the Kingdom shall enjoy freedom of religion.

The Evangelical Lutheran Religion remains the State's official religion. Residents who subscribe to it are obliged to educate their children likewise.”

Fatto

La Norvegia è un paese con una religione di Stato ed una Chiesa di Stato, cui appartiene l'86% della popolazione. La legge norvegese sull'insegnamento scolastico obbligatorio si conforma alla cd "clausola di vocazione cristiana ", secondo la quale la scuola dell'obbligo ha come obiettivo primario quello di fornire agli allievi un'educazione cristiana. Dalla legge norvegese, come modificata nel 1997:

“The object of primary and lower secondary education shall be, in agreement and cooperation with the home, to help give pupils a Christian and moral upbringing, to develop their mental and physical abilities, and to give them good general knowledge so that they may become useful and independent human beings at home and in society.”

E' previsto altresì un corso di cristianesimo, di religione e di filosofia (cd. KRL), nel quale l'insegnamento della religione cristiana (benché distinto dal catechismo e dalle pratiche religiose) costituisce una parte predominante. La stessa legge prevede, però, anche il sistema della dispensa, secondo il quale i genitori possono chiedere che il proprio figlio sia dispensato da quelle parti dell'insegnamento che, secondo loro, integrano la pratica di una religione o di una filosofia di vita diversa dalla loro. A tal fine essi devono inoltrare richiesta scritta all'amministrazione scolastica e sono tenuti a fornire una motivazione alla loro richiesta, che precisi sia quali siano le proprie convinzioni sia in che cosa l'insegnamento fornito se ne discosti. Un gruppo di genitori, membri dell' Associazione umanista norvegese, vedendosi rifiutare l'autorizzazione alla dispensa totale dei loro figli dal corso KRL, hanno agito in giudizio senza ottenere soddisfazione né in primo grado, né in appello e nemmeno dinanzi la Corte Suprema. Hanno presentato quindi ricorso alla Corte di Strasburgo sostenendo che fossero stati violati l'art. 9 CEDU e l'art. 2 del I Protocollo alla CEDU e che il corso KRL non si conformava ai criteri di "neutralità ed oggettività" enucleati dalla Corte nella giurisprudenza Kjeldsen.

L'esercizio della libertà "negativa" di religione è reso nella sostanza impossibile dalla legge norvegese?

La Corte, chiamata a valutare se il KRL rispetta i criteri enucleati nella sentenza Kjeldsen o se mira invece all'indottrinamento, senza rispettare cioè le convinzioni dei genitori, ritiene il meccanismo della dispensa sostanzialmente troppo complicato ed oneroso per i genitori. Ed inoltre ritiene che i genitori non siano tenuti a fornire informazioni e motivazioni in merito alle convinzioni personali, che attengono alla sfera della vita privata.

Dalla sentenza:

97. In this connection the Court notes that the operation of the partial exemption arrangement presupposed, firstly, that the parents concerned be adequately informed of the details of the lesson plans to be able to identify and notify to the school in advance those parts of the teaching that would be incompatible with their own convictions and beliefs. This could be a challenging task not only for parents but also for teachers, who often had difficulty in working out and dispatching to the parents a detailed lesson plan in advance (see paragraph 29 above). In the absence of any formal obligation for teachers to follow textbooks (see subtitle “10” in the citation at paragraph 48 above), it must have been difficult for parents to keep themselves constantly informed about the contents of the teaching that went on in the classroom and to single out incompatible parts. To do so must have been even more difficult where it was the general Christian leaning of the KRL subject that posed a problem.

98. Secondly, pursuant to Circular F0398, save in instances where the exemption request concerned clearly religious activities where no grounds had to be given, it was a condition for obtaining partial exemption that the parents give reasonable grounds for their request (see the citation from the Circular in the Supreme Court's reasoning at paragraph 42 above). The Court observes that information about personal religious and philosophical conviction concerns some of the most intimate aspects of private life. It agrees with the Supreme Court that imposing an obligation on parents to disclose detailed information to the school authorities about their religions and philosophical convictions may constitute a violation of Article 8 of the Convention and, possibly also, of Article 9 (ibid.). In the present instance, it is important to note that there was no obligation as such for parents to disclose their own conviction. Moreover, Circular F0398 drew the school authorities' attention to the need to take duly into account the parents' right to respect for private life (ibid.). The Court finds, nonetheless, that inherent in the condition to give reasonable grounds was a risk that the parents might feel compelled to disclose to the school authorities intimate aspects of their own religious and philosophical convictions. The risk of such compulsion was all the more present in view of the difficulties highlighted above for parents in identifying the parts of the teaching that they considered as amounting to the practice of another religion or adherence to another philosophy of life. In addition, the question whether a request for exemption was reasonable was apparently a potential breeding ground for conflict, a situation that parents might prefer simply to avoid by not expressing a wish for exemption.

La Corte conclude nel senso di ritenere che lo Stato norvegese abbia violato tanto l'art. 9 CEDU quanto l'art. 2 del I Protocollo CEDU.

Dalla sentenza:

100. In light of the above, the Court finds that the system of partial exemption was capable of subjecting the parents concerned to a heavy burden with a risk of undue exposure of their private life and that the potential for conflict was likely to deter them from making such requests. In certain instances, notably with regard to activities of a religious character, the scope of a partial exemption might even be substantially reduced by differentiated teaching. This could hardly be considered consonant with the parents' right to respect for their convictions for the purposes of Article 2 of Protocol No. 1, as interpreted in the light of Articles 8 and 9 of the Convention. In this respect, it must be remembered that the Convention is designed to “guarantee not rights that are theoretical or illusory but rights that are practical and effective” (...)

102. Against this background, notwithstanding the many laudable legislative purposes stated in connection with the introduction of the KRL subject in the ordinary primary and lower secondary schools, it does not appear that the respondent State took sufficient care that information and knowledge included in the curriculum be conveyed in an objective, critical and pluralistic manner for the purposes of Article 2 of Protocol No. 1.

Accordingly, the Court finds that the refusal to grant the applicant parents full exemption from the KRL subject for their children gave rise to a violation of Article 2 of Protocol No. 1.

Bibliografia essenziale

CONFORTI B., “La tutela internazionale della libertà religiosa”, in Rivista internazionale dei diritti dell’uomo, 2002, pag. 269 ss.

DI STEFANO A., “Il velo islamico a scuola. Il punto di vista della Camera dei Lords”, in Diritti umani e diritto internazionale, 2007, pag. 173 ss.

MANZINI P., “Libertà di espressione e sentimento religioso nella civiltà giuridica europea”, in Gozzi, Bongiovanni (a cura di), Popoli e civiltà. Per una storia e filosofia del diritto internazionale, il Mulino, 2006, pag. 123 ss.

RIGAUX F., “L’incrimination du prosélytisme face à la liberté d’expression”, in Revue trimestrielle des droits de l’homme, 1994, pag. 137 ss.

RIGAUX F., “La liberté d’expression et ses limites”, in Revue trimestrielle des droits de l’homme, 1995, pag. 455 ss.

 



IL MARE DEL MIRAGGIO: COMUNICAZIONE E SOSTENIBILITÀ NELL’AMBITO MEDITERRANEO

A cura della Prof.ssa Francesca Maria Corrao
Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” di Napoli

