Seconda Guerra mondiale alimentazione

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Seconda Guerra mondiale alimentazione

Aspetti della cucina italiana e dell’alimentazione popolare durante il Secondo Conflitto mondiale
Introduzione
Cosa rispecchia meglio la condizione di una nazione dell'alimentazione? É Eugène Briffault, scrittore ottocentesco francese che sostenne: “La cucina di un popolo è la sola esatta testimonianza della sua civiltà”.
Condividendo questo sostengo che l'alimentazione in Italia fu un aspetto degno di nota anche durante la Seconda Guerra mondiale, rispecchiava la sofferenza del popolo, la forza di sopravvivenza dei nostri antenati, l'accentuata stratificazione sociale che era presente nella nostra nazione ma destinata ad assottigliarsi col proseguo del conflitto,
Nelle pagine seguenti si analizza questo tema, cioè di che alimenti si nutrivano le persone durante questi periodi di estrema difficoltà, ma anche di come riuscivano a procurarsene in quantità sufficienti per sopravvivere e in che modo o con quali strumenti cucinavano.
Ho suddiviso il lavoro in quattro capitoli per affrontare l'argomento da punti di vista differenti.
In una prima parte ho voluto porre le basi per il nostro discorso marcando l'importanza che il regime fascista ha dato all'alimentazione del popolo, attraverso la propaganda, per imporre un modo di nutrirsi consono alla volontà dello Stato. Sottolineando l'efficacia o meno delle direttive emanate, viene tracciato un quadro dell'alimentazione secondo gli ideali dittatoriali, insomma che cibi doveva consumare ciascuno per essere fedele al regime, in che quantità e in quale modalità.
Naturalmente la maggior parte della popolazione si ritrovò in difficoltà per il fatto che oltre ai problemi legati all'approvvigionamento delle materie prime causati dalla guerra in atto, si aggiungevano le restrizioni imposte dal Governo. Mi soffermo nel secondo capitolo proprio su questo argomento, cioè sull'effettiva alimentazione popolare, sui metodi di ricerca del cibo e sui rimedi legali, e non, coi quali si cercò di sopperire alle carenze. In questa parte centrale dello scritto si delineano quindi, in maniera esaustiva, gli aspetti reali di un modo di nutrirsi povero ed influenzato dal marasma della guerra e delle vicende fasciste, ma che proprio per questo riuscì ad essere nuovo ed originale. Si scoprono le condizioni in cui verteva il ceto popolare, costretto a cibarsi costantemente degli stessi cibi, ma non arreso a cucinarli in modo ripetitivo.
Nella terza parte si studiano le situazioni limite, capendo come anche i movimenti di opposizione al regime hanno apportato dei cambiamenti riguardanti il tema affrontato. Ideali e valori sviluppati grazie ai partigiani durante la Resistenza, ma anche storie e citazioni che mettono in evidenza le sofferenze patite per la fame. Inoltre viene dato un piccolo spazio ai concetti che gli Americani portarono in Italia dopo essere sbarcati in Sicilia, causando una piccola rivoluzione alimentare che influenzò il modo di preparare le pietanze e introdusse nuovi cibi.
E' nel capitolo conclusivo che si scopre come tanto di quello di cui ho scritto, in un continuum storico si può ritrovare sulle nostre tavole, ribadendo il fatto che le innovazioni nate in questo contesto, durante la Seconda Guerra mondiale, sopravvivono oggi nella nostra cultura
La scelta di questo periodo quindi non è casuale ma mirata proprio ad esaltare aspetti passati in secondo piano che hanno permesso lo sviluppo di tradizioni, di valori e di usanze tramandate fino ai tempi odierni.
Imporre una restrizione sul luogo di ricerca è risultato molto arduo: un tema come quello dell'alimentazione durante la Seconda Guerra mondiale è difficile circoscriverlo ad una area geografica ridotta della nostra nazione, sia per la tutt'altro che abbondante disponibilità di fonti, sia perché uno dei concetti che si vuole analizzare e mettere in evidenza è la storia di un popolo che soffrendo in modo unito e solidale per combattere la carestia diventa una Nazione.
Utili alla mia ricerca sono stati documenti storici e leggi fasciste rispolverati negli archivi di Stato, le registrazioni di alcuni discorsi di Benito Mussolini inerenti all’argomento, ma anche testimonianze attestate di uomini e donne che hanno vissuto direttamente questo periodo difficile in Italia. Ho preso inoltre spunto da manuali e ricettari pubblicati in quegli anni in modo da capire le reali pietanze che la gente poteva permettersi e gli ostacoli che si dovevano superare per ottenere dei cibi commestibili.
Il tutto è stato fatto per informare e dare risalto ad un aspetto secondario della nostra storia, che può servire come punto di partenza per comprendere meglio la nostra cultura alimentare e le nostre tradizioni.
Capitolo primo:
Mangiare fascista
Il destino delle nazioni dipende dal modo in cui si nutrono . Questo Mussolini lo sapeva bene, era molto chiaro nella sua mente che un popolo dovesse essere controllato in qualsiasi ambito, dovesse essere rigorosamente incanalato in certi schemi e non esisteva modo migliore per tenere sotto controllo il tutto e farsi rispettare, se non quello di controllare l'alimentazione di ciascuna persona. Compito certo arduo, ma il risultato ottenuto fu quello di una totale sottomissione del popolo alla figura del Duce paragonabile a quella delle bestie con il padrone, un rapporto basato sull'esigenza di sopravvivere sull'esigenza di ottenere del cibo, sul rispetto di chi te lo concede. Come un cavallo che fa il suo dovere per ottenere lo zuccherino, come un asino stolto che dev'essere trattato col bastone e con la carota. Come il padrone decide cosa, quando e perché l'animale deve mangiare, così fu Mussolini a decidere cosa quando e perché gli italiani dovevano mangiare sicuro che questo fosse un modo eccellente per addomesticare la Nazione, d'altronde mai un asino si é ribellato a colui che concede la carota.
Da questo principio nasce la politica alimentare del Fascismo, una politica che acquista sempre più importanza nelle direttive del Duce consapevole si del fatto che colui che concede il cibo viene rispettato, ma anche del fatto che controllando gli alimenti da offrire al popolo, la qualità e la quantità di questi, si riesca a gestire il Paese secondo le proprie esigenze.
Bisogna partire quindi da un obiettivo, vedere come questo sia raggiungibile attraverso l'alimentazione e privare o concedere in base alle necessità: tenendo la Nazione in questo stato di sofferenza per la mancanza di cibo, Mussolini voleva esasperarlo aizzarlo temprarlo renderlo astioso prepararlo in maniera propedeutica alle prossime avventure belliche. "Gli Italiani", diceva il Duce affacciato al balcone di piazza Venezia, "devono mangiare una volta sola al giorno, per conservare la rabbia in corpo". Sarebbe stato poi suo compito incanalare questa rabbia nei binari che desiderava, in base ai suoi progetti.
La quantità di decisioni, di comunicati, di direttive che il capo del Fascismo emanò riguardanti l'alimentazione è sorprendente, a conferma dell'importanza che assunse questo tema nella sua politica; retorica e propaganda furono i mezzi con cui convinse il popolo a mangiare in modo fascista.
Un passo indietro
Per affrontare in modo corretto l'alimentazione che si sviluppa nel secondo conflitto mondiale bisogna prendere in considerazione gli avvenimenti antecedenti che hanno caratterizzato questo tema.
Nel 1936 inizia un lungo periodi di stenti alimentari che culminerà nel periodo preso in considerazione, l'11 ottobre dell'anno precedente la Società delle Nazioni decise di punire l'Italia per avere invaso l'Etiopia: 56 paesi si sarebbero dovuti rifiutare di rifornire il paese del Duce
Il 18 novembre del 1935 il Regno d'Italia fu colpito dalle sanzioni economiche, approvate da 50 stati appartenenti alla Società delle Nazioni, con il solo voto contrario dell'Italia e l'astensione di Austria, Ungheria e Albania. Le sanzioni risultarono inefficaci perché numerosi paesi, pur avendo votato la loro imposizione, continuarono a mantenere buoni rapporti con l'Italia, rifornendola di materie prime.
In teoria questi provvedimenti vietarono l'esportazione all'estero di prodotti italiani e all'Italia di importare materiali utili per la causa bellica. I divieti di acquistare materie di vitale importanza, come ad esempio il petrolio e il carbone da Gran Bretagna e Francia potevano essere facilmente aggirati ottenendo adeguati rifornimenti dagli Stati Uniti d'America e dalla Germania nazista: stati che non facevano parte della Società delle Nazioni.
Le effettive conseguenze di questo provvedimento furono esigue se non fosse per il fatto che Il Duce stigmatizzò questo evento, come un grave affronto al suo Paese, un torto nei confronti suoi e della sua Nazione. A questo era necessario reagire in modo drastico. Così parlò Mussolini il 23 marzo del 1936: "Camerati, solenni sono le circostanze nelle quali l'Assemblea delle Corporazioni si riunisce, una seconda volta, su questo colle che riempì del suo nome il mondo: siamo in tempo di guerra, cioè nel tempo più duro e più impegnativo nella vita di un popolo. Un altro evento accresce la solennità e la gravità di quest'ora: l'assedio che cinquantadue paesi decisero contro l'Italia; che alcuni, dopo aver votato, non applicarono obbedendo alla voce delle loro coscienze; che tre Stati: Austria, Ungheria, Albania respinsero, poiché, oltre i doveri dell'amicizia, ripugnò loro l'onta del procedimento che metteva sullo stesso piano l'Italia madre di civiltà, e un miscuglio di razze autenticamente e irrimediabilmente barbare, quale l'Abissinia.
Nel quinto mese dell'assedio che rimarrà nella storia d'Europa come un marchio d'infamia, così come gli aiuti materiali e morali forniti all'Abissinia vi rimarranno come una pagina di disonore, l'Italia non solo non è piegata, ma è in grado di ripetere che l'assedio non la piegherà mai. Solo una ignoranza opaca poteva pensare il contrario.[...]
L'assedio economico che è stato decretato per la prima volta contro l'Italia perché si è contato, secondo una frase pronunziata nella riunione locarniana di Parigi del 10 marzo, sulla «modestia del nostro potenziale industriale», ha sollevato una serie numerosa di problemi, che tutti si riassumono in questa proposizione: l'autonomia politica, cioè la possibilità di una politica estera indipendente, non si può più concepire senza una correlativa capacità di autonomia economica. Ecco la lezione che nessuno di noi dimenticherà! Coloro i quali pensano che finito l'assedio si ritornerà alla situazione del 17 novembre, s'ingannano. Il 18 novembre 1935 è ormai una data che segna l'inizio di una nuova fase della storia italiana. Il 18 novembre reca in sé qualche cosa di definitivo, vorrei dire di irreparabile. La nuova fase della storia italiana sarà dominata da questo postulato: realizzare nel più breve termine possibile il massimo possibile di autonomia nella vita economica della Nazione. Nessuna Nazione del mondo può realizzare sul proprio territorio l'ideale dell'autonomia economica in senso assoluto, cioè al 100 per 100, e se anche lo potesse, non sarebbe probabilmente utile. Ma ogni Nazione cerca di liberarsi nella misura più larga dalle servitù economiche straniere.[...]"
Fu così che l'Italia si preparò ad un cambiamento radicale: l'autarchia. Dal greco "autarkeia" significa letteralmente "bastare a se stesso" e fu proprio questo il compito che attendeva il nostro paese. Dal 1936 non ci sarebbero più state importazioni od esportazioni ma un solo unico sistema nazionale all'interno del quale bisognava trovare tutto il necessario per sopravvivere. Fu solo la realizzazione di un progetto sul quale Mussolini stava lavorando dai primi anni del suo governo, come testimonia la "battaglia del grano" del 1925 il cui obiettivo era quello di raggiungere la completa autosufficienza dall'estero di questo importante alimento.
Una decisione, quella dell'autarchia, drastica che coinvolse l'economia italiana in qualsiasi ambito, non possono più essere importate gomma o acciaio, rame o petrolio. Ne nascono rimedi improvvisati: per sopperire alla mancanza di metallo si tolsero cancellate e ringhiere, si iniziò a rastrellare ferro rame e bronzo tra i cittadini, si giunse al sacrificio della fede nuziale. Si inventarono nuovi materiali per aggirare le carenze, nuovi tessuti, si sostituì l'alcol al petrolio per far muovere le auto, i camion iniziarono ad essere alimentati con la carbonella.
L'autarchia in cucina
Le conseguenze dell'autarchia si ritorsero anche sull'alimentazione, anche qui bisognava produrre quanto necessario all'interno del Paese, sopperire alle carenze con metodi ingegnosi; stando sempre attenti ad evitare sovrapproduzioni, le quali avrebbero causato ingenti perdite per lo Stato in quanto impossibili da esportare. Per risolvere questo problema, gli eccessi vennero utilizzati ingegnosamente per rimediare ad alcune mancanze per esempio con l'olio d'oliva non esportato si confezionavano saponette per il bagno, oppure con la caseina del latte in esubero si creava una specie di lana, il Lanital. Si ricavava combustibile dal succo d'uva trasformato in alcol, dalla melassa delle barbabietole o dal riso.
Sicuramente, questo degli eccessi fu un problema marginale rispetto a quello delle carenze causate dalla scelte economica di Mussolini, altrettanto certo è che non persistette a lungo in quanto presto molte industrie e aziende che lavoravano prodotti alimentari cambiarono la loro fabbricazione incentrandosi su materiale bellico.
La vera conseguenza negativa fu quindi quella della mancanza di alimenti d' importazione e questo, per voler affrontare la situazione da un punto di vista positivo, migliorò il già allenato genio italiano nell'arte di arrangiarsi, evidenziando ancora meglio una caratteristica nazionale quasi genetica.
Niente più ketchup americano ma salsa Rubra, non più caffè-caffè(era usuale raddoppiare il nome quando si trattava dell'autentico alimento) ma caffè di cicoria o d'orzo. Non fu neanche più accettata la terminologia straniera, basta con le omelette queste dovranno essere chiamate frittate avvolte, e lo stesso varrà per le consommé che diventeranno semplicemente dei brodi ristretti e nei menu, anzi no, nella lista delle vivande, il roast-beef sarà riportato come lombo di bue. Tentativo questo di esaltare la cucina italiana, che non aveva necessità di attingere dall'estero in quanto autarchica, in quanto bisognosa di esaltare i prodotti delle proprie industrie partendo dal lessico. Basta dado da quel momento la minestra si cucinerà solo con "Ital-dado".
