Corso educatori

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Le informazioni di medicina e salute contenute nel sito sono di natura generale ed a scopo puramente divulgativo e per questo motivo non possono sostituire in alcun caso il consiglio di un medico (ovvero un soggetto abilitato legalmente alla professione).

 

 

 

 

Corso educatori

PERCHE’ GLI EDUCATORI NEI SERVIZI TERAPEUTICI?

Perché da un certo punto in poi è (parzialmente) cambiato il sistema di premesse culturali ed epistemologiche relative alla gestione del rapporto salute/malattia.

Quale sistema di premesse?

  • Approccio specialistico al rapporto salute/malattia

                    (dominio medico) 

  • Approccio umanistico al rapporto salute/malattia

(concezione globale dell'uomo rispetto a sé stesso e       all'ambiente)

  • Approccio antropologico culturale al rapporto salute/malattia

(ogni cultura dà definizioni e significati propri alla malattia e conseguentemente definisce i propri sistemi terapeutici. Non solo: ogni cultura costruisce attorno alla gestione del rapporto salute/malattia (il problema della morte) degli straordinari sistemi di potere che definiscono e legittimano saperi forti e saperi deboli, ruoli superiori e ruoli inferiori).

Cultura dell'emarginazione            Cultura dell'integrazione

 

                Manicomio                                         Tutela dei diritti

         Paradigma della                                     Paradigma della
Normalità                                                diversità

Modello medico-biologico                          Modello psico-sociale
(Cura come guarigione)                                    educativo
(Cura come crescita/cambiamento)

        Sistema liberista                                Sistema del Welfare
(carità sociale)                                    (sostegno sociale)

 

Etica del lavoro sociale

TUTELA DEI DIRITTI

RISPETTO

CAMBIAMENTO

Area del Bisogno

 

Primari/ di sopravvivenza

di sicurezza

di socialità

di appartenenza

di identità

di autostima

di autonomia

di conoscenza

di competenza

di espressione e comunicazione

di affetto


L'EDUCAZIONE

L'educazione è un atto spontaneo/naturale e intenzionale teso a consentire a un individuo di introiettare la cultura del proprio ambiente di vita ed essere così un membro sociale; insieme, di offrirgli la possibilità di poter realizzare sé stesso (aspirazioni, desideri, risorse) nei vincoli che la società e il rapporto con gli altri gli impone.
L'educazione è il ponte tra l'individuo e la società.

 

L’approccio intenzionalmente educativo

  • Disponibilità di ascolto/condivisione/empatia (riduzione della distanza esistenziale, psicologica e culturale, del soggetto in difficoltà con l’universo istituzionale, psicologico e culturale, dei Servizi)
  •  
  •  
  • Osservazione e interpretazione del soggetto e del suo ambiente
  •  
  •  
  • Ridefinizione delle relazioni e dei contesti normativi (intervento sul soggetto e sull’ambiente)
  •  

 

  • Offrire modelli di identificazione

 

                           L'EDUCATORE

  • Aiuta l'individuo a valorizzarsi, crescere e muoversi tra i vincoli sociali in maniera tale che possa trovare un benessere esistenziale
  • Ha un mandato etico nei confronti dell'individuo (tutela dei suoi diritti, rispetto della sua diversità, sviluppo delle sue potenzialità) e politico nei confronti delle istituzioni e della società (come dice Freire: "i cuori si trasformano nel medesimo tempo in cui si trasforma il mondo", per l'educatore "è necessario camminare, lavorare, esporsi")
  • I suoi atti educativi sono intenzionali e la sua epistemologia (il complesso del suo sapere/agire) è fondata sul rapporto dialettico teoria/prassi
  • La sua metodologia consiste in:         

                                             - La relazione
- Strumenti di azione
                                              - Il contesto
Gli strumenti di azione sono la prassi educativa e sono fondati sull'idea di un intervento "partecipante" alla vita dell'utente
- Il progetto
- Strumenti di controllo         - Il lavoro di gruppo
- La supervisione
- La formazione
Gli strumenti di controllo afferiscono alla teoria del lavoro educativo e hanno il compito di costituire e mantenere l'intenzionalità educativa.

"Partecipazione e controllo" sono termini dialettici da contrapporre a "coinvolgimento e distanza" che sono antinomici e che rappresentano il rischio di ogni relazione educativa o terapeutica.


IL PROGETTO EDUCATIVO

 

 

  • Analisi dei bisogni del soggetto
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  •  
  • Analisi dei limiti e delle risorse del soggetto
  •  
  •  
  • Analisi dei contesti e dei vincoli di appartenenza del soggetto

 

  • Individuazione di obiettivi (ove possibile sempre condivisi dal soggetto) realistici e valutabili
  •  
  •  
  • Definizione di una metodologia di intervento chiara, coerente, trasmissibile
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  •  
  • Costruzione di contesti/attività/relazioni funzionali al raggiungimento degli obiettivi (fare oltre parlare)

Riferimenti epistemologici del lavoro educativo come intervento sul contesto

Freire e la pedagogia istituzionale hanno "consonanze" che vale la pena rimarcare.
In primo luogo, il medesimo progetto di fare delle proprie discipline uno strumento di prassi, come attività che  propone una trasformazione dell'organizzazione sociale.
Freire e questi studiosi credono alla centralità del soggetto, alla sua coscienza, all'abbandono di ogni forma di autoritarismo nelle rispettive pratiche pedagogiche, didattiche, psicologiche; alla critica della realtà economica, sociale e istituzionale in funzione di una presa di coscienza individuale e collettiva dell'uomo per la sua e altrui realizzazione, contro ogni  servitù e alienazione; alla comunicazione (e al dialogo) come strumento imprescindibile attraverso il quale chiarire i significati, i conflitti, le ragioni delle relazioni umane.
A un livello altrettanto ideologico, ma anche metodologico, gli intellettuali della pedagogia istituzionale pensano all'analisi istituzionale come base per comprendere l'ideologia sommersa, latente delle istituzioni e insieme l'intervento gruppale come strumento di creatività e di rottura degli assetti burocratizzati dall'istituzione.
La pedagogia e psicoterapia istituzionale credono che le istituzioni possano svolgere a determinate condizioni  le funzioni a cui sono preposte e anzi, al di fuori di esse difficilmente possono darsi relazioni che si qualifichino come educative e terapeutiche ("l'incontro con l'altro, dice A. Canevaro, è una situazione istituzionale" ).
Freire e questi psicologi, psichiatri, insegnanti, educatori, come tanti altri sono insieme convinti che non si  dia terapia né educazione fuori dai contesti nei quali le relazioni educative e terapeutiche si agiscono. Contesti sociali e istituzionali, gruppali e comunicativi, che sono nelle premesse, negli sviluppi, negli esiti di tali relazioni. Pensare di produrre processi di cambiamento isolando le relazioni dai contesti è un errore non solo epistemologico, ma etico e politico: gli uomini cambiano nel medesimo tempo in cui cambia il mondo attorno a loro, quindi l'azione educativa si riferisce sempre ad un unico processo che è al medesimo tempo etico nei confronti del soggetto e politico nei confronti delle istituzioni e della comunità.
Entrare in una classe ed accettare un setting di apprendimento (spazi tempi ruoli e compito) ottocentesco (lezione frontale, atteggiamento autoritario dell'insegnante, completa "centratura" su contenuti disciplinari, nessuna consapevolezza dei processi affettivi nell'apprendimento, ignorare le differenze culturali e linguistiche tra gli allievi e tra gli allievi e il docente e via discorrendo) significa consentire, partecipare e legittimare inconsapevolmente o meno un sistema ideologico e un progetto politico preciso di selezione sociale.
La premessa ideologica e politica vale per ogni istituzione, si tratti dell'ospedale, dell'istituto, del centro diurno: il sistema di regole implicite ed esplicite e di relazioni di ruolo che dentro vi si svolgono rimandano sempre a un sistema ideologico e a un progetto politico di mantenimento/persistenza o cambiamento rispetto alla realtà sociale nel suo complesso. Va da sé che la dialettica sociale tra persistenza e cambiamento è sempre in moto e, come a livello personale, essa è necessaria e immanente rispetto a entrambi i termini.
La consapevolezza  di ogni  professionista che si occupi di relazioni umane di essere un attore sociale che partecipa alla storia e quindi con le sue idee e la sua prassi può contribuire a legittimare o de-legittimare, consolidare o modificare lo stato di cose, la cultura, le istituzioni, nelle quali è inserito, credo che sia un dovere etico della sua professionalità. Mettendo nel conto che qualsiasi presa di posizione assuma rispetto ai contesti nei quali opera, egli è soggetto alla relatività e al condizionamento storico e culturale delle proprie idee, dei propri atteggiamenti e delle proprie pratiche. E' un soggetto quindi che può - anzi deve - sbagliare per poter rivisitare, adattare, modificare le sue idee e la sua prassi  rispetto alla realtà in continuo movimento, per non fare dei propri ideali un mito onnipotente e narcisista che finisce per porsi fuori dalla realtà, per poter elaborare i processi inconsci che producono la discrepanza tra il dire e il fare, per poter capire, in altre parole, che la realtà è così complessa e dinamica che per affrontarla ci vuole coraggio e umiltà, il coraggio di prendere posizione e l'umiltà di riconoscere la propria limitatezza e i propri errori.
Non si tratta di fare una “pedagogia dell'errore”: si tratta piuttosto di fare riferimento alla profonda natura etica delle scienze umane e della pedagogia in particolare. Non si dà educazione né politica fuori da una riflessione morale che sola può porre momentaneamente fuori dalla storia l'azione educativa per approfondire alcuni "universali" sociali quali la responsabilità e la libertà, la dignità e il rispetto. Solo la loro traduzione nella contingente e particolare realtà storica, mantenendone inalterati il senso e i significati profondi pur nella relatività culturale e nella fallace limitatezza e consapevolezza dell'azione umana, può dare il nome a una pedagogia che si definisca tale.


Il compito dell’educatore
Davide Rambaldi

Il ruolo dell’educatore nelle relazioni e nelle istituzioni di cura e aiuto si gioca su diversi piani.  Diciamo che, da qualunque punto lo si osservi, il piano relazionale tra educatore e utente è sempre intrecciato con quello istituzionale. Si può affermare che il compito - manifesto - di cura e aiuto che l’educatore svolge nei confronti del soggetto ha sempre a che fare con aspetti comunitari, istituzionali e gruppali che lo definiscono, lo aiutano, lo minacciano nel suo svolgimento. Va da sè che il compito educativo che l’educatore svolge è potentemente determinato dagli aspetti individuali - personali, epistemologici - che questi porta con sè e agisce nella relazione. Ma credo che qui ci interessi il rapporto con l’istituzione nella quale l’educatore lavora, e quanto questo rapporto strutturi teorie e pratiche diversificate rispetto ad altre istituzioni pur nel rispetto di una “deontologia” professionale che necessariamente le attraversa, e quanto infine l’istituzione, per la particolare struttura e organizzazione che la caratterizza, può condizionare il compito che l’educatore è chiamato a svolgere.

