Cause di giustificazione

Cause di giustificazione

 

 

 

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Cause di giustificazione

Giustificazione e non punibilità.

Tipicità e giustificazione.

Un fatto conforme a un tipo di reato non necessariamente è un fatto illecito. Il fatto conforme al tipo consiste nell’offesa o messa in pericolo d’un interesse meritevole di protezione. È per questo che la tipicità del fatto può essere considerata un indizio di illiceità. Resta aperto, peraltro, il problema di una eventuale giustificazione, cioè d’una esclusione obiettiva dell’illiceità del fatto, pur lesivo o pericoloso per un interesse penalmente protetto.
Definiamo cause di giustificazione, o scriminanti, le situazioni e condizioni in presenza delle quali la realizzazione di un fatto penalmente tipico  non è contraria al diritto (obiettivamente antigiuridico).
Esercizio del diritto e adempimento del dovere costituiscono delle possibili cause di giustificazione, immanenti alla logica dell’ordinamento giuridico. Nel codice italiano vigente sono espressamente richiamate dall’art. 51 c.p..
Nei codici penali moderni sono di regola disciplinate altre cause di giustificazione, le quali hanno a che fare con l’agire in situazioni di necessità (artt. 52, 53, 54 c.p.).
Completa il catalogo delle cause di giustificazione codificate il consenso dell’avente diritto.
Le cause di giustificazione sottendono un bilanciamento d’interessi, fra l’interesse tutelato dalla norma incriminatrice ed un interesse esterno, cui l’ordinamento giuridico riconosce, a certe condizioni, la prevalenza e una conseguente efficacia scriminante.
Il nostro codice usa, nel disciplinare le singole cause di giustificazione, l’espressione generica “non è punibile”, e nell’art. 59 c.p. parla di “circostanze che escludono la pena”. Il concetto di causa di giustificazione esprime l’assenza di contrasto con l’ordinamento giuridico complessivo, non solo con l’ordinamento penale.

Le cause di non punibilità in senso stretto.

La non punibilità di fatti conformi a un tipo di reato può derivare da ragioni diverse dalla sussistenza di cause di giustificazione in senso pieno. Può derivare da scusanti oggettive, cioè da ragioni che fanno venire meno la colpevolezza per il fatto. E può derivare anche da ragioni che, pur non escludendo né l’illiceità obiettiva del fatto né la soggettiva colpevolezza dell’autore, hanno a che fare con ulteriori ragioni di opportunità o inopportunità del punire, cui l’ordinamento giuridico dia rilievo.
Cause di non punibilità possono essere previste dalla legge, alla condizione che abbiano un puntuale fondamento nella Costituzione o da altre leggi costituzionali, e che l’esenzione da pena sia il frutto di un ragionevole bilanciamento dei valori costituzionali in gioco.
Il fatto tipico, ma giustificato, è un fatto lecito, malgrado il suo contenuto offensivo per un interesse penalmente protetto. Il fatto non punibile, per ragioni diverse dalla sussistenza di una causa di giustificazione oggettiva, non è un fatto lecito: non esclude conseguenze giuridiche di natura non penale, e può essere impedito alle condizioni in presenza delle quali la legge consente una reazione difensiva.

Le fonti della giustificazione o della non punibilità.

Disposizioni attributive di diritti o di doveri, con efficacia scriminante, possono provenire da qualsiasi ramo dell’ordinamento giuridico.
Fonti sublegislative potranno eventualmente venire in rilievo, solo se e in quanto vi sia attribuito rilievo da una legge alla quale, in ultima analisi, possa essere ricondotto l’effetto scriminante. Accanto alla legge statale ed atti equiparati, vengono in discussione la legge regionale, i regolamenti e la consuetudine.

La rilevanza oggettiva delle cause di giustificazione.

Le cause di giustificazione hanno rilevanza oggettiva, nel senso che l’illiceità del fatto commesso è esclusa, per l’intero ordinamento giuridico, dalla esistenza obiettiva di una situazione cui l’ordinamento giuridico attribuisca valenza scriminante. Esse sono valutate a favore dell’agente anche se da lui non conosciute o, per errore, ritenute inesistenti.
Non hanno rilievo, né per affermare né per escludere la giustificazione, le motivazioni del soggetto agente. Una situazione di fatto è causa di giustificazione sulla base di un bilanciamento d’interessi oggettivamente operato dall’ordinamento giuridico.

Cause di giustificazione non codificate? Attività medico-chirurgica e attività sportiva.

Vengono talvolta impropriamente inquadrate come scriminanti non codificate alcune situazioni di notevole importanza: attività medico-chirurgica e attività sportiva.
L’attività medico-chirurgica è un’attività non solo legittima e necessaria, ma, a certe condizioni, oggetto di doveri, anche di pubbliche istituzioni.
L’intervento sul corpo di altri, anche a fin di bene, presuppone il consenso informato dell’avente diritto, fino a che questi sia in grado di esprimerlo. Come regola generale, il consenso informato del paziente è dunque presupposto di liceità del trattamento terapeutico.
Doveri di intervento possono sorgere in assenza di consenso, solo se la persona interessata non sia in grado di esprimerlo validamente. L’intervento non può essere effettuato se non per un diretto beneficio della persona incapace. Per le persone incapaci, il consenso può essere dato da chi ne abbia la cura: genitore, tutore.
Il consenso dell’interessato, nel fondare la possibilità e i doveri di cura, segna anche il limite di tali doveri.
Il dovere del medico è di fornire un’informazione corretta, in particolare sui rischi cui il paziente va incontro.
Il limite dei doveri di cura, segnato dal consenso dell’interessato, vale anche nel caso in cui l’interessato chieda di sospendere una terapia in atto.
Anche quando la richiesta sia di interrompere una terapia, al venir meno dell’obbligo di cura, corrisponde il sorgere dell’obbligo di omettere le cure.
Analoghe considerazioni valgono per l’attività sportiva.
Anche qui ha centrale importanza il consenso dei partecipanti all’attività, presupposto necessario e non sostituibile della loro implicazione in attività tipicamente pericolose.
Né l’attività terapeutica, né l’attività sportiva possono essere compiutamente inquadrate nella prospettiva delle cause di giustificazione. Da un lato perché si tratta di attività tipicamente legittime, e dall’altro perché i problemi di responsabilità penale, nei casi in cui si verifichino eventi lesivi penalmente rilevanti, riguardano non solo i presupposti giustificativi di una data attività, ma anche il profilo della colpevolezza.

Esercizio di un diritto e adempimento di un dovere.

Fondamento e contenuti della scriminante.

Il codice penale italiano prevede espressamente (art. 51 c.p.) che “l’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere, imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica autorità, esclude la punibilità”.
Ciò che è diritto, o addirittura dovere, non può essere reato, in forza del principio di non contraddizione all’interno di uno stesso ordinamento giuridico.
Esempio di scuola, la privazione della libertà in esecuzione di un provvedimento dell’autorità giudiziaria.
Non basta la finalità di esercitare un diritto o adempiere un dovere. Il fine non giustifica il mezzo; la condotta tenuta al fine di far valere un diritto può non essere di per sé esercizio di un diritto.
L’effetto scriminante è collegato al puro e semplice esercizio del diritto. Non sono previsti requisiti aggiuntivi come per esempio la necessità di realizzare il fatto di reato.

Le fonti del diritto o del dovere scriminante.

Il diritto o dovere scriminante può nascere da una norma giuridica competente a porre diritti o doveri, secondo i principi pertinenti ai diversi settori dell’ordinamento. Accanto alla legge dello stato possono venire in rilievo anche le leggi regionali e norme di fonte comunitaria, in relazione alle materie di loro competenza.
Fatti o atti giuridici non di carattere normativo possono venire in rilievo se e in quanto costituiscano presupposto di fatto del sorgere di diritti o doveri, alla stregua di una fonte normativa a ciò legittimata.
Fra le fonti normative legittimate a fondare diritti vi è anche la Costituzione.
L’efficacia scriminante di un diritto derivante dalla Costituzione presuppone che la norma penale, astrattamente ricomprendente il comportamento scriminato, non sia costituzionalmente illegittima.

L’adempimento di un dovere.

La scriminante dell’adempimento di un dovere è analoga a quella dell’esercizio di un diritto, e presenta analoghi problemi.
L’efficacia scriminante presuppone un dovere che abbia come contenuto tipico la realizzazione del fatto concreto, corrispondente a un determinato tipo di reato.
L’art. 51 c.p. specifica che il dovere, il cui adempimento a efficacia scriminante, può derivare da una norma giuridica o da un ordine dell’autorità. In realtà, in ogni caso si tratta di doveri fondati su norme giuridiche.
L’ordine è un atto della pubblica autorità avente a contenuto l’imposizione di una determinata condotta (positiva od omissiva); la sua fonte di legittimità è la legge che “autorizza un soggetto a porre il comando, ed obbliga un altro soggetto ad eseguirlo sotto minaccia di una sanzione”.
Inequivocabilmente escluso dall’ambito d’operatività della scriminante ex art. 51 c.p. è l’ordine impartito da soggetti privati, ancorché nell’esercizio di poteri riconosciuti dall’ordinamento. Non è nel potere dei privati imporre comportamenti lesivi di interessi di terzi: un ordine privato che abbia a contenuto la commissione di fatti penalmente tipici è illegittimo.
Il limite della giustificazione è segnato, in via generale, dalla legittimità dell’ordine: se l’ordine non è legittimo, la realizzazione del fatto tipico, che ne sia derivata, non è giustificata, ma resta obiettivamente antigiuridica.
L’art. 51 c.p. prevede, però, che “Non è punibile chi esegue l’ordine illegittimo, quando la legge non gli consente alcun sindacato sulla legittimità dell’ordine”. Anche nei casi di ordine cosiddetto insindacabile l’efficacia scriminante è esclusa se l’ordine è manifestamente criminoso.

Il consenso dell’avente diritto.

Il consenso scriminante. Diritti disponibili e indisponibili.

Non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto, col consenso della persona che può validamente disporne” (art. 50 c.p.).
Se v’è un soggetto che può validamente disporre dell’interesse in gioco, può validamente consentire a un qualche sacrificio o messa in pericolo. In tal caso, il consenso validamente espresso esclude l’illiceità del fatto, che pure è e resta astrattamente tipico.
Decisiva è la volontà libera di colui che può legittimamente disporre dell’interesse penalmente protetto nel caso concreto.
Il bilanciamento d’interessi, che alla scriminante del consenso è sotteso, è fra interessi facenti capo al soggetto che di essi può disporre: da un lato l’interesse (disponibile) penalmente tutelato, dall’altro un diritto di libertà.
Importanza centrale, ai fini della rilevanza del consenso, ha la questione della disponibilità o meno del diritto, da risolvere alla luce dell’ordinamento giuridico complessivo.
La questione del consenso scriminante non si pone in relazione agli interessi pubblici penalmente tutelati. Tali interessi possono, o debbono, essere oggetto di gestione o tutela in conformità all’ordinamento giuridico; non possono essere abbandonati prestando consenso ad una loro lesione altrimenti vietata.
In relazione a reati che offendono congiuntamente interessi pubblici e privati, un eventuale consenso del privato non avrebbe rilievo scriminante, in quanto non fa venir meno la lesione di un interesse pubblico indisponibile.
Limiti alla rilevanza del consenso possono risultare da norme penali che incriminano dati fatti malgrado il consenso prestato da un dato soggetto (omicidi del consenziente, usura, atti sessuali con minorenne…).
In relazione a reati posti a tutela di interessi collettivi, non ha efficacia scriminante il consenso prestato da persone singole, pur appartenenti alla cerchia dei portatori dell’interesse protetto.
Anche in situazioni di indisponibilità del diritto, il consenso dell’interessato può essere ragione di differenziazioni del trattamento penale. Il consenso della vittima può rendere meno grave l’offesa, e/o meno rimproverabile il fatto.
Sono disponibili i diritti che possono essere oggetto di alienazione, come i diritti patrimoniali.
I diritti personali sono intrasmissibili a terzi e non rinunciabili, ma proprio l’esercizio del diritto può estrinsecarsi in atti di disposizione. In questi casi l’atto di disposizione preclude la stessa configurabilità di un tipo di reato.
L’integrità fisica è disponibile, entro limiti e condizioni.

I requisiti del consenso.

Ha efficacia scriminante il consenso validamente prestato dal titolare del diritto disponibile. Il consenso può essere prestato dal rappresentante (legale o volontario) nell’interesse del rappresentato.
Il consenso presuppone in ogni caso la capacità naturale di chi presta il consenso, cioè una maturità sufficiente a rendersi conto del significato, dell’importanza e delle reali conseguenze dell’atto di disposizione, avendo riguardo alla natura dell’interesse in gioco.
La legge penale non prevede per il consenso scriminante requisiti formali di validità. Necessario e sufficiente è che il consenso esista, prima della realizzazione del fatto; non è nemmeno necessario che sia noto all’autore del fatto, posto che le cause di giustificazione operano oggettivamente. Per esigenze probatorie, è necessario che il consenso sia espresso con un comportamento che lo renda riconoscibile e controllabile.
Un consenso effettivo presuppone una volontà libera, non viziata.
Il consenso scriminante ex art. 50 c.p. si deve ritenere come inesistente, in presenza di situazioni d’incapacità o di vizio della volontà.
Il consenso è revocabile in qualsiasi momento. Non fa sorgere diritti in capo ad altri. È la volontà dell’interessato al momento del fatto che per la legge penale è decisiva.

Consenso e tutela dell’integrità fisica.

L’integrità fisica è, a certe condizioni, un bene sicuramente disponibile.
Fin dove il consenso può coprire fatti lesivi dell’integrità fisica di terzi? Si suole in proposito richiamare l’art. 5 c.c.: “Gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume”.
Non può essere consentita una diminuzione permanente.
Non si ha diminuzione permanente dell’integrità fisica nel caso di asporto di parti del corpo che si autoriproducono (sangue…). Quanto agli organi doppi, la perdita di uno di essi è una diminuzione permanente dell’integrità fisica, che comporta l’indebolimento della funzione cui l’organo serve.

Consenso e tutela della vita.

Dal codice penale viene una chiara indicazione che il consenso alla privazione della vita non ha efficacia scriminante. L’omicidio del consenziente è vietato, e la pena prevista è severa, sia pure meno grave di quella prevista per l’omicidio volontario comune. Sono anche puniti l’istigazione e l’aiuto al suicidio.
Il problema dell’eutanasia va impostato avendo riguardo, da un alto, all’incriminazione dell’omicidio del consenziente, e dall’altro lato ai doveri di chi sia in rapporto con la persona che chiede di essere aiutata a morire. In via di principio è leggibile nell’art. 579 c.p. il divieto dell’eutanasia attiva, anche consensuale: cioè di comportamenti attivi idonei e diretti ad accelerare la morte, ancorché effettuati a richiesta o col consenso dell’interessato.
Di fronte al rifiuto di determinati trattamenti, il medico, ancorchè garante della salute del paziente, non può imporre coattivamente, contro la volontà dell’interessato, un trattamento che il paziente rifiuta. Il limite al potere-dovere di cura apre la strada ad una valutazione di liceità dell’eutanasia passiva consensuale, cioè dell’omissione di un trattamento terapeutico adeguato e necessario per il mantenimento in vita. Il dovere di cura non è indipendente dalla volontà dell’interessato; l’omissione di interventi che non siano doverosi non fonda alcuna responsabilità per omissione.
La legittimità di una cura volta ad alleviare le sofferenze, piuttosto che a prolungare la vita del paziente a qualsiasi costo, può essere fondata sul dovere giuridico di alleviare le sofferenze, ove in tal senso sia la volontà dell’interessato. Per contro, se il paziente chiede di fare tutto il possibile per il mantenimento in vita, tale sua volontà fonda un corrispondente dovere del medico, sulla base del medesimo principio: voluntas aegroti suprema lex.
In ogni caso, il principio del consenso informato addita come dovere essenziale del medico il dovere di fornire adeguata informazione, soprattutto quando si tratti di scelte a rischio elevato.

Consenso all’esposizione a pericolo.

Come testualmente prevede l’art. 50 c.p., la scriminante del consenso può valere anche in relazione alla esposizione a pericolo.
Il consenso scrimina l’esposizione a pericolo sugli stessi presupposti e nello stesso ambito in cui scrimina la lesione effettivamente verificatasi. È decisiva la normalità sociale del rischio.
Può il consenso scriminare fatti cagionati per colpa, cioè con violazione di regole di diligenza?
Affermare l’incompatibilità fra la scriminante del consenso e il reato colposo può essere accettabile in quanto si intenda affermare che il consenso all’esposizione al pericolo non copre eventuali conseguenze lesive, e non esonera dall’osservanza delle pertinenti regole di diligenza, prudenza, perizia, specie là dove siano in gioco la vita o l’incolumità personale.
In relazione ad eventi lesivi non coperti dal consenso, i problemi penali si giocano in ultima analisi sul campo della colpevolezza.
E se fosse stato prestato uno specifico consenso alla violazione di regole cautelari, accettando un rischio eccedente quello consentito dall’ordinamento giuridico? In questo caso negare la rilevanza del consenso appare eccessivo. Deve trattarsi di un consenso informato.

Reazioni giustificate in situazioni di necessità.

Premessa.

Problemi peculiari di giustificazione sorgono con riguardo all’agire in situazioni di necessità, nelle quali, cioè, un interesse giuridicamente protetto è esposto a pericolo, ed esigenze di effettiva salvaguardia dell’interesse minacciato entrano in tensione con il dovere di evitare la realizzazione di fatti penalmente tipici.
Cause di giustificazione analiticamente disciplinate negli artt. 52-54 c.p..
La figura fondamentale di questo gruppo è la legittima difesa, così delineata nell’art. 52 c.p.: “Non è punibile chi ha commesso il fatto per essere stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui dal pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa”.
Lo stato di necessità è delineato dall’art. 54 c.p.: “Non è punibile chi ha commesso il fatto per essere stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo”.
La necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza all’autorità” è il presupposto di giustificazione dell’uso legittimo delle armi o di altro mezzo di coazione fisica, disciplinato dall’art. 53 c.p..
La realizzazione del fatto penalmente tipico non costituisce il contenuto tipico di un diritto o di un dovere del soggetto agente, ma è in rapporto di necessità strumentale con la difesa di un diritto proprio o altrui (legittima difesa), o con la salvezza della propria o altrui persona da un danno grave (stato di necessità), o con l’adempimento d’un dovere d’ufficio (uso legittimo di mezzi di coazione fisica).

Legittima difesa.

Il fondamento della causa di liceità: diritto di difendere i diritti, o funzione pubblica?

Da un lato viene affermato un diritto di autotutela fondato su principi di diritto naturale: quando, in concreto, non sia dato attendere l’intervento della pubblica autorità senza pregiudizio per il diritto aggredito, la tutela affidata all’autorità statuale dal contratto sociale originario ritorna nelle mani dell’avente diritto.
Dall’altro lato sono stati proposti modelli di giustificazione di carattere pubblicistico: la reazione difensiva contro l’aggressore viene vista come esercizio di una pubblica funzione di polizia, delegata dallo stato al cittadino nei casi d’impossibilità d’intervento, o addirittura come sanzione.
La legittima difesa privata è un diritto della persona, il cui nucleo fa parte dei diritti inviolabili che l’ordinamento legale è tenuto a riconoscere.
Viene in rilievo la difesa legittima di un diritto proprio. La legittima difesa di un diritto altrui (soccorso difensivo) è una estensione apprezzabile in una visione solidaristica, e coerente con il principio di uguaglianza.
La difesa di diritti altrui da ingiuste aggressioni in atto è consentita anche alla forza pubblica.

I presupposti della legittima difesa: il pericolo attuale di un’offesa ingiusta.

Presupposto della legittima difesa è il pericolo attuale di un’offesa ingiusta. L’elemento del pericolo attuale accomuna la legittima difesa e lo stato di necessità. Elemento differenziale è invece la fonte del pericolo.
Pericolo attuale è un pericolo in atto: già radicato e riconoscibile nella condotta dell’aggressore, e non ancora cessato, con o senza la realizzazione dell’offesa. Quando il pericolo sia cessato, una eventuale reazione avrebbe il significato di ritorsione o rappresaglia contro l’aggressore, non di difesa del diritto aggredito.
È ancora attuale il pericolo in situazioni d’inseguimento immediato dell’autore di un diritto di furto o rapina, che stia fuggendo con il bottino.
Il pericolo che giustifica la reazione difensiva contro l’aggressore è quello connesso a un’offesa ingiusta. Tale è l’offesa contraria al diritto, che aggredisce diritti di altri, persone fisiche o giuridiche.
La legittima difesa è ammessa a tutela di qualunque interesse individuale giuridicamente riconosciuto.
È invece fuori dalla scriminante la difesa privata di beni collettivi o a titolarità diffusa: la tutela di questi compete esclusivamente alla pubblica autorità.
È ingiusta, e costituisce presupposto di una legittima reazione difensiva, anche l’aggressione da parte di un soggetto incapace.
Problema della legittima difesa anticipata. La lettera e la logica escludono che la difesa possa anticipare l’offesa: non costituisce pericolo attuale il danno semplicemente minacciato a parole. Tendenzialmente il momento iniziale del pericolo può ritenersi coincidente con il passaggio dell’offesa dalla fase preparatoria alla fase esecutiva.
È attuale il pericolo perdurante, connesso ad offese che costituiscono delitti di durata.