Direttive dall'alto
Fu proprio il Duce in prima persona ad indicare la via da seguire, ad indicare i metodi adatti per nutrirsi; lo fece per tenere sotto controllo il popolo dopo averlo convinto che i sacrifici da compiere fossero mirati al benessere della Nazione
Si susseguirono perciò direttive e comunicati che suggerirono i modi corretti per mangiare, cosa mangiare e cosa dare da mangiare ai propri figli per fare in modo che crescano come veri fascisti, fedeli alla Patria e pronti per aiutarla.
E quindi furono ossessivi e ricorrenti gli slogan e i manifesti che avevano l'intento di disciplinare gli italiani a riguardo: colui che si sazia a dovere divenne un delinquente che attenta la nazione. Fu questo il significato della frase "Se tu mangi troppo derubi la patria!" riportata a fianco di una rappresentazione raffigurante un soldato che ponendo la mano sulla spalla del cittadino intento a consumare un pasto luculliano, lo ammonisce ricordandogli che coloro che non erano al fronte erano tenuti ad un' alimentazione consona per permettere il nutrimento dei propri militari. Manifesti come questi affissi in tutte le strade, slogan che invitavano a non eccedere nel cibo venivano ripetuti alle radio: "L'appetito è il miglior condimento" o "Ne uccide più la gola che la spada" erano frasi che riecheggiavano nella mente del popolo e celavano la vera volontà del regime di avere persone toniche e aitanti pronte per essere arruolate. Più esplicitamente "Magro è bello!" o "Gli obesi sono infelici!" indicavano il mezzo per raggiungere gli obiettivi prefissati.
Una propaganda incessante che rese l'alimentazione realmente un affare di Stato, le direttive non furono mai fine a se stesse o al benessere del popolo, ma mirate al bene dello Stato, alle esigenze Fasciste e alla risoluzione dei problemi comportati dalle scelte economiche di Mussolini.
Il regime consigliò vivacemente di allevare polli e conigli anche in città, la carne importata era solo un lontano ricordo, e esortò di conservare le ossa per bollirle e saponificarle in parallelepipedi da usare per il bucato. Fu così che venne sponsorizzato il pesce, incalzato da affermazioni d'emeriti professori specialisti: "La mancanza di iodio fa venire il gozzo, guardate nei paesi montani...","Il consumo di pesce sviluppa l'intelligenza".
Il Duce in primis sosteneva che non ci fosse prodotto più "autarchico" in una Nazione che possedeva i quattro più stupendi mari del mondo, il consumo del pescato cresce ma non decolla in concezioni legate a stereotipi storici, le cui origini vanno ricercate nella cultura alimentare barbara e medievale nella quale veniva considerato come l'alimento per chi non riusciva a procurarsi la carne cacciando, quasi una vergogna per chi se ne nutriva.
Il motivo dell'aumento del consumo, seppur ridotto, dei prodotti ittici è da ricercare nella loro convenienza: i prezzi erano esigui, nelle zone costiere il costo di un chilo di pesce non superava quello di un etto di pane, nelle zone centrali d'Italia in qualsiasi caso costava 18 volte meno della carne. Un esempio che riporta efficacemente i mezzi del Fascismo per gestire l'alimentazione, alzando e abbassando i prezzi fu in grado di decidere cosa il popolo poteva e doveva mangiare.
Metodo analogo fu utilizzato per screditare il consumo della pasta, la produzione di frumento scarseggiava, sintomatica fu già nel 1925 la battaglia del grano, l'autarchia e i primi venti di guerra non migliorarono la situazione. Questa volta Mussolini si servì dell'aiuto del futurista Filippo Tommaso Marinetti che nel suo " Manifesto della cucina futurista" accusò spaghetti e maccheroni di uccidere l'animo e di asciugare le tasche degli Italiani. Ciò che si celava dietro a questa propaganda, non fu un odio innato verso la pasta ma un'esigenza di diminuire importazioni di grano e soprattutto di dare vigore all'industria italiana del riso. Venne fondato nel 1931 l' Ente Nazionale Risi con il compito di migliorare la distribuzione e diffonderne il consumo tramite pubblicazioni e opuscoli. Foto di neonati che mangiano il riso per crescere prima o del Duce immortalato mentre lo trebbia in prima persona iniziano a circolare nel Paese, accompagnati da slogan che ribadissero l'importanza che aveva per l'economia nazionale il consumo del frutto del lavoro delle mondine.
Si mobilitò persino l'arcivescovo di Imola per convincere la Nazione: "Come vecchio missionario dell'Indostan, confesso che, dopo Dio, debbo la vita a questo cibo prezioso." Aggiunse poi: "Da noi italiani il riso non è apprezzato abbastanza. Ben preparato non solo é un piatto gustoso, ma anche conveniente alla salute". Dalla religione alla leggenda, tutto era utile per la causa del riso, cominciarono a circolare storielle, attestate persino da giornali come "La Domenica del Corriere" , su saggi cinesi che raggiunsero i duecento anni di età cibandosi solo di riso e di erbe,
Tutto era utile alla politica del riso intrapresa da Mussolini che, tra l'altro, comportò una drastica diminuzione del prezzo seguita da un rincaro della pasta, ma i risultati furono modesti e si registrò una decisa crescita soltanto durante gli anni centrali della guerra.
Sui giornali comparirono risposte inneggianti all'alimento più amato dagli italiani definendolo "L'ideale vivanda dei combattenti", nelle piazze le donne scesero a protestare, nei mercati si lottava per avere un chilo di pasta e solo nel caso non la si trovasse, solo a quel punto ci si accontentava del riso tanto caro alla patria.
Il "Sacro pane"
Gli sforzi della propaganda fascista si concentrarono intensamente sul pane, fecero in modo che questo fosse onorato, come se fosse un oggetto di culto, come se fosse sacro.
Si proclamarono giornate di "Celebrazione del Pane" fin dai primi anni del regime e si continuò durante la guerra a recitare una sorta di "preghiera" al fine di esaltare l'alimento base dell'alimentazione : "Italiani amate il pane/ cuore della casa, profumo della mensa, gioia del focolare/ rispettate il pane, sudore della fronte, orgoglio del lavoro, poema di sacrificio/ onorate il pane gloria dei campi, fragranza della terra, festa della vita/ non sciupate il pane, ricchezza della patria, il più soave dono di Dio, il più santo premio alla fatica umana.
Ad una vera e propria religione del pane, furono catechizzati i bambini fin dai primi anni di scuola, istruiti gli adulti tramite i soliti manifesti che invitavano a non sciupare il prodotto delle nostre terre con immagini ispirate alla liturgia cristiana con la divisione di una pagnotta, furono ammoniti i genitori a dare il buon esempio ai propri figli non buttando via neanche le briciole. Queste ultime furono elevate a simbolo quasi mistico del risparmio: non solo s'insistette sul giusto rispetto del pane ma durante il periodo di guerra anche sulla valorizzazione del cascame, dello scarto, un comportamento che ben si adeguava alla morale patriottica suggerendo, anzi imponendo, alle modeste condizioni di tante famiglie italiane, lo strenuo risparmio di ogni minima cosa in questi giorni d'assoluta difficoltà.
Una religione che Mussolini aveva a cuore, le sue umili origini e le modeste condizioni economiche in cui crebbe lo avevano portato a soffrire la fame, a dare il giusto valore al pane e per questo si sentì in dovere di trasmettere questa ideologia a tutto il popolo con una politica incentrata sulla lotta allo spreco e alla valorizzazione degli alimenti modesti. Una politica, che condotta per una volta col cuore e non con la testa, trovò un valido appoggio nella religione cristiana e fu accolta con vigore ed entusiasmo dall'intero popolo, il quale comprese il valore di queste direttive e si impegnò realmente per rispettarle utilizzando il comune buon senso di cui era dotato.
E così si consigliava di usare le briciole per il pan grattato e di inzuppare quello vecchio nella minestra, nei libri di cucina e nei ricettari controllati dai funzionari fascisti, si invitava la brava massaia a calcolare il consumo giornaliero per evitare che fosse sprecato, si raccomandava di non giocare con il pane a tavola e guai a lasciarne vicino al piatto sbocconcellato.
La donna fascista
Una politica alimentare quella fascista incentrata sulla propaganda, idee e concetti trasmessi in modo ossessivo. Oggetto di ciò furono le donne, coloro che avevano da sempre posto piatti prelibati sulle tavole delle proprie case, proprio loro ora dovevano essere istruite e plagiate secondo la mentalità fascista, proprio a loro erano indirizzate riviste e frasi ad effetto in modo da renderle strumento utile alla causa.
Le riviste femminili si moltiplicarono già dai primi anni di regime fascista: "l'Almanacco della cucina" ,"La cucina Italiana", "Anna Bella"; ma fu alle soglie del conflitto che si intensificarono di consigli e di nozioni importanti per il decoro domestico, per salvaguardare un modo di cucinare secondo i canoni imposti dalle direttive. Si raccomandò una dieta varia, ma non eccessiva; le cuoche vennero invitate ad essere parsimoniose con qualsiasi alimento, a consumare più pesce che carne, più riso che pasta, vennero proposti consigli per sopperire alle mancanze, ma in primis venne esaltato il ruolo della donna il cui compito é quello di combattere la sua battaglia per l'alimentazione della famiglia, in modo da portare il proprio sassolino alla costruzione granitica della resistenza interna. I mariti erano chiamati al fronte e i figli avevano fame, le madri di famiglia furono invitate da periodici e manuali di cucina a prendere in mano la situazione. In questo modo Lunella De Seta nella prefazione di "La cucina del tempo di guerra" del 1942 responsabilizzò la donna: "In cucina, infatti, nei momenti attuali, troviamo il nostro più grosso problema da risolvere.
Come al mercato, nel far la spesa, dobbiamo destreggiarci ora con accorgimenti particolarissimi, previdenze, confronti e misure, prudenza d'equilibrio tra questo e quello che é possibile acquistare. Penoso, assai penoso tutto ciò, siamo ben d'accordo! Ma bisogna riflettere che non è nulla di fronte agli orrori veri e propri della guerra [...].Dobbiamo avere piena coscienza che col nostro scervellarci per ammannire il pranzo e la cena, con la nostra pazienza e con il nostro sacrificio per cavarcela fra le tante difficoltà di rifornimento partecipiamo attivamente alla resistenza interna della Nazione e, pure stando in casa, lottiamo anche noi per conseguire la Vittoria. Aguzziamo l'ingegno, dunque, quanto più sia possibile, per riuscire ad assolvere degnamente i nostri specifici compiti e compiere tutto il nostro dovere femminile."
Fu loro compito quindi fare le file ai mercati e ore ai fornelli con quel poco che avevano con quel poco che il regime permetteva di avere, cucinavano mettendo in pratica ciò che i manuali di cucina o le riviste insegnavano secondo i dettami fascisti, fu in questo modo che il regime creò la donna diligente e attiva di cui necessitava per superare i momenti di carestia e di difficoltà.
Il tesseramento
Il compito assegnato alle madri di famiglia divenne più arduo dall'inizio del 1940, momento in cui Mussolini decise di servirsi di un ulteriore stratagemma per controllare l'alimentazione del popolo, una scelta voluta e dovuta: l'introduzione delle tessere annonarie. Schede strettamente personali contenenti un certo numero di "bollini" prestampati. Ogni tessera era valida per un ristretto gruppo di generi alimentari, ogni bollino aveva un determinato valore, fissato di volta in volta dall'Annona, secondo quanto arrivava nei suoi magazzini e veniva distribuito presso i singoli commercianti a cui il cittadino doveva far capo.
Sebbene il razionamento dei generi alimentari era già stato avviato negli anni precedenti aveva come oggetto delle restrizioni solo determinati prodotti come la carne e il caffè.
A queste prime direttive si accompagnò l'introduzione della carta annonaria individuale, di colore diverso a seconda della fascia di età del consumatore, composta di una parte fissa, contenente i dati dell'intestatario, e di una parte staccabile costituita da 9 cedole e da buoni di prelevamento. Entro la fine di gennaio del 1940, il Ministero delle Corporazioni ultimò la distribuzione delle carte: ben 45 milioni. Misura prudenziale, cautelare e dunque per il momento formale scrisse la stampa italiana. In realtà, con l'entrata in guerra, questa misura si sarebbe trasformata in effettiva e l'uso della tessera annonaria si sarebbe allargato sempre più, a fronte dell'estendersi del numero dei generi razionati: grassi alimentari, pasta, riso e, a partire dal 1° ottobre 1941 anche il pane. L'inviso provvedimento di restrizione dell'alimento principe della dieta degli italiani fissava una razione giornaliera pro capite di 200 grammi. che poi si ridusse ulteriormente fino a raggiungere i 100 grammi e, per ovviare alla scarsa disponibilità di frumento, si dispose l'utilizzo di miscela di patate per la panificazione .
Cresceva il malcontento della popolazione di fronte all'aumento dei generi tesserati, alla pessima qualità e all'irregolare distribuzione di essi, all'incontrollabile ascesa dei prezzi, al dilagante fenomeno del mercato nero, contro cui a nulla valse l'emanazione di norme penali fortemente repressive.
Il tutto venne regolato il 6 maggio 1940 quando l'emissione della legge sancì le modalità di approvvigionamento e le pene per chi commettesse reato: si variava da 50 a 1000 lire di ammenda per i consumatori e da 500 a 5000 lire per i commercianti.
Il tesseramento si fece sempre più restrittivo diminuendo le quantità delle razioni e aumentando i prodotti soggetti a restrizioni, tuttavia Mussolini procedette imperterrito sulla strada intrapresa e al Consiglio dei Ministri del 27 settembre 1941 dichiarò: "Nessuno s'illuda che la tessera annonaria venga abolita alla fine della guerra. Durerà finché esisterò io. Perché così i vari Agnelli e gli altri magnati dell'industria mangeranno come l'ultimo dei loro operai!" Parole che riecheggiarono tra il popolo, frasi mirate ad ottenere il consenso della gente comune. Mussolini sapeva bene che Agnelli e gli altri grandi imprenditori non avrebbero patito la fame come la maggior parte degli Italiani, che la tessera per loro sarebbe stata solo carta straccia, ma da ex-giornalista qual era fu abile e astuto nel dire ciò che tutti volevano sentire, a convincere il popolo che il sacrificio era comune a tutta l'Italia e lui stesso in questo modo si fece garante del fatto che i tempi che si stavano trascorrendo erano difficili per tutti, senza alcuna eccezione. Non era così ma era quello che volle far credere.
