Diritto internazionale riassunto

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Diritto internazionale riassunto

DIRITTO INTERNAZIONALE
B.Conforti

INTRODUZIONE

 

1. Definizione del diritto internazionale.

Il diritto internazionale può essere definito come il diritto della ‘comunità degli Stati’. Tale complesso di norme si forma al di sopra dello Stato, scaturendo dalla cooperazione con gli altri Stati, e lo Stato stesso con proprie norme, anche di rango costituzionale, si impegna a rispettarlo. Si dice che il diritto internazionale ‘regola i rapporti fra Stati’ per indicare il fatto che le norme internazionali si indirizzano in linea di massima agli Stati, creano cioè diritti ed obblighi per questi ultimi. La caratteristica più rilevante del diritto internazionale odierno è che esso non regola solo materie attinenti ai rapporti interstatali ma, pur indirizzandosi fondamentalmente agli Stati, tende a disciplinare rapporti interni alle varie comunità statali.
Il diritto internazionale viene anche chiamato diritto internazionale pubblico in contrapposizione al diritto internazionale privato, che è formato da quelle norme statali che delimitano il diritto privato di uno Stato, stabilendo quando esso va applicato e quando invece i giudici di quello Stato sono tenuti ad applicare norme di diritto privato straniero. Nel diritto internazionale privato in senso lato rientrano anche tutte le norme che provvedono a delimitare verso l’esterno i rami pubblicistici dell’ordinamento statale: ad es. le norme che stabiliscono in quali casi la legge penale si applica a reati commessi fuori dal territorio o da stranieri. In realtà, il diritto internazionale non è né pubblico né privato, tale distinzione essendosi sviluppata ed avendo senso solo con riguardo all’ordinamento statale.

 

2. Funzioni di produzione, accertamento ed attuazione coattiva del diritto internazionale.

Per quanto riguarda la funzione normativa occorre distinguere fra diritto internazionale generale e diritto particolare, cioè tra norme che si indirizzano a tutti gli Stati e quelle che vincolano una stretta cerchia di soggetti, di solito i soggetti che hanno partecipato direttamente alla loro formazione. Alle norme di diritto internazionale generale fa riferimento l’art. 10 Cost. italiana (“L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”). Tali norme generali sono le norme consuetudinarie, formatesi nell’ambito della comunità attraverso l’uso: di queste norme può affermarsi l’esistenza solo se si dimostra che esse corrispondono ad una prassi costantemente seguita dagli Stati.
La caratteristica della consuetudine, fonte primaria dell’ordinamento internazionale, è che essa ha dato luogo ad uno scarso numero di norme. A parte le norme strumentali (come quelle che regolano i requisiti di validità ed efficacia dei trattati, e quindi si limitano a disciplinare un’ulteriore fonte normativa) non sono molte le norme materiali, ossia le norme che direttamente impongono diritti ed obblighi agli Stati. Le tipiche norme di diritto internazionale particolare sono invece quelle poste da accordi (o patti, o convenzioni, o trattati) internazionali e che vincolano solo gli Stati contraenti. Esse costituiscono la parte più rilevante del diritto internazionale. L’accordo internazionale è subordinato alla consuetudine: la norma internazionale pacta sunt servanda ha natura consuetudinaria. Al di sotto degli accordi si trovano i procedimenti previsti da accordi, fonti di terzo grado. Tali procedimenti costituiscono fonti di diritto internazionale particolare e traggono la loro forza dagli accordi internazionali che li prevedono, vincolando solo gli Stati aderenti.

Circa la funzione di accertamento giudiziario del diritto internazionale, essa è funzione di carattere prevalentemente arbitrale. L’arbitrato, a differenza della giurisdizione, poggia sull’accordo tra le parti, accordo diretto a sottoporre la controversia ad un determinato giudice. Non mancano istanze giurisdizionali istituzionalizzate, ossia tribunali permanenti istituiti da singoli trattati; anche in questi casi, comunque, il fondamento della competenza del giudice resta pattizio

Circa i mezzi che nel diritto internazionale sono adoperati per assicurare coattivamente l’osservanza delle norme e per reprimerne le violazioni, occorre realisticamente riconoscere che siffatti mezzi sono quasi tutti riportabili alla categoria dell’autotutela.

Circa il carattere obbligatorio del diritto internazionale, nessuno nega che delle norme si formino al di sopra dello Stato, vuoi per consuetudine, vuoi attraverso la stipulazione di trattati fra Stati medesimi; ciò che si nega è che si tratti di un vero e proprio fenomeno giuridico, capace di imporsi in modo continuo ed efficace al singolo Stato. L’osservanza del diritto internazionale riposa sulla volontà degli operatori giuridici interni diretta ad utilizzare, fino al limite massimo di utilizzabilità, gli strumenti che lo stesso diritto statale offre a garanzia di siffatta osservanza, e quindi far prevalere per questa via le istanza internazionalistiche su quelle nazionalistiche. È una formulazione in termini moderni della tesi sostenuta dalla dottrina positivistica tedesca del XIX secolo (Jellinek), la quale considerava il diritto internazionale come frutto di una autolimitazione del singolo Stato. Infatti, la comunità internazionale nel suo complesso non dispone di mezzi giuridici per reagire efficacemente e imparzialmente in caso di violazione di norme internazionali. Ciò che occorre superare è però l’idea di arbitrio del singolo Stato (la sua libertà di sciogliersi in ogni momento da qualsiasi impegno internazionale), insita anch’essa nella teoria dell’autolimitazione: una corretta amministrazione del diritto interno dello Stato costituisce l’unica remora efficace, dal punto di vista giuridico, all’esercizio di un simile arbitrio.

Se la cooperazione del diritto interno è indispensabile per assicurare al diritto internazionale il suo valore e la sua forza in quanto fenomeno giuridico, il diritto internazionale può essere anche considerato avendovi riguardo esclusivamente alla sua esistenza nell’ambito della comunità internazionale, al livello delle relazioni internazionali (aspetto ‘politico-diplomatico’ del diritto internazionale). Da questo punto di vista esso appare come sostegno di una sana diplomazia: lo Stato che può dimostrare che un suo comportamento è conforme alle regole del diritto internazionale ha un argomento molto forte a favore della sua causa. Nell’esplicazione di tale funzione esso appare come una sorta di morale positiva internazionale.

 


3. Lo Stato come soggetto di diritto internazionale.

Lo Stato-comunità è quel fenomeno che corrisponde alla comunità umana stanziata su di una parte della superficie terrestre e sottoposta a leggi che la tengono unita. Lo Stato-organizzazione è invece quello costituito dall’insieme degli organi che esercitano il potere di imperio sui singoli associati. La qualifica di soggetto di diritto internazionale spetta allo Stato-organizzazione: è all’insieme degli organi statali che si ha riguardo allorché si lega la soggettività internazionale dello Stato al criterio dell’effettività, ossia dell’effettivo esercizio del potere di governo; sono gli organi statali che partecipano alla formazione delle norme internazionali, norme tutte dirette a disciplinare e limitare l’esercizio del potere di governo; sono solo gli organi statali che, con la loro condotta, possono ingenerare la responsabilità internazionale dello Stato. Quando si parla di organi statali si fa riferimento a tutti gli organi, comprese le amministrazioni locali e gli enti pubblici minori.

Lo Stato-organizzazione è destinatario delle norme internazionali in quanto e finché eserciti effettivamente il proprio potere su di una comunità territoriale. Va pertanto negata la soggettività dei Governi in esilio e delle organizzazioni, o fonti, o comitati di liberazione nazionale che abbiano sede in un territorio straniero (ad es. l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, con sede a Tunisi).

Oltre all’effettività, un altro requisito da considerare necessario ai fini della soggettività internazionale dello Stato è quello dell’indipendenza o sovranità esterna: occorre cioè che l’organizzazione di governo non dipenda da un altro Stato. Non sono infatti da considerare soggetti di diritto internazionale gli Stati membri di Stati federati. Lo Stato federale, Stato unico legislativamente e amministrativamente decentrato, non va confuso con la Confederazione, unione internazionale fra Stati perfettamente indipendenti e sovrani. Formalmente è indipendente e sovrano lo Stato il cui ordinamento sia originario, tragga la sua forza giuridica da una propria Costituzione e non dall’ordinamento giuridico, dalla Costituzione di un altro Stato. Non influisce sulla soggettività la dimensione dello Stato. Vi è una eccezione: il dato formale non può invocarsi, e deve cedere di fronte al dato reale, quando in fatto l’ingerenza da parte di un altro Stato nell’esercizio del potere di governo è totale, e quindi il Governo indigeno è un Governo ‘fantoccio’.

L’organizzazione di governo che eserciti effettivamente ed indipendentemente il proprio potere su di una comunità territoriale diviene soggetto internazionale in modo automatico; non è infatti necessario che sia riconosciuta dagli altri Stati. Per il diritto internazionale, il riconoscimento è un atto meramente lecito, e meramente lecito è il non-riconoscimento: entrambi non producono conseguenze giuridiche. Il riconoscimento appartiene alla sfera della politica: esso rivela null’altro che l’intenzione di stringere rapporti amichevoli, di scambiare rappresentanze diplomatiche. La maggiore o minore intensità che si intende imprimere alla collaborazione viene di solito sottolineata rispettivamente con la formula del riconoscimento de jure, cioè pieno, e quella del riconoscimento de facto. Il riconoscimento non è dunque costitutivo della personalità internazionale, ma si può cogliere la tendenza, presente nella prassi ma mai tradotta in norme giuridiche, da parte degli Stati preesistenti ad una nuova organizzazione di governo, di giudicare se lo Stato nuovo ‘meriti’ o meno la soggettività, ancorando il loro giudizio ad un certo valore o ad una certa ideologia; in epoca attuale si tende a ritenere che non siano da riconoscere come soggetti i Governi affermatisi con la forza, gli Stati ‘non democratici’, gli Stati che violano i diritti umani, ecc. È vero che, secondo sicuri principi generali di diritto internazionale, uno Stato è obbligato a non minacciare la pace ed a rispettare i diritti umani; ma è anche vero che simili obblighi, in quanto tali, non condizionano ma anzi presuppongono la personalità giuridica dello Stato medesimo.

Circa la soggettività del Governo (o Partito) insurrezionale, gli insorti non sono certo soggetti di diritto internazionale. Ma se essi riescono a costituire, già nel corso della guerra civile, un’organizzazione di governo che controlla effettivamente una parte del territorio, allora si è di fronte ad una forma sia pure embrionale di Stato alla quale la personalità non può negarsi, indipendentemente dal fatto che tal personalità sia destinata ad estinguersi qualora, alla fine, l’insurrezione non abbia successo.

La maggior parte della dottrina contemporanea parla di una personalità, sia pure limitata, degli individui, persone fisiche e giuridiche. Essa trae spunto soprattutto dal moltiplicarsi di quelle norme convenzionali che obbligano gli Stati a tutelare i diritti fondamentali dell’uomo; sempre più spesso, inoltre, l’individuo può ricorrere, se non vede riconosciuto il proprio diritto, ad organi internazionali appositamente creati: alla tutela dell’interesse individuale sia accompagna l’attribuzione all’individuo di un potere di azione. Anche il diritto consuetudinario fornisce ampia materia per sostenere la personalità internazionale degli individui: i c.d. crimina juris gentium comprendono i crimini di guerra e contro la pace e la sicurezza dell’umanità e dunque quei reati per i quali lo Stato può esercitare la propria potestà punitiva oltre i limiti normalmente assegnatigli. Parte della dottrina non accoglie questa tesi. In definitiva, è vero che molte norme internazionali si prestano ad essere interpretate come regole che si indirizzano direttamente agli individui, ma è anche vero che la comunità internazionale resta ancora strutturata come una comunità di governanti e non di governati. La personalità internazionale dell’individuo è comunque stata affermata anche dalla Corte Internazionale di Giustizia (per la prima volta nel 2001).

Numerose sono le norme internazionali che tutelano le minoranze etniche, ma esse non assurgono a soggetti di diritto internazionale. Nella prassi internazionale si parla spesso di ‘diritti dei popoli’: il termine ‘popolo’ è usato solo in modo enfatico e può essere tranquillamente sostituito dal termine ‘Stato’. Il discorso è diverso quando di un diritto dei popoli si parla in relazione a norme che si occupano del popolo come contrapposto allo Stato, che si occupano dei governati come contrapposti ai governanti. A parte i diritti umani, l’unica norma in cui si esprime detta contrapposizione è il principio di autodeterminazione dei popoli. Esso non solo è contenuto in testi convenzionali, come tali vincolanti solo gli Stati contraenti, ma ha acquistato carattere consuetudinario attraverso una prassi sviluppatasi ad opera delle Nazioni Unite e che trova la sua base sia nella stessa Carta ONU sia in certe solenni Dichiarazioni di principi dell’Assemblea generale dell’Organizzazione. Anche la Corte Internazionale di Giustizia ne ha riconosciuto l’esistenza come principio consuetudinario. Tale principio si applica soltanto ai popoli sottoposti ad un Governo straniero (c.d. autodeterminazione esterna), in primo luogo ai popoli soggetti a dominazione coloniale, in secondo luogo alle popolazioni di territori conquistati ed occupati con la forza: l’autodeterminazione comporta il diritto dei popoli sottoposti a dominio straniero di divenire indipendenti e di scegliere liberamente il proprio regime politico. Perché il principio sia applicabile, salvo il caso dei territori coloniali, la dominazione straniera non deve risalire oltre l’epoca in cui il principio stesso si è affermato come principio giuridico, ossia oltre l’epoca successiva alla fine della seconda guerra mondiale.

Quando si tratta di territori nei quali il Governo straniero, presente con le proprie forze armate, si appoggia ad un Governo locale dal quale ha magari ricevuto una richiesta di ‘aiuto’, il principio di autodeterminazione si applica imponendo a entrambi i Governi la cessazione dell’occupazione straniera. Circa l’autodeterminazione dei territori coloniali, si è formata una regola nell’ambito dell’ONU che attribuisce all’Assemblea generale la competenza a decidere, con effetti vincolanti per tutti gli Stati, circa la sorte dei territori medesimi: l’Assemblea deve conformarsi al principio di autodeterminazione, altrimenti la sua decisione è illegittima e senza efficacia. L’autodeterminazione dei territori coloniali deve coordinarsi poi con il principio dell’integrità territoriale, in base al quale occorre tenere conto dei legami storico-geografici del territorio da decolonizzare con uno Stato contiguo formatosi anch’esso per decolonizzazione: il principio di autodeterminazione deve cedergli il passo solo quando la popolazione locale non sia in maggioranza indigena ma importata dalla madrepatria.

È da escludere invece che il diritto internazionale richieda che tutti i Governi esistenti sulla terra godano del consenso della maggioranza dei sudditi e siano costoro liberamente scelti (c.d. autodeterminazione interna). Dunque, il diritto internazionale impone allo Stato che governa un territorio non suo di consentire l’autodeterminazione. Lecito è considerato poi l’appoggio fornito ai movimenti di liberazione nazionale. Non si può parlare di un vero e proprio diritto soggettivo internazionale dei popoli alla autodeterminazione: come nel caso delle minoranze, i rapporti di diritto internazionale intercorrono esclusivamente tra gli Stati; è nei confronti di tutti gli Stati che l’obbligo per il Governo straniero di consentire l’autodeterminazione sussiste ed è nei rapporti tra lo Stato che governa il territorio e gli altri Stati che l’appoggio ai movimenti di liberazione nazionale non può essere considerato illecito.

Non si può più negare piena personalità alle organizzazioni internazionali, ossia alle associazioni fra Stati dotate di organi per il perseguimento degli interessi comuni. Gli accordi che le organizzazioni stipulano nei vari campi connessi alla loro attività vengono considerati come produttivi di diritti ed obblighi veri e propri delle organizzazioni, restando senza effetti sulla sfera giuridica degli Stati membri. Sintomatico è l’art. 300 del Trattato della Comunità europea, secondo cui gli accordi conclusi dall’organizzazione vincolano anche gli Stati membri; di disposizioni del genere non vi sarebbe bisogno se, per regola generale, non valesse il contrario. La personalità di tutte le organizzazioni internazionali è stata nettamente affermata dalla Corte Internazionale di Giustizia in un parere (1980) sull’interpretazione dell’accordo (1951) tra Organizzazione Mondiale della Sanità ed Egitto. Non bisogna confondere la personalità di diritto internazionale delle organizzazioni con la loro personalità di diritto interno: se un’organizzazione internazionale acquista immobili o contrae obbligazioni in uno Stato, sarà l’ordinamento di quest’ultimo a stabilire entro che limiti essa ha la capacità di farlo. Normalmente gli accordi istitutivi delle organizzazioni prevedono l’obbligo degli Stati membri di riconoscerne la capacità giuridica nei rispettivi ordinamenti.

Alla Chiesa cattolica, anche nel periodo tra il 1870 e il 1929, periodo in cui venne meno ogni suo dominio territoriale, la personalità internazionale è stata sempre per tradizione riconosciuta. Essa si concreta non solo nel potere di concludere accordi internazionali ma, data l’esistenza dello Stato della Città del Vaticano, anche in tutte le situazioni che presuppongono il governo di una comunità territoriale.

Una parte della dottrina italiana riconosce la qualità di soggetto internazionale anche al Sovrano Ordine Militare Gerosolimitano di Malta, ordine religioso dipendente dalla Santa Sede. L’Ordine ha governato un tempo su Rodi e, fino alla fine del Settecento, su Malta; intrattiene rapporti diplomatici con molti Paesi e ha ottenuto la qualifica di osservatore alle Nazioni Unite. La sua attività principale ha carattere assistenziale, funzione nobile ma non tale da giustificare il possesso della personalità internazionale.

 

 

 


PARTE PRIMA

LA FORMAZIONE DELLE NORME INTERNAZIONALI

 

4. Il diritto internazionale generale. La consuetudine ed i suoi elementi costitutivi.

Le norme di diritto internazionale generale, che vincolano cioè tutti gli Stati, hanno natura consuetudinaria. La consuetudine internazionale è costituita da un comportamento costante ed uniforme tenuto dagli Stati, dal ripetersi di un certo comportamento, accompagnato dalla convinzione dell’obbligatorietà e della necessità del comportamento stesso. Due sono gli elementi che caratterizzano questa fonte: la diuturnitas e l’opinio juris sive necessitatis. È vero che, almeno nel momento iniziale di formazione della consuetudine, il comportamento non è tanto sentito come giuridicamente quanto come socialmente dovuto. Se non si facesse leva sull’opinio juris, mancherebbe però la possibilità di distinguere tra mero ‘uso’, determinato ad es. da motivi di cortesia, di cerimoniale ecc., e consuetudine produttiva di norme giuridiche. L’esistenza o meno dell’opinio juris è poi il solo criterio utilizzabile per ricavare una norma consuetudinaria dalla prassi convenzionale: i trattati costituiscono uno dei punti di riferimento più utilizzati nella costruzione di una regola consuetudinaria internazionale, ma possono essere interpretati sia come conferma di norme consuetudinarie già esistenti, sia come creazione di nuove norme e limitate ai rapporti fra Stati contraenti; e per l’appunto solo un’indagine sull’opinio juris, solo la ricerca tendente a stabilire se gli Stati contraenti abbiano inteso il vincolo contrattuale nel primo o nel secondo senso può consentire, o escludere, l’utilizzazione di tutta una serie di trattati come prova dell’esistenza di una norma consuetudinaria.

Un principio consuetudinario non può essere tratto da una prassi convenzionale, sia pure costante e ripetuta nel tempo, quando è chiaro che il principio medesimo è il frutto delle concessioni che una parte degli Stati contraenti fanno al solo scopo di ottenere altre concessioni. Il Tribunale Iran-Stati Uniti (istituito nel 1981) si è rifiutato di dedurre un principio di ‘indennizzo parziale’, applicabile all’espropriazione ed alla nazionalizzazione di beni stranieri, dalla prassi dei c.d. lump-sum agreements, accordi mediante i quali lo Stato nazionale dei soggetti i cui beni sono stati nazionalizzati o espropriati all’estero accetta dallo Stato nazionalizzante o espropriante una somma globale, solitamente inferiore all’intero valore dei beni. Secondo il Tribunale, i lump-sum agreements sarebbero frutto di transazioni e quindi non indicativi di norme di diritto internazionale generale.

L’elemento dell’opinio juris serve infine a distinguere il comportamento dello Stato diretto a modificare il diritto consuetudinario preesistente, cioè il comportamento diretto a modificare o ad abrogare una determinata consuetudine attraverso la formazione di una consuetudine nuova o semplicemente di una ‘desuetudine’, dal comportamento che costituisce invece un mero illecito internazionale.

Circa la diuturnitas, se il trascorrere di un certo tempo per la formazione della norma è necessario, e se è vero che certe norme consuetudinarie hanno carattere plurisecolare, è anche vero che certe regole si sono consolidate nel volgere di pochi anni. Il tempo può essere tanto più breve quanto più diffuso è un certo contegno tra i membri della comunità internazionale.

Tutti gli organi statali possono partecipare al procedimento di formazione della norma consuetudinaria. Possono concorrere non solo gli atti ‘esterni’ degli Stati (trattati, note diplomatiche, comportamenti in seno ad organi internazionali) ma anche atti ‘interni’ (leggi, sentenze, atti amministrativi). Non vi è alcun ordine di priorità tra tutti questi atti, ma solo la maggiore importanza dell’uno o dell’altro a seconda del contenuto della norma consuetudinaria. Le corti supreme statali hanno un ruolo decisivo nella creazione del diritto consuetudinario ed è loro compito, di fronte a consuetudini antiche che contrastino con fondamentali e diffusi valori costituzionali, promuoverne, sia pure con cautela, la revisione.

La contestazione della norma consuetudinaria da parte di un singolo Stato, anche ripetutamente (fenomeno del c.d. persistent objector), è irrilevante; a maggior ragione, non occorre la prova dell’accettazione della norma consuetudinaria da parte dello Stato nei cui confronti questa è invocata; se tale prova fosse necessaria la consuetudine dovrebbe configurarsi come accordo tacito. Ma quando una regola è fermamente e ripetutamente contestata dalla più gran parte degli Stati appartenenti ad un gruppo, essa non solo non è opponibile a quelli che la contestano ma non è neanche da considerarsi esistente come regola consuetudinaria. Le risoluzioni (raccomandazioni) delle organizzazioni internazionali non hanno forza vincolante e le norme in esse contenute possono acquistare tale forza solo se vengono trasformate in consuetudini internazionali, ossia se sono confermate dalla diuturnitas e dall’opinio juris, oppure se vengono trasfuse in convenzioni internazionali; si dice che tali risoluzioni appartengono al ‘diritto morbido’ (soft law).

Oltre alle norme consuetudinarie generali, si afferma l’esistenza consuetudini particolari, cioè vincolanti una ristretta cerchia di Stati (ad es. le consuetudini regionali o locali). È possibile, nel caso di trattati istitutivi di organizzazioni internazionali, che le parti contraenti diano vita ad una prassi modificatrice delle norme a suo tempo pattuite. Ciò non accade allorché si tratti di organizzazioni internazionali che comprendono un organo giurisdizionale destinato a vegliare sul rispetto del trattato istitutivo (la Corte di Giustizia delle Comunità europee ha stabilito, in una sentenza del 1994, che “una semplice prassi non può prevalere sulle norme del Trattato”).

Le norme consuetudinarie generali sono suscettibili di applicazione analogica: le norme consuetudinarie possono essere applicate a rapporti della vita sociale che non esistevano all’epoca della formazione della norma (ad es. l’applicazione delle norme sulla navigazione marittima ai rapporti attinenti alla navigazione aerea).

 

5. I principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili.

L’art. 38 dello Statuto della Corte Internazionale di Giustizia annovera fra le fonti i “principi generali di diritto riconosciuti dalle Nazioni civili”. Detti principi sono indicati nell’articolo al terzo posto, dopo gli accordi e le consuetudini, e si tratta quindi di una fonte utilizzabile là dove manchino norme pattizie o consuetudinarie applicabili ad un caso concreto. Il ricorso ai principi generali di diritto costituirebbe una sorta di analogia juris destinata a colmare le lacune del diritto pattizio o consuetudinario. Due requisiti devono sussistere perché principi statali possano essere applicati a titolo di principi generali di diritto internazionale. Occorre innanzitutto che essi esistano e siano uniformemente applicati nella più gran parte degli Stati; in secondo luogo, occorre che siano sentiti come obbligatori o necessari anche dal punto di vista del diritto internazionale, che essi cioè perseguano dei valori e impongano dei comportamenti che gli Stati considerino come perseguiti ed imposti o almeno necessari anche sul piano internazionale. Costituiscono una categoria sui generis di norme consuetudinarie internazionali, rispetto alle quali la diuturnitas è data dalla loro uniforme previsione e applicazione da parte degli Stati all’interno dei rispettivi ordinamenti. Circa l’opinio juris sive necessitatis, essa è presente in quelle regole intese dagli organi dello Stato come aventi un valore universale. Il ricorso ai principi generali del diritto è particolarmente attuato nella materia della punizione dei crimini internazionali ad opera di tribunali internazionali penali. Se il primo requisito per l’esistenza di un principio generale di diritto comune agli ordinamenti statali è che esso sia uniformemente seguito nella più gran parte degli Stati, ne deriva che la ricostruzione di un principio del genere può consentire al giudice di uno Stato di farne applicazione anche quando il principio medesimo non esista nell’ordinamento statale; ciò sempre che, come di solito avviene, l’ordinamento interno imponga l’osservanza del diritto internazionale. Ad es. i principi generali di diritto comuni agli ordinamenti statali fanno parte, al pari delle norme consuetudinarie, dell’ordinamento italiano, in virtù dell’art. 101 Cost. (“L’ordinamento italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”); dato che, in virtù dell’art. 10 Cost., la contrarietà di una legge ordinaria italiana al diritto internazionale generale comporta l’illegittimità costituzionale della medesima, tale illegittimità potrà dichiararsi anche in caso di contrarietà ad un principio generale di diritto riconosciuto dalle Nazioni civili.

 

6. Altre presunte norme generali non scritte. L’equità e il ruolo della giurisprudenza interna e internazionale nella formazione del diritto internazionale generale. La c.d. frammentazione del diritto internazionale.

Una parte della dottrina (Quadri) pone al di sopra delle norme consuetudinarie un’altra categoria di norme generali non scritte, i principi ‘costituzionali’ connaturati con la comunità internazionale. Questi sarebbero le norme primarie del diritto internazionale, “espressione immediata e diretta della volontà del corpo sociale” e comprenderebbero quelle norme volute e imposte dalle “forze prevalenti” in un dato momento storico nell’ambito della comunità internazionale. Tra i principi, alcuni avrebbero carattere formale, in quanto si limiterebbero a istituire fonti ulteriori di norme internazionali, altri carattere materiale, in quanto disciplinerebbero direttamente rapporti fra Stati. I principi formali sarebbero due: consuetudo est servanda e pacta sunt servanda. L’osservanza delle consuetudini e degli accordi si spiegherebbe quindi in quanto voluta e imposta dalle forze prevalenti della comunità internazionale. Così consuetudine ed accordo sarebbero fonti di secondo grado. Ma la dottrina comune in tema di gerarchia delle fonti internazionali considera la consuetudine fonte primaria, esaurente il diritto internazionale generale, mentre si ritiene che l’accordo, fonte secondaria, tragga la sua forza dalla consuetudine (si ritiene cioè che la norma pacta sunt servanda sia una norma consuetudinaria). I principi materiali potrebbero avere qualunque contenuto (Quadri cita quello che ha sancito la libertà dei mari). Ciò che non convince è che, seguendo tale tesi, un gruppo di Stati o anche un solo Stato potrebbe imporre, disponendo della forza necessaria, la propria volontà a tutti gli altri membri della comunità internazionale. Inoltre, l’interprete interno, dovendo stabilire quali norme internazionali generali siano da applicare in Italia così come vuole l’art. 10 Cost. si dovrebbe chiedere di volta in volta se non vi siano ‘imposizioni’, in una determinata materia, da parte delle forze dominanti nella comunità internazionale.

Si discute se sia fonte di norme internazionali l’equità, definita come il “comune sentimento del giusto e dell’ingiusto”. A parte la c.d. equità infra o secundum legem, ossia la possibilità di utilizzare l’equità come ausilio meramente interpretativo, ed a parte il caso in cui un tribunale arbitrale internazionale è espressamente autorizzato a giudicare ex aequo et bono, la risposta è negativa. È da escludere non solo l’equità contra legem, contraria cioè a norme consuetudinarie o pattizie, ma anche l’equità praeter legem, diretta a colmare le lacune del diritto internazionale. L’equità va inquadrata nel procedimento di formazione del diritto consuetudinario: spesso il ricorso all’equità si atteggia come una sorta di opinio juris sive necessitatis. Quando una sentenza interna ricorre a considerazioni di equità nel quadro del diritto consuetudinario, essa influisce direttamente sulla formazione della consuetudine: le decisioni dei Tribunali interni costituiscono infatti una delle categorie più importanti di comportamenti statali dai quali la consuetudine va dedotta. L’influenza è diretta ma relativa, trattandosi di una decisione autorevole ma proveniente da un singolo Stato. Circa le decisioni dei Tribunali internazionali, l’influenza è invece indiretta, dato che non si tratta della prassi degli Stati, me assai incisiva. Quando poi a pronunciarsi è la Corte Internazionale di Giustizia, ossia “l’organo giudiziario principale delle Nazioni Unite” (art. 92 Carta ONU), l’influenza è massima, visto che esprime l’opinio juris sive necessitatis della massima Organizzazione mondiale. Anche questa opinione però deve trovare prima o poi riscontro nella prassi degli Stati.