Il Mediterraneo è sempre il mare nostrum, è una responsabilità storica a cui non ci si può sottrarre. Tanto noi, quanto le diverse popolazioni che abitano le opposte sponde, riteniamo che quel “nostrum” si riferisca ad un sé che esclude l’“altro”. Si nasconde in questa “forma mentis” una rigidità che ha alla sua origine l’esigenza di fondare il proprio pensiero, la propria sicurezza intellettuale in radici distinte e contrapposte: la Romanità, l’Islam.
La questione si pone sotto diversi aspetti, uno di questi riguarda l’informazione e un altro i flussi umani tra le due sponde. Questi due mezzi di per sé sono neutri, dipende da come vengono gestiti, e dunque da come vengono recepiti. Se parliamo, ad esempio, dei rapporti tra le due sponde del mediterraneo nell’alto medioevo riconosciamo l’insieme di conoscenze, dalla filosofia alla medicina, che da oriente contribuirono allo sviluppo della società mercantile italiana. Oggi i mezzi di trasmissione della conoscenza sono più veloci e percorrono un itinerario opposto e i flussi umani rispondono ad esigenze diverse. La percezione che si ha adesso dell’utilità di tale scambio non è sempre positiva.
Il flusso di informazioni che, sino a mezzo secolo fa, si trasmetteva con la carta stampata, in poco tempo è passato dal sistema radiotelevisivo nazionale, a quello globale della parabolica e di internet.
Il secondo aspetto riguarda il flusso migratorio che in Occidente, grazie all’accresciuto benessere, ha visto aumentare da una parte la richiesta di manodopera e dall’altra il bisogno di evadere dal ritmo stressante dell’attività produttiva. Assistiamo così all’intensificarsi di un doppio flusso migratorio: verso il nord alla ricerca di lavoro e verso il sud alla ricerca di paradisi perduti.
L’informazione e le migrazioni sono solo delle componenti dei processi di comunicazione, e tuttavia nella società contemporanea sono strettamente connessi allo sviluppo economico e alle dinamiche dei mercati. La relazione cercherà di analizzare le potenzialità latenti nel corrente sistema di comunicazione al fine di rendere sostenibile la coesistenza tra i diversi elementi.
Come tutto ciò può generare sviluppo sostenibile e ridurre la conflittualità riportando il mare mediterraneo ad essere di nuovo e di più un mare nostrum?
Lo scambio di capitali merci e persone si svolge secondo flussi e logiche organizzative parzialmente pianificate, che non sfuggono alla tendenza all’entropia positiva, e cioè all’aumento di causalità e disordine.
Ad esempio il benessere pubblicizzato dalle nostre televisioni invoglia gli immigrati a rischiare la fortuna sulle nostre sponde. Sempre sulla scia del modello pubblicitario migliaia di turisti si riversano sulle rive nordafricane in fuga dalla frenesia della vita urbana.
I flussi turistici hanno stimolato una crescita rapida e senza controllo, questa a sua volta ha provocato dissesti ambientali ma ha anche acuito i conflitti interni.
Ad esempio, costruendo centinaia di alberghi sulle coste del Mar Rosso, gli imprenditori stranieri e Mubarak puntavano alla creazione di posti di lavoro e alla crescita del reddito grazie alla diffusione del turismo la violenta reazione della minoranza fondamentalista non era prevista; questa ha scatenato attentati che, in parte, hanno vanificato i risultati attesi dall’ingente sforzo dell’investimento.
L’accoglienza dei turisti per i paesi del Nord Africa è un settore molto importante dell’economia. Questo settore è un luogo di scambio e d’incontro potenzialmente utile al fine del miglioramento dei rapporti. Qualcosa però non ha funzionato, il turismo è in crisi. Da una parte c’è un legittimo timore degli attentati, e dall’altra c’è diffidenza verso i turisti e il modello di corruzione morale rappresentato dall’Occidente. Quest’ultimo in particolare è veicolato in Nord Africa dai nostri film e dalla pubblicità televisiva, ed è inviso alle famiglie più legate ai valori tradizionali.
Probabilmente la crisi è una conseguenza del carattere verticistico delle scelte e dello scarso dibattito ed approfondimento generato dalla struttura dei sistemi di decisione.
C’è un altro aspetto, quello del rispetto dell’ambiente poco considerato dai Governi locali in vista di una priorità assoluta data al bisogno immediato di realizzare il maggior numero di nuovi posti di lavoro. La sensibilità verso il rispetto delle coste è un fatto recente. L’ONU con la proclamazione dell’anno mondiale dell’ecoturismo ha voluto porre questo problema al centro dell’attenzione dei massimi organismi internazionali; nel Québec il summit preparatorio, dell’incontro generale di Johannesburg, si è concluso con una interessante dichiarazione sull’ecoturismo, che seppur non ratificata, afferma tra gli altri il principio del rispetto dell’ambiente e della cultura locale, e l’invito alla cooperazione delle istituzioni locali, con le organizzazioni turistiche e le ONG che operano nel settore per la realizzazione di questi obiettivi.
Infatti le esperienze di sostenibilità maturate nel decennio tra le conferenze di Rio de Janeiro e di Johannesburg, con l’avvio dei processi di Agenda 21 mostrano come le scelte fortemente dibattute ed approfondite dai diversi attori istituzionali e sociali generano un diffuso consenso sociale sulle politiche ed una loro accettazione considerando tutti gli aspetti, tra questi certamente quelli della sostenibilità ambientale e sociale.
Secondo la teoria quantitativa dell’informazione la misura statistica della libertà di scegliere, in un dato repertorio altamente organizzato, è condizionata dal fatto che questo è molto vincolato. Quanto più le scelte sono vincolate tanto minore è l’informazione rappresentata da ciascuna di esse. Ad esempio vedere più telegiornali non assicura più informazione ma piuttosto la ridondante ripetizione delle stesse notizie.
L’informazione nel Nord del Mediterraneo tende a confermare l’immagine retorica di un Sud violento ed esotico; tale immagine svolge una doppia funzione: da una parte spiega l’irresolubilità dei conflitti in corso, giustificando la nostra rassegnata indifferenza; dall’altra conferma il fascino per il primitivo e l’esotico dei luoghi da cui trae origine la nostra civiltà.
Il Sud del Mediterraneo tende a farsi un’immagine del Nord che lo rappresenta come il luogo del potere e del piacere; dove si prendono le decisioni politiche e dove è possibile esprimere se stessi e la propria opinione più liberamente e migliorare rapidamente le proprie condizioni di vita.
Altre immagini presentano il Nord indifferente di fronte alla sofferenza degli afghani ieri, dei palestinesi oggi, e degli iracheni sempre. Contemporaneamente le pubblicità, soprattutto nelle reti satellitari, come ad esempio alJazira, danno enfasi all’impegno nella solidarietà islamica e fanno appello alla raccolta di denaro in aiuto delle vittime degli attentati israeliani nei territori occupati.
Oggi la narrazione infedele degli eventi che occorrono sull’altra sponda del Mediterraneo provoca un’amara delusione, un senso di tradimento nell’immigrato che guarda alla nostra tv confidando nella correttezza delle informazioni date. Dal confronto con le reti satellitari arabe scopre che le nostre sono oscurate da una pesante censura, anche se inconsapevole.
E’ qui necessario generalizzare per esemplificare un concetto: i mezzi di comunicazione trasmettono modelli comportamentali, che sono acquisiti come strumenti per essere accettati e vincenti nella propria comunità. Il problema oggi è che questo mezzo, l’informazione, di cui non possiamo fare a meno, ci condiziona per gran parte nelle nostre scelte e coinvolge anche i nostri sentimenti; non siamo in grado di gestire il crescente flusso d’informazioni ma piuttosto lo subiamo il più delle volte in modo acritico.
È noto che l’influenza che esercita la pubblicità, sollecitando le nostre scelte, fa leva sullo stimolo di bisogni fondati sui nostri modelli culturali. In pratica si sono commercializzate tutte le feste da quella del Natale, a quella della mamma, del papà e così via. Nel mondo islamico la celebrazione delle festività religiose è ancora fortemente ancorata all’immagine di morigeratezza e costrizione che peraltro era originariamente propria anche alle feste religiose cristiane. Il contrasto dunque tra il fasto e il dispendio delle nostre festività e la sobrietà delle loro crea un’ulteriore contrapposizione. L’immagine che trasmettono i media funziona come un tromp d’oeil, la natura egoista e avida della società occidentale, così come viene trasmessa dalle nostre pubblicità, è in antitesi con il rigore morale del dettato coranico e di conseguenza viene rifiutato da chi non vuole lasciarsi sedurre da un modello che porta a perdere i valori essenziali”. Il musulmano immigrato posto di fronte agli stessi stimoli reagisce in modo non tanto diverso da come reagivano i nostri emigrati nell’Europa del Nord o in America: mette da parte i soldi per costruire una casa, sostiene economicamente la famiglia e invia in patria gli oggetti simbolo del benessere, reclamizzati dai nostri media. Al momento del ritorno in patria, per dimostrare di aver vinto la difficile sfida e di aver migliorato le proprie condizioni di vita, acquista un’auto prestigiosa (usata), il cellulare e fastosi regali per tutta la famiglia allargata. In pratica reinveste poco nel paese d’origine consumando gran parte del capitale accumulato nel paese d’emigrazione. In generale l’immigrato è sollecitato a devolvere buona parte dei beni acquisiti per sostenere i familiari più bisognosi, perché il senso della solidarietà nella comunità islamica è molto forte. Ne consegue che la natura egoista del nostro modello tende a creare uno iato tra “noi” e “loro” che nelle realtà sociali più emarginate dell’immigrazione alimenta il conflitto culturale. Il conflitto non è solo tra quel modello e il nostro ma anche, e soprattutto all’interno della stessa comunità di immigrati dove le nuove generazioni si scontrano tra chi vuole emulare il modello vincente europeo e chi lo rigetta in modo radicale. L’educazione e il recupero delle frange più emarginate potrebbero disinnescare un malessere che si preannuncia altrettanto drammatico di quello che il modello statunitense ci propone.
E’ noto che il MAE da un decennio lavora, in accordo con le istituzioni locali, alla formazione e addestramento volto a migliorare le competenze e favorire il rientro degli immigrati nei Paesi d’origine riutilizzando il capitale di conoscenze e finanziario accumulato.
Tale politica, controcorrente rispetto ai flussi dominanti, oltre a non rispondere ai bisogni di crescente manodopera della sponda nord del mediterraneo, si gioca comunque su piccole cifre, che poco incidono sulle politiche di sviluppo.
La CE e il MAE hanno anche promosso e finanziato degli interventi di cooperazione in cui istituzioni del Nord e del Sud del Mare Nostrum cooperano coinvolgendo gli attori locali e le Ong per la soluzione di aspetti critici per lo sviluppo. Ci sono stati piccoli progetti come il restauro del teatro dei dervisci al Cairo o la desalinizzazione dell’acqua nell’oasi di Siwa e la creazione del parco del Fayyum; così come ci sono anche progetti più impegnativi come il programma MEDA acqua che sta avviando sperimentazioni da generalizzare per la desalinizzazione dell’acqua, il riuso, il risparmio, e la sua corretta pianificazione.
La Commissione Europea ha inoltre avviato programmi per favorire lo sviluppo degli attori sociali non istituzionali, la cosiddetta società civile (esperienza già avviata con risultati interessanti nei paesi dell’est con i programmi Phare e Tacis democracy), per la crescita delle ONG locali dei Paesi del Mediterraneo impegnate su progetti che nascono dal basso e su cui si cercano anche i contributi istituzionali. Purtroppo le resistenze locali sono forti e lo dimostrano l’arresto del prof. Sa’ad alDin Ibrahim dell’Università Americana al Cairo che con la sua ONG e i suoi ricercatori avevano intrapreso il monitoraggio delle elezioni politiche in Egitto verificando brogli rapidamente messi a tacere dalle autorità.
Lo scambio culturale, formativo e informativo, si attua anche a livello universitario con numerose iniziative nei diversi settori sia umanistici che scientifici. L’incontro tra docenti e discenti favorisce la collaborazione intellettuale su un piano paritetico e promuove lo scambio di conoscenze utili per i diversi partner; un’iniziativa che da anni si muove in questo senso è la Comunità di Università del Mediterraneo (CUM). Sono stati anche avviati diversi master in alcune università meridionali con la partecipazione di singoli docenti, o anche in collaborazione con le istituzioni universitarie; ricordo qui il “Master EuroMediterraneo di Alta specializzazione sulle Tecnologie Multimediali Applicate al Patrimonio Umanistico e Culturale”.
Per tornare alla questione degli stereotipi, va premesso che i numerosi convegni volti a favorire l’incontro e lo scambio delle conoscenze scientifiche e umanistiche tra gli studiosi delle due sponde, ad oggi, ha dato scarsi risultati. La maggioranza della popolazione resta esclusa da queste informazioni e non riesce a vedere oltre il miraggio illusorio della pubblicità. Sempre restando nel campo scientifico capita ad esempio che un professore di fisica nucleare, o un operatore tecnico, impegnati nello sviluppo di un progetto di cooperazione, recandosi per la prima volta in un paese del Nordafrica scoprano una società moderna e non trovano i venditori di tappeti che invece incontrano sul litorale italiano. Per conoscere la realtà bisogna uscire e incontrare la gente, fuori dalle gabbie dorate create dall’industria turistica. L’impresa è ardua anche perché gli stereotipi da noi creati vengono abilmente sfruttati dai nativi che vogliono vendere un dato prodotto; capita ad esempio che un Ambasciata di un paese nordafricano per promuovere la vendita dei pacchetti turistici invita gli operatori del settore e predispone un falso set cinematografico con tutti i gadget e gli stereotipi cari al turista occidentale: cammelli, asini, danza del ventre, e artigiani in costume tradizionale che poi nella realtà non si trovano in nessun mercato.
Un altro settore importante di comunicazione ancora poco sviluppato è il mercato dei libri. Dalla lettura delle pagine di Tahar Ben Jalloun sul suo sogno giovanile dell’Occidente, si scopre che l’Europa vista dal sud è ancora più attraente di quanto possiamo immaginare. Un intellettuale nord africano è abituato sin dall’adolescenza a leggere i capolavori della nostra letteratura, e non sa che i sogni di libertà e tolleranza s’infrangano miseramente contro il muro del pregiudizio e del razzismo. L’intellettuale immigrato costretto ad umilianti lavori incontra notevoli difficoltà a fare valere la propria dignità umana nella nostra società.
Le ricerche antropologiche sul campo dimostrano invece quanto sia importante per la comunità islamica o laica araba avere dei centri di aggregazione da cui poi poter stabilire proficui contatti con la nostra società. Penso ad esempio al sito internet degli intellettuali arabi in Italia, Arabroma e le attività culturali svolte da alcuni centri come l’Accademia d’Egitto.
L’incontro con l’altro impone comunque una radicale messa in discussione dei propri valori: ad esempio una drammatica denuncia viene dallo scrittore sudanese Sayyid Talib, nel romanzo autobiografico “Stagione di migrazione verso Nord”, dove parla dello scontro violento tra la mentalità maschile tradizionale e la donna moderna occidentale. Un altro caso è rappresentato dai problemi sollevati dall’uso del velo nelle scuole francesi, dalla difficile soluzione dei casi di divorzio nei matrimoni misti, sino alla pratica illegale della cliteridectomia. Su quest’ultimo argomento in Occidente si sa molto poco; nella clandestinità, anche da noi, si verificano pratiche illegittime ma ci mancano le informazioni utili per affrontarne gli aspetti medici e sociali. Eppure già sono stati tradotti alcuni romanzi che parlano di questo dramma, come ad esempio “Voci” dell’egiziano Sulayman Fayyad.
L’opera letteraria dice quanto la stampa non può denunciare e attraverso la metafora espone drammi cui il singolo non può opporre rimedio; anche l’istituzione ha le mani legate, perché il potere è legittimato da un consenso troppo labile per sconvolgerlo con l’introduzione di cambiamenti radicali nei costumi sociali.
Tali temi sono delicati e complessi per i problemi di ordine sociale, giuridico e psicologico che sollevano. La formazione delle nostre nuove generazioni su questi temi faciliterebbe molto lo scambio e l’integrazione tra i diversi ambiti culturali.
L’incontro con l’altro, soprattutto in un mare tanto stretto, impone l’obbligo del rispetto; promuovere lo scambio di saperi serve a trasformare quelli che oggi sono i presupposti per lo scontro in occasione di dialogo e favorire la composizione dei contrasti e l’armonizzazione delle differenze. Per avviare un dialogo però è necessario stabilire una base di reciproca fiducia fondata sull’elaborazione in comune di un’etica condivisa, e rispettata.
È un percorso possibile, e nell’arte è stato già dimostrato quanto l’incontro tra diverse culture sia fruttuoso, mi riferisco alle musiche di Chebb Khalid, come a quelle di Battiato; ai totem di Picasso, o di Mirko Basaldella. La conoscenza dell’altro disvela i segreti necessari all’avvio del dialogo. La paura dell’ignoto porta a compiere gesti che procurano più profonde lacerazioni. Per spiegare il senso di quanto detto ricorro ad un’antica lezione orientale: la mitica Shahrazad delle “Mille e una notte” attraverso la narrazione di tanti modelli di vita è riuscita a guarire il marito, pluriomicida, dall’insanabile paura del tradimento.
Se si vuole pervenire ad una convergenza di intenti, che implichi il rispetto di diritti e doveri, sarà necessario coordinare i diversi saperi e le azioni convergenti di vari settori del mondo della ricerca, della società civile, con le ONG e le istituzioni.