Quando parliamo di aspetti comunitari, intendiamo l’economia, la cultura e la politica della comunità nella quale l’educatore svolge le sue funzioni e che rappresentano gli aspetti esterni dell’istituzione. Le caratteristiche socio-culturali di un territorio governano le diverse tipologie del problema da affrontare, dell’utenza, delle istituzioni nelle quali e con le quali lavora e le opportunità nelle quali il compito educativo viene svolto. Altrettanto, le scelte e le direzioni politiche ne facilitano o ne ostacolano il cammino, definendo le istituzioni nelle quali si colloca. La differenza anche solo tra città e campagna, e ancor più tra realtà metropolitana e provincia, sottolineano una differenza di intervento che “tara” il lavoro dei servizi ad obiettivi e strumenti adeguati alle possibilità e allo sviluppo culturale e politico di quella data comunità.
Vi è sempre da considerare che gli aspetti culturali di una comunità non sono univoci ma sempre sfaccettati e complessi, in ragione della storia, delle contaminazioni sociali, dei gruppi generazionali, delle politiche che ne costituiscono il tessuto sociale. L’analisi sociologica e antropologica del territorio nel quale le istituzioni di cura e aiuto sono inserite non deve mai essere improntata dalla generalizzazione né tantomeno dalla categorizzazione. Per esempio, se è vero che in provincia la sensibilità culturale e le politiche nei confronti della integrazione sociale degli handicappati sembrano inferiori che in ambito cittadino, si tratta in primo luogo di distinguere tra comune e comune e quindi di osservare e analizzare bene come le famiglie e le comunità gestiscono il problema dell’handicap: potremmo trovare antiche forme di “presa in carico “ comunitarie di soggetti handicappati ben più avanzate dei faticosi e mai realizzati “progetti di rete” cittadini.
Per concretizzare in un esempio gli aspetti comunitari del lavoro dei servizi che apre alla nostra specifica riflessione sul lavoro educativo nei Servizi per le Tossicodipendenze, si pensi che in un Ser.T della provincia di Bologna il 70% degli utenti tossicodipendenti da eroina lavora; sono persone che vivono ancora in famiglia pur essendo mediamente trentenni e hanno problemi minori (il ritiro della patente) con la giustizia. A confronto, la realtà cittadina bolognese è vissuta dai soggetti tossicodipendenti da eroina come un luogo, nella stragrande maggioranza, di disgregazione sociale: solitudine, abbandono, disoccupazione, degrado esistenziale, delinquenza. Là dove a soli 20 Km da Bologna l’eroina non mette in discussione la potente etica del lavoro emiliana e addirittura rinforza i vincoli familiari pur nella sofferenza, in città contribuisce alla disgregazione di tali vincoli e alimenta le sacche di devianza e degrado sociale.
Va da sè che l’educatore che lavora in quel Ser.T. provinciale o cittadino si trova ad aver a che fare generalmente con relazioni e obiettivi del proprio intervento differenziati: da una parte investire sullo svincolo familiare, affrontando il tema delle responsabilità in termini di autonomia personale; dall’altra concentrarsi sulla ricostruzione dei vincoli familiari e non che permettano al soggetto di ricollocarsi nella rete della cittadinanza e affrontare il tema della responsabilità in termini di rieducazione alla convivenza civile.

Gli aspetti istituzionali del compito educativo riguardano i “servizi” nei quali l’educatore gioca il suo ruolo. In maniera molto schematica possiamo dire che sono tre gli aspetti istituzionali che definiscono, influenzano ed orientano il compito a cui ogni operatore dell’istituzione è preposto: il mandato, il tipo di problema da affrontare, l’organizzazione.
Questi  tre aspetti istituzionali rappresentano anche i nodi problematici, la medaglia “latente” del compito . Il mandato può essere chiaro o ambiguo; il tipo di problema così complesso da aver tralasciato o non affrontato alcuni dei suoi aspetti più importanti e al medesimo tempo destabilizzanti; l’organizzazione può non essere adeguata al problema da affrontare, o, al peggio, più concentrata al suo mantenimento che allo svolgimento dei propri compiti. Esemplare in questo senso è stata l’istituzione manicomiale: un mandato esplicito di cura di soggetti con problemi psichici ed uno implicito di esclusione sociale; un problema, la follia, così complesso ed evocativo di minacciosi spettri culturali ed esistenziali - la destabilizzazione dell’ordine, il rapporto con la diversità - da averne spostato la cura in pena; un’organizzazione più aderente al mandato implicito che non a quello esplicito e che nella sua struttura ha prodotto essa stessa follia, confermandosi e autoriproducendosi nel tempo.

Nella dinamica sociale tra comunità, istituzioni e individui, il gruppo, o meglio, i gruppi giocano un ruolo fondamentale.
“Mediazione tra struttura individuale e sociale” i gruppi sono protagonisti, nella prospettiva weberiana , del funzionamento sociale. Per riprendere il nostro schema, a livello comunitario costituiscono la dialettica tra maggioranze e minoranze, le dominanze culturali, le egemonie economiche, le direzioni politiche. Il mandato istituzionale, nella sua chiarezza e ambiguità, è sempre espressione di volontà culturali e politiche di gruppi di potere della società. Sempre seguendo Weber, anche l’organizzazione istituzionale è espressione politica, culturale ed economica della società, come sottolinea l’analisi delle organizzazioni personalistiche e burocratiche della storia.
Al proprio interno, le istituzioni sono costituite di gruppi che interagiscono tra di loro e insieme di individui che si muovono al loro interno in ognuno di essi. Questi movimenti inter e intragruppali sono centrali per lo svolgimento dei compiti a cui le istituzioni sono preposte, e rappresentano gli ulteriori aspetti che l’operatore, in questo caso l’educatore, si trova a dover affrontare nello svolgimento delle sue funzioni.
Le relazioni di ruolo e l’elaborazione e la gestione dei conflitti sono gli elementi e insieme i nodi problematici delle dinamiche gruppali. Essi rappresentano gli aspetti interni all’istituzione che da una parte la esprimono rivelandone i legami con quelli comunitari, dall’altra condizionano il compito segnandone i tratti. Le relazioni di ruolo hanno una struttura gerarchica? Le leadership sono funzionali al gruppo? I conflitti sono nascosti o affrontati? Il gruppo compensa o meno le ansie di impotenza o onnipotenza dei singoli? Tutti questi elementi rivelano le problematiche istituzionali e influenzano il compito gruppale del servizio e individuale degli operatori.

 

Scheda
Il compito dell’educatore
Culturali
Aspetti comunitari                  Economico-sociali     
Politici

Mandato
Compito manifesto/latente                 Aspetti istituzionali                Tipo di problema da affrontare
Organizzazione (setting)

                                                           Aspetti gruppali                      Relazioni di ruolo
Conflitti

                                                                                                          Epistemologici
Aspetti individuali                  Personali
Relazionali

 


Ruolo e potere sociale degli educatori

Davide Rambaldi

 