Si dice che la moltiplicazione delle istanze giurisdizionali internazionali, con la possibilità di decisioni discordanti, mini l’unità del diritto internazionale e si paventa la ‘frammentazione’ di quest’ultimo; cosicché da taluni si auspica un ruolo centrale per la Corte Internazionale di Giustizia. In realtà, il pericolo non sussiste: sulle interpretazioni discordanti delle sentenze sarà la prassi degli Stati ad operare la scelta definitiva. Del tema si è occupata la Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite a partire dal 2002, ma finora i lavori non hanno approdato a nulla.

7. Inesistenza di norme generali scritte. Il valore degli accordi di codificazione.

Il fenomeno della codificazione del diritto internazionale generale consuetudinario data alla fine del XIX secolo. Fino alla prima guerra mondiale furono le norme del c.d. diritto internazionale bellico ad essere trasfuse in testi scritti (Convenzioni dell’Aja del 1899 e del 1907 sulla guerra terrestre). Tentativi di codificazione furono fatti anche all’epoca della Società delle Nazioni, ma senza risultati. È con le Nazioni Unite che l’opera di codificazione ha preso slancio.

L’art. 13 della Carta ONU prevede che l’Assemblea generale delle Nazioni Unite intraprenda studi e faccia raccomandazioni per “…incoraggiare lo sviluppo progressivo del diritto internazionale e la sua codificazione…”. Sulla base di questa disposizione l’Assemblea costituì (1947) come proprio organo sussidiario la Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite. Questa è composta da esperti che vi siedono a titolo personale (cioè da individui che non rappresentano alcun Governo) ed ha il compito di provvedere alla preparazione di testi di codificazione delle norme consuetudinarie relative a determinate materie. Si può dire che l’epoca delle grandi codificazioni si è conclusa e la Commissione si occupa attualmente di temi assai specifici.

Le principali convenzioni sono: Convenzione di Vienna (1961) sulle relazioni ed immunità diplomatiche; Convenzione sulle missioni speciali (1969); Convenzione di Vienna (1963) sulle relazioni consolari; Convenzioni di Ginevra (1958) sul diritto del mare; Convenzione di Vienna (1969) sul diritto dei trattati; Convenzione di Vienna (1986) sul diritto dei trattati conclusi da Stati con organizzazioni internazionali e tra organizzazioni internazionali; Convenzione di Vienna (1978) sulla successione degli Stati nei trattati; Convenzione di Vienna (1983) sulla successione di Stati in materia di beni, archivi e debiti di Stati; Convenzione di Montego Bay (1982) sul diritto del mare; Convenzione sul diritto relativo alle utilizzazioni dei corsi d’acqua internazionali a fini diversi dalla navigazione (1997); Convenzione sull’immunità giurisdizionale degli Stati e dei loro beni (2004).

La Commissione non è l’unico organismo in seno al quale si predispongono progetti di accordi di codificazione: l’Assemblea generale ha spesso convocato conferenze di Stati in seno alle quali anche il progetto è stato redatto oppure la redazione del progetto è stata affidata ad organi sussidiari come i Comitati ad hoc. Rispetto alle convenzioni progettate dalla Commissione la loro particolarità sta nel fatto che anche il progetto non è frutto del lavoro di individui indipendenti ma di individui rappresentanti gli Stati.

Gli accordi di codificazione, in quanto comuni accordi internazionali, vincolano gli Stati contraenti, cioè valgono solo per gli Stati che li ratificano. Non è il caso di riporre un’illimitata fiducia nell’opera della Commissione, perché nell’opera di ricostruzione delle norme internazionali influisce la mentalità dell’interprete che siede in Commissione; inoltre, l’art. 13 della Carta ONU parla non solo di codificazione ma anche di sviluppo progressivo del diritto internazionale e spesso è stata invocata quest’espressione per introdurre nell’accordo norme che in effetti erano abbastanza incerte sul piano del diritto internazionale generale. L’accordo costituisce quindi un valido punto di partenza per l’interprete che deve ricostruire delle norme generali consuetudinarie, ma egli dovrà tuttavia compiere un’ulteriore verifica restando sempre da dimostrare che le norme contenute nell’accordo corrispondano alla prassi degli Stati; e solo se la verifica risultasse positiva egli potrà applicare la norma dell’accordo di codificazione a titolo di diritto generale. Ammesso pure che l’accordo di codificazione corrisponda perfettamente al diritto internazionale consuetudinario al momento della sua redazione, è ben possibile che in epoca successiva, il diritto consuetudinario subisca dei cambiamenti per effetto della mutata pratica degli Stati. Nessun dubbio sorge circa l’inapplicabilità agli Stati non contraenti di una norma codificata ma non più corrispondente al diritto internazionale generale. Per quanto riguarda gli Stati contraenti, la mancanza di un’autorità nell’ambito della comunità internazionale impedisce che si instauri quel rapporto tra diritto consuetudinario e diritto scritto che è tipico degli ordinamenti statali e che consiste nel valore puramente ausiliario del primo nei settori dove esiste il secondo: consuetudini e accordi sono in linea di principio fra loro derogabili e nulla vieta dunque che il diritto consuetudinario successivo abroghi quello pattizio anteriore. L’interprete deve essere estremamente sicuro della prassi da cui intende estrarre la norma consuetudinaria abrogatrice e deve dimostrare che la consuetudine si è formata col concorso degli Stati contraenti e che questi la intendano applicabile anche nei rapporti inter se.

8. Le dichiarazioni di principi dell’Assemblea generale dell’ONU.

Fin dai primi anni di vita, l’Assemblea ha seguito la prassi di emanare, in forma più o meno solenne, delle Dichiarazioni contenenti una serie di regole che talvolta riguardano rapporti fra Stati ma più spesso riguardano rapporti interni alle varie comunità statali, quali i rapporti dello Stato con i propri sudditi o con gli stranieri. Tra le principali dichiarazioni è da ricordare la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948). Le Dichiarazioni di principi non costituiscono un’autonoma fonte di norme internazionali generali. L’Assemblea generale delle Nazioni Unite non ha poteri legislativi mondiali (l’atto tipico che essa può emanare in base alla Carta è la raccomandazione) e il carattere non vincolante delle sue risoluzioni, ivi comprese le Dichiarazioni di principi, è difeso con forza da una parte non indifferente dei suoi membri, come i Paesi occidentali. Le Dichiarazioni svolgono un ruolo importante ai fini dello sviluppo del diritto internazionale. Per quanto riguarda il diritto consuetudinario, le Dichiarazioni vengono in rilievo, ai fini della sua formazione, in quanto prassi degli Stati, in quanto somma degli atteggiamenti degli Stati che le adottano, e non come atti dell’ONU. Circa il diritto pattizio, certe Dichiarazioni hanno valore di veri e propri accordi internazionali: sono quelle Dichiarazioni che equiparano l’inosservanza dei principi espressi alla violazione della Carta. Ma poiché l’Assemblea non ha poteri interpretativi obbligatori per i singoli Stati, anche tali Dichiarazioni restano mere raccomandazioni. È vero però che, equiparandosi l’inosservanza di un certo principio all’inosservanza della Carta, gli Stati che partecipano col loro voto favorevole all’atto intendono obbligarsi. Le Dichiarazioni inquadrabili come accordi vanno propriamente considerate, in vista del modo in cui vengono in essere, come accordi in forma semplificata.

 


9. I trattati. Procedimento di formazione e competenza a stipulare.

La terminologia usata è varia (trattato, convenzione, patto, ecc.; si usa il termine Carta o Statuto per i trattati istitutivi di organizzazioni internazionali; scambio di note per l’accordo risultante dallo scambio di note diplomatiche) ma la natura dell’atto, quella propria degli atti contrattuali, non muta. L’accordo internazionale può essere definito come l’incontro delle volontà di due o più Stati, dirette a regolare una determinata sfera di rapporti riguardanti questi ultimi.

Non va accolta la distinzione fra trattati normativi e trattati-contratto: i primi, considerati come gli unici accordi produttivi di vere e proprie norme giuridiche, sarebbero caratterizzati da volontà di identico contenuto, dirette a regolare la condotta di un numero rilevante di Stati, mentre nei secondi, fonti di diritti e obblighi, ossia di rapporti giuridici, non di norme, le parti muoverebbero da posizioni contrastanti ed attuerebbero uno scambio di prestazioni più o meno corrispettive. La distinzione non ha senso, non avendo senso la contrapposizione fra norma e rapporto giuridico: qualsiasi atto obbligatorio produce per ciò stesso una regola di condotta. Può accettarsi la distinzione fra norme astratte, regolanti una situazione o un rapporto ‘tipo’ e vincolanti i destinatari che vengano a trovarsi in quella situazione o rapporto, e norme concrete, regolanti una situazione o un rapporto singolo e determinato.

I trattati possono dar vita sia a regole materiali, cioè a norme che direttamente disciplinano i rapporti fra destinatari imponendo obblighi o attribuendo diritti, sia a regole formali o strumentali, cioè a norme che si limitano ad istituire fonti per la creazione di ulteriori norme. Tra gli accordi istitutivi di fonti acquistano oggi grande importanza i trattati costitutivi di organizzazioni internazionali, i quali, oltre a disciplinare direttamente certi rapporti fra Stati membri, demandano agli organi sociali la produzione di norme ulteriori.

I trattati internazionali sottostanno ad una serie di norme consuetudinarie che ne disciplinano il procedimento di formazione nonché i requisiti di validità ed efficacia. Tale complesso di regole forma il c.d. diritto dei trattati, cui è dedicata la Convenzione di Vienna del 1969 (in vigore dal 1980 e ratificata dall’Italia nel 1974). Vanno menzionate anche la Convenzione di Vienna del 1978 (in vigore dal 1996), sulla successione degli Stati nei trattati, e la Convenzione di Vienna del 1986 (mai entrata in vigore), sui trattati stipulati fra Stati e Organizzazioni internazionali o fra Organizzazioni internazionali.

È opinione universalmente seguita che il diritto internazionale lasci la più ampia libertà in materia di forma e procedura per la stipulazione: l’accordo può risultare da ogni genere di manifestazioni di volontà degli Stati, purché di identico contenuto e purché dirette ad obbligarli. Non ha carattere tassativo l’elencazione dei modi di stipulazione contenuta nella Convenzione di Vienna (artt. 7-16), elencazione che tra l’altro è limitata agli accordi “conclusi per iscritto”. Ancora oggi, comunque, il procedimento normale o solenne, ricalca quello seguito all’epoca delle monarchie assolute. All’epoca la stipulazione del trattato era di competenza esclusiva del Capo dello Stato; esso era negoziato dagli emissari del Sovrano, definiti ‘plenipotenziari’ in quanto titolari di pieni poteri per la negoziazione, che predisponevano il testo dell’accordo (da approvare all’unanimità) e lo sottoscrivevano. Seguiva la ‘ratifica’ da parte del Sovrano ed occorreva, infine, che la volontà del Sovrano fosse portata a conoscenza delle controparti con lo scambio delle ratifiche. Anche oggi il procedimento normale di formazione del trattato si apre con i negoziati condotti dai plenipotenziari, i quali di solito sono organi del Potere esecutivo. L’art. 7 della Convenzione di Vienna stabilisce che una persona è considerata come rappresentante dello Stato “…se produce dei pieni poteri appropriati…”; i pieni poteri sono ‘appropriati’ allorquando promanano dagli organi competenti in base al diritto e alla prassi propri di ciascun Paese (dal Potere esecutivo in Italia). I trattati multilaterali di particolare rilievo sono negoziati dai plenipotenziari nell’ambito di conferenze diplomatiche rette da regole procedurali preventivamente concordate; la vecchia regola dell’unanimità va cedendo il passo al principio di maggioranza e, talvolta, le due regole si combinano allorché sia prevista la votazione a maggioranza solo dopo che sia stato compiuto ogni sforzo per giungere ad un’adozione concordata. I negoziati si concludono con la firma (o la parafatura, apposizione delle sole iniziali) da parte dei plenipotenziari. La firma non comporta ancora alcun vincolo per gli Stati: essa ha fini di autenticazione del testo che è così predisposto in forma definitiva e potrà quindi subire modifiche solo in seguito all’apertura di nuovi negoziati. La manifestazione di volontà con cui lo Stato si impegna è la ratifica. Circa l’ordinamento italiano, l’art. 878 Cost. dispone che il Presidente della Repubblica ratifica i trattati internazionale previa, quando occorra, l’autorizzazione delle Camere; l’art. 80 Cost. specifica che l’autorizzazione delle Camere è necessaria, e va data con legge, quando si tratti di trattati che hanno natura politica, o prevedono regolamenti giudiziari, o comportano variazioni del territorio nazionale od oneri alle finanze o modificazioni di leggi. Le due norme vanno combinate con l’art. 89 Cost. secondo cui “nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non controfirmato dai ministri proponenti che ne assumono la responsabilità”. È opinione comune che la ratifica rientri tra quegli atti che il Presidente della Repubblica non possa rifiutarsi di sottoscrivere una volta intervenuta la ratifica governativa ma di cui possa soltanto sollecitare il riesame prima della sottoscrizione: il che dimostra che il potere di ratifica è, quanto al contenuto, nelle mani dell’Esecutivo e, per le categorie di trattati indicate dall’art. 80 Cost., insieme del Potere esecutivo e di quello legislativo. Alla ratifica è da equiparare l’adesione (o accessione), che si ha, nel caso di trattati multilaterali, quando la manifestazione di volontà diretta a concludere l’accordo promana da uno Stato che non ha preso parte ai negoziati; la possibilità di partecipare all’accordo a beneficio di Stati che non lo hanno negoziato deve essere prevista nel testo medesimo (c.d. clausola di adesione), occorre cioè che il trattato sia aperto. Il procedimento di formazione si conclude con lo scambio o con il deposito delle ratifiche: nel primo caso l’accordo si perfeziona istantaneamente, mentre nel secondo, via via che le ratifiche vengono depositate, l’accordo si forma tra gli Stati depositanti (di solito, però, si prevede nel testo del trattato che quest’ultimo non entri in vigore, neppure fra gli Stati depositanti, finché non si raggiunga un certo numero di ratifiche. Allo scambio e al deposito, l’art. 16 della Convenzione di Vienna aggiunge la notifica agli Stati contraenti o al depositario.

Secondo l’art. 102 della Carta ONU ogni trattato o accordo internazionale ‘deve’ essere registrato presso il Segretariato delle Nazioni Unite e pubblicato a cura di quest’ultimo: unica conseguenza dell’omessa registrazione è l’impossibilità di invocare il trattato innanzi ad un organo delle Nazioni Unite. La registrazione non è dunque un requisito di validità del trattato. Normalmente, tutti gli accordi internazionali sono pubblicati nella raccolta ufficiale dell’ONU, la United Nations Treaty Series.

Le procedure alternative possono distinguersi a seconda che sfocino comunque nella ratifica oppure si caratterizzino per un differente modo di manifestazione della volontà da parte degli Stati. Tra le prime sono inquadrabili le numerose variazioni che nella prassi subiscono le fasi dei negoziati e della firma (ad es. per molti trattati predisposti da organizzazioni internazionali, alla negoziazione diretta si sostituisce la discussione e l’approvazione da parte di un organo dell’organizzazione). La firma viene sempre più spesso, nel caso di accordi multilaterali, differita nel tempo: il testo del trattato, una volta redatto di plenipotenziari, è ‘aperto’ alla firma e alla ratifica degli Stati; tale firma non ha più funzione di autenticazione del testo ma costituisce una generica dichiarazione di disponibilità. Circa le procedure nelle quali la manifestazione di volontà dello Stato non consiste nella ratifica, è fondamentale il fenomeno dei c.d. accordi in forma semplificata (o accordi ‘informali’): tale è l’accordo concluso per effetto della sola sottoscrizione del testo da parte dei plenipotenziari, e che si ha quando, dallo stesso testo o dai comportamenti concludenti delle parti, risulti che le medesime hanno inteso attribuire alla firma il valore di piena e definitiva manifestazione di volontà. L’art. 12 della Convenzione di Vienna dice che “Il consenso di uno Stato ad essere vincolato da un trattato è espresso dalla firma del rappresentante di questo Stato: a) quando il trattato prevede che la firma avrà tale effetto; b) quando è in altro modo stabilito che gli Stati partecipanti ai negoziati abbiano convenuto di attribuire tale effetto alla firma; c) quando l’intenzione dello Stato di dare tale effetto alla firma risulta dai pieni poteri del suo rappresentante o è stato espresso nel corso della negoziazione”. A tale categoria di accordi sono da riportare anche gli scambi di note diplomatiche o di altri strumenti simili, sempre che dagli strumenti medesimi o aliunde si ricavi l’intenzione delle parti di vincolarsi immediatamente. Per aversi un accordo in forma semplificata è necessario che dal testo o dalle circostanze risulti una sicura volontà di obbligarsi; ciò perchè la prassi internazionale conosce numerosi casi di intese tra Governi, cui spesso si dà il nome di accordi, ma che non hanno natura di accordi in senso giuridico. In una zona di confine fra intese non giuridiche e accordi in forma semplificata si collocano gli accordi sull’applicazione provvisoria dei trattati, che si hanno quando le parti prevedono che il trattato si applichi provvisoriamente in attesa della sua entrata in vigore. La competenza a concludere accordi in forma semplificata, al pari della competenza a ratificare, è regolata da ciascuno Stato con proprie norme costituzionali. Circa l’ordinamento italiano, la stipulazione in forma semplificata è da escludere solo quando l’accordo appartenga ad una delle categorie di cui all’art. 80 Cost. (trattati aventi natura politica, che prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari, che importano variazioni del territorio od oneri alle finanze o modificazioni di leggi); in tutti gli altri casi il Potere esecutivo è libero di decidere, insieme alle altre parti contraenti, che forma dare all’accordo e che procedura seguire (tale tesi, nel silenzio della nostra Costituzione, è ricavata da un’interpretazione sistematica degli artt. 80 e 87 Cost. e sembra essere confortata dai lavori dell’Assemblea Costituente).

La categoria degli accordi in forma semplificata è riconosciuta dal legislatore: la L. n. 839/84, nel riordinare la materia della pubblicazione degli atti normativi della Repubblica italiana nella Gazzetta Ufficiale, prevede, all’art. 1, che tale pubblicazione avvenga per “…gli accordi ai quali la Repubblica si obbliga nelle relazioni internazionali, ivi compresi quelli in forma semplificata…”. Un limite alla competenza del Governo a stipulare accordi in forma semplificata è dato dal divieto, che la prevalente dottrina considera come implicitamente previsto dalla Costituzione, di concludere accordi segreti. La prassi degli accordi in forma semplificata trova origine in quegli executive agreements statunitensi, stipulati dal Presidente ed esenti da ratifica (di competenza del Senato), che hanno per oggetto materie tecnico-amministrative e materie che rientrano nelle competenze del Presidente quale Comandante delle forze armate e responsabile della politica estera.

Un problema molto importante nasce se il Potere esecutivo si impegna autonomamente e definitivamente sul piano internazionale relativamente a materie per le quali la Costituzione richiede il concorso del Parlamento (e, sia pure formalmente, del Capo dello Stato). Il Governo ha spesso utilizzato la forma semplificata per accordi che rientravano palesemente nelle categorie dell’art. 80 Cost.: l’esempio più significativo è costituito dalla domanda di ammissione dell’Italia alle Nazione Unite (la Carta ONU è chiaramente un trattato di natura politica e la partecipazione dello Stato all’Organizzazione importa oneri finanziari di rilievo), avvenuta con un atto del Ministro degli Esteri (emanato nel 1947 e accolto dall’Assemblea generale nel 1955). La dottrina evita eccessi estremistici e, da un lato, esclude che per il diritto internazionale i trattati stipulati direttamente dall’Esecutivo siano in ogni caso validi, che l’Esecutivo abbia cioè, come si riteneva avesse un tempo il Capo dello Stato, lo jus repraesentationis omnimodae; dall’altro, esclude che qualsiasi vizio, anche soltanto formale, dal punto di vista interno, possa inficiare la validità internazionale dell’accordo. Al di là delle varie soluzioni ‘internistiche’ o ‘internazionalistiche’, l’art. 46 della Convenzione di Vienna stabilisce che “1) Il fatto che il consenso di uno Stato ad essere vincolato da un trattato sia stato espresso in violazione di una regola del suo diritto interno sulla competenza a stipulare trattati non può essere invocato da tale Stato come vizio del suo consenso, a meno che la violazione non sia manifesta e non concerna una regola del suo diritto interno di importanza fondamentale. 2) Una violazione è manifesta se obiettivamente evidente per qualsiasi Stato che si comporti in materia secondo la prassi abituale e in buona fede”. L’art. 46 corrisponde al diritto internazionale generale quando codifica il principio che la violazione di norme interne di importanza fondamentale in tema di competenza a stipulare sia causa di invalidità del trattato; una violazione del genere si ha quando sia mancato, nelle materie elencate nell’art. 80 Cost., il concorso del Parlamento. Non corrisponde al diritto consuetudinario nella parte in cui enuncia il principio della buona fede: l’accordo concluso dall’Esecutivo senza la relativa competenza costituzionale resta un’intesa priva di carattere giuridico; acquista tale valore nel momento in cui l’organo messo da parte manifesti, implicitamente o esplicitamente, il suo assenso, e purché esso adoperi lo stesso strumento formale (la legge, per quanto riguarda l’ordinamento italiano, nelle materie elencate dall’art. 80 Cost.) previsto dalla Costituzione per il suo intervento.

Figure intermedie fra gli accordi in forma semplificata e gli accordi solenni sono gli accordi che espressamente subordinano la propria entrata in vigore alla comunicazione, da parte di ciascun Governo firmatario, che sono state adempiute le procedure previste dal diritto interno per “rendere applicabile nel territorio dello Stato” l’accordo medesimo. Quando tali accordi toccano materie rientranti nell’art. 80 devono ricevere anch’essi l’assenso del Parlamento con una legge di approvazione oppure con una legge contenente l’ordine di esecuzione.

Circa la capacità delle Regioni di concludere accordi internazionali, la Corte costituzionale prese in un primo tempo una posizione drastica in senso antiregionalista (sent. n. 170/75). La materia venne poi regolata dal D.P.R. n. 616/77, che riservava allo Stato le funzioni relative ai rapporti internazionali nelle materie trasferite e delegate alle Regioni e faceva divieto alle Regioni di svolgere “attività promozionali all’estero” senza il preventivo assenso governativo. Significativa è la sent. n. 179/87 nella quale, capovolgendosi il primitivo orientamento, si sostiene che le Regioni, procuratesi il previo assenso del Governo centrale, possano stipulare non solo intese di rilievo internazionale, ma addirittura “accordi in senso proprio”, tali “da impegnare la responsabilità dello Stato” e purché si tratti di accordi che riguardino materie di competenza regionale e non rientranti nelle categorie previste dall’art. 80 Cost. La materia è ora regolata dalla L. cost. n. 3/2001 che prevede la competenza della Regione, nelle materie di sua competenza, a “concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali interni ad altro Stato, nei casi e con le forme disciplinati da leggi dello Stato”. I casi e le forme sono disciplinati dalla L. n. 131/2003 che prevede il preventivo conferimento di pieni poteri alla Regione da parte del Governo, configurando la competenza della Regione come competenza a stipulare per conto dello Stato, e quindi impegnando la responsabilità dello Stato. Le iniziative regionali dirette a collaborare con analoghi enti stranieri sono, in realtà, dei programmi, privi in sé di carattere giuridico, che costituiscono una mera occasione per l’adozione di atti legislativi o amministrativi da parte delle Regioni interessate.

Diffuso nella prassi contemporanea è il fenomeno degli accordi stipulati dalle organizzazioni internazionali, sia fra loro, sia con Stati membri oppure con Stati terzi. A siffatti accordi è dedicata la Convenzione di Vienna del 1986 che riproduce pedissequamente la Convenzione di Vienna del 1969. occorre far capo allo statuto di ciascuna organizzazione per stabilire quali sono gli organi competenti a stipulare e quali le materie per cui siffatta competenza è attribuita. Si può dire che una violazione grave delle norme statutarie sulla competenza a stipulare comporti l’invalidità dell’accordo. Poiché le norme contenute nel trattato istitutivo, come tutte le norme pattizie, sono modificabili per consuetudine, la competenza a stipulare può anche risultare da regola sviluppatesi nella prassi dell’organizzazione, purché si tratti di prassi certa e sempre che non vi sia, come avviene per le Comunità europee, un organo giudiziario destinato a vegliare sul rispetto del trattato istitutivo, nel qual caso il fattore determinante ai fini dell’eventuale sviluppo delle competenze originarie diviene la giurisprudenza. L’art. 2 della Convenzione di Vienna del 1986 precisa che per “norme dell’organizzazione” devono intendersi “le norme statutarie, le decisioni e le risoluzioni adottate sulla base delle norme medesime, e la prassi consolidata dell’organizzazione”. Gran parte degli accordi stipulati dalle organizzazioni sono i c.d. accordi di collegamento che le organizzazioni stipulano fra loro per coordinare le rispettive attività. Importanti sono gli accordi, stipulati con gli Stati membri o con Stati terzi, che fissano il regime della sede delle organizzazioni o attribuiscono immunità e privilegi ai loro funzionari.

10. Inefficacia dei trattati nei confronti degli Stati terzi. L’incompatibilità tra norme convenzionali.

Per il trattato internazionale vale ciò che si dice per il contratto di diritto interno: esso fa legge fra le parti e solo fra le parti. Diritti ed obblighi per terzi Stati non potranno derivare da un trattato se non attraverso una qualche forma di partecipazione dei terzi Stati al medesimo. Le parti di un trattato possono sempre impegnarsi a tenere comportamenti che risultano vantaggiosi per i terzi (ad es. gli accordi in tema di navigazione su fiumi, canali e stretti internazionali, pur intercorrendo fra un numero limitato di paesi, sanciscono di solito la libertà di navigazione per le navi di tutti gli Stati), ma tali vantaggi, finché non si trasformino in diritti attraverso la partecipazione del terzo all’accordo, possono sempre essere revocati ad libitum dalle parti contraenti. Il diritto del terzo di esigere l’applicazione del trattato o di opporsi alla sua abrogazione è sempre stato negato dalla prassi. L’art. 34 della Convenzione di Vienna del 1969 sancisce, come regola generale, che “un trattato non crea obblighi o diritti per un terzo Stato senza il suo consenso”; l’art. 35 specifica che un obbligo può derivare da una disposizione di un trattato a carico di un terzo Stato “se le parti contraenti del trattato intendono creare tale obbligo e se lo Stato accetta espressamente per iscritto l’obbligo medesimo”; l’art. 36 prevede che un diritto possa nascere a favore di uno Stato terzo solo se questo vi consenta, ma aggiunge che il consenso si presume finché non vi siano “indicazioni contrarie” e sempre che il trattato non disponga altrimenti; l’art. 37 autorizza i contraenti originari revocare quando vogliono il ‘diritto’ accettato dal terzo, a meno che non ne abbiano previamente stabilita in qualche modo l’irrevocabilità. Dunque, perché nascano veri e propri diritti, occorre che le parti intendano crearli e che il terzo le accetti, ma anche che l’offerta dei contraenti originari sia concepita come irrevocabile unilateralmente.

Premesso il principio che un trattato può essere modificato o abrogato, espressamente o implicitamente, da un trattato concluso in epoca successiva fra gli stessi contraenti, un problema nasce se i contraenti dell’uno e dell’altro trattato coincidono solo in parte. La soluzione discende dalla combinazione del principio della successione dei trattati nel tempo con quello dell’inefficacia dei trattati per i terzi: fra gli Stati contraenti di entrambi i trattati, il trattato successivo prevale; nei confronti degli Stati che siano parti di uno solo dei due trattati, restano invece integri, nonostante l’incompatibilità, tutti gli obblighi che da ciascuno di essi derivano. Lo Stato contraente di entrambi i trattati si troverà a dover scegliere se tenere fede agli impegni assunti col primo oppure quelli assunti col secondo accordo; operata la scelta, esso non potrà non commettere un illecito, e sarà quindi internazionalmente responsabile, rispettivamente verso gli Stati contraenti del secondo oppure del primo accordo. L’art. 30, dopo aver sancito, al par. 3, la regola per cui fra due trattati conclusi fra le medesime parti “il trattato anteriore si applica solo nella misura in cui le sue disposizioni sono compatibili con quelle del trattato posteriore”, stabilisce, al par. 4, che “Quando le parti del trattato anteriore non sono tutte parti contraenti del trattato posteriore: a) nelle relazioni tra gli Stati che partecipano ad entrambi i trattati, la regola applicabile è quella del par. 3; b) nelle relazioni fra uno Stato partecipante ad entrambi i trattati ed uno Stato contraente di uno solo dei trattati medesimi, il trattato di cui due Stati sono parti regola i loro diritti ed obblighi reciproci”. Al par. 5 è affermato che “Il par. 4 si applica senza pregiudizio dell’art. 41”. Quest’ultimo stabilisce che due o più parti di un trattato multilaterale “non possono” concludere un accordo mirante a modificarlo, sia pure nei loro rapporti reciproci, quando la modifica è vietata dal trattato multilaterale oppure pregiudica la posizione delle altre parti contraenti o è incompatibile con la realizzazione dell’oggetto e dello scopo del trattato nel suo insieme. L’espressione “non possono” è ambigua e potrebbe far pensare all’invalidità di tale accordo successivo contrario al primo accordo; in realtà, l’art. 41 risolve il problema solo in termini di illiceità e di responsabilità internazionale degli Stati contraenti dell’accordo successivo verso le altre parti del trattato multilaterale.