Analizziamo quindi i vari dettami a riguardo. Dopo le prime restrizioni del 1939 quando un comunicato della Camera vietò il consumo di caffè durante il mese di maggio seguito da una seconda restrizione che regolamentava la vendita di carne in determinati giorni della settimana, arrivarono i bollini dell'annona. Riguardarono inizialmente olio, burro, pasta, riso e zucchero. A pochi giorni dall'entrata in guerra dell'Italia fu razionato il sapone, una quantità di 200 grammi a testa al mese per lo Stato era più che sufficiente per l'igiene e nel corso dello stesso anno furono oggetto di divieti i krapfen, le brioches, e i biscotti in quanto tutti i biscottifici dovevano intensificare la produzione di gallette per i soldati. L'anno cruciale per i decreti sulle riduzioni alimentari fu il 1941: nel febbraio viene modificata la razione individuale di pasta con una diversificazione regione per regione, si proibì la vendita dei panettoni, ma soprattutto nell'autunno venne tesserato il pane. La razione fu di 200 grammi a testa. La fame percorse l'Italia e Mussolini si vide costretto nel marzo 1942 a rimediare concedendo un supplemento di pane alle gestanti, agli addetti ai lavori "pesantissimi" e a quelli "pesanti". I provvedimenti della Camera a riguardo si moltiplicarono, le quantità concesse variarono da mese in mese, il numero di prodotti soggetti a tesseramento crebbe a dismisura in modo confusionale, variando da regione a regione, da provincia a provincia.
Ciò che accomunava tutta la nazione era la fame e il deperimento, col procedere della guerra si registrano cali di peso impressionanti, il popolo stringeva le cinture fino all'ultimo buco quello chiamato "foro Mussolini".
A tavola con Mussolini
Anche il Duce fu dotato di tessera annonaria nell'estate del 1943 quando fu confinato sull'isola di Ponza , ma fino a quel momento la sua alimentazione fu controllata solo da ben altre restrizioni. Il capo del Fascismo soffrì fin dai primi anni della sua entrata in politica di un'ulcera allo stomaco che si aggravò con l'aumento dello stress e della tensione durante la guerra; questa malattia condizionò drasticamente il suo modo di mangiare, medici illustri e dottori di cui si servì per superare questo problema, lo convinsero a nutrirsi di frutta e latte, di cibi che non impegnassero troppo l'apparato digerente . Indigesti per il suo stomaco rimasero a lungo alimenti come la carne che mangiava raramente e sempre accompagnata da spezie che coprissero il sapore: Donna Rachele, moglie del Duce, proponeva spesso a tavola l'arrosto marinato ma insaporito con molta maggiorana per farlo apprezzare a suo marito che non lo mangiava volentieri.
Preferì sempre brodi leggeri, con un poco di riso o di pasta, insalate con l'aggiunta di frutta magari quella esotica, proveniente dalle sue colonie africane. Ananas, datteri, banane rappresentano un aspetto importante della cucina del periodo, perché rappresentarono l'asse ricco, dolce contrapposto a quello parco, semplice della cucina autarchica . Una moda, un modo di mangiare che caratterizzò le classi agiate italiane fino agli anni centrali della guerra quando i tempi furono difficili per tutti, o quasi. Ma fino a quel momento il Quattrova, prezioso testo di cucina per classi benestanti, proponeva crostini di caviale, crema di animelle, insalata con mele banane noci e uva, per dessert ananas e gelato allo champagne. Del fasto di pranzi regali o per colazioni ufficiali ce ne dà testimonianza anche una copia del menu proposto da Balbo al Duce durante la sua visita in Libia: il caviale molossol precedeva il fegato d'oca e il ristretto imperiale, spigola alla Mare nostrum con salsa maionese, capponi di Monza con carciofi all'indigena e piselli tripolini, bomba Faccetta Nera venivano accompagnati da vini esclusivamente italiani.
Tuttavia il capocuoco di Sua Maestà il Re nel proporre alcune ricette alle lettrici di "Cordelia" le assicurò che quella fascista fosse una cucina frugale, che il Re e la Regina fossero frugali nei pasti e allo stesso modo Mussolini. Mai furono servite più di tre portate alla tavola del Re o al Quirinale eccetto nei pranzi ufficiali, solo in questi casi erano concessi piatti prelibati e una quantità notevole di pietanze diverse.
D'altronde tre portate erano anche fin troppe per un uomo come il Duce, il quale sostenne che nessuno dovrebbe perdere più di dieci minuti al giorno a tavola. Le biografie incensatrici esaltavano le sue abitudini alimentari autodisciplinate: per colazione era sufficiente solo del latte, a pranzo che usava consumare a tarda ora pesce, bistecca o uova accompagnate da verdure bollite, e per cena latte e frutta. Una dieta che rispecchiava la sua concezione di alimentazione, priva di piaceri, soltanto un nutrirsi per sopravvivere, vissuta quasi come una cosa negativa, una vergogna, una debolezza. Raramente si trovarono foto propagandistiche del Capo del Fascismo seduto a pranzare, si dice fosse molto maleducato e poco incline al galateo , insomma un comportamento che rispecchia la sua politica alimentare rude e parca simbolo della nazione lavoratrice e indifferente ai piaceri del palato. Italiani frugali per intrinseca natura, che si accontentano di un pugno di riso e acqua.
Nulla di più falso come vedremo.
Secondo capitolo:
L'alimentazione popolare
Quando c’è la guerra, a due cose bisogna pensare prima di tutto: in primo luogo alle scarpe, in secondo luogo alla roba da mangiare; e non viceversa come ritiene il volgo: perché chi ha le scarpe può andare in giro a cercare da mangiare, mentre non vale l’inverso" così scrisse Primo Levi nel terzo capitolo del suo romanzo autobiografico "La tregua". Nulla meglio di queste parole rende l'idea delle condizioni in cui il popolo tentava di sopravvivere, la guerra fu combattuta sui fronti militari ma vissuta nelle case, nei paesi, nelle città dove le restrizioni fasciste e le difficoltà di rifornimento aggravarono una situazione già abbastanza critica alla quale il popolo fu in grado di reagire con grinta e vigore
Le cifre della fame
Nel 1942 il professor Luzzato Fegis dell'università di Trieste conduce un'inchiesta sull'alimentazione degli italiani dividendo in primis in tre classi di reddito le famiglie a) i poveri, coloro che hanno un reddito mensile inferiore a 400 lire per unità di consumo; b) i medi, che hanno un reddito mensile da 400 a 1000 lire per unità di consumo; c) i ricchi, che hanno più di mille lire per unità di consumo.
Secondo questa ricerca, nella primavera del1942 circa 2.500.000 famiglie soffrivano la fame, nel vero senso fisiologico della parola, e almeno altrettante avevano un vitto insufficiente, nel senso che in ogni famiglia ad almeno una persona mancava il necessario per sopravvivere. Da questo calcolo avverte Luzzato Fegis complessivamente circa 10 milioni di persone non riescono a nutrirsi a sufficienza, anzi vivono al di sotto del livello alimentare minimo. Coloro che stanno peggio in assoluto sono gli impiegati: lo stipendio medio non basta nemmeno a comperare il 70 per cento del vitto necessario alla famiglia. Nel caso non ci siano risparmi a cui mettere mano o preziosi da vendere è la fame.
Ma più che le cifre possono aiutare alcune testimonianze. Un medico di Roma avverte il pericoloso aumento delle malattie legate all'alimentazione: "Non ho statistiche ma è certo che un aumento della tisi della pubertà specie tra le bambine tra i tredici e i sedici anni".
Un'industriale emiliano fa un chiaro quadro delle condizioni dei suoi dipendenti: "Personalmente non posso lagnarmi. Ma gli operai della fabbrica usavano mangiare da 500 a 1000 grammi di pane al giorno e da 200 a 400 grammi di pasta. Perciò oggi la situazione è disastrosa. Fra gli operai ci sono diminuzioni di peso fino a 17 chilogrammi con evidente riduzione delle capacità lavorative. Il salario medio nel mio stabilimento è di lire 27; donne lire 20. In generale le persone ricchissime nonché proprietari e affittuari mangiano anche troppo bene. Tutti gli altri sono denutriti. Gli operai non comprano più nulla all'infuori del cibo".
Il salario di un operaio uomo, come la nostra testimonianza ci conferma, si aggirava tra le 100 e 120 lire a settimana mentre quello di un impiegato era più alto e poteva raggiungere le 700 lire mensili. Per sopravvivere l`alimentazione doveva necessariamente basarsi su cibi poveri come i fagioli, che costavano 1,50 lire al chilo durante il 1940; o il riso che pagato 1,60 lire al chilo. A guerra appena cominciata perciò una famiglia di modeste dimensioni riusciva a sedersi a tavola sia a pranzo che a cena con una spesa di circa un centinaio di lire a settimana, concedendosi anche in modo sporadico la carne. Fu a cavallo tra il 1941 e il 1942 che l`Italia cominciò a soffrire veramente la fame. Le rivelazioni dell'Istat registrano un'impennata dei prezzi tra il 1939 e il 1942: il costo della vita venne praticamente raddoppiato. Si attesta che dal 1942 al 1947 il tasso medio di inflazione fu del 99%, un livello impressionante che stravolse il mercato. Il grave problema fu che questa drastica impennata dei prezzi non fu accompagnata da un ridimensionamento dei salari i quali rimasero pressoché invariati. Si arrivò a pagare un pezzo di lardo 1000 lire guadagnando 100 lire a settimana.
Nel 1942 uno studio dell'Istituto d'igiene di Milano metteva in evidenza la conseguenza ovvia di questi eventi: il lavoratore medio italiano aveva un deficit alimentare che variava dalle 200 alle 300 calorie giornaliere e questa situazione era destinata ad aggravarsi negli anni successivi.
La tessera annonaria
Certo c'erano le tessere annonarie, ma cosa garantivano?
Elencare con certezza e precisione a cosa aveva diritto il popolo con questi certificati è molto ardua poiché le ordinanze erano in continuo aggiornamento e quindi variavano continuamente in base alle disponibilità dello Stato. Possiamo riportare alcuni esempi: nelle regioni settentrionali a nord dell'Emilia nel 1941 la tessera dava diritto a soli 600grammi di pasta a testa ogni mese più un chilo di riso e 400 grammi di polenta.
Tuttavia dal 1941 si moltiplicarono gli alimenti tesserati con numerose restrizioni e la situazione peggiora in modo drastico: a un operaio di Biella per il gennaio del 1943 sono stati dati 1200 grammi di pasta 8 chili di pane, 500 grammi di zucchero,100 grammi di lardo,120 grammi di burro,160 grammi di carne di maiale, 310 grammi tra salame e mortadella,140 grammi di formaggio, un chilo di patate, 2 uova, 500 grammi di legumi e altrettanti di fichi secchi. Non si arrivava alle 1000 calorie al giorno. Nel 1945 l'unica certezza garantita dai tagliandi furono 100 grammi di pane a testa ogni giorno.
Mancava tutto. Rimaneva la fame.
I rimedi: il mercato nero
Conseguenza del tesseramento e della disorganizzazione delle autorità fasciste nel distribuire i prodotti fu la nascita del cosiddetto "mercato nero", una rete clandestina di scambi che fin dai primi anni di guerra tentò di sopperire alle mancanze degli alimenti razionati. Esso era talvolta alimentato dalla complicità di funzionari, commercianti e produttori, che aggiravano il sistema di stoccaggio degli ammassi pubblici creando un mercato parallelo svincolato dove le merci, di qualità migliore rispetto a quelle razionate, raggiungevano prezzi estremamente alti.
La borsa nera vera e propria iniziò a svilupparsi nell'inverno tra il 1941 e il 1942 come un sistema illegale, rischioso ma al quale si fu obbligati a ricorrere se si voleva sopravvivere. Inizialmente fu un rapporto che si stabilì e si rafforzò con i fornitori abituali come i fornai, i macellai o i salumieri, i quali conoscendo le necessità dei propri clienti provvedevano a rifornirli di un qualcosa in più, oltre alla razione consentita. Si instaurò un rapporto di complicità fornitore\ cliente. Il primo faceva spesso credito, il secondo non discuteva mai sul prezzo: è la solidarietà durante questi periodi difficili, il popolo lotta e resiste unito.
La politica di repressione sulla borsa nera fu blanda e inefficace, come se gli stessi funzionari fascisti avessero capito che ricorrere a questo rimedio fosse l’unico metodo per non patire la fame. Come se si trattasse di una forma di necessaria integrazione .
Il mercato nero scese in piazza. Presto non fu più necessario trafficare tutto di nascosto: bancarelle o anche semplici coperte con esposti alimenti di qualunque tipo si trovavano in tutte le cittadine, sempre affollate da donne alla ricerca di un pezzo di carne o di qualche goccia d’olio e disposte a pagare prezzi vertiginosi per salvare dalla fame i propri figli.
E' così che si arrivò a pagare nel 1943 il pane 8,50 lire al chilo rispetto alle 1,80 lire del 1938, la pasta, che costava 3 lire al chilogrammo, nel 1943 salì a 9 Lire ". I prezzi al mercato nero continuano a salire vertiginosamente" riferisce il segretario dell'unione fascista dei lavoratori all'industria di Vercelli nel 1943: "il burro si paga 160 lire al chilo anziché 27; il lardo 100 lire al chilo contro le 17 del prezzo ufficiale, la farina gialla 12 lire invece di 1,80 e il riso 25 lire anziché 2,50.
Prima della guerra una casa per 4 persone si poteva acquistare con 70 mila lire, ora un fiasco d'olio ne costava 2 mila.
Quello che c'era si comprava e lo si comprava a questi prezzi. I più agiati potevano permetterselo, anche se con certe limitazioni, per gli altri era la fame. Infatti, questo mercato "illecito-lecito" perse presto la solidarietà che lo aveva caratterizzato alla nascita, lo stesso negoziante che capiva e cercava di sopperire alla mancanza dei clienti cambiò atteggiamento: i canali che lo rifornirono divennero sempre meno regolari, egli si ritrovò costretto a selezionare tra i clienti. Scelse di sacrificare coloro che non avrebbero potuto permettersi le cifre richieste. E' così che il sistema rivelò tutti i suoi limiti: i prodotti raggiungono costi inaccettabili per la maggior parte del popolo e man mano che vengono razionati col tesseramento si fecero sempre più rari e costosi. Dopo i primi anni del conflitto cambiò la clientela che si affolla nelle piazze, in un primo momento costituita soprattutto da gente povera, adesso sono i benestanti che avevano evitato fino ad ora questo rimedio per timore delle ripercussioni legali nelle quali avrebbero potuto incorrere, a frequentare le bancarelle per comprare ciò che solo loro si potevano permettere. Il rischio di multe o sanzioni diventò quasi nullo: gli stessi funzionari dello Stato fascista iniziarono a rifornire i mercati che in questo modo diventano ufficiali.