Affrontare il tema del rapporto tra la professione dell’educatore e la sua retribuzione significa mettere in relazione tre concetti tra loro collegati. Non si può parlare di retribuzione infatti senza parlare di ruolo e potere sociale. Ovvero: il livello retributivo di una professione è legato al ruolo e al potere sociale che quella professione detiene. I medici hanno redditi medio alti perchè la loro professione ha un ruolo e un potere sociale alto. Specularmente, gli insegnanti guadagnano meno perchè ne hanno uno inferiore. Certo non sono così schematici all’interno della società i termini del discorso, ma che siano innegabili è un fatto.
Seguendo la logica delle tesi sopra, gli educatori hanno redditi medio bassi, anzi, bassi, perchè hanno un basso ruolo e potere sociale. Vediamo di analizzarne i motivi.
In primo luogo ha scarso ruolo e potere l’educazione nella nostra società. A fronte di una rivoluzione economica, sociale e culturale che ha cambiato freneticamente l’uomo occidentale negli ultimi due secoli, l’educazione, istituzionalizzata nelle scuole nel bel mezzo di questa rivoluzione, è rimasta ancorata a tradizioni secolari, resistente ai cambiamenti sociali e culturali, faticando non poco ad adeguarsi a tali mutate e mutevoli condizioni e, come storia di pensiero, a costruire ed affermare una propria autonomia e dignità epistemologica.
Nella contemporaneità poi, l’educazione è stata progressivamente sfrattata dalle scuole, il contesto sociale in cui si identificava. Chi ci crede più infatti che a scuola si educa? A scuola ci si istruisce, ci si specializza, e non è più vero neanche questo. L’ambiguo termine di “educazione” si è frammentato nel sociale, dalla famiglia alla televisione, nel cosiddetto policentrismo delle agenzie formative.
In una società sempre più specializzata, nel lavoro, nello studio e negli ambiti istituzionali, l’educazione appare come un concetto generale, sfuggente, trasversale perchè istituzionalmente poco collocabile, perso nel caos della molteplicità degli stimoli di socializzazione, aspirazione dell’uomo più che pratica sociale.
Ma, visto che la storia della società, come insegna Weber, è storia di conflitti politici, culturali, economici, e da questi conflitti nascono nuovi assetti sociali, e anche nuovi ceti, nuove professioni, ecco che spunta, quando l’educazione pare avere un ruolo sempre più marginale e sparire come pratica sociale, la figura dell’educatore.
Essa nasce dall’affermazione di una cultura del diritto di cittadinanza di ognuno nella società, prodotto profondo di una strada lunga di democrazia e sostenuta da una delle vie alla democrazia che è il Welfare state.
Dalla metà degli anni ‘70 in poi molti sono diventati educatori. Come? su campo; dai bisogni emersi dai nuovi assetti sociali: integrazione degli handicappati e dei soggetti con problemi psichici più o meno liberati dai manicomi, recupero dei tossicodipendenti e dei cosiddetti minori a rischio; tutto l’ambito insomma della riabilitazione e recupero di soggetti diversi o devianti per secoli emarginati e repressi.
Gli educatori, spesso con poca o nessuna preparazione professionale, hanno prodotto esperienze che si sono tradotte in teoria, acquisendo sempre più coscienza della necessità non solo di un adeguato sostegno epistemologico ma anche di un più adeguato riconoscimento sociale.
Ma la società, nonostante abbia determinato il bisogno e abbia posto le premesse culturali ed economiche per la nascita e lo sviluppo della figura dell’educatore, non si è ribaltata, rimane profondamente attaccata ai modelli culturali, politici ed economici di cui si accennava sopra: debolezza epistemologica, ideologica, sociale dell’educazione, resistenza della cultura dell’emarginazione, potenza dell’ideologia liberista.
Ma in concreto, contro cosa cozzano gli educatori per non riuscire ad avere quel riconoscimento sociale cui ambiscono?
In primo luogo la “dominanza culturale” dei paradigmi medico scientifici, legati ai concetti di “organismo funzionale”, “patologia”, “normalità funzionale”, “cura”, “terapia” e via discorrendo. Laddove la medicina considera l’uomo non nella sua specificità di individuo ma come indistinto portatore di una funzionalità organica, alla quale afferiscono dicotomicamente normalità e patologia, essa interviene su quest’ultima, quasi alienata dall’individuo portatore, nei termini di cura e terapia. Dove la patologia è cronica vi è inguaribilità e la cura si traduce in assistenza.
Questo paradigma, fondato dal positivismo ottocentesco, è ancora oggi cultura e ideologia profonda della società.
L’educazione però ha altri modelli: pensa all’individuo come soggetto globale e il perno attorno al quale esso deve ruotare è il concetto di “cambiamento”. Tutti possono, devono avere la possibilità di cambiare; crescere; migliorare. In questo senso i termini di inguaribilità, normalità, patologia assumono un altro significato. Sono un limite, una base, un punto di partenza.
Nonostante ne sia stata fatta di strada, è ancora da affermare nella cultura comune per es. l’idea che l’handicappato possa non guarire ma cambiare, acquisire socialità, autonomie, competenze e quindi dignità. Ma certamente la problematica dell’handicap è ancora più complessa, perchè gli educatori che se ne occupano devono fare i conti con altri retaggi culturali, come quello della carità, che non solo è duro a morire, ma pericolosamente si riaffaccia alla porta delle scelte politiche nella crisi del Welfare.
La carità, tipica forma culturale di sensibilità e sostegno sociale delle società “statiche”, fondate su profonde disuguaglianze che non devono essere messe in discussione, è stata uno dei luoghi dell’educazione. Non fondata sulla professionalità ma sulla vocazione, ha finito per identificarsi con essa.
Inguaribilità, carità, vocazione, normalità/patologia, emarginazione sono modelli culturali che vanno assieme in una più generale dimensione storica e sociale, quella dalla quale proveniamo. Per contro: cambiamento, differenza, professionalità educativa, integrazione sono modelli che si riferiscono ad una differente prospettiva sociale e politica, di cui l’educatore si fa interprete e portavoce.
Ma le contraddizioni non si esauriscono qui. Dove cerca di affermare l’educatore tali modelli? Nel contesto istituzionale del settore “socio sanitario”, un ambito ben preciso i cui parametri dominanti sono quelli della cultura medica: cura, terapia, recupero.
Il tema del recupero è intimamente legato a quello della produttività, cioè un altro dei modelli culturali profondi di questa società, contro cui l’educatore è in conflitto: l’educazione e la riabilitazione degli handicappati e delle persone con problemi psichici solo in rari casi produce una integrazione che coincide con il recupero alla produttività; conseguentemente i servizi per handicappati e di psichiatria sono i più attaccati dal punto di vista politico e sociale, quelli contro cui si rivolge l’attacco liberista, con il tentativo di ritradurre la riabilitazione in assistenza, la professionalità in volontariato, l’integrazione in emarginazione. Forse un po’ più privilegiati sono i Servizi per le tossicodipendenze, probabilmente proprio per l’intima speranza di recupero produttivo di adulti svantaggiati; e se l’istituzione è privilegiata, con lei anche, forse, la figura dell’educatore.
Un altro ostacolo su cui ricade la debolezza del ruolo sociale dell’educatore è la già sottolineata debolezza epistemologica della sua pratica sociale: è ancora lontano nella cultura comune il riconoscimento della pratica educativa come “scientifica”, cioè fondata su di un’intenzionalità cosciente, sostenuta da una teoria e metodologia specifica e autonoma rispetto ad altre discipline, liberata definitivamente dal retaggio idealistico della vocazione e del “dono” divino. Là dove la specializzazione del lavoro ha raggiunto livelli elevatissimi, per cui ogni professione ha un ambito proprio e riconosciuto, l’educatore fatica a trovare e proporre una propria specificità e un proprio spazio sociale. La rivendicazione di un sapere “sintesi” di molteplici discipline umanistiche tradotto in una prassi relazionale (sapere “globale” per un approccio più globale possibile all’individuo) stenta ad affermarsi in una cultura enfaticamente specialistica, in cui tra l’altro le problematiche relazionali hanno trovato successo nell’ambito delle discipline psicologiche mentre da un punto di vista educativo (teorico e prassico) rimangono nell’immaginario collettivo più oscure e confuse, sospettate di essere affrontate in termini astratti o tecnicistici. Quante volte infatti le istituzioni stesse gestrici dei servizi, per non parlare delle famiglie, sottovalutano o addirittura ignorano la progettualità educativa, come se la relazione potesse bastare ed esaurire il proprio ruolo professionale.
C’è infine da sottolineare che a questo basso riconoscimento sociale contribuiscono gli educatori stessi che, sparsi in una miriade di organizzazioni ed enti di vario tipo e natura, non rivendicano a sufficienza la propria professionalità a livello culturale, istituzionale e politico.
Troppo spesso molti educatori si chiudono nei propri servizi resistenti ai cambiamenti e alla progettualità, finendo per confermare l’immagine -minore- che di loro hanno i mandanti istituzionali e le famiglie. Quanti educatori si preoccupano di costruire progetti sempre più adeguati, che diano senso, orientamento e traduzione al loro fare? Quanti sono in grado di produrli? Quanti si preoccupano di curare la propria formazione ed esigerla dai propri enti?
E ancora, abbandonati alla complessità delle relazioni con gli utenti, senza necessari confronti e sostegni con altre figure professionali, gli educatori scivolano nell’impotenza o nell’onnipotenza, rinunciando a una battaglia realistica per l’affermazione del proprio ruolo.
Da un punto di vista politico infine, il paradosso è che non si può rivendicare la propria professionalità quando si accettano retribuzioni e condizioni di lavoro scandalose, confermando un sistema politico ed economico che gioca al ribasso, teso a risparmiare a scapito della qualità dei servizi.
In mezzo a due modelli politici, culturali ed economici antagonisti, l’educatore, che appartiene senza dubbio ad uno di questi, deve perseguire il suo compito con sempre maggiore coscienza della sua professionalità. Solo così potrà sperare, tra l’altro, di ricevere un compenso più adeguato alla sua preparazione e alla complessità delle problematiche e delle relazioni che si trova ad affrontare.


Processi educativi e cambiamento

 

Ciò che è anteriore a ogni domanda,
non è a sua volta una domanda (…) ma Desiderio
Emmanuel Levinas

La ragione non è mai efficace come la passione. Sentite i filosofi.
Bisogna fare che l'uomo si muova per la ragione come, anzi, assai di più
che per la passione, anzi si muova per la sola ragione e dovere.
Bubbole. (…)Non bisogna estinguer la passione con la ragione,
 ma convertir la ragione in passione.
Giacomo Leopardi

1. Un po' di chiarezza sul compito

Si può dire, da sempre, che l'educazione si occupa della crescita degli individui. Possiamo definire infatti l'educazione come un atto spontaneo/naturale e intenzionale teso a consentire a un individuo di introiettare la cultura del proprio ambiente di vita ed essere così un membro sociale e insieme, di poter realizzare sé stesso (aspirazioni, desideri, risorse) nei vincoli che la società e il rapporto con gli altri gli impone. L'educazione è sempre il ponte tra l'individuo e la società. Ha una valenza in primo luogo normativa ma non meno di sviluppo e crescita delle potenzialità dell'individuo.
Giacchè faccio l'educatore, dunque, non guarisco nessuno. Lo ha detto Don Ciotti a un seminario qualche anno fa ed io mi sono riconosciuto. Anche se di fatto ho incontrato persone ammalate (pazienti psichiatrici, tossicodipendenti) non è un mio problema guarirli. Il mio concetto di cura non ha a che fare con il concetto di guarigione, ha a che fare con quello di maternità, di accompagnamento e partecipazione ad una possibile "crescita" di chi mi occupo. Perché la questione per noi sono sempre stati i bisogni e il cambiamento e non altro, partendo dal principio etico e civile della tutela dei diritti. Il nostro compito è: favorire le condizioni esistenziali e sociali di un individuo in salute o migliorarle per chi è in difficoltà.

Si aprono scene della mia storia professionale.

Rivedo un video, in cui sono in cucina, nel Centro Diurno, con Paolo e preparo il pesto genovese. Facciamo da mangiare per chi abita il Centro, educatori e utenti. Paolo ha una insufficienza mentale molto grave ed è gravemente epilettico. E' stato in istituto dagli 8 ai 18 anni ed è uscito grazie alla Legge 180. Paolo conta fino a due e conterà fino a due fino all'ultimo dei suoi giorni credo, perché il tre non solo è troppo difficile ma anche non è importante. Paolo è tendenzialmente passivo, gli piace andare in macchina e non ha molti altri interessi; quando è in piedi bisogna stargli sempre accanto per frenare le cadute. Comunque sono lì con lui a fare il pesto genovese. O meglio: io faccio il pesto e lui guarda e mi parla. Allora lo stimolo a partecipare, bofonchia e poi si alza e mette le noci e i pinoli nella centrifuga, gli altri ingredienti, gira la manopola e poi ancora rovescia il pesto nel contenitore e si impegna nel fare un lavoro pulito in cui non rimangano resti nella centrifuga; quindi lo rivedo apparecchiare, un po' confusamente e finalmente mettersi a capotavola ed aspettare con gli altri il pranzo. Mentre mangia qualcuno apprezza il pasto e lui orgogliosamente afferma che lo ha fatto con me; ed è contento, perché partecipa ad una comunità di persone ed è stato protagonista anche solo per una piccola parte e vede il frutto del suo lavoro e la sua autostima ne è accresciuta così come il suo benessere, tanto che il suo umore, che i neurologi associano all'epilessia, e l'aggressività passiva, sono migliorate, molto migliorate e sì che Paolo ne ha fatti ammattire di operatori con le sue crisi di umore e la sua testardaggine.
Appartenenza autostima socialità: Paolo stava meglio, molto meglio, la sua qualità della vita era migliore e anche la sua salute, così come l'umore e lo stato dei rapporti in famiglia e con gli altri, anche se forse non sarebbe mai guarito dall'epilessia e certamente non avrebbe mai contato fino a tre.