 

Frequenti sono le c.d. dichiarazioni di ‘compatibilità’ o di ‘subordinazione’ contenute in un trattato nei confronti di un altro o di una serie di altri trattati. Il par. 2 dell’art. 30 dice che “Quando un trattato precisa che esso è subordinato ad un trattato anteriore o posteriore o che esso non deve essere considerato come incompatibile con siffatto trattato, le disposizioni di quest’ultimo prevalgono”. Ciò non toglie che le parti si impegnino ad intraprendere tutte le azioni (lecite) idonee a sciogliersi dagli impegni incompatibili: il negoziato costituisce lo strumento cui si fa più ricorso a fini di armonizzazione di norme convenzionali incompatibili.

Un esempio importante di clausola di compatibilità è l’art. 307 del Trattato CE: “Le disposizioni del presente Trattato non pregiudicano i diritti e gli obblighi derivanti da convenzioni concluse, anteriormente al 1.1.1958 o, per gli Stati aderenti, anteriormente alla data della loro adesione, tra uno o più Stati membri da una parte e uno o più Stati terzi dall’altra. Nella misura in cui tali convenzioni sono incompatibili col presente Trattato, lo Stato o gli Stati membri interessati ricorrono a tutti i mezzi atti ad eliminare le incompatibilità constatate. Ove occorra, gli Stati membri si forniranno reciproca assistenza per raggiungere tale scopo, assumendo eventualmente una comune linea di condotta…”.

11. Le riserve nei trattati.

La riserva indica la volontà dello Stato di non accettare certe clausole del trattato o di accettarle con talune modifiche oppure secondo una determinata interpretazione (c.d. dichiarazione interpretativa); cosicché tra lo Stato autore della riserva e gli altri Stati contraenti , l’accordo si forma solo per la parte non investita dalla riserva, laddove il trattato resta integralmente applicabile tra gli altri Stati. La riserva ha senso nei trattati multilaterali ed ha lo scopo di facilitare la più larga partecipazione. Secondo il diritto internazionale classico, la possibilità di apporre riserve deve essere tassativamente concordata nella fase della negoziazione, e quindi doveva figurare nel testo del trattato predisposto dai plenipotenziari; in mancanza, si riteneva che uno Stato non avesse altra alternativa che quella di ratificare o meno il trattato. Due erano i modi per apporre riserve: o i singoli Stati dichiaravano al momento della negoziazione di non voler accettare alcune clausole e quindi nel testo si faceva menzione di tale riserva; oppure il testo prevedeva genericamente la facoltà di apporre riserve al momento della ratifica o dell’adesione, specificando quali articoli potessero formare oggetto di riserva. La formulazione di riserve non previste dal testo comportava l’esclusione dello Stato autore della riserva dal novero dei contraenti ed equivaleva piuttosto alla proposta di un nuovo accordo. L’istituto si è notevolmente evoluto. Tappa fondamentale è il parere (1951) della Corte Internazionale di Giustizia reso all’Assemblea generale dell’ONU: questa chiedeva se, non prevedendo la Convenzione sulla repressione del genocidio (1948) la facoltà di apporre riserve, gli Stati potessero ugualmente procedere all’apposizione di riserve al momento della ratifica. La Corte affermò che una riserva può essere formulata all’atto di ratifica anche se la relativa facoltà non è espressamente prevista nel testo del trattato purché essa “sia compatibile con l’oggetto e lo scopo del trattato”, purché essa, dunque, non riguardi clausole fondamentali. Un altro Stato contraente può comunque contestare la riserva, sostenendone l’incompatibilità con l’oggetto e lo scopo del trattato, nel qual caso, se non si raggiunge un accordo sul punto, il trattato non può ritenersi esistente nei rapporti fra lo Stato contestante e lo Stato autore della riserva. L’art. 19 della Convenzione di Vienna del 1969 codifica il principio che una riserva può sempre essere formulata purché non sia espressamente esclusa dal testo del trattato e purché non sia incompatibile con l’oggetto e lo scopo del trattato medesimo. L’art. 20 stabilisce che la riserva non prevista dal testo del trattato possa essere contestata e che se tale contestazione non è manifestata entro dodici mesi dalla notifica della riserva alle parti contraenti, la riserva si intende accettata. Lo Stato contestante deve, inoltre, manifestare espressamente e “nettamente” l’intenzione di impedire che il trattato entri in vigore nei rapporti fra i due Stati. Altra innovazione riguarda la possibilità che uno Stato formuli riserva in un momento successivo rispetto a quello in cui aveva ratificato il trattato purché nessuna delle altre parti contraenti sollevi obiezioni entro un termine che, nella prassi seguita dal Segretariato dell’ONU quale depositario di trattati multilaterali, è stato prima fissato in novanta giorni e poi portato a dodici mesi in seguito alle proteste degli Stati a causa della sua brevità. Ma la tendenza più innovativa è costituita dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani: trattasi della tendenza a ritenere che, se lo Stato formula una riserva inammissibile, tale inammissibilità non comporta l’estraneità dello Stato stesso rispetto al trattato ma l’invalidità della sola riserva; quest’ultima dovrà ritenersi come non apposta (ogni estensione di tale regola a tipi di trattati che non tutelino i diritti fondamentali degli individui è comunque prematura).

Quando alla formazione della volontà dello Stato diretta a partecipare al trattato concorrono più organi, può darsi che l’apposizione di una riserva sia decisa da uno di essi ma non dagli altri. Circa il sistema italiano, essa è valida sia che venga formulata autonomamente dal Parlamento, sia che venga formulata autonomamente dal Governo. Se uno degli organi non vuole una parte dell’accordo, la manifestazione di volontà dello Stato si forma solo per la parte residua. La tesi dell’invalidità dell’intera manifestazione di volontà dello Stato è poco credibile in presenza di una prassi contraria. Circa la responsabilità (politica o addirittura penale) del Governo, e dei suoi membri, di fronte al Parlamento: se il Governo si discosta in tema di riserve da quanto deliberato dal Parlamento, se la decisione non è presa dopo che il Parlamento sia stato informato e se non si tratta di riserve dal contenuto del tutto tecnico o minoris generis, vi è materia perché scattino i meccanismi di controllo del Legislativo sull’Esecutivo. Circa i riflessi internazionalistici, la riserva aggiunta dal Governo e dichiarata all’atto di deposito della ratifica è, per il diritto internazionale, valida. Nel caso, molto teorico, di riserva contenuta nella legge di autorizzazione ma di cui il Governo non tenga conto, per la parte coperta dalla riserva sarà configurabile una violazione grave del diritto interno e dovrà ritenersi che lo Stato non resti impegnato per detta parte se e finché il Parlamento non revochi espressamente o implicitamente la riserva.

12. L’interpretazione dei trattati.

Oggi vi è la tendenza ad abbandonare il c.d. metodo subbiettivistico, metodo mutuato dal regime dei contratti nel diritto interno ed in base al quale si renderebbe sempre necessaria la ricerca della volontà effettiva delle parti come contrapposta alla volontà dichiarata.  Si ritiene invece che, per regola generale, debba attribuirsi al trattato il senso che è fatto palese dal suo testo, che risulti dai rapporti di connessione logica intercorrenti tra le varie parti del testo, che si armonizza con l’oggetto e la funzione dell’atto quali dal testo sono desumibili. I lavori preparatori hanno una funzione sussidiaria: ad essi può ricorrersi solo in presenza di un testo ambiguo e lacunoso. A favore del metodo obbiettivistico si pronuncia la Convenzione di Vienna del 1969; l’art. 31 stabilisce che “un trattato deve essere interpretato in buona fede secondo il significato ordinario da attribuirsi ai termini del trattato nel loro contenuto e alla luce dell’oggetto e dello scopo del trattato medesimo”; che il contesto, oltre al testo, inclusi preambolo e allegati, comprende anche gli altri accordi o strumenti posti in essere dalle parti in occasione della conclusione del trattato; e che occorre tener conto di accordi successivi o di prassi seguite dalle parti nell’applicazione del trattato, nonché di qualsiasi regola pertinente di diritto internazionale applicabile tra le parti. Unica eccezione di rilievo alla regola generale è la norma secondo cui “a un termine del trattato può attribuirsi un significato particolare se è certo che tale era l’intenzione delle parti”. L’art. 32 considera i lavori preparatori come mezzo supplementare di integrazione da usarsi quando l’esame del testo “lascia il senso ambiguo o oscuro oppure…porta ad un risultato assurdo o irragionevole”. L’art. 33 si occupa dei trattati redatti in più lingue tutte egualmente ufficiali: se la comparazione tra i vari testi rivela una differenza di significato, va comunque adottato “il significato che, tenuto conto dell’oggetto e dello scopo del trattato, concilia meglio detti testi”. Nell’ordinamento internazionale vigono, in quanto principi generali del diritto, la regola sull’interpretazione restrittiva o estensiva e la regola per cui fra più interpretazioni egualmente possibili occorre scegliere quella più favorevole alla parte più onerata (principio del favor debitoris) o al contraente più debole. Circa l’interpretazione estensiva e, in particolare l’analogia, è da abbandonare l’opinione per cui i trattati vadano interpretati sempre restrittivamente in quanto comporterebbero una limitazione della sovranità e della libertà degli Stati.

Il ricorso ai normali mezzi di interpretazione vale anche per i trattati istitutivi di organizzazioni internazionali, come la Carta ONU e i trattati istitutivi delle Comunità europee. Tuttavia vi è una comune tendenza a considerare tali accordi non come trattati quanto come costituzioni. La Corte Internazionale di Giustizia si è posta per questa strada quando ha fatto uso della c.d. teoria dei poteri impliciti: ogni organo disporrebbe non solo dei poteri espressamente attribuitigli dalle norme costituzionali, ma anche di tutti i poteri necessari per l’esercizio dei poteri espressi. La Corte, applicando tale teoria agli organi dell’ONU, ne ha ampliato notevolmente la portata. Nell’ambito della Comunità europea, l’art. 308 del Trattato CE afferma che “Quando un’azione della Comunità risulti necessaria per raggiungere, nel funzionamento del Mercato Comune, uno degli scopi della Comunità, senza che il presente Trattato abbia previsto i poteri di azione a tal uopo richiesti, il Consiglio, deliberando all’unanimità su proposta della Commissione e dopo aver consultato il Parlamento europeo, prende le disposizioni del caso”. La teoria dei poteri impliciti si colloca dunque all’estremo opposto della vecchia tendenza all’interpretazione restrittiva dei trattati internazionali.

La Convenzione di Vienna non avalla interpretazioni ‘unilateralistiche’ dei trattati. L’art. 31 non include, tra le “altre norme” utilizzabili per chiarire il significato di una disposizione pattizia le norme di diritto interno, proprie di ciascuno Stato contraente. Il giudice interno, quando una convenzione nulla dispone in materia di interpretazione e di lacune, dovrà evitare comunque di rifarsi esclusivamente al proprio diritto se non vi è autorizzato dallo stesso accordo e dovrà sforzarsi di stabilire, alla luce delle regole di diritto consuetudinario, così come codificate nella Convenzione di Vienna, quale sia il significato unico ed obiettivo della disposizione convenzionale, deducibile dai principi generali cui la convenzione si ispira o dai principi comuni agli ordinamenti degli Stati contraenti. Opportuna sarà pure l’indagine tendente a stabilire come la convenzione è interpretata dai giudici degli altri Stati contraenti.

13. La successione degli Stati nei trattati.

Può darsi che una parte del territorio di uno Stato passi, per effetto di cessione o di conquista, sotto la sovranità di un altro Stato già esistente, oppure si costituisca in Stato indipendente; può darsi invece che il cambiamento di sovranità riguardi l’intero territorio dello Stato, oppure si smembri e dia luogo a più Stati nuovi, o infine venga a trovarsi, in seguito ad eventi rivoluzionari, sotto un apparato di governo radicalmente nuovo. Alla ‘successione degli Stati rispetto ai trattati’ è dedicata la Convenzione di Vienna del 1978 (entrata in vigore nel 1996), complementare alla Convenzione di Vienna del 1969. Per l’art. 7 la Convenzione si applica “alle successioni fra Stai che siano intervenute dopo l’entrata in vigore della Convenzione…”; se però uno Stato successore aderisce alla Convenzione, la sua adesione retroagisce fino al momento in cui la successione è avvenuta, sempre che, in quel momento, la Convenzione fosse già in vigore. La ratio della norma sta nel fatto che in molti casi lo Stato che si sostituisce ad un altro nel governo di un territorio è uno Stato nuovo, e che pertanto la Convenzione non potrebbe applicarsi in molti casi qualora si pretendesse che lo Stato successore fosse già parte contraente al momento della successione. Uno Stato successore può addirittura dichiarare di voler applicare la Convenzione ad una successione intervenuta prima della stessa entrata in vigore di quest’ultima, ma una tale dichiarazione varrà solo nei confronti di quelle parti contraenti che abbiano a loro volta dichiarato di accettarla.

Pacifico è il principio per cui lo Stato che in qualsiasi modo si sostituisce ad un altro nel governo di una comunità territoriale, è vincolato dai trattati, o dalle clausole di un trattato, di natura reale o territoriale o, come si dice, localizzabili, cioè dai trattati che riguardano l’uso di determinate parti del territorio, conclusi dal predecessore.

Rientrano in questa categoria i trattati che istituiscono servitù attive o passive nei confronti di territori di Stati vicini, gli accordi per l’affitto di parti del territorio, i trattati che prevedono la libertà di navigazione di fiumi e canali, i trattati che impongono la smilitarizzazione di determinate aree, i trattati che prevedono la costruzione di opere sui confini. L’obbligo di rispettare le frontiere stabilite dal predecessore è generalmente sentito nell’ambito della comunità internazionale. Anche i Paesi sorti dalla decolonizzazione non lo hanno normalmente negato; la prassi africana si riallaccia alla prassi dell’America latina nell’ambito della quale si era fatto ricorso al principio dell’uti possidetis juris: gli Stati latino-americani avrebbero ‘ereditato’ dalla Spagna le frontiere delle circoscrizioni amministrative dell’impero coloniale spagnolo esistenti al momento dell’indipendenza.

La successione nei trattati localizzabili incontra il limite degli accordi che abbiano una prevalente caratterizzazione politica, che siano cioè strettamente legati al regime vigente prima del cambiamento di sovranità (ad es. non si verifica successione negli accordi che concedono parti del territorio per l’installazione di basi militari straniere); più che un limite autonomo, trattasi dell’applicazione in materia successoria del principio generale rebus sic stantibus, secondo cui un trattato o determinate clausole di un trattato si estinguono se mutano in modo radicale le circostanze esistenti al momento della conclusione.

Circa i trattati non localizzabili, la regola fondamentale è la c.d. regola della tabula rasa: lo Stato che subentra nel governo di un territorio, in linea di principio, non è vincolato dagli accordi conclusi dal predecessore. La Convenzione distingue la situazione degli Stati sorti dalla decolonizzazione (“Stati di nuova indipendenza”) dalla situazione di ogni altro Stato che subentri nel governo di un territorio; mentre per i primi assume come regola fondamentale in materia di trattati non localizzabili la regola della tabula rasa, per i secondi assume quella opposta, della continuità dei trattati. Ma un simile trattamento differenziato non trova riscontro nel diritto consuetudinario: come viene chiarito nel commento ai corrispondenti articoli della Convenzione, l’adozione del principio della continuità (e quindi della stabilità) dei trattati con riguardi ai casi diversi da quello della decolonizzazione, ha il dichiarato scopo di contribuire allo sviluppo progressivo del diritto internazionale più che codificare una regola di diritto consuetudinario.

Il principio della tabula rasa si applica anzitutto nell’ipotesi del distacco di una parte del territorio di uno Stato. Può darsi che la parte di territorio distaccatasi si aggiunga, per effetto di cessione o di conquista, al territorio di un altro Stato preesistente (trasferimento); in tal caso gli accordi vigenti nello Stato che subisce il distacco cessano di avere vigore con riguardo al territorio distaccatosi e si estendono in modo automatico gli accordi vigenti nello Stato che acquista il territorio: la dottrina parla di mobilità delle frontiere dei trattati. Può darsi invece che sulla parte distaccatasi si formino uno o più Stati nuovi (secessione); anche in tal caso gli accordi vigenti nello Stato che subisce il distacco cessano di avere vigore nel territorio che acquista l’indipendenza. La prassi depone a sfavore della Convenzione di Vienna del 1978 nella parte in cui essa enuncia il principio della continuità dei trattati nelle ipotesi di secessione da Potenze non coloniali. Sul problema della secessione non influiscono i c.d. accordi di devoluzione, con cui lo Stato indipendente consente a subentrare nei trattati conclusi dalla ex madrepatria: l’accordo, non potendo avere efficacia rispetto alle altre parti contraenti dei trattati devoluti, pone soltanto l’obbligo per la ex colonia di compiere i passi necessari affinché siffatti trattati vengano rinnovati. L’applicazione del principio della tabula rasa agli Stati nuovi formatisi per distacco è integrale per quanto riguarda i trattati bilaterali conclusi dal predecessore: simili trattati potranno sopravvivere solo se rinnovati attraverso apposito accordo con la controparte (eventualmente anche tacito, ossia risultante da fatti concludenti). Egualmente deve dirsi circa i trattati multilaterali chiusi: occorrerà un nuovo accordo con tutte le controparti. Ma circa i trattati multilaterali aperti all’adesione di Stati diversi da quelli originari, il principio della tabula rasa subisce un temperamento: lo Stato di nuova formazione può, anziché aderire (succedendo ex nunc), procedere alla c.d. notificazione di successione, con cui la sua partecipazione retroagisce al momento dell’acquisto dell’indipendenza (succedendo ex tunc).

Altra ipotesi è quella dello smembramento. Mentre la secessione non implica l’estinzione dello Stato che la subisce, la caratteristica dello smembramento sta nel fatto che uno Stato si estingue e sul suo territorio si formano due o più nuovi Stati. Il criterio per distinguere le due ipotesi è quello della continuità o meno dell’organizzazione di governo preesistente: lo smembramento è da ammettere ogniqualvolta nessuno degli Stati residui abbia la stessa organizzazione di governo dello Stato preesistente.

Lo smembramento dell’Unione sovietica, avvenuto con gli accordi di Minsk e di Alma Ata (1991), e quello della Cecoslovacchia sono stati effettuati concordemente. Quello della Jugoslavia ha invece avuto luogo mediante dichiarazioni unilaterali ed è stato accompagnato da noti eventi bellici; la tesi della secessione, sostenuta ufficialmente dalla Serbia-Montenegro, è da escludere, non essendovi continuità né di regime né di costituzione con il vecchio Stato socialista.

Ai fini della successione nei trattati lo smembramento è da assimilare al distacco; agli Stati nuovi formatisi sul territorio dello Stato smembrato è applicabile (ovviamente s’intendono sempre gli accordi non localizzabili) il principio della tabula rasa, temperato dalla regola che, per i trattati multilaterali aperti, prevede la facoltà di procedere ad una notificazione di successione. Anche la Convezione di Vienna del 1978 unifica le due ipotesi nella pare relativa agli Stati nuovi che non siano ex territori coloniali, sottoponendole però entrambe al principio della continuità dei trattati. La prassi recente, che rivela una tendenza degli Stati nuovi ad accollarsi le obbligazioni pattizie dello Stato smembrato, tra l’altro dividendosi pro quota i debiti contratti con Stati esteri e con organizzazioni internazionali, non è idonea a porre nel nulla la regola della tabula rasa, perché l’accollo risulta di solito da accordi degli Stati nuovi tra loro e, allorché si tratti di debiti pecuniari, l’accollo non si ispira a principi di diritto internazionale, bensì al fine pratico di evitare di interrompere il flusso dei crediti dall’estero.

Quando uno Stato, estinguendosi, passa a far parte di un altro Stato si ha l’incorporazione, mentre quando due o più Stati si estinguono e danno vita ad uno Stato nuovo si ha la fusione. Anche qui il criterio di distinzione fra le due figure si riferisce all’organizzazione di governo: l’incorporazione va preferita alla fusione ogniqualvolta vi sia continuità tra l’organizzazione di governo di uno degli Stati preesistenti e l’organizzazione di governo che risulta dall’unificazione. All’incorporazione si applica la regola della mobilità delle frontiere dei trattati: i trattati dello Stato che si estingue cessano di avere vigore (salvo che essi siano stati confermati dallo Stato incorporante attraverso nuovi accordi, espressi o taciti, con le altre Parti contraenti) mentre al territorio incorporato si estendono i trattati dello Stato incorporante; per i trattati dello Stato incorporato vale insomma la regola della tabula rasa. Lo stesso principio regola i casi di fusione: lo Stato sorto dalla fusione nasce libero da impegni pattizi (a parte, ovviamente, gli accordi localizzabili). Un’eccezione al principio della tabula rasa deve ammettersi quando le comunità statali incorporate o fuse, pur estinguendosi come soggetti internazionali, conservino un notevole grado di autonomia nell’ambito dello Stato incorporante o nuovo, particolarmente quando, a seguito dell’incorporazione o della fusione, si instauri un vincolo di tipo federale; in tal caso la prassi si è orientata nel senso della continuità degli accordi, con efficacia limitata alla regione incorporata o fusa e sempre che una simile limitazione sia compatibile con l’oggetto e lo scopo dell’accordo. La Convenzione di Vienna del 1978 adotta il principio della continuità dei trattati quali che siano le caratteristiche della riunione, senza distinguere fra incorporazione e fusione, discostandosi ancora una volta dal diritto consuetudinario.

Quando si verifica un mutamento di governo nell’ambito di una comunità statale, senza che il territorio dello Stato subisca ampliamenti o diminuzioni, se il mutamento interviene per vie extralegali ed un regime radicalmente diverso si instaura, deve ritenersi che muti la persona di diritto internazionale. Si ha una successione del nuovo Governo nei diritti e negli obblighi del predecessore, eccezion fatta per i trattati incompatibili col nuovo regime; si tratta dell’applicazione alla materia successoria del principio rebus sic stantibus. Della materia la Convenzione di Vienna del 1978 non si occupa.

Si discute se vi sia successione internazionalmente imposta in situazioni giuridiche di diritto interno, specialmente circa la successione nel debito pubblico. Se il debito non è stato contratto dal predecessore nell’ambito del diritto interno ma abbia formato l’oggetto di un accordo internazionale concluso con un altro Stato o con un’organizzazione internazionale (ad es. il Fondo Monetario Internazionale o la Banca per la Ricostruzione e lo Sviluppo), il principio generale è quello della tabula rasa, salvi i debiti localizzabili, ossia i debiti contratti con esclusivo riguardo al territorio oggetto del cambiamento di sovranità oppure contratti da autorità pubbliche locali. Deve però riconoscersi che anche per i debiti non localizzabili la prassi più recente è nel senso di una ‘equa’ ripartizione concordata fra gli Stati sorti dallo smembramento e tra questi Stati ed i soggetti creditori. La determinazione dei criteri (dimensioni del territorio, numero degli abitanti, ecc.) adoperabili nella ripartizione è considerata materia di accordi.  Nel caso delle Repubbliche ex sovietiche un memorandum di intesa del 1991 prevedeva la responsabilità solidale delle Repubbliche per i debiti esteri: in effetti questi hanno finito per gravare unicamente sulla Russia, con la sola eccezione dell’Ucraina. Nel caso della ex Cecoslovacchia, la Repubblica Ceca e la Slovacchia si accordavano nel 1992 per dividersi i debiti in ragione del numero di abitanti di ciascuna, e quindi secondo un rapporto di due a uno. Nel caso della ex Jugoslavia la maggior parte dei debiti esteri erano localizzabili. La Convenzione di Vienna del 1983 sulla successione di Stati ‘in materia di beni, archivi e debiti di Stato’ adotta il principio della tabula rasa soltanto con riguardo agli Stati di nuova indipendenza, sorti dalla decolonizzazione, spingendolo a tal punto da escludere addirittura la successione nei debiti localizzabili, salvo accordo fra nuovo Stato e predecessore. Con riguardo alla cessione territoriale, al distacco e allo smembramento, non solo segue il principio della successione nei debiti localizzabili, ma prevede anche una successione “secondo una proporzione equa” nei debiti generali del predecessore. Nel caso di incorporazione e di fusione prevede il passaggio di tutti i debiti dello Stato incorporato o degli Stati fusi allo Stato incorporante o a quello sorto dalla fusione.

 

14. Cause di invalidità e di estinzione dei trattati.

Varie cause di invalidità e di estinzione degli accordi internazionali sono analoghe a quelle proprie dei contratti. La loro disciplina è prevista dai principi generali del diritto. Circa le cause di invalidità vanno menzionati: l’errore essenziale (che l’art. 48 della Convenzione di Vienna del 1969 definisce come “un fatto o una situazione che lo Stato supponeva esistente al momento in cui i trattato è stato concluso e che costituiva una base essenziale del consenso di questo Stato…”), il dolo (cui può ricondursi la corruzione dell’organo stipulante), la violenza fisica o morale esercitata sull’organo stipulante. Trattasi in tutti i casi di vizi non frequenti. Circa le cause di estinzione vanno ricordate: la condizione risolutiva, il termine finale, la denuncia o il recesso (l’atto formale con cui lo Stato dichiara alle parti contraenti la volontà di sciogliersi dal trattato, sempre che la possibilità di denunciare o recedere sia espressamente o implicitamente prevista dallo stesso trattato), l’inadempimento della controparte, la sopravvenuta impossibilità dell’esecuzione, l’abrogazione totale o parziale, espressa o per incompatibilità, mediante accordo successivo tra le stesse parti.

Si considera come causa di invalidità anche la violenza esercitata sullo Stato nel suo complesso: per l’art. 52 “è nullo qualsiasi trattato la cui conclusione sia stata ottenuta con la minaccia o l’uso della forza in violazione dei principi della Carta delle Nazioni Unite”; tale articolo corrisponde al diritto internazionale consuetudinario come riflesso dell’idea che l’uso della forza debba essere messo al bando dalla comunità internazionale (nullo fu considerato, ad es., il Trattato di Berlino del 1938, con cui la Cecoslovacchia accettava di cedere alla Germania il territorio dei Sudeti). La Corte Internazionale di Giustizia, in due sentenze (1973) relative alle pescherie islandesi, ha dichiarato che “…secondo il diritto internazionale contemporaneo un accordo concluso sotto la minaccia o l’uso della forza è nullo”. Si ha riguardo alla minaccia o all’uso della forza armata: non vi sono elementi della prassi che autorizzino a ricomprendere sotto la nozione di violenza pressioni di altro genere, come quelle politiche o economiche.

Per uso della forza come causa di invalidità dei trattati deve intendersi l’uso della forza nei rapporti internazionali, ossia la violenza di tipo bellico: solo questo tipo di violenza è in grado di costituire un male notevole per lo Stato nel suo complesso. Altro è l’uso della forza interna, ossia l’esercizio del potere di governo, ivi comprese tutte le possibili misure di carattere coercitivo sugli individui. Se uno Stato sottopone a misure detentive i cittadini di un altro Stato, ciò può giustificare l’adozione di misure di autotutela, di analogo contenuto, da parte dello Stato offeso, ma non si può dire che l’eventuale trattato, concluso per porre fine all’illecito esercizio del potere di governo, sia viziato da violenza, ancorché disponga nel senso voluto dallo Stato offensore.

Il problema dei trattati ineguali, ossia dei trattati rispetto ai quali una parte non abbia disposto di un ampio margine di potere contrattuale, non si risolve sul piano della validità: l’ineguaglianza può trovare una correzione solo sul piano interpretativo (se si esamina la giurisprudenza degli Stati vinti relativa ai trattati di pace, può notarsi la tendenza ad interpretare in modo restrittivo certe clausole particolarmente favorevoli agli Stati).

Come causa di estinzione degli accordi internazionali viene considerata la clausola rebus sic stantibus: il trattato si estingue in tutto o in parte per il mutamento delle circostanze di fatto esistenti al momento della stipulazione, purché si tratti di circostanze essenziali, senza le quali i contraenti non si sarebbero indotti al trattato o ad una sua parte. La dottrina classica riduceva detta clausola ad una condizione risolutiva tacita, riconducendola alla volontà dei contraenti. Se le parti, espressamente o implicitamente, manifestano una volontà in questo senso, è chiaro che ci troviamo davanti ad una condizione risolutiva. Ma se essi non la manifestano, anche in tal caso, in virtù di una norma generale costantemente riconosciuta dalla prassi, il trattato si estingue. L’art. 62 conferma siffatta norma, esprimendola giustamente in termini restrittivi (si tratta dell’antitesi della norma pacta sunt servanda), stabilendo che essa possa trovare applicazione solo se le circostanze mutate costituivano la “base essenziale del consenso delle parti”, se il mutamento sia tale da avere “radicalmente trasformato la portata degli obblighi ancora da eseguire”, e se il mutamento medesimo non risulti dal fatto illecito dello Stato che lo invoca.

Si discute se sia causa di estinzione dei trattati la guerra. Ovvio è che, fatti salvi certi trattati quali sono stipulati proprio in vista della guerra e che appartengono pertanto al c.d. diritto internazionale bellico, gli accordi conclusi dagli Stati belligeranti prima della guerra non trovino applicazione finché durano le ostilità. La regola classica, a favore dell’estinzione, si è andata affievolendo; la prassi si è orientata sempre più nel senso delle eccezioni: si è negato l’effetto estintivo della guerra in ordine ai trattati multilaterali; si è manifestata nella giurisprudenza interna la tendenza a considerare estinte soltanto quelle convenzioni che, per loro natura, siano incompatibili con lo stato di guerra. L’argomento della guerra è da riportare dunque sotto la disciplina della clausole rebus sic stantibus, verificando di volta in volta se la guerra abbia determinato un mutamento radicale di circostanze.

Certe cause, ad es. il termine finale o l’abrogazione da parte di un accordo successivo, operano automaticamente. Ma per la maggior parte delle cause, sia di invalidità che di estinzione, ad es. per vizi di volontà o per la sopravvenuta impossibilità dell’esecuzione, la discussione è aperta fra chi sostiene l’automaticità e chi, invece, la necessità della denuncia. La Convenzione di Vienna del 1969 complica le cose: da un lato introduce modalità e termini per far valere l’invalidità o l’estinzione ignoti al diritto consuetudinario, dall’altro non prevede un sistema di soluzione delle controversie realmente capace di evitare gli abusi. L’automaticità va, in linea di massima, riconosciuta, ma in modo circoscritto. Chiunque debba applicare un trattato (gli operatori giuridici interni) non può non decidere se il trattato sia ancora in vigore o se viceversa esso sia affetto da una causa di invalidità o di estinzione. Trattasi però di una decisione che vale solo per il caso concreto, non vincolante per i casi successivi. La denuncia serve a scopi diversi. L’atto formale di denuncia, notificato alle Parti contraenti o al depositario del trattato, implica la volontà dello Stato di sciogliersi una volta per tutte dal vincolo contrattuale. Una simile manifestazione di volontà, quando non è esercizio di un potere di denuncia previsto dallo stesso trattato ed esercitabile ad libitum ma si fonda su un’altra causa di invalidità o di estinzione, non è indispensabile; se lo Stato vi ricorre è per far risaltare in modo certo e definitivo che, a suo giudizio, il trattato non è applicabile o non è più applicabile in quanto invalido o estinto. La denuncia vincola alla disapplicazione interna; unica condizione a tal fine è che essa promani dagli organi competenti a manifestare la volontà dello Stato in ordine ai rapporti internazionali. Ma gli altri Stati contraenti non sono, indubbiamente, vincolati alla unilaterale manifestazione di volontà dello Stato denunciante; cosicché, in caso di disaccordo sull’effettiva insorgenza della causa di invalidità o di estinzione, il trattato entrerà in una fase di incertezza sul piano internazionale, dalla quale potrà uscirsi solo con un nuovo accordo oppure, ove possibile, con la sentenza di un giudice internazionale. Circa la determinazione degli organi dello Stato competenti a denunciare il trattato, occorre rifarsi, come per la competenza a stipulare, ai principi costituzionali di ciascuno Stato. In Italia, la prassi indica che tale competenza spetta al Potere esecutivo, ma la situazione si sta evolvendo verso una sempre maggiore collaborazione fra Governo e Parlamento.

In questo quadro vanno inserite le regole della Convenzione di Vienna del 1969 (artt. 65-68). Lo Stato che invoca un vizio del consenso, o altra causa di invalidità o di estinzione, deve notificare per iscritto la sua pretesa alle altre Parti contraenti del trattato in questione. Se, trascorso un termine che non può essere inferiore a tre mesi salvo il caso di particolare urgenza, non vengono manifestate obiezioni, lo Stato può definitivamente dichiarare, con un atto comunicato alle altre Parti, e che deve essere sottoscritto dal Capo dello Stato, o del Governo o dal Ministro degli Esteri, che il trattato è da ritenersi invalido o estinto. Se, invece, vengono sollevate obiezioni, lo Stato che intende sciogliersi e la Parte o le Parti obiettanti devono ricercare una soluzione della controversa con mezzi pacifici (negoziati, conciliazione, arbitrato, ecc.). La soluzione deve intervenire entro dodici mesi; trascorso inutilmente tale termine, ciascuna parte può mettere in moto una complessa procedura conciliativa che fa capo ad una Commissione delle Nazioni Unite, che non sfocia però in una decisione obbligatoria ma solo in un rapporto dal valore esortativo (non è detto cosa succede se la Parte o le Parti controinteressate respingano il rapporto che si pronunci a favore dell’invalidità o dell’estinzione: probabilmente la pretesa di invalidità o di estinzione, per fondatissima che sia, resta paralizzata in perpetuo). Una decisione obbligatoria della Corte Internazionale di Giustizia, su ricorso unilaterale, è prevista solo per l’eccezionale caso che la pretesa invalidità si fondi su una norma di jus cogens. Nei rapporti fra Paesi aderenti alla Convenzione, la procedura di cui agli artt. 65 ss. si sostituisce al tradizionale atto di denuncia, ossia un atto posto in essere senza l’osservanza di particolari forme, termini e modalità.

 

15. Le fonti previste da accordi. Il fenomeno delle organizzazioni internazionali. Le Nazioni Unite.

I trattati possono contenere non solo regole materiali ma anche regole formali o strumentali, regole cioè che istituiscono ulteriori procedimenti o fonti di produzione di norme. L’esempio più importante è l’organizzazione internazionale: in tutti i casi in cui un’organizzazione internazionale è abilitata dal trattato che le dà vita ad emanare decisioni vincolanti per gli Stati membri, si è in presenza di una fonte prevista da accordo (fonte di terzo grado). Il numero delle organizzazioni esistenti è impressionante, ma solo alcune di esse, e solo in alcuni casi, dispongono di un vero e proprio potere decisionale. Il loro compito è generalmente quello di facilitare la collaborazione fra Stati membri e la loro attività si svolge il più spesso in una fase dallo scarso valore giuridico consistendo nella mera predisposizione di progetti di convenzioni. Altra attività normalmente svolta dalle organizzazioni internazionali è costituita dall’emanazione di raccomandazioni, atti cha hanno valore esortativo. Le risoluzioni delle organizzazioni internazionali possono essere normalmente prese a maggioranza, magari qualificata; ma poiché gli Stati non amano sottostare alle altrui deliberazioni, non è rara la ricerca dell’unanimità. Si è poi andata diffondendo la pratica del consensus, che consiste nell’approvare una risoluzione senza votazione formale, di solito con una dichiarazione del presidente dell’organo la quale attesta l’accordo fra i membri: tale pratica non è del tutto positiva perché finisce col dare alle risoluzioni contenuti vaghi e di compromesso.

L’Organizzazione delle Nazioni Unite fu fondata dopo la seconda guerra mondiale dagli Stati che avevano combattuto contro le Potenze dell’Asse, e prese il posto della Società delle Nazioni. La Conferenza di San Francisco ne elaborò nel 1945 la Carta che venne ratificata dagli Stati fondatori. Successivamente, secondo il procedimento di ammissione previsto dall’art. 4 della Carta, ne sono via via divenuti membri quasi tutti gli Stati del mondo. La Svizzera non ne fa parte. L’art. 7 della Carta elenca gli organi principali. Il Consiglio di Sicurezza è composto da 15 membri, di cui 5 siedono a titolo permanente (Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna e Francia) godendo del diritto di veto (cioè del diritto di impedire col loro voto negativo l’adozione di qualsiasi delibera che non abbia mero carattere procedurale); gli altri 10 membri sono eletti per un biennio dall’Assemblea. Ha una competenza relativa a questioni attinenti al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale ed è l’organo di maggior rilievo nell’ambito dell’Organizzazione, per l’evidente importanza delle questioni di sua competenza e perché, in taluni casi, dispone di poteri decisionali vincolanti. Nell’Assemblea generale, che al contrario ha una competenza vastissima ratione materiae ma quasi nessun potere vincolante, sono rappresentati tutti gli Stati e tutti hanno pari diritto di voto. Il Consiglio economico e sociale è composto da membri eletti dall’Assemblea per tre anni; sia esso che il Consiglio di Amministrazione fiduciaria (il quale è adesso senza lavoro, avendo svolto per decenni il controllo sull’amministrazione di territori di tipo coloniale) sono in posizione subordinata rispetto all’Assemblea generale, in quanto sono tenuti a seguirne le direttive ed in certi casi il loro compito si limita addirittura alla preparazione di atti che vengono poi formalmente adottati dall’Assemblea. Il Segretariato o, meglio, il Segretario generale che ne è capo, e che è nominato dall’Assemblea su proposta del Consiglio di Sicurezza, è l’organo esecutivo dell’Organizzazione. La Corte Internazionale di Giustizia è composta da 15 giudici ed ha sia la funzione di dirimere le controversie fra Stati sia una funzione consultiva, in quanto può dare pareri su qualsiasi questione giuridica all’Assemblea generale o al Consiglio di Sicurezza oppure ad altri organi su autorizzazione dell’Assemblea; i pareri non sono né obbligatori né vincolanti.

L’art. 7 della Carta prevede che organi sussidiari possano essere istituiti “ove si rivelino necessari”; esiste tutta una serie di organi permanenti che svolgono funzioni di rilievo anche se non sono dotati di poteri vincolanti: i più importanti sono l’UNCTAD (Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo), l’UNDP (Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo), l’UNICEF (Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia), l’UNHCR (Alto Commissariato per i rifugiati), l’UNITAR (Istituto delle Nazioni Unite per l’insegnamento e la ricerca), l’UNEP (Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente).

Consiglio di Sicurezza, Assemblea generale, Consiglio economico e sociale e Consiglio di Amministrazione fiduciaria sono organi composti da Stati: gli individui che con il loro voto concorrono a formare la decisione collegiale sono organi del proprio Stato, manifestano la volontà del proprio Stato. Segretariato generale e Corte Internazionale di Giustizia sono invece organi composti da individui, nel senso che il Segretario ed i giudici assumono l’ufficio a titolo puramente individuale, con l’obbligo di non ricevere istruzioni da alcun Governo.

Gli scopi e la competenza ratione materiae dell’Organizzazione sono quanto mai ampi se non indeterminati. L’art. 2 della Carta indica che le Nazioni Unite non devono intervenire in questioni “che appartengono essenzialmente alla competenza interna di uno Stato”. Dall’elencazione dell’art. 1 possono individuarsi tre grandi settori: il primo è quello del mantenimento della pace, il secondo è quello dello sviluppo delle relazioni amichevoli tra gli Stati “fondati sul rispetto del principio dell’uguaglianza dei diritti e dell’autodeterminazione dei popoli”, il terzo è quello della collaborazione in campo economico, sociale, culturale ed umanitario. Negli anni immediatamente successivi alla nascita dell’Organizzazione assunsero rilievo prevalente  problemi inquadrabili nel primo settore; tra il 1950 e il 1960 i risultati maggiori si ebbero in tema di decolonizzazione e quindi nel quadro di autodeterminazione dei popoli; gli sforzi furono in seguito concentrati verso la cooperazione economica e sociale; oggi torna a manifestarsi un certo impegno dell’Organizzazione nel settore del mantenimento della pace.

In rari casi le decisioni dell’ONU sono vincolanti e sono fonti previste dalla Carta. Circa l’Assemblea generale, un caso importante è dato dall’art. 17, che le attribuisce il potere di ripartire fra gli Stati membri le spese dell’Organizzazione, ripartizione che, approvata a maggioranza di due terzi, vincola tutti gli Stati (lo Stato membro in arretrato di due annualità di contributi non ha diritto di voto in Assemblea). A tale caso deve aggiungersi quello della competenza dell’Assemblea a decidere, con efficacia vincolante per gli Stati membri, circa modalità e tempi per la concessione dell’indipendenza ai territori sotto dominio coloniale: siffatta competenza non trova fondamento nella Carta ma in una norma consuetudinaria formatasi nell’ambito delle Nazioni Unite. Circa il Consiglio di Sicurezza, le decisioni vincolanti sono quelle previste dal Cap. VII della Carta (artt. 39 ss.) intitolato ‘Azione rispetto alle minacce alla pace, alle violazioni della pace e agli atti di aggressione’. Nucleo centrale sono gli artt. 41 e 42 riguardanti rispettivamente le misure non implicanti e quelle implicanti l’uso della forza contro uno Stato che abbia anche solo minacciato la pace. A parte l’art. 42, in base al quale il Consiglio “può intraprendere” azioni di tipo bellico contro uno Stato e che quindi si presta poco ad essere inquadrato tra le fonti di norme internazionali, l’art. 41 prevede le c.d. sanzioni: attribuisce al Consiglio di Sicurezza il potere di deliberare quali misure non implicanti l’uso della forza armata debbano essere adottate dagli Stati membri contro uno Stato che minacci o abbia violato la pace, ed indica tra siffatte misure, a titolo esemplificativo, l’interruzione totale o parziale delle relazioni economiche e delle comunicazioni ferroviarie, marittime, aeree, postali, telegrafiche, radio e altre, e la rottura delle relazioni diplomatiche; anche un comportamento meramente interno a uno Stato può indurre il Consiglio a ricorrere a siffatte sanzioni.

 

16. Gli istituti specializzati delle Nazioni Unite. Altre organizzazioni internazionali a carattere universale. Le decisioni tecniche di ‘organismi’ internazionali.

Un gran numero di organizzazioni universali assumono il nome di Istituti specializzati (o Istituzioni specializzate) delle Nazione Unite, in quanto sono collegate con queste ultime e ne subiscono un certo potere di coordinamento e di controllo, nonostante siano organizzazioni autonome, sorte da trattati del tutto distinti dalla Carta ONU ed i cui membri solo in linea di massima coincidono con i membri dell’ONU. Il collegamento tra ciascun Istituto specializzato e le Nazioni Unite nasce da un accordo che le due organizzazioni stipulano e che, dal lato ONU, è negoziato dal Consiglio economico e sociale e approvato dall’Assemblea generale. Fino ad oggi il contenuto di ogni accordo di collegamento si è più o meno conformato ad uno schema tipico, fissato nel 1946 in occasione delle convenzioni concluse dall’ONU con ILO, UNESCO e FAO: tale schema prevede lo scambio di rappresentanti, osservatori, documenti, il ricorso a consultazioni, il coordinamento dei rispettivi servizi tecnici, ecc. Ma l’importanza dell’accordo sta soprattutto nella conseguente applicabilità delle norme della Carta che si occupano degli Istituti e che li sottopongono al potere di coordinamento e controllo dell’ONU. Anche gli Istituti specializzati, come le Nazioni Unite, emanano di solito raccomandazioni oppure predispongono progetti di convenzione e quindi esauriscono la loro attività in una fase di scarso rilievo giuridico. In alcuni casi essi emanano, però, a maggioranza, decisioni vincolanti per gli Stati membri o, meglio, decisioni che divengono vincolanti se gli Stati non manifestano entro un certo periodo di tempo la volontà di ripudiarle; tali decisioni vanno inquadrate tra le fonti previste da accordo, cioè dall’accordo istitutivo della relativa organizzazione. Oltre a simili funzioni di tipo normativo, gli Istituti specializzati svolgono funzioni di tipo operativo (deliberazione ed esecuzione di programmi di assistenza tecnica, di aiuti, di prestiti, ecc.); intensi al riguardo sono i collegamenti con gli organi dell’ONU preposti alla cooperazione per lo sviluppo, collegamenti che avvengono su base paritaria e non si traducono in rapporti di dipendenza.

FAO (Food and Agricultural Organization); creata nel 1945, ha sostituito l’Istituto Internazionale di Agricoltura (esistente dal 1905); suoi organi sono la Conferenza, composta di un delegato per Stato membro e che si riunisce ogni due anni, il Consiglio e il Direttore generale; ha funzioni di ricerca, informazione, promozione ed esecuzione di programmi di aiuti e assistenza nel campo dell’agricoltura e dell’alimentazione.

ILO (International Labour Organization); è l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, costituita con i Trattati di pace alla fine della prima guerra mondiale; ogni Stato partecipa alla Conferenza generale con quattro delegati, di cui due rappresentano il Governo e gli altri due rispettivamente i datori di lavoro e i lavoratori; altri organi sono il Consiglio di Amministrazione, di cui fanno permanentemente parte dieci Stati fra i più industrializzati del mondo, e l’Ufficio internazionale del lavoro con a capo un Direttore generale; ha funzioni relative all’emanazione di raccomandazioni e alla predisposizione di progetti di convenzione multilaterale in materia di lavoro; i progetti di convenzione vengono comunicati agli Stati membri che sono liberi di ratificarli o meno, ma che hanno l’obbligo di sottoporli entro un certo termine agli organi competenti per la ratifica.

UNESCO (United Nations Educational Scientific and Cultural Organization); si propone di diffondere la cultura, lo sviluppo dei mezzi di educazione, l’accesso all’istruzione, di assicurare la conservazione del patrimonio artistico e scientifico, ecc.; suoi organi sono la Conferenza generale, il Comitato esecutivo ed il Segretariato; anche i suoi progetti di convenzione devono essere sottoposti entro un certo periodo di tempo dallo Stato membro agli organi competenti a ratificare, salva sempre la libertà di procedere o meno a quest’ultima.

ICAO (International Civil Aviation Organization); il Consiglio può emanare, sotto forma di allegati alla Convenzione, tutta una serie di disposizioni (denominate standards internazionali o pratiche raccomandate) relative al traffico aereo: gli allegati entrano in vigore per tutti gli Stati membri dopo tre mesi dalla loro adozione se nel frattempo la maggioranza degli Stati membri non abbia notificato la propria disapprovazione; sono atti che costituiscono una vera e propria fonte di norme internazionali di carattere tecnico, vincolanti tutti gli Stati membri, compresi quelli dissenzienti.

WHO (World Health Organization); ha come obiettivo principale il conseguimento da parte di tutti i popoli del livello più alto possibile di salute; l’Assemblea può emanare ‘regolamenti’ in tema di procedure per prevenire la diffusione di epidemie, di nomenclatura di malattie epidemiche e mortali, di caratteristiche di prodotti farmaceutici, ecc.; detti regolamenti entrano in vigore per tutti i Paesi membri eccettuati quei Paesi che, entro un certo periodo di tempo, comunicano il loro dissenso.

IMO (International Maritime Organization); ha preso vita nel 1958 e si occupa di problemi relativi alla sicurezza ed efficienza dei traffici marittimi, emanando raccomandazioni e predisponendo progetti di convenzione.

ITU (International Telecommunication Union), WMO (World Meteorological Organization), UPU (Universal Postal Union); esistono da circa un secolo e svolgono un’attività di predisposizione di testi convenzionali e di ‘regolamenti’; i regolamenti degli ultimi due Istituti non vincolano lo Stato membro indipendentemente dalla sua volontà, mentre le revisioni periodiche ai regolamenti amministrativi del primo vincolano tutti gli Stati membri, salvo che questi non manifestino la loro opposizione al momento dell’adozione o entro un certo termine dall’adozione.

IMF (International Monetary Fund), IBRD (International Bank For Reconstruction and Development), IFC (International Finance Corporation), IDA (International Development Association); il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo sono stati creati nel 1944 con gli accordi di Bretton Woods; gli organi principali del Fondo sono il Consiglio dei Governatori, organo deliberante composto da un Governatore e da un supplente nominati da ciascuno Stato membro (e che delibera secondo maggioranze corrispondenti all’entità delle quote di capitale sottoscritte e quindi con un peso determinate dei Paesi ricchi, degli Stati Uniti in particolare), il Comitato esecutivo e il Direttore generale; ha funzioni di promozione della collaborazione monetaria internazionale, della stabilità dei cambi, dell’equilibrio delle varie bilance dei pagamenti, ecc. e dispone di un capitale sottoscritto pro quota dagli Stati membri; questi ultimi possono ricorrere alle riserve del Fondo entro certi limiti rapportati alla quota sottoscritta, secondo regole precise ed a determinate condizioni stabilite di volta in volta (nel caso dei c.d. stand-by agreements), allorché abbiano necessità di procurarsi valuta estera al fine di fronteggiare squilibri nella propria bilancia dei pagamenti; le condizioni di volta in volta fissate costituiscono oggetto di una lettera di intenti sottoscritta da un rappresentante dello Stato richiedente; la Banca ha un cospicuo capitale sottoscritto dagli Stati membri e suo scopo principale è la concessione di mutui agli Stati membri (oppure a privati, ma con garanzia circa la restituzione prestata da uno Stato membro) per investimenti produttivi e ad un tasso di interesse variabile a seconda del grado di sviluppo dello Stato membro interessato; affiliati alla Banca sono gli altri due Istituti specializzati.

IFAD (International Fund for Agricultural Development); è un ente finanziario internazionale che contribuisce allo sviluppo dell’agricoltura dei Paesi poveri e con deficit alimentari notevoli; l’organo deliberante, il Consiglio dei Governatori, è sotto il controllo dei Paesi in via di sviluppo.

WIPO (World Intellectual Property Organization); dal 1970 si occupa dei problemi della proprietà intellettuale nel mondo, assicurando la cooperazione amministrativa tra le Unioni già presenti nel settore, partecipando ad accordi, fornendo assistenza tecnica legale agli Stati, ecc.

UNIDO (United Nations Industrial Development Organization); già organo sussidiario dell’Assemblea generale dell’ONU, è stata trasformata in Istituto specializzato nel 1979; è costituita da un’Assemblea, un Consiglio ed un Segretariato; i suoi compiti principali non sono di tipo normativo ma operativo (assistenza tecnica, consulenza in tema di innovazioni tecnologiche, ecc.).

IAEA (International Atomic Energy Agency); promuove lo sviluppo e la diffusione delle applicazioni pacifiche dell’energia atomica; non ha la qualifica di Istituto specializzato perché, per la materia che tratta, ha legami sia con l’Assemblea che col Consiglio di Sicurezza e non, come gli altri Istituti, con l’Assemblea e il Consiglio economico e sociale.

WTO (World Trade Organization); del tutto indipendente dalle Nazioni Unite, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, creata nel 1994 e di cui fanno parte 135 Stati (fra cui l’Italia), ha come organi principali: la Conferenza ministeriale, in cui tutti i membri sono rappresentati e che si riunisce ogni due anni; il Consiglio generale, composto dai rappresentanti di tutti i membri e che si riunisce nell’intervallo delle riunioni della Conferenza; il Segretariato, con a capo un Direttore generale; l’Organizzazione fornisce un forum per lo svolgimento dei negoziati relativi alle relazioni commerciali multilaterali e tendenti alla massima liberalizzazione del commercio mondiale (‘globalizzazione’ dei mercati): sono complessi negoziati che prima si svolgevano in seno all’Accordo generale sulle tariffe e sul commercio (GATT), fuori da un quadro istituzionale; l’Organizzazione veglia sull’esecuzione di tutta una serie di accordi annessi allo Statuto come integrazioni di quest’ultimo; annessi allo Statuto sono lo stesso GATT, il GATS (Accordo generale sugli scambi dei servizi) e il TRIPs (Accordo sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale); la Conferenza e il Consiglio possono adottare, a maggioranza dei tre quarti dei membri, decisioni vincolanti con cui fornire un’interpretazione delle norme dello Statuto o dispensare uno Stato membro dall’osservanza degli obblighi derivanti dalle norme medesime; altrettanto può fare un altro organo dell’Organizzazione, deputato alla soluzione delle controversie, il Dispute Settlement Body.

Nel campo della tutela dell’ambiente e della conservazione delle risorse sono stati creati vari organismi che prendono decisioni vincolanti di carattere tecnico. Sono detti ‘organismi’ in quanto i trattati che li prevedono non danno luogo a vere e proprie organizzazioni distinte dagli Stati membri, non creano un insieme permanente di organi ma demandano un certo potere normativo alla assemblea degli Stati contraenti. Le decisioni vincolanti, di solito emanate sotto forma di annessi o allegati al trattato istitutivo, derivano la loro forza vincolante dal trattato istitutivo medesimo e sono fonti di norme internazionali di terzo grado.

17. L’Unione europea e il diritto comunitario.

Con il Trattato di Parigi (1951) venne creata la CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio), scaduta nel 2002 e non più rinnovata; ad essa seguirono i Trattati di Roma (1957), con cui vennero create la CEE (Comunità Economica Europea), oggi denominata CE (Comunità Europea), e l’Euratom o CEEA (Comunità Europea dell’Energia Atomica). Modifiche di rilievo sono state apportate da vari trattati successivi: Atto Unico europeo (in vigore dal 1987), Trattato di Maastricht, o Trattato sull’Unione europea (in vigore dal 1993), Trattato di Amsterdam (in vigore dal 1999) e Trattato di Nizza (in vigore dal 2003). Il Trattato di Maastricht ha dato vita all’Unione europea, che si fonda sulle due Comunità ed inoltre su azioni comuni in politica estera e di sicurezza e su una cooperazione tra gli Stati membri nel settore della giustizia e degli affari interni (i c.d. tre ‘pilastri’ sui quali poggia l’Unione). Dell’Unione europea fanno parte 25 Stati, di cui sei (Belgio, Francia, Paesi Bassi, Lussemburgo, Italia e Germania) fin dall’inizio.

Il Trattato di Maastricht ha cambiato il nome della Comunità Economica Europea in quello di Comunità Europea, per sottolinearne la valenza sociale oltre che economica; ha istituito una ‘cittadinanza europea’ e le tappe successive di una unione monetaria caratterizzata da una banca centrale comune e da una moneta unica. Il Trattato di Amsterdam ha ‘comunitarizzato’ in parte il settore degli affari interni (rilascio dei visti, asilo, immigrazione, ecc., aspetti prima oggetto di un mero coordinamento intergovernativo) ed ha previsto una ‘cooperazione rafforzata’, ossia la possibilità di limitare ad alcuni fra gli Stati membri un’integrazione più stretta. Vanno ricordati anche gli accordi di Schengen (1985) che hanno soppresso i controlli sulle persone alle frontiere e sono poi confluiti nel Trattato CE. La CECA aveva carattere settoriale e tale è il carattere dell’Euratom. Con la CE si è invece in presenza di un’organizzazione che investe tutta la vita economica e sociale degli Stati membri; il Trattato istitutivo prevede quattrolibertà fondamentali’: la libera circolazione delle merci (unione doganale), la libera circolazione delle persone, la libera circolazione dei servizi, la libera circolazione dei capitali; gli organi comunitari intervengono per garantire, all’interno di un unico mercato interno, la libera concorrenza, una politica agricola comune, una politica comune dei trasporti e una politica commerciale comune.

Non bisogna confondere i fenomeni di integrazione economica, cha hanno alla base una unione doganale, con le Zone di libero scambio; queste, a differenza delle unioni doganali, in cui si ha sia l’abbattimento delle barriere doganali fra Stati membri sia l’istituzione di tariffe doganali comuni verso i Paesi terzi, sono caratterizzate dal solo abbattimento delle barriere doganali fra i membri; esempi di tali zone sono: in Europa, l’EFTA, istituita nel 1960 su iniziativa della Gran Bretagna e che oggi, dopo gli allargamenti delle Comunità europee intercorre solo fra Islanda, Liechtenstein, Norvegia e Svizzera; nell’America del Nord, il NAFTA, in vigore dal 1994 tra Canada, Stati Uniti e Messico.

L’azione degli organi delle Comunità dipende in larga misura dalla volontà politica degli Stati membri. tale azione deve svolgersi secondo i principi della proporzionalità e della sussidiarietà previsti dall’art. 5 del Trattato CE, deve cioè mantenersi entro i limiti necessari per il raggiungimento degli obiettivi del Trattato e, nelle materie che non sono di esclusiva competenza comunitaria, intervenire solo se l’azione degli Stati membri non è sufficiente a realizzare detti obiettivi. Le Comunità presentano elementi che non si riscontrano in alcuna altra organizzazione internazionale, come gli ampi poteri decisionali attribuiti ai loro organi, la loro sostituzione agli Stati membri nella disciplina di molti rapporti puramente interni a questi ultimi, l’esistenza di una Corte di Giustizia destinata a controllare la conformità ai loro trattati istitutivi dei comportamenti degli organi e degli Stati membri, ecc. Tra i principi del diritto comunitario ve ne sono certamente alcuni che sono propri del vincolo federale, primo fra tutti il principio della prevalenza del diritto comunitario sul diritto interno. Ciò nonostante le Comunità nel loro complesso restano delle organizzazioni internazionali, sia pure altamente sofisticate, la sovranità degli Stati membri non potendo considerarsi degradata, neppure nelle materie di competenza comunitaria, ad autonomia.

Circa la struttura dell’Unione europea, va anzitutto menzionato il Consiglio europeo, nato dalle riunioni dei Capi di Stato e di Governo (c.d. Vertici); nel vertice di Parigi del 1974 i Capi di Stato e di Governo decisero che si sarebbero riuniti alcune volte all’anno, accompagnati dai rispettivi Ministri degli Esteri; il Trattato di Maastricht fa del Consiglio europeo, composto ancora oggi dai Capi di Stato e di Governo, con l’aggiunta del Presidente della Commissione delle Comunità, l’organo principale dell’Unione; suo compito generale è quello di dare all’Unione, e quindi anche alle Comunità, “l’impulso necessario al suo sviluppo” definendone gli orientamenti politici generali; compiti specifici riguardano i settori che non sono di competenza comunitaria, ossia i settori della politica estera e di sicurezza (secondo ‘pilastro’) e, per la parte non comunitarizzata del terzo ‘pilastro’, quello della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale. Circa la struttura della CE, vanno menzionate le ‘istituzioni’ principali. La Commissione è un organo composto di individui e non di Stati; questo è un elemento differenziante la Comunità dalle altre organizzazioni internazionali, in cui gli organi detentori dei poteri principali sono di solito composti da Stati: si dice che le Comunità sono enti sopranazionali oltre che internazionali; ha poteri esecutivi e poteri di iniziativa legislativa nei confronti del Consiglio e del Parlamento; essa è nominata dal Consiglio, che delibera a maggioranza, previa approvazione, da parte del Parlamento europeo, delle candidature proposte dagli Stati membri. Il Consiglio è l’organo nel quale sono rappresentati i 25 Stati membri ed è presieduto a turno da ciascun membro per la durata di sei mesi; di solito ne fanno parte, di volta in volta, i ministri competenti per le questioni all’ordine del giorno; esso emana gli atti più importanti della legislazione comunitaria. Il Parlamento europeo, formato, a partire dal 1979, da rappresentanti dei popoli degli Stati membri, eletti a suffragio universale e diretto, ha principalmente una funzione di controllo politico sulle altre istituzioni comunitarie, funzione che esplica attraverso l’esame dei rapporti che gli altri organi sono tenuti a sottoporgli (ad eccezione della Corte di Giustizia), l’istituzione di commissioni di inchiesta, l’eventuale mozione di censura nei confronti della Commissione, l’esame di petizioni individuali; circa la partecipazione alla funzione legislativa, vanno ricordate le procedure di cooperazione (in cui ad avere l’ultima parola è pur sempre il Consiglio) e di codecisione (in cui il Parlamento è in grado di bloccare l’azione del Consiglio e che, con il Trattato di Amsterdam, è diventata la procedura normale attraverso cui il Parlamento partecipa alla funzione legislativa comunitaria); inoltre, dispone di un potere di veto in ordine ad una serie di atti che possono essere adottati solo in seguito al suo ‘parere conforme’ (gli accordi di associazione e gli accordi di adesione di Stati terzi all’Unione europea). La Corte dei conti esercita una funzione di controllo su tutte le entrate e le spese delle Comunità ed è composta da 15 membri indipendenti nominati dal Consiglio ed aventi una competenza specifica nel settore. La Corte di Giustizia delle Comunità Europee veglia sul rispetto dei Trattati comunitari; ad essa è stato affiancato nel 1988, limitatamente ad un certo tipo di controversie, il Tribunale di prima istanza; nel 2004 è stato istituito un Tribunale della funzione pubblica, per le controversie di lavoro con i funzionari.

L’art. 249 Trattato CE prevede atti vincolanti (regolamenti, decisioni, direttive), come tali classificabili tra le fonti di norme internazionali, e atti non vincolanti (raccomandazioni e pareri). Il regolamento è l’atto comunitario più completo: “…ha portata generale. Esso è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri”; contiene norme generali e astratte che devono essere osservate da Stati e persone, fisiche e giuridiche, che operano nell’area comunitaria. La decisione differisce dal regolamento perché non ha portata generale e astratta, ma concreta; essa può indirizzarsi sia ad uno Stato membro che ad un individuo o ad un’impresa operante nell’area comunitaria; a differenza del regolamento, non acquista normalmente efficacia con la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea, ma in seguito alla notifica ai destinatari; solo le decisioni per cui è prescritta la procedura di codecisione acquistano efficacia con la pubblicazione. La direttivavincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi”; le direttive che si indirizzano a tutti gli Stati membri entrano in vigore per effetto della pubblicazione, mentre quelle indirizzate ai singoli Stati sono notificate ai destinatari; la direttiva dovrebbe contenere principi e criteri generali, mentre spesso è assai dettagliata.

Vi sono altri atti comunitari come i regolamenti interni degli organi, le comunicazioni della Commissione, i programmi generali del Consiglio. E vi sono atti propri dell’Unione; per la politica estera vanno menzionati i seguenti atti del Consiglio: le azioni comuni, che vincolano gli Stati membri ad un intervento operativo dell’Unione, e le posizioni comuni, che hanno forza vincolante attenuata in quanto gli Stati provvedono a conformare ad esse la loro politica nazionale; per terzo pilastro vanno ricordati i seguenti atti del Consiglio: le decisioni-quadro, che si propongono fini di ravvicinamento delle legislazioni e che vincolano gli Stati membri circa i fini da raggiungere, e le decisioni, che perseguono scopi coerenti con gli obiettivi della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale.

Come tutte le organizzazioni internazionali, le Comunità europee hanno la capacità di concludere accordi internazionali. Circa la CE, la conclusione di accordi è prevista dall’art. 300 che indica gli organi della Comunità competenti per i trattati (Commissione per i negoziati e Consiglio, previa consultazione, o in certi casi su ‘parere conforme’ del Parlamento, per la manifestazione di volontà diretta ad impegnarsi), stabilendo anche che la Corte di Giustizia possa essere chiamata a dare in via preventiva un parere circa la compatibilità dell’accordo con le disposizioni del Trattato; aggiunge inoltre che “gli accordi conclusi alle condizioni suindicate sono vincolanti per le istituzioni delle Comunità e per gli Stati membri”: viene sancita un’eccezione al principio generale valevole per le organizzazioni internazionali, secondo cui gli accordi stipulati da un’organizzazione restano estranei alla sfera giuridica degli Stati membri. Gli accordi in questione si situano nell’ordinamento comunitario a metà strada fra il Trattato CE e gli atti delle istituzioni: essi non possono derogare al Trattato, ma non possono a loro volta essere derogati dalle istituzioni. Anche l’Unione europea ha competenza a stipulare accordi internazionali nel quadro della politica estera e di sicurezza comune. L’art. 310 prevede inoltre la conclusione di convenzioni di associazione: “La Comunità può concludere con uno o più Stati o organizzazioni internazionali, accordi che istitutiscono un’associazione caratterizzata da diritti ed obblighi reciproci, da azioni in comune e da procedure particolari”. L’art. 133 tratta invece degli accordi commerciali, contenendo una elencazione, esemplificativa e non tassativa, che comprende gli accordi tariffari, commerciali e quelli che si collegano alle misure di liberalizzazione, alla politica di esportazione e alle misure di difesa commerciale. Ad essi vanno aggiunti gli accordi in materia di politica monetaria, di ricerca e di sviluppo tecnologico, di politica ambientale e di cooperazione allo sviluppo.

Speciale menzione fra gli accordi di associazione merita l’Accordo di Cotonou (2000), che ha sostituito l’ultima Convenzione di Lomè (1989) e che regola i rapporti con i Paesi ACP, ossia i Paesi africani, caraibici e del Pacifico in via di sviluppo. Le quattro Convenzioni di Lomè, succedutesi dal 1975 in poi, avevano istituito un regime preferenziale (e quindi non basato sulla reciprocità) per i prodotti di provenienza dai Paesi ACP. Il nuovo accordo ha stabilito che il regime preferenziale cesserà dal 31.12.2007 (l’importazione delle banane secondo tale regime preferenziale è stata dichiarata incompatibile dall’organo di appello della WTO) e sarà sostituito da singoli accordi commerciali che prevedano sostegni ai Paesi ACP ma siano al contempo ‘OMC-compatibili’. L’accordo prevede programmi di aiuto e di sviluppo e impegna gli Stati ACP al rispetto dei diritti umani, aggiungendovi l’obbligo del ‘buon governo’ (good governance), pena la sospensione degli aiuti.

La competenza della CE a concludere accordi internazionali nei casi contemplati dal Trattato, e quando il Trattato non disponga espressamente il contrario (come avviene ad es. per gli accordi in materia ambientale), ha carattere esclusivo; la prassi conosce però delle autorizzazioni accordate dal Consiglio ai singoli Stati membri per la conclusione di accordi con Stati terzi che non intendano contrarre con la Comunità nel suo complesso. Quando l’accordo, per il suo contenuto, non rientra interamente nella competenza della Comunità si possono concludere accordi misti (vi partecipano sia la Comunità che gli Stati membri). Circa l’ordinamento italiano, un accordo che fosse concluso in una materia riservata alla CE dovrebbe considerarsi invalido per violazione di una norma interna di importanza fondamentale: le norme comunitarie prevalgono sul diritto italiano in virtù dell’art. 11 Cost. Fondamentale è la sent. AETR (1971) della Corte di Giustizia comunitaria, in cui si introduce l’idea del parallelismo fra competenze interne e competenze esterne della Comunità: in tutte le materie in cui la Comunità ha, in base al Trattato istitutivo, competenza ad emanare atti di legislazione comunitaria essa ha anche implicitamente la competenza a concludere accordi con Stati terzi; non solo, ma una volta che la competenza all’interno della Comunità sia esercitata in una determinata materia, e sempre che non si tratti di disposizioni sulle ‘garanzie minime’, la competenza esterna diviene esclusiva rispetto a quella degli Stati membri: in altri termini, gli Stati restano liberi di stipulare accordi internazionali finché la Comunità non abbia legiferato, ma poi progressivamente la perdono.

18. L’OCSE e il Consiglio d’Europa.

Subito dopo la seconda guerra mondiale furono costituite l’Organizzazione Europea per la Cooperazione Economica (OECE), poi trasformata nel 1960 in Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) ed estesa via via a vari Paesi occidentali non europei, ed il Consiglio d’Europa, che attualmente comprende più di 40 Stati membri. L’art. 1 del Trattato istitutivo di quest’ultimo stabilisce che “Scopo del Consiglio d’Europa è di conseguire una più stretta unione fra i suoi membri per salvaguardare e promuovere gli ideali e i principi che costituiscono il loro comune patrimonio e di favorire il loro progresso economico e sociale”; l’art. 3 aggiunge che “Ogni membro del Consiglio deve accettare il principio della preminenza del Diritto e quello in virtù del quale ogni persona, posta sotto la sua giurisdizione, deve godere dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”; i suoi organi principali sono: il Comitato dei Ministri, che è l’organo dotatati dei maggiori poteri e che è composto dai Ministri degli Esteri di tutti gli Stati membri, l’Assemblea consultiva (detta Assemblea parlamentare), che esprime voto e raccomandazione al Comitato dei Ministri e nella quale siedono i rappresentanti dei Parlamenti nazionali, e il Segretariato, con a capo un Segretario generale; circa le funzioni, che normalmente non danno luogo ad atti vincolanti, va sottolineata la predisposizione di convenzioni.

La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, della quale sono attualmente parti contraenti tutti gli Stati membri del Consiglio d’Europa, fu solennemente firmata a Roma nel 1950; successivamente sono Stati aggiunti diversi Protocolli, tra cui il Protocollo n. 11 (in vigore dal 1998) che ha provveduto alla fusione dei due organi che prima esercitavano il controllo sul rispetto dei diritti tutelati, la Commissione e la Corte europea dei diritti dell’uomo, in una Corte unica.

 

19. Le raccomandazioni degli organi internazionali.

La raccomandazione è l’atto tipico che le organizzazioni internazionali hanno il potere di emanare. Essa non vincola lo Stato o gli Stati a cui si dirige, a tenere il contegno raccomandato e non è dunque da annoverarsi fra le fonti previste da accordi. Ma la raccomandazione produce l’effetto di liceità: non commette illecito lo Stato che, per eseguire una raccomandazione di un organo internazionale, tenga un contegno contrario ad impegni precedentemente assunti mediante accordo oppure ad obblighi derivanti dal diritto internazionale consuetudinario. Tale effetto è da ammettere solo nei rapporti fra gli Stati membri e solo in ordine alle raccomandazioni legittime: entro questi limiti, l’effetto di liceità può essere dedotto dall’obbligo di cooperare con l’organizzazione, implicito in ogni trattato istitutivo, e dal potere di ogni organizzazione internazionale di perseguire, anche mediante atti non vincolanti, fini generali. Nelle organizzazioni internazionali esistenti manca un organo che giudichi della legittimità delle raccomandazioni (anche nelle Comunità europee la Corte controlla solo gli atti vincolanti); ne consegue che l’effetto di liceità potrà verificarsi solo fra quegli Stati membri che abbiano votato a favore della raccomandazione, o che comunque l’abbiano approvata senza alcuna riserva. Il principio di cooperazione tra Stati membri non può però essere spinto al punto di ritenere illecita l’inosservanza reiterata delle raccomandazioni da parte di uno Stato, poiché la caratteristica fondamentale dell’atto rimane pur sempre la non vincolatività.

 

20. La gerarchia delle fonti internazionali. Il diritto internazionale cogente.

Ricapitolando, al vertice della gerarchia si trovano le norme consuetudinarie, ivi compresi i principi generali del diritto comuni agli ordinamenti interni; la consuetudine è dunque fonte di primo grado, unica fonte di norme generali vincolanti tutti gli Stati. Il secondo posto nella gerarchia spetta al trattato, che trova in una norma consuetudinaria, la norma pacta sunt servanda, il fondamento della sua obbligatorietà. Il terzo posto è occupato dalle fonti previste da accordi e quindi dagli atti delle organizzazioni internazionali. Il fatto che le norme pattizie siano sottordinate alle norme consuetudinarie non significa di per sé l’inderogabilità di queste ultime da parte delle prime: una norma di grado inferiore può derogare alla norma di grado superiore se quest’ultima lo consente. Secondo l’opinione comune, le norme consuetudinarie sono caratterizzate dalla flessibilità e quindi dalla loro derogabilità mediante accordo. Tale regola vale anche per quella particolare categoria di norme consuetudinarie costituita dai principi generali del diritto comuni agli ordinamenti interni; un esempio chiaro è dato dall’art. 27 Carta ONU, norma che protegge le grandi Potenze le quali, disponendo di un diritto di veto, possono bloccare una procedura di espulsione o di adozione di misure coercitive nei loro confronti; la deroga al principio generale nemo judex in re sua è evidente. È però opinione comune che esista un gruppo di norme di diritto internazionale generale le quali eccezionalmente sarebbero cogenti (jus cogens); l’art. 53 della Convenzione di Vienna del 1969 stabilisce che “è nullo qualsiasi trattato che, al momento della sua conclusione, è in contrasto con una norma imperativa del diritto internazionale generale”, dovendosi intendere per norma imperativa del diritto internazionale generale “una norma accettata e riconosciuta dalla comunità degli Stati nel suo insieme come norma alla quale non può essere apportata nessun deroga e che non può essere modificata che da una nuova norma di diritto internazionale generale avente il medesimo carattere”; l’art. 64 afferma che “se una nuova norma imperativa di diritto internazionale generale si forma, qualsiasi trattato esistente che sia in contrasto con questa norma diviene nullo e si estingue”. Nel silenzio della Convenzione, tale gruppo di norme va individuato facendosi leva sull’art. 103 Carta ONU, secondo il quale “in caso di contrasto tra gli obblighi contratti dai membri delle Nazioni Unite con il presente Statuto e gli obblighi da essi assunti in base a qualsiasi accordo internazionale prevarranno gli obblighi derivanti dal presente Statuto”: il ‘rispetto dei principi della Carta’ è considerato ormai come una delle regole fondamentali della vita di relazione internazionale e appare non più come una semplice disposizione pattizia, ma come una norma consuetudinaria cogente cui l’art. 103 ha dato la spinta iniziale e che si è venuta poi consolidando nel corso degli anni. Anche la stragrande maggioranza dei trattati istitutivi di enti internazionali ne fa normalmente menzione: sintomatico è il preambolo del Trattato CE, ove si pone in rilievo il proposito di “sviluppare la prosperità degli Stati membri conformemente ai principi dello Statuto delle Nazioni Unite”. È da notare che dall’art. 103 discende l’inefficacia, non l’invalidità, dell’accordo incompatibile. Le norme della Carta ONU dalle quali discendono veri e propri obblighi per gli Stati e che quindi possono farsi rientrare nella sfera di applicazione dell’art. 103 (rectius, della regola consuetudinaria ad esso corrispondente), sono alcuni principi generali che si trovano alla base dei grandi settori di competenza delle Nazioni Unite. Circa il settore del mantenimento della pace, il principio che impone agli Stati di astenersi dalla minaccia o dall’uso della forza nei rapporti internazionali, salva l’autotutela individuale e collettiva, peraltro limitata al solo caso di risposta ad un attacco armato. Circa il settore economico e sociale, il principio che impegna gli Stati a collaborare, dal quale può ricavarsi il divieto di comportamenti che possano compromettere irrimediabilmente l’economia di altri Paesi. Circa il settore umanitario, il principio del rispetto della dignità umana. Circa il settore della decolonizzazione, il principio di autodeterminazione dei popoli.

È da precisare che anche le norme che regolano le cause di invalidità e di estinzione dei trattati (norme sui vizi della volontà, sulla clausola rebus sic stantibus, ecc.) sono norme inderogabili: qualsiasi clausola contrattuale che stabilisca una deroga a queste norme resterebbe a sua volta pur sempre ad esse soggetta. La regola fondamentale secondo cui le norme convenzionali possono derogare al diritto consuetudinario, eccezion fatta ovviamente per lo jus cogens, è da estendersi alle fonti previste da accordi; nei casi di dubbio, deve ritenersi però che sia lo stesso Statuto dell’Organizzazione ad imporre agli organi l’osservanza del diritto internazionale generale.

 

PARTE SECONDA

IL CONTENUTO DELLE NORME INTERNAZIONALI

 

21. Il contenuto del diritto internazionale come insieme di limiti all’uso della forza internazionale ed interna agli Stati.

Il contenuto del diritto internazionale è costituito da un insieme di limiti all’uso della forza da parte degli Stati, limiti che riguardano l’uso della forza diretta verso l’esterno (c.d. forzainternazionale’) o l’uso della forza diretta verso l’interno, nei confronti degli individui, persone fisiche o giuridiche, e dei loro beni (c.d. forzainterna’). Per forza internazionale s’intende la violenza di tipo bellico, ossia qualsiasi atto che implichi operazioni militari. Per forza interna s’intende il potere di governo esplicato dallo Stato sugli individui e sui loro beni; sebbene sia il potere coercitivo materiale quello che viene normalmente in rilievo, non sempre una violazione del diritto internazionale deriva dalla coercizione: anche la sentenza dichiarativa di un giudice (ad es. un sentenza che sottoponga uno Stato straniero alla giurisdizione del foro) o una legge che contenga un provvedimento concreto (ad es. una legge che nazionalizzi i beni di una compagnia straniera) possono costituire un comportamento illecito. Finché, comunque, all’attività normativa astratta, non segua la sua applicazione ad un caso concreto, non può propriamente parlarsi di violazione del diritto internazionale; normalmente, lo Stato che non provvede ad adottare le misure legislative e amministrative necessarie per eseguire i propri obblighi internazionali non incorre in responsabilità internazionale finché non si verifichino fatti concreti contrari a detti obblighi. Il potere di governo che interessa il diritto internazionale si situa dunque a metà strada tra l’astratta attività normativa e l’esercizio della coercizione materiale. L’attività di mero comando, anche se indirizzata a persone determinate e vertente su questioni concrete, non ha di per sé rilievo per il diritto internazionale se non è accompagnata dall’attuale e concreta possibilità di agire coercitivamente per farla rispettare: tale possibilità è sempre legata alla presenza, nei luoghi ove la coercizione dello Stato si esercita, delle persone o dei beni coinvolti dal comando concreto. Il potere di governo così come limitato dal diritto internazionale è costituito dunque da qualsiasi misura concreta di organi statali, sia avente essa natura coercitiva, sia in quanto suscettibile di essere coercitivamente attuata.

Si tratti di forza internazionale o di forza interna, ciò che è limitato dal diritto internazionale è sempre l’azione esercitata dallo Stato su persone o cose. Si dice che certi fenomeni, essendo incoercibili, svolgendosi in spazi e con modalità che non possono essere colpite o intercettate, sfuggono al potere di governo dello Stato: lo si è detto per le comunicazioni via radio, poi per le attività spaziali e lo si dice oggi per le comunicazioni via internet. In realtà, lo Stato può governare, magari soltanto nei luoghi di partenza o di arrivo, le attività umane (si pensi alle regole che uno Stato emana per disciplinare il commercio elettronico).

 

22. La sovranità territoriale.

La prima e fondamentale norma consuetudinaria in tema di delimitazione del potere di governo dello Stato è quella sulla sovranità territoriale. Essa si affermò all’epoca in cui venne meno il Sacro Romano Impero ed in cui conseguentemente cessò ogni forma di dipendenza anche formale delle singole entità statali dall’Imperatore e dal Papa. La sovranità territoriale venne allora concepita come una sorta di diritto di proprietà dello Stato, o meglio del sovrano, avente per oggetto il territorio; anche il potere esercitato sugli individui veniva ricollegato alla disponibilità del territorio (gli individui erano considerati ‘pertinenze’ del territorio). La sovranità territoriale è oggi indirettamente tutelata anche dal principio che vieta la minaccia o l’uso della forza nei rapporti internazionali. Circa il contenuto, la norma attribuisce ad ogni Stato il diritto di esercitare in modo esclusivo il potere di governo sulla sua comunità territoriale, cioè sugli individui (e sui loro beni) che si trovano nell’ambito del territorio. Correlativamente ogni Stato ha l’obbligo di non esercitare in territorio altrui il proprio potere di governo. La violazione della sovranità territoriale si ha solo se vi è presenza fisica e non autorizzata dell’organo straniero nel territorio.

Non sono infrequenti i casi di azioni (illecite) di polizia consistenti nell’inseguimento di criminali oltre frontiera, ma tale illiceità si esaurisce nei rapporti fra Stati, non comportando, dal punto di vista del diritto internazionale, l’assenza della potestà di punire, potestà sempre esercitabile anche sugli stranieri, sempre che vi sia un collegamento del reato con lo Stato che punisce. La presenza e l’esercizio di pubbliche funzioni da parte di organi stranieri è autorizzata da una serie di ipotesi tipiche, prime fra tutte quelle relative all’attività di agenti diplomatici e di consoli stranieri. Una forma particolarmente intensa di attività giurisdizionale svolta all’estero era quella esercitata nel quadro del c.d. regime delle capitolazioni, regime in base al quale alcuni Stati che venivano ritenuti poco affidabili sotto l’aspetto dell’amministrazione della giustizia (Impero Ottomano, Cina) consentivano agli europei di essere giudicati dai consoli dei loro Paesi; tale regime venne a cessare definitivamente dopo la seconda guerra mondiale.

In linea di principio, il potere di governo dello Stato territoriale non solo è esclusivo rispetto a quello degli altri Stati, ma è anche libero nelle forme e nei modi del suo esercizio e nei suoi contenuti; in effetti, la libertà dello Stato, nata come libertà assoluta, è andata restringendosi via via che il diritto internazionale si è evoluto. Le eccezioni che per prime si sono affermate, sia sul piano del diritto consuetudinario che sul piano del diritto pattizio, sono costituite dalle norme che impongono un certo trattamento degli stranieri, persone fisiche o giuridiche, degli organi stranieri, soprattutto degli agenti diplomatici, e degli stessi Stati stranieri.

Per quanto riguarda l’acquisto della sovranità territoriale, vale il criterio dell’effettività: l’esercizio effettivo del potere di governo fa sorgere il diritto all’esercizio esclusivo del potere di governo medesimo (applicazione del principio ex facto oritur jus). Nonostante i tentativi fatti, sin dall’epoca tra le due guerre mondiali, per limitare la portata del principio di effettività e disconoscere l’espansione territoriale che sia frutto di violenza o di gravi violazioni di norme internazionali (famosa è la c.d. dottrina Stimson, formulata in questi termini nel 1932 dal Segretario di Stato americano), la prassi sembra ancor oggi sostanzialmente orientata nel senso che l’effettivo e consolidato esercizio del potere di governo su di un territorio comunque conquistato comporti l’acquisto della sovranità territoriale. Se ad un atto di aggressione non si reagisce subito nell’esercizio della autotutela individuale e collettiva, la situazione si consolida. Tutto ciò che può sostenersi è che, oltre all’obbligo di restituzione, gravante sullo Stato che abbia commesso l’aggressione o detenga il territorio in dispregio del principio di autodeterminazione dei popoli, su tutti gli altri Stati grava l’obbligo di negare effetti extraterritoriali agli atti di governo emanati in quel territorio e sempre che l’acquisto sia contestato dalla più gran parte dei membri della comunità internazionale: gli Stati saranno tenuti, ad es., a negare riconoscimento alle sentenze pronunciate in quel territorio, a non applicare, in virtù delle proprie norme di diritto internazionale privato, le leggi emanate nel territorio medesimo, insomma ad ‘isolare’ giuridicamente quest’ultimo. Occorre peraltro riconoscere che, nel caso della sovranità su zone di confine o isole il cui possesso sia oggetto di controversia tra gli Stati confinanti, la Corte Internazionale di Giustizia ha più volte sostenuto che l’effettività deve cedere il passo ad un titolo giuridico certo, come un precedente accordo fra gli Stati interessati o tra gli Stati che li hanno preceduti, e salvo che una delle parti non abbia prestato acquiescenza alle pretese dell’altra basate sull’effettività.

 

23. I limiti della sovranità territoriale. L’erosione del c.d. dominio riservato e il rispetto dei diritti umani.

Si è andato progressivamente erodendo il c.d. dominio riservato o competenza interna (domestic jurisdiction) dello Stato, espressione con cui s’intende indicare le materie delle quali il diritto internazionale sia consuetudinario che pattizio si disinteressa e rispetto alle quali lo Stato è conseguentemente libero da obblighi. Tradizionalmente vi rientravano i rapporti fra lo Stato ed i propri sudditi, l’organizzazione delle funzioni di governo, la politica economica e sociale dello Stato, ecc. La nozione di domestic jurisdiction può essere ancora utilizzata con riguardo al diritto consuetudinario, mentre ha perso il suo significato, dato il gran numero di convenzioni che legano lo Stato, per quanto concerne il diritto convenzionale. La stessa libertà dello Stato di imporre o concedere la propria cittadinanza ad un individuo, libertà tradizionalmente rientrante nel dominio riservato, non è più senza limiti: non può essere considerata internazionalmente legittima l’attribuzione della cittadinanza in mancanza di un legame effettivo tra l’individuo e lo Stato.

Le iniziative internazionali dirette a promuovere la tutela della dignità umana, oltre che a consistere in atti politicamente importanti ma giuridicamente privi di valore (Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ecc.), si sono concretizzate in diverse convenzioni (ad es., i due Patti delle Nazioni Unite sui diritti civili e politici e sui diritti economici, sociali e culturali) che, oltre ad istituire degli organi destinati a vegliare sulla loro osservanza, contengono un catalogo di diritti umani. La materia dei diritti umani è anche una materia nella quale si sono venute formando delle norme consuetudinarie, precisamente dei principi generali di diritto riconosciuti dalle Nazioni civili. A differenza delle convenzioni, che contengono cataloghi assai dettagliati, il diritto consuetudinario si limita alla protezione di un nucleo fondamentale e irrinunciabile di diritti umani: trattasi del divieto delle c.d. gross violations, ossia violazioni gravi e generalizzate di tali diritti (apartheid, genocidio, tortura, trattamenti disumani e degradanti, espulsioni collettive, pulizia etnica, ecc.). Sulla contrarietà di siffatte pratiche allo jus cogens internazionale, si è anche pronunciata, sia pure incidentalmente, la Corte Internazionale di Giustizia nella sent. Barcelona Traction, Light and Power Co., Ltd. (1970). L’obbligo degli Stati di rispettare i diritti umani è fondamentalmente un obbligo di astensione, ma costituisce anche l’oggetto di un obbligo positivo: lo Stato deve vegliare affinché violazioni dei diritti umani non siano commesse da individui che comunque si trovino nel suo territorio. Alla materia dei diritti umani si applica la regola del previo esaurimento dei ricorsi interni: la violazione delle norme consuetudinarie sui diritti umani non può dirsi consumata, o comunque non può farsi valere sul piano internazionale, finché esistono nell’ordinamento dello Stato offensore rimedi adeguati ed effettivi per eliminare l’azione illecita o per fornire all’individuo offeso una congrua riparazione.

 

24. (Segue). La punizione dei crimini internazionali.

Caratteristica delle norme, generali e convenzionali, che disciplinano siffatti crimini è che esse danno luogo ad una responsabilità propria delle persone fisiche che li commettono; trattasi di norme che possono essere considerate come regole che direttamente si indirizzano agli individui, concorrendo alla formazione della soggettività internazionale di questi ultimi. La comunità internazionale sta tentando oggi di attuare la punizione dei crimini internazionali individuali attraverso l’istituzione di tribunali internazionali, tentativi che si svolgono con molte difficoltà ed in misura limitata; la punizione è quindi in gran parte affidata ai tribunali interni, nell’esercizio della sovranità territoriale. La categoria dei crimini internazionali individuali è abbastanza recente, datando alla fine della seconda guerra mondiale. Qualche precedente esisteva anche prima: crimen juris gentium era considerata la pirateria, nel senso che qualsiasi Stato potesse catturare la nave pirata e punire i membri dell’equipaggio. Un altro precedente è costituito dai crimini di guerra, ma l’elenco di detti crimini era assai poco esteso, la punizione dei criminali era limitata agli Stati belligeranti e si riteneva che dovesse cessare con la cessazione delle ostilità (c.d. clausola di amnistia). I crimini internazionali individuali possono essere distinti, secondo una ripartizione che risale all’Accordo di Londra (1945), il quale istituì il Tribunale di Norimberga per la punizione dei criminali nazisti, in crimini contro la pace, crimini contro l’umanità e crimini di guerra. Un elenco dettagliato è oggi contenuto negli artt. 5-8 dello Statuto della Corte penale internazionale. Lo Statuto prevede quattro tipi di crimini: il genocidio (che può essere comunque ricondotto ai crimini contro l’umanità), i crimini contro l’umanità, i crimini di guerra e il crimine di aggressione (che può essere considerato il principale, se non l’esclusivo, crimine contro la pace). Il genocidio è la distruzione totale o parziale di un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Ai crimini contro l’umanità vengono riportati i seguenti atti, purché perpetrati come parte di un sistematico attacco contro una popolazione civile: omicidio, sterminio, riduzione in schiavitù, deportazione o trasferimento forzato di popolazioni, privazione di libertà “in violazione di norme fondamentali di diritto internazionale”, tortura, violenza carnale, prostituzione forzata e altre forme di violenza sessuale di eguale gravità, persecuzioni per motivi politici, razziali, religiosi, di sesso, ecc., sparizione forzata di persone, apartheid, atti disumani capaci causare sofferenza gravi di carattere fisico o psichico. Tra i crimini di guerra, oltre ai crimini già inclusi tra quelli contro l’umanità, lo Statuto include una serie di atti specifici del tempo di guerra (ma perseguibili anche, e soprattutto, una volta cessata la guerra), come la violazione delle Convenzioni di Ginevra (1949) sul diritto umanitario di guerra, la presa di ostaggi, gli attacchi intenzionalmente diretti contro popolazioni ed obiettivi civili; anche questi atti, per poter essere considerati crimini internazionali individuali, devono far parte di un programma politico o aver luogo su larga scala. Circa i crimini contro la pace (aggressione), lo Statuto rinuncia a dare all’aggressione una definizione, rinviandola ad una futura modifica della convenzione. Si tratta di crimini individuali che tali sono anche per il diritto internazionale consuetudinario, la punizione dei quali trova conferma nella prassi delle Corti interne e internazionali.

Normalmente l’individuo che commette un crimine internazionale è organo del proprio Stato o di un’entità di tipo statale (come il governo insurrezionale a base territoriale): soltanto gli Stati o queste altre entità sono normalmente in grado di produrre attacchi estesi o sistematici contro una popolazione civile. Ciò comporta che, quando è commesso un genocidio o un altro crine contro l’umanità o un crimine di guerra, crimini tutti costituenti anche gross violations dei diritti umani, ne consegue una duplice responsabilità internazionale, dello Stato e dell’individuo organo. Non è escluso, comunque, che crimini contro l’umanità possano essere commessi da gruppi privati non agenti quali organi di uno Stato determinato: è il caso degli atti di terrorismo da parte di fanatici religiosi.

Il principio che va affermandosi è quello della universalità della giurisdizione penale: si ritiene che ogni Stato possa procedere alla punizione ovunque il crimine sia stato commesso. Per il diritto internazionale generale, lo Stato, mentre è sempre libero di esercitare la giurisdizione sui suoi cittadini, può sottoporre lo straniero a giudizio penale solo se sussiste, e nei limiti in cui sussiste, un collegamento con lo Stato medesimo. Tale collegamento è dato in linea generale dal principio di territorialità (commissione del reato nel territorio della Stato). La necessità del collegamento viene meno quando si tratta di crimine internazionale: la ratio è che lo Stato che punisce il crimine persegue un interesse che è proprio della comunità internazionale nel suo complesso. La punizione dei crimini internazionali può aver luogo anche quando il colpevole sia stato catturato all’estero illegittimamente, cioè violandosi la sovranità territoriale dello Stato in cui si trovava; lo Stato è altresì libero di escludere che i crimini internazionali, che esso prevede di punire, siano colpiti da prescrizione, così come può punire o limitarsi a concedere l’estradizione ad uno Stato che intende farlo. Per il diritto consuetudinario, lo Stato può ma non deve punire; può ma non deve considerare il crimine come imprescrittibile; può ma non deve concedere l’estradizione. Per il diritto pattizio è diverso: molte sono le convenzioni che contengono la regola aut dedere aut judicare. All’universalità della giurisdizione penale corrisponde l’universalità della giurisdizione civile, affermata dalle Corti statunitensi sulla base di norme interne in materia di responsabilità civile extracontrattuale e confermata dal diritto internazionale generale. Il principio dell’universalità della giurisdizione non permette però che, in mancanza di qualsiasi collegamento con lo Stato del giudice, il criminale internazionale possa essere giudicato anche se non è fisicamente presente nel territorio della Stato, ossia in contumacia. La prassi non autorizza una conclusione contraria: tutti i casi di punizione finora effettuati ad opera di Corti interne riguardano individui presenti nel territorio, il principio della presenza dell’indagato è applicato dai tribunali penali internazionali, il principio aut dedere aut judicare (contenuto in varie convenzioni relative a singoli crimini) muove dal presupposto che non si giudichi in contumacia.

 

25. (Segue). I limiti relativi ai rapporti economici e sociali. La protezione dell’ambiente.

Il diritto internazionale economico è forse quello, tra i settori rientranti in passato nel dominio riservato degli Stati, in cui più che in ogni altro la formazione di norme consuetudinarie è da escludersi: trattasi di un settore dominato dalle norme convenzionali. Circa i rapporti fra Paesi industrializzati e Paesi in via di sviluppo, una serie di principi sono stati enunciati a varie riprese dall’Assemblea generale dell’ONU, dall’UNCTAD e da altre organizzazioni internazionali: trattasi dell’enunciazione di principi di carattere programmatico i quali descrivono come i rapporti economici tra le due categorie di Paesi debbano essere convenzionalmente regolati. Sulla base di questi principi una serie di convenzioni bilaterali e multilaterali è andata ponendo limiti alla libertà degli Stati di regolare come credono i loro rapporti economici.

Importanti sono gli accordi sui prodotti di base (ad es., juta, caffè, zucchero, grano, cacao, gomma naturale) che tendono a stabilizzare il prezzo del prodotto e a renderlo remunerativo per i Paesi produttori, di solito i Paesi in via di sviluppo, ed equo per i Paesi consumatori; le convezioni commerciali ispirate al principio del trattamento preferenziale dei Paesi in sviluppo (c.d. sistema generalizzato delle preferenze); gli accordi che prevedono assistenza tecnica, aiuti finanziari, ecc., ai Paesi in sviluppo; le iniziative dirette a trasferire le tecnologie (brevetti, know-how) delle imprese dei Paesi industrializzati a quelle dei Paesi in sviluppo.

A prescindere poi dagli accordi di cooperazione per lo sviluppo, la libertà degli Stati in materia economica è limitata da numerosissimi accordi (in gran parte negoziati in seno all’OMC), tendenti alla liberalizzazione del commercio internazionale. In materia economica, il potere di governo dello Stato non incontra limiti di diritto consuetudinario, se non quelli relativi al trattamento degli interessi economici degli stranieri. Vari tentativi sono stati fatti in dottrina per individuare limiti di carattere generale: si è così affermato che lo Stato non debba comunque interferire negli interessi economici essenziali di Stati stranieri oppure che ciascuno Stato debba esercitare il proprio potere entro limiti ‘ragionevoli’. Tutto ciò è stato detto per reagire alla pretesa degli Stati Uniti di emanare leggi che sono considerate ‘extraterritoriali’: tale pretesa, che si è manifestata nel campo della legislazione antitrust, in quello del boicottaggio del commercio verso Paesi non amici e in materia di amministrazione di società, consiste nel voler imporre obblighi alle imprese di tutto il mondo, con la minaccia di colpirne beni ed interessi in territorio statunitense. Le misure di embargo e altre misure simili hanno però sempre incontrato l’opposizione degli altri Stati e soprattutto dell’Unione europea. La pretesa statunitense è un esempio di imperialismo giuridico e la condanna può essere espressa in base alle norme consuetudinarie che vietano di esercitare la potestà di governo sugli stranieri in assenza di un contatto adeguato con la comunità territoriale. Nessuno dei tentativi fatti dalla dottrina può invece considerarsi sorretto dalla tradizione.

Le materie del lavoro e della sicurezza sociale sono oggetto di un nutrito movimento convenzionale che l’ILO va promuovendo fin dagli anni Venti. In tema di protezione dell’ambiente, vengono in rilievo i limiti alla libertà di sfruttamento delle risorse naturali del territorio, onde ridurre i danni causati dalle attività inquinanti o capaci di distruggere irrimediabilmente le risorse. Nel quadro di rapporti di vicinato, con riguardo alle utilizzazioni dei fiumi internazionali modificanti l’afflusso delle acque al territorio di uno Stato contiguo, alle immissioni di fumi e sostanze tossiche dovute ad attività industriali in prossimità dei confini e all’inquinamento atmosferico derivante da attività ultra pericolose (come l’attività delle centrali atomiche), hanno rilievo la Dichiarazione di Stoccolma (1972) e la Dichiarazione di Rio (1992): secondo l’art. 2 di quest’ultima, “gli Stati hanno il diritto sovrano di sfruttare le loro risorse naturali conformemente alla loro politica sull’ambiente e hanno l’obbligo di assicurarsi che le attività esercitate entro i limiti della loro sovranità o sotto il loro controllo non causino danni all’ambiente in altri Stati…”. Le Dichiarazioni non hanno forza vincolante. L’obbligo che sanciscono corrisponde, per la maggioranza della dottrina, al diritto internazionale consuetudinario. In realtà, tutto ciò che può dirsi in base al diritto internazionale consuetudinario è che esistono obblighi di cooperazione, quali l’obbligo per lo Stato sul cui territorio si verificano fenomeni di inquinamento di informare gli altri Stati del pericolo e l’obbligo per tutti gli altri Stati interessati di prendere di comune accordo misure preventive o successive al verificarsi del danno all’ambiente. L’unico caso in cui un obbligo di non causare danni all’ambiente di altri Stati, con riguardo al diritto internazionale consuetudinario, è stato affermato, è la sentenza arbitrale emessa tra Stati Uniti e Canada nell’affare della Fonderia di Trail (1941), fonderia canadese che operava in prossimità del confine e che aveva gravemente danneggiato, con immissioni di fumo, coltivazioni di contadini americani. In realtà gli Stati sono sempre stati restii ad ammettere la propria responsabilità per danni e, se qualche volta hanno provveduto ad indennizzare le vittime, hanno nel contempo avuto la cura di sottolineare il carattere grazioso dell’indennizzo medesimo.

Non bisogna poi confondere gli obblighi dello Stato sul piano internazionale con quelli degli individui, persone fisiche o giuridiche, o, al limite, dello stesso Stato, sul piano interno: se un’industria, pubblica o privata, provoca danni nel territorio di un altro Stato, può essere chiamata a rispondere presso innanzi ai giudici di questo Stato, nel quadro del normale esercizio della sovranità territoriale; oppure può essere chiamata a rispondere innanzi ai giudici dello stesso Stato dal cui territorio proviene l’inquinamento. Responsabilità di diritto interno si ha quando si parla del principio “chi inquina paga” come un principio di diritto internazionale, che si limiterebbe ad imporre allo Stato di apprestare gli strumenti affinché la responsabilità dell’inquinatore possa essere fatta valere al suo interno.

A parte gli usi nocivi, ci si chiede se esista un obbligo per lo Stato di gestire razionalmente le risorse del proprio territorio secondo i principi dello sviluppo sostenibile (ossia contemperando le esigenze del proprio sviluppo economico con quelle della tutela ambientale), della responsabilità intergenerazionale (ossia salvaguardando le esigenze delle generazioni future) e dell’approccio precauzionale (ossia evitando di invocare la mancanza di piene certezze scientifiche allo scopo di rinviare l’adozione di misure dirette a prevenire gravi danni all’ambiente); la risposta, in assenza di dati sicuri dalla prassi, non può che essere negativa.

Passando dal diritto consuetudinario al diritto pattizio, il discorso si fa completamente diverso. Circa gli usi nocivi del territorio, gli accordi si sono andati moltiplicando, stabilendo obblighi di cooperazione, di informazione e di consultazione tra le Parti contraenti. Le convenzioni in tema di responsabilità da inquinamento, ispirandosi al principio “chi inquina paga”, si preoccupano di imporre agli Stati contraenti la predisposizione, al loro interno, di un adeguato sistema di responsabilità civile e penale. Anche nella materia della gestione razionale delle risorse, il numero degli obblighi va crescendo.

Da ricordare sono la Convenzione di Vienna (1985) sulla protezione della fascia di ozono, il Protocollo di Montreal (1997) sulle sostanze che riducono la fascia, la Convenzione quadro dell’ONU sui cambiamenti climatici (1992), il Protocollo di Kyoto (1997) sulle quote di riduzione delle emissioni di sostanze inquinanti gravanti su ciascuno Stato contraente. Di carattere pattizio è anche la disciplina diretta a proteggere la diversità biologica, ossia la variabilità degli organismi viventi di qualsiasi origine, oggetto della Convenzione di Nairobi (1992).

 

26. (Segue). Il trattamento degli stranieri.

Due sono i principi di diritto internazionale che si sono formati per consuetudine in materia di trattamento degli stranieri. Il primo prevede che allo straniero non possano imporsi prestazioni che non si giustifichino con un sufficiente ‘attacco’ dello straniero stesso (o dei suoi beni) con la comunità territoriale. Il secondo sancisce il c.d. obbligo di protezione da parte dello Stato territoriale: lo Stato deve predisporre misure idonee a prevenire e a reprimere le offese contro la persona e i beni dello straniero, l’idoneità essendo commisurata a quanto di solito si fa per tutti gli individui in uno Stato civile, cioè in uno Stato “il quale provveda normalmente ai bisogni di ordine e di sicurezza della società sottoposta al suo controllo” (Quadri). Circa le misure preventive, esse devono essere adeguate alle circostanze relative ad singolo caso concreto. Circa le misure repressive, occorre che lo Stato disponga di un normale apparato giurisdizionale innanzi al quale lo straniero possa far valere le proprie pretese; chiamasi diniego di giustizia l’eventuale illecito dello Stato in questa materia. La protezione della persona dello straniero assumeva un rilievo del tutto autonomo quando lo Stato era considerato libero da vincoli internazionali; essa oggi può dirsi confluita nella protezione accordata alla persona umana in quanto tale. La situazione è invece immutata per ciò che riguarda i beni dello straniero, dato che i beni del cittadino possono essere legittimamente sacrificati dal punto di vista del diritto internazionale.

Circa gli investimenti stranieri, si tratta di fare una sintesi fra le posizioni dei Paesi in via di sviluppo, tendenzialmente favorevoli all’assoluta libertà dello Stato territoriale, e le posizioni dei Paesi industrializzati, tendenzialmente favorevoli alla massima protezione degli investimenti stranieri. Per il punto di vista dei primi, può farsi capo all’art. 2 della Carta dei diritti e doveri economici degli Stati, secondo cui ogni Stato sarebbe libero di disciplinare gli investimenti “in conformità alle sue leggi e regolamenti ed alle priorità ed obiettivi nazionali di politica economica e sociale” e di adottare tutte le misure necessarie affinché siffatta disciplina sia rispettata dagli stranieri, particolarmente dalle società multinazionali. Una simile regola, il cui scopo è chiaramente quello di evitare gli abusi perpetrati in passato in ordine allo sfruttamento delle risorse dei territori sottoposti a dominio coloniale o degli Stati più deboli, può anche essere considerata come l’attuale regola generale di diritto internazionale in materia di investimenti, a patto però che la libertà dello Stato, che essa sembra sancire senza alcun limite, non sia spinta al punto di negare un’equa remunerazione del capitale straniero.

Nessuno dubita dell’assoluta libertà dello Stato di espropriare e nazionalizzare beni stranieri. Neppure vi è controversia circa la questione se il passaggio alla mano pubblica debba essere sorretto da motivi di pubblica utilità, questione che acquista rilievo in caso di espropriazione di un singolo bene (e che in questo caso va risolta affermativamente) dato che nelle nazionalizzazioni (che normalmente riguardano intere categorie di imprese) il pubblico interesse è in re ipsa. L’unica questione importante è quella relativa all’indennizzo. Nessuno Stato, allorché abbia proceduto a nazionalizzazioni, si è mai schierato contro l’obbligo di indennizzo e la corresponsione del medesimo si ricollega all’equa remunerazione del capitale straniero, unico limite alla libertà statale in materia di investimenti stranieri. L’incertezza regna circa le modalità di pagamento ed il quantum dovuto. La tesi, propria di alcuni Stati industrializzati, secondo cui l’indennizzo dovrebbe sempre essere “pronto, adeguato ed effettivo” (formula coniata dagli Stati Uniti) può essere condivisa con riguardo all’espropriazione di singoli beni per utilità pubblica, ma non si è mai affermata per le nazionalizzazioni. L’indennizzo è spesso oggetto di transazione fra lo Stato nazionalizzante e lo Stato di appartenenza degli stranieri espropriati (c.d. accordi di compensazione globale o lump-sum agreements mediante i quali il primo Stato corrisponde una somma forfetaria al secondo e questo resta l’unico competente a decidere circa la distribuzione della somma fra i soggetti colpiti) o direttamente fra il primo e le compagnie espropriate. L’art. 2 della Carta dei diritti e doveri economici degli Stati, pur riconoscendo il dovere di indennizzare, prevede che lo Stato nazionalizzante determini l’indennità sulla base “delle sue leggi, dei suoi regolamenti e di ogni circostanza che esso giudichi pertinente…”. In definitiva, alla luce della prassi, può dirsi che l’obbligo dell’indennizzo sussiste, che lo Stato nazionalizzante commette una violazione del diritto internazionale solo quando è inequivoca la sua volontà di non indennizzare, che l’accordo può anche sacrificare gli interessi del privato espropriato.

È collegato alla protezione degli interessi patrimoniali degli stranieri il problema del rispetto dei debiti pubblici con questi contratti dallo Stato predecessore, nei casi (distacco, smembramento, incorporazione, mutamento radicale di regime, ecc.) di mutamento di sovranità su di un territorio. La dottrina tradizionale era in linea di massima favorevole alla successione nel debito pubblico, opinione che ha incontrato la decisa opposizione dei Paesi in via di sviluppo. Nella prassi più recente (smembramento dell’Unione Sovietica e della Cecoslovacchia), può notarsi la tendenza all’accollo da parte degli Stati subentranti. Tutto ciò che si può dire è che la disciplina della materia tende a seguire i principi valevoli per la successione nei trattati: tende ad ammettere la successione nei debiti localizzabili (ossia contratti nell’esclusivo interesse del territorio oggetto del mutamento di sovranità) e non nei debiti generali dello Stato predecessore, salvo, in quest’ultimo caso, un accollo convenzionalmente stabilito.

Nessun limite prevede il diritto internazionale consuetudinario per quanto riguarda l’ammissione e l’espulsione degli stranieri: in questa materia rivive in pieno la norma sulla sovranità territoriale. È vero che l’espulsione deve avvenire con modalità che non risultino oltraggiose nei confronti dello straniero e che allo straniero medesimo deve essere concesso un lasso di tempo ragionevole per regolare i propri interessi ed abbandonare il Paese, ma ciò non è altro che un’applicazione del dovere di protezione e, in particolare, dell’obbligo di predisporre misure preventive delle offese alla persona dello straniero ed ai suoi beni. Limiti particolari derivano dalle convenzioni sui diritti umani. La Convenzione ONU contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti (1984), obbliga gli Stati a non estradare o espellere una persona verso Paesi in cui questa rischia di essere sottoposta a tortura; la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ricavato, dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, l’obbligo di non espellere quando l’espulsione comporterebbe una ingiustificata e sproporzionata rottura dell’unità familiare. Essendo l’espulsione dei cittadini già normalmente esclusa dalle costituzioni interne, è chiaro che l’obbligo trova la sua principale attuazione con riguardo agli stranieri e agli apolidi. Si va facendo strada nella prassi interna la regola per cui lo straniero deve poter ricorrere al giudice contro l’atto di espulsione.

Numerosi sono poi gli accordi internazionali, c.d. convenzioni di stabilimento, con cui ciascuna Parte contraente si obbliga a riservare alle persone fisiche e giuridiche, appartenenti all’altra o alle altre Parti, condizioni di particolare favore, sia in tema di ammissione sia per quanto concerne l’esercizio di attività imprenditoriali, professionali, ecc.

Se lo Stato non rispetta le norme sul trattamento degli stranieri compie un illecito internazionale nei confronti dello Stato al quale lo straniero appartiene. Quest’ultimo potrà esercitare la protezione diplomatica, ossia assumere la difesa del proprio suddito sul piano internazionale: potrà agire con proteste, minacce di (o ricorso a) contromisure contro lo Stato territoriale, proposte di arbitrato o, quando è possibile, ricorso ad istanze giurisdizionali internazionali, al fine di ottenere la cessazione della violazione ed il risarcimento del danno causato al proprio suddito. Prima che però lo Stato agisca in protezione diplomatica occorre che lo straniero abbia esaurito tutti i rimedi previsti dall’ordinamento dello Stato territoriale, purché adeguati ed effettivi, secondo la regola del previo esaurimento dei ricorsi interni. L’istituto della protezione diplomatica ha oggi carattere residuale, nel senso che, una volta esauriti i ricorsi interni ed avvenuta la violazione, è anche necessario che non vi siano rimedi internazionali efficienti (come le corti internazionali che controllano il rispetto dei diritti umani), azionabili dagli stessi stranieri lesi. Lo Stato che agisce in protezione diplomatica esercita, dal punto di vista dell’ordinamento internazionale, un proprio diritto; non agisce come rappresentante o mandatario dell’individuo ed è perciò da escludere che la materia sia inquadrabile come manifestazione della personalità internazionale dell’individuo. Lo Stato può, in ogni momento, rinunciare ad agire, sacrificare l’interesse del suddito leso ad altri interessi, transigere, ecc., ciò anche se comincia ad affermarsi l’idea di un vero e proprio obbligo dello Stato di esercitare la protezione nel caso di violazioni gravi dei diritti umani. Altro è il problema se, dal punto di vista del diritto interno, il Governo non sia obbligato, nei confronti dei suoi sudditi, ad esercitare la protezione diplomatica; per le Sezione Unite della Corte di Cassazione, sono pienamente discrezionali e totalmente sottratti al sindacato giurisdizionale sia ordinario che amministrativo gli atti compiuti dallo Stato nel regolamento delle relazioni internazionali; mentre, la Court of Appeal della Civil Division inglese ha sostenuto che il cittadino ha una “legittima aspettativa”di vedere il suo caso “preso in considerazione” dal Governo e che, sotto questo aspetto, il comportamento del Governo può essere sottoposto al vaglio delle Corti.

L’istituto della protezione diplomatica è oggi oggetto di contestazione, limitatamente ai rapporti economici facenti capo a stranieri, da parte degli Stati in via di sviluppo. Questi si rifanno alla dottrina Calvo, dottrina che prende il nome dall’internazionalista e diplomatico argentino che l’abbozzò nel secolo XIX (come reazione alla pretesa degli Stati europei di intervenire militarmente negli Stati dell’America latina col pretesto di proteggere i propri sudditi) e secondo la quale le controversie in tema di trattamento degli stranieri sarebbero di esclusiva competenza dei Tribunali dello Stato locale. Ad una simile dottrina si sono sempre ispirati gli Stati latino-americani, tra l’altro inserendo nei contratti delle imprese straniere una clausola di rinuncia da parte di queste ultime alla protezione del proprio Stato (c.d. clausola Calvo). Alla stessa dottrina si ispira l’art. 2 della Carta dei diritti e doveri economici degli Stati quando, a proposito delle nazionalizzazioni di beni stranieri, stabilisce che “…ogni controversia relativa all’indennizzo dovrà essere regolata in conformità alla legislazione interna dello Stato nazionalizzante e dei Tribunali di questo Stato, a meno che tutti gli Stati interessati non convengano liberamente di ricercare altri mezzi pacifici sulla base dell’uguaglianza sovrana degli Stati medesimi”. In effetti, nessuno può costringere uno Stato, che sia accusato di aver violato le norme sul trattamento degli stranieri, a trattare la questione sul piano internazionale o addirittura a risolverla mediante arbitrato, se esso non abbia preventivamente e liberamente assunto obblighi convenzionali al riguardo, così come nessuno può vietare allo Stato dello straniero di protestare, di proporre arbitrati o di minacciare rappresaglie (e ciò anche in presenza di una clausola Calvo, dato che con la protezione diplomatica lo Stato fa valere un diritto proprio).

La protezione diplomatica può essere esercitata dallo Stato nazionale anche in difesa di una persona giuridica, in particolare di una società commerciale. La nazionalità delle persone giuridiche non è però un concetto definito quanto quello delle persone fisiche. Circa le società commerciali, ai fini dell’esercizio della protezione diplomatica, ci si chiede se si debba aver riguardo a criteri formali, come il luogo della costituzione e quello della sede principale, oppure a criteri sostanziali, come la maggioranza dei soci o comunque coloro che controllano la società. A favore della prima tesi si è pronunciata la Corte Internazionale di Giustizia, nella sentenza Barcelona Traction, Light and Power Co., Ltd. (1970); in tal caso si trattava di una società canadese (in quanto costituita secondo le leggi del Canada ed avente la sede principale a Toronto) che era stata dichiarata fallita in Spagna; la Corte ha escluso che il Belgio, Stato nazionale della maggioranza degli azionisti, avesse titolo per agire in protezione diplomatica per i danni causati dalla dichiarazione di fallimento, dichiarazione di cui si lamentava da parte belga la contrarietà a principi fondamentali di giustizia e che si assumeva fosse stata dolosamente preordinata al fine di trasferire senza indennizzo i beni della società in mano spagnola. È difficile negare però che lo Stato nazionale dell’azionista possa intervenire in protezione diplomatica quando la società si sia estinta oppure quando la società medesima abbia la stessa nazionalità dello Stato contro cui la protezione dovrebbe essere esercitata.

 

27. (Segue). Il trattamento degli agenti diplomatici e degli organi supremi di Stati stranieri.

Limiti alla potestà di governo nell’ambito del territorio sono previsti dal diritto consuetudinario per quanto riguarda gli agenti diplomatici; essi si concretano nel rispetto delle c.d. immunità diplomatiche. La materia è anche regolata dalla Convenzione di Vienna (1961), che corrisponde largamente al diritto consuetudinario. Le immunità riguardano gli agenti diplomatici accreditati presso lo Stato territoriale e accompagnano l’agente dal momento in cui esso entra nel territorio di tale Stato per esercitarvi le sue funzioni fino al momento in cui ne esce. La presenza dell’agente è, come quella di qualsiasi straniero, subordinata alla volontà dello Stato territoriale, volontà che si esplica, per quanto riguarda l’ammissione, attraverso il gradimento (che precede l’accreditamento) e, per quanto riguarda l’espulsione, attraverso la c.d. consegna dei passaporti e l’ingiunzione a lasciare, entro un certo tempo, il Paese.

Inviolabilità personale. L’agente diplomatico deve essere anzitutto protetto contro le offese alla sua persona mediante particolari misure preventive e repressive. Tale obbligo si confonde con il generico dovere di protezione degli stranieri, protezione che deve essere adeguata alle circostanze e quindi commisurata all’importanza dello straniero. L’inviolabilità personale consiste soprattutto nella sottrazione del diplomatico straniero a qualsiasi misura di polizia diretta contro la sua persona.

Inviolabilità domiciliare. Per domicilio si intende sia la sede della missione diplomatica sia l’abitazione privata dell’agente diplomatico. Una volta si fingeva la c.d. extraterritorialità della sede diplomatica; in realtà, la sede della missione diplomatica resta territorio dello Stato che riceve l’agente, ma questo Stato non può esercitarvi, senza il consenso dell’agente, atti di coercizione.

Immunità dalla giurisdizione penale e civile. Bisogna distinguere tra atti compiuti dal diplomatico in quanto organo dello Stato e atti da lui compiuti come privato. I primi sono coperti dall’immunità funzionale: l’agente non può essere citato in giudizio per rispondere penalmente o civilmente degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni; simili atti non sono imputabili all’agente, ma allo Stato straniero, perciò il diplomatico non può essere chiamato a rispondere di tali atti neanche una volta cessate le sue funzioni. I secondi sono coperti dall’immunità personale, salvo per quanto riguarda la giurisdizione civile, le azioni reali concernenti immobili situati nel territorio dello Stato accreditatario, le azioni successorie e quelle riguardanti attività professionali o commerciali dell’agente e le domande riconvenzionali; la ratio di quest’immunità sta esclusivamente nell’esigenza di assicurare all’agente il libero ed indisturbato esercizio delle sue funzioni e ne consegue il carattere squisitamente processuale dell’immunità: l’agente non è dispensato dall’osservare la legge, ma è semplicemente immune dalla giurisdizione finché si trova nel territorio dello Stato e finché esplica le sua funzioni; una volta cessate queste ultime, egli potrà essere sottoposto a giudizio per gli atti o i reati compiuti.

Esenzione fiscale. Sussiste esclusivamente per le imposte dirette personali.

Le immunità si estendono a tutto il personale diplomatico delle missioni e alle famiglie degli agenti. La Convenzione di Vienna del 1961 estende l’immunità anche al personale tecnico e amministrativo della missione, con esclusione degli impiegati che siano cittadini dello Stato territoriale. Le immunità suddette spettano, per il diritto internazionale consuetudinario, anche ai Capi di Stato nonché, quando si recano all’estero in forma ufficiale, ai Capi di Governo e ai Ministri degli Esteri. Si ritiene che anche l’immunità funzionale debba però soccombere, sempre quando sia cessata la funzione, rispetto all’esigenza di punizione di eventuali crimini internazionali. I consoli non godono delle immunità personali: è inviolabile solo l’archivio consolare. Per gli organi statali stranieri che si trovino, ufficialmente o meno, nel territorio, valgono comunque le comuni norme sul trattamento degli stranieri; anche qui il dovere di protezione dovrà essere commisurato al rango dell’organo e alle circostanze in cui esso opera.

 

28. (Segue). Il trattamento degli Stati stranieri.

Il principio di non ingerenza negli affari interni ed internazionali altrui è andato via via perdendo la sua autonoma sfera di applicazione, assorbito dall’affermarsi di altre regole generali, la più importante delle quali è costituita dal divieto della minaccia o dell’uso della forza. Circa le applicazioni del principio di non ingerenza che si risolvono in limiti al potere di governo che lo Stato esercita nel proprio territorio, rilevano gli interventi dello Stato diretti a condizionare le scelte di politica interna ed internazionale di un altro Stato (ad es. le misure di carattere economico). Secondo la Corte Internazionale di Giustizia, non è sufficiente a concretare un’ipotesi di illecito intervento negli affari altrui l’interruzione di un programma di aiuto allo sviluppo o la riduzione o il divieto delle importazioni dal Paese che si vuol colpire. In realtà, qualora queste misure siano contemporaneamente e sistematicamente prese ed abbiano come unico scopo quello di influire sulle scelte delle Stato straniero, esse devono considerarsi come vietate. Ci si chiede se dal principio di non ingerenza derivi l’obbligo di impedire che nel proprio territorio si tengano comportamenti che possano indirettamente turbare l’ordine pubblico. L’unica regola consuetudinaria di cui possa affermarsi l’esistenza è quella che impone di vietare la preparazione di atti di terrorismo diretti contro altri Stati. Tutto il resto appartiene alla sfera del diritto convenzionale.

All’inizio del XX secolo, la teoria universalmente accolta in merito al trattamento degli Stati stranieri, era quella favorevole all’immunità assoluta degli Stati stranieri alla giurisdizione civile. Sono state la giurisprudenza italiana e quella belga, nel periodo successivo alla prima guerra mondiale, a dare inizio alla revisione della regola, che ha portato all’elaborazione della teoria dell’immunità ristretta o relativa. Secondo quest’ultima, l’esenzione degli Stati stranieri dalla giurisdizione civile è limitata agli atti jure imperii (attraverso i quali si esplica l’esercizio delle funzioni pubbliche statali) e non si estende invece agli atti jure gestionis o jure privatorum (aventi carattere privatistico, come l’emissione di prestiti obbligazionari). La distinzione non è sempre facile da applicare ai casi concreti: in caso di dubbio si deve concludere a favore dell’immunità. Il campo in cui maggiormente rileva il problema è quello relativo alle controversie di lavoro (trattasi di giudizi per lo più instaurati da lavoratori aventi nazionalità dello Stato territoriale, per lavoro prestato presso ambasciate, istituti di cultura e uffici istituiti da Stati stranieri). La Convenzione europea sull’immunità degli Stati (1972) distingue i due tipi di atti, ma per le controversie di lavoro adotta questa soluzione: se il lavoratore ha la nazionalità dello Stato straniero che lo recluta, l’immunità sussiste in ogni caso; se il lavoratore ha la nazionalità dello Stato territoriale, o vi risiede abitualmente pur essendo cittadino di un terzo Stato, e il lavoro deve essere prestato nel territorio, l’immunità è esclusa.

Può ritenersi che l’immunità non sia invocabile dallo Stato citato in giudizio per le conseguenze civilistiche di gravi violazioni dei diritti umani: per ora può parlarsi di norma consuetudinaria in via di formazione. La prassi non autorizza che l’immunità cada per tutte le norme di jus cogens, essendo limitata ai casi di genocidio, tortura e simili.

L’immunità della giurisdizione civile, nei limiti in cui è prevista per gli Stati, viene riconosciuta anche agli enti territoriali e alle altre persone giuridiche pubbliche. La teoria dell’immunità ristretta va applicata sia al procedimento di cognizione sia all’esecuzione forzata su beni (a qualsiasi titolo) detenuti da uno Stato estero: l’esecuzione forzata deve pertanto ritenersi ammissibile solo se essa è esperita su beni non destinati ad una pubblica funzione.

A parte il caso in cui lo Stato estero sia convenuto in giudizio, nessun altro limite la giurisdizione dello Stato territoriale incontra in tema di trattamento di Stati stranieri. Senza fondamento è la dottrina dell’Act of State, dottrina secondo cui una Corte interna non potrebbe rifiutarsi di applicare una legge o un altro atto di sovranità straniero (ad es. una legge richiamata dalle norme di diritto internazionale privato), in quanto contraria al diritto internazionale o in quanto illegittimamente adottata: le corti di uno Stato non potrebbero controllare la legittimità internazionale o interna di leggi, sentenze ed atti amministrativi stranieri che vengano in rilievo nei giudizi a loro sottoposti. Più che una dottrina di diritto internazionale è considerata una sorta di autolimitazione da parte delle corti, giustificata dalla necessità di non creare imbarazzo al proprio Governo nei rapporti con i Governi stranieri.

 


29. (Segue). Il trattamento delle organizzazioni internazionali.

Circa il trattamento dei funzionari delle organizzazioni internazionali e dei rappresentanti degli Stati in seno agli organi delle medesime, non esistono norme consuetudinarie che impongano agli Stati di concedere loro particolari immunità: solo mediante convenzione lo Stato può obbligarsi in tal senso. Per quanto riguarda i funzionari dell’ONU, l’art. 105 della Carta sancisce in via generale che “…i funzionari dell’Organizzazione godranno dei privilegi e delle immunità necessari per l’esercizio indipendente delle loro funzioni”, demandando all’Assemblea generale il compito di proporre agli Stati membri la conclusione di accordi per la disciplina dettagliata della materia. Importante è la Convenzione ONU del 1975 sulla rappresentanza degli Stati nelle loro reazioni con le organizzazioni internazionali di carattere universale.

Lo Stato nel cui territorio opera ufficialmente un funzionario internazionale che non abbia la sua nazionalità è tenuto a proteggerlo con le misure preventive e repressive previste dalle norme consuetudinarie sul trattamento degli stranieri. Tale obbligo sussiste nei confronti dello Stato nazionale e la sua violazione dà luogo all’esercizio della c.d. protezione diplomatica da parte dello Stato nazionale medesimo. Può ritenersi che un obbligo di protezione del funzionario sussista nei confronti dell’organizzazione ma che questa possa agire sul piano internazionale nei confronti dello Stato territoriale solo per il risarcimento dei danni ad essa arrecati (c.d. protezione formale) e non di quelli arrecati all’individuo in quanto tale.

La Corte Internazionale di Giustizia si occupò del problema, su richiesta dell’Assemblea generale dell’ONU, in un parere (1949) a proposito del caso Bernadotte. Il conte Bernadotte, mediatore per l’ONU tra arabi e israeliani, era stato ucciso nel 1948 a Gerusalemme, insieme ad un collaboratore, da estremisti ebraici e il Segretario generale aveva accusato apertamente il Governo israeliano di non aver adottato le misure atte a prevenire i due attentati; l’Assemblea generale voleva sapere se l’ONU potesse agire sul piano internazionale per il risarcimento dei danni: la Corte rispose affermativamente sostenendo addirittura che l’Organizzazione avesse titolo per chiedere, oltre ai danni arrecati alla funzione, anche quelli subiti dall’individuo in quanto tale.

Nei limiti in cui gli Stati stranieri sono immuni dalla giurisdizione civile dello Stato territoriale, lo sono pure le organizzazioni internazionali. Anche per queste ultime il problema più importante è quello dell’immunità in tema di controversie di lavoro: l’immunità è esclusa se l’Organizzazione non ha, nel suo ordinamento interno, un organo, di natura giudiziaria, che offra tutte le garanzie di indipendenza e imparzialità, al quale il lavoratore possa rivolgersi. Nelle Nazioni Unite funziona un Tribunale Amministrativo appositamente creato dall’Assemblea generale nel 1949.

 

30. Il diritto internazionale marittimo. Libertà dei mari e controllo degli Stati costieri sui mari adiacenti.

La materia del diritto internazionale marittimo ha formato oggetto di due importanti conferenze di codificazione, la Conferenza di Ginevra (1958) e la Terza Conferenza delle Nazioni Unite sul diritto del mare (1974-1982); fra le due si inserì una Seconda Conferenza (1960) che non ebbe seguito. La prima produsse quattro Convenzioni di Ginevra: la Convenzione sul mare territoriale e la zona contigua, la Convenzione sull’alto mare, la Convenzione sulla pesca e la conservazione delle risorse biologiche dell’alto mare, la Convenzione sulla piattaforma continentale. Dalla seconda è sortita la Convenzione di Montego Bay (1982, in vigore solo dal 1994), composta di 320 articoli ed integrata da un Accordo applicativo che modifica la parte XI relativa al regime delle risorse sottomarine al di là dei limiti della giurisdizione nazionale; il motivo del ritardo è stato il rifiuto degli Stati industrializzati di vincolarsi alla parte XI: con l’entrata in vigore dell’Accordo applicativo, è stata ratificata da 149 Paesi, tra cui non figurano però gli Stati Uniti; la Convenzione di Montego Bay, largamente riproduttiva del diritto consuetudinario, sostituisce le quattro Convenzioni di Ginevra.

Per vari secoli il diritto internazionale marittimo è stato dominato dal principio della libertà dei mari. Tale principio si affermò nel corso dei secoli XVII e XVIII. Furono gli olandesi a promuoverne l’osservanza, inducendo Inghilterra, Spagna e Portogallo ad abbandonare le pretese al c.d. dominio dei mari. Il singolo Stato non può impedire e neanche soltanto intralciare l’utilizzazione degli spazi marini da parte di altri Stati. Tale utilizzazione incontra il solo limite del rispetto della pari libertà altrui: essa non può essere spinta dal singolo Stato fino al punto di sopprimere ogni possibilità di utilizzazione da parte degli altri Paesi. In contrapposizione alla libertà dei mari si è sempre manifestata la pretesa degli Stati ad assicurarsi un certo controllo delle acque adiacenti alle proprie coste. Ancora nella seconda metà del XIX secolo sostanzialmente estranea era la figura del mare territoriale, intesa come una fascia di mare costiero addirittura equiparata al territorio dello Stato. La tendenza si è invertita ed il vecchio principio della libertà dei mari oggi non appare più come la regola prima e generale ma semmai come una delle regole che compongono il diritto internazionale marittimo. Gli anni successivi alla seconda guerra mondiale hanno visto la generale accettazione della dottrina Truman, enunciata dal Presidente statunitense in famoso proclama del 1945 in tema di piattaforma continentale: tale proclama rivendicava agli Stati Uniti il controllo e la giurisdizione sulle risorse della piattaforma, cioè di quella parte del fondo e del sottosuolo marino, talvolta estesa per centinaia di miglia marine, che costituisce il prolungamento della terra emersa e che pertanto si mantiene a profondità costante prima di precipitare negli abissi. Dagli inizi degli anni Ottanta la prassi si è infine orientata a favore dell’istituto della c.d. zona economica esclusiva, estesa fino a duecento miglia marine dalla costa: tutte o quasi tutte le risorse della zona sono considerate di pertinenza dello Stato costiero. Cile, Argentina e Canada hanno cominciato negli ultimi anni a dichiarare di voler tutelare i loro interessi in materia di conservazione della specie ittica in alto mare anche al di là delle rispettive zone economiche esclusive, anche senza procedere ad una rivendicazione di giurisdizione esclusiva in materia di pesca: si parla di mare presenziale (presential sea) per indicare la presenza dello Stato costiero ai fini della lotta contro la depredazione della fauna marina.

 

31. Il mare territoriale e la zona contigua.

Il mare territoriale è, secondo il diritto internazionale consuetudinario, sottoposto alla sovranità dello Stato costiero così come il territorio di terraferma. L’acquisto della sovranità è automatico: la sovranità esercitata sulla costa implica la sovranità sul mare territoriale. La Convenzione di Montego Bay fissa il limite massimo del mare territoriale a 12 miglia marine dalla costa. Secondo una dottrina formatasi fra le due guerre mondiali, lo Stato costiero avrebbe il diritto di esercitare poteri di vigilanza doganale in una zona contigua al mare territoriale. L’art. 33 della Convenzione stabilisce che “In una zona dell’alto mare contigua al suo mare territoriale, lo Stato costiero può esercitare il controllo necessario in vista: a) di prevenire la violazione delle proprie leggi di polizia doganale, fiscale, sanitaria o di immigrazione…; b) di reprimere le violazioni delle medesime leggi, qualora siano state commesse sul suo territorio o nel suo mare territoriale…”; l’art. 303 stabilisce che nella zona contigua lo Stato costiero possa controllare l’attività di rimozione di reperti archeologici. La larghezza massima della zona contigua è fissata a 24 miglia marine. Limitatamente alla vigilanza doganale, si può ritenere però che il potere dello Stato incontri un limite non spaziale, ma funzionale: lo Stato può far tutto ciò che vuole per prevenire e reprimere il contrabbando nelle acque adiacenti alle sue coste, a distanza anche maggiore di 24 miglia marine, purché non si tratti di una distanza tale da far perdere qualsiasi idea di adiacenza. Infatti, quando si vuole sostenere a tutti i costi che la vigilanza doganale possa essere esercitata soltanto entro spazi determinati, si è soliti ricorrere alla teoria dellapresenza costruttiva’, ossia alla tesi secondo cui la nave che abbia contatti con la costa è come se si trovasse negli spazi sottoposti al potere di governo dello Stato costiero: tale teoria è una pura finzione.

L’art. 5 della Convenzione fissa il principio generale secondo cui la linea di base per la misurazione del mare territoriale è data dalla linea di bassa marea. L’art. 7 riconosce la possibilità di derogare a detto principio ricorrendosi al sistema delle linee rette: la linea di base del mare territoriale non è segnata seguendo le sinuosità della costa ma congiungendo i punti sporgenti di questa o, se vi sono isole prossime alla costa, congiungendo le estremità delle isole; la linea di base non deve “discostarsi in misura apprezzabile dalla direzione generale della costa”, le acque situate all’interno della linea devono essere “sufficientemente legate al dominio terrestre per essere sottoposte al regime delle acque interne” e si può tenere conto degli “interessi economici attestati da un lungo uso” delle regioni costiere. L’art. 10 riguarda le baie. Se la distanza fra i punti naturali d’entrata della baia non supera le 24 miglia, il mare territoriale viene misurato a partire dalla linea che congiunge detti punti e tutte le acque della baia sono considerate come acque interne; se la distanza eccede le 24 miglia, può tracciarsi all’interno della baia una linea retta, sempre di 24 miglia, in modo tale da lasciare come acque interne la maggior superficie di mare possibile. Sono considerate baie solo le insenature che penetrino in profondità nella costa: ne consegue che i golfi, le baie ed ogni altra insenatura che abbiano magari una lunga linea di entrata ma non presentino una profonda rientranza nella costa, non ricadono sotto l’art. 10 e possono essere chiusi interamente. L’art. 10 fa salve poi le ‘baie storiche’, cioè quelle su cui lo Stato costiero possa vantare diritti esclusivi consolidatisi nel tempo grazie all’acquiescenza degli altri Stati.

L’Italia ha adottato il sistema delle linee rette lungo tutte le coste peninsulari e delle isole maggiori (D.P.R. n. 816/77). Di dubbia legittimità internazionale è la chiusura del Golfo di Taranto, che ha un’apertura di circa 60 miglia ed è una vera e propria baia ai sensi dell’art. 10.

Il primo limite ai poteri che spettano allo Stato costiero nel mare territoriale è costituito dal c.d. diritto di passaggio inoffensivo o innocente da parte delle navi straniere. Per gli artt. 17 ss. della Convenzione di Montego Bay ogni nave straniera ha diritto al passaggio inoffensivo nel mare territoriale, sia per traversarlo, sia per entrare nella acque interne, sia per prendere il largo provenendo da queste, e purché il passaggio sia “continuo e rapido”; il passaggio è inoffensivo “finché non reca pregiudizio alla pace, al buon ordine o alla sicurezza dello Stato costiero”. Se il passaggio non è inoffensivo (manovre con armi, propaganda ostile, inquinamento, pesca, ecc.), lo Stato costiero può prendere tutte le misure atte ad impedirlo.

Eccezionalmente lo Stato costiero può anche chiudere al traffico per motivi di sicurezza determinate zone del mare territoriale, purché pubblicizzi adeguatamente la chiusura e non effettui discriminazioni fra navi di diversa nazionalità. Tali norme si applicano anche alle navi da guerra, salvo l’obbligo per i sottomarini di navigare in superficie. Il diritto di passaggio è maggiormente tutelato negli stretti che, non superando l’ampiezza di 24 miglia, sono costituiti interamente dai mari territoriali degli Stati costieri; quando gli stretti uniscono zone di mare in cui la libertà di navigazione è assicurata, le navi hanno un diritto di passaggio in transito, passaggio che non può essere sospeso o intralciato; quando invece gli stretti uniscono il mare territoriale di uno Stato al mare territoriale o alla zona esclusiva di un altro Stato, le navi hanno un semplice diritto di passaggio inoffensivo.

Un altro limite riguarda l’esercizio della giurisdizione penale sulle navi straniere. Essa non può esercitarsi in ordine a fatti puramente interni alla nave straniera, cioè a fatti che non siano idonei a turbare il normale svolgimento della vita della comunità territoriale. L’art. 27 della Convenzione si discosta dal diritto consuetudinario prescrivendo che lo Stato costiero “non dovrebbe” esercitare la giurisdizione sui fatti interni e quindi sembra lasciare arbitro lo Stato di decidere se esercitare o meno la propria potestà punitiva.

 

32. La piattaforma continentale. La zona economica esclusiva.

Gli anni successivi alla seconda guerra mondiale segnano l’inizio della corsa all’accaparramento delle risorse marine. Tale tendenza si è risolta nella generale accettazione della dottrina della piattaforma continentale e, più recentemente, dell’istituto della zona economica esclusiva. La prima, enunciata dal Presidente americano Truman nel 1945, venne recepita dalla Convenzione di Ginevra sulla piattaforma continentale (1958) ed è stata trasfusa nella Convenzione di Montego Bay. La seconda si è affermata nella Terza Conferenza sul diritto del mare (1973). Entrambe sono avallate dalla consuetudine. L’Italia non ha introdotto la zona economica esclusiva, con il risultato che zone di altri Stati (ad es. la Tunisia) arrivano a lambire il nostro mare territoriale.

Ferma restando la libertà di tutti gli Stati di utilizzare le acque e lo spazio atmosferico sovrastanti, lo Stato costiero ha, al di là del mare territoriale, il diritto esclusivo di sfruttare tutte le risorse della piattaforma continentale. Il diritto esclusivo di sfruttamento è acquistato dallo Stato costiero in modo automatico, cioè a prescindere da qualsiasi occupazione effettiva della piattaforma. Il diritto sulla piattaforma, a differenza del diritto di sovranità sul territorio e sul mare territoriale, ha natura funzionale: lo Stato costiero può esercitare il proprio potere di governo non per disciplinare qualsiasi aspetto della vita sociale, ma solo nella misura strettamente necessaria per controllare e sfruttare le risorse della piattaforma. Circa la delimitazione della piattaforma tra Stati che si fronteggiano o tra Stati contigui, la Convenzione di Ginevra stabiliva che, sia nel caso di delimitazione frontale che nel caso di delimitazione laterale, e salva diversa volontà delle parti, dovesse ricorrersi al criterio dell’equidistanza. Secondo la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia nel caso della delimitazione della piattaforma continentale del Mare del Nord (1969), il criterio dell’equidistanza non è imposto dal diritto internazionale consuetudinario, con la conseguenza che la delimitazione potrà essere effettuata solo mediante accordo fra Stati interessati: l’accordo deve ispirarsi a principi di equità. Prima che l’accordo sia concluso, nessuno Stato può pretendere, nei confronti dei vicini, l’uso esclusivo delle zone di piattaforma controverse. Subordinare un accordo all’equità non serve comunque a renderlo invalido se i criteri applicati siano iniqui, a meno di non ritenere che l’equità assurga a regola di jus cogens, il che è da escludere.

La zona economica esclusiva può estendersi fino a 200 miglia marine, limite calcolato a partire dalla linea di base del mare territoriale. La delimitazione è rimessa all’accordo fra Stati frontisti o contigui. Allo Stato costiero è attribuito il controllo esclusivo su tutte le risorse economiche della zona, sia biologiche che minerali, sia del suolo e del sottosuolo delle acque sovrastanti. La pesca è la risorsa di maggior rilievo. Tale attribuzione di risorse allo Stato costiero non deve pregiudicare la partecipazione degli altri Stati alle possibili utilizzazioni della zona: tutti gli Stati continueranno a godere della libertà di navigazione, di sorvolo, di posa di condotte e di cavi sottomarini. Si tratta di un regime non improntato né alla libertà di tutti gli Stati né alla sovranità dello Stato costiero: i diritti, sia dello Stato costiero che degli altri Stati, hanno carattere funzionale, nel senso che sia all’uno che agli altri sono consentite solo quelle attività indispensabili rispettivamente allo sfruttamento delle risorse e alle comunicazioni e ai traffici marittimi ed aerei. I poteri dello Stato costiero nell’ambito della zona economica esclusiva si confondono con quelli esercitabili in base alla dottrina della piattaforma continentale. Solo oltre le 200 miglia, pertanto, e sempre che la piattaforma si estenda geologicamente oltre tale limite, si pone il problema se lo Stato costiero possa mantenervi la propria giurisdizione. La Convenzione di Montego Bay, conformemente alla communis opinio, stabilisce di sì, aggiungendo che una parte di quanto lo Stato ricavi dallo sfruttamento  delle zone situate fra le 200 miglia e il limite estremo della piattaforma (c.d. margine continentale) debba essere versata all’Autorità internazionale dei fondi marini. I Paesi che non hanno accesso al mare (c.d. land-locked States) “hanno il diritto di partecipare, su basi equitative, allo sfruttamento di una parte appropriata delle risorse biologiche eccedentarie delle zone economiche esclusive degli Stati costieri della stessa regione o sotto-regione”.

 

33. Il mare internazionale e l’area internazionale dei fondi marini.

Il mare internazionale è l’unica zona in cui trova ancora applicazione il vecchio principio della libertà dei mari. Tutti gli Stati hanno il diritto di trarre dal mare internazionale tutte le utilità che questo può offrire, con l’unico limite di non spingere l’utilizzazione degli spazi marini fino al punto di sopprimere le possibilità degli altri Paesi. Circa le risorse minerarie del fondo e del sottosuolo del mare internazionale (noduli e solfati polimetallici, croste di ferro e manganese), una risoluzione dell’Assemblea generale dell’ONU (1970) le ha dichiarate “patrimonio comune dell’umanità”. È stata creata l’Autorità internazionale dei fondi marini, di cui si occupa la parte XI della Convenzione di Montego Bay nonché l’Accordo applicativo. Quest’ultimo modifica, in senso favorevole agli Stati industrializzati, la parte XI della Convenzione ed è stato applicato in via provvisoria anche a quegli Stati firmatari che non hanno dichiarato di non volervi partecipare prima della ratifica; in tal modo l’Accordo è stato applicato agli Stati Uniti: ma, essendo l’applicazione provvisoria prevista per un periodo limitato e non avendo questo Paese ancora ratificato la Convenzione, la sua partecipazione è cessata nel 1998. Gli organi principali dell’Autorità sono l’Assemblea, il Consiglio, il Segretariato e l’Impresa; quest’ultima è un organo operativo attraverso il quale l’Autorità partecipa direttamente alla sfruttamento: ogni sito di sfruttamento è diviso in due parti, l’uno attribuita allo Stato che abbia individuato l’area e l’altra attribuita all’Impresa, che agirà nel quadro di joint ventures. L’Autorità ha per ora un rilievo assai limitato, nessuna attività di sfruttamento essendo stata intrapresa a causa della sua antieconomicità.

 

34. La navigazione marittima.

Ogni nave è sottoposta esclusivamente al potere dello Stato di cui ha la nazionalità (Stato della bandiera). Tale principio si esprimeva un tempo dicendosi che la nave è territorio della Stato. Lo Stato nazionale ha diritto all’esercizio esclusivo del potere di governo sulla comunità navale. Esso esercita siffatto potere attraverso il comandante o attraverso le proprie navi da guerra. Il comandante di una nave, anche privata, è da considerare, dal punto di vista del diritto internazionale, come organo dello Stato ed ha pertanto poteri coercitivi limitatamente agli eventi che si verificano nel corso della navigazione, salvo il rispetto degli obblighi relativi al trattamento degli stranieri che si trovino a bordo. Un’eccezione fermamente stabilita dal diritto consuetudinario è quella che concerne la pirateria: la nave che commette atti di violenza contro le altre navi a fini di preda o altri fini non politici, può essere catturata da qualsiasi Stato e sottoposta a misure repressive quali la punizione dei membri dell’equipaggio e di coloro che hanno partecipato all’atto di pirateria, la confisca della nave o del carico, ecc. L’art. 110 della Convenzione di Montego Bay ammette un limitato diritto di visita della navi altrui in alto mare da parte delle navi da guerra; una nave da guerra che incontri in alto mare una nave mercantile non può fermarla, a meno che non abbia seri motivi per sospettare: “(a) che la nave pratichi la prateria; (b) che la nave pratichi la tratta degli schiavi; (c) che dalla nave partano trasmissioni radio o televisive rivolte al grande pubblico e non autorizzate; (d) che la nave non abbia la nazionalità di alcuno Stato; (e) che la nave, pur battendo bandiera straniera o rifiutandosi di issare la bandiera, abbia la stessa nazionalità della nave da guerra”; se i sospetti si rivelano infondati e sempre che la nave non abbia commesso alcun atto tale da giustificarli, la nave medesima deve essere indennizzata per qualsiasi perdita o danno.

Nella propria zona economica esclusiva lo Stato costiero può esercitare sulle navi altrui tutti i poteri connessi allo sfruttamento delle risorse (ad es. visita, cattura del carico, comminazione di sanzioni penali per infrazioni alle proprie leggi sulla pesca, ecc.), nell’osservanza del principio funzionale, per cui non sono giustificabili misure coercitive sproporzionate alle infrazioni commesse. Nel proprio mare territoriale lo Stato costiero può esercitare il proprio potere di governo sulle navi altrui, con gli unici limiti costituiti dal passaggio inoffensivo e dalla sottrazione alla giurisdizione penale dello Stato costiero dei fatti puramente interni alla comunità navale.

Eccezione al principio della sottoposizione della nave all’esclusivo potere dello Stato della bandiera è la regola relativa al c.d. diritto di inseguimento: le navi da guerra o adibite a servizi pubblici, appartenenti allo Stato costiero, possono inseguire una nave straniera che abbia violato le leggi di tale Stato purché l’inseguimento abbia avuto inizio nella acque interne o nel mare territoriale oppure nella zona contigua, nella zona economica esclusiva o nella acque sovrastanti la piattaforma continentale (ma in queste ultime tre zone limitatamente all’inosservanza delle misure ivi consentite allo Stato costiero); l’inseguimento deve essere continuo e sulla nave così catturata potranno essere esercitati quei poteri esercitabili nella zona in cui l’inseguimento ha avuto inizio; l’inseguimento deve cessare se la nave entra nel mare territoriale di un altro Stato.

L’art. 91 della Convenzione di Montego Bay stabilisce che ogni Stato fissa le regole per l’immatricolazione delle navi nei propri registri navali, ma aggiunge che “deve esistere un legame sostanziale [genuine link] tra lo Stato e la nave”; l’art. 94 precisa che il primo “esercita effettivamente la sua potestà di governo e il suo controllo in campo amministrativo, tecnico e sociale” sulla seconda. Tale regola corrisponde al diritto internazionale generale. La Convenzione ONU sulle condizioni di immatricolazione delle navi (1986) richiede che alla proprietà della nave partecipi un numero di cittadini dello Stato di immatricolazione “sufficiente” per assicurare a quest’ultimo il controllo effettivo sulla nave, o che l’equipaggio sia formato per una quota “soddisfacente” da cittadini o residenti abituali nello Stato di immatricolazione.

 

35. La protezione dell’ambiente marino e del patrimonio culturale sottomarino.

La Convenzione di Montego Bay dedica all’inquinamento una normativa-quadro che consta di più di quaranta articoli, che impegnano gli Stati a collaborare fra di loro. Non vi sono, secondo la prassi, obblighi relativi alla produzione di danni da inquinamento agli spazi marini di altri Stati; deve ritenersi che l’art. 192, che dichiara che “gli Stati hanno il dovere di proteggere e preservare l’ambiente marino”, sancisca un principio non codificatorio ma tendente allo sviluppo progressivo del diritto internazionale; l’art. 235, in tema di responsabilità da inquinamento, si preoccupa soltanto che gli Stati predispongano al loro interno sistemi adeguati di ricorsi per un congruo risarcimento dei danni. Gli accordi contengono invece tutta una serie di divieti dettagliati di comportamenti capaci di inquinare le acque marine. Circa il potere di governo sulle navi per impedire fenomeni di inquinamento, ad imporre divieti ed a comminare sanzioni saranno lo Stato della bandiera e, nelle zone sottoposte a giurisdizione nazionale, lo Stato costiero: quest’ultimo potrà esercitare il proprio potere sulle navi altrui solo per prevenire o reprimere attività inquinanti delle proprie acque interne o territoriali; nella zona economica esclusiva tale potere sarà circoscritto alle attività inquinanti suscettibili di danneggiare le risorse naturali. L’art. 221 della Convenzione di Montego Bay ammette la possibilità per uno Stato di intervenire eccezionalmente su una nave altrui nel mare internazionale per prendere misure strettamente idonee ad impedire o ad attenuare i danni al proprio litorale, derivanti da un incidente già avvenuto; la prassi che si è sviluppata dall’epoca dell’incidente della Torrey Canion (1967), al largo delle coste britanniche, conferma questo punto di vista.

36. Gli spazi aerei e cosmici.

Le norme sulla navigazione aerea si sono andate modellando su quelle relative alla navigazione marittima: esse furono dapprima dedotte per analogia dal diritto del mare, ma poi si sono andate consolidando per consuetudine. Due principi generali sono sempre stati affermati in materia di navigazione aerea. Il primo, sancito anche dall’art. 1 della Convenzione di Chicago, istitutiva dell’ICAO, prevede che la sovranità della Stato si estenda alla spazio atmosferico sovrastante il territorio ed il mare territoriale. Per il secondo, lo spazio che non sovrasta il territorio ed il mare territoriale dello Stato, deve restare libero dall’utilizzazione di tutti i Paesi, con la conseguenza che ciascuno Stato esercita il proprio, esclusivo potere di governo sugli aerei aventi la sua stessa nazionalità. Sono due principi modellati rispettivamente sul principio che sancisce l’estensione della sovranità dello Stato nei mari costieri e sul principio della libertà dei mari. Lo Stato territoriale può regolare il sorvolo, quindi stabilire le zone che non vanno sorvolate, indicare le rotte, impedire il sorvolo ad aerei stranieri. Quando l’aereo straniero sorvola il territorio dello Stato, tutto ciò che riguarda la vita della comunità aerea, tutto ciò che non implica alcun contatto con la comunità territoriale, la vita di bordo, sfugge al diritto di controllo da parte dello Stato territoriale. Dopo l’introduzione dei motori a reazione ed il conseguente aumento della velocità degli aerei, è invalsa la prassi delle c.d. zone di identificazione, zone che si estendono anche per centinaia di miglia nello spazio sovrastante l’alto mare intorno alle coste: gli Stati costieri impongono agli aerei stranieri che entrano in dette zone e che sono diretti verso le coste, l’obbligo di sottoporsi alla identificazione, alla localizzazione e ad altre misure di controllo esercitate da terra; gli aerei che tentino di sottrarsi all’osservanza di simili obblighi si espongono a diverse sanzioni, come l’essere intercettati in volo ed essere costretti ad atterrare o addirittura l’essere abbattuti.

Alla navigazione cosmica è applicabile anzitutto, per analogia, il principio sulla libertà di sorvolo degli spazi nullius: negli spazi cosmici vi è libertà di navigazione. Lo Stato che lancia il satellite o la nave spaziale ha diritto al governo esclusivo di questi ultimi. Non è applicabile invece il principio dell’estensione della sovranità dello Stato territoriale, non avendo neanche senso parlare di ‘sorvolo’ del territorio: nella prassi, mai lo Stato che ha lanciato satelliti si è ritenuto obbligato a richiedere il preventivo assenso di altri Stati. Fondamentale è il Trattato ONU sui principi relativi alle attività degli Stati in materia di esplorazione ed utilizzazione dello spazio extra-atmosferico, inclusi la Luna e gli altri corpi celesti (1967); oltre a confermare che lo spazio extra-atmosferico non è sottoposto alla sovranità di alcuno Stato, ne sancisce la denuclearizzazione, definisce gli astronauti come “inviati dell’umanità”, impegnando gli Stati a dar loro assistenza in caso di incidenti, pericolo o atterraggio di emergenza, prevede la responsabilità dello Stato nazionale e dello Stato dal cui territorio un oggetto spaziale è lanciato, per i danni procurati alle attività cosmiche, ed attribuisce allo Stato nel quale l’oggetto è registrato piena “giurisdizione e controllo” sull’oggetto medesimo. Vige la libertà di utilizzazione dello spazio a fini di radio e telecomunicazione, libertà che incontra il consueto limite del rispetto delle pari libertà altrui; tale limite assume maggior rilievo in presenza di risorse limitate, quali sono lo spettro delle onde radio e l’orbita geostazionaria (l’orbita circolare intorno all’equatore, nella quale i satelliti ruotano con lo stesso periodo di rotazione della terra, restando praticamente fissi rispetto a questa).

37. Le regioni polari.

Come spazi non soggetti alla sovranità di alcuno Stato vanno considerate le regioni polari; circa l’Antartide, può parlarsi di territorio internazionalizzato, nel senso che in esso non vige solo un regime di libertà ma anche un complesso di norme che ne disciplina l’utilizzazione; circa l’Artide non sono mancate le pretese di sovranità basate sulla c.d. teoria dei settori, per la quale gli Stati i cui territori si estendono al di là del circolo polare dovrebbero considerarsi come sovrani di tutti gli spazi, sia terrestri che marittimi, inclusi in un triangolo avente il vertice nel Polo Nord e la base in una linea che congiunge i punti estremi delle coste di ciascuno Stato. La pretese di sovranità sui territori polari sono sempre state respinte dalla maggioranza degli Stati in quanto non sorrette dall’effettività dell’occupazione. La mancanza di sovranità territoriale comporta che ciascuno Stato eserciti il proprio potere sulle comunità che ad esso fanno capo; circa le comunità navali, si tratta del normale potere dello Stato della bandiera; nel caso di spedizioni scientifiche o di basi su terraferma, lo Stato che le organizza esercita il proprio potere su tutte le persone, cittadini o stranieri, che le compongono (con l’eccezione del personale scientifico scambiato fra le basi, nonché degli osservatori inviati a controllare il rispetto del Trattato sull’Antartide, che sono sottoposti ai rispettivi Stati nazionali). L’Antartide è stato internazionalizzato con il Trattato di Washington sull’Antartide (1959), di cui sono Parti contraenti le maggiori Potenze mondiali (fra cui l’Italia e i sette Paesi rivendicanti la sovranità, i c.d. claimant States: Argentina, Cile, Australia, Nuova Zelanda, Francia, Gran Bretagna, Norvegia). L’art. IV congela le pretese alla sovranità, consentendo al regime internazionale di funzionare; le caratteristiche dell’internazionalizzazione sono: l’interdizione di ogni attività di carattere militare, in particolare di ogni esperimento nucleare, la libertà di ricerca scientifica, la cooperazione nell’attività di ricerca. Il Trattato distingue due categorie di Stati contraenti: le Parti consultive, aventi uno status di netto privilegio rispetto alle altre, e le Parti non consultive. Le prime, costituite dagli originari firmatari del Trattato nonché da quegli Stati che “dimostrino il loro interesse per l’Antartide conducendovi attività sostanziale di ricerca scientifica, in particolare stabilendovi basi o inviando spedizioni”, hanno il diritto esclusivo di decidere (all’unanimità ma con effetti vincolanti) su tutte le questioni rientranti nell’oggetto del Trattato e di condurre ispezioni, su navi, basi, personale e materiale altrui al fine di controllare l’osservanza del Trattato. L’Italia ha acquisito lo status di Parte consultiva nel 1987, avendo intrapreso attività di ricerca scientifica nel Continente. Il regime internazionale dell’Antartide vincola solo le Parti contraenti: per gli Stati terzi il regime che vige è soltanto quello di libertà. In alcune risoluzioni prese a maggioranza, l’Assemblea generale dell’ONU ha dichiarato le risorse del Continente “patrimonio comune dell’umanità”.

 

PARTE TERZA

L’APPLICAZIONE DELLE NORME INTERNAZIONALI ALL’INTERNO DELLO STATO

38. L’adattamento del diritto statale al diritto internazionale.

L’osservanza del diritto internazionale da parte di uno Stato deve ritenersi affidata in primo luogo agli operatori giuridici, ed in particolare agli organi statali: di fronte ai mezzi interni, i mezzi di cui la comunità internazionale dispone per costringere uno Stato ad osservare il diritto internazionale sono assai scarsi ed imperfetti. Circa il modo in cui il diritto internazionale viene nazionalizzato, nel caso del procedimento ordinario l’adattamento avviene mediante norme statali (costituzionali, legislative, amministrative) che riformulano quelle internazionali; nel caso del procedimento speciale (o procedimento mediante rinvio) gli organi preposti alle funzioni normative si limitano ad ordinare l’osservanza della o delle norme internazionali medesime; esempi sono l’art. 101 Cost., che adotta un procedimento speciale di adattamento a tutte le norme di diritto internazionale generale e quindi alle norme consuetudinarie, e l’ordine di esecuzione di un trattato, che di solito viene dato con legge (la stessa che autorizza la ratifica del trattato) e rinvia alle norme contenute nel trattato medesimo. Dal punto di vista del diritto internazionale, il procedimento speciale è di gran lunga quello preferibile: infatti, nel caso del procedimento ordinario, l’interprete si trova davanti ad una norma che in nulla differisce dalle altre norme statali se non per il motivo che l’ha ispirata (occasio legis) e potrà tenere conto della norma internazionale solo se abbia dubbi circa l’esatta interpretazione della medesima; nel caso del procedimento speciale, è invece l’interprete che deve ricostruire il contenuto della norma internazionale e che deve stabilire se la norma vige o si sia estinta, se sia stata illegittimamente emanata o meno (l’interprete potrà sbagliare nella sua ricostruzione, ma l’errore avrà valore solo per il singolo caso concreto). Il procedimento ordinario è indispensabile quando la norma internazionale non è direttamente applicabile (non è self-executing). I due procedimenti possono coesistere: ciò accade quando si dà l’ordine di esecuzione di un trattato e successivamente si provvede agli atti di integrazione delle norme non self-executing contenute.

Una volta introdotte nell’ordinamento interno, le norme internazionali sono fonti di diritti ed obblighi per gli organi statali e per tutti i soggetti pubblici e privati che operano all’interno dello Stato. La nozione di norma non self-executing va rigorosamente circoscritta a tre casi: al caso in cui la norma attribuisca semplici facoltà agli Stati; al caso in cui una norma, pur imponendo obblighi, non possa ricevere esecuzione in quanto non esistono gli organi e le procedure interne indispensabili alla sua applicazione; al caso in cui la sua applicazione comporti particolari adempimenti di carattere costituzionale (ad es. norme che comportano oneri finanziari straordinari o norme a contenuto penalistico). È da censurare il comportamento di molti Paesi che, per non applicare norme ‘indesiderate’, qualificano come non self-executing le norme di una convenzione (come ha fatto, ad es., la Germania per escludere la diretta applicabilità delle norme del GATT); così come è da respingere l’opinione che un trattato non sia self-executing se prevede che, in caso di difficoltà nell’applicazione, debba farsi ricorso a procedure di conciliazione: dal che dovrebbe dedursi la ‘flessibilità’ delle sue disposizioni. In realtà, in casi del genere, lo Stato contraente può adottare misure non conformi al trattato ma, finché esse non siano prese, il trattato deve ricevere applicazione all’interno dello Stato. Neppure può ritenersi che costituisca un impedimento alla diretta applicabilità di un trattato il fatto che questo contenga una clausola di esecuzione (clause of implementation), ossia preveda che gli Stati contraenti adotteranno tutte le misure di ordine legislativo o altro per dare effetto alle sue disposizioni.

Il rango che assumono le norme internazionali introdotte nella gerarchia delle fonti interne tende a corrispondere alla forza che, nella gerarchia delle fonti, ha il procedimento, ordinario o speciale, di adattamento. Se a procedere all’adattamento è il Costituente (come avviene per il diritto internazionale generale ad opera dell’art. 101 Cost.), le norme internazionali così introdotte avranno rango costituzionale; se a procedere all’adattamento è il legislatore ordinario (come avviene per i trattati), le norme internazionali così introdotte avranno rango di legge ordinaria; e così via.

39. L’adattamento al diritto internazionale consuetudinario.

L’adattamento al diritto internazionale generale avviene in Italia a livello costituzionale, grazie all’art. 101 Cost., secondo cui “L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”. È dunque previsto un procedimento di adattamento speciale o mediante rinvio. Il Costituente ha voluto rimettere in tutto e per tutto all’interprete interno la rilevazione e l’interpretazione del diritto internazionale generale, limitandosi ad affermare la propria volontà che l’adattamento sia automatico, cioè completo e continuo: le norme internazionali generali valgono all’interno dello Stato se e finché vigono nell’ambito della comunità internazionale. Tali norme si situano ad un livello superiore alla legge ordinaria che, pertanto, risulterà costituzionalmente illegittima, in quanto violerà indirettamente l’art. 10 Cost., se contraria al diritto internazionale consuetudinario. Si ritiene che, prescrivendo l’art. 101 Cost. l’adattamento “dell’ordinamento giuridico italiano” al diritto internazionale generale, esso intenda escludere che il diritto consuetudinario sia subordinato al diritto costituzionale; con la conseguenza che il primo prevarrà sul secondo a titolo di diritto speciale (concetto di specialità del diritto internazionale rispetto al diritto interno). In ogni caso, lo stesso art. 10 Cost., se interpretato sistematicamente, contiene una clausola implicita di salvaguardia dei valori fondamentali che ispirano la nostra Costituzione: l’art. 10 Cost. non può né vuole dare un’esecuzione del diritto consuetudinario all’interno dello Stato spinta fino al limite di rottura con quei valori.

40. L’adattamento ai trattati e alle fonti derivate dai trattati.

La nostra Costituzione non contiene una norma generale che preveda l’adattamento ai trattati e alle fonti da essi derivate. L’adattamento alle norme pattizie internazionali avviene con un atto ad hoc relativo ad ogni singolo trattato, l’ordine di esecuzione, il quale è un procedimento speciale o di rinvio; esso si esprime solitamente con la formulaPiena ed intera esecuzione è data al Trattato X…” ed è accompagnato dalla riproduzione del testo dell’accordo. È dato di solito con legge ordinaria, ma può essere dato anche con atto amministrativo quando l’accordo riguarda materie regolabili discrezionalmente dalla Pubblica Amministrazione. Normalmente è la stessa legge che, ai sensi dell’art. 80 Cost., autorizza la ratifica del trattato da parte del Capo dello Stato, contiene l’ordine di esecuzione. La giurisprudenza è unanime nel ritenere che, in difetto dell’ordine di esecuzione, il trattato non abbia valore per l’ordinamento interno, ma può essergli assegnata una funzione ausiliaria sul piano interpretativo: può essere invocato per dare alle norme interne un’interpretazione il più possibile ad esso conforme.

Le norme convenzionali così introdotte nell’ordinamento italiano hanno un rango pari alla posizione che nel sistema delle fonti occupa l’atto normativo in cui l’ordine di esecuzione è contenuto. Fino all’entrata in vigore della L. cost. n. 3/2001, che ha modificato il Titolo V della Parte II della Costituzione, doveva ritenersi che i rapporti fra le norme convenzionali immesse e le norme delle altre leggi ordinarie fossero rapporti fra norme di pari rango (regolati quindi dai principi per cui la legge posteriore abroga la legge anteriore e la legge speciale prevale sulla legge comune); l’art. 3 di suddetta legge stabilisce invece che la legislazione statale deve esercitarsi “nel rispetto…dei vincoli…internazionali”, sancendo così una preminenza degli obblighi internazionali sulla legislazione ordinaria. Deve dunque ritenersi viziata da illegittimità costituzionale la legge ordinaria che non rispetti i vincoli derivanti da un trattato. L’intervento della Corte costituzionale, alla luce dell’art. 3, non può che essere, comunque, eccezionale, giacché la prevalenza del trattato sulle leggi interne anche posteriori va attuata anzitutto sul piano interpretativo. A tal fine è utilizzato lo strumento della presunzione di conformità delle norme interne al diritto internazionale, criterio in base la quale si ritiene che, se la legge posteriore è ambigua, essa vada interpretata in modo da consentire allo Stato il rispetto degli obblighi internazionali assunti in precedenza. Un altro criterio consiste nel considerare il trattato come diritto speciale ratione materiae o personarum. Vi è infine il criterio, seguito dalla Corti americane e svizzere, secondo cui la legge posteriore prevale solo se vi è una chiara indicazione della volontà del legislatore di contravvenire al trattato, solo se, in altri termini, il legislatore contravviene con piena coscienza di causa: occorre che la norma posteriore intenda ripudiare gli impegni internazionali già contratti. Il trattato internazionale, una volta introdotto nell’ordinamento interno, prevale dunque finché non si dimostri la volontà del legislatore di venir meno agli impegni internazionali; questo principio di carattere interpretativo è un principio di specialità sui generis, di una specialità che non va confusa con quella ratione materiae o ratione personarum: la specialità consiste nel fatto che la norma internazionale è sorretta non solo dalla volontà che certi rapporti siano regolati in un certo modo, quanto dalla volontà che tali obblighi siano rispettati.

La Corte costituzionale ha più volte fatto ricorso a trattati riguardanti la materia costituzionale, ed in particolare alle convenzioni internazionali sui diritti dell’uomo, come ausilio interpretativo di singoli articoli della Costituzione. Ad es. la sent. n. 168/94 dichiara incostituzionali gli artt. 17 e 22 c.p. nella parte in cui non prevedono l’esclusione della pena dell’ergastolo per i minori, in quanto contrari all’art. 312 Cost., secondo cui “[la Repubblica] protegge…l’infanzia…e la gioventù…”: la Corte interpreta tale comma alla luce della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo (esecutiva in Italia dal 1991) che dispone che “…né la pena capitale né l’imprigionamento a vita senza possibilità di rilascio possono essere decretati per reati commessi da persone di età inferiore ai diciotto anni…”.

Circa il problema se l’ordine di esecuzione di un trattato istitutivo di un’organizzazione internazionale implichi l’adattamento alle decisioni delle organizzazioni vincolanti per il nostro Stato, può darsi anzitutto che il trattato preveda espressamente la diretta applicabilità delle decisioni degli organi all’interno degli Stati membri (tale caso si verifica solo con riguardo ai regolamenti delle Comunità europee). Quando il trattato istitutivo dell’organizzazione nulla dispone in materia, il problema va risolto alla luce del diritto interno: la prassi italiana è orientata nel senso dell’adozione di singoli atti di esecuzione per ciascuna decisione vincolante di un organo internazionale; tali atti consistono talvolta in una legge, ma il più spesso in decreti legislativi o in regolamenti amministrativi. Tale prassi non è comunque decisiva per concludere che, prima dell’emanazione degli specifici atti di adattamento, le decisioni degli organi internazionali non abbiano valore per l’ordinamento italiano: l’ordine di esecuzione del trattato istitutivo di una determinata organizzazione, in quanto copre anche la parte del trattato che prevede la competenza di quella organizzazione ad emanare decisioni vincolanti, già attribuisca a queste ultime piena forza giuridica interna. L’emanazioni di singoli atti di adattamento serve ad integrare il contenuto non sempre autosufficiente (non sempre self-executing) della decisione internazionale, ma per quanto riguarda la forza formale delle decisioni, detta emanazione è superflua.

Ad un particolare regime è sottoposta in Italia l’attuazione delle decisioni del Consiglio di Sicurezza, che sono adottate in base all’art. 41 della Carta ONU e che prevedono misure di carattere economico, come l’interruzione totale o parziale dei rapporti commerciali e simili. Nella materia si è radicata la competenza della Comunità europea che provvede all’esecuzione di dette decisioni mediane regolamenti; dato che questi sono direttamente applicabili, l’intervento degli organi italiani è limitato al caso in cui occorra colmare lacune nella normativa comunitaria (ad es. la mancanza di sanzioni amministrative o penali nei confronti di chi violi la decisione).

41. L’adattamento al diritto comunitario.

Ai trattati istitutivi delle Comunità europee e agli accordi successivi che li hanno modificati o integrati, nonché al trattato sull’Unione europea, l’ordinamento italiano si è conformato, come per qualsiasi altro trattato, con un normale ordine di esecuzione dato con legge ordinaria. Sotto la spinta della Corte di Giustizia delle Comunità si è arrivati ad assicurare al diritto comunitario una prevalenza sulle norme nazionali: in Italia si è fatto leva sull’art. 11 Cost., secondo cui l’Italia “consente in condizioni di parità con gli altri Stati alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.

Al Trattato CE si è dato esecuzione con legge. Per effetto dell’ordine di esecuzione hanno acquistato forza giuridica non solo le norme del Trattato, ma automaticamente acquistano la stessa forza, via via che vengono emanate, le norme dei regolamenti comunitari, che sono direttamente applicabili ex art. 249 del Trattato. Tale diretta ed automatica applicabilità dei regolamenti riguarda la loro forza formale: tutti acquistano tale forza e possono creare diritti ed obblighi all’interno del nostro Stato indipendentemente da provvedimenti di adattamento ad hoc; alcuni di essi tuttavia, non essendo self-executing, per quanto riguarda il loro contenuto, abbisognano, per poter produrre i loro effetti, di atti statali esecutivi o integrativi. Prescrivendo l’art. 249 del Trattato CE la diretta applicabilità dei soli regolamenti, le direttive e le decisioni necessitano in ogni caso di atti di adattamento ad hoc. Nella prassi, simili atti possono assumere la veste della legge, del decreto legislativo, del decreto-legge o dell’atto amministrativo; di solito si segue il procedimento ordinario e la norma viene integralmente riformulata. La materia è stata per molti anni disciplinata dalla L. n. 86/89, la c.d. legge La Pergola, ed è ora regolata dalla L. n. 11/2005: si prevede che entro il 31 gennaio di ogni anno il Governo presenti alle Camere un progetto di legge “disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee”, la c.d. legge comunitaria. È da escludere che le direttive e le decisioni siano del tutto inapplicabili prima ed indipendentemente dai provvedimenti interni che le eseguono: l’art. 249 sancisce l’obbligatorietà anche per questi due tipi di atti. Dunque, regolamenti, direttive e decisioni sono tutti sullo stesso piano per quanto concerne la loro diretta applicabilità; l’emanazione di atti interni di esecuzione è necessaria solo quando il regolamento, la direttiva o la decisione sono incompleti; la direttiva, essendo incompleta per definizione, può produrre immediatamente solo gli effetti conciliabili con l’obbligo di risultato. Secondo la Corte, gli effetti diretti delle direttive sono essenzialmente da riportare a tre ipotesi: (a) quando i giudici interni sono chiamati ad interpretare norme nazionali disciplinanti materie oggetto di una direttiva comunitaria, tale interpretazione deve avvenire alla luce della lettera e dello scopo della direttiva medesima; (b) allorché la direttiva chiarisce la portata di un obbligo già previsto dal Trattato, la sua interpretazione può considerarsi vincolante; (c) allorché la direttiva impone allo Stato un obbligo, sia pure di risultato, ma non implicante necessariamente l’emanazione di atti di esecuzione ad hoc, gli individui possono invocarla innanzi ai giudici nazionali per far valere gli effetti che essa si propone. Secondo la Corte, però, imponendo la direttiva ex art. 189 del Trattato CE, obblighi allo Stato, essa può essere invocata solo contro lo Stato (c.d. effetti verticali) e non anche nelle controversie degli individui fra loro (c.d. effetti orizzontali). La Corte ha stabilito che, nel caso di direttive che stabiliscono un termine per loro trasposizione nel diritto interno, lo Stato, che non ha vincoli fino alla scadenza del termine, ha però l’obbligo di non adottare disposizioni che possano compromettere gravemente il risultato prescritto dalla direttiva. L’efficacia diretta è stata riconosciuta dalla Corte comunitaria anche alle decisioni indirizzate agli Stati. Nel caso di direttive non direttamente applicabili che restino inattuate, i singoli possono richiedere il risarcimento del danno che derivi dalla mancata attuazione, purché si tratti di direttive che attribuiscano loro dei diritti; ciò si ricaverebbe dall’art. 10 del Trattato CE, in base al quale gli Stati membri sono tenuti ad adottare le misure necessarie per l’esecuzione degli obblighi comunitari.

Negli ordinamenti degli Stati membri deve riconoscersi efficacia diretta anche agli accordi conclusi dalla Comunità con Stati terzi, sempre che tali accordi contengano norme incomplete, ossia norme che non siano destinate ad essere completate da atti degli organi comunitari; il Trattato CE, cui l’ordinamento italiano si è adattato, prevede che gli accordi stipulati dalla Comunità siano vincolanti “per le istituzioni comunitarie e per gli Stati membri”. Non hanno invece efficacia diretta le decisioni-quadro e neppure le decisioni, categorie di atti che sono adottati dall’Unione europea nell’ambito della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale.

Circa il rango delle norme comunitarie, con la sent. n. 170/84, la Corte costituzionale ha ritenuto che il diritto comunitario direttamente applicabile prevalga sulle leggi interne, sia anteriori che posteriori, e qualsiasi giudice od organo amministrativo deve disapplicare le leggi dello Stato nel caso di conflitto: tutto ciò discenderebbe dall’art. 11 Cost. La tesi affermata dalla Corte in precedenza (sent. n. 232/75) era che le leggi contrarie a norme comunitarie direttamente applicabili concretassero una violazione indiretta dell’art. 11 Cost. e fossero pertanto costituzionalmente illegittime. La tesi fu fortemente osteggiata dalla Corte comunitaria e criticata per i suoi effetti paralizzanti: di fronte ad una norma di legge interna incompatibile con un regolamento comunitario, gli operatori giuridici interni non avrebbero potuto applicare la normativa comunitaria prima che la legge fosse annullata dalla Corte. La Corte di Giustizia delle Comunità europee, nella sent. Simmenthal (1978), aveva sostenuto che gli atti legislativi interni contrari al diritto comunitario dovrebbero addirittura considerarsi come “non validamente formati” e ciò spiega la possibilità di disapplicarli automaticamente, ossia senza ricorrere all’intervento degli organi di giustizia costituzionale. Nella sent. n. 170/84, la Corte costituzionale respinge espressamente la tesi dell’invalidità, la quale, a suo avviso, presupporrebbe un rapporto di tipo federalistico tra diritto interno e diritto comunitario, ma arriva anch’essa al risultato dell’automatica disapplicabilità della norma interna difforme ad opera del giudice comune, attraverso la tesi dell’inoccupabilità, da parte del diritto interno, dello spazio concesso al diritto comunitario. Alla luce di quel principio di specialità nell’interpretazione dei trattati, il trattato o singole sue clausole non possono mai considerarsi abrogati o derogati per incompatibilità da leggi interne successive, l’abrogazione o la deroga potendo derivare solo da una volontà del legislatore diretta a sospendere totalmente o parzialmente l’adempimento degli obblighi assunti dallo Stato sul piano internazionale: l’applicazione del diritto comunitario è assicurata dall’interprete.

La Corte di Giustizia delle Comunità europee ha ritenuto che la tutela dei diritti fondamentali dell’individuo, ancorché non espressamente prevista dai Trattati comunitari, non sia estranea al diritto comunitario, che quivi essa sia rilevabile per sintesi tenendo presenti le “tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri” nonché le convenzioni sui diritti umani vincolanti tali Stati, e che a siffatta sintesi debba procedere essa Corte nella funzione di controllo del rispetto del diritto comunitario; tale prassi della Corte ha trovato esplicito riconoscimento nel Trattato di Maastricht. Un importante strumento cui la Corte può fare riferimento è la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (2000), solennemente proclamata a Nizza dal Consiglio dell’Unione, ma priva di forza vincolante: è da considerare come una sorta di Dichiarazione di principi a livello regionale. La Corte costituzionale italiana, dopo una certa cautela iniziale, con la sent. n. 183/73, ha stabilito che l’ordine comunitario e l’ordine interno costituiscono due sistemi distinti e separati anche se coordinati fra loro; che le norme comunitarie “debbono avere piena efficacia obbligatoria e diretta applicazione in tutti gli Stati membri”; che l’ordinamento comunitario risulta caratterizzato da un proprio complesso di garanzie statutarie e da un proprio sistema di tutela giuridica; che, appartenendo i regolamenti all’autonomo ordinamento della Comunità, essi si sottraggono al controllo di costituzionalità, controllo limitato dall’art. 134 Cost. alle leggi e agli atti aventi forza di legge dello Stato e delle Regioni. Simile evoluzione ha subito la giurisprudenza della Corte costituzionale tedesca: questa, dopo aver più volte dichiarato di non voler rinunciare alla sua funzione di garante del rispetto dei diritti fondamentali in Germania neppure in ordine agli atti comunitari, ha cambiato idea con la c.d. decisione Solange II (1986), nella quale ha promesso che non controllerà più la legislazione comunitaria “fintantoché la Corte di Giustizia delle Comunità europee assicurerà in linea generale una protezione effettiva dei diritti fondamentali”. Entrambe le Corti hanno poi ripreso una certa distanza dalla Corte comunitaria; la prima, nella sent. n. 232/89, si è riservata la possibilità di “verificare…se una qualsiasi norma del Trattato CE, così come essa è interpretata ed applicata dalle istituzioni e dagli organi comunitari, non venga in contrasto con i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale o non attenti ai diritti inalienabili della persona umana”; la seconda, in un’ordinanza (1989), si è riservata di intervenire nei casi in cui non sia assicurato “…lo standard di protezione dei diritti umani considerato come irrinunciabile dalla Legge Fondamentale”.

 

42. L’adattamento al diritto internazionale e le competenze delle Regioni.

La grande maggioranza della dottrina è sostanzialmente d’accordo nel ritenere che ad immettere il diritto internazionale nel nostro ordinamento debba essere il Potere centrale. Tale opinione trova conferma espressa nella Costituzione per quanto riguarda il diritto consuetudinario (art. 101); circa i trattati, la medesima opinione trova conferma nella prassi dell’ordine di esecuzione dato con legge ordinaria. Né cambia la prospettiva l’art. 3 della L. cost. n. 3/2001, modificante l’art. 117 Cost., che prevede che “Le Regioni…nelle materie di loro competenza…provvedono all’attuazione e all’esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’Unione europea, nel rispetto delle norