Regioni ed enti locali

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Regioni ed enti locali

Il regionalismo e l’amministrazione locale nella costituzione del 1948
L'ordinamento regionale e locale sta profondamente cambiando in conseguenza di tre leggi costituzionali (1/1999, 2 e 3/2001), che hanno nel loro complesso modificato il titolo V della seconda parte della costituzione (risultano mutati o abrogati ben 18 dei venti articoli che lo componevano) ed alcune parti degli statuti speciali, ponendo quindi le premesse per molteplici interventi di attuazione. Peraltro molti provvedimenti attuativi di questa riforma non sono stati adottati e quindi continua a restare in vigore buona parte della legislazione precedente.
Nel testo costituzionale del 1948, le disposizioni costituzionali più espressive del mutamento intervenuto rispetto ai modelli precedenti di amministrazione locale possono essere individuati negli articoli 5 (principio dell'unità e indivisibilità della Repubblica, autonomia locale e decentramento amministrativo) e 114 (la Repubblica si riparte in regioni, province comuni).
In particolare, rimane nella Costituzione il modello di un’amministrazione locale in cui convivono e operano sul medesimo territorio più enti pubblici, a seconda del riparto tra loro delle diverse funzioni amministrative nelle differenziate materie. Ciò significa che esistono funzioni proprie dello Stato e altre delle regioni e degli enti locali e che quindi convivono sul medesimo territorio un’amministrazione statale decentrata e più amministrazioni pubbliche dipendenti dai diversi enti locali. Una seconda importante scelta consiste nel riconoscimento agli enti locali di autonomia che di autarchia. Con la prima si intende il riconoscimento agli enti locali del potere di determinare autonomamente, seppur nel rispetto dei limiti di legge, le loro regole di organizzazione e di azione. Con la seconda ci si riferisce al fatto che l’ente locale, per operare, adotta veri e propri provvedimenti amministrativi di tipo autoritativo, che non presentano alcuna diversità rispetto a quelli adottati dagli organi statali. Il riconoscimento del valore di un esercizio autonomo di significative funzioni di amministrazione pubblica a livello locale da parte di organi rappresentativi delle comunità locali risponde ad una maggiore adeguatezza dell’azione amministrativa ai problemi che è chiamata a risolvere. Da ciò il concetto di ente locale territoriale diverso da quello di ente pubblico locale, e cioè avente semplicemente una sfera di azione locale, ma non rappresentativo del corpo elettorale locale. Il problema se questi ultimi possono esercitare funzioni analoghe a quelle degli enti locali è stato risolto con la legge 59/1997 nel senso che, accanto agli enti locali territoriali, esistono enti pubblici locali dotati di autonomia funzionale (camere di commercio, università,ecc…), chiamati a esercitare alcune funzioni pubbliche. Pur con questi limiti, la netta volontà di riaffermare il valore dell’autonomia locale portò ad alcune scelte rilevanti: in primo luogo, l’art. 128 Cost. (ora abrogato) individua nelle “leggi generali della Repubblica” (e quindi in apposite e speciali leggi del Parlamento) le fonti abilitate a determinare i soli principi in tema di organizzazione di comuni e province, in modo da lasciar loro un sufficiente spazio normativo autonomo, nonché a definire le rispettive funzioni.
La creazione delle regioni, come enti le cui competenze sono costituzionalmente garantite, era concepita non in chiave concorrenziale con gli enti locali, ma, anzi, in vista di un loro auspicato rafforzamento. Infatti, gli enti locali mantenevano intatto il loro ruolo amministrativo, pur all'interno della materia di competenza delle regioni, e anzi queste ultime venivano esplicitamente impegnate dalle fonti costituzionali a delegare agli enti locali altre funzioni amministrative fra quelle che ad esse spettavano.
In terzo luogo, infine, gli artt. 125 e 130 Cost. (ora abrogati), nel disciplinare i controlli sugli atti di regioni ed enti locali, sottraevano questa funzione ai preesistenti organi statali e t5rasformavano radicalmente (fino a far scomparire) quel controllo di merito sulle delibere degli enti locali, in cui, in passato, si traduceva l’idea dell’appartenenza allo Stato, in ultime istanza, delle funzioni ad essi attribuite.
Le vicende successive, legate alla lenta e faticosa attuazione del disegno costituzionale, non solo hanno evidenziato ritardi culturali e sorde resistenze a tradurre in pratica un simile disegno di riforma istituzionale, ma hanno messo in luce anche una certa sommarietà ed ambiguità della disciplina costituzionale in materia.
Le maggiori innovazioni intervenute per attuare la disciplina costituzionale e le linee di fondo delle recenti modificazioni costituzionali
La stessa assemblea costituente approva gli statuti speciali di 4 o 5 regioni ad autonomia particolare (Sardegna, Sicilia, trentino-Alto Adige, valle d’Aosta), mentre per il Friuli Venezia Giulia si attendeva la soluzione del problema della definizione del confine orientale (solo nel 1963 verrà adottato il suo statuto). Rapidamente gli organi di queste 4 regioni vengono eletti ed esse iniziano a funzionare. Il parlamento eletto nel 1948, infatti, dimostra di non voler procedere in tempi brevi all’istituzione delle regioni ad autonomia ordinaria: mentre non si arriva all’elezione dei consigli regionali entro un anno dall’entrata in vigore della costituzione, divengono condizioni pregiudiziali al futuro svolgimento di queste elezioni l’approvazione di una serie di leggi.
Il lungo ritardo nell'elezione dei consigli delle regioni ad autonomia ordinaria ha provocato che le regioni ad autonomia particolare hanno finito per apparire enti del tutto atipici e quindi le loro funzioni, pur definite negli statuti speciali in modo particolarmente ampio, vennero non poco ridimensionate dall'azione degli organi dello Stato centrale.
E ciò non solo per le resistenze a modificare l’assetto amministrativo di settori così numerosi, ma anche per la necessità di mantenere apparati e politiche statali in quegli stessi settori, per tutta la parte residua del territorio nazionale. Inoltre, la ricostruzione del paese dopo il periodo bellico, la nascita di nuovi strumenti di intervento nell’economia e il notevole accrescimento delle funzioni e dei servizi pubblici, producono una forte espansione dell’amministrazione pubblica secondo moduli organizzativi di tipo accentrato, rispetto ai quali risulta anomala la presenza delle regioni ad autonomia particolare. Al tempo stesso, la legislazione attuativa delle disposizioni costituzionali relative alle diverse autonomie regionali risulta chiaramente ispirata alla volontà di restringere quanto previsto negli statuti speciali per le regioni ad autonomia particolare e nella costituzione per le regioni ad autonomia ordinaria. In particolare, le norme di attuazione degli statuti speciali trasferiscono alle regioni funzioni molto ridotte e condizionate. Sul versante delle regioni ad autonomia ordinaria, appaiono particolarmente significative molte disposizioni della legge 62/1953, che disciplinano con estrema analiticità i contenuti degli statuti di queste regioni e che subordinano alla previa adozione di apposite “leggi cornice”da parte del Parlamento, il futuro esercizio del potere legislativo regionale, in tutte.
Le materie ritenute più importanti a sua volta, la legislazione in materia di enti locali resta in sostanza quasi immutata rispetto all’ordinamento precostituzionale, corretto frettolosamente e solo in piccola parte. È solo con legislazione che precede e segue le elezioni, nel 1970, dei consigli delle regioni ad autonomia ordinaria, che tutta la situazione si rimette in movimento: anzitutto nella legge 281/1970 si sostituisce la discussa disposizione relativa alla necessità della previa esistenza delle leggi cornice con un’altra, che ammette la possibilità dell’esercizio della potestà legislativa regionale di tipo concorrente ove si rispettano i principi legislativi comunque deducibili dalle disposizioni vigenti.
Con la legge 1084/1970 in parte si abrogano ed in parte si dichiarano solo momentaneamente vigenti tutte quelle disposizioni, contenute nella legge 62/1953, che mirava ma condizionare le scelte statutarie delle regioni. La formazione, per la prima volta, nel sistema politico italiano, di uno schieramento di amministratori regionali e locali sufficientemente forte e unito nel rivendicare il ruolo non secondario delle regioni contribuisce a due importanti vicende istituzionali. In primo luogo, l'approvazione parlamentare degli statuti delle regioni ordinarie, adottati dei consigli regionali con contenuti in certa misura imprevisti e non poco innovativi. In secondo luogo la delega legislativa al governo per l'adozione degli atti necessari per il trasferimento alle regioni delle funzioni amministrative.
Né ciò basta, perché il parziale e modesto trasferimento di funzioni operato con gli undici decreti legislativi del 1972 viene giudicato tanto insoddisfacente anche a livello parlamentare, che già con la legge 382/1975 si prevede il completamento di questo processo di trasferimento delle funzioni amministrative dallo Stato delle regioni e agli enti locali. In questo contesto, se l’area dei settori di intervento delle regioni si espande in parte, al tempo stesso va affermandosi, quasi in funzione compensativa, una forte linea di riduzione del grado di autonomia riconosciuta alle regioni: mentre emerge in tutta la sua rilevanza la contrazione dell’autonomia regionale conseguente all’attività normativa della CEE, l’autonomia legislativa regionale viene ridotta ad opera delle norme di trasferimento e delle stesse leggi di principio adottate dal parlamento; al tempo stesso, si crea con legge un nuovo strumento di limitazione dell’autonomia regionale, rappresentato dal potere governativo di indirizzo e di coordinamento dell’attività amministrativa regionale; si costruisce un sistema di finanziamento delle regioni fortemente dipendente dalle determinazioni nazionali. In un settore molto importante anche per le regioni, le riforme hanno cominciato a concretizzarsi con la riforma della legislazione relativa agli enti locali tramite la legge 142/1990, che ha infine abrogato larga parte dei testi normativi del periodo liberale e di quello fascista che continuavano a disciplinare il settore.