I requisiti della difesa legittima: la necessità di difendere un diritto.

In presenza del pericolo attuale di un’offesa ingiusta, la realizzazione di un fatto penalmente tipico, in danno dell’aggressore, è giustificata se l’agente ha agito perché costretto dalla necessità di difesa, e nei limiti della proporzione fra offesa e difesa.
Il requisito della necessità di difesa caratterizza la difesa legittima sotto l’aspetto della razionalità ed economicità rispetto allo scopo. La necessità sussiste se il pericolo non può essere neutralizzato senza ledere diritti dell’aggressore, o comunque con una condotta meno lesiva. Reazione lesiva necessitata è quella che rappresenta il mezzo minimo necessario.
La possibilità di allontanarsi senza pericolo esclude la necessità di difesa dell’interesse aggredito, anche quando si tratti di fuga poco onorevole.
Ciò che segna il limite della difesa legittima, in situazioni di possibile discessus, è la proporzione fra offesa e difesa. Quando vi è una possibilità di discessus, non è di regola consentita una reazione lesiva dell’incolumità personale dell’aggressore.
In situazioni di pericolo perdurante di reiterazione di comportamenti aggressivi, la necessità della reazione difensiva appare problematica quando vi siano intervalli temporali fra le concrete estrinsecazioni del comportamento offensivo, e la vittima può sottrarsi alla reiterazione delle offese, anche richiedendo interventi dell’autorità. La vittima abituale del tiranno domestico, che lo uccida nel sonno, non agisce in stato di legittima difesa.
Diversa è la situazione di una persona sequestrata, durante la prigionia: in questo caso l’offesa alla libertà è sempre presente, e sempre presente la necessità di difesa.
A differenza dell’art. 54 c.p., l’art. 52 c.p. non dice che il pericolo non deve essere stato volontariamente causato. Peraltro, secondo l’indirizzo dominante in giurisprudenza, la scriminante della legittima difesa non sussiste in ipotesi quali la partecipazione a una rissa, l’avere lanciato o raccolto una sfida a battersi, la provocazione, a meno che la difesa non sia stata resa necessaria da una reazione aggressiva sproporzionata, imprevedibile nella situazione data.
L’esclusione della scriminante è senz’altro sostenibile, in situazioni in cui l’alternativa secca fra l’essere offeso ed il reagire per difendersi sia stata programmaticamente suscitata.
Tale diritto non può invece essere negato nemmeno al provocatore o allo sfidante, di fronte ad una reazione eccedente quella prevista, o comunque in caso di provocazione volontaria (anche colposa).

I requisiti della difesa legittima: la proporzione fra difesa e offesa.

La reazione difensiva necessitata è legittima, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa.
Secondo un indirizzo sostenuto in passato sarebbe sempre consentita l’adozione del mezzo minimo necessario, nella situazione concreta, per evitare l’offesa ingiusta. Questa conclusione è giustamente respinta dall’orientamento ormai consolidato. Il riferimento ai mezzi non è sbagliato, ma non basta. La comparazione fra le modalità difensive attuate e quelle attuabili ha a che fare con il requisito della necessità: non è costretto dalla necessità chi ha posto in essere una reazione più lesiva di altre, ugualmente idonee a respingere l’offesa, che i mezzi a sua disposizione avrebbero consentito. L’uso del minimo mezzo è un requisito necessario della difesa necessitata ma non sufficiente. Il requisito della proporzione, aggiungendosi al requisito della necessità, comporta una restrizione ulteriore dell’ambito della giustificazione.
Il requisito della proporzione caratterizza la difesa legittima sotto l’aspetto della razionalità rispetto ai valori. Si tratta di un limite di tollerabilità etico-sociale che l’ordinamento giuridico pone alla reazione difensiva. Il limite della proporzione comporta il dovere di abbandonare il diritto minacciato, nei casi in cui la reazione difensiva sarebbe sproporzionata all’offesa. La proporzione va valutata con riguardo ai beni in conflitto.
Il raffronto va effettuato fra l’offesa in concreto minacciata dall’aggressore, e quella in concreto cagionata dalla reazione difensiva.
Nel bilanciamento tra offesa e difesa viene in rilievo la gerarchia di valori espressa dall’ordinamento giuridico. Il riferimento fondamentale va cercato nella Costituzione. I diritti inviolabili della persona hanno un rango preminente su tutti gli altri, in particolare sui diritti patrimoniali.
Il salvataggio della persona da un danno grave è ammesso anche a discapito di terzi innocenti; ciò non è ammesso per il salvataggio di diritti patrimoniali.
Può risultare proporzionata anche una lesione di interessi di rango superiore al diritto difeso, sempre che il divario di valore non sia eccessivo.
Nei casi normali la legittima difesa di beni patrimoniali, pur ammessa in via di principio, non consente una reazione lesiva contro la persona, sì invece una reazione intenzionalmente rivolta a cose.