 


DONNE E DIRITTI NEL MONDO ARABO ISLAMICO TRA CODICI E NARRAZIONE

A cura della Prof.ssa Francesca Maria Corrao
Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” di Napoli

La letteratura è senz’altro parte della storia, il testo letterario è una delle molte testimonianze della vita culturale e materiale di un paese. In tal senso l’opera letteraria diventa particolarmente importante quando raccoglie le molteplici impressioni e le più piccole sfaccettature delle questioni più complesse, intricate, difficili da dirimere o scabrose da scandagliare. Nei Paesi islamici il ruolo della donna è considerato fondamentale per la tutela dei valori della società; si citano sovente i detti del profeta che attribuiscono alla donna un ruolo centrale per l’armonia della famiglia e della comunità islamica.
I documenti storici presentano tuttavia realtà diverse e posizioni più contrastanti. Più recentemente l’impatto con la cultura occidentale, in seguito alle politiche coloniali, ha prodotto una rapida evoluzione nel costume.
Alla luce dell’evoluzione della società moderna la condizione della donna nel mondo islamico sembrerebbe presentarsi ancora molto controversa. E’ raro trovare immagini della donna realisticamente fedeli alla realtà nella letteratura classica araba; mentre nella prosa del Novecento si afferma l’immagine di donne vere che si distinguono per la loro attitudine alla non violenza. Non si tratta certo di una non violenza attiva, tutt’altro, la donna nei racconti e nei romanzi non fugge dall'oppressione, come potrebbe fare un uomo, ma si sottomette sperando che passi.
Il confronto con la società occidentale, sino alla fine degli anni cinquanta, non presenta contrasti stridenti, soprattutto se si guarda alle realtà del mondo contadino. Sin dagli inizi del XX secolo il movimento d’opinione a favore del diritto delle donne all’educazione, e al voto, aveva trovato in Medio Oriente, come in Europa, sostenitori validi tra gli intellettuali. Alcuni intellettuali arabi dietro la spinta dello scrittore egiziano, Qâsim Amîn, sfidarono con le loro idee la società islamica reclamando la necessità di istruire le donne.
Ai primi del ’900 le donne iniziavano a togliere il velo in pubblico. In Egitto Hudâ Sha’râwî (18821947) creava il primo giornale rivolti ad un pubblico femminile e organizzava le scuole per le ragazze. Negli anni venti, sempre in Egitto, le donne accedevano all’università; per il diritto di voto però avrebbero dovuto attendere la liberazione nazionale.
Al Cairo confluivano all’inizio del secolo scorso le scrittrici dell’area mediorientale, stimolate dalla relativa libertà d’espressione e soprattutto dall’emancipazione di alcune intellettuali egiziane tra cui la poetessa ‘‘ishah alTaymûriyyah (18401902), e le scrittrici Hudâ Sha’râwî (1879.1947) e Bâhitat alBâdiyah (18861918). Le riviste che accolsero gli scritti e i versi di queste pioniere promossero anche le innovazioni in campo letterario. La poetessa libanese Zaynab Fawwâz (18501914) e la palestinese Mayyi Ziyâda (18861941) furono, assieme alle egiziane, tra le più attive animatrici della scena culturale al Cairo e collaborarono alle numerose riviste quali alNîl (Il Nilo), alFatâh (La Ragazza) e L’Egyptienne. Anche a Damasco e a Beirut sorgevano le prime riviste femminili, si organizzarono circoli e scuole private per l’educazione delle ragazze. Pioniera nella lotta per l’emancipazione delle donne fu la scrittrice damascena Mârî ‘Âgamî (18881965) fondatrice della rivista al‘Arûs (la sposa).
Alla fine delle battaglie contro il giogo coloniale, le costituzioni moderne dei Paesi arabi garantivano sulla carta molti diritti alle donne. In Algeria le donne in lotta per l’indipendenza nazionale davano dimostrazione di coraggio e prove di dignità, pari alle imprese delle donne europee negli anni della resistenza contro il nazismo.
Un primo momento d’arresto, nell’evoluzione della lotta per la conquista d’ulteriori diritti civili, si potrebbe datare nei Paesi musulmani intorno agli anni Settanta. Mentre in Europa con le manifestazioni di piazza le donne conquistavano il diritto al divorzio e quello all’aborto, la lotta per i diritti civili in Nord Africa e in Medio Oriente segnava una battuta d’arresto.
I movimenti d’opinione che, in Italia e altrove in Europa, avrebbero proseguito sulle pagine dei giornali influendo sul cambiamento di gran parte dell’opinione pubblica, sino alla recente istituzione delle commissioni per le pari opportunità a livello governativo e locale, non avevano altrettanta fortuna nei Paesi d’area islamica.
Le diverse ragioni, che qui non potranno essere esaminate, vanno dalla recessione economica al crollo del sistema modello sovietico; alcuni gruppi politici hanno individuato come unica ipotesi alternativa al fallimento dell’ideale panarabo, e alla corruzione dei governi locali, nel ritorno ad un modello islamico puro, quale sola garanzia di vera giustizia. Nei Paesi islamici molti donne hanno scelto di indossare il velo per ragioni religiose e politiche; per la gran parte però è una scelta dettata dalle difficoltà economiche, il velo riduce i costi per l’abbigliamento; per alcune invece è il simbolo della protesta contro la pedissequa imitazione del modello occidentale imposto dalla cultura di governi ritenuti “corrotti”.
La conquista, negli ultimi decenni, di più ampi spazi di potere da parte di settori più conservatori del mondo religioso, accettato come elemento deterrente al dilagare del fondamentalismo, ha portato ad una più severa interpretazione della morale islamica con una conseguente riduzione dei margini di libertà di movimento per le donne. Questa fase d’apparente regresso non ha impedito che, tra certi gruppi emancipati di donne, proseguisse l’attività di ricerca e crescita della consapevolezza dei propri diritti producendo studi e approfondimenti che hanno già dato interessanti risultati. Alle attività editoriali nel Maghreb, di cui una celebre promotrice è stata Fatma Mernissi, corrisponde in Egitto la crescita dell’associazionismo sulla scia del lavoro di analisi avviato da Nawâl alSa’dâwî negli anni settanta; in gran parte dei Paesi arabi si registra comunque l’accresciuto coinvolgimento delle donne nelle attività di solidarietà sociale e nelle ONG. Inoltre la produzione letteraria femminile si è notevolmente sviluppata e conosce adesso un momento di interessante fermento.
Sul piano del diritto invece i risultati sono ancora contrastanti: da una parte si registra un passo avanti a favore dei diritti della donna nel nuovo codice civile in Marocco; d’altra parte in Algeria la proposta di legge elaborata dal governo è salutata da numerosi gruppi femminili come un’abdicazione alle richieste dei fondamentalisti più intransigenti. Anche in Egitto è stata abrogata la famosa legge Gihân, dal nome della ispiratrice la moglie del presidente Sadat, che imponeva al marito la richiesta di autorizzazione alla prima moglie prima di sposarne una seconda; la legge è stata successivamente modificata in modo tale da vanificare anche altri diritti acquisiti.
Negli ultimi anni però sembra si possa parlare di un’inversione di tendenza, i gruppi organizzati di donne e di studenti in Iran, per esempio, hanno contribuito in maniera decisiva alla vittoria delle forze progressiste alle elezioni.
Per conoscere lo stato dell’elaborazione sui Diritti Umani presso istituzioni e associazioni, pubbliche e private, nel Mondo araboislamico è opportuno esaminare alcuni articoli pertinenti ai diritti delle donne nella “Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo nell’Islam”, curata dall’O.C.I. (Organizzazione della Conferenza Islamica), e nella ”Carta Araba dei Diritti dell’Uomo” della Lega degli Stati Arabi.
Esistono altri testi non ufficiali, che qui non saranno esaminati, tra questi si ricordano il ”Commento Musulmano alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani” dell’iraniano Sultanhussein Tabandeh; la ”Dichiarazione Universale dei Diritti Umani nell’Islam”; quest’ultima è stata compilata da un’organizzazione islamica di tendenza radicale che ha sede a Londra, ed è stata presentata all’UNESCO a Parigi, nel 1985. Da queste carte emergono sostanzialmente due tendenze principali: la prima laicizzante (quella della Lega degli Stati Arabi), e la seconda più confessionale (nel cui ambito si collocano le altre). I testi del documento del primo tipo hanno un linguaggio più vicino a quello del diritto internazionale, mentre quelli appartenenti al secondo tipo sono più ricchi di espressioni religiose e terminologia del diritto islamico. Per quello che riguarda l’argomento della nostra discussione va sottolineato che tutti i testi fanno comunque riferimento al Corano e ai detti del Profeta; il testo laico lascia al libero arbitrio individuale la scelta relativa a quegli argomenti del diritto privato che si fanno risalire alla Legge coranica, e che in gran parte riguardano i diritti delle donne. In tal modo si dà la possibilità di interpretare la legge sia in chiave innovativa che conservatrice; invece i documenti più conservatori sono più rigidamente attestati sulle interpretazioni tradizionali più intransigenti. Tali letture rientrano tuttavia, nell’ambito di un dibattito che è ancora aperto e che non ha un vero riscontro effettivo con la realtà della vita vissuta, perché la loro conoscenza non è molto diffusa tra la gente. A tutt’oggi i Paesi che nella costituzione affermano diritti quale l’eguaglianza lavorativa e il divorzio, come nel diritto occidentale, sono soltanto la Tunisia e la Turchia. Paesi come L’Egitto e il Libano, pur avendo sottoscritto la carta dell’ONU, e affermando parità di diritti giuridici e lavorativi si prestano talvolta ad interpretazioni ambigue che finiscono per snaturare il valore del dettato giuridico. Altri Paesi, come l’Algeria o il Marocco, hanno provato ad introdurre una riforma moderata di alcuni articoli del diritto privato e in particolare del diritto di famiglia, che è quello più regolato nel diritto islamico.
La Dichiarazione dell’O.C.I. logicamente non è in contrasto con la Carta della Lega degli Stati Arabi; in più punti si intrecciano ma anche si differenziano. La prima è più direttamente legata alla sharî‘a e concerne essenzialmente lo statuto della persona; è ampiamente corredata da citazioni coraniche che il più delle volte superano per estensione l’enunciato del diritto positivo. L’ordine degli articoli segue in più punti quello della Dichiarazione dell’ONU ; ma rimane vago per quanto concerne i diritti di successione delle donne e la libertà di scelta nella fede.
Mentre la Dichiarazione dell’OCI dovrebbe avere la valenza più di un monito religioso, quindi più morale che giuridico, la Carta della Lega degli Stati Arabi si presenta come uno strumento di diritto che il legislatore dovrebbe rispettare nel processo di elaborazione legislativa, e imporre su tradizioni e costumi locali (seconda sezione art. 3). Se per la Dichiarazione dell’OCI l’unico legislatore ed arbitro è Dio, nella “Carta” si parla di sovranità del diritto (qânûn). La difesa della sicurezza della comunità (qui Ummah ha il significato di comunità nazionale) è l’unica ragione che può consentire al governo di sospendere, temporaneamente, le libertà sancite dalla “Carta”. Accanto all’affermazione generale dell’uguaglianza dei cittadini, uomini e donne, per quanto si riferisce allo statuto personale, la “Carta” rimanda alla sharî‘a.
Lo statuto personale è sempre rimasto sotto lo stretto controllo dell’Islâm ortodosso, pur con forti differenziazioni nella sua applicazione a seconda del paese e all’interno dello stesso tra città e campagna. Mentre è acquisito uno statuto personale più avanzato nei settori più emancipati della città, questo è rimasto fortemente influenzato dalle culture e dalle credenze popolari negli ambienti sociali dominati dalla tradizione orale.
La sfera relativa agli aspetti sociali del culto rimane sotto la giurisdizione del qâdî (il giudice del tribunale shara’itico), e comprende gli obblighi religiosi, il diritto matrimoniale e di successione.
Si sono così sviluppati parallelamente due sistemi, quello statuale e quello shara’itico, che non sono mai stati chiusi l’uno verso l’altro, e che interferiscono senza trovarsi mai in contrasto.
I sistemi invalsi sono comunque diversi e la legge del costume e della consuetudine, che rimane dominante nelle campagne, ancora oggi mantiene una profonda differenza tra la popolazione delle grandi metropoli e le aree rurali.
Qui si esamineranno alcuni temi cruciali afferenti alla libertà delle donne, come ad esempio il diritto al divorzio, all’integrità del corpo, e la parità di diritti di fronte alle leggi dello Stato.
Nella Dichiarazione dell’OCI è interessante esaminare l’articolo 10, che tratta della religione islamica e del divieto di cambiare fede per un musulmano, pena la condanna capitale per l’uomo e la prigione a vita per la donna.
Per quanto riguarda l’uguaglianza tra uomo e donna l’articolo 5 recita che la famiglia è la base della società e si fonda sul matrimonio. Si afferma che uomo e donna hanno diritto di sposarsi senza aver alcuna restrizione riguardo la razza e il colore e la nazione, ma non si menziona il fatto che una donna musulmana non può sposare un nonmusulmano. Non si fa riferimento al fatto che il padre, o il tutore, firma il contratto matrimoniale per conto della sposa, e può stipulare l’atto matrimoniale anche senza il suo esplicito consenso. Un uomo può sposare sino a quattro mogli ma la stessa regola non vale per la donna. L’uomo può ripudiare la moglie semplicemente pronunciando la sua volontà di fronte a due testimoni musulmani, e non sarà costretto a giustificarsi in caso non corrispondesse alla moglie l’assegno di mantenimento; viceversa è molto difficile per una donna ottenere il divorzio, salvo che non abbia incluso una clausola specifica al momento della stipula del contratto matrimoniale. I figli rimangono affidati alla moglie sino al raggiungimento della pubertà, e successivamente passano sotto la tutela del padre o della sua famiglia.