I molti problemi irrisolti hanno determinato, nel clima degli anni '90 di ripensamento del complessivo modello costituzionale, una spinta a verificare se in materia regionale non fosse necessario introdurre modifiche alle disposizioni costituzionali. Alcune importanti novità sono state introdotte da tre importanti leggi ordinarie (59/1997, 127/1997, 191/1998), in parte di riforma e in parte di delega.
Le modifiche al titolo V della costituzione avvennero con la legge 1/1999, relativa alle regioni ad autonomia ordinaria, e con la legge 2/2001, relativa alle regioni ad autonomia speciale. Si è proceduto a introdurre l'elezione diretta dei presidenti regionali e l'elezione dei consiglieri regionali mediante un sistema elettorale di tipo proporzionale corretto da un significativo premio di maggioranza. Salva la possibilità delle regioni di disporre in modo difforme tramite i loro statuti e la loro legislazione elettorale. Infine, proprio al termine della XIII legislatura, che introduce molteplici e rilevanti novità nell’ordinamento e nelle funzioni delle regioni ad autonomia ordinaria, degli enti locali e, in parte, delle stesse regioni a statuto speciale.
La legge costituzionale 3/2001 è entrata in vigore nel novembre di quell'anno dopo lo svolgimento a esito favorevole del referendum popolare. Il nuovo articolo 114 stabilisce che "La Repubblica è costituita da comuni, province, città metropolitane, regioni e stato".
Poiché per la prima volta i diversi enti pubblici rappresentativi vengono posti, almeno apparentemente, in una posizione di parità, senza una gerarchizzazione fra i diversi livelli istituzionali. Anche nel nuovo titolo V si conferma la discussa distinzione fra regioni ad autonomia speciale e regioni ad autonomia ordinaria, disciplinate appunto dalla Costituzione. Una delle modifiche più rilevanti consiste nel netto superamento del precedente criterio di riparto delle competenze legislative fra Stato e regioni ad autonomia ordinaria, quale era configurato nel vecchio testo dell’art. 117 Cost.
Il nuovo articolo 117, che stabilisce le materie di competenza regionale, afferma che lo Stato mantiene una competenza esclusiva in diciassette materie o gruppi di materie, mentre in altre 19 materie o gruppi di materie si ha una legislazione concorrente fra Stato e regioni, nel senso che lo Stato mantiene il potere di determinazione di principi fondamentali; in tutte le residue materie spetta alle regioni la potestà legislativa.
Un altro tipo di potestà legislativa regionale concorrente era già stato previsto nel primo comma del nuovo art.123 Cost. in tema di sistema di elezione e di determinazione dei casi di ineleggibilità e di incompatibilità “del presidente e degli altri componenti della giunta regionale nonché dei consiglieri regionali”.
In questo ambito, le regioni dovranno anche cercare di dare attuazione al principio di rimuovere “ogni ostacolo  che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di acceso tra donne e uomini alle cariche elettive”.con questa riforma, sono quindi le regioni che dispongono in genere del potere legislativo e regolamentare, salvo che nelle materie di esclusiva competenza legislativa dello stato. Sotto altro profilo, il controllo statale sulle leggi regionali si limita ormai ai soli dubbi di legittimità costituzionale e diverse successivo, poiché il governo può ricorrere alla corte costituzionale solo dopo la pubblicazione della legge regionale, entro il termine di 60 giorni. Innovazioni significative si hanno anche sul versante dei rapporti con l’U.E. e con i soggetti esteri: si afferma, infatti, che tutte le regioni e le province autonome, nelle materie di loro competenza, partecipano alla fase ascendente relativa ad accordi internazionali ed a atti dell’U.E. nel rispetto di norme procedurali determinate da leggi statali; inoltre, ciascuna regione, sempre nelle materie di sua competenza, può “concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali interni ad altro Stato, nei casi e con le forme disciplinati da leggi dello stato”. Sul piano della titolarità e dell’esercizio delle funzioni amministrative, nel nuovo art. 118 si afferma, invia di principio, la loro tendenziale attribuzione ai comuni, “salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a province, città metropolitane, regioni e Stato, sulla base del principio di sussidiarità, differenziazione e adeguatezza”.a questo proposito, appare peraltro particolarmente complesso ricondurre a coerente unità quanto previsto nel nuovo titolo V proprio in riferimento ai poteri normativi chiamati a definire le funzioni degli enti locali: se il II comma dell’art. 117 enumera fra le competenze legislative esclusive dello Stato “ legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane”, la concreta determinazione di quali funzioni amministrative nelle diverse materie verranno attribuite ai vari enti locali spetterà al legislatore statale o regionale a seconda delle loro rispettive competenze legislative nei diversi settori.
Sempre nell’art. 118, si fa riferimento anche al principio di sussidiarità cosiddetta orizzontale, là dove si afferma che “Stato, regioni, città metropolitane, province e comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli o associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarità”.
Il nuovo art. 119 Cost. prevede che la legge statale debba garantire sia agli enti locali che alle regioni “autonomia finanziaria di entrata e di spesa”. Due le categorie fondamentali di finanziamento indicate, che nel loro complesso devono consentire “di finanziare integralmente le funzioni pubbliche” di questi enti: tributi propri e “compartecipazione al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio”; proventi derivanti da “un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante”. Nel nuovo titolo V vengono abrogate le precedenti disposizioni costituzionali che disciplinavano i controlli amministrativi sugli atti delle regioni e sugli atti degli enti locali, nonché quella che prevedeva l'istituzione del commissario di governo.
Nel II comma dell’art. 120, si disciplina un ampio potere sostitutivo del governo nazionale rispetto a regioni e enti locali “nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria oppure di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”. A ciò è da aggiungere che l’innovativa previsione nel V comma dell’art. 117 dei poteri regionali in tema di attuazione ed esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’unione europea è accompagnato dalla previsione che il legislatore nazionale determinerà anche m2le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza”. La riforma del titolo V ha stabilito che i regolamenti delle Camere possono prevedere la partecipazione alla commissione parlamentare bicamerale per le questioni regionali di rappresentanti regionali e locali, prevedendo che il parere negativo di questa ultima commissione, così integrata, sulle leggi cornice e sulle leggi in tema di finanza regionale e locale possa essere superato solo dal voto a maggioranza assunta delle assemblee parlamentari. Questa profonda riforma appare però largamente inattuata: nel corso di un’intera legislatura sono state adottate la legge 131/2003 (legge la loggia), che disciplina però solo parte dei nuovi istituti previsti, e la legge 165/2004, è mentre stata rimandata ad un lontano futuro l’elaborazione delle leggi necessarie per attuare il nuovo sistema di finanziamento di regioni e enti locali, per determinare i principi fondamentali nelle materie di (vecchia e nuova) competenza legislativa concorrente, per trasferire apparati e funzioni amministrative e regioni e enti locali.
Gli statuti delle Regioni ad autonomia speciale
Il regime giuridico fondamentale delle quindici ragioni ad autonomia ordinaria è contenuto nelle disposizioni del titolo V della seconda parte della costituzione; l'articolo 116 della costituzione riserva ad apposite leggi costituzionali l'adozione di statuti speciali che garantiscano forme e condizioni particolari di autonomia alla Sicilia, Sardegna, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Valle d'Aosta, denominate ragioni ad autonomia particolare, per rispecchiare i caratteri peculiari di ciascuna.
Sul piano giuridico l’autonomia di ciascuna delle regioni ad autonomia particolare è definita da una apposita legge costituzionale, denominata Statuto speciale e rispetto alla cui adozione e revisione, pertanto, la regione interessata non dispone sul piano formale che del proprio potere di iniziativa legislativa a livello nazionale. Inoltre, la disciplina degli statuti speciali appare alquanto più analitica delle corrispondenti disposizioni costituzionali relative ad autonomia ordinaria e contiene anche la previsione di speciali istituti attuativi, come le norme di attuazione che tendono a privilegiare il rapporto fra questi regioni e il governo.
Le disposizioni statutarie prevalgono su quelle costituzionali, salvo che vengano in gioco principi assolutamente fondamentali del patto costituzionale. Sono comuni a tutte le regioni le forme principali di partecipazione all'esercizio di funzioni statali: ciascun consiglio regionale dispone dell'iniziativa legislativa, delegati nominati dai consigli regionali partecipano all'elezione del presidente della Repubblica, cinque regioni possono chiedere che si svolgano i referendum di cui agli articoli 75 e 138 della costituzione, le regioni e le province autonome possono ricorrere alla corte costituzionale a tutela delle proprie competenze.
Sia in sede di giudizio di costituzionalità sulle leggi, che in sede di conflitto di attribuzione. Un’altra disposizione comune a tutte le regioni è quella contenuta nell’art. 132 Cost., secondo la quale la fusione di regioni esistenti o la creazione di nuove è possibile con un’apposita legge costituzionale, ma solo dopo un procedimento assai complesso e nel quale alcuni assensi appaiono indispensabili (richiesta da parte di consigli comunali “che rappresentino almeno un terzo delle popolazioni interessate”, apposito referendum approvato “dalla maggioranza delle popolazioni”, parere dei consigli regionali interessati).
Alcune disposizioni delle leggi costituzionali n°2 e 3 del 2001 sembrano emergere alcuni parziali avvicinamenti fra i 2 tipi di regioni: non solo la legge 2/2001 ha equiparato il sistema elettorale e la forma di governo provvisoria di tutte le regioni, e ha introdotto anche nelle regioni ad autonomia speciale una forma di autonomia statuaria interna, ma soprattutto la legge Cost.3/2001 espande notevolmente i poteri legislativi delle regioni ad autonomia ordinaria e in genere la loro autonomia, tanto da prevedersi all’art. 11 di questa legge che “sino all’adeguamento dei rispettivi statuti, le disposizioni della presente legge costituzionale si applicano anche alle regioni a statuto speciale a alle province autonome di Trento e di Bolzano per le parti in cui prevedono forme di autonomie più ampie rispetto a quelle già attribuite”. La previsione relativa alla rappresentanza in parlamento delle autonomie regionali e locali attraverso la possibile trasformazione della commissione bicamerale per le questioni regionali non distingue tra i diversi tipi di regione.
Ogni regione potrà adottare una speciale legge regionale, da provare a maggioranza assoluta, per determinare la forma di governo regionale, in analogia con quanto si prevede per gli statuti delle regioni ad autonomia ordinaria dalla legge 1/1999.
Questa particolare “legge statuaria” potrà essere sottoposta a previo referendum popolare su richiesta di frazioni di corpo elettorale o dei componenti del consiglio (ma questi ultimi solo se la delibera non ha conseguito la maggioranza dei 2/3) e sarà impugnabile in via preventiva dal governo entro 30 giorni dinanzi alla corte costituzionale per motivi di legittimità costituzionale. Anzitutto questi statuti regionali contengono una disciplina alquanto più analitica di quella prevista nel titolo V della Costituzione, giungendo a disciplinare anche istituti che, nell’ordinamento regionale ordinario, sono in sostanza rimessi ad altri atti normativi. Ciò ha permesso una più rapida entrata in funzione di queste regioni, ma ha molto irrigidito la disciplina del loro assetto istituzionale.per ridurre queste conseguenze negative, alcuni statuti prevedono la modificabilità delle disposizioni statuarie, in alcuni settori particolarmente bisognosi di frequenti aggiustamenti normativi (esempio il settore delle modalità del finanziamento delle attività regionali), mediante semplici leggi del parlamento, previa intesa o comunque partecipazione della regione interessata (si avrebbero così casi di decostituzionalizzazione di alcune disposizioni degli statuti speciali).
Tutti gli statuti speciali prevedono che le rispettive norme di attuazione siano poste in essere dal governo mediante speciali decreti legislativi. Ci si trova dinanzi all'unico, e alquanto discutibile, caso di vera e propria attribuzione in via esclusiva al governo di un potere normativo primario, per di più in un settore di grande importanza e senza nemmeno una precisa determinazione delle possibili materie disciplinabili.
È pur vero che il governo può esercitare il suo potere solo dopo aver ottenuto il parere di un’apposita commissione paritetica, formata da esperti designati dal governo e dalle regioni o province interessate, ma resta il fatto che, al di là dell’opportuna partecipazione dei rappresentanti locali al processo di elaborazione di questa norme, il governo dispone pur sempre di una posizione di supremazia nella commissione e non è comunque tenuto ad adottare tali norme. A ciò si aggiunge che da questo procedimento resta tagliato fuori il paramento. Il più evidente elemento distintivo fra le regioni ad autonomia particolare e tutte le altre, consisteva nella maggiore estensione dell’elenco delle materie di competenza legislativa ed amministrativa di queste regioni, che è contenuto nei rispettivi statuti. Ormai numerose sentenze della corte costituzionale hanno peraltro riconosciuto che queste regioni, ove i rispettivi statuti prevedono poteri legislativi minori di quelli delle regioni ad autonomia ordinaria, possono disporre, ai sensi dell’art. 10 della legge Cost. 3/2001, dei poteri legislativi previsti dall’art.117 Cost. (ovviamente nei limiti in cui li prevede il titolo V della Costituzione). Inoltre, in numerose materie di loro competenza,queste regioni dispongono di un potere legislativo di tipo primario-esclusivo. I meccanismi di finanziamento delle attività regionali: gli statuti speciali prevedono, in generale, più ampi e garantiti canali di finanziamento, soprattutto tramite l’individuazione di specifiche e rilevanti entrate fiscali, il cui ricavato è, almeno in parte, da trasferire alle regioni; mentre, d’altro canto, esistono anche canali di finanziamento speciale per alcune delle regioni ad autonomia particolare. Da segnalare il fatto che le disposizioni statuarie di queste regioni prevedono che il presidente della regione o delle province autonome possa prendere parte alla riunione del consiglio dei ministri, in cui siano in discussione questioni che riguardano la regione o la provincia autonoma. Fra gli elementi tipici più rilevanti di alcune fra queste regioni, sono, anzitutto, da evidenziare le disposizioni ispirate al rispetto e alla tutela delle minoranze linguistiche, che caratterizzano lo statuto nel Trentino- Alto Adige, in misura minore, lo statuto delle Valle d’Aosta. Mentre nello statuto valdostano, infatti, ci si limita ad affermare la parificazione della lingua francese a quella italiana nella pubblica amministrazione e nella scuola, nel primo il problema della tutela dei gruppi linguistici è alla base di molteplici disposizioni e addirittura diviene elemento caratterizzante nella stessa organizzazione di questo tipo del tutto particolare di autonomia territoriale.

 

Gli statuti e l’ordinamento interno delle Regioni ad autonomia ordinaria
Spesso, l’effettiva misura dell’autonomia regionale dipende proprio dal grado maggiore o minore specificità dei principi affermati in Costituzione e dal tipo di fonte a cui vengono rinviate le scelte normative ulteriori. Particolarmente importante appare la fonte statuaria, mediante la quale la regione determina autonomamente la propria organizzazione interna; al tempo stesso, però, questo potere appare limitato dalle disposizioni della stessa Costituzione o delle leggi cui essa rinvia per determinati oggetti riconducibili alla materia statuaria.
Il testo originario dell'articolo 123 della costituzione prevedeva che le regioni dovessero dotarsi di uno statuto per disciplinare "le norme relative all'organizzazione interna" mediante un atto normativo deliberato a maggioranza assoluta dal consiglio regionale e poi approvato dal parlamento con legge.
I testi statuari sono stati approvati nel 1970/1 con contenuti innovativi ed in certa misura imprevisti (questi testi sono tuttora vigenti in alcune regioni che non hanno ancora adottato il nuovo statuto). Le scelte statuarie si sono in genere caratterizzate per un consistente rafforzamento della posizione del consiglio regionale; per la valorizzazione della collegialità della giunta; per un ruolo non particolarmente significativo del presidente regionale: parte di queste scelte sono state però modificate dal nuovo sistema elettorale e costituzionale previsto dalla 1 Cost. 1/1999.
Particolarmente innovative sono state le scelte in tema di attività e organizzazione amministrativa: diffusa prescrizione di alcuni requisiti per l'attività amministrativa regionale (motivazione, contraddittorio, pubblicità) e previsione di numerosi istituti di partecipazione dei singoli e dei gruppi ai procedimenti amministrativi; articolazione organizzativa e strutture facilmente adeguabili al mutamento delle politiche regionali e affermazione di metodi di lavoro collegiali e intersettoriali; creazione di ruoli unici del personale regionale, con previsione di forme di mobilità interna; introduzione dell'istituto del difensore civico come organo indipendente, incaricato di controllare, su istanza degli interessati, il sollecito e regolare svolgimento dell'attività amministrativa regionale. Agli enti locali sono riconosciuti alcuni significativi poteri incidenti sull'esercizio di funzioni regionali, come il potere di iniziativa legislativa, ma anche il potere di richiedere referendum e di rivolgere interrogazioni.
Tutte le regioni hanno modificato la volontà di dare ampia attuazione alla direttiva di delegare funzioni amministrative agli enti locali. In questo conteso peraltro emergeva la consapevolezza della necessità di aiutare tali enti a superare i limiti della vecchia legislazione e la loro stessa eccessiva polverizzazione. Un altro settore nel quale gli statuti hanno innovato l’assetto normativo precedente è quello degli statuti di partecipazione popolare: non solo adozione degli istituti di democrazia diretta già previsti a livello nazionale(comunque con una maggiore garanzia per l’iniziativa popolare nei procedimenti consiliari e con l’estensione del referendum abrogativo anche ad una serie di provvedimenti amministrativi), ma valorizzazione della partecipazione popolare, sia individuale che tramite gli organismi rappresentativi del pluralismo sociale nelle fasi consultive nei procedimenti di formazione delle leggi o dei maggiori atti amministrativi regionali. Parallelamente, ci si è impegnati a fornire agli interessati idonei supporti informativi.
La legge costituzionale 1/1999 muta notevolmente la fonte statutaria delle regioni ad autonomia ordinaria, configurandolo con un tipo particolare di legge regionale caratterizzato da un procedimento speciale di approvazione e di controllo: dev'esser approvato a maggioranza assoluta dal consiglio regionale per due volte entro il termine due mesi e il governo può impugnare direttamente la delibera statutaria dinanzi alla corte costituzionale entro 30 giorni dalla pubblicazione.
Ove lo statuto regionale sia stato dichiarato illegittimo costituzionalmente, l’intero procedimento deve ricominciare; in tali ipotesi si procederà alla promulgazione del testo statuario privo della disposizione dichiarata incostituzionale, e il governo potrà solo sollevare conflitto di attribuzione dinanzi ad una promulgazione che ritenga illegittima.
È inoltre previsto che un cinquantesimo degli elettori regionali o un quinto dei consiglieri regionali possono chiedere un referendum sul testo statuario entro 3 mesi dalla sua pubblicazione notiziole: non si chiede alcun quorum minimo di partecipazione, ma il presidente regionale o può procedere alla promulgazione dello statuto solo se la maggioranza dei voti validamente espressi si è pronunciata a suo favore.
Viene confermato il primato della disciplina statutaria rispetto alla ordinaria attività regionale.
Lo statuto è una parte che “determina la forma di governo e i principi fondamentali di organizzazione e funzionamento” e “regola l’esercizio del diritto di iniziativa e del referendum su leggi e provvedimenti amministrativi della regione e la pubblicazione delle leggi e regolamenti regionali”. Al tempo stesso, si conferma la subordinazione della fonte statuaria alla disciplina costituzionale, che appunto configura lo statuto regionale come speciale fonte primaria nei limiti della disciplina contenuta nel titolo V della Costituzione”; inoltre la prescrizione secondo la quale lo statuto deve essere “in armonia con la Costituzione” indica la necessità che lo statuto, al di là del rispetto delle puntuali prescrizioni costituzionali, debba riuscire anche ad inserirsi armonicamente nel complessivo sistema delle istituzioni repubblicane, senza quindi contraddire principi e valori fondamentali. Alle determinazioni statuarie spetta anche la scelta di prendere eventualmente la nomina di componenti della giunta al di fuori dei consiglieri regionali e determinare la tipologia e la titolarità del potere regolarmente regionale. Anche i nuovi artt. 121 e 126 Cost. determinano alcune caratteristiche della forma di governo regionale: ora il presidente della regione appare decisamente rafforzato, poiché “dirige la politica della giunta e ne è responsabile” e può essere sfiduciato dal consiglio regionale solo mediante una mozione di sfiducia votata a maggioranza assoluta. Molto più rigido è il sistema se si decide che il presidente sia eletto direttamente dal corpo elettorale: in questo caso egli “nomina e revoca i componenti della giunta”, l’eventuale sfiducia provoca lo scioglimento del consiglio, e analogamente ove si verifichino “impedimento permanente, la morte o le dimissioni volontarie” del presidente. Le scelte di far eleggere in modo diretto il presidente della regione e di adottare un sistema elettorale di tipo proporzionale con un forte premio di maggioranza sono quindi state imposte solo in via transitoria dalla legge Cost. 1/1999, poiché il legislatore regionale può disporre diversamente in sede statuaria e nella legge elettorale regionale. Il nuovo 4°comma dell’art.123 Cost. impone che lo statuto regionale debba prevedere e disciplinare il consiglio delle autonomie locali e cioè un organo rappresentativo degli enti locali presenti nella regione, configurandone quindi i poteri di tipo consultivo e di stimolo nei confronti del consiglio regionale o eventualmente anche della giunta.
L’autonomia legislativa delle Regioni ad autonomia speciale
La riforma del titolo V della costituzione precisa che le materie di competenza legislativa delle regioni ad autonomia ordinaria sono quelle non regolate dalla costituzione, mentre per le regioni ad autonomia speciale sono quelle loro attribuite dalla costituzione. Le regioni ad autonomia speciale dispongono in alcuni settori di un tipo di potestà legislativa che incontra limiti solo "esterni" alle materie espressamente elencate dagli statuti speciali (la cosiddetta potestà legislativa primaria esclusiva); in altri settori, invece, dispongono della cosiddetta potestà legislativa ripartita o concorrente, la quale spetta anche le regioni ad autonomia ordinaria. La potestà legislativa facoltativa-integrativa può essere esercitata dalle regioni in materia di competenza statale, ma solo se nella misura in cui la legge dello Stato permette alle regioni la possibilità di adattarne il contenuto alle particolari esigenze locali. La potestà legislativa regionale primaria ha il divieto di disciplinare i rapporti di diritto privato, penale e processuale.
Limiti generali, in parte provengono da disposizioni esplicite degli statuti e della Cost., in parte si ricavano da un’interpretazione sistematica delle disposizioni costituzionali.
Tali limiti operano come limiti di legittimità, dal momento che delimitano l’ambito legislativo che spetta alla competenza statale e il loro rispetto è quindi garantito il controllo di costituzionalità operato dalla corte costituzionale. Il primo limite generale di legittimità è quello relativo al necessario rispetto dei confini delle materie e di competenza regionale. Malgrado qualche opinione contraria, sembra esservi preso atto della possibilità di un adeguamento del contenuto delle materie alle trasformazioni legislative intervenute. Un altro limite generale è quello che va sotto il nome di limite territoriale: esso consiste nel fatto che la legge regionale non può che riferirsi a fenomeni, attività o servizi relativi al territorio regionale, o, più raramente, a coloro che hanno un rapporto con il territorio regionale o comunque lo abbiano avuto. Un terzo limite è il limite costituzionale: è ovvio che la legge regionale non può, al pari di ogni altra fonte primaria, derogare ad alcuna disposizione costituzionale. Ma ciò che più rileva è stabilire se esistono disposizioni costituzionali che costituiscono limiti speciali per l’attività legislativa regionale. La risposta è positiva: è evidente, ad es., che il I comma dell’art. 120 Cost. si riferisce anche all’attività legislativa delle regioni, dal momento che esso punta ad impedire ogni limitazione o onere alla circolazione di persone e cose, nonché alla libertà dei cittadini di esercitare ovunque la loro attività professionale. Altri limiti alla potestà legislativa regionale primaria sono stati giustificati dalla giurisprudenza costituzionale con riferimento ad alcune disposizioni della Costituzione: si tratta del divieto di disciplinare i rapporti di diritto privato, nonché quelli relativi al diritto penale e processuale. Altri limiti generali sono previsti nelle disposizioni di alcuni statuti speciali, ma ritenuti estensibili alle altre regioni: si tratta del necessario rispetto dei principi delle grandi riforme economico-sociali della Repubblica, degli obblighi internazionali dello Stato, dei principi generali dell’ordinamento giuridico.
Il limite dei principi delle grandi riforme risponde alla volontà di consentire, nelle materie di competenza regionale, che il legislatore nazionale possa procedere a profondi processi di riforma o di riordino. La potestà legislativa delle regioni non deve contraddire gli elementi di fondo caratterizzanti il complessivo sistema giuridico.
I principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato costituiscono un limite dettato dall’esigenza di garantire che l’esercizio della potestà legislativa da parte delle regioni non contraddica. In ogni caso, alcuni elementi di fondo, e, in certa misura, caratterizzanti il complessivo sistema giuridico.
Il limite degli obblighi internazionali dello Stato stabilisce che solo lo Stato può esprimere apprezzamenti di politica estera e stipulare accordi con soggetti di diritto internazionale. Per quanto riguarda le fonti normative comunitarie nelle materie di competenza regionale, la legge statale prevale sulla legge regionale. Il quinto comma dell'articolo 117 della costituzione garantisce al livello costituzionale che le regioni e le province autonome nelle materie di loro competenza provvedono all'attuazione e all'esecuzione degli accordi internazionale e degli atti dell'Unione Europea nel rispetto delle norme di procedure stabilite dalla legge dello Stato.
Per le intese con gli enti territoriali stranieri o per “attività in mero rilievo internazionale”, si prevede che se ne dia preventiva notizia alla presidenza del consiglio dei ministri degli esteri, che entro 30 giorni possono fare osservazioni. Comunque questi atti regionali “non possono esprimere valutazioni relative alla politica estera dello stato”, né possono far sorgere impegni finanziari per lo Stato o danneggiati gli altri enti territoriali. Molto più rigido il controllo sugli accordi con Stati stranieri: non solo questi possono essere solo esecutivi di accordi internazionali già entrati in vigore, o “accordi di natura tecnico-amministrativa o accordi di natura programmata” nel rispetto degli “indirizzi di politica estera italiana”, ma delle trattative e poi del progetto di accordo si deve dare tempestiva comunicazione al ministro degli affari esteri e alla presidenza del consiglio dei ministri, dal momento che questi ultimi debbono, “accertata l’opportunità politica e la legittimità dell’accordo”, conferire alla regione i “pieni poteri di firma” previsti dalla normativa internazionale in materia.
Infine, in tutti gli ambiti incidenti sui rapporti internazionali, il ministro per gli affari esteri può sempre “rappresentare alla regione o alla provincia autonoma interessata questioni di opportunità” inerenti alle attività di tipo internazionale e, “in caso di dissenso” chiede l’esercizio dei poteri sostitutivi da parte del governo. Anche in riferimento alle leggi di queste regioni il governo ha un potere di impugnazione in via diretta solo entro 60 giorni dalla loro pubblicazione sul bollettino ufficiale.  
L’autonomia legislativa delle Regioni ad autonomia ordinaria
Il secondo comma dell'articolo 117 elenca diciassette materie o gruppi di materie nelle quali lo Stato dispone di una competenza esclusiva; il terzo comma contiene un secondo elenco di materie o gruppi di materie (19) nelle quali spetta alle regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato; infine, nel quarto comma, si stabilisce che spetta alle regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato.
Per le regioni ad autonomia ordinaria, sono anche cambiati buona parte dei limiti che incontra l’esercizio del potere legislativo regionale: se, infatti,in precedenza si ritenevano applicabili alle leggi delle regioni ad autonomia ordinaria, in quanto enti dotati di un minor grado di autonomia, i limiti generali alla potestà legislativa primaria delle regioni ad autonomia speciale, che erano dedotti da una interpretazione sistematica della Costituzione e da alcuni limiti previsti negli statuti speciali, essi sono ormai venuti meno in conseguenza della forte discontinuità prodotta dalla riforma del titolo V (basti pensare alla scomparsa di ogni riferimento al precedente limite di merito dell’interesse nazionale o delle altre regioni o alla evidente inutilizzabilità del potere di indirizzo e coordinamento progressivamente creato dal 1970 dalla legislazione statale sulla base di una discussa lettura sistematica del vecchio titoloV).
Per quanto riguarda i limiti della potestà legislativa regionale, il primo comma dell'articolo 117 afferma che questa è esercitata "nel rispetto della costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e di obblighi internazionali".
A ciò si aggiunga la delicatezza e l’importanza di alcune delle competenze legislative riservate in via esclusiva alla legge statale dal II comma dell’art.117, che rendono espliciti limiti alla potestà legislativa regionale che in precedenza erano semplicemente dedotti in via interpretativa: si pensi, ad es., alle conseguenze in tema di “tutela della concorrenza”, “ordine pubblico e sicurezza”,… Un vecchio problema che rimane aperto, nonostante la riforma, riguarda le modalità di “determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato” all’interno delle numerose e ormai importantissime materie di legislazione concorrente elencate nel III comma dell’art.117: ci si trova dinanzi ad una vera e propria suddivisione del potere legislativo fra Stato e regioni; al I spetta determinare solo i principi fondamentali della disciplina di quelle materie, alle II spetta esercitare il potere legislativo nel quadro di tali principi. Naturalmente è tutt’altro che agevole individuare, se non in astratto, cosa sia un principio legislativo fondamentale e quale sia, invece, lo spazio riservato alle regioni. Nelle materie in cui lo Stato deve esclusivamente dettare i principi generali, si dice che emani cosiddette "leggi cornici", che fungeranno appunto da limite alle disposizioni regionali. Nel passato, diverse sono state le soluzioni adottate dalla legislazione relativa alle regioni ad autonomia ordinaria: il discusso testo dell’art.9 della legge 62/1953 subordinava la possibilità delle regioni di esercitare il loro potere legislativo alla previa adozione di apposite “leggi cornice”; ad esso è stata sostituita, ad opera dell’art. 17 legge 281/1970, la disposizione secondo cui “l’emanazione delle norme legislative da parte delle regioni nelle materie stabilite dall’art. 117 Cost. si svolge nei limiti dei principi fondamentali quali risultano da leggi che espressivamente li stabiliscono per le singole materie o quali si desumono dalle leggi vigenti”. Anche questa soluzione presenta alcuni evidenti limiti: anzitutto, l’inevitabile opinabilità del processo di individuazione dei principi fondamentali, con il rischio che un dissenso su questa premessa fondamentale produca, in sede di controllo della legge regionale da parte del governo, l’impugnativa della legge presso la corte costituzionale, così chiamata a risolvere un complesso problema interpretativo.
In secondo luogo, spesso non è agevole ricavare da una legislazione, che non di rado consiste in un intreccio di tesi normativi di epoche diverse e comunque concepiti in un conteso che spesso prescindeva dalla presenza delle regioni, principi fondamentali idonei a permettere l’esercizio dell’autonomia legislativa regionale. Anzi, la previsione nel nuovo VI comma dell’art 117 Cost. che nelle materie di legislazione concorrente lo Stato non potrà comunque esercitare il potere regolamentare, riservato esclusivamente alle regioni, rischia di spingere ancora di più il legislatore statale, in sostanziale violazione del dettato costituzionale, a cercare di accentuare il grado di analiticità della legislazione di cornice. IV comma dell’art. 117 Cost., secondo la quale “spetta alle regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato”: essa dovrebbe impedire il rischio di un facile recupero di materie legislative da parte dello Stato e potrà anche permettere alle regioni un’espansione dei loro poteri legislativi in ambiti nuovi.
Il nuovo articolo 127 cambia notevolmente il sistema di controllo sulle leggi regionali: si è eliminato il precedente sistema di controllo preventivo, e il governo può impugnare le leggi per motivi di presunta incostituzionalità entro sessanta giorni dalla pubblicazione della fonte normativa. Lo Stato può dolersi che una legge regionale ecceda la competenza della regione, mentre la regione può promuovere la questione di legittimità costituzionale quando ritenga che una fonte primaria statale o di un altra regione lega la sua sfera di competenza.
Malgrado le tante e importanti innovazioni intervenute, ci si trova al momento attuale in una fase largamente incerta e provvisori, nella quale continuano a restare in vita le fonti normative precedentemente vigenti; spetta ai soggetti attualmente competenti sul piano legislativo sostituire la vecchia legislazione con la nuova, davvero con forme all’innovativo riparto dei poteri fra Stato e regioni. Peraltro, in una situazione di immobilismo del legislatore statale e in particolare in una situazione di assenza di una organica legislazione di cornice, questo processo istituzionale potrebbe essere avviato soltanto da iniziative delle stesse regioni, che riescano ad esercitare i loro nuovi e vecchi poteri legislativi sostituendo in tutto o in parte la preesistente legislazione statale. Anche nei settori a competenza concorrente, non potrà che prevedersi l’eventualità che lo Stato muti i principi fondamentali della materia, con ciò mettendo “in mora il legislatore regionale per la sollecita modificazione della sua legislazione, a meno di andare incontro al rischio di una automatica abrogazione dopo 90 giorni dall’entrata in vigore della legge nazionale e successivamente al possibile inizio della procedura di cui all’art. 126.1 Cost. La corte costituzionale ha cominciato ad elaborare alcuni strumenti di necessaria integrazione fra i diversi legislatori: ad esempio, se l’esistenza di materie di esclusiva competenza statale non può legittimare penetrazioni improprie in materie di competenze regionali, occorre però coordinare tra loro le diverse responsabilità legislative; le regioni possono anche tutelare, ma in modo non contraddittorio con le scelte del legislatore nazionale, esigenze analoghe a quelle che legittimano competenze legislative esclusive dello Stato. Dinanzi alla mancata previsione nel nuovo titolo V di norme adeguatamente precise nel riparto delle responsabilità legislative e amministrative di Stato e regioni e soprattutto in assenza di esplicite clausole o procedure che permettano un’azione coordinata a livello nazionale nelle molte e importanti materie di competenza delle regioni, la corte costituzionale, là dove si prevede che le funzioni amministrative, sulla base dei principi di “sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza”, possono essere conferite anche allo Stato “per assicurarne l’esercizio unitario”. “Chiamata in sussidiarietà “avviene tramite una legge statale che, eccezionalmente disponendo in materie che normalmente sarebbero di competenza regionale, attribuisce ad organi o a enti statali alcune limitate funzioni amministrative: alle regioni deve spettare in nome della leale collaborazione che deve caratterizzare i rapporti fra tutti i soggetti dell’ordinamento repubblicano, l’attribuzione di adeguati poteri di coesione. E così pure in riferimento a tutta una serie di possibili penetrazioni nelle materie regionali in nome della tutela di responsabilità legislative dello Stato di tipo esclusivo.
Comunque eventuali conflitti legislativi vanno risolti nelle sedi politiche o giurisdizionali previste nell’ordinamento costituzionale, senza che il potere legislativo regionale o statale possa essere utilizzato in funzione meramente preclusiva dell’applicabilità della legge “sgradita”.
L’autonomia amministrativa delle Regioni ed i rapporti con gli enti locali
Nel precedente titolo V della costituzione la regione era titolare, in base al principio del parallelismo delle funzioni, dei poteri amministrativi nelle medesime materie di sua competenza legislativa (valevole ancora per gli statuti speciali). Tuttavia agli enti locali venivano riservate le funzioni amministrative di interesse esclusivamente locale delle materie di competenza regionale al fine di salvaguardare la loro funzione di enti direttamente rappresentativi delle popolazioni locali, anche perché altrimenti si sarebbero trovati senza un ruolo specifico, dal momento che operano quasi interamente nelle materie di competenze regionali.