Alla ricerca del cibo
Il cibo non c'è, o meglio non c'è per tutti, e sta al singolo sopperire a questa mancanza: la ricerca degli alimenti divenne la principale attività di molte donne, era loro compito trovare da mangiare per i vecchi, i bambini, gli uomini che non sono ancora partiti per il fronte.
Code infinite di donne si trovavano nei mercati dove si potevano ritirare le razioni garantite dal Fascismo, ore di attesa per prendere cipolle, peperoni o semplicemente un pezzo di pane. Ore di attesa che potevano rivelarsi inutili, poiché era frequente che a traguardo raggiunto qualsiasi genere alimentare fosse esaurito. Ci si riuniva per le strade, comitive di ragazze, donne, anziane vagavano per le città, rovistavano tra i rifiuti, si precipitavano sul primo oggetto che avesse sembianze commestibili; si cercavano frutta, pere e mele, qualche fagiolo; si raccoglieva del grano per macinarlo e aggiungerlo alla minestra. Ci si accontentava dell'erba, la si cuoceva e la si mangiava senza sale, senza condimento, solo per sopravvivere.
Con l'arrivo del 1944 la tessera annonaria perse qualsiasi valore, le provviste erano insufficienti e si esaurivano in un arco di tempo sempre inferiore. Il confine tra legalità e illegalità, tra protesta antifascista e necessità di dare soddisfazione ai bisogni più elementari si faceva sempre più sottile.
Gli orti di guerra
Un'altra iniziativa, forse l'unica legale in quanto incentivata direttamente dalle amministrazioni cittadine fasciste, furono gli "orti di guerra": ogni spazio disponibile, giardini, balconi, terrazze, aiuole o persino vasche da bagno venivano trasformati in piccole coltivazioni. Non fu una proposta originale, dato che era già stata sperimentata durante il primo conflitto mondiale, ma ebbe come risultato un leggero incremento delle disponibilità agricole. Minuscoli giardinetti condominiali di città colmi di verdure protette da fitte siepi o di cittadini al lavoro armati di zappa si potevano scovare nei posti più impensabili.
Nelle città più grandi, perciò venivano adibite a coltivazione di grano o di piccoli ortaggi tutte le zone possibili, queste venivano gestite in comunità spesso anche con l'aiuto dei giovani delle organizzazioni del Partito Nazionale Fascista. Si producevano patate mignon, pomodori anemici, verze durante il periodo invernale; rimedi che rispecchiavano in modo lampante l'economia alimentare venutasi a formare durante gli anni del conflitto, un’economia di sopravvivenza, dove ciò che veniva prodotto non bastava nemmeno per sfamarsi. Questi orti nemmeno dotati di particolari recinzioni, ma affidati al rispetto dei cittadini, rappresentavano il concetto dell'autarchia voluta dal fascismo esteso ad ogni singola città, ad ogni singolo quartiere.
L'importanza della campagna
Gli orti di guerra non erano necessari invece nelle campagne, dove la situazione alimentare era nettamente migliore: la terra da coltivare era abbondante e i più fortunati potevano anche permettersi di allevare maiali o pollame. Nelle zone periferiche quindi si potevano trovare vigneti e uliveti e, tra i filari, venivano piantati fagioli, ceci, fave, patate, grano, aglio e cipolle. Chi possedeva un terreno da coltivare era in grado di nutrirsi a sufficienza, al contrario chi non aveva questa fortuna ed era bracciante agricolo nei terreni altrui, viveva di stenti ed era retribuito con parte del raccolto.
Si registrano spostamenti di famiglie benestanti dalle città a zone limitrofe, chi aveva una seconda dimora lontano dalla città e dai bombardamenti, magari con un piccolo appezzamento di terreno dove coltivare qualche cavolo e qualche patata, non esitava a trasferirsi.
Coloro che invece non potevano permettersi un’abitazione nelle verdi zone periferiche, si affidavano ad un parente, ad un cugino, ad un amico per procurarsi della passata di pomodoro, delle verdure sott'olio o sott'aceto, del prosciutto o delle marmellate, prodotti a lunga conservazione che permettessero di superare l'inverno.
E' così che un legame con la campagna diventava utile, necessario, talvolta vitale.
Fin dai primi anni di guerra avvenne un traffico pendolare quotidiano, in Piemonte veniva chiamato "la raff", caratterizzato da operai e operaie che in bicicletta scendevano nelle valli alla ricerca, ancora una volta, di lardo, di uova, di patate o di granoturco. I maggiori spostamenti si registravano nei giorni festivi, il sabato e la domenica, ma con l'aggravarsi della situazione non si esiterà ad andare in periferia anche nei giorni feriali. Sono per la maggior parte donne le protagoniste di questi traffici illeciti, in quanto non possono essere deferite al Tribunale di Guerra, le quali armate di biciclette percorrono trenta, quaranta, anche cinquanta chilometri per rimediare qualche alimento per sfamare la famiglia. Abbiamo detto che molte persone riuscivano ad ottenere i prodotti della campagna grazie a conoscenze, ad amici, a parenti, tuttavia questo legame con il proseguire della guerra venne a mancare. In questi casi si intavolavano, una volta raggiunte le cascine, trattative improvvisate con i contadini che proponevano le eccedenze dei loro terreni a prezzi tutt'altro che abbordabili, ma di gran lunga inferiori al mercato nero cittadino.
Un ultimo aspetto di questa "raff" che bisogna prendere e tenere in considerazione sono i rischi che questa comporta: postazioni della polizia che fermano coloro che salgono dalla pianura, erano frequenti e i provvedimenti al reato micidiali. Le multe variavano dalle 200 lire per qualche chilo di riso, alle 500 lire(25 giornate di lavoro per un operaio) per tre chili di granoturco, inoltre venivano sequestrate le merci di contrabbando e si rischiava di incorrere nella denuncia all'autorità giudiziaria. Certo erano bei rischi, ma si formò una sorta di audacia in questo andare e tornare dalla campagna, in questo costante rischio, in questa incessante sfida alla legge per sfamarsi, che rendeva forti e coraggiose le persone. Non era consentito avere paura, l'unica cosa che si temeva era la fame. Come accadde con la borsa nera, negli ultimi anni del conflitto i controlli da parte della Polizia di Strada divennero sempre più blandi, nonostante le rigide direttive che aveva dettato il Duce, le norme non vennero più applicate alla lettera, le denunce registrate diminuirono in modo esponenziale, le multe spesso non vennero applicate.
Era sufficiente un chilo di grano, qualche pomodoro, o un pezzo di formaggio offerto come dazio per portare a casa qualche alimento dalla campagna ed evitare sanzioni. Mediazioni tra funzionari fascisti e popolo, antipodi che si vengono in contro in qualche maniera per rimediare alla fame, si alleano per combattere questa situazione di degrado nonostante gli ordini dall'alto, sono segnali di una nazione allo sbando che si rende unita contro il più grande nemico: la carestia.
Le malattie
Nonostante le possibilità offerte dai traffici con la campagna o dal mercato nero, non si riuscì per molto tempo ad avere un’alimentazione completa e soprattutto varia, molto difficile consumare regolarmente alcuni cibi fondamentali per il benessere e per la salute della persona. In primis a mancare furono le proteine animali, coloro che se lo potevano permettere riuscivano a rimediare qualche pezzo di lardo o qualche salame, ma in modo sporadico e altalenante in base alle disponibilità del mercato nero. Per i più poveri la carne rimaneva un miraggio, un alimento per ricchi, un lusso che non si potevano concedere.
La deficienza di determinati alimenti comportò gravi disfunzioni fisiche; deperimento diarrea demenza e dermatiti, in una sola parola la pellagra: una malattia dovuta alla mancanza di nicotinammide, sostanza presente negli alimenti di origine animale e assente nel grano, alimento base del popolo. Una piaga che dall'Italia unita affliggeva la nazione, ritornò più forte che mai in questa fase della storia colpendo i ceti inferiori, ma non solo; un male che causò migliaia e migliaia di vittime per la maggior parte nel nord del nostro paese poiché favorita da un'alimentazione a base di grano polenta e mais.
La pellagra fu solo una delle malattie legate al modo di cibarsi, forse la più diffusa, tuttavia non furono di entità trascurabili gli individui afflitti da tifo, male causato principalmente dalle pessime condizioni igieniche e favorito dalle carestie del periodo. Si registrò addirittura a Civitavecchia dopo il bombardamento dell’8 giugno 1944 che l’80 per cento dei cittadini era coinvolta nelle epidemie di tifo e di scabbia; quest'ultimo è un batterio che si trova nell'acqua il quale causa prurito ed eruzioni cutanee ed affliggerà per la sua rapida diffusione gran parte degli italiani. Una diffusione rapida perché causata sia tramite contagio sia tramite l'assimilazione di queste acque infette in modo diretto o indiretto come nel lavaggio degli ortaggi.
Quello di Civitavecchia è solo un esempio, un dato che rispecchia la situazione di degrado che si riscontrò nell'intera nazione, evidenzia le tragiche conseguenze delle carestie che affliggono il popolo.
Queste analizzate, la pellagra il tifo e la scabbia furono le principali malattie legate all'alimentazione, cibi poveri e sempre ripetitivi che in collaborazione con pessime condizioni igieniche comportarono questi gravi problemi di salute che in molti casi portarono alla morte.
Non era sufficiente tentare di nutrirsi con il cibo che c'era a disposizione, ma sarebbe stato necessario mantenere una dieta varia ed abbondante per evitare di ammalarsi. Naturalmente questo passò in secondo piano in una situazione, dove cibarsi, era un'impresa ardua, dove non si poteva fare una selezione tra gli alimenti, dove quello che c'era, se c'era, si mangiava.
Una cucina ricca... d’idee
Quello che c'era, o meglio quello che si trovava spesso non era mangiabile e soprattutto quasi mai era appetibile, trasformare in gustosi i cibi poveri, renderli originali era compito ancora una volta delle donne, le quali dopo ore di ricerca in coda ai mercati, per i campi o girovagando per la città, assemblavano tutto ciò che avevano trovato nel tentativo di servire un piatto commestibile in modo da sfamare mariti e figli. Si ingegnavano per sopperire ad alcune mancanze basilari, sostituendo certi prodotti con altri più facilmente reperibili, provarono a offrire ai loro bambini un alimentazione più varia possibile, si impegnarono ad arricchire i piatti razionando e gestendo al meglio il poco che avevano. Ne nasce un modo di cucinare innovativo quanto curioso, efficace e proprio per questo duraturo nel tempo.
"Se oggi l'uomo non mangia più l'uomo, è unicamente perché la cucina ha fatto dei progressi!" Scrisse Daniel Pennac. Sorprendente come questi progressi si facciano soprattutto in periodi di carestia, il parere comune porterebbe a pensare che durante la Seconda guerra mondiale in Italia si mangiassero sempre gli stessi alimenti e ciò, in effetti, è innegabile, ma non ci si deve fermare a questo primo passaggio: è essenziale analizzare come in tavola si servissero sempre piatti originali, cucinati in modo diverso, serviti in modo originale. E' qui che riscontriamo il più grande progresso di questi periodi, l'abilità di riproporre la stessa materia prima in svariati e molteplici modi. Fino ai primi anni del novecento per cucinare un determinato alimento si disponeva di due o tre modalità che si ripetevano in modo continuo, non si sentiva la necessità di trovare nuovi modi di preparare lo stesso alimento poiché la dieta italiana è sempre stata molto varia e ricca di soluzioni a livello di prodotti. E' invece quando iniziò a mancare la varietà degli elementi base che si cominciò a riflettere su nuovi espedienti per variare l'alimentazione, si ebbero ricettari ricchi di alternative per cucinare lo stesso cibo, brodi o creme di verdura vengono rivisitate in infinite maniere. Petronilla, autrice del più illustre manuale di cucina durante il periodo di guerra pubblicato nel 1942, ci propone più di 40 modi per preparare una minestra e tutti modificabili ulteriormente a proprio piacimento e in base alla disponibilità dei prodotti. Ed è proprio questo il punto principale, la causa del progresso, lo stimolo ad ingegnarsi: protagoniste di tutto ciò furono le madri che riuscirono ad imbandire tavoli con quello che avevano, le donne capaci di miracoli servendo ogni giorno cose nuove o almeno che sembravano tali.
L'esperienza di ogni giorno delle difficoltà, spesso invero dure, per preparare i pasti quotidiani, dimostra che anche a loro la guerra richiese un nascosto e umile contributo personale. Modesta fu la loro battaglia: fu quella dei fornelli! Una guerra che cominciava nelle strade, nei mercati e nelle campagne e terminava solo quando sulla tavola c'era abbastanza cibo per sfamare tutti i commensali.
Esaltata e responsabilizzata la figura della donna, essenziale per la famiglia, indispensabile per la sopravvivenza, pronta al sacrificio per i propri figli a tal punto di morir di fame per loro, una donna che cercherà di servire sempre un piatto caldo ricercato, nonostante le difficoltà.
Pane e polenta
L'alimento base del ceto medio e basso della società fu il grano, il grano si usava per dar vita alla pasta, per ottenere la polenta, per fare la farina, per fare i dolci, macinato veniva aggiunto alla minestra per dare un po' di consistenza, ma soprattutto era l'ingrediente base del pane. II sacro pane tanto esaltato dal fascismo, che si renderà assoluto protagonista della cucina e della vita sociale di questi anni, il popolo aspettava in coda per ore al fine di ottenerne la propria razione, assaltava i forni per rubarlo, andava in campagna per cercarne ancora. Il pane fu l'alimento principe si inzuppava nel latte alla mattina, nel sugo a mezzogiorno, nel brodo alla sera, si mangiava con la marmellata o con la verdura, con l'olio quando ce ne era o con la frittata. Non si viveva di solo pane, ma si viveva principalmente di solo grano. Una materia prima non facilmente reperibile, nonostante la battaglia del grano, l’Italia non riuscì a mantenere l'autosufficienza prefissata e proprio per questo motivo il Fascismo tentò di screditarne l'uso con comunicati e propagande, ma da questo alimento si ricavavano cibi poveri cardine dell'alimentazione popolare, estremamente vari, sostanziosi e nutrienti.