L'educatore non si preoccupa solo di rispondere a bisogni più o meno espressi di cui legge l'emergenza; ogni percorso di crescita presuppone l'acquisizione di conoscenze, competenze, esperienze: l'educatore si occupa di apprendimento. "La salute mentale - dice Pichon Riviere - consiste in questo processo in cui si realizza un apprendimento della realtà, dove si affrontano, si elaborano e trovano soluzione i conflitti. Mentre si compie questo itinerario la rete di comunicazione è costantemente riadattata e solo così è possibile elaborare un pensiero capace di dialogo con l'altro e di affrontare il cambiamento" .
Rispondere ai bisogni fondamentali dell'individuo e collaborare alla "costruzione della (sua) esperienza" credo siano parti integranti dell'intervento educativo rivolto ad un unico processo evolutivo di cui è protagonista il soggetto e che dovrebbero contribuire alla sua salute, fisica, psichica e sociale.
Per certi versi questi due aspetti rappresentano il versante di cura, in senso psicosociale, dell'intervento educativo. L'altro versante è quello culturale e normativo a cui il primo è ambiguamente intrecciato. Ambiguamente, perché a differenza dell'intervento psicoterapeutico l'intervento educativo mette in campo apparati culturali, normativi e istituzionali, cioè vincoli, così ampi, inconsci e difficilmente controllabili che gli obiettivi ideali della "crescita" rischiano di essere una impalcatura fasulla dietro la quale opera precisamente ed esclusivamente la costruzione sociale dell'individuo, la cui salute mentale e qualità della vita è affidata al caso, ovvero alle sue premesse personali, familiari, sociali, ambientali. Detta come va detta gli interventi educativi rischiano l'inutilità se non affrontano una seria riflessione su quale cultura offrono ai loro educandi: che tipo di vincoli, quali modalità di relazione, quali impianti normativi, quali istituzioni funzionali ai suoi processi evolutivi, orientati davvero a costruire l'esperienza del soggetto, costruire la sua soggettività e diventare, come dice Spinoza, "tutto ciò che puoi diventare elaborando le tue passioni e la tua ragione" .
Le potenzialità della relazione educativa risiedono tutte nella riflessione psicoantropologica: l'educatore può essere riproduttore o produttore di cultura, di istituzioni, di vincoli funzionali o meno al destino del soggetto di cui si occupa.
Per cui, sancita la finalità educativa nelle istituzioni formative e terapeutiche, l'intervento educativo consiste in tre azioni tra loro interconnesse: cura, apprendimento, accompagnamento.
La cura in senso educativo, come abbiamo accennato, si riferisce alla risposta ad alcuni bisogni fondamentali della natura umana: socialità, autostima, autonomia, appartenenza, sicurezza, espressione, comunicazione, affetto. La dimensione etica e civile della tutela dei diritti (di cittadinanza, di dignità personale) passa attraverso al risposta a questi bisogni che tutti pongono e che a maggior ragione sono e devono essere rivendicati da chi è più debole e a maggior rischio di emarginazione nel corpo sociale.
L'apprendimento si riferisce alla trasmissione di norme, stili, valori, conoscenze, comportamenti, rappresentazioni sociali e culturali che aiutino il soggetto a muoversi nel mondo con sufficiente autonomia, che rappresentino vincoli non troppo rigidi né troppo fragili per sostenere la sua identità e le sue scelte, che gli consentano il governo migliore possibile della sua vita.
L'accompagnamento infine si riferisce all'accoglienza del soggetto per quello che è, a quel sostegno e a quella presenza fondamentale nelle relazioni umane che viene offerto oltre i patti e i compromessi, che non giudica né chiede per forza qualcosa in cambio, che non aspira a convincere né portare alcuno da qualche parte, che non abbandona né lascia soli mai. Mantenendo integra la differenza tra le reciproche identità, senza aderire all'altro confermandolo nel suo destino: accompagnare significa accogliere facendo della differenza la risorsa per poter aiutare.
L'approccio educativo integra questi tre atti in un unico processo, a volte con diversi "pesi" su ognuno a seconda delle necessità del soggetto.

Nuova scena di lavoro.

Classe III di una scuola media della provincia di Bologna. Laboratorio di educazione alla differenza (20 ore) all'interno della normale programmazione didattica. Il mio ruolo è di psicopedagogista e l'intervento ha obiettivi formativi per gli insegnanti ed educativi col gruppo-classe. Solite situazioni conflittuali: tra i pari, tra i pari e gli insegnanti; la classe è composta da allievi di 13 anni, un ragazzino è certificato per gravi disturbi del comportamento, alcuni altri sembrano vivere in un latente abbandono famigliare, una ragazzina marocchina ha  qualche difficoltà di integrazione. Metto i ragazzi in relazione attraverso giochi di gruppo, interviste reciproche, simulate, discussioni in cerchio. Lavoro sull'esplicitazione dei conflitti, la loro elaborazione, alla presenza dell'insegnante. Il gruppo dopo qualche incontro si sblocca, mi desidera e si desiderano. Chiedo loro di fare un "teatrino delle competenze": la prossima volta ognuno porti qualcosa, qualsiasi cosa sappia fare bene e lo dimostri agli altri. I ragazzi si preparano e all'incontro portano di tutto: da chi si esibisce al canto a chi fa giochi di prestigio. Hanno capito il senso: chiunque è sul palco è valorizzato, applaudito, ammirato, guardato con occhi diversi dagli stereotipi di ruolo che si strutturano abitualmente. Il ragazzino "disturbato" si rivela un abile playstarter. La ragazza marocchina prende coraggio e decide di fare qualcosa che in un primo momento aveva scartato: ha portato una cassetta con la musica del suo paese e la balla davanti a tutti; la classe, prima scettica poi affascinata, sale sul palco e tutti ballano con le movenze sensuali delle danze arabe; io e l'insegnante, commossi, guardiamo la scena in cui tutti danzano e i più timidi sono invitati, trascinati e c'è un sapore dionisiaco che rapisce tutti.

Favorire la relazione, rendere attivi e protagonisti i soggetti nelle loro esperienze  e nei loro apprendimenti, rompere gli stereotipi che bloccano i processi evolutivi: sono i temi di gran parte della pedagogia novecentesca, in primo luogo Freire. Se l'obiettivo è collaborare o aiutare un soggetto nella sua costruzione di sé, "in salute" nella misura in cui, per dirla con Piaget, sappia adattarsi attivamente alla realtà, i fondamenti di qualsiasi intervento educativo oscillano tra costruire le motivazioni e demolire le resistenze al cambiamento.


2. Motivazione e resistenza nell'intervento educativo

"Nella fantasia motivazionale troviamo, come nell'allucinazione, una scala di motivi, necessità, aspirazioni che sottostanno al processo di apprendimento, alla comunicazione e alle operazioni che cercano di ottenere la gratificazione in relazione a oggetti determinati. (…) L'apprendimento e la comunicazione, aspetti strumentali del conseguimento dell'oggetto, possiedono una sub-struttura motivazionale" .
Una delle specificità profonde che differiscono l'intervento educativo da quello terapeutico o psicoterapeutico si riferisce alla questione della motivazione. Un malato ha desiderio di curarsi, anche se sappiamo innamorato spesse volte della sua malattia e quindi poi resistente alla cura; tuttavia una parte di sé lo spinge a un intervento o a una relazione terapeutica. Non è affatto scontato che ciò accada per gli interventi educativi, giacchè tutti sanno, appunto, che un educatore non guarisce nessuno; non è scontato il desiderio di apprendere ancor prima della resistenza all'apprendimento: penso ad esempio ai corsi di formazione per adulti, "obbligatori", a cui molte categorie professionali sono forzatamente costrette da motivi istituzionali; penso ai bambini e ai ragazzi della scuole: è forse scontato il desiderio di conoscenza? Penso agli handicappati profondamente vincolati alle loro dipendenze famigliari e "inseriti" nei centri diurni o residenziali; penso agli anziani nelle case di riposo, ai tossicodipendenti che identificano il problema con il sintomo per cui il loro solo desiderio è quello di eliminare l'astinenza, penso ai ragazzini devianti e alla loro vita di strada e agli interventi di prevenzione, non certo richiesti da loro. In una società "terapeutica" come quella occidentale, in cui la malattia è funzionale al consumo e, come diceva Pasolini,, nel "penitenziario del consumismo" tutto ruota attorno a desideri effimeri oppure trasformati in bisogni, gli educatori non sono richiesti. E' una questione esclusivamente sociale e culturale: la società si preoccupa si soggetti che presume bisognosi senza che questi siano o possano essere interpellati; gli educatori sono "mandati" dalle istituzioni che hanno letto e interpretato bisogni il più delle volte non riconosciuti dai soggetti-oggetti dell'intervento educativo.
Se la motivazione non è data si tratta di fondarla. Sono arrivato alla conclusione che uno dei compiti principali dell'educatore sia proprio questo: costruire motivazioni e desideri che aiutino il soggetto ad affrontare la vita. Non è un caso ad esempio che in alcuni Ser.T. proprio all'educatore è affidato il compito dell'accoglienza del tossicodipendente. Alcuni di questi servizi hanno pensato che nella specificità del ruolo educativo vi sia al tempo una funzione motivazionale e una funzione di mediazione della distanza culturale ed esistenziale tra il mondo del soggetto e l'istituzione che lo accoglie e conseguentemente una metodologia coerente a tale compito.
L'accenno di Pichon alla motivazione apre così il discorso al desiderio. Se la motivazione ha a che fare con le ragioni (i motivi, i significati, consci o meno) che spingono l'individuo all'azione, nondimeno ha a che fare con il desiderio, una pulsione al piacere, alla gratificazione che "motiva" l'individuo a muoversi nella realtà. Emerge da questa considerazione come ragione e desiderio non possano considerarsi mai antinomici ma assolutamente complementari, come sostiene Spinoza, ma di questo forse parleremo in seguito.
Ciò che mi interessa ora è il ruolo del desiderio nella relazione educativa: a monte come motivazione dell'educatore alla relazione, a valle come motore di crescita dell'educando.
E' difficile non partire da sé quando si parla di desiderio. Mi sono sempre chiesto cosa trovo di affascinante e attraente nei soggetti con disabilità mentale o negli psicotici o nei tossicodipendenti e perchè desidero avere relazione con loro. Sono tuttora senza risposta. Le risposte relative ai miei desideri e bisogni più o meno inconsci di identificazione, di protezione, di potere, di reattività alle mie pulsioni regressive, trasgressive, psicotiche mi lasciano sospeso. E’ come se queste persone esprimessero una parte estranea di me che sento profondamente mia, come se mi ricongiungessero con ciò che non sono, non posso nè voglio essere. Dice Canevaro: “Il rapporto interpersonale e la comunicazione (...) consentono di scoprire che il diverso contiene elementi simili all'educatore; e che l'educatore a sua volta contiene elementi propri del "diverso".
Non arriverò mai alla fine di un discorso sulle mie motivazioni professionali e sul mio desiderio di accompagnarmi a soggetti che deviano dalla normalità. So però per certo che questo mestiere mi dà piacere, che il piacere è stato l'origine della scelta e del suo mantenimento, che il piacere è la motivazione conscia prima e ultima del perché lo faccio. Se non vi trovassi piacere, se ne perdessi piacere, lo abbandonerei: non vi potrebbe essere nulla che mi tratterrebbe. Tutte le motivazioni che potrei portare sono in fondo molto corrette, ma probabilmente uno ha motivazioni inconscie nelle quali trova gratificazioni che varcano di molto questi apparentemente "buoni" motivi.
Comunque sia, “le passioni tingono il mondo di vivaci colori soggettivi, accompagnano il dipanarsi degli eventi, scuotono l’esperienza dall’inerzia e dalla monotonia, rendono sapida l’esistenza nonostante i disagi e i dolori. Varrebbe la pena di vivere se non provassimo alcuna passione, se tenaci, invisibili fili non ci avvicinassero a quanto -a diverso titolo- ci sta a cuore e di cui temiamo la perdita? La totale apatia, la mancanza di sentimenti e di risentimenti, l’incapacità di gioire e di rattristarsi, di essere “pieni” d’amore, di collera o di desiderio, la stessa scomparsa della passività, intesa quale spazio virtuale e accogliente per il presentarsi dell’altro, non equivarrebbe forse alla morte?”
Ognuno sa che il desiderio è la fonte di ogni relazione e di ogni conoscenza. Il desiderio è la motivazione, l'interesse, la curiosità, l'aspirazione, la sessualità. Spostamento verso un altrove che è la vita; possibilità di salto e comprensione delle barriere culturali, movimento di incontro  verso l'estraneo. Motore di cambiamento.
"L'uomo non è mai pienamente a casa nella propria cultura. L'esperienza dell'estraneo, che scaturisce da questa situazione primordiale, mostra fin dall'inizio una ambivalenza: essa appare a un tempo allettante e minacciosa. Minacciosa, poiché l'estraneo fa concorrenza al proprio e rischia di sopraffarlo; allettante, poiché l'estraneo risveglia possibilità che risultano più o meno escluse dagli ordinamenti della vita propria".
Se è assolutamente vero, dunque, che il desiderio si configura come spostamento verso un altrove anche culturale, una possibile liberazione da vincoli mai del tutto appaganti o che hanno esaurito la loro funzione evolutiva - se l'hanno mai avuta - nondimeno la separazione da essi è drammatica, dolorosa e minacciosa. Il vincolo tra ansia e desiderio è sancito dalla paura del nuovo che esso porta con sè.
Dice Bleger a proposito dell'apprendimento - che traduce sempre il rapporto con l'oggetto esterno: "Apprendere in realtà non è altro che imparare a indagare. Nessuna ricerca è possibile senza che, nell'ambito del lavoro, si manifesti l'ansia provocata da ciò che è ignoto, e in quanto tale, pericoloso. Per effettuare un'indagine è indispensabile mantenere a qualunque età, anche nella maturità, un po' di quella disorganizzazione, o tendenza alla disorganizzazione, propria del bambino o dell'adolescente, che è la capacità di meravigliarsi. (…) Per fare un indagine, e quindi per apprendere, è necessario avere o conservare sempre, in qualche misura, quell'angoscia tipica dell'adolescente di fronte all'ignoto."
Il desiderio dunque veicola il movimento verso l’altro, il nuovo, l’estraneo e senza di esso non riusciremmo a separarci mai, nè ad affrontare le nostre ansie . In questo senso l’estraneo è parte integrante di noi stessi. Attraverso di esso, la sua internalizzazione, ci costituiamo. Echeggiano le riflessioni di Pichon: "Il mondo interno si costituisce attraverso un processo di progressiva internalizzazione degli oggetti e di legami. Questo mondo si trova in interazione permanente, interna con il mondo esterno. Attraverso la differenziazione tra il mondo esterno e interno il soggetto acquista identità e autonomia" .

 

3. Estetica della relazione educativa

In un incontro-dibattito nel gennaio 1989 all'Università di Bologna, in occasione  dell'attribuzione della  Laurea Honoris Causa, Paulo Freire ebbe a dire che la pratica educativa può sintetizzarsi in quattro momenti fondamentali: politico, gnoseologico, etico ed estetico.
La consistenza di un aspetto estetico ha stimolato la mia ricerca e la mia immaginazione e alla fine sono emerse le conclusioni (aperte) di questo lavoro.
La connessione tra estetica e processi educativi la fa magistralmente Bateson .
Vi è un modo, secondo Bateson, di accostarsi alla relazione di apprendimento ed è quello di farlo con empatia e riconoscendosi affini ai soggetti e all'oggetto di apprendimento. Ciò significa assumere una posizione estetica. "Per estetico" dice Bateson "intendo sensibile alla struttura che collega". La sensibilità e la ricerca della sintonia vengono identificate come condizioni per verificare in che modo ci si mette in gioco nella relazione di apprendimento e quale struttura può collegarci, noi e gli altri, alla ricerca di scoperte e simmetrie, di relazioni e invenzioni. Dice ancora Bateson: "siamo abituati a immaginare le strutture come cose fisse. Ciò è più facile e comodo, ma naturalmente è una sciocchezza. In verità, il modo giusto per incominciare a pensare alla struttura che connette è di pensarla in primo luogo (qualunque cosa ciò voglia dire) come una danza di parti interagenti e solo in secondo luogo vincolata dalle limitazioni di vario genere".
Una danza di parti interagenti. Desiderio, piacere, angoscia e ancora: immaginazione, conoscenza, dipendenza. Le riflessioni fin qui svolte mi confermano che la complessità della relazione educativa ha la necessità di porre questi termini in interazione dialettica. Proviamo a dare un po' d'ordine.

Il desiderio e il piacere
La relazione educativa deve essere desiderante e desiderabile. E' la premessa di un legame, di una possibile comunicazione, della costruzione di significati. Dice ancora Bateson: "A volte, se i due interlocutori hanno voglia di ascoltare con attenzione, è possibile far qualcosa di più che non scambiarsi saluti e auguri. Si può addirittura far di più che scambiarsi informazioni: i due possono persino scoprire qualcosa che nessuno dei due sapeva prima." E Canevaro: "Il desiderio è il modo attorno a cui si sviluppa il rapporto tra le persone, e quindi il rapporto pedagogico e il linguaggio." Senza desiderio le relazioni muoiono. Esso è tramite e alimento e senso dei vincoli tra le persone. Chi fa questo mestiere deve riconoscerlo e coltivarlo pena il fallimento. Stare nel desiderio significa educare ad esso, educare la mente e il corpo a muoversi verso la vita, la conoscenza; muoversi verso i corpi degli altri, verso gli oggetti, verso i libri, i film, la natura. Quando Freire parla di estetica della pratica educativa credo che si riferisca a questo: al desiderio e al piacere della relazione come fondamento significante della relazione stessa. L'estetica si qualifica infatti come straordinaria opportunità di conoscenza ed elaborazione delle emozioni e dei significati della (propria) vita. Non ricordo chi l’ha detto: il cinema è sempre erotico. No, di più: l’arte è sempre eros; desiderio inappagabile di bellezza e sensualità, raffinata opportunità di piacere, infinita e immaginaria possibilità di vivere tutte le vite che non possiamo ma sono dentro di noi, percorso avventuroso tra i codici del linguaggio, magica produzione di senso.
Sfruttare le opportunità creative e significanti dell'immaginazione all'origine del desiderio stesso apre alla conoscenza, alla motivazione, all'apprendimento e al rapporto con l'altro. Credo si tratti di educare al desiderio. Praticandolo, agendolo, coltivandolo. Comunicando, facendo cose con passione. Chi non mette passione in quel che fa difficilmente può insegnare qualcosa a qualcuno, perchè non è solo il contenuto che si insegna ma il desiderio di quel contenuto. Dice Isabelle Stengers : “Si impara un sapere solo quando se ne trasmette la passione”. Bateson, ironico e impietoso con la classe insegnante, si chiede perchè le scuole non tengano conto della struttura che connette e si domanda dov’è l’errore: “Forse perchè gli insegnanti sanno di essere condannati a rendere insipido, a uccidere tutto ciò che toccano e sono quindi restii a toccare o a insegnare ogni cosa che abbia importanza vera e vitale? Oppure uccidono tutto ciò che toccano proprio perchè non hanno il coraggio di insegnare nulla che abbia un’importanza vera e vitale?” Solo il desiderio può rendere "vero e vitale" qualsiasi contenuto, e solo il desiderio può veicolare il piacere di abitare quel contenuto. Metodologicamente chi si occupa di educazione e apprendimento deve portare desiderio e piacere nella relazione, approntare setting funzionali anche a questo obiettivo, deve consentire l'abitazione del piacere come premessa all'apprendimento e al cambiamento.
Vi è una qualità del piacere che è profondamente funzionale alla relazione educativa, ed è quello relativo all'avventura. Quando Bleger parla del modello "adolescente" all'apprendimento come opportunità di ogni conoscenza, si riferisce a quell'equilibrio sottile tra ansia, piacere, attesa, progetto che sta nell'avventura. Essa presuppone impegno, attività, scoperta, protagonismo e unicità esistenziale. Il piacere dell'avventura risponde alla metafora del viaggio, è il piacere del movimento verso qualcosa che non sappiamo fino in fondo cosa sia, che ridisegna le nostre mete immaginate nel confronto con la realtà, producendo nuovi obiettivi, nuova immaginazione, nuovi tragitti. A volte sono tragitti virtuali, mentali, come è il rapporto personale con i prodotti culturali, l'arte, la conoscenza; a volte sono viaggi esistenziali, il movimento della realizzazione delle proprie aspirazioni; a volte sono percorsi relazionali e riguardano le storie con le persone amate.
E' un piacere che si differenzia da quello ricorsivo, che pure è parte profonda anch'esso dell'esistenza umana,  che ha la sua logica nella ripetitività, nel falso movimento, nell'appagamento immediato. Anche di esso abbiamo bisogno, come di tutto ciò che è stabile, rituale, ricorsivo appunto. E' il piacere del gioco e del consumo. Ma da un punto vista evolutivo, dell'apprendimento, il piacere dell'avventura moltiplica i desideri ed educa i sensi alla ricerca e all'apprezzamento di dimensioni di ricchezza interiore: il gusto, la grazia, la raffinatezza, l’ironia, l’equilibrio, il garbo, le sfumature, ecc. E insieme, alla dimensione progettuale della conoscenza: di sè, del mondo, degli altri.
All'opposto, la tragedia del consumismo è la proposta di piaceri "facili", immediatamente appaganti, che soddisfano un'ansia di possesso narcisistica che mortifica le coscienze, ostacola le relazioni, inibisce la creatività e infine il desiderio stesso.
Educare al piacere della cultura e al piacere della relazione vuol dire educare/educarsi alla propria progettualità esistenziale e offrire/offrirsi una chiave per innalzare la propria qualità della vita e aprirsi alla conoscenza. Sul piacere infatti si costituisce una parte profonda dell'identità degli individui: le scelte dei gusti, degli interessi, delle qualità personali del proprio corpo, degli orientamenti esistenziali. La qualità dei desideri e dei piaceri è fondamento della personalità e insieme fondamento di ogni relazione, in quanto ne caratterizzano la sana erotizzazione premessa e motore di ogni crescita ed evoluzione.
Paradossalmente il piacere è parte integrante, implicitamente, del compito dei servizi che si occupano di “disagio”: handicap, tossicodipendenza, minori a rischio, malati mentali. Il contatto degli operatori con “la sofferenza” non solo non impedisce di costruire relazioni fondate sul benessere e sul piacere con gli utenti - credo che qualsiasi professionista possa raccontare come, nonostante situazioni di dolore impensabili, le relazioni finiscano per essere spesso caratterizzate dal gioco, dal divertimento, dall’umorismo, dal piacere della comunicazione positivamente affettiva - ma anche che quel benessere si traduca in una straordinaria opportunità di cambiamento, fondi un “credito affettivo” reciproco che dispone alla propria messa in discussione,  alla rinuncia di un po’ di sè nella contrattazione con l’altro, all’incontro delle ragioni e dei desideri.
La centralità del desiderio nella relazione educativa è infatti ragione anche dell'etica del rapporto: ascoltare le ragioni dell’altro significa lasciare che i desideri dell’altro siano posti nello spazio della relazione e su questi ci si confronti, si contratti, ci si modifichi. Rispettare il desiderio dell’altro è attendere che questo si esprima, è il “gesto interrotto” che sottolinea “l’importanza di una educazione capace di attendere dall’altro il completamento di una nostra azione. Il nostro gesto interrotto implica l’attesa di un completamento originale da parte dell’altro; implica una scelta che si intreccia con una scelta altra, che può essere assai diversa da quella che avevamo in mente. Non è la rinuncia ad agire per il timore di turbare l’altro; è invece l’accettazione dei limiti della propria azione”.
Già. Perchè se il desiderio è onnipotente occupa tutto lo spazio e per l’altro non vi è più posto. La ragione del desiderio è che deve valere reciprocamente per gli attori della relazione. L'erotizzazione non deve sfuggire di mano, perché può diventare veicolo di potere, distruttività e morte.