Nel precedente sistema si prevedeva che la regione esercitasse “normalmente le sue funzioni amministrative delegandone alle province, ai comuni o a altri enti locali o valendosi dei loro uffici” e degli statuti regionali ordinari del 1970/1 hanno scelto il modello delle delega di funzioni amministrative, consiste in una formula organizzativa per la quale la regione affida con legge l’esercizio di determinate funzioni amministrative agli enti locali,chiamati ad esercitarle secondo le loro scelte discrezionali, seppur nel rispetto delle specifiche direttive loro impartite dalla regione. Questo modello, pur presente anche negli statuti speciali, non ha però trovato diffusa e soddisfacente realizzazione. Al tempo stesso, il principio del parallelismo delle funzioni amministrative regionali era contraddetto anche da perduranti riserve di funzioni amministrative nelle materie di competenza delle regioni a favore di organi dello Stato centrale: veri e propri ritagli di competenze amministrative, il potere di indirizzo e coordinamento delle funzioni amministrative regionali, i poteri relativi all’attuazione amministrativa di alcuni atti comunitari o internazionali.
Il nuovo titolo V annulla il potere di indirizzo e coordinamento (delega alle amministrazioni locali di funzioni amministrative), l'attuazione dei trattati delle norme comunitarie nelle materie di competenza legislativa regionale viene affidata alle regioni, scomparsa dei controlli sui amministrativi regionali, introduzione di un tipo di controllo sostitutivo da parte del governo particolarmente ampio (in prima istanza con una sollecitazione a mutare l'atto, in secondo luogo adottando i provvedimenti necessari).
Modifiche significative riguardano sia la scomparsa dei controlli sugli atti degli enti locali, in conseguenza all’abrogazione dell’art.130 Cost., sia la diversa delimitazione dell’area di competenza amministrativa delle regioni, essendo venuto meno il precedente principio del tendenziale parallelismo delle funzioni amministrative e legislative. A quest’ultimo riguardo, il 1° comma del nuovo art. 118 Cost. opera la scelta a favore della tendenziale competenza amministrativa generale dei comuni; peraltro la concreta definizione dell’eccezioni a questa regola viene affidata alle leggi statali o regionali competenti nelle diverse materie alla luce dei principi di “sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza”. Nell’ambito di questa legislazione regionale non è escluso che possono anche prevedersi appositi controlli sostitutivi, purché pienamente rispettosi dell’autonomia e della natura rappresentativa dell’ente locale. Ciò che sicuramente si accresce per le regioni nell’ambito amministrativo è il potere regolamentare, che, ai sensi del 6° comma dell’art. 117. è di loro esclusiva competenza in tutte le materie nella quale dispongono di potere legislativo. Ed è molto probabile il ricorso alla fonte regolamentare assuma dimensioni consistenti, sia per il fatto che ora il suo esercizio spetterà di regola alle giunte regionali e non più ai consigli, sia per la tendenza generale a ricorrere sempre più frequentemente a tale fonte.

 

Il finanziamento delle Regioni
L’autonomia di ogni ente rappresentativo di una comunità presuppone che esso possa disporre di un’adeguata autonomia finanziaria, in assenza della quale la stessa autonomia legislativa e amministrativa rischia di essere solo apparente; d’altra parte, però, la finanza pubblica di uno Stato sociale contemporaneo non può che essere unitaria a causa dell’interdipendenza dei fenomeni economici e dell’esigenza di recepire crescenti e cospicui entrate fiscali.
I comuni, le province, le città metropolitana e le regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa, in armonia con la costituzione secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica del sistema tributario.
Con le disposizioni della legge 281/1970, la I legge finanziaria regionale, al riconoscimento di una modestissima autonomia tributaria, si sommava un “fondo comune”, alimentato dai proventi di alcune imposte erariale e ripartito fra le regioni in modo parzialmente perequativo, nonché un fondo per il finanziamento dei programmi regionali di sviluppo e poi numerosi e molto consistenti fondi settoriali o speciali di finanziamento vincolato in diverse submaterie. Le molte critiche contro lo svuotamento dell’autonomia finanziaria regionale potranno, specialmente negli anni ’90, alla riduzione dei finanziamenti settoriali e a una parziale e limitata autonomia tributaria regionale, seppur quasi solo nella forma di aliquote aggiuntive a imposte erariali. Questo faticoso processo legislativo viene di recente definito dallo stesso legislatore come “ federalismo fiscale”: si tratta di un’espressione enfatica e impropria, dal momento che il potere normativo in materia resta saldamente agli organi nazionali, mentre le regioni  recuperano solo una maggiore autonomia finanziaria soprattutto sul versante delle entrate.
Il decreto legislativo 56/2000 prevede che il finanziamento delle regioni debba esser assicurato da un'ampia compartecipazione regionale alle entrate dell'Iva, da una limitata addizionale regionale all'Irpef e da un'aliquota dell'imposta sulla benzina. A ciò è da aggiungere la permanenza di alcuni fondi settoriali, fra i quali emergono per la loro grande consistenza i fondi destinati al settore sanitario e al settore dei servizi sociali. Viene inoltre previsto un "fondo perequativo nazionale" alimentato da una parte del gettito della compartecipazione alle entrate dell'Iva e suddiviso fra le diverse regioni in base a complessi parametri perequativi.
Il nuovo art. 119 Cost. non sembra introdurre radicali novità, se non per l’esplicito riconoscimento dell’autonomia finanziaria anche degli enti locali, dal momento che il finanziamento integrale delle funzioni pubbliche di ciascun ente potrebbe essere garantito da tributi ed entrate propri e da compartecipazioni a tributi erariali, peraltro riferibili al loro territorio, nonché dalla ripartizione di un apposito fondo perequativo a tutela delle aree con minori capacità fiscali per abitante. Inoltre si prevede la possibilità che lo Stato dia finanziamenti speciali a singoli enti regionali o locali per i molteplici fini  indicati nel 5° comma dell’art. 119 Cost. occorre evidenziare che particolarmente in questo settore vi è stata una radicale in attuazione delle nuove disposizioni costituzionali, mentre il legislatore statale continua a usare tutte le preesistenti forme di finanziamento delle regioni: ciò è tanto più grave in quanto in questo settore lo stesso organo di giustizia costituzionale può intervenire limitatamente, dichiarando illegittime forme di finanziamento estranee all’art. 119 Cost., ma non potendo certo far venire meno le preesistenti (per quanto scorrette) forme di finanziamento o addirittura di sostituirsi alla nuova necessaria legislazione statale di riforma del sistema tributario e della finanza pubblica.
Gli organi di raccordo fra Stato e Regioni
La riforma del titolo V ha eliminato alcune forme di relazione fra Stato e regioni che risentivano di una concezione di tipo gerarchico (si pensi alla scomparsa della previsione in Costituzione del commissario del governo, all’eliminazione dei controlli sugli atti amministrativi regionali, alla trasformazione dei controlli sulle leggi regionali da preventivi a successivi).
La possibile integrazione della commissione bicamerale per le questioni regionali con rappresentanti delle regioni, delle province autonome e degli enti locali è stata sostanzialmente rifiutata dal sistema politico. Gli unici organi istituzionali che al momento attuale, seppure debolmente, fungono da raccordo tra Stato e regioni, sono le conferenze fra Stato, regioni ed enti locali che sono state create e disciplinate negli ultimi anni. È un organo consultivo composto dai presidenti delle giunte delle regioni e delle province autonome, presieduto dal presidente del Consiglio dei Ministri o da un ministro da lui delegato, titolare dei poteri di convocazione e determinazione dell'ordine del giorno.
Al di là delle numerose funzioni consultive, quest’organo ha riassorbito, attraverso alcune sue articolazioni interne, le funzioni in precedenza svolte da alcuni organi collegiali misti, composti da rappresentanti ministeriali e rappresentanti regionali, che erano stati creati da numerose leggi settoriali.peraltro alcune leggi e sentenze della corte costituzionale lo hanno individuato come sede di intese fra le amministrazioni statali e regionali o gli hanno affidato qualche limitato potere amministrativo. Con il D.lgs 281/1997 si è proceduto ad una riforma della conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano e alla sua unificazione (conferenza unificata), per le questioni  di comune interesse, con la conferenza Stato, città e autonomie locali (prima istituita solo in via amministrativa): malgrado l’ampiezza delle competenze consultive e di stimolo di questi 3 organi e la loro utilizzazione come sedi importanti di confronto politico-istituzionale, resta l’anomalia di organi istituzionali fortemente disomogenei e che possono deliberare solo mediante accordi generali. In questo stesso atto normativo si stabilisce anche che le intese da definirsi in sede di conferenza Stato- regioni debbano essere conseguite entro 30 giorni dallo svolgimento della prima riunione nella quale sono poste all’ordine del giorno; altrimenti il governo è legittimato a provvedere autonomamente con deliberazione motivata. In caso di urgenza il governo può comunque provvedere subito ei provvedimenti adottati saranno successivamente sottoposti all’esame della conferenza. La disposizione costituzionale che esprime con più chiarezza la supremazia degli organi statali su quelli regionali e quella relativa ai controlli sugli organi regionali: essi sono previsti dall’art.126 Cost., attraverso una disciplina analitica, rilevatrice della delicatezza di un procedimento che può portare a far dichiarare lo scioglimento anticipato dell’organo rappresentativo della comunità regionale ad opera di organi statali,rappresentativi di un diverso indirizzo politico. La disposizione costituzionale disciplina la possibilità di procedere allo scioglimento anticipato del consiglio regionale e alla rimozione del presidente della giunta per aver “computo atti contrari alla Costituzione o gravi violazioni di legge”, nonché “per ragioni di sicurezza nazionale”. Allo scioglimento si procede mediante un decreto motivato, adottato, previo parere della commissione bicamerale per le questioni regionali, con D.P.R., su proposta del presidente del consiglio e deliberazione dello stesso consiglio dei ministri. Il nuovo art. 126 Cost. non prevede più la nomina di un organo straordinario per l’amministrazione temporanea della regione e non comprende neppure chi possa gestire le regioni nelle analoghe situazioni di “scioglimento automatico” dei loro organi.