L’articolo 7 recita che i genitori sono responsabili della cura e dell’educazione dei figli, in accordo con i principi etici della sharî‘a. La testimonianza delle donne come anche il diritto all’eredità è regolata secondo i dettami della sharî‘a, e quindi la testimonianza di una donna vale la metà di quella di un uomo e nella divisione dell’asse patrimoniale alla moglie spetta un quarto dell’eredità se non ci sono figli altrimenti un ottavo.
La Carta della Lega Araba per i diritti dell’uomo è del 1994 e riconosce la carta dell’ONU. In particolare nella seconda parte, che è composta da 38 articoli, si tratta del diritto alla vita e al godimento dei diritti e delle libertà senza discriminazione di colore sesso lingua, razza, religione o opinione politica (art. 2). Si afferma che lo Stato si impegna a rispettare questi diritti e a non limitarli né sulla base di leggi (qânûn), o di usi e tradizioni locali (‘urf) preesistenti (art. 3). Il vero limite però è costituito dalla clausola che libera gli Stati firmatari dai vincoli imposti dalla dichiarazione in caso di pericolo per la sicurezza nazionale (qawm), e pertanto ne legittima la sospensione per un periodo definito, necessario a ristabilire l’ordine (art. 4). La dimensione legale è parte dei diritti della persona (art. 17, 18): che ha diritto di muoversi liberamente (art. 20) e ha diritto all’asilo politico (art. 21). Sono considerati illegali il non ammettere rifugiati politici ed esiliati, come rifiutare arbitrariamente la nazionalità a chi la richiede (art. 22). Si da molta enfasi alle libertà di culto, di opinione (art. 27) e di pensiero (art. 26). Si sollecita lo Stato a proteggere la famiglia, le madri, i bambini e gli anziani (art. 38).
La clausola relativa alla sicurezza nazionale è però quella che può vanificare di fatto l’implementazione di questi diritti. Basterà qui ricordare l’esempio del professore dell’Università del Cairo Nasr Abû Zayd che, accusato da un tribunale shara’itico di apostasia per aver applicato l’analisi strutturale al testo coranico, ha dovuto lasciare il paese perché si rifiutava di divorziare dalla moglie. E’ stato accusato di apostasia e pertanto doveva rescindere il legame coniugale con la moglie musulmana. Lo Stato, per evitare il conflitto tra il diritto statuale e quello shara’itico, non ha preso alcuna iniziativa per difendere il diritto di libertà nella scelta coniugale, e ha lasciato emigrare i coniugi all’estero.
Il condizionamento sociale è tale che neanche a livello di opinione pubblica si è verificata una protesta formale contro la sentenza. Un altro caso emblematico lo denuncia la scrittrice egiziana Salwa Bakr; moglie di un esiliato politico siriano, la quale si trova nell’incresciosa situazione di non potere dare la propria cittadinanza ai suoi figli perché il padre non è egiziano. Si nota che anche la Siria risulta firmataria della Carta dei diritti in questione.
Complessivamente la situazione dei diversi Paesi è molto complessa ed articolata , tanto che risulta difficile ricostruire un quadro se non proprio fedele almeno approssimativo della realtà. Attraverso le pagine dei giornali occidentali si ha certamente un’immagine molto viziata e di parte, soprattutto perché tendono a registrare soltanto gli incidenti più vistosi o i casi più impressionanti per poi generalizzare con l’effetto di criminalizzare la cultura islamica nel suo complesso. Ne risulta così un’immagine fortemente distorta, per cui la particolarissima concezione islamica dei Talebani sembrerebbe condivisa da tutti i musulmani mentre invece è fortemente condannata dalla maggioranza. Un altro equivoco ricorrente è il ritenere la pratica della cliteridectomia un’usanza islamica, ignorando che è praticata anche dai cristiani e quasi esclusivamente nell’area dell’Africa Nordorientale.
I romanzi e i racconti delle scrittrici moderne e contemporanee del mondo arabo hanno contribuito molto a dare un’immagine inedita della donna araba, delle sue gioie e delle ansie ingenerate dai forti contrasti prodotti dall’impatto con il colonialismo prima e con le guerre di indipendenza nazionale poi. Gran parte della produzione femminile ha per tema racconti autobiografici, ma anche narrazioni fantastiche con frequenti rimandi a situazioni concrete.
Le poetesse sono state le prime agli inizi del XX secolo ad esprimere in versi il disagio del dominio politico straniero. La siriana Mayyi Ziyâda, e la palestinese Fadwâ Tuqân pur riprendendo i temi dell’antica poesia classica esprimevano nuovi concetti di amore per la propria terra e per la libertà. Diversi scrittori tra cui spicca il nome di Husayn Haykal descriveva con crudo realismo la condizione di arretratezza in cui vivevano le donne nelle campagne, denunciando ignoranza e pregiudizi sociali.
Ho scelto tre grandi scrittrici contemporanee, di tre generazioni diverse la libanese Etel Adnan, la siriana Ghada Samman, e l’egiziana, Salwa Bakr, per presentare come ritraggono nelle loro opere alcune tematiche legate ai diritti delle donne.
Etel Adnan, nata a Beirut nel 1925 è una delle figure più singolari e cosmopolite della cultura contemporanea. Autrice di testi in prosa e in poesia le sue opere sono tradotte in italiano, vive tra la California, Parigi e Beirut. Ghada Samman, di dieci anni più giovane, è tra le scrittrici più note e controverse del mondo arabo per la sua coraggiosa spregiudicatezza nel trattare temi delicati quali la sessualità e il condizionamento psicologico delle donne. Nata a Damasco, vive a Parigi è autrice di numerosi racconti e romanzi. Ha creato una sua casa editrice a Beirut nel 1976, dove ha pubblicato esclusivamente le sue opere (Manshuràt Ghada Samman) E’ stata tradotta in numerose lingue e anche in italiano. Salwa Bakr è nata negli anni cinquanta, è una scrittrice e critica egiziana, vive e lavora al Cairo. Esponente della sinistra ha pagato le sue idee politiche con il carcere. Incentra le sue opere nel mondo dell’emarginazione e usa un linguaggio molto realista con forti accenti dialettali. Le sue opere sono state tradotte in inglese e francese e recentemente anche nella nostra lingua.
Si cercherà adesso di confrontare gli argomenti esaminati sui codici, con quanto raccontano le autrici menzionate. A proposito dell’uguaglianza dei diritti Salwa Bakr scrive:
“La donna dunque gode degli stessi diritti e degli stessi doveri dinanzi alla legge. Ha dunque il diritto di votare e di essere eletta al parlamento secondo le leggi correnti, come dettato dalla Costituzione, però c’è un vincolo relativo alle condizioni personali, che riguarda l’autorizzazione a viaggiare fuori del Paese che solo il marito può concedere con un permesso scritto”.
A proposito della libertà di matrimonio scrive:
“In alcuni paesi arabi la donna perde la cittadinanza se sposa uno straniero.”
Qui fa riferimento all’Arabia Saudita e non all’Egitto.
L’autrice ci spiega anche cosa in pratica significhi la clausola apposta a quasi tutti gli articoli delle carte precedentemente esaminate dove si precisa che la situazione familiare è preminente rispetto al diritto:
“Indipendentemente da quanto affermano le leggi che regolano e tutelano i diritti del lavoratore in Egitto, in merito alla parità di diritto al lavoro tra la donna e l’uomo, questa è vincolata dalla situazione personale, e si tratta di un vincolo che può fortemente condizionare la donna”.
In pratica se il marito pretende che la moglie stia a casa, Lei non potrà lavorare, così come risulta evidente che se per ragioni di lavoro una professionista si vuole allontanare dal Paese, il marito potrà impedirglielo facendola fermare all’aeroporto.
Questi divieti sono in parte il frutto di una vecchia concezione della famiglia e pertanto nei ceti più evoluti della società di fatto sono superati, sia per larghezza di vedute degli uomini che per la cautela delle donne, quella mitezza appunto di cui si parlava all’inizio.
Il problema dell’eguaglianza inizia sin dalla più tenera età, come scrive Etel Adnan:
“Viene insegnato ai bambini che i maschietti sono superiori alle bambine. Sì. Quando Hassan dà botte a Negma, Negma prende botte dal padre per aver preso botte da Hassan, e così via…”.
A proposito del condizionamento familiare e del senso di peccato legato al proprio corpo e alla relazione sessuale la scrittrice siriana Ghada Samman incalza:
“A Damasco mi spogliavo completamente solo in bagno! E prima di uscire, mi rivestivo sempre nella penombra, nascosta in una nube di vapore. Una volta però mi sono spogliata a casa di un uomo. Quel giorno avevamo chiuso tutte le finestre, tirato le tende, spento le luci e sprangato le porte. Ma nonostante tutto, le loro voci avevano continuato ad insinuarsi attraverso le fessure e a danzare sulle pareti, mettendoci in guardia dal peccato che stavamo per commettere. Le loro grida e quelle di mia madre uscivano dal mio stesso corpo, come se mi avessero posseduta. I loro ammonimenti strisciavano al buio sulla mia pelle come i vermi delle fosse, pungendomi come scorpioni e spegnendo i miei desideri. Appena l’uomo mi toccò, le voci esplosero in un unico grido, come un coro di spettri. Forse lo sentì anche lui, e per questo non riuscì a fare niente. Scappai da casa sua e non lo vidi più, e non ci provai con nessun altro”.
Ogni buon proposito di rinnovamento e di modernizzazione sembra infrangersi contro gli scogli del pregiudizio e della tradizione. A chiare lettere la Samman denuncia:
“Sposarti? Ma allora sei proprio pazza! Come credi che potrei sposare una donna che è venuta a letto con me prima del matrimonio?”
“E perché no? Non eri tu che ti vantavi di avere suggerito a tuo padre, quando si è presentato alle elezioni, di inserire la questione della parità dei sessi nel suo programma politico?”.
Questo dialogo è tratto da un testo ambientato nella Beirut del 1975 e in pieno boom economico. Oggi dopo l’ondata riformatrice del fondamentalismo, che in qualche modo ha investito tutte le società arabe, sarebbe impensabile. La protagonista è una giovane siriana che, affascinata dal clima internazionale della capitale libanese, si prende tutte le libertà che una società apparentemente evoluta sembra offrirle. La giovane poi scoprirà a sue spese che “in questa città straordinaria i matrimoni sono il risultato di calcoli politici e accordi tra clan, come tra i beduini”. Questa falsa maschera di modernità, denunciata dalla Samman, è quella che Salwa Bakr addita essere il frutto di una superficiale imitazione dell’Occidente e la causa dell’inasprimento del conflitto interno alle società arabe tra i tradizionalisti e i modernisti.
Il conflitto tra la tradizione e la modernità è tema centrale di numerosi romanzi; il tema era già stato magistralmente affrontato sia dal nobel Nagîb Mahfûz nella sua celebre Trilogia, che da Yahya Haqqi in La lampada di Umm Hâshim. I due celebri autori hanno saputo ritrarre con realismo la difficile coesistenza tra sistemi di vita e di pensiero a volte incompatibili. Un esempio importante è costituito dalla diffidenza delle donne più anziane verso la medicina moderna o dalla riluttanza a smettere l’uso di pratiche barbare, quali la cliteridectomia, tema questo efficacemente trattato da Sulayman Fayyâd nel romanzo Voci.
Le scrittrici affrontano questi argomenti con atteggiamenti diversi, alcune, come la scrittrice e giornalista libanese Hanan alShaikh, scelgono la denuncia delle pratiche più incivili a costo di incorrere nelle critiche delle donne arabe che la accusano di indulgere su temi cari ai lettori occidentali che non aiutano l’emancipazione della donna, ma bensì confermano i pregiudizi nei confronti del mondo islamico.
Diversa è invece la posizione dell’algerina Assia Djebar che con grande delicatezza affronta il tema del concubinaggio. L’autrice descrive con grande rispetto la vita della donna che viene dalla campagna, e che affronta con mite rassegnazione la segregazione di un’esistenza nell‘isolamento, in balia di un uomo che dispone completamente della sua persona. Il contrasto con la vita della cittadina emancipata è presentato in maniera problematica, senza false soluzioni di condanna o giudizi impietosi verso le scelte meno coraggiose di chi subisce perché non ha la forza o la voglia di ribellarsi.
Da tutti questi testi emerge con forza la dignità con cui le donne affrontano il dolore; la straordinaria prova di forza con cui si oppongono al destino più crudele, il coraggio di accettare di sopravvivere alle più ingiuste vessazioni. Etel Adnan tratteggia con straordinaria efficacia il dolore di una donna abbandonata dal marito; la donna solo in tarda età scopre che lui si era rifatto una vita a pochi passi da dove lei aveva continuato a vivere miseramente con le figlie piangendolo morto; sul punto di morire l’uomo vuole rivederla e le invia un messaggio:
“Questo messaggio per poco non provocò una crisi cardiaca a colei che lo ricevette. Un terremoto di emozioni la sconvolse; aveva circa cinquantanni, ed era già provata dal dolore. Cambiò carattere. Si sentì tradita nel proprio dolore, e vittima d’un inganno. La sua vita era stata dunque una menzogna, le sue ansie erano state inutili, tutto era irrimediabilmente irreversibile”

Da ogni pagina emerge ostinatamente che la società riconosce alla donna un unico ruolo, la maternità. Attorno a questa ruota il senso di ogni esistenza, al di fuori della quale è difficile tracciare un’identità diversa. La scrittrice egiziana Latifa Zayyat descrive con molta intensità l’angoscia che coglie una donna di fronte ad una crisi di identità, quando narra l’emozione provata al colloquio finale prima di sottoscrivere il divorzio:
“Un giorno del giugno 1965, mentre io e mio fratello e il funzionario dell’anagrafe erano seduti nella stanza accanto, mio marito, in un ultimo tentativo per dissuadermi dal concludere il divorzio, si voltò verso di me sulla poltrona girevole e disse:
“Guarda sono stato io a crearti”.
Tredici anni della mia vita erano passati nell’illusione di aver trovato per un certo periodo l’unione con la persona amata, poi in folli tentativi per ricostruire quell’unione illusoria per un altro periodo di tempo e, infine, la paralisi mentale che mi aveva colpita mi rendeva incapace di reagire. Non volevo alzare la voce per non mancare l’obiettivo che mi ero proposta, e mi domandai, guardandolo, in quale fase della vita passata lui mi avesse creata. In ogni fase o in nessuna? Il tempo in cui facevo dipendere la mia felicità e disperazione da lui era finito, ed era finito il giorno in cui ero guarita dalla paralisi (…) Eccomi guarita, o sul punto di guarire completamente, e tremavo per la paura che la mia neonata identità ritornasse nel ventre.”
Dallo stesso linguaggio emerge evidente che il nome della donna è legato alla paternità e successivamente alla maternità. Un esempio emblematico ce lo offre il nome d’arte scelto dalla celebre cantante egiziana Umm Kalthûm, madre appunto (letteralmente madre di Kalthûm); eppure Lei aveva rinunciato ad avere una vita normale, separando la sua sessualità dal personaggio sacro che ha incarnato per milioni di arabi, per diventare esclusivamente la voce e il cuore dei sentimenti arabi.
La donna artista ha un’esistenza difficile; è come se la sua presenza fosse inessenziale, ecco cosa scrive Etel Adnan:
“ Si sono un poeta nel cuore della città. Un punto. Sono il poeta del momento presente.
Ma poiché sono donna sono invisibile.”

Il ruolo della letterata è considerato inessenziale, a meno che non scriva afferma sarcasticamente Salwa Bakr per intrattenere le giovani borghesi nei loro sogni impossibili di matrimoni favolosi. La professionista ha vita dura, ma riesce ad affermarsi se il suo lavoro serve a migliorare le condizioni della famiglia o se supplisce all’assenza del marito. Nonostante tutte queste difficoltà la situazione si evolve lentamente e anche se nelle nuove generazioni ci sono ragazze che operano scelte radicali, come quella di decidere di non sposarsi per non essere sottomessa all’autorità del marito, pur non rompendo con il passato la società cambia. Anche se accettano di indossare il velo le donne non rinunciano a fare lavori maschili e la loro autonomia economica, seppure nel rispetto delle tradizioni le porta all’emancipazione economica. Il processo è lento, lungo e si presenta irto di ostacoli che rischiano di portare a movimenti di involuzione, come si è già segnalato. A noi resta di ascoltare le loro voci e dare loro la possibilità di esprimersi e di essere riconosciute nella loro identità con le loro peculiarità, senza volere pertanto attribuire facili etichette e categorie che non faciliterebbero il loro difficile percorso verso l’indipendenza.