Resistenze e dipendenze
Un discorso sulla relazione educativa e sui processi evolutivi non può aderire superficialmente agli aspetti positivi e qualificanti del desiderio e del piacere quando sappiamo ambivalente il carattere di entrambi i termini.
La motivazione non è scontata. Non è scontato il desiderio di apprendere mentre lo è sempre (a livello inconscio) la resistenza all'apprendimento: essa coincide infatti con la difesa del proprio schema di riferimento (del proprio sapere, della propria storia, della propria identità, dei propri maestri e dei propri gruppi interni: in altre parole dei propri vincoli densi di affetto).
La rigidità o meno dello schema di riferimento individuale, cioè dei vincoli interni degli individui, consente una maggiore o minore libertà di desiderare "altro" dal conosciuto, dal noto, dal già vissuto. "Così come lo schema di riferimento di carattere dinamico e plastico è la condizione necessaria per l'apprendimento, quello stereotipato si trasforma in una barriera".
Chi si occupa di formazione sa bene come il rapporto insegnamento-apprendimento sia un discorso intorno all'ansia. Questo rapporto mette in gioco e interpella profondamente chi lo vive, sia allievi che insegnanti. L'ansia non riguarda superficialmente i processi di accettazione e rifiuto tra insegnante e allievi, o quelli dell'autostima, ma più profondamente i meccanismi di difesa rispetto al nuovo e alle diversità in campo nel contesto classe: nei contenuti della conoscenza come nei comportamenti e nei ruoli abitano gli stereotipi; e tali meccanismi attraversano le dinamiche di relazione e di apprendimento perché riguardano il potere, il sapere, i bisogni, le culture, i valori di tutti gli attori del setting formativo. Questi attori avrebbero il compito di affrontare il conflitto manifesto o latente posto dalle diversità presenti e dagli stereotipi che le irrigidiscono. Se non si affronta tale conflitto il processo di insegnamento e apprendimento è fortemente ostacolato, e il disagio o l'irrigidimento delle difese, sia degli allievi come degli insegnanti, non risolti e amplificati.
L'apprendimento come l'integrazione scolastica passano attraverso la gestione e l'elaborazione di i conflitti e le ansie che accompagnano i soggetti nei loro percorsi evolutivi. In primo luogo rendendoli protagonisti attivi delle loro esperienze, perché solo utilizzando lo schema di riferimento "è possibile operare su di esso una indagine e una modifica."
Pedagogicamente, suggerisce Bleger, "non si tratta di ottenere una modifica dello schema di riferimento in un senso o in una modalità prestabiliti, e tanto meno di arrivare a uno schema di riferimento già completo e strutturato. (…) Si tratta di imparare a mantenere uno schema di riferimento elastico e non stereotipato, come strumento che viene costantemente elaborato, modificato e perfezionato.
(…) Nel corso di qualunque apprendimento possono coesistere e alternarsi ansie sia paranoidi che depressive: le prime derivano dal pericolo insito nel nuovo e nell'ignoto; le altre dalla perdita di uno schema di riferimento e del vincolo che sempre questo implica. Bisogna evitare che il carico d'ansia diventi eccessivo e la disorganizzazione possa portare a un'ansia confusionale. Durante l'apprendimento vi sono sempre, nel periodo di rottura delle stereotipie, momenti di confusione che rappresentano fasi normali, purché se ne regoli la portata in modo tale da poterle discriminare, gestire ed elaborare" .
L’ambivalenza del desiderio esprime l’ambivalenza dei vincoli che esso produce. Se da una parte esso è ragione fondante la relazione, l'apprendimento e il cambiamento, inteso come percorso evolutivo del soggetto e del rapporto, al tempo stesso in esso si annida la produzione di dipendenze che possono cristallizzare ogni opportunità di crescita.
Tornando sul concetto di qualità del piacere, esso possiede infatti caratteri ripetitivi, nevrotici, perversi, psicotici che a monte sono mossi da bisogni di difesa e autorassicurazione. Sono bisogni di stabilità e sicurezza ai quali nessuno può sottrarsi, che producono dipendenze più o meno rigide e stereotipie. E' la nostalgia delle origini. Se tutti siamo vincolati a dipendenze, si tratta di qualificarle nella loro funzionalità rispetto ai processi evolutivi.
Per certi versi si può distinguere tra dipendenze "sane" e dipendenze "tossiche", là dove queste ultime esprimono stereotipie dalle quali è difficile svincolarsi, le prime consentono movimento, separazione e crescita perché abitate da vincoli nei quali gli individui hanno l’opportunità di negoziare la propria libertà, nei quali vi sia lo spazio mentale e concreto del desiderio e il rispetto dei reciproci desideri. Ugualmente possiamo parlare di piaceri sani e tossici. La dipendenza televisiva, la dipendenza da certe forme di sessualità (per esempio la pornografia), la dipendenza dalle sostanze: sono alcune delle forme più estreme di un piacere che non si muove, che si ripete, che si alimenta di se stessa e che spegne chi lo consuma. E’ un desiderio fermo, incapace di aprirsi al nuovo, al diverso, di andare verso la vita. E’ un desiderio che ha a che fare con la morte.
Eppure tutti conviviamo più o meno con queste forme di piacere. Dalle sigarette al sesso, ognuno di noi gioca le sue dipendenze “tossiche”. Lo sa bene chi ha riflettuto a lungo sulla tossicodipendenza. Le teorie relative alla “riduzione del danno” hanno questo assunto di base: ognuno convive con le proprie dipendenze, produttive e improduttive, sane e tossiche; più che “estirpare”, stroncare la dipendenza, si può educare alla sua convivenza verso forme meno distruttive e più costruttive.
Il concetto di autonomia è infatti un concetto molto relativo; ha senso solo in rapporto a quello di dipendenza. Estremizzando, l’autonomia non esiste; esiste una gestione delle dipendenze che a livelli diversi offre all’individuo più o meno opportunità di realizzarsi. Ancora una volta: dipendenze sane e dipendenze tossiche. La rete sociale nella quale l’uomo è inserito lo vincola a tutta un a serie di dipendenze, che sono dentro e fuori di lui. La maggiore o minore rigidità, psichica e sociale, di questi vincoli consente all’individuo di muoversi con minore o maggiore libertà per realizzare le proprie aspirazioni, desideri, progetti.
A volte questa opportunità non c’è: i vincoli sociali, economici, culturali sono così duri da negare all’uomo il diritto alla vita, il diritto al piacere di vivere nel proprio progetto esistenziale. Ma qui torniamo a parlare di politicità dell’educazione, di tutela dei diritti.
Come fare per educare al piacere dell’avventura, del progetto? Praticandolo con passione insieme a coloro con i quali si è dentro al processo educativo. Rendendo viva l’esperienza e la cultura senza renderla triste o mortificarla. Sostenendo lo sforzo e l’impegno nella gratificazione e nella rassicurazione. Costruendo un contesto istituzionale le cui regole e i cui mediatori contengano, facilitino, sviluppino l’elaborazione delle resistenze e dei conflitti. Controllando le proprie e altrui dipendenze attraverso un progetto,  il lavoro di gruppo, la supervisione. Mettendosi nelle condizioni di praticare la libertà, facendo in modo che il proprio sapere possa essere scardinato e il proprio potere discusso ed eventualmente rovesciato.
Tuttavia,  la passione non basta.

Vissuto, linguaggio, cultura
Nella danza delle parti interagenti dobbiamo considerare la storia delle relazioni di ognuno. Viviamo nella storia dei rapporti con i nostri affetti più cari, nella cultura e nel linguaggio. Non possiamo parlare a chi non possiede i codici per tradurre. O a chi ha troppa ansia, troppa rabbia o troppo dolore per ascoltare.
Allora dobbiamo, come educatori, trovare un linguaggio comune e cercare di elaborare e superare tutto quello che ostacola la comunicazione. Lo sforzo di conoscenza della cultura, dei linguaggi e dei vissuti dei nostri interlocutori deve essere assoluto, perchè qui si giocherà la possibilità del confronto, del dialogo, della costruzione dei significati, della negoziazione. Il desiderio e il piacere si fondano sulla costruzione di comuni codici di comunicazione.
Il vissuto, la cultura, il linguaggio sono l’identità personale e sociale di una persona. Sono i termini della definizione, rappresentazione e affermazione di sè. Alla propria esperienza e alla propria storia, alle proprie appartenenze culturali e linguistiche gli individui sono affezionati e le rivendicano. Le opinioni sono le ragioni del sè.
Il confronto come confronto di identità, come comunicazione tra differenze, è un problema enorme, rinvigorito negli ultimi anni dai rigurgiti razzisti mai sopiti. L’urgenza di comprendere i processi di costruzione dell’identità per potervi rispondere nei termini di una educazione interculturale anima molti orientamenti pedagogici odierni.
La complessità degli elementi antropologici e affettivi in gioco nell’identità rimanda a un’improcrastinabile formazione psicopedagogica degli educatori, degli insegnanti, degli operatori sociali. Si tratta di far prendere consapevolezza di questa complessità non solo attraverso contenuti ma attraverso forme che consentano di sperimentare in prima persona a questi operatori cosa significhi mettere in gioco l’identità. Vi è infatti una contraddizione di termini: come si fa a lavorare sull’identità degli altri se non si è lavorato sulla propria? E perchè la formazione non se ne occupa?
L’esperienza di qualsiasi educatore può confermare che la “resistenza al cambiamento” appartiene sia agli  utenti che agli operatori. Ed è normale che sia così. La resistenza è un’affermazione di identità, il lavoro per la persistenza, per non modificare i propri assetti e per non mettere in discussione le proprie dipendenze. Quando però la resistenza diventa un ostacolo alla comunicazione e al dialogo allora dobbiamo attaccarla, dobbiamo avere la consapevolezza e le risorse per farlo. E se le resistenze non possono che essere affettive si tratta di affrontarle con risorse e strumenti affettivi.
Ma  il cammino è ancora lungo. Soprattutto le istituzioni rivelano una “resistenza” profonda a far entrare nei propri modelli organizzativi e relazionali la consapevolezza di questa complessità psicoantropologica, sia come fenomeno che come utilizzo di elaborazioni teoretiche che hanno già una certa storia e un certo credito.

Affettività e istituzioni
Conseguenza di questa “ignoranza” sia della problematica affettiva sia degli esiti dei suoi approcci teorici nelle istituzioni che si occupano di relazioni è una ricaduta “pesante” nelle pratiche professionali -anche se negli ultimi anni vi è un tentativo di un cambiamento di rotta-, giacché se l’affettività è negata, rimossa o comunque non affrontata non vi è la possibilità di elaborarla consentendone un maggior controllo e migliorando così i livelli di consapevolezza, comprensione e intervento delle pratiche istituzionali e professionali.
Facciamo alcuni esempi classici.
La pratica medica occidentale nega totalmente l’affettività, in quanto per portare avanti i propri compiti ha fondato e sedimentato un sistema teorico e clinico che “oggettualizza” il corpo. In questo modo il chirurgo può aprire la pancia del paziente e operare senza sentirsi coinvolto da processi emotivi che frenerebbero le possibilità di cura del malato. Negare completamente l’affettività della relazione è insieme una strategia difensiva (non sentirsi coinvolti) e una strategia operativa (riuscire a curare).
Il problema della mancata elaborazione di questa negazione è che la relazione medico-paziente non si esaurisce nella pratica chirurgica o in generale nella pratica clinica, ma si inserisce in un contesto che ne riproduce il modello che esula dai compiti terapeutici. In altre parole: il chirurgo riesce diagnosticare e operare la mia milza malata e insieme rischia di trattarmi da milza; la disumanità dei rapporti di ruolo in un ospedale, la negazione del malato come persona sono conseguenze di questa mancata elaborazione. Non è un caso che da tempo vi sia un lavoro profondo nell'epistemologia medica di riconsiderare i propri modelli  teorici, clinici e terapeutici ai fini di migliorare le relazioni con il paziente e i contesti nei quali opera -senza che questo naturalmente significhi mettere in discussione un modello che sotto molti punti di vista si rivela vincente.
I servizi socio sanitari e socio educativi presentano altre problematiche.
Questi servizi si propongono come compito di produrre cambiamento - inteso come miglioramento, sviluppo, integrazione - in soggetti socialmente deboli, svantaggiati, emarginati. Questi servizi hanno una storia giovane, sono il prodotto di una cultura dell’integrazione che non ha più di 30 anni. I modelli epistemologici, psicologici, organizzativi di tali istituzioni si avvalgono anche di una  approfondita riflessione sui processi razionali e affettivi per produrre cambiamento, tant’è che l’affettività qui non è negata o rimossa ma è ritenuta una componente fondamentale per portare avanti il compito. Si pensi, per fare un esempio, ai servizi per l’handicap in cui professionalità specificamente educative lavorano sul fondamento di relazioni profondamente “empatiche”, affettivamente forti, per orientare intenzionalmente, razionalmente, interventi di cambiamento.
Qui allora il problema che si pone è diverso: il problema è il controllo di queste relazioni, l’equilibrio, come dicono gli operatori, tra “coinvolgimento” e “distanza”, tra affettività e razionalità  per non affidare al caso il cambiamento.
Se da una parte quindi, per la loro relativa giovinezza, i servizi socio sanitari e socio educativi hanno saltato a piè pari la tradizionale istituzione ottocentesca, burocratica, anaffettiva, autoritaria, dall’altra si trovano a fare i conti con una poco approfondita elaborazione degli strumenti di controllo necessari per non “impaludarsi” in relazioni che inconsapevolmente possono riprodurre modelli parentali, amicali, di volontariato. La metodologia del progetto e del lavoro di gruppo, per esempio, che si è andata costruendo in questi anni è ancora lontana dal raggiungere una sua stabile definizione teorica e un’affermata conoscenza e consapevolezza nel bagaglio professionale degli operatori; cosicché, a fronte di modelli epistemologici (teorici, metodologici, clinici, pratici) sanitari affermati, potenti e vincenti sul piano sociale e dei risultati, di quelli psicoterapeutici sempre più forti, quelli socio sanitari e socio educativi sono in una continua e confusa ricerca di un proprio modello.
Il mancato approfondimento degli strumenti metodologici relativi al controllo dell’affettività nella relazione rimanda comunque ad una poco approfondita ricerca ed elaborazione circa i meccanismi e i processi affettivi che si attivano tra operatori e utenti e tra gli operatori stessi. Cioè: non basta dire che l’affettività è necessaria a produrre cambiamento; perchè? come? quali sono i meccanismi affettivi che hanno contribuito a produrre quel successo terapeutico, educativo, assistenziale? come gestire il desiderio, l’ansia? come elaborare il rifiuto (dell’operatore, dell’utente)? che cosa succede nei gruppi di lavoro? come gestire il conflitto? e se il conflitto è rimosso?
Portiamo ad esempio alcune osservazioni condotte in servizi per handicappati gravi.
In alcuni centri per gravi è emerso che il gruppo di lavoro, consapevolmente e inconsapevolmente, ha smesso di credere nel cambiamento degli utenti: di fronte a questa utenza incomprensibile e frustrante hanno rinunciato a investire nel cambiamento. Questa strategia difensiva ha parallelamente prodotto un aumento di benessere nel gruppo di lavoro, è sparito il confronto/conflitto sul compito e ha innalzato la produttività creativa - esclusiva degli operatori - delle attività, investendo sulla visibilità esterna (partecipazione a mostre, sagre, mercati, con il banchetto e i prodotti del centro). Il gruppo, pur continuando a gestire gli utenti con grande benevolenza, ha smesso qualsiasi progetto sull’utente e si è definito in una identità collettiva (operatori, utenti e famiglie) come centro rispetto all’esterno, identificando il compito non più nel cambiamento degli utenti e nel cambiamento sociale ma solo in quest’ultimo, promuovendo l’integrazione degli handicappati attraverso attività rivolte all’esterno, attraverso la “visibilità” e l’affermazione/rivendicazione di sè. Di fronte al mancato cambiamento degli utenti, la responsabilità è fatalmente loro, nel loro destino di handicappati gravi.
Una ricerca su campo, un’analisi istituzionale in un Servizio per le tossicodipendenze, ha dimostrato come l’inconsapevolezza di alcuni processi affettivi nell’organizzazione e nel gruppo di lavoro, quali la rimozione del fallimento e l’inconscio lavoro di autorassicurazione dell’équipe, produca effetti negativi sul compito e come il ruolo dell’educatore all’interno dell’istituzione sia fortemente condizionato, nello sviluppo della sua operatività, da tali processi. Di fronte alla profonda frustrazione prodotta dalla difficoltà di una stabile riabilitazione del tossicodipendente, il gruppo di lavoro, del tutto inconsapevolmente, ha deciso di utilizzare l’équipe come evento rituale della propria socialità (amicale) evitando di affrontare la complessità del compito (la cura e al riabilitazione del tossicodipendente) nei termini di una continua analisi degli interventi, rielaborazione degli errori, dei limiti personali, professionali, emotivi degli operatori. Nessuno critica nessuno, nessuno critica sè stesso, tutti rassicurano e si autogratificano. A livello individuale ogni operatore porta avanti il compito al meglio delle proprie alte risorse professionali, ma a livello di gruppo evitano di affrontare qualsiasi rielaborazione critica del proprio lavoro. l risultato (il cambiamento) è nuovamente affidato al caso, alla coincidenza di fattori diversi, alla capacità relazionale e professionale dell’operatore, alle capacità/potenzialità dell’utente. E la cronicizzazione dell’utenza è alta (cioè, quantitativamente, il cambiamento prodotto è basso).
Nel contesto scolastico il problema della rimozione delle implicazioni affettive assume per certi versi esiti vistosi e paradossali.
E' evidente che la scuola oggi è molto meno legittimata nella sua funzione educativa che non in passato. In primo luogo, come detto, perché ha un mandato ambiguo, centrato più sull’istruzione che non sull’educazione. Ma è anche un una questione di ordine più generalmente sociale e culturale: gli adulti sono meno legittimati dai giovani stessi, così che la scuola patisce la sempre minor autorevolezza e legittimazione dell’agenzia di formazione principale, la famiglia; infine, il cosiddetto policentrismo delle agenzie formative ha sottratto potere alla funzione educativa della scuola.
Rispetto a un tempo in cui la legittimazione era data, e bastava la definizione dei ruoli chiara e indiscutibile per definire una altrettanto chiara comunicazione tra insegnanti e allievi (io parlo tu ascolti, io insegno tu apprendi), in cui non era in discussione l'autorità e l'autorevolezza necessaria alla relazione di apprendimento, oggi gli insegnanti la legittimazione se la devono giocare su campo, se la devono guadagnare. Devono guadagnare un credito relazionale su cui fondare il compito di apprendimento.
Appare allora assurdo che ancora oggi il modello scolastico dai gradi delle medie inferiori in poi proponga una relazione tra insegnanti e allievi fondata sui contenuti da far imparare. Nessuna formazione - se non, oggi, per gli insegnanti elementari - sui processi affettivi che si giocano nell’apprendimento, sulla complessità psicoantropologica della relazione. L’insegnamento è affidato alle naturali capacità relazionali -insieme a quelle professionali, relative ai contenuti - dell’insegnante in un contesto in cui gli spazi, i tempi, i ruoli sono ancora definiti istituzionalmente in modo rigido; l’apprendimento è così affidato al caso e quasi sempre delegato agli allievi, cioè alle loro risorse culturali e motivazionali, in definitiva sociali.
Anche in questo caso la negazione dei processi affettivi nella relazione, delle strategie emotive nei processi di apprendimento ha una ricaduta nella pratica istituzionale dell’insegnamento: in primo luogo l’impossibilità di riconoscere i motivi dei successi/insuccessi scolastici, affidando la responsabilità di questi solo agli allievi, alle loro motivazioni, capacità, risorse cognitive, psicologiche, culturali, alla loro provenienza sociale.
Ma non è solo un problema di incomprensione o rimozione del fallimento: dietro a questo vi è un problema ancor più pesante di resistenza al cambiamento. Attribuendo il fallimento agli allievi l’istituzione non solo si deresponsabilizza ma impedisce il proprio cambiamento, delle pratiche di insegnamento, dei contesti di classe, dell’organizzazione complessiva.
L’incapacità di affrontare la resistenza all’apprendimento di alcuni allievi è speculare all’incapacità di affrontare la propria (degli insegnanti) resistenza al cambiamento. Ammettendo che la resistenza all’apprendimento di alcuni allievi sia di tipo cognitivo, epistemico, non può negarsi che possa essere culturale ed emotiva. E’ interessante notare come una gran parte degli insegnanti che frequentano corsi di aggiornamento, pur avendo, loro, capacità cognitive adeguate, in realtà rifiutino di apprendere i contenuti degli aggiornamenti a causa delle loro motivate ragioni culturali ed emotive (che però negano agli allievi): che lo scarto tra i formatori e loro è abissale (“belle parole, dicono, ma noi siamo in prima linea”), che le condizioni di lavoro nella scuola sono impossibili, ecc. ecc. Ribaltando il ruolo nei corsi di aggiornamento (da insegnanti ad allievi) il gruppo insegnante si comporta nè più nè meno come una normale classe scolastica: ci sono i motivati, gli arrabbiati, gli indifferenti, i rivoluzionari. Visto che le risorse cognitive sono indiscutibili, qui le resistenze sono culturali ed emotive, cioè le medesime ancora una volta degli allievi. Senza avere idea di quali strategie, culturali e psicologiche, adottare per scardinare queste resistenze, per fare spazio negli stereotipi culturali, per vincere la demotivazione, la rabbia, la timidezza, ancora una volta l’apprendimento, il cambiamento è lasciato al caso, è affidato ai bravi (relazionalmente e professionalmente) insegnanti e formatori e ai motivati, stabili emotivamente, culturalmente affini e preparati allievi.
Eppure, il potere che abbiamo come educatori è ancora enorme. Siamo modelli di identificazione.  Dobbiamo attrezzarci sui modi per trasmettere i contenuti, per saper rispondere ai bisogni, attrezzarci sulle dinamiche relazionali e di gruppo, imparare a saper gestire e risolvere i conflitti. Saper costruire la motivazione all'apprendimento come premessa del nostro compito.


Bibliografia

G. Bateson, Mente e natura, Adelphi, Milano, 1984
G. Bateson, Verso un'ecologia della mente, Adelphi, Milano, 1976
J. Bleger, Psicoigiene e psicoterapia istituzionale, Ed. Lauretana, Loreto, 1993
R. Bodei, Geometria delle passioni,, Feltrinelli, Milano, 1991
A. Canevaro, “I bambini che si perdono nel bosco” (1976), La Nuova Italia, Firenze, 1997
A. Canevaro, La formazione dell’educatore professionale, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1991
F. Ciaramelli, La distruzione del desiderio, Ed. Dedalo, Bari, 2000
E. Enriquez in AA.VV., Formazione e percezione psicoanalitica, Feltrinelli, Milano
Stanley I. Greenspan, Psicoterapia e sviluppo psicologico, Il Mulino, Bologna, 2000
G. Lapassade, L'autogestione pedagogica, Franco Angeli Ed.., Milano, 1973
U. Morelli, C. Weber, Passione e apprendimento, Raffaello Cortina Editore, 1996
E. Pichon Riviere, Il  processo gruppale, Loreto, Lauretana, 1995

 

  Dice Tosquelles: "non domandate mai a un malato o a un uomo in perfetta salute di risolvere dei conflitti al di fuori di un organo istituzionale. Ne è biologicamente incapace. (...)L'ospedale psichiatrico (...)deve essere un'occasione per gli utenti, di riprendere confidenza con le istituzioni vissute (...). In altre parole, se vuole compiere la sua missione socioterapeutica, il servizio psichiatrico deve vivere i suoi conflitti e assimilarli con adeguati ingranaggi istituzionali perché ogni malato possa investirvi quelli, fra i suoi, ai quali si era sottratto e, così, risolverli. "F. Tosquelles, Education e psicoterapie institutionalle,  in: E. Cocever, Psicoterapia e prospettive educative, cit., pp. 82-83.

  A. Canevaro, La formazione dell'educatore professionale, cit., p. 99.

  Partendo dal presupposto che non vi è gruppo senza compito  e le istituzioni sono composte di gruppi, si intende per compito manifesto il compito esplicito ed esplicitato a cui una istituzione si dedica e per compito latente quel compito che, per diverse ragioni, inconsapevolmente la medesima istituzione porta avanti ostacolando quello manifesto. Possiamo dire che nessun gruppo può affrontare positivamente un compito manifesto senza averne affrontato uno latente, effetto di rimozioni, ansie e conflitti tra i membri del gruppo.

  A. Bauleo, Ideologia gruppo e famiglia, Milano, Feltrinelli, 1978, p. 117

  cfr. R. Collins, M. Makowsky, Storia delle teorie sociologiche, Bologna, Zanichelli, 1996

Dice E. Durkheim in "Education e Sociologie": “l'educazione è l'azione esercitata dalle generazioni adulte su quelle che non sono ancora mature per la vita sociale. Il suo obiettivo è quello di far nascere e sviluppare nel fanciullo un certo numero di condizioni fisiche, intellettuali e morali che gli vengono richieste sia dalla società politica nel suo complesso sia dall'ambiente sociale in cui egli è specificamente destinato" (in G. Lapassade, L'autogestione pedagogica, Franco Angeli Ed.., Milano, 1973, p. 126).

E. Pichon Riviere, Il processo gruppale, Ed. Lauretana, Loreto, 1993, p.34

Stanley I. Greenspan, Psicoterapia e sviluppo psicologico, Il Mulino, Bologna, 2000, p. 31

R. Bodei, Geometria delle passioni,, Feltrinelli, Milano, 1991, p. 79

E. Pichon Riviere, Il processo gruppale, cit., pp.34-35

" Il pensiero occidentale da sempre ha tragicamente scisso i due termini, fondando l’etica del controllo razionalistica (Kant: le passioni cancro della ragione) e l’alienazione del desiderio dalla cultura della conoscenza, relegandolo nel campo delle “energie selvagge e brancolanti nel buio”, addomesticate, represse o canalizzate dalla ragione. E' pur vero che ogni cultura, seppur rigida, coltiva voci di dissenso e minoranze la mettono in discussione. Spinoza è tra pensatori "devianti" che restituiscono alle passioni, e in particolare al desiderio, un ruolo centrale nella costruzione della ragione e quindi della conoscenza (“Cupiditas” origine dell’immaginazione, ragione e -forma suprema di conoscenza- amore intellettuale") Cfr. R. Bodei, Geometria delle passioni, cit

A. Canevaro, “I bambini che si perdono nel bosco”, (1976), La Nuova Italia, Firenze, 1997., p. 84.

C'è un articolo meraviglioso di uno psicoanalista francese, Eugene Enriquez, che svela sadicamente quali fantasmi giochino nel formatore, più in generale nell'operatore psicosociale, e quanta ambivalenza si nasconda dietro ai diversi modelli che propone agli educandi. E' proprio questo che, secondo Enriquez, "conferisce a questo lavoro un aspetto insieme esaltante, inquietante e deludente. In ciò sta il suo fascino, nel recare il marchio del desiderio di onnipotenza e del desiderio /timore di impotenza, nell'essere a un tempo portatore di vita, di ripetizione e di morte." E. Enriquez in AA.VV., Formazione e percezione psicoanalitica, Feltrinelli, Milano, p. 111

  R. Bodei, Geometria delle passioni, cit.,p. 9

B. Waldenfelds, citato in F. Ciaramelli, La distruzione del desiderio, Ed. Dedalo, 2000, Bari, p. 107

J. Bleger, Psicoigiene e psicologia istituzionale, Lauretana, Loreto, 1993, p. 176

Se dell'altro abbiamo bisogno per costituire noi stessi, nondimeno esso rappresenta un problema, una minaccia per i nostri vincoli interni che struttura ansie difensive, depressive (paura della perdita) e persecutorie (paura dell'attacco). Cfr. E. Pichon Riviere, Il processo gruppale, cit.

Pichon Riviere, Il processo gruppale, cit., pp. 104-105

  G. Bateson, Mente e natura, Adelphi, Milano, 1984, p. 22.

  Ibidem, p. 27.

  A. Canevaro,  “I bambini che si perdono nel bosco”, cit., p. 132.

  I.  Stengers, Scienza come avventura,  in: U. Morelli, C. Weber, Passione e apprendimento, Raffaello Cortina Ed., Milano, 1996, p. 153

  G. Bateson, Mente e natura,  cit., p. 21

  A. Canevaro, La formazione dell’educatore professionale, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1991,  p. 24

Lo schema di riferimento è, secondo Pichon Riviere l'"insieme di esperienze, conoscenze e affetti con i quali l'individuo pensa e agisce” (E. Pichon Riviere, Il  processo gruppale, cit., p. 217) o ancora “l'insieme di conoscenze e atteggiamenti che ognuno di noi ha nella sua mente e con il quale lavora in  relazione col mondo e con se stesso.” (ibidem p. 123)

J. Bleger, Psicoigiene e psicologia istituzionale, cit, p.172

Ibidem, p.172

Ibidem, pp. 173-176

 

Fonte: http://corsi.unibo.it/educazioneprofessionale/Documents/Dispensa%20Prof.%20Rambaldi.doc

Sito web da visitare: http://corsi.unibo.it

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