Di pane non se ne trovava abbastanza. Un Italiano adulto ne consumava circa 500 grammi al giorno, la tessera che inizialmente nell'autunno del '41 ne garantiva 200 grammi non solo era insufficiente ma fu soggetta in modo frequente a ulteriori riduzioni: già nel marzo 1942 la razione diminuì a 150 grammi a testa. Ben presto di pane non ce ne fu più, le scorte finirono e i fornai ebbero sempre meno farina per farlo, non si riuscì nemmeno più a garantirne la porzione prevista dal regime. E' così che il pane iniziò ad essere prodotto in modi diversi, con gli ingredienti più reperibili. Se alla vigilia della guerra si usava solo farina di grano per fare un pane bianco e dolce, ma si poteva anche trovare pane all'olio o pane al burro; ora in momenti di difficoltà per non rinunciare al cibo base della nostra nazione si dovette ricorrere in un primo momento ad una miscela di farina di granoturco e farine meno prelibate autorizzata direttamente da un decreto fascista. La qualità del prodotto ne risentì ma era destinata a calare ulteriormente, si produsse il pane con svariate materie prime: comunemente diffuso fu un pane fatto con la farina di veccia, ottenuta macinando i semi di questa pianta a ciclo annuo, il risultato finale fu un alimento molto amaro, dal colore notevolmente più scuro del pane tradizionale.
Una valida alternativa fu quella di tritare patate e fave nell'impasto per sostituire parte della farina. Il vero pane lo si mangiava solo nelle campagne dove veniva preparato in casa, la maggior parte dei contadini avevano un piccolo forno ubicato in una costruzione vicino alla dimora, ma indipendente dall'abitazione principale, è qui che si portava l'impasto compatto e liscio ottenuto con acqua, farina, sale, un cucchiaio di strutto e del lievito di birra, il tutto veniva diviso in grosse pagnotte uniformi e posto a cuocere a 200 gradi in questi forni per circa mezz'ora.
L'impasto veniva fatto una volta alla settimana perciò negli ultimi giorni spesso il pane necessitava di essere ammorbidito con il latte o con l'acqua per essere più appetibile. Dal grano si creava anche la polenta, piatto tipico nel nord Italia ma ripreso nella maggior parte delle regioni della penisola, anche se in modalità di preparazione differenti; proprio in questi anni per la sua semplicità e velocità di cottura, per la convenienza economica diventò un alimento base per molte persone. La polenta caratteristica del settentrione e dell'Emilia era molto soda consistente spesso tagliata a fette con aggiunta di formaggi come fontina, gruviera o grana, diversamente nelle zone del centro o del meridione la polenta era usualmente molto più liquida, meno densa a causa dell'aggiunta di latte.
Ricette a base di polenta ne troviamo molte: abbiamo testimonianze prese dai ricettari del periodo che ci insegnano a preparare tortini di polenta, polenta e fontina al forno, tortiera di polenta, strati di polenta, polenta con le acciughe, polenta sfatta o fette di polenta condita. In realtà tutti questi espedienti si distinguevano per sottigliezze, per piccoli passaggi nella modalità di preparazione, per l'aggiunta di qualche ingrediente, per la forma nella quale venivano serviti; ma si trattava pur sempre dello stesso alimento. Un esempio era quello chiamato nel libro di Petronilla "Sformatino di granoturco", preparato grattugiando una mela renetta nella polenta soda mescolata a latte; si aggiungeva in un secondo momento una cucchiaiata di zucchero all'odor di vaniglia. Una volta imburrato lo stampo si versava il preparato all'interno e si cuoceva a bagnomaria . Si otteneva in questo modo una polenta che con l'aggiunta di sapori nuovi e di un formato originale non sembrava il solito vecchio piatto mangiato e rimangiato, ma un alimento diverso, nuovo, più allettante grazie all'abilità e alla pazienza delle donne di rivisitare e rimediare alle carenze delle materie prime.
L'importanza del grano non è in discussione soprattutto negli anni conclusivi del conflitto quando questo cereale fu l'unico alimento sostanzioso che ci si poteva procurare abbastanza agevolmente: lo si trovava abbondante nelle campagne, lo si rubava ai contadini o lo si guadagnava con qualche ora di lavoro nei campi, lo si acquistava a prezzi alti ma era l'unica materia prima che ci si poteva permettere, lavorato nelle diverse modalità dava vita a cibi sostanziosi energici e aggiunto a cibi leggeri e poco calorici come le zuppe le rendeva più nutrienti.
Carne e carne dei poveri
Abbiamo affrontato in precedenza le reali difficoltà di approvvigionamento, i metodi di ricerca e i rimedi usati per sopperire alle mancanze; tuttavia alcuni alimenti restavano completamente assenti o comunque molto rari nella dieta italiana dal 1939 al 1945.
Assolutamente in primo piano si pone la mancanza di proteine animali consistenti: la carne era un miraggio per il ceto medio basso cittadino e lo diventò presto anche per i ceti più agiati, gli unici che potevano disporre di qualche salame o di un pezzo di lardo erano ancora una volta gli abitanti benestanti delle zone rurali.
Gli animali che era possibile mantenere si limitavano a polli, galline, oche, qualche bovino e appunto maiali: questi ultimi erano gli unici ai quali si potesse dare qualsiasi scarto per nutrirli e farli crescere, erano sufficienti ossa, scarti del raccolto, ghiande, si usava dissetarli con l'acqua dove si era bollita la pasta. In qualche modo si riusciva a farlo ingrassare nell'arco di due anni, una volta macellato se ne ricavavano per la maggior parte insaccati a lunga conservazione che potevano essere consumati direttamente dall'allevatore o venduti al mercato nero, ma nulla di questo animale veniva sprecato: zampe, codino, muso qualsiasi parte del maiale era importante fonte di proteine. Per quanto riguarda invece il pollame e i bovini la situazione era molto differente, si preferiva sfruttarli fino all'ultimo per usufruire di uova e latte, risultava perciò pressoché impossibile trovare carne di pollo di vitello o di manzo.
Coloro che potevano fortunatamente disporre di una gallina vecchia da poter mangiare erano pochi, nei ricettari Petronilla invitava ad onorarla cioè ad esaltare le sue genuine virtù di ottima carne capace di dare brodo particolarmente sostanzioso, inutile utilizzare prezioso olio o altro condimento ma assaporarla quando è morbidamente lessata con solo un pizzico di sale che non ostruisca altro sapore a quello della carne. Nemmeno con la gallina è concesso alcuno spreco: Petronilla ancora una volta consiglia e invita ad estrarre il grasso dell'animale scioglierlo al fuoco e, una volta liberato dalle sostanze che affiorano alla superficie, riporlo in vasetti per servirsene in un secondo momento durante la preparazione di minestre.
L'oca era un altro animale raro e prezioso soprattutto per la sua caratteristica di potersi cuocere con il suo stesso grasso che può sostituirsi al burro al lardo o allo strutto.
Per i cittadini e per la maggior parte dei contadini la carne rimaneva una prelibatezza, un alimento pregiato da consumarsi solo in occasioni speciali, furono latte e uova a garantire un apporto di proteine animali sufficiente a sopravvivere e ad aggiungere calorie utili ad evitare malattie come la pellagra. Inutile sottolineare che anche per quanto riguarda le uova le modalità di cottura erano svariate: sode accompagnate ad un piccolo pezzo di formaggio, coi pomodori o coi peperoni, oppure in frittata sempre arricchita da verdure "facilmente" reperibili come gli spinaci o le zucchine, ma anche solo insaporita dal prezzemolo. Petronilla ci propone una ricetta che arricchisce l'uovo con un morbido ripieno di tuorlo tonno acciughe e limone, a testimoniare l'attenzione, la cura e la creatività delle cuoche suggerisce di diluire con acqua e un filo d'olio il rimanente del ripieno per creare una salsa che le ricopra e le renda più invitanti.
Tuttavia nemmeno uova e latte abbondavano, e in città il rimedio principale per sopperire a queste mancanze era ricorrere ai legumi, che garantivano un apporto di proteine equiparabile a quello della carne, ma ad un costo decisamente inferiore e proprio per questo guadagnarono in questi anni l'appellativo di "carne dei poveri". Da sempre presenti sulle tavole italiane, i legumi acquistarono proprio per il loro valore nutritivo un ruolo fondamentale nell'alimentazione e nella cucina durante il secondo conflitto mondiale, vennero presi in considerazione come un alimento energico e sostanzioso.
I fagioli, in primis, erano maggiormente consumati, necessitavano di una cottura meno difficoltosa rispetto a quella dei ceci e delle fave: per lessarli era sufficiente porli a bagno la sera prima in modo da renderli morbidi per la cottura il giorno seguente, erano in questo modo duttili da trasformare in tortini, creme o sformati. Per un pasto nutriente potevano essere accompagnati da pomodori o zucca, per insaporirli bastava uno spicco d'aglio o del prezzemolo. Nulla era più nutriente della storica ed eterna pasta e fagioli, un chiaro continuum di tradizioni, un piatto completo che univa alimenti facilmente reperibili dando vita ad una pietanza apprezzata nel tempo e presente ancora nelle nostre cucine.
Olio e burro
Nella cucina italiana un filo d'olio o una noce di burro sono necessari per dar sapore a qualsiasi piatto, ma di olio e di burro nel periodo "buio" se ne trovavano proprio in piccole quantità. Due mila lire per un fiasco d'olio era una cifra sbalorditiva quanto veritiera, impensabile usarne tutti i giorni per cucinare o per condire altre pietanze, si ricorreva così ad efficaci espedienti per compensare questa esigenza caratteristica del nostro modo di mangiare.
Si poteva preparare un olio misto sintetico unendo poco autentico, vero, prezioso olio di oliva a dei semi di lino e molta acqua. Solo in un secondo momento si aggiungeva un cucchiaio di aceto, un pizzico di sale e una puntina di zafferano e si metteva il tutto a riscaldare, una volta raggiunta l'ebollizione si continuava per una ventina di minuti fino a quando si poteva colare con un doppio strato di garza per fermare i rimanenti semi di lino e le impurità. Naturalmente ne risultava un intingolo utile per condire le minestre o da aggiungere ai sughi, anche se non adatto per friggere o per cuocere le carni o il pesce.
Ma di modi per creare un olio fatto in casa ce ne erano parecchi e alcuni portavano a discreti risultati: per condire l'insalata si ricorreva ad un condimento fatto con 100 grammi di olive nere poste a bagno in mezzo litro di acqua e mescolate con due cucchiai di fecola di patate una volta bollite finché avevano trasmesso al liquido tutto il loro olio venivano tritate e private dei noccioli. Si otterrà un surrogato dell'olio ghiacciando il tutto, una volta scongelato e filtrato sarà pronto per essere usato come condimento.
Tuttavia il risultato pur quanto di ben riuscita fattura e di discreta qualità non era comparabile al vero olio la cui carenza comportava non poche difficoltà: un primo esempio è stata la limitazione del consumo del pesce. Questo alimento ricco di sostanze nutritive richiede più di tutti una certa quantità di olio per risultare appetibile, senza questa non può essere messo in umido, non può essere fritto, non può nemmeno essere accompagnato da un sugo: il risultato fu il fatto che le massaie furono costrette a ridurre drasticamente il consumo di pesce, limitandosi a quelli che potevano essere cucinati in bianco o prodotti ittici conservati in scatola come tonno e acciughe.
E il burro? Inutile rimarcare il fatto di quanto fosse complesso e costoso procurarsene, perciò si rimediava facendolo in casa: erano sufficienti 250 grammi di grasso di vitello posti sul fuoco in una casseruola con 150 grammi di latte, dopo un lungo procedimento dove si aggiungevano olio, carote, timo e crosta di pane e si passava il tutto ripetutamente a setaccio si otteneva un "burro" che ungeva come il burro grazie al grasso del vitello, che aveva l'odore di burro datogli dal timo e dalla cipolla, che aveva il colore del burro grazie al pane e alle carote ma che in realtà burro non era.
Il problema si riproponeva nel momento in cui bisognasse preparare un sugo per la pasta, tanto amata dal popolo quanto screditata da Mussolini. Gli spaghetti e i maccheroni si servivano così sporcati di pomodoro oppure conditi con ricotta e pasta di acciughe. Soffritti o ragù di carne erano esclusi dai possibili condimenti per i primi piatti, si lasciava spazio a legumi e verdure, ci si ingegnava con noci o cannella ne risultavano piatti nuovi e originali, nuovi sapori che rivoluzionano il modo tradizionale di consumare pasta.
Invece della pasta asciutta
Nonostante le soluzioni proposte dalle cuoche del periodo e nonostante la passione che lega il nostro paese a questo alimento, la pasta divenne sempre meno frequente sulle tavole dell'Italia in guerra. Non sappiamo se il motivo sia da ricercare nell'effettivo gusto asciutto che assumeva con questi nuovi condimenti, nella reale difficoltà di approvvigionamento aggravata dall'aumento dei prezzi o nell'efficacia della propaganda fascista, in qualsiasi modo si ricercarono altri tipi di pasti basati su verdure e cereali, su brodi e zuppe.
Minestre che ebbero un discreto successo per il fatto di essere adattabili alle disponibilità, sempre scarse, degli orti o dei mercati: per farle ci voleva assai poco, strettamente necessario era soltanto qualche litro di brodo di carne o vegetale. Per tutti gli altri ingredienti ci si poteva sbizzarrire. Nei ricettari troviamo minestre e minestroni con patate, fagioli, verze, pomodori, rape e qualsiasi ortaggio fosse reperibile, ma la scelta tra i possibili protagonisti di una zuppa era molto più estesa e comprendeva albumi di uova, noci e castagne, o più semplicemente pane e latte. Piatti semplici che garantivano pasti caldi, valide alternative alla pasta, anzi nelle zuppe si metteva anche quella al fine di dare quello che più a questi alimenti mancava, ovvero un po’ di sostanza.