IL MARE DEL MIRAGGIO: COMUNICAZIONE E SOSTENIBILITÀ NELL’AMBITO MEDITERRANEO

A cura della Prof.ssa Francesca Maria Corrao
Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” di Napoli

Il Mediterraneo è sempre il mare nostrum, è una responsabilità storica a cui non ci si può sottrarre. Tanto noi, quanto le diverse popolazioni che abitano le opposte sponde, riteniamo che quel “nostrum” si riferisca ad un sé che esclude l’“altro”. Si nasconde in questa “forma mentis” una rigidità che ha alla sua origine l’esigenza di fondare il proprio pensiero, la propria sicurezza intellettuale in radici distinte e contrapposte: la Romanità, l’Islam.
La questione si pone sotto diversi aspetti, uno di questi riguarda l’informazione e un altro i flussi umani tra le due sponde. Questi due mezzi di per sé sono neutri, dipende da come vengono gestiti, e dunque da come vengono recepiti. Se parliamo, ad esempio, dei rapporti tra le due sponde del mediterraneo nell’alto medioevo riconosciamo l’insieme di conoscenze, dalla filosofia alla medicina, che da oriente contribuirono allo sviluppo della società mercantile italiana. Oggi i mezzi di trasmissione della conoscenza sono più veloci e percorrono un itinerario opposto e i flussi umani rispondono ad esigenze diverse. La percezione che si ha adesso dell’utilità di tale scambio non è sempre positiva.
Il flusso di informazioni che, sino a mezzo secolo fa, si trasmetteva con la carta stampata, in poco tempo è passato dal sistema radiotelevisivo nazionale, a quello globale della parabolica e di internet.
Il secondo aspetto riguarda il flusso migratorio che in Occidente, grazie all’accresciuto benessere, ha visto aumentare da una parte la richiesta di manodopera e dall’altra il bisogno di evadere dal ritmo stressante dell’attività produttiva. Assistiamo così all’intensificarsi di un doppio flusso migratorio: verso il nord alla ricerca di lavoro e verso il sud alla ricerca di paradisi perduti.
L’informazione e le migrazioni sono solo delle componenti dei processi di comunicazione, e tuttavia nella società contemporanea sono strettamente connessi allo sviluppo economico e alle dinamiche dei mercati. La relazione cercherà di analizzare le potenzialità latenti nel corrente sistema di comunicazione al fine di rendere sostenibile la coesistenza tra i diversi elementi.
Come tutto ciò può generare sviluppo sostenibile e ridurre la conflittualità riportando il mare mediterraneo ad essere di nuovo e di più un mare nostrum?
Lo scambio di capitali merci e persone si svolge secondo flussi e logiche organizzative parzialmente pianificate, che non sfuggono alla tendenza all’entropia positiva, e cioè all’aumento di causalità e disordine.
Ad esempio il benessere pubblicizzato dalle nostre televisioni invoglia gli immigrati a rischiare la fortuna sulle nostre sponde. Sempre sulla scia del modello pubblicitario migliaia di turisti si riversano sulle rive nordafricane in fuga dalla frenesia della vita urbana.
I flussi turistici hanno stimolato una crescita rapida e senza controllo, questa a sua volta ha provocato dissesti ambientali ma ha anche acuito i conflitti interni.
Ad esempio, costruendo centinaia di alberghi sulle coste del Mar Rosso, gli imprenditori stranieri e Mubarak puntavano alla creazione di posti di lavoro e alla crescita del reddito grazie alla diffusione del turismo; la violenta reazione della minoranza fondamentalista non era prevista; questa ha scatenato attentati che, in parte, hanno vanificato i risultati attesi dall’ingente sforzo dell’investimento.
L’accoglienza dei turisti per i paesi del Nord Africa è un settore molto importante dell’economia. Questo settore è un luogo di scambio e d’incontro potenzialmente utile al fine del miglioramento dei rapporti. Qualcosa però non ha funzionato, il turismo è in crisi. Da una parte c’è un legittimo timore degli attentati, e dall’altra c’è diffidenza verso i turisti e il modello di corruzione morale rappresentato dall’Occidente. Quest’ultimo in particolare è veicolato in Nord Africa dai nostri film e dalla pubblicità televisiva, ed è inviso alle famiglie più legate ai valori tradizionali.
Probabilmente la crisi è una conseguenza del carattere verticistico delle scelte e dello scarso dibattito ed approfondimento generato dalla struttura dei sistemi di decisione.
C’è un altro aspetto, quello del rispetto dell’ambiente poco considerato dai Governi locali in vista di una priorità assoluta data al bisogno immediato di realizzare il maggior numero di nuovi posti di lavoro. La sensibilità verso il rispetto delle coste è un fatto recente. L’ONU con la proclamazione dell’anno mondiale dell’ecoturismo ha voluto porre questo problema al centro dell’attenzione dei massimi organismi internazionali; nel Québec il summit preparatorio, dell’incontro generale di Johannesburg, si è concluso con un’interessante dichiarazione sull’ecoturismo, che seppur non ratificata, afferma tra gli altri il principio del rispetto dell’ambiente e della cultura locale, e l’invito alla cooperazione delle istituzioni locali, con le organizzazioni turistiche e le ONG che operano nel settore per la realizzazione di questi obiettivi.
Infatti le esperienze di sostenibilità maturate nel decennio tra le conferenze di Rio de Janeiro e di Johannesburg, con l’avvio dei processi di Agenda 21 mostrano come le scelte fortemente dibattute ed approfondite dai diversi attori istituzionali e sociali generano un diffuso consenso sociale sulle politiche ed una loro accettazione considerando tutti gli aspetti, tra questi certamente quelli della sostenibilità ambientale e sociale.
Secondo la teoria quantitativa dell’informazione la misura statistica della libertà di scegliere, in un dato repertorio altamente organizzato, è condizionata dal fatto che questo è molto vincolato. Quanto più le scelte sono vincolate tanto minore è l’informazione rappresentata da ciascuna di esse. Ad esempio vedere più telegiornali non assicura più informazione ma piuttosto la ridondante ripetizione delle stesse notizie.
L’informazione nel Nord del Mediterraneo tende a confermare l’immagine retorica di un Sud violento ed esotico; tale immagine svolge una doppia funzione: da una parte spiega l’irresolubilità dei conflitti in corso, giustificando la nostra rassegnata indifferenza; dall’altra conferma il fascino per il primitivo e l’esotico dei luoghi da cui trae origine la nostra civiltà.
Il Sud del Mediterraneo tende a farsi un’immagine del Nord che lo rappresenta come il luogo del potere e del piacere; dove si prendono le decisioni politiche e dove è possibile esprimere se stessi e la propria opinione più liberamente e migliorare rapidamente le proprie condizioni di vita.
Altre immagini presentano il Nord indifferente di fronte alla sofferenza degli afghani ieri, dei palestinesi oggi, e degli iracheni sempre. Contemporaneamente le pubblicità, soprattutto nelle reti satellitari, come ad esempio alJazira, danno enfasi all’impegno nella solidarietà islamica e fanno appello alla raccolta di denaro in aiuto delle vittime degli attentati israeliani nei territori occupati.
Oggi la narrazione infedele degli eventi che occorrono sull’altra sponda del Mediterraneo provoca un’amara delusione, un senso di tradimento nell’immigrato che guarda alla nostra tv confidando nella correttezza delle informazioni date. Dal confronto con le reti satellitari arabe scopre che le nostre sono oscurate da una pesante censura, anche se inconsapevole.
E’ qui necessario generalizzare per esemplificare un concetto: i mezzi di comunicazione trasmettono modelli comportamentali, che sono acquisiti come strumenti per essere accettati e vincenti nella propria comunità. Il problema oggi è che questo mezzo, l’informazione, di cui non possiamo fare a meno, ci condiziona per gran parte nelle nostre scelte e coinvolge anche i nostri sentimenti; non siamo in grado di gestire il crescente flusso d’informazioni ma piuttosto lo subiamo il più delle volte in modo acritico.
È noto che l’influenza che esercita la pubblicità, sollecitando le nostre scelte, fa leva sullo stimolo di bisogni fondati sui nostri modelli culturali. In pratica si sono commercializzate tutte le feste da quella del Natale, a quella della mamma, del papà e così via. Nel mondo islamico la celebrazione delle festività religiose è ancora fortemente ancorata all’immagine di morigeratezza e costrizione che peraltro era originariamente propria anche alle feste religiose cristiane. Il contrasto dunque tra il fasto e il dispendio delle nostre festività e la sobrietà delle loro crea un’ulteriore contrapposizione. L’immagine che trasmettono i media funziona come un tromp d’oeil, la natura egoista e avida della società occidentale, così come viene trasmessa dalle nostre pubblicità, è in antitesi con il rigore morale del dettato coranico e di conseguenza viene rifiutato da chi non vuole lasciarsi sedurre da un modello che porta a perdere i valori essenziali”. Il musulmano immigrato posto di fronte agli stessi stimoli reagisce in modo non tanto diverso da come reagivano i nostri emigrati nell’Europa del Nord o in America: mette da parte i soldi per costruire una casa, sostiene economicamente la famiglia e invia in patria gli oggetti simbolo del benessere, reclamizzati dai nostri media. Al momento del ritorno in patria, per dimostrare di aver vinto la difficile sfida e di aver migliorato le proprie condizioni di vita, acquista un’auto prestigiosa (usata), il cellulare e fastosi regali per tutta la famiglia allargata. In pratica reinveste poco nel paese d’origine consumando gran parte del capitale accumulato nel paese d’emigrazione. In generale l’immigrato è sollecitato a devolvere buona parte dei beni acquisiti per sostenere i familiari più bisognosi, perché il senso della solidarietà nella comunità islamica è molto forte. Ne consegue che la natura egoista del nostro modello tende a creare uno iato tra “noi” e “loro” che nelle realtà sociali più emarginate dell’immigrazione alimenta il conflitto culturale. Il conflitto non è solo tra quel modello e il nostro ma anche, e soprattutto all’interno della stessa comunità di immigrati dove le nuove generazioni si scontrano tra chi vuole emulare il modello vincente europeo e quanti lo rigettano in modo radicale. L’educazione e il recupero delle frange più emarginate potrebbero disinnescare un malessere che si preannuncia altrettanto drammatico di quello che il modello statunitense ci propone.
E’ noto che il MAE da un decennio lavora, in accordo con le istituzioni locali, alla formazione e addestramento volto a migliorare le competenze e favorire il rientro degli immigrati nei Paesi d’origine riutilizzando il capitale di conoscenze e finanziario accumulato.
Tale politica, controcorrente rispetto ai flussi dominanti, oltre a non rispondere ai bisogni di crescente manodopera della sponda nord del mediterraneo, si gioca comunque su piccole cifre, che poco incidono sulle politiche di sviluppo.
La CE e il MAE hanno anche promosso e finanziato degli interventi di cooperazione in cui istituzioni del Nord e del Sud del Mare Nostrum cooperano coinvolgendo gli attori locali e le Ong per la soluzione di aspetti critici per lo sviluppo. Ci sono stati piccoli progetti come il restauro del teatro dei dervisci al Cairo o la desalinizzazione dell’acqua nell’oasi di Siwa e la creazione del parco del Fayyum; così come ci sono anche progetti più impegnativi come il programma MEDA acqua che sta avviando sperimentazioni da generalizzare per la desalinizzazione dell’acqua, il riuso, il risparmio, e la sua corretta pianificazione.
La Commissione Europea ha inoltre avviato programmi per favorire lo sviluppo degli attori sociali non istituzionali, la cosiddetta società civile (esperienza già avviata con risultati interessanti nei paesi dell’est con i programmi Phare e Tacis democracy), per la crescita delle ONG locali dei Paesi del Mediterraneo impegnate su progetti che nascono dal basso e su cui si cercano anche i contributi istituzionali. Purtroppo le resistenze locali sono forti e lo dimostrano l’arresto del prof. Sa’ad alDin Ibrahim dell’Università Americana al Cairo che con la sua ONG e i suoi ricercatori avevano intrapreso il monitoraggio delle elezioni politiche in Egitto verificando brogli rapidamente messi a tacere dalle autorità.
Lo scambio culturale, formativo e informativo, si attua anche a livello universitario con numerose iniziative nei diversi settori sia umanistici che scientifici. L’incontro tra docenti e discenti favorisce la collaborazione intellettuale su un piano paritetico e promuove lo scambio di conoscenze utili per i diversi partner; un’iniziativa che da anni si muove in questo senso è la Comunità di Università del Mediterraneo (CUM). Sono stati anche avviati diversi master in alcune università meridionali con la partecipazione di singoli docenti, o anche in collaborazione con le istituzioni universitarie; ricordo qui il “Master EuroMediterraneo di Alta specializzazione sulle Tecnologie Multimediali Applicate al Patrimonio Umanistico e Culturale”.
Per tornare alla questione degli stereotipi, va premesso che i numerosi convegni volti a favorire l’incontro e lo scambio delle conoscenze scientifiche e umanistiche tra gli studiosi delle due sponde, ad oggi, ha dato scarsi risultati. La maggioranza della popolazione resta esclusa da queste informazioni e non riesce a vedere oltre il miraggio illusorio della pubblicità. Sempre restando nel campo scientifico capita ad esempio che un professore di fisica nucleare, o un operatore tecnico, impegnati nello sviluppo di un progetto di cooperazione, recandosi per la prima volta in un paese del Nordafrica scoprano una società moderna e non trovano i venditori di tappeti che invece incontrano sul litorale italiano. Per conoscere la realtà bisogna uscire e incontrare la gente, fuori dalle gabbie dorate create dall’industria turistica. L’impresa è ardua anche perché gli stereotipi da noi creati vengono abilmente sfruttati dai nativi che vogliono vendere un dato prodotto; capita ad esempio che un Ambasciata di un paese nordafricano per promuovere la vendita dei pacchetti turistici invita gli operatori del settore e predispone un falso set cinematografico con tutti i gadget e gli stereotipi cari al turista occidentale: cammelli, asini, danza del ventre, e artigiani in costume tradizionale che poi nella realtà non si trovano in nessun mercato.
Un altro settore importante di comunicazione ancora poco sviluppato è il mercato dei libri. Dalla lettura delle pagine di Tahar Ben Jalloun sul suo sogno giovanile dell’Occidente, si scopre che l’Europa vista dal sud è ancora più attraente di quanto possiamo immaginare. Un intellettuale nord africano è abituato sin dall’adolescenza a leggere i capolavori della nostra letteratura, e non sa che i sogni di libertà e tolleranza s’infrangano miseramente contro il muro del pregiudizio e del razzismo. L’intellettuale immigrato costretto ad umilianti lavori incontra notevoli difficoltà a fare valere la propria dignità umana nella nostra società.
Le ricerche sociologiche e antropologiche dimostrano invece quanto sia importante per la comunità islamica o laica araba avere dei centri di aggregazione da cui poi poter stabilire proficui contatti con la nostra società. Penso ad esempio al sito internet degli intellettuali arabi in Italia, Arabroma e le attività culturali svolte da alcuni centri come l’Accademia d’Egitto.
L’incontro con l’altro impone in ogni caso mettere in discussione i propri valori in modo radicale: ad esempio una drammatica denuncia viene dallo scrittore sudanese Tayeb Salih, nel romanzo autobiografico “Stagione di migrazione verso Nord”, dove parla dello scontro violento tra la mentalità maschile tradizionale e la donna moderna occidentale. Un altro caso è rappresentato dai problemi sollevati dall’uso del velo nelle scuole francesi, dalla difficile soluzione dei casi di divorzio nei matrimoni misti, sino alla pratica illegale della cliteridectomia. Su quest’ultimo argomento in Occidente si sa molto poco; nella clandestinità, anche da noi, si verificano pratiche illegittime ma ci mancano le informazioni utili per affrontarne gli aspetti medici e sociali. Eppure già sono stati tradotti alcuni romanzi che parlano di questo dramma, come ad esempio “Voci” dell’egiziano Suleyman Fayyad.
L’opera letteraria dice quanto la stampa non può denunciare, e attraverso la metafora espone drammi cui il singolo non può opporre rimedio; anche l’istituzione ha le mani legate, perché il potere è legittimato da un consenso troppo labile per sconvolgerlo con l’introduzione di cambiamenti radicali nei costumi sociali.
Tali temi sono delicati e complessi per i problemi di ordine sociale, giuridico e psicologico che sollevano. La formazione delle nostre nuove generazioni su questi temi faciliterebbe molto lo scambio e l’integrazione tra i diversi ambiti culturali.
L’incontro con l’altro, soprattutto in un mare tanto stretto, impone l’obbligo del rispetto; promuovere lo scambio di saperi serve a trasformare quelli che oggi sono i presupposti per lo scontro in occasione di dialogo e favorire la composizione dei contrasti e l’armonizzazione delle differenze. Per avviare un dialogo però è necessario stabilire una base di reciproca fiducia fondata sull’elaborazione in comune di un’etica condivisa, e rispettata.
È un percorso possibile, e nell’arte è stato già dimostrato quanto l’incontro tra diverse culture sia fruttuoso, mi riferisco alle musiche di Chebb Khalid, come a quelle di Battiato; ai totem di Picasso, o di Mirko Basaldella. La conoscenza dell’altro disvela i segreti necessari all’avvio del dialogo. La paura dell’ignoto porta a compiere gesti che procurano più profonde lacerazioni. Per spiegare il senso di quanto detto ricorro ad un’antica lezione orientale: la mitica Shahrazad delle “Mille e una notte” attraverso la narrazione di tanti modelli di vita è riuscita a guarire il marito, pluriomicida, dall’insanabile paura del tradimento.
Se si vuole pervenire ad una convergenza di intenti, che implichi il rispetto di diritti e doveri, sarà necessario coordinare i diversi saperi e le azioni convergenti di vari settori del mondo della ricerca, della società civile, con le ONG e le istituzioni.

PER UN COMUNE LINGUAGGIO DEI DIRITTI UMANI NELL’AREA DEL MEDITERRANEO

In Per una convergenza mediterranea sui diritti dell’uomo. Orientamenti critici e ricostruttivi. A cura di P. Ungari e M. Modica, Vol. 3, 1999, Roma, ed. EURoma, pp.143151.

A cura della Prof.ssa Francesca Maria Corrao
Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” di Napoli

La ricerca è sollecitata dal convincimento, che sia utile confrontare il senso profondo dei valori portanti di civiltà diverse al fine di trovare una comunità di intenti laddove nel corso delle vicende umane può venire a mancare.
La traduzione è uno degli strumenti prescelti. Come scrive José Ortega y Gasset la traduzione “può costituire una magnifica impresa : la rivelazione di mutui segreti che popoli ed epoche si nascondono reciprocamente e che tanto contribuiscono alla loro dispersione e ostilità ; insomma un’audace ricomposizione dell’umanità”.
La ricerca di un comune linguaggio nasce necessariamente da una traduzione nel senso di una comprensione profonda del senso che la parola ha nel contesto in cui viene enunciata. Qui si presentano i primi risultati di una ricerca di più ampio respiro che si propone di confrontare il linguaggio dei diritti umani nella cultura araboislamica con quello della carta delle Nazioni Unite.
La prima fase del lavoro prevede la traduzione e il confronto di alcuni dei diversi testi elaborati nei Paesi araboislamici sui Diritti Umani per evidenziare il valore che assumono le parole chiave più ricorrenti.
Sono stati presi in esame la ”Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo nell’Islam”, curata dall’OCI, e la ”Carta Araba dei Diritti dell’Uomo” elaborata dalla Lega degli Stati Arabi. Esistono altri testi non ufficiali che verranno esaminati in una fase successiva, tra questi si ricordano la ”Dichiarazione Universale dei Diritti Umani nell’Islam”, la ”Carta dei Diritti Umani e dei Diritti dei Popoli nel Mondo Arabo, e il ”Commento Musulmano alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani” di Sultanhussein Tabandeh.

Serve innanzitutto mettere a fuoco la diversità dei campi semantici che connotano le parole prese in esame in questa ricerca, un primo esempio indicativo della complessità e delicatezza ce lo offre la parola “diritto”. Nella nostra civiltà è un concetto legato al potere statuale che deriva dalla cultura romana, mentre nella civiltà araboislamica rimanda ad un attributo divino: ðaqq è in primo luogo il ”vero”, il ”giusto”, ma indica anche il ”diritto” riferito alla sua fonte religiosa. In merito al nostro referente culturale, per la parola giusto occorre osservare che in latino l’etimologia di iustus significa conforme al diritto, facendo riferimento nella tradizione classica esclusivamente al potere imperativo dello Stato.
Affrontando il tema del diritto per l’ampia area araboislamica serve sottolineare l’aurea di sacralità di cui è investita la lingua araba, in quanto lingua del Corano, nella vasta compagine di Stati che riconoscono l’Islâm come religione ufficiale. Questa sacralità della lingua vale anche laddove l’arabo non è la lingua ufficiale del Paese. Gran parte delle Carte elaborate sui diritti umani nell’Islâm fanno copiosi riferimenti al Corano, ed anzi sono strutturate a partire dai principi coranici. La parola diritto è dunque connotata da una forte valenza sacrale, mentre nella cultura occidentale il lungo percorso che ha portato all’elaborazione della Carta dei diritti umani è il prodotto di uno sforzo intellettuale di matrice per lo più laica.
L’espressione linguistica è una manifestazione del pensiero e pertanto è utile tener conto del contesto culturale più ampio in cui viene pronunciata. Le parole prive dei rimandi e delle sfumature che le accompagnano sin dal loro sorgere come pensieri possono produrre gravi fraintendimenti. Da qui la necessità della contestualizzazione del linguaggio, senza la quale si rischia di appiattire e travisare il senso originale. Prima però di procedere nell’analisi serve fare delle premesse.
Louis Gardet nel rievocare le fonti della sharî‘a si sofferma sulla distinzione tra shar‘, che è la Legge rivelata, e la sharî‘, che è l’elaborazione del diritto musulmano e ne è al tempo stesso conseguenza e applicazione, pone il problema centrale nel rapporto tra le due dicendo:

La sharî‘, telle qu’elle existe en fait, a certes toutes ses sources dans le shar‘, c’est àdire le texte coranique explicité déjà par les |adîÅ ¡ ¡a|î|. Coran et Sunna sont des données. L’élaboration de la šarî‘ s’est poursuivie surtout durant les trois prémiers siècles de l’hégire. Doitelle à son tour faire figure de donnée intangible?