Le trasformazioni dell’amministrazione locale
La legislazione degli anni ’90,  culminata con il “testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali” e con l’attuazione delle “leggi bassanini”, ha modificato in modo sostanziale l’amministrazione locale, anche se molta parte di questa legislazione deve essere ancora attuata. E ora occorrerà valutare anche l’impatto che deriverà dall’adozione del nuovo testo V, che in molte parti si riferisce anche agli enti locali. Si tratta di una legislazione che pone alcuni principi fondamentali, per lo più da attivare da parte delle regioni e degli stessi enti locali:le I soprattutto perciò che riguarda il ridisegno territoriale degli enti locali e la specificazione delle loro funzioni; i II soprattutto per tutte le scelte che sono riservate ai loro statuti e regolamenti.
Si cerca anche di limitare la stessa discrezionalità legislativa nel settore, dal momento che l’art.1 del D.lgs 267/2000 chiede che le leggi relative agli enti locali debbano enunciare in modo espresso i principi che “costituiscono limiti inderogabili per la loro autonomia normativa”. Inoltre si prescrive che le abrogazioni al testo unico siano espresse.
Il testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali (decreto legislativo 267/2000) definisce come enti locali i comuni, le province, le città metropolitane, le comunità montane, le comunità isolane, le unioni di comuni, alcuni consorzi fra gli enti locali.
Vengono mantenuti sia i comuni che le province, ma sotto le stesse denominazioni appaiono modelli organizzativi differenziati: per ciò che attiene ai comuni meno popolosi, non solo si innalza a diecimila abitanti il limite minimo di popolazione per la costituzione di nuovi comuni e si prevedono una serie di agevolazioni per quelli che vogliono fondersi fra loro, ma si rafforzano le comunità montane 8ora anche presenti nelle isole minori) e le unioni di comuni per la gestione associata di una serie di funzioni.
Il limite minimo di popolazione per la costituzione di nuovi comuni è stato innalzato a 10.000 abitanti. La città metropolitana costituisce un tipo particolare di provincia, dotata di alcuni poteri maggiori rispetto alle province.
Si prevede che nelle aree metropolitane circostanti gli attuali comuni di Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Bari, Napoli (nelle regioni a statuto speciale si può prevedere analogamente) la regione, “su conforme proposta degli enti locali interessati”, debba provvedere alla delimitazione dell’area metropolitana, intesa come l’area che comprende i territori del comune maggiore e degli altri comuni “i cui insediamenti abbiano con essi rapporti di stretta integrazione territoriale e in ordine delle attività economiche, ai servizi essenziali alla vita sociale, nonché alle relazioni culturali e alle caratteristiche territoriali”. All’interno di queste aree, si può proporre l’istituzione di una città metropolitana: è richiesta un0identica deliberazione in tal senso dei consigli comunali e referendum approvati nei comuni interessati (occorre la maggioranza assoluta degli elettori in almeno la metà più uno dei comuni interessati); la determinazione finale è adottata con legge del parlamento, su proposta della regione interessata. Una delle maggiori innovazioni introdotte negli anni 90 consiste nell’attribuzione alla legge regionale del compito di specificare le funzioni di comuni e province, definite solo in via generale dalla legge statale. La legge regionale è, infatti, chiamata ad identificare “nelle materie e nei casi previsti dall’art. 117 Cost. gli interessi comunali e provinciali in rapporto alle caratteristiche della popolazione e del territorio. Tendenzialmente tutte le funzioni e i compiti amministrativi dovrebbero essere attribuiti agli enti locali “secondo le loro” dimensioni territoriali, associative e organizzative, con l’esclusione delle sole funzioni che richiedono esercizio a livello regionale”. Ciò comporterà il superamento dell’uniformità amministrativa locale, dal momento che, a seconda delle diverse zone e delle scelte operate a livello regionale, vi saranno enti territoriali tra loro diversi e comunque dotati di funzioni differenziate, anche se denominate nel medesimo modo.
L’art. 6 del D.lgs 267/2000 stabilisce che lo statuto disciplina le norme fondamentali dell’organizzazione dell’ente, nonché le forme della collaborazione fra comuni e province, della partecipazione popolare, del decentramento, dell’accesso dei cittadini alle informazioni e ai procedimenti amministrativi, a queste materie, così vaste e importanti, affidate alla discrezionalità normativa dell’ente locale, corrisponde uno speciale procedimento di approvazione dello statuto (necessità di conseguire la maggioranza dei 2/3 dei voti, ove questa non venga raggiunta, necessità di una duplice approvazione a maggioranza assoluta entro 30 giorni) e una particolare forma di pubblicità (pubblicazione sul bollettino ufficiale della regione, affissione all’albo pretorio, inserimento nella raccolta ufficiale degli statuti degli enti locali). Questo consistente potere normativo può permettere di adeguare l’organizzazione e le stesse regole di funzionamento di enti che restano,comunque, tra loro estremamente differenziati dal punto di vista dell’organizzazione politica e amministrativa.
I regolamenti degli enti locali, adottati nelle forme determinate dagli statuti, disciplinano, nel “rispetto dei principi fissati dalla legge e dallo statuto l’organizzazione e il funzionamento delle istituzioni e degli organismi di partecipazione, il funzionamento degli organi e degli uffici e l’esercizio delle funzioni”. Il 6° comma del nuovo art. 117 Cost., dopo aver previsto un ampio potere regolamentare delle regioni, afferma che “i comuni, le province e le città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite”. Ciò significa che i regolamenti degli enti locali rappresentano una fonte non più negabile dal legislatore ordinario.
L’organizzazione politica e amministrativa degli enti locali
Il consiglio comunale o provinciale (che resta in carica cinque anni) è un organo di indirizzo e di controllo politico amministrativo, ed è titolare esclusivo di un'ampia, ma pur sempre limitata, serie di atti fondamentali indicati dalla legge; la giunta compie gli atti di amministrazione che non siano di competenza di funzionari e che non siano riservati dalla legge al consiglio e che non ricadono nelle competenze, previste dalla legge dallo statuto, del sindaco e del presidente della provincia o degli organi di decentramento. Dal 1993 sindaco e presidente sono eletti direttamente dal corpo elettorale, cui spettano la nomina, la designazione e la revoca dei rappresentanti del comune e della provincia presso enti, aziende e istituzioni; e procedono alla nomina e revoca delle rispettive giunte.
Essi sono, peraltro, tenuti ad informare i consigli della nomina delle giunte e a presentare ad essi le proprie linee di programma, entro 60 giorni dalla prima riunione delle giunte. La sfiducia del consiglio alla giunta, motivata e approvata per appello nominale dalla maggioranza assoluta dei consiglieri, porta automaticamente anche allo scioglimento del consiglio e alla nomina di un commissario, che amministra l’ente locale fino alle elezioni. Per agevolare lo scioglimento di un significativo ruolo di controllo sull’amministrazione locale, la legge assicura ai consiglieri il “diritto di ottenere dagli uffici, nonché dalle aziende e dagli enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’esplemento del loro mandato”. Inoltre, si prevede la nomina, da parte del consiglio, del collegio dei revisori, composto da 3 membri (o da uno nei comuni con meno di 5000 abitanti) scelti fra esperti qualificati in revisori contabili. È prevista la figura del presidente del consiglio comunale o provinciale, che è obbligatoria negli enti con più di 15000 abitanti e può essere prevista dagli statuti negli enti con minore popolazione.
Decisamente rafforzata appare la figura del sindaco e del presidente della provincia: se essi, in genere, “rappresentano l’ente, convocano e presiedono la giunta, nonché il consiglio quando non è previsto il presidente del consiglio, e sovrintendono al funzionamento dei servizi e all’esecuzione degli atti”, la loro volontà è assolutamente decisiva per la composizione delle giunte e per la stessa sopravvivenza del consiglio.
Il sindaco o il presidente possono nominare gli assessori scegliendoli anche fra cittadini estranei ai consigli ma eleggibili.