Tuttavia la scelta più valida fu il riso, il riso italiano frutto del lavoro delle mondine che pian piano inizia ad essere apprezzato dal popolo, per il gusto si, ma principalmente per la convenienza di questo prodotto autarchico. Si sostituì, o almeno cercò di essere sostituito, alla pasta e proprio per questo iniziò ad essere cucinato in modi simili con legumi come piselli e fave, con verdure come verze o pomodori e quando si poteva con un po' di salsiccia. Tentò di conquistare anche le zone meridionali d'Italia e per il periodo di guerra riuscì in qualche modo a reggere il confronto con la sua antagonista: il consumo aumentò drasticamente in questi anni difficili, si arrivò a mangiarne nel 1941, 17,6 kg pro capite all'anno (attualmente si consumano in media 9 kg nelle zone settentrionali d'Italia). Si iniziò a metterlo nella minestra, ma al contrario della pasta questa volta, si metteva sempre più riso e sempre meno brodo in modo tale da ottenere un piatto cremoso e saporito, non che questo modo di cucinarlo fosse invenzione di Petronilla e delle sue seguaci, ma sicuramente il fatto che il risotto alla milanese entri nei suoi ricettari valorizza questo alimento che ritornò prepotentemente sulla scena gastronomica italiana.
Brodo di carne senza carne e cioccolata senza cioccolata
Quello dato alle massaie italiane non fu un compito facile, rendere buono quel poco che si aveva non creò grandi problemi, render appetitoso ciò che non era mai piaciuto fu già più difficile, ma il vero problema fu quello di riproporre quello che non era più disponibile: prodotti mancarono sempre in modo maggiore. Ma cosi come abbiamo visto per l’olio e per il burro si trovarono rimedi e soluzione per risolvere anche le carenze non di primaria importanza.
Si dice che solo coloro che non hanno fame sono in grado di giudicare la qualità del cibo ,non ditelo alle cuoche di un tempo che, nonostante servissero pasti a persone realmente affamate, non trascurarono i sapori delle pietanze servite, non ditelo alle madri di famiglia che davanti alla carestia non solo si accontentavano di offrire un piatto, ma si sforzavano affinché questo fosse gustoso. La loro tenacia fu tale che non si arresero davanti alle mancanze, ma si ingegnarono e inventarono; non si limitarono a servire quello che c'era ma riuscirono a mettere in tavola quello che non esisteva più: nasce la cucina del "surrogato".
Nasceva il burro senza burro e l'olio con poco olio. Nasceva il brodo di carne senza carne.
Il brodo di carne era un grande spreco dato che la carne lessata perdeva gran parte delle sue proprietà nutritive, si ricorreva ad un semplice pezzo d'osso posto a bollire in una pentola d'acqua con sedano carota e cipolla per ore permettendo un'ebollizione lenta e regolare. Si prestava attenzione anche al colore, per rendere con tutti i sensi, la sensazione che si stesse mangiando un vero brodo, perciò a cottura quasi completata si aggiungeva della buccia di cipolla che lo rendesse giallognolo.
Ma il concetto di surrogato si estendeva oltre, può sembrare una pazzia, ma i fagiolini (o cornetti) si potevano ottenere dagli spinaci, dai loro gambi precisamente, tagliati e bolliti nell'acqua salata e conditi con un filo di "olio". E nel caso mancassero gli spinaci? Nessun problema questi ultimi si ricavavano dai ravanelli privandoli delle foglie migliori durante la loro pulizia.
Le audaci cuoche non si limitavano a sopperire alle insufficienze più importanti ma pretendevano di servire qualsiasi tipo di cibo, è il caso della cioccolata che in quanto importata non era più in circolazione da diversi anni, eppure Petronilla istruì le lettrici del suo ricettario proponendo una valida alternativa: la quasi cioccolata in tazza. Questa si otteneva versando un cucchiaino di farina in una pentola a fuoco lento fino ad ottenere una polvere che ricordi il colore del cacao, si aggiungeva poi latte e un albume già parzialmente sbattuto. Una colazione veloce, energica ed ideale per i bambini. Nemmeno un budino era impossibile da preparare, inzuppando pane nel latte strizzandolo e arricchendolo con zucchero, uova limone, uva passa, ma anche arachidi o mandorle tritate. Una volta cotto in forno con l'aiuto di un poco di burro si poteva pregustare un budino senza cioccolata, che ricordasse vagamente quello vero.
In fondo quasi tutto quello che si mangiava era una sorta di surrogato: qualsiasi alimento cambiò sapore e modalità di preparazione. La guerra privò gli Italiani di parte delle loro tradizioni, costrinse loro a sviluppare una cucina basata sull'apparenza, sul finto, sull'ingegno, furono la capacità e la tenacia che permisero di mantenere la base della cultura alimentare del paese riadattandola ad uno stile di vita nuovo, riadattandola ad esigenze diverse. Si conservò quello che non esisteva più e si crearono in questo modo nuovi alimenti, nuovi modi di cucinare, si arricchì la nostra cucina e la sua millenaria storia anche in questo periodo di difficoltà.
Certo il pane non era pane e i fagiolini erano spinaci, ma le tradizioni intrise in questi alimenti non sono solo sopravvissute ma si sono impreziosite.
I prodotti dell'orto
Avere un orto come già visto era un privilegio non indifferente, i prodotti che se ne ricavavano erano fondamentali per l'alimentazione del popolo, si mangiavano da soli o accompagnavano il pane, arricchivano la pasta o davano sostanza alla zuppa. Verdure e tuberi erano, alla pari del grano, importanti nella dieta italiana grazie al loro prezzo contenuto e alla loro duttilità. Molteplici erano le soluzioni che si potevano trovare con qualsiasi prodotto dell'orto, in primo piano tra questi c'erano sicuramente le patate che una volta bollite erano pronte per essere condite nei modi più disparati, alimento sostanzioso che riempiva lo stomaco con una quantità ridotta poteva semplicemente essere insaporito con del prezzemolo o arricchito con un esiguo ripieno di formaggio, quando si aveva la disponibilità di un po' d'olio venivano fritte per farne delle crocchette e in assenza ci si accontentava di dare vita ad una purea.
Le verdure si mangiavano in tutte le salse e non solo per modo di dire, i cavolfiori, leggiamo nei ricettari, erano ottimi accompagnati da un intingolo piccante preparato con limone aglio e capperi, le carote con pomodoro e un cucchiaio di Marsala, gli asparagi impreziositi da una salsa bianca di latte. Si apprezzavano i gusti agrodolci delle cipolle e quelli dolci delle zucche, con queste ma anche con spinaci o con zucchine si preparavano torte salate e sformati soltanto aggiungendo un po' di uovo e del pan grattato .
Un appezzamento di terra era fonte anche di altri prodotti importanti per l'alimentazione di tutti i giorni e soprattutto già apprezzate ai tempi per le loro capacità nutritive: è così che Petronilla elogiava la frutta oltre che gli altri prodotti dei campi coltivati. "Gli elementi base per la nostra nutrizione sono le proteine, i carboidrati o gli zuccheri e i grassi. Tanto i grassi che gli zuccheri sono energetici. Nella composizione dei cibi non mancano mai i minerali cioè ferro, fosforo, sodio, calcio, ma ciò che ha particolarissima importanza sono le vitamine, preziosissime per la salute e presenti specialmente nei vegetali, nella frutta e nelle verdure fresche. Sono elementi indispensabili alla vita e alla prosperità dell'organismo, contribuendo direttamente all'efficienza di ogni parte del corpo, a tutte le manifestazioni di vigore fisico, fattori di sviluppo nei giovani e di equilibrio negli adulti". Per quanto riguarda la cottura, la scrittrice del manuale "La cucina ai tempi di guerra" avverte che "la cottura altera e talvolta distrugge le vitamine e per questo è raccomandabile il consumo di frutta cruda, come le cosiddette bevande di salute venute in voga in questo periodo, a base di frutta e anche di ortaggi".
Il succo di limone si mescolava con quello d'arancia; quello di pesca era arricchito da un po' di miele; si iniziarono a fare succhi con spinaci sedano e pomodoro.
Certo, poi Petronilla fa un passo indietro: "non è detto che la cottura sia da bandirsi assolutamente, anche se nel cuocere si perdono delle vitamine, non si perdono tutte". I fichi cotti al forno, le mele ripiene di miele e noci, le prugne cotte nel sugo d'uva talvolta potevano sostituire la minestra e potevano costituire un piatto caldo zuccherino e appetibile.
Tuttavia una precisazione sui prodotti dell'orto è logica quanto dovuta, questi erano suscettibili a cambiamenti climatici, al variare delle stagioni: non si troveranno le verze a maggio e non si consumeranno le pesche a dicembre. Ne siamo sicuri? No, ovviamente molte limitazioni c'erano in base alla disponibilità dell'orto e al clima, ma le massaie non si fermarono nemmeno davanti a queste, nel periodo di guerra, dove non si buttavano via nemmeno le briciole, si ricorre sempre di più a conservare gli eccessi del raccolto: con alcuni tipi di frutta venivano fatte confetture, con altri si preparava la cosiddetta frutta sciroppata. Non era così un'utopia consumare pesche, fichi o ciliegie a Natale!
Cuciniamo, apparecchiamo e laviamo
Le grandi difficoltà da affrontare non si fermavano dopo aver trovato qualcosa da mettere sotto i denti, bisognava risolvere il grande problema della preparazione degli alimenti, non tanto per l'abilità o meno della cuoca in quest'arte, ma per la disponibilità di strumenti e utensili adatti alle esigenze. Le pentole erano sempre meno, usurate e in pessime condizioni, nell'autunno del 1940 lo Stato aveva bisogno di metallo: cominciò il rastrellamento. Le prime vittime sacrificate al Fascismo furono tutti gli attrezzi di cucina anneriti dall'uso o dal fumo, proprio queste che ricordavano il passato, che rappresentavano il legame tra una generazione e l'altra venivano sottratte per motivi patriottici. Seguirono le ordinanze sul rastrellamento del rame, molte donne persero il loro prezioso paiolo per fare la polenta, molte altre si ribellarono e riuscirono a tenerlo. Ciò che proprio non si riuscì a trattenere furono gli oggetti preziosi d'oro e l'argenteria, i servizi "belli", il popolo rimase con le posate usurate sulla tavola quelle per tutti i giorni compresa la Domenica, compreso il Natale. Presto diventarono neri e arrugginiti anche questi poiché di sapone, prodotto soggetto a razionamento, ce ne era ben poco. Si ricorreva, come in tutto del resto a surrogati, a rimedi alternativi: la cenere in primis diluita nell'acqua calda era considerata il miglior detersivo per i piatti, le posate o il pentolame. Per asciugare il tutto si ricorreva, in assenza di strofinacci, a pallottole fatte con foglie di fico o ortiche bollite, a giornali vecchi.
La tavola appariva quindi cupa e triste con piatti certamente non brillanti, posate arrugginite e pietanze spesso modeste, furono le tovaglie a rendere il tutto un poco più vivace, si abbandonò il rigoroso mantile color bianco e si aprirono le porte a trame colorate a fantasie con disegni e sfumature gialle o blu mai sgargianti, ma sempre più allegre che davano tono alla tavola, che nascondevano qualche macchia ostica da pulire senza detersivo.
Anche in questo campo registriamo invenzioni in questo periodo, a simboleggiare il progresso della cucina anche in un settore seppur secondario come quello degli utensili per cucinare e dei modi di imbastire la tavola. Una su tutte l'introduzione del vetro resistente al calore e al fuoco sulle tavole, se ne faranno piatti e stoviglie, vassoi e pentole, consentirono il vantaggio di servire alla mensa con i medesimi oggetti usati per cucinare, risparmiando così sprechi di cibo e di sapone. Per lavare questi oggetti in vetro era sufficiente semplice carta da giornale inumidita con l'acqua dove era stata cotta la pasta, offrivano così brillantezza e vivacità alle portate.
Come consueto di questi tempi, e non solo, tutte le innovazioni, le invenzioni, le novità nascono da esigenze, al fine di risolvere certi problemi come la mancanza di detersivo vengono usate tovagliette che si limitano a proteggere il tavolo nelle prossimità del piatto, sono quelle che oggi noi chiamiamo tovagliette all'americana e mai avremmo immaginato che fossero un espediente per risparmiare sapone, mai avremmo pensato che fossero nate durante la seconda guerra mondiale.
Terzo capitolo:
L'alimentazione antifascista
Per un quadro completo riguardante la situazione dell'alimentazione italiana durante la Seconda Guerra non possiamo evitare di soffermarci su una pagina importante della nostra storia, ovvero la lotta antifascista. Una lotta contro l'oppressione, contro le ideologie non condivise, per riconquistare una libertà persa da anni. Povertà, solidarietà, forza e determinazione aspetti di questa guerriglia che cercheremo di approfondire ancora una volta prendendo in considerazione la questione alimentare.
L'incubo della fame partigiana
I sogni dei partigiani sono rari e corti, sogni nati dalle notti di fame, legati alla storia del cibo sempre poco e da dividere in tanti: sogni di pezzi di pane morsicati e poi chiusi in un cassetto. I cani randagi devono fare sogni simili, d’ossa rosicchiate e nascoste sottoterra. (Italo Calvino)
Alcuni scelsero di salire sulle montagne per condurre l'aspra lotta partigiana, altri rimasero nelle città per condurre in modo clandestino la lotta armata, ma tutti dovettero innanzi tutto affrontare il problema dei rifornimenti, in primis quelli alimentari.
Fu la "guerra dei poveri", combattuta con qualche pistola e poco cibo, gli assalti e le guerriglie affrontate con l'ossessione della fame, con lo stomaco vuoto, senza forze. L'incubo del cibo, di quel pasto che non arrivava mai, quei rifornimenti che quando giungevano dovevano essere gestiti chissà per quanto tempo: nessuno poteva prevedere quando sarebbe arrivato o cosa avrebbe portato il successivo carico.
Sognavano una pagnotta e un poco di polenta e nel frattempo combattevano, pianificavano assalti e cantavano. Ma anche nei loro canti confessavano la loro sofferenza, intonavano: "Siamo i ribelli della montagna \ viviam di stenti e di patimenti \ ma quella fede che ci accompagna \ sarà la legge dell'avvenir."
Una ribellione quella partigiana che scaturì anche dalla fame, e continuò nella speranza di un avvenire migliore, nel sogno che prima o poi, sarebbe arrivato il momento in cui un pezzo di pane non si sarebbe più dovuto dividere con i compagni.