I principi che regolano le relazioni umane dipendono dalla volontà divina, ma la loro implementazione concreta dovrebbe dipendere, secondo i teologi musulmani, dalle circostanze del tempo e del luogo. Due autori classici come lo shafiita alGhazâlî (m. 1111) e lo hanbalita Ibn Taimiyya (XIV cent.) già riconoscevano un principio di evoluzione nella legge.
In teoria la sharî‘a regola la vita pubblica e privata dei musulmani ed è sacra, mentre i testi di giurisprudenza islamica (fiqh) sono norme giuridiche elaborate dai giuristi musulmani nel corso dei secoli. Nel testo coranico le norme giuridiche particolari e dettagliate sono in numero molto esiguo e riguardano casi e circostanze molto limitate.
Molto presto i Governatori del giovane impero islamico si trovarono (già in epoca Omayyade nel VII secolo) a fare i conti con un sistema penale ed amministrativo inadeguato e formularono regole, dette qânûn (dal greco canone) in questi ambiti pur non avendo l’autorità legislativa per farlo. Si adottarono anche leggi e consuetudini locali (‘urf) che divennero parte del sistema giuridico. All’epoca tali sviluppi non preoccupavano neanche i più rigidi uomini di fede; a loro bastava che, nelle questioni amministrative, qânûn e sharî‘a non configgessero; peraltro quest’ultima in tali questioni il più delle volte taceva. Lo stesso dicasi per il codice penale; laddove c’era la possibilità della discrezione interpretativa il Governatore applicava il qânûn, oppure imponeva delle multe in sostituzione di pene corporali gravi come le mutilazioni o le lapidazioni previste nel Corano per certi crimini. Il qâdî (il giudice del tribunale sharaitico) era ed è ancora legato all’autorità della dottrina della sharî‘a, in completa indipendenza dal Governo. Il che però è vero solo in teoria, perché in pratica il qâdî non poteva, e ancora oggi non può, non tener conto dei desideri dell’autorità da cui dipende tanto la propria nomina quanto l’esecuzione dei verdetti pronunciati. L’autorità politica a sua volta riconosce la legge religiosa e non si arroga il diritto di legiferare nell’ambito della sharî‘a, ma quando vi è conflitto con gli interessi dello Stato si emanano leggi autonome, qânûn. Nell’ambito del diritto amministrativo e penale c’è sempre stata maggiore apertura, e in particolare sotto l’egida del Governo ottomano il sistema è stato uniformato e sono state introdotte copiose modifiche e innovazioni rispondenti all’evoluzione storicosociale dell’Impero.
Diversa si presenta invece la situazione dello statuto personale che è sempre rimasto sotto lo stretto controllo dell’Islâm ortodosso,pur con forti differenzazioni nella sua applicazione. Mentre infatti era codificato nei settori più avanzati della città, è rimasto fortemente influenzato dalle culture e dalle credenze popolari negli ambienti sociali dominati dalla tradizione orale.
La sfera relativa agli aspetti sociali del culto rimane sotto la giurisdizione del qâdî, e comprende gli obblighi religiosi, il diritto matrimoniale e di successione.
Si sono così sviluppati due sistemi che non sono mai stati chiusi l’uno verso l’altro, e che interferiscono senza trovarsi mai in contrasto. Se contrasto esiste è nell’impostazione, secondo quanto afferma Muhammad Arkoun con altri, tra due diverse modalità di pensiero: il raziocinante ”‘Aql” e l’imitatore ”naql”; un contrasto che nel corso dei secoli ha visto contrapporsi teologi e mistici, Mu’taziliti e A’shariti.
Tale divaricazione arriva a tempi a noi vicini vedendo le posizioni contrapposte dei teorici dei movimenti radicali, come ad esempio l’egiziano Sayyid alQutb dei Fratelli Musulmani, e quelle dei moderati come il filosofo marocchino Mu|ammad ‘Azîz La|bâbî. Per il primo, ad esempio, il Þihâd è guerra totale contro ogni sistema per implementare la Legge di Dio; per il secondo è invece lo sforzo quotidiano per migliorare se stessi, difendere la pace e le conquiste acquisite dagli uomini contro la guerra e la miseria.
Questo contrasto in passato ha prodotto, sempre secondo Arkoun, una chiusura epistemica ed epistemologica parallelamente alla quale si è sviluppato un linguaggio giuridico secolare che è il risultato dell’evolversi di una lingua viva. Nel corso dei secoli il legislatore ha di volta in volta fatto ricorso alla emanazione di qânûn, ‘amr (decreto), ni©âm (ordinamento, legge), per dirimere questioni di diritto penale ed amministrativo.
Logica conseguenza di questo duplice sistema non poteva essere che l’emanazione di due Carte sui diritti dell’uomo, quella della OCI e quella della Lega degli Stati Arabi. Come si è già detto ne esistono altre, ma queste sono le più significative al fine della nostra analisi.
Le due carte logicamente non sono in contrasto, si intrecciano in più punti e tuttavia si distinguono. Quella dell’OCI è più direttamente legata alla sharî‘a e concerne essenzialmente lo statuto della persona. E’ ampiamente corredata da citazioni coraniche che il più delle volte superano per estensione l’enunciato del diritto positivo. L’ordine degli articoli segue in più punti quello della carta dell’ONU ; esclude tuttavia alcuni punti, ad esempio non fa menzione dei diritti sindacali, è vago per quanto concerne i diritti di successione delle donne e la libertà di scelta della fede.
La Carta della Lega degli Stati Arabi apre con un’enfatica condanna del sionismo, perora poi la difesa dei diritti dei popoli e dello sviluppo, quindi riprende la impostazione strutturale e il linguaggio della Carta dell’ONU.
La struttura sintattica delle due Carte è diversa, l’una rispecchia il costrutto logico della lingua araba classica, mentre l’altra è impostata sul modello di un testo di diritto internazionale ; la lingua è l’arabo moderno arricchito dai prestiti linguistici (come ad esempio il termine Sionismo). Entrambe lasciano ampio margine all’interpretazione. Si nota ad esempio che la Carta della Lega in vari punti, soprattutto in quelli relativi allo statuto personale, fa esplicito rinvio alla normativa della sharî‘a.
Per entrambe le carte la parola di riferimento comune è |aqq, diritto, ma già si distinguono quando si parla delle sfere di influenza, la Carta dell’OCI parla di Ummah ( comunità islamica in senso lato) con valenza socioreligiosa e non politica; mentre nella Carta della Lega si usa il termine Dawlah, Stato, con preciso significato politico. Un altro importante termine di riferimento è la parola muslim che è il destinatario della prima Carta mentre per la seconda si parla di sha‘ab, popolo. Le raccomandazioni della Carta dell’OCI riguarderebbero dunque soltanto i musulmani, mentre quelle della Carta della Lega si riferiscono a tutti i cittadini dello Stato senza distinzione di religione. Si osservi inoltre che il termine cittadino non compare ma tuttavia si parla di qânûn madanî, diritto civile.
Mentre la prima dovrebbe avere la valenza più di un monito religioso, quindi più morale che giuridico la seconda si presenta come uno strumento di diritto che il legislatore dovrebbe fare rispettare e imporre su tradizioni e costumi locali (seconda sezione art. 3). Se per la prima Carta l’unico legislatore ed arbitro è Dio, nella seconda si parla di sovranità del diritto (qânûn). La difesa della sicurezza della comunità (qui Ummah ha il significato di comunità nazionale) è l’unica ragione che può consentire al governo di sospendere, temporaneamente, le libertà sancite dalla Carta. Per quanto riguarda invece le libertà e le uguaglianze dei cittadini, uomini e donne, relativamente allo statuto personale, accanto alla affermazione del principio di eguaglianza, è indicato che si rimanda alla sharî‘a.
L’etica di riferimento è quella islamica, che si pone in alternativa ai valori propugnati dalla Carta dell’Onu, ma non basta. Alla filosofia politica che informa la Carta dei diritti “occidentali” gli Stati Arabi contrappongono la priorità del diritto allo sviluppo. Come osserva il filosofo egiziano ðasan ðanafî, non può esserci vero rispetto del diritto umano laddove non c’è il diritto allo sviluppo. Lo stesso dicasi per quanto riguarda la condanna del sionismo: non ci può essere diritto all’autodeterminazione dei popoli sino a quando ci sarà il sionismo.
A queste riflessioni va aggiunto quanto afferma Arkoun a proposito della necessità di una vera libertà di parola, non solo nel Nord ma anche nel Sud del mondo, e di una vera eguaglianza nei rapporti tra Nord e Sud del mondo. Si osserva che in questo senso si pronuncia anche la Carta dell’OCI laddove condanna la cattiva informazione mirata a creare conflitti (art. 15).
Di tale contesto deve tener conto un dibattito che mira alla elaborazione di principi comuni alle diverse culture; il rispetto di valori che per la cultura araboislamica sono inalienabili è un prerequisito fondamentale per un dialogo costruttivo.
Se lo sforzo di contestualizzare va fatto da parte nostra, dovrà anche essere fatto dall’altra parte, soprattutto per quanto riguarda l’adeguamento di alcuni punti, mi riferisco in particolare al delitto di apostasia e al diritto di matrimonio e successione per le donne.
Lo studioso tunisino Mu|ammad ¦albî, ad esempio ha saputo dare un’interpretazione innovativa del reato di apostasia, ricordando che non è prescritto nel Corano e rinviando a Dio la punizione del medesimo.
Non può esservi un cambiamento duraturo in una società se prima non vi è un cambiamento radicale nell’attitudine dell’uomo, afferma ¦albî e cita il Corano (XIII: 11) “Iddio non muta mai la Sua grazia ad un popolo, avanti ch’essi non mutino quel che hanno in cuore”.
I primi risultati di questa ricerca dimostrano che molti aspetti del linguaggio dei diritti umani sono ancora da chiarire, e che tale studio è molto utile al fine di una più profonda comprensione e per una più precisa definizione dei termini giuridici.
Il linguaggio non è solo uno strumento di comprensione, ma oggi più di prima è un delicato mezzo di comunicazione, il cui utilizzo può promuovere il dialogo e la costruzione di un comune visione dei diritti umani.

Fonte: http://www.cisg.it/seminari-incontri-di-primavera/xv-ip-2008-1/dispense-docenti/dispense-docenti-1

Sito web da visitare: http://www.cisg.it/

Autore del testo: Coordinamento e responsabilità scientifica: Prof. Giuseppe Cataldi Ordinario di Diritto internazionale presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Napoli “L’Orientale” Responsabile dell’Istituto di Studi Giuridici Internazionali del CNR – Sede di Napoli

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