Legittima difesa nel privato domicilio.

la difesa di aggressioni in luoghi privati è stata oggetto di una nuova disciplina, introdotta dalla l.59/2006, diritto all’autotutela in un privato domicilio. All’art. 52 c.p. sono stati aggiunti i seguenti commi:
Nei casi previsti dall’art. 614 c.p., primo e secondo comma, sussiste il rapporto di proporzione di cui al primo comma del presente articolo se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi ivi indicati usa un’arma detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere:

  • La propria o altrui incolumità;
  • I beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo di aggressione.

La disposizione di cui al secondo comma si applica anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto all’interno di ogni altro luogo in cui venga esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale”.
Va sottolineato che la nuova legge, nell’introdurre una disciplina differenziata per i casi di aggressione in luoghi privati, tiene fermi e immutati tutti gli altri presupposti e requisiti della legittima difesa di cui al primo comma dell’art. 52 c.p. non modificato e non derogato, e anzi espressamente richiamato.
Per quanto non diversamente disciplinato dalla nuova disciplina speciale, resta applicabile la disciplina generale.
Anche nei casi disciplinati dalla nuova norma la legittimità della reazione difensiva presuppone l’attualità dell’aggressione e la necessità di difesa. La reazione difensiva non è legittima se non è necessaria.
Il campo di applicazione della legittima difesa speciale è delimitato a fatti avvenuti in luoghi privati. Vengono in rilievo i casi previsti dall’art. 614 c.p., cioè i casi in cui l’aggressione sia accompagnata da un fatto costituente violazione di domicilio.
La disciplina speciale si applica inoltre a fatti avvenuti all’interno di ogni altro luogo in cui venga esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale, cioè in luoghi privati normalmente aperti a terzi.
La difesa con mezzi idonei è proporzionata se effettuata al fine di difendere la propria o altrui incolumità, oppure i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo di aggressione.
La novella del 2006 statuisce che sussiste il rapporto di proporzione: afferma la sussistenza della proporzione indipendentemente dalla valutazione in concreto del rapporto fra la gravità delle conseguenze lesive cui l’aggredito era esposto, e la portata lesiva della sua reazione.
La disciplina speciale riguarda due ipotesi. La prima è quella della difesa della propria o altrui incolumità; la seconda riguarda la difesa di beni patrimoniali quando non vi è desistenza e vi è pericolo di aggressione.
L’accenno alla non desistenza si limita a ribadire che il pericolo di offesa ingiusta deve essere attuale. La desistenza fa venire meno in ogni caso l’attualità del pericolo.
La nuova disciplina si applica solo se, oltre all’aggressione in atto contro beni patrimoniali, vi è un ulteriore pericolo di aggressione, riguardante l’incolumità personale.
Non sono applicabili le nuove disposizioni nel caso in cui il ladro o rapinatore fugge con il bottino di cui si sia impossessato in un luogo privato. In tale ipotesi non vi è pericolo per l’incolumità, e la legittima difesa è ammissibile secondo i criteri generali. La proporzione, dunque, va valutata in concreto.

Gli offendicula.

Un problema è quello degli offendicula, ossia della predisposizione di strumenti atti ad offendere che potrebbero cagionare eventi lesivi per chi superasse la sfera alla cui protezione gli offendicula siano posti.
L’evento lesivo cagionato dall’offendiculum può essere scriminato dalla sussistenza di tutti gli estremi della legittima difesa.
Cagionare eventi lesivi in danno di terzi è, in via di principio vietato. L’esercizio del diritto di difesa della proprietà non basta a risolvere il problema della giustificazione, se è stato cagionato un evento che cade al di fuori di quelli coperti dalla difesa legittima.
La prospettiva è quella dell’individuazione di una sfera di rischio consentito, in esito al contemperamento del diritto di tutela preventiva con la tutela dell’incolumità personale di terzi.
La valutazione si gioca sul piano della colpa: questa può essere esclusa alla condizione che, nel predisporre lo strumento pericoloso, siano state adottate cautele tali da rendere non prevedibile la concreta causazione dell’evento.
Particolare rilievo è attribuito alla riconoscibilità del pericolo, che chi appresta l’offendiculum deve assicurare; i doveri di diligenza cui egli è tenuto sono doveri di adeguata segnalazione. Solo la sicura riconoscibilità del pericolo, con conseguente possibilità di evitarlo, consente di ritenere non illegittimi taluni strumenti di difesa.

Stato di necessità.

Il problema: azioni di salvataggio a scapito di terzi innocenti.

Il problema, cui il riconoscimento dello stato di necessità intende dare risposta, riguarda situazioni di necessità affini a quelle nelle quali sorge il problema della legittima difesa, ma si caratterizza per il fatto che viene in considerazione un’azione di salvataggio a scapito di un terzo innocente, o comunque di interessi penalmente tutelati non pertinenti ad un aggressore.
Bilanciamento di interessi contrapposti. È richiesta la proporzione fra il fatto commesso rispetto al pericolo; non è dato rilievo a fattori soggettivi quali il turbamento psichico o altri fattori di alterazione del processo decisionale.
L’aver agito in stato di necessità esclude l’obbligo di risarcimento del danno, ma lascia residuare una conseguenza (indennità rimessa all’equo apprezzamento del giudice) che invece è esclusa nell’ipotesi di legittima difesa.
Se l’azione necessitata si rivolge contro un terzo innocente, anche questi può, concorrendone le condizioni, invocare quanto meno lo stato di necessità, se non la legittima difesa.

Analogie e differenze fra stato di necessità e legittima difesa.

La differenza fra la reazione difensiva contro l’aggressore e l’azione di salvataggio con sacrificio di interessi di terzi sta alla radice che gli ordinamenti giuridici introducono nella disciplina delle due figure, strutturalmente affini, della legittima difesa e dello stato di necessità.
Entrambi gli istituti hanno una radice comune nella necessità di difendere o salvare dati diritti; ma quando l’azione necessitata colpisca non un affressore, bensì un terzo innocente, la tutela del terzo innocente pone problemi di delimitazione dell’esimente, più stringenti di quelli che si pongono per la difesa nei confronti di un aggressore.
Elementi strutturali comuni ad entrambe: il presupposto della necessità; l’attualità del pericolo; la proporzione.
Come la legittima difesa, l’esimente dello stato di necessità comprende anche azioni di salvataggio di terzi (soccorso di necessità).
Differenze: mentre la legittima difesa è consentita per la difesa di qualsiasi diritto, lo stato di necessità ha valore esimente solo quando il pericolo attuale sia di danno grave alla persona; il pericolo, inoltre, non deve essere stato volontariamente causato, né altrimenti evitabile.
Il pericolo attuale è presupposto comune di entrambe le esimenti.
L’esimente dello stato di necessità, non diversamente dalla legittima difesa, opera nei limiti della proporzione. I termini della proporzione sono il danno causato dall’azione necessitata e il pericolo da cui si cerca salvezza.
Nello stato di necessità il terzo innocente ha la medesima dignità di tutela dell’agente necessitato. Il rapporto di proporzione va dunque valutato in modo più rigido.
L’esimente dello stato di necessità non opera qualora il pericolo sia stato volontariamente causato, o sia altrimenti evitabile.

Stato di necessità determinato dall’altrui minaccia.

Stabilisce espressamente l’art. 54 c.p., al terzo comma, che l’esimente si applica anche quando lo stato di necessità è determinato dall’altrui minaccia, e che in tal caso del fatto commesso dalla persona minacciata risponde chi l’ha costretta a commetterlo.
Esclude la responsabilità penale di chi abbia agito in tale situazione, ma non l’obiettiva illiceità del fatto, del quale risponde l’autore della minaccia.

 

Stato di necessità e stato di bisogno.

Lo stato di bisogno economico trova espresso rilievo nell’art. 626 c.p., che inquadra fra i furti minori, più mitemente sanzionati, il furto commesso su cose di tenue valore, per soddisfare un grave e urgente bisogno. Non basta dunque un grave e urgente bisogno per integrare i presupposti dello stato di necessità.

Il soccorso di necessità.

Soccorso di necessità e doveri di soccorso.

L’esimente di cui all’art. 54 c.p. comprende non solo fatti che taluno, in stato di necessità, abbia compiuto per salvare sé stesso, ma anche fatti compiuti per salvare altri: soccorso di necessità.
Il soccorso di altri, che si trovino in situazioni di pericolo grave, in taluni casi è oggetto di doveri d’attivarsi.
Vengono in rilievo disposizioni anche penalmente sanzionate, rivolte a chiunque, come l’omissione di soccorso ex art. 593 c.p..
Ma soprattutto vengono in rilievo i doveri propri di particolari categorie do soggetti, quali gli appartenenti a forze di polizia, gli addetti alla protezione civile o gli esercenti professioni sanitarie.

L’autonomia della persona come limite al soccorso di necessità.

È consentito un soccorso di necessità contro la volontà della persona che si vuole soccorrere? Finchè si tratta di impedire o bloccare un atto suicida o di lesioni contro sé stesso, o ricercare di salvare il suicida, non c’è questione.
Non può essere ammessa una sostituzione della volontà bene intenzionata del soccorritore alla volontà contraria del salvando, di fronte al pericolo di danni futuri inerente a scelte esistenziali liberamente effettuate.
Ammettere il soccorso di necessità in prevenzione di possibili esiti autolesionisti di scelte personali di vita, significherebbe legittimare la sovrapposizione coattiva a fin di bene da parte di qualsiasi soggetto possa farlo di fatto ed intenda farlo.

Stato di necessità e poteri dell’autorità.

Di fronte al problema della lotta la terrorismo, lo stato di necessità è stato invocato a sostegno di linee d’intervento fra loro molto diverse, anzi opposte: da un alto nel tentativo di giustificare metodi d’inquisizione violenta, e dall’altro lato a sostegno di linee di trattativa per salvare persone sequestrate, in contrapposizione alla linea della fermezza, cioè del rifiuto di principio della presa in considerazione delle richieste avanzate da gruppi eversivi quale condizione per il rilascio di persone prese in ostaggio.
È consentito, e se sì come, modificare le regole legali generali del rapporto libertà-autorità, facendo della necessità un criterio eccezionale ma generale di allargamento dei poteri dell’autorità? La risposta è negativa.
L’esimente generale dello stato di necessità non può essere invocata come clausola generale che consenta deroghe al principio di legalità nello svolgimento di funzioni pubbliche.

Il particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo.

L’esimente dello stato di necessità non opera per chi ha un particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo.
L’esclusione dell’esimente è prevista in relazione a fatti commessi dal soggetto obbligato per salvare sé stesso. Non vale in relazioni a fatti che abbiano coinvolto diritti di terzi, proprio nell’adempimento del dovere di soccorso.

 

Uso legittimo della coazione.

Il problema.

Il codice Rocco contiene una specifica scriminante dell’uso legittimo delle armi (art. 53 c.p.). “Non è punibile il pubblico ufficiale che, al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio, fa uso ovvero ordina di far uso delle armi o di un latro mezzo di coazione fisica, quando vi è costretto dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza all’autorità. La non punibilità di estende a qualsiasi persona che, legalmente richiesta dal pubblico ufficiale, gli presti assistenza. Analoga scriminante è prevista per i militari dall’art. 41 del codice militare di pace.

I titolari della potestà di coazione fisica.

L’articolo non fonda, ma presuppone competenze a far uso della coazione fisica, legalmente attribuite a date categorie di funzionari dell’ordinamento giuspubblicistico.
I pubblici ufficiali cui si riferisce l’art. 53 c.p. sono coloro per i quali l’uso delle armi o di altro mezzo di coazione fisica è espressione dell’elemento funzionale della propria attività. Appartenenti alla forza pubblica.
I corpi principali sono l’arma dei carabinieri, la guardia di finanza, la polizia di stato. Non rientrano in questa categoria le guardie giurate che svolgono attività di vigilanza e investigazione privata; per esse, come per i comuni cittadini, l’uso della coazione fisica potrà essere ammesso nei limiti della legittima difesa o del soccorso difensivo, o in casi di richiesta proveniente dalla forza pubblica.

I presupposti della coazione legittima: violenza e resistenza all’autorità.

Le situazioni alle quali la scriminante si riferisce sono situazioni in cui è in gioco l’adempimento di un dovere d’ufficio: non una mera facoltà d’agire, ma un dovere al cui adempimento viene frapposto ostacolo.
La coazione fisica si giustifica esclusivamente come risposta necessaria ad una opposizione fisica, che non sia dato altrimenti superare.
Nucleo delle situazioni legittimanti l’uso della coazione è la violenza in senso proprio: estrinsecazione di energia fisica trasmodante in fisico pregiudizio sul pubblico ufficiale agente o su altre persone o cose inerenti all’adempimento del dovere d’ufficio. Anche la minaccia viene in considerazione, in quanto minaccia di violenza fisica immediata, atta a bloccare l’attività del pubblico ufficiale.

I mezzi usati e la proporzione.

Il confine fra il lecito e l’illecito penale, tracciato dalla scriminante in esame, riguarda l’uso di qualsiasi mezzo coercitivo, cui la forza pubblica possa ricorrere nell’adempimento dei suoi compiti istituzionali.
La necessità della reazione accomuna la scriminante in esame a quelle degli artt. 52, 54 c.p., e delimita la portata ai casi in cui il ricorso alle armi costituisce l’ultima ratio.
L’uso della coazione non può non essere governato dal principio di proporzione o di bilanciamento degli interessi, immanente all’intero ordinamento giuridico. La preminenza incondizionata dell’autorità dello stato non più essere affermata quando sono in gioco diritti inviolabili della persona.
Qualora i mezzi a disposizione facciano prevedere effetti sproporzionati, l’interesse pubblico dovrà rinunciare alla soddisfazione coattiva.
La giurisprudenza ha ripetutamente affermato che, salvo le eccezioni previste da specifiche disposizioni di legge, l’uso delle armi contro chi fugge non è legittimo: manca il rapporto di proporzione tra l’uso dell’arma ed il carattere non violento della resistenza opposta mediante la fuga.
Una reazione che metta in gioco la vita od incolumità altrui si giustifica, proprio in nome della vita e dei diritti dell’uomo, solo quando sia necessaria a respingere un’aggressione in atto od un’opposizione violenta all’autorità che riproduca lo schema offesa-difesa.

Il soccorso difensivo ad opera della forza pubblica.

Con la l.152/1975, intitolata alla “tutela dell’ordine pubblico”, fra le finalità legittimanti l’uso delle armi da parte di pubblici ufficiali è stata inserita quella di “comunque impedire la consumazione dei delitti di strage, di naufragio, sommersione, disastro aviatorio, disastro ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano armata e sequestro di persona”.
Rispetto ai delitti elencati sarebbe stata anticipatamente operata una valutazione di preminenza degli interessi pubblici collegati alla non consumazione di quei delitti, rispetto agli interessi sacrificati dall’uso delle armi. Non tanto, dunque, un ampliamento dei casi di uso legittimo delle armi, quanto un’esplicita soluzione legislativa del problema della proporzione fra date offese ed il soccorso difensivo ammissibile.

Fonte: http://www.studentibicocca.it/file/download/1103?license_confirmed=true

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