Il concetto dell'alimentazione che si sviluppò in ambito partigiano fu quello di una nutrizione a stretto contatto con le funzioni militari, servì cibarsi soltanto per essere pronti e attivi per la guerriglia o per i grandi spostamenti, per avere insomma forze per svolgere il proprio compito. Proprio per questo a prevalere sono pasti rapidi, camerateschi, basati su ingredienti poveri e frugali, non si apprezzava il sapore, si apprezzava la quantità, la consistenza, la forza che l'assimilazione di un cibo dava, in modo da poter combattere. Un pezzo di pane era come un proiettile, entrambi servivano per ricaricare e continuare a colpire l'avversario nazista o fascista che fosse.
Pane e polenta gialla, carboidrati energici, furono alla base dell'alimentazione ribelle, ma quando il rifornimento non arrivava, era in quel momento che i partigiani si riempivano la bocca con more e mirtilli, con pere o con qualsiasi frutto le sterili montagne sulle quali erano rifugiati si degnassero di concedere. Era in questi momenti che i più parsimoniosi aprivano i cassetti o rovistavano nelle tasche per ritrovare quel pezzo di pane sbocconcellato che avevano tenuto in previsione di questi tempi.
Il diario di guerra del partigiano Aldo Ferrero serve per esemplificare la situazione: "Si è consumato il primo pasto, e per di più caldo, dopo giorni di mirtilli e acqua. Molti hanno la dissenteria, altri il vomito (…) Quelli che si fanno sentire sono i morsi della fame. "
Tra la solidarietà e il ricatto
Il problema dei viveri fu risolto in vario modo, dall’acquisto presso i contadini alla requisizione più o meno forzata nei confronti dei proprietari più ricchi, dall’esproprio a spese dei possidenti fascisti al prelievo di beni con rilascio di buoni del Comitato di Liberazione Nazionale. In altri casi, nonostante i gravi rischi di ritorsioni fasciste, i contadini preferirono spontaneamente offrire bestiame e grano ai partigiani piuttosto che consegnarli all’ammasso imposto dai “repubblichini”. La solidarietà di un popolo che lotta, unito per la liberazione del proprio paese fu uno degli aspetti più avvincenti della lotta partigiana, si verificarono sempre più spesso casi di sostegno dei ribelli. Si offrivano loro un rifugio per la notte, un po’ d'acqua e un pasto caldo cioè tutto quello di cui avevano bisogno per affrontare nuovamente il loro arduo impegno. Atti di altruismo rischiosi in quanto le sanzioni naziste per chi avesse offerto rifugio ai ribelli, o per chi in qualche modo avesse aiutato loro, erano deleterie: chi fosse soltanto sospettato di collaborazione partigiana rischiava di vedere la propria casa data alle fiamme e il proprio bestiame sequestrato. Ma i contadini continuarono a riempire le tasche dei partigiani di quello che potevano, uva, un po' di pane nero, castagne; continuarono a nasconderli nelle botole o nei fienili fiduciosi che il compito che stessero svolgendo fosse fondamentale per la conquista della libertà del Paese. Era il loro modo di sostenere la Resistenza.
"Abbiamo appena terminato l’azione che arriva una donnetta con pane, uova e latte: sa che dal mattino stiamo combattendo, e nel vederci così inzuppati dal temporale ha pietà di noi. La nostra postazione è a pochi metri dalla sua casa. "
Fu così la guerra partigiana. Coloro che portavano le armi erano equiparati a coloro che erano realmente alla macchia, e allo stesso modo questa donnetta anonima che abbiamo appena citato, che sfamò i ribelli rischiò la fucilazione come se fosse realmente una di loro, poco importa il motivo per cui lo fece, se per pietà o per altruismo, importante fu l'apporto che azioni solidali come queste diedero alla Resistenza: si partecipò attivamente alla guerriglia anche solo donando con qualche uova e un pezzo di pane.
Naturalmente è impensabile che questo fosse sufficiente per vivere, non ci si poteva basare sulle buone azioni della gente per sperare di mangiare, infatti parallelamente a questi venivano adottate altre modalità di approvvigionamento. Ricorrevano ad assalti ai magazzini con i rifornimenti fascisti abbandonati, o comunque mal custoditi dopo l'armistizio dell' 8 settembre del '43, ricattavano industriali fascisti minacciandoli di incendiare le loro fabbriche se non avessero dato finanziamenti per le formazioni partigiane con i quali poter comprare armi e cibo, polenta e munizioni. Gli imprenditori erano costretti ad accettare; i partigiani affamati facevano paura.
Il cibo come rito collettivo
Una volta che si era racimolato qualcosa da mangiare, donato o rubato che fosse, il cuoco addetto che durante i trasferimenti e le battaglie si faceva carico del pentolone per cuocere la minestra, allestiva poveri pranzi per saziare gli affamati. Compito arduo e spesso incompiuto, ma ciò che riusciva era il rito del pasto.
Si creava una parvenza di vita libera, per un momento ci si scordava del sangue e dei compagni persi, ci si riuniva intorno al focolare in un attimo di tranquillità. Quasi ci si dimenticava il motivo per il quale la minestra fosse annacquata e il pane nero e cattivo. Si manifestava in queste occasioni l'unione che caratterizzò la lotta partigiana: uomini diversi ma guidati dagli stessi ideali di giustizia si dividevano il poco che avevano in modo solidale e leale come se fossero parte di un solo organismo che deve alimentarsi per sopravvivere. Per tutti c'era un po' di polenta, poca ma per tutti, cattiva ma da dividere equamente. L'atto di divisione del cibo fu uno degli aspetti più avvincenti di questo periodo, i partigiani si sacrificavano l'uno per l'altro come sul campo di battaglia, era un razionamento ma autogestito, che nessuno aveva imposto loro, ma avvenne in modo naturale e spontaneo.
Alla fame si sopperiva in questo modo frazionando gli alimenti e accontentandosi di conversare, di cantare come sulle tavole da pranzo prima della guerra, sperando che nell'immediato futuro oltre a un bel momento di socializzazione sarebbe tornato anche il cibo in abbondanza. Fotografiamo così un pasto "partigiano": un focolare posto fuori da un accampamento provvisorio, dove sta cuocendo su un paiolo sporco e arrugginito la polenta, gli uomini della Resistenza soddisfatti per l'esito della battaglia appena conclusa ed entusiasti perché tra poco metteranno qualcosa sotto i denti per saziare la fame che li perseguita da giorni.
Le poche pagnotte si dividono equamente, con estrema accuratezza e si inganna la fame con litri di vino, buon vino, che i contadini hanno regalato a loro piuttosto che rischiare che questo andasse a soddisfare le gole naziste. L'effetto inebriante del vino si fa presto sentire e si intonano i primi canti:
La fame e il piombo
paura non ci fa,
oi cara mamma, oi cara sposa,
stringiamo la cinghia
se fame ci assal,
che ci rinfresca
la neve ci sarà.[...]
Gli assalti ai forni: le donne della Resistenza
La situazione nelle città soprattutto dopo il '43 fu caratterizzata da miseria e disperazione, il popolo vagava per le strade e non riusciva a portare a casa un pezzo di pane sia perché di pane se ne trovava sempre meno sia perché una casa ormai non l' avevano più, bombardata o distrutta dagli attacchi militari. Sono le donne, ancora una volta protagoniste di questo periodo che le esaltò e le responsabilizzò, che dovettero affrontare la situazione con tutti i mezzi che avevano a disposizione, con l'astuzia e la violenza, per tentare di sopravvivere alle miserie della guerra, per provare a far sopravvivere i propri figli.
Fu proprio in questo contesto che si verificano i primi assalti ai forni, che divennero sempre più frequenti con l'aggravarsi della situazione alimentare, madri di famiglia si riunivano, pianificavano il colpo e tentavano di scappare con quello che erano riusciti ad estrapolare, un sacco di farina o uno sfilatino.
Dietro a tutto questo si leggeva la disperazione spesso incanalata nei binari della violenza sotto gli impulsi dei gruppi femminili della Resistenza, i quali garantivano strategie e una buona propaganda per fare in modo che questi attacchi ai forni, dove veniva panificato il pane bianco per i nazi-fascisti, diventassero anche atti di ribellione politica.
Eventi di questo tipo avvennero nelle maggiori città italiane, ma nessuna di queste fu colpita dal fenomeno degli assalti ai forni come Roma. In quella Roma che dal 10 settembre del '43 soffriva la presenza tedesca sul suo territorio, in quella Roma dove il prezzo del pane continuava ad aumentare, lì dove l'idea che i nazisti tenessero tutti i depositi sequestrati esclusivamente per il loro personale uso e consumo si diffondeva sempre in modo maggiore. In quella Roma si verificarono assalti nei quartieri del Trionfale, di Borgo Pio, in Via Leone Quarto, ma l'episodio emblematico che rispecchia pienamente la situazione fu quello che accadde il 7 aprile 1944 al Ponte di ferro, nel quartiere dell'Ostiense.
Era il venerdì di Pasqua e le donne nella speranza di mettere un po' di pane in tavola la domenica, alquanto innervosite dall'ordinanza del generale nazista Kurt Maeltzer, il quale aveva ridotto a 100 grammi la razione giornaliera di pane destinata quotidianamente ai civili, decisero di assaltare il forno.
Il deposito in un primo momento non sembrava presidiato dalle truppe tedesche, inoltre il direttore del forno, forse d'accordo con le donne della Resistenza o semplicemente per evitare che fossero recati danni ai macchinari, lasciò che entrassero e si impossessassero di piccoli quantitativi di pane e farina.
La situazione pareva essere delle migliori, ma una spia, un collaboratore o non si sa di preciso chi, avvertì la polizia tedesca che arrivò tempestivamente cogliendo le donne in flagrante.
Alla vista dei soldati nazisti cercarono di fuggire, ma quelli bloccarono il ponte mentre altri si disposero sulla strada: le donne si trovarono senza scampo. L'unica via di fuga rimase quella di correre lungo il fiume scendendo sull'argine, ma altre lasciarono cadere a terra il loro bottino e si arresero urlando e implorando.
Le SS ne catturarono dieci, le disposero contro la ringhiera del ponte, il viso rivolto al fiume sotto di loro. Si era fatto silenzio, si udivano solo gli ordini secchi del caporale che preparava l'eccidio, in attesa che le loro compagne furono allontanate dal ponte. Al comando i soldati si posero dietro le donne, poi le fucilarono con mossa repentina "come si ammazzano le bestie al macello". Le dieci donne furono lasciate a terra tra le pagnotte abbandonate e la farina intrisa di sangue.
Morire per la fame, accadde anche poche settimane più tardi il 2 maggio quando una madre di sei figli, Caterina Martinelli, dopo che si sono sviluppate situazioni analoghe a quelle dell'assalto al Ponte di ferro, scappa disperatamente nel quartiere Triburtino III reggendo la figlia tra le mani, fino a quando la sua corsa viene fermata da una mitraglia di un milite della PAI (Polizia dell'Africa Italiana). La donna stramazzò al suolo con sei sfilatini nella borsa, una pagnotta al petto e stringendo tra le braccia la neonata, che si salvò, ma rimase lesionata alla spina dorsale.
A Roma in via del Badile 16 ancora oggi una lapide ricorda l'accaduto. "Il 2 maggio 1944 in questo luogo durante un assalto al forno per cercare il pane per i suoi figli venne uccisa dalla violenza fascista Caterina Martinelli:«io non volevo che un po’ di pane per i miei bambini non potevo sentirli piangere tutti e sei insieme»".
E poi arrivarono gli Americani
E poi arrivarono gli Americani e furono accolti come salvatori con i loro camion colmi di tutto quello che la gente comune aveva sempre desiderato o che addirittura non aveva mai visto. In un lento processo che parte dal luglio del '43, che coinvolse in un primo momento le zone dell’Italia meridionale e soltanto dopo mesi e mesi il Settentrione, l'alimentazione fu stravolta da Eisenhower e da Alexander che insieme ad un vento quanto mai opinabile di liberta, portarono rifornimenti e derrate alimentari indispensabili per la sopravvivenza del popolo. Gesti propagandistici per farsi ben volere dal popolo o pura umanità di una nazione che aveva compreso le difficolta del logoramento causato dalla guerra non è importante saperlo per quanto riguarda la nostra analisi, quello invece che ci interessa é vedere come grazie a ( o per colpa di ) questi aiuti il modo di cibarsi degli Italiani sia cambiato.
Quello che gli aitanti soldati degli Stati Uniti portarono non furono soltanto prodotti pratici e nutrienti ma furono idee e concetti che rivoluzionarono la cucina. Fino ad allora normalmente gli ortaggi si raccoglievano dai campi, si lavavano, si pulivano, si cucinavano nei modi più svariati come abbiamo visto e infine si gustavano in tutto il loro sapore; coi rifornimenti americani giunsero i cibi liofilizzati. Carote e patate inscatolate dalle grandi industrie di Chicago e di New York evitarono molti passaggi alle massaie, bastava un apriscatole e si era già pronti a mangiare. Un bel passo avanti in una situazione dove trovare verdure e cibi in generale, era tutt'altro che semplice. Un passo indietro per quanto riguarda il gusto e la tradizione.
E non solo la verdura ma anche le uova venivano polverizzate e pronte nella busta per l'utilizzo, molto meglio rispetto alle tradizionali uova per una questione di conservazione ma peccavano di gusto. Una testimonianza di questo fu il fatto che i soldati "a stelle e strisce" pagavano oro le uova " made in Italy " o più che altro le scambiavano con scatole di biscotti, di carne o di cioccolata. Cioccolata vera arrivò nel nostro paese insieme a loro, la leggendaria squisitezza che i bambini non avevano mai assaggiato, preparata in tavolette conquistò subito le gole di tutti coloro che fino a quel momento avevano soltanto assaporato il surrogato di questa delizia. Al contrario la carne in scatola era già diffusa prima del loro arrivo, ma naturalmente se prima era rara e costosa dagli anni conclusivi della guerra divenne leggermente più diffusa man mano che l'esercito americano risaliva a penisola. La quantità di queste derrate alimentari fu veramente imponente e diede un serio apporto al fabbisogno del popolo, beni di primaria importanza riempivano, come detto, i camion che venivano distribuiti nelle città e nei quartieri più poveri per sfamare intere famiglie. La rivoluzione alimentare che caratterizzò questo periodo fu accompagnata e forse sollecitata dalla speranza che la guerra fosse ora realmente finita, dall'euforia di un cambiamento drastico che influenzò il modo di nutrirsi degli italiani che cercarono e trovarono il contesto adatto per scoprire nuovi alimenti o più che altro alimenti che durante il conflitto erano spariti dalla circolazione. Per molti Italiani fu la riscoperta di sapori nuovi per quanto riguarda certi cibi, tanti non avevano mai gustato un biscotto o assaggiato il vero caffè, nessuno aveva mai masticato un chewing-gum o bevuto un cocktail. In onore dei "liberatori" si iniziò a bere l'Alexander: una bevanda alcolica a base di gin crema di cacao e panna liquida, che ricordava il cognome del comandante delle truppe alleate in Italia e aveva il sapore inebriante della cioccolata. Sapeva di libertà
Quarto capitolo:
Dal fascismo a oggi
Il modo di cucinare e di alimentarsi che caratterizzò gli anni del secondo conflitto mondiale ci ha consentito di analizzare la povertà e le condizioni di un popolo che "fu ridotto alla fame" e che affrontò la situazione con grinta e tenacia, ci ha permesso di notare le differenze che caratterizzarono i vari ceti sociali, ma che con l'avanzare della guerra si assottigliarono sempre in modo maggiore.