La giunta è formata da un numero di membri determinato dallo statuto, entro il limite di un terzo dei componenti dei rispettivi consigli. Il sindaco o il presidente della provincia possono nominare gli assessori scegliendoli anche fra cittadini estranei ai consigli ma eleggibili; i consiglieri sono nominabili, ma decadono alla carica di consigliere. La giunta, configurata come organo collegiale, “collabora con il sindaco e con il presidente della provincia nell’attuazione degli indirizzi generali del consiglio, riferisce annualmente al consiglio sulla propria attività e svolge attività propositive e di impulso nei confronti dello stesso”. Anche a livello locale si è affermata la tendenza a distinguere le responsabilità degli organi politici da quelle degli organi burocratici e a valorizzare il ruolo dei vertici dirigenziali dell’amministrazione locale, evidenziandone le specifiche responsabilità.
Il segretario comunale o provinciale non dipende più dal ministero dell’interno, ma da un’apposita agenzia autonoma per la gestione dell’albo dei segretari comunali e provinciali,e, nell’esercizio delle sue funzioni, dal capo dell’amministrazione locale presso cui lavora. Inoltre,esso viene scelto all’interno dell’albo dal sindaco o dal presidente della provincia e la sua carica dura quanto il mandato di chi lo ha nominato. Le sue funzioni diminuiscono fortemente ove l’amministrazione nomini il direttore generale.
I sindaci dei comuni con più di 15000 abitanti o i presidenti di provincia possono, infatti,assumere, previa deliberazione delle rispettive giunte, con un contratto a tempo determinato e al di fuori dei dipendenti dell’ente locale, un direttore generale, “che provvede ad attuare gli indirizzi e obiettivi stabiliti dagli organi di governo dell’ente, secondo le direttive impartite dal sindaco o dal presidente della provincia, e che sovrintende alla gestione dell’ente”. La durata in carica del direttore non può eccedere il mandato del sindaco o del presidente della provincia e degli enti è comunque revocabile anche prima, con il medesimo procedimento con cui è stato nominato. Si prevede che ai dirigenti, coordinati dal segretario o dal direttore, spettino “tutti i compiti, compresa l’adozione di atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto fra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di governo dell’ente e non rientranti tra le funzioni del segretario o del direttore generale”. Si stabilisce che “i dirigenti sono direttamente responsabili in relazione agli obiettivi dell’ente, della correttezza amministrativa, dell’efficienza e dei risultati della gestione”. Come a livello nazionale, l’incarico dirigenziale è a tempo determinato ed è revocabile. Ogni proposta di deliberazione sottoposta al consiglio o alla giunta deve essere accompagnata dal “parere, in ordine alla sola regolarità tecnica e contabile, rispettivamente del responsabile del servizio interessato e del responsabile di ragioneria”.
Gli autori di questi pareri ne “rispondono in via amministrativa e contabile”.
Il difensore civico svolge un ruolo di garante dell'imparzialità e del buon andamento della pubblica amministrazione comunale o provinciale, segnalando, anche di propria iniziativa, gli abusi, le disfunzioni, le carenze e i ritardi dell'amministrazione nei confronti dei cittadini; è una figura facoltativa.
Per la gestione dei servizi pubblici, i comuni e le province possono utilizzare strumenti differenziati: la gestione in economia, la concessione a terzi mediante selezioni pubbliche. La distinzione fra istituzione e azienda passa per la natura del servizio pubblico che esse devono gestire: la istituzione è, infatti, l’organismo strumentale dell’ente locale, dotato di autonomia gestionale, per l’esercizio di servizi sociali senza rilevanza imprenditoriale,mentre l’azienda speciale è un ente strumentale, dotato di personalità giuridica, dell’ente locale per la gestione di servizi di rilevanza economica e imprenditoriale. La nuova legge ha preferito rafforzare, da un lato, il livello provinciale, e di creare, dall’altro, duttili strumenti di collaborazione fra gli enti locali, nonché di agevolare processi di spontanea fusione fra i comuni minori.
In tema di fusioni, per legge regionale, dei comuni, si stabilisce che la regione debba predisporre un programma di modifica delle circoscrizioni comunali e di fusioni dei piccoli comuni e che lo statuto del nuovo comune possa prevedere l’istituzione nei territori dei vecchi comuni, dei municipi, organismi eletti a suffragio universale. Al tempo stesso, si prevedono vari tipi di contributi straordinari al fine di favorire la fusione dei comuni. Le unioni di comuni, dalla legge definite come “enti locali costituiti da 2 o più comuni di norma con termini, allo scopo di esercitare congiuntamente una pluralità di funzioni di loro competenza”. Gli organi dell0unione vengono determinati dai comuni interessati tramite l’adozione dello statuto, ma il presidente dell’unione deve essere uno dei sindaci dei comuni aderenti e gli altri organi devono essere composti da assessori e consiglieri comunali. Appaiono consolidate le comunità montane, speciali tipi di unioni, poiché enti rappresentativi obbligatori dei comuni montani, titolari non solo delle funzioni relative agli interventi speciali per la montagna, ma di tutte le funzioni che i comuni della zona dovrebbero esercitare in forma associata. Diversi sono, invece, gli strumenti per permettere a comuni e province un’ordinaria collaborazione con altri enti locali: le convenzioni e i consorzi.
Le convenzioni appaiono come strumenti molto duttili, mediante i quali comuni e province possono deliberare di svolgere in modo coordinato determinati servizi o funzioni, utilizzando le loro strutture organizzative. I consorzi, invece, sono enti dotati di personalità giuridica per la gestione associata tra enti locali e enti pubblici di uno o più servizi o funzioni; l’assemblea del consorzio sia formata dai sindaci dei comuni e dal presidente della provincia aderenti o dai loro delegati, nonché dai rappresentanti degli altri pubblici aderenti.
Si espandono i controlli di tipo sostitutivo. Permane, inoltre, la competenza degli organi statali in tema di controllo sugli organi degli enti locali: in questo settore, si distinguono le misure transitorie e definite in tema di rimozione degli amministratori, da quelle relative allo scioglimento dei consigli comunali e provinciali. La rimozione degli amministratori locali avviene con decreto del presidente della Repubblica, su proposta del ministro per l’interno, allorché essi abbiano compiuto “atti contrari alla Costituzione o per gravi e persistenti violazioni di legge o per gravi motivi di ordine pubblico”. In tutti questi casi, “qualora sussistano i poteri di grave e urgente necessità”, il prefetto può provvisoriamente sospendere gli amministratori locali . Lo scioglimento dei consigli degli enti locali interviene, invece, per decreto del presidente della Repubblica, su proposta del ministro dell’interno e previa deliberazione del consiglio dei ministro, nei seguenti casi: 1. per il compimento di atti contrari alla Cost. per gravi e persistenti violazioni di legge, per gravi motivi di ordine pubblico; 2. per mancato normale funzionamento, originato da dimissioni del sindaco o del presidente della provincia, da dimissioni contestuali di oltre metà dei consiglieri o dall’impossibilità di surrogarli; 3. per mancata approvazione del bilancio entro i termini prescritti. Con il decreto di scioglimento, comunicato al parlamento e pubblicato sulla gazzetta ufficiale, viene nominato un commissario governativo, che si sostituisce agli organi dell’ente locale, per un periodo massimo di 90 giorni, trascorso il quale devono svolgersi le nuove elezioni.
Anche in questa ipotesi, si prevede che il prefetto, per motivi di grave e urgente necessità, ove il procedimento per lo scioglimento sia già in corso, possa sospender i consigli dell’ente locale e nominare un commissario, per un periodo non superiore a 90 giorni. Le nuove elezioni amministrative devono, comunque, essere tenute entro i termini massimi prima detti.
Le funzioni degli enti locali ed il loro finanziamento
Secondo l'articolo 13 del decreto legislativo 267/2000 "spettano al comune tutte le funzioni amministrative che riguardano la popolazione e il territorio comunale, in particolare nei settori organici dei servizi alla persona e alla comunità, dell'assetto e utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico, salvo quanto non sia espressamente attribuito ad altri soggetti dalla legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze"; significa anche che al comune è stata riconosciuta natura di ente a fini generali, legittimandolo ad intervenire in ogni materia non riservata espressamente ad altri soggetti dalla legge, quanto meno tramite strumenti privatistica, atti di spesa, iniziative politiche.
L'articolo 19 dello stesso decreto stabilisce, per quanto riguarda le funzioni delle province, che bisogna attendere le leggi statali e regionali che identificano concretamente le funzioni amministrative di interesse provinciale che riguardino vaste zone intercomunali o l'intero territorio provinciale. Per quanto riguarda l'aspetto finanziario, agli enti locali spetterebbero le tasse, i diritti, le tariffe e i corrispettivi sui servizi di propria competenza; il finanziamento delle spese di investimento degli enti locali passerebbe ed un fondo ordinario in fondo speciale, finalizzato ad aree particolari.
Un primo inizio di attuazione di questo disegno si è avuto dal 1992, mediante la disciplina di alcune imposte locali (fra le quali l’ICI). Come nel caso della finanza regionale, il sistema di finanziamento degli enti locali appare molto lontano da un assestamento soddisfacente, pur indispensabile perché possa parlarsi di un’effettiva autonomia locale.

 

Fonte: http://economiaunipa.altervista.org/wp-content/uploads/2013/05/Riassunto-Istituzioni-di-Diritto-Pubblico-Caretti-De-Siervo-11.doc

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