Ci soffermeremo in queste ultime righe cercando di rendere più esplicito un tema che si é già delineato nei capitoli precedenti: il continuum storico che caratterizza la storia dell'alimentazione italiana.
Il modo attuale di nutrirsi non é altro che il risultato di una continua evoluzione. Anche nel periodo analizzato, un periodo buio per la storia italiana, ideali ed innovazioni hanno lasciato tracce evidenti nel nostro modo di mangiare e nelle nostre tradizioni.
Valori ed ideali, tramandati e persi
Il motivo dell'importanza che nell'alimentazione ha tuttora il pane è sicuramente da ricercare negli ideali che il fascismo ha trasmesso e nel ruolo fondamentale che esso ha interpretato durante la guerra. Gli Italiani più di ogni altro popolo sono suscettibili allo spreco di questo alimento che li ha salvati dalla carestia. I nonni rimproverano ancora i nipoti se avanzano il pane, se lo addentano direttamente senza spezzarlo con le mani, se lo sbriciolano accanto al piatto. I bambini più ubbidienti accettano senza capire il motivo per il quale si può avanzare un po' di pasta ma non si può buttare nemmeno mezzo panino posso, mentre i più curiosi interrogano sul motivo e sarà così che ogni anziano pescherà nella sua mente i vecchi ricordi di quando il pane era tutto, di quando le briciole si raccoglievano e si mangiavano. Un legame con questo alimento quasi morboso che si nota sulle nostre tavole quando pur di non gettare pane si inventano crostini, bruschette e pan grattato per impanare, un rapporto speciale perché ancora oggi alle donne anziane più sensibili piange il cuore quando sono costrette a buttarlo nell'immondizia.
Un alimento sacro per la religione cattolica, consacrato e arricchito di valore dal Fascismo e dalle difficoltà belliche; naturalmente come abbiamo visto il pane che veniva consumato negli anni durante la guerra era tutt'altra cosa rispetto a quello che mangiamo oggi, ma ciò che non é cambiato é la concezione di questo alimento, gli ideali che lo accompagnano, appunto la sacralità che questo cibo ha acquisito nell'arco della storia. "Non sprecate il pane" scrisse Mussolini sui manifesti le stesse parole di ammonimento sono ancora vive e attuali oggi in quella costante, strenua propaganda in difesa del nostro alimento preferito.
Una propaganda che in tempo di guerra aveva si un occhio di riguardo per il pane, ma che lo esemplificava come condanna allo spreco di qualsiasi alimento, un valore quest'ultimo che tuttavia negli ultimi decenni sta scemando, lasciando spazio al consumismo che ci proietta in una situazione opposta a quella verificatasi negli anni presi in considerazione, che consente l'eccesso e lo sperpero di alimenti.
In Italia dal 1940 al 1945 si ottimizzavano le ossa degli animali e le foglie degli ortaggi, oggi costantemente si scialacquano tonnellate di carne; una reinterpretazione degli ideali e dei valori che si sono formati in quei periodi di estrema crisi può essere utile per trovare una giusta via di mezzo, un giusto compromesso etico ed economico.
Un po’ di quello che è rimasto
In concreto vogliamo esemplificare il continuum storico che caratterizza la storia dell'alimentazione per quanto riguarda tradizioni e cibi. Abbiamo già proposto nel secondo capitolo qualche prova del concetto che vogliamo esprimere: cioè che l'alimentazione imposta dal Fascismo e sviluppatasi nel periodo della seconda guerra mondiale ha dato un apporto importante a quella attuale.
Abbiamo notato che pietanze preparate allora sono ancora presenti sulle nostre tavole, ma soprattutto che si sono create in quei periodi tradizioni e innovazioni che si sono mantenute fino ad oggi.
Proponiamo ora tre esempi coerenti, che si sommano ai tanti già citati nelle pagine precedenti.
Nel ventennio fascista, nei periodi antecedenti alla Seconda Guerra, iniziarono ad essere proposte le gite di Ferragosto, viaggetti di uno o tre giorni che occupavano le vacanze dei giorni centrali di Agosto di milioni di Italiani. Vennero organizzati i "treni popolari di Ferragosto" per permettere anche alle classi meno abbienti la partecipazione, dato che la quota di iscrizione risultava ridotta e accessibile, ma " Attenzione", raccomandava il bando di registrazione,"il vitto é escluso". L'ingegno dei ceti più bassi, che si stava già allenando per le future difficoltà, permise di inventare quello che ancora oggi chiamiamo: "pranzo al sacco". Due fette di pane con in mezzo una di prosciutto si mettevano nella sacca della gita e si risparmiava sul ristoro!
Di pasta e fagioli o di polenta ne abbiamo scritto in abbondanza ma quello che abbiamo tralasciato fino a questo momento sono le bevande che accompagnavano il pasto o lo concludevano.
La Coca-cola, naturalmente era un tabù, simbolo dell'impero americano, simbolo di un economia estera, tutto ciò che andava contro all'ideale autarchico di Mussolini. Della ricerca di una soluzione all'analcolico dai chiari valori fascisti, si fece carico l'azienda "San Pellegrino" che progettò nel 1932 un surrogato della bevanda americana ricavato da frutti comuni in Sicilia e nel meridione: il chinotto. Interessante e inerente all'argomento é anche la travagliata storia del caffè.
Nel maggio del 1939, con solennità, i giornali annunciano che al bar della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, non viene più servito l'espresso e che lo stesso avverrà in qualsiasi locale d'Italia. Fu il primo provvedimento che colpisce un genere di largo consumo: l'autarchia in vigore non poteva permettere uno sperpero di denaro soprattutto quando questo fosse indirizzato alle casse monetarie nemiche. Il piano del Duce era quello di produrselo in casa, o meglio nelle colonie dell'Abissinia, nell'arco di qualche anno, ma nel frattempo bisognava farne a meno. La patria dell'espresso tuttavia fece fatica a compiere questo sacrificio: da sotto il bancone dei bar spuntavano tazzine di quell'oro tanto ambito da tutti ma sempre più raro e di conseguenza sempre più caro. Il popolo nell'arco di qualche anno dal divieto non era più in grado di permettersi un caffè neanche occasionalmente, in questo caso il commercio offrì infusi e polveri per ricreare il sapore della bevanda, ma con uno scarso successo.
Miglior sorte ebbero i "surrogati" popolari, certo si dovette sperimentare a lungo prima di trovare la giusta ricetta: inizialmente si rispolverò il vecchio caffè di ghiande, tostate e macinate danno vita ad una nutriente bevanda che tuttavia all'espresso assomiglia ben poco, così apparve ingegnoso provare a creare una bevanda simile adoperando la soia ma il costo eccessivo del legume non permise un'estesa diffusione. Si fece caffè col malto e coi lupini, addirittura con le pere essiccate macinate e tostate. Per annebbiare il cattivo sapore di questi surrogati si decise che la soluzione migliore fosse quella di aggiungere alla bevanda qualche goccia di grappa o di cognac, il risultato fu quello che noi oggi chiamiamo caffè corretto. Ma nessuno di questi metodi soddisfaceva il palato esigente degli Italiani, che definivano "ciofeca" questo "finto caffè". Tuttavia anche durante gli anni centrali del conflitto si continuava ad avere l'esigenza di una tazzina di espresso procurandosela a caro prezzo dall'estero e tentando d'inventare la formula perfetta anche senza materia prima. La ricetta non si trovò mai, l'ingrediente segreto che placò il desiderio di caffè del popolo fu l'orzo. I metodi di preparazione furono la classica macinazione e tostatura ma il risultato ottenuto fu di una bevanda più gustosa rispetto alle altre e soprattutto molto più somigliante all'originale. Preferito addirittura all'originale ancora oggi da molto persone, il caffè d'orzo é prepotentemente entrato nella nostra tradizione e nei nostri bar.
E' pronto
Ci proiettiamo nel 1942 in una ricostruzione di una cena su una tavola di contadini. Entriamo nella sala da pranzo in questa casa di campagna del nord Italia, e subito cattura la nostra attenzione un particolare: come mai c'è un pezzo di lardo attaccato al lampadario che illumina la tavola? Scopriremo il motivo più avanti, intanto siamo distratti dalle posate un poco annerite, dai piatti che non ci saremmo aspettati di trovare colorati, dalla tovaglia anch'essa di un giallo vivace certo con qualche alone e qualche macchia, ma nel complesso un clima caldo e accogliente. Lo rende tale il profumo che viene dalla cucina, e la voce della madre di famiglia che richiama i figli e il marito con le parole che precedono da secoli il momento famigliare della cena: "E' pronto!". Neanche terminata la magica frase che le sedie sono già tutte occupate, ad eccezione di quella della mamma intenta ad ultimare con tutta la cura necessaria la prima pietanza. Il primo ad essere servito è il capo famiglia, da quando é tornato dal fronte perché ferito gravemente ad un braccio è sempre di pessimo umore sentendosi inutile alla patria e ai suoi figli, nemmeno ringrazia ed affamato guarda il mestolo col quale dalla zuppiera viene versato il brodo. Sembrerebbe anche borbottare qualcosa, lamentandosi per il solito pasto, ma la consorte stanca in volto dallo stress e dalla fatica compiuta per riuscire a servire quel poco che aveva trovato non bada e continua a svolgere il suo dovere servendo uno ad uno i suoi 3 figli rigorosamente dal più grande al più piccolo. Ora anche la donna si siede, per lei di minestra ne e rimasta poca, ma ancora una volta con indifferenza si accontenta e inizia a sorseggiare. Nessuno chiede cosa c'é che galleggia nel piatto, anzi nessuno parla proprio allora sbirciamo noi: intravvediamo lenticchie e fagioli fave e ceci, tutti i legumi che Petronilla ha consigliato per un'alimentazione ricca e soddisfacente, il sedano e qualche altra erbetta che non riusciamo a decifrare cosa sia, danno un po' di colore a questo brodo, che ci sembra invitante e profumato.
Sulla tavola, abbiamo notato solo ora, ci sono tre panini, o almeno sembrano tali dato che sono molto scuri, quasi neri e nemmeno spolverati dal bianco della farina, sembrano bruciati ma vediamo che nessuno li tocca fino a quando il padre decide che é giunto il momento e al termine della minestra ne usa un pezzo accuratamente diviso con le mani per pulire il piatto. Lo stesso fanno gli altri commensali dopo di lui. Ci stupisce il fatto di come tutti trattino con cura estrema il pane, anche se il suo aspetto non é dei migliori, e al termine della prima portata ne sia stata consumata solo una piccola parte.
Attendiamo il "secondo". Chissà cosa ci aspetterà? Ma avviene il colpo di scena, nessuno si alza e va in cucina per prendere un pezzo di carne o una frittata. Il secondo era già in tavola, o meglio sopra la tavola. Il padre e i figli si dividono i due panini rimanenti, ne concedono una piccola parte anche alla donna di casa, che mai si sarebbe permessa di togliere il cibo ai propri cari; il più piccolo si issa in piedi sulla sedia e strofina il pezzo di pane sul lardo che penzola dal lampadario. In quella circostanza ci attendiamo un rimprovero da parte del capofamiglia per un gesto simile, invece tutti fanno lo stesso e portano il proprio pezzo di pane verso il lardo, lo sfregano per bene in modo da sentirne il sapore. E' solo al termine di questo rito, che i famigliari cominciano a conversare, hanno messo qualcosa nello stomaco e sono felici. La madre tira un sospiro di sollievo, anche per oggi il suo incubo peggiore é passato, e pensa già a cosa cucinerà domani, a tutte le fatiche che la attendono, in primis quella di sparecchiare la tavola e lavare piatti e stoviglie senza sapone.
Conclusione
L'obiettivo del lavoro svolto è stato quello di unire le conoscenze apprese in letture e analisi sull'argomento ad una rielaborazione che prendesse in considerazione i vari e numerosi temi inerenti all'alimentazione durante il periodo della Seconda Guerra mondiale. La digressione negli antecedenti avvenimenti e politiche adottate dal Fascismo negli anni che portano al conflitto, affrontata nel primo capitolo, é stata necessaria quanto utile a fornire le basi di una storia alimentare costantemente influenzata dal passato e per questo motivo fondamentale per comprendere al meglio la seconda parte dello scritto. Per lo stesso motivo si é cercato di mettere a fuoco i legami che uniscono l'alimentazione del periodo analizzato a quella odierna: scoprire quanto fosse diverso un pasto, ma allo stesso tempo analizzare sorprendentemente tutte le somiglianze che accomunano i diversi modi di mangiare mutati nel tempo.
Interpretandola in questa ottica sapere di cosa si nutrivano negli anni '40 non rimane mera curiosità fine a se stessa, ma diventa uno spunto interessante per conoscere e comprendere le dinamiche dei grandi avvenimenti.
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Lucchetti Marco:”101 Storie su Mussolini che non ti hanno mai raccontato”, editore Newton saggistica, Roma 2012.
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Pansa Giampaolo in “La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti” Edizione Rizzoli Milano.
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Sitografia:
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http:www. itwikipedia.org/ wiki/ Mercato_nero_in_Italia_durante_la_seconda_guerra_mondiale
http:www.patrimonioarchiviodistatonapoli.it

Fonte: http://www.cveer.com/uploaded_files/53899/2015-05-12-015153Aspetti_della_cucina_italiana_e_dell%E2%80%99alimentazione_popolare_durante_il_Secondo_Conflitto_mondiale.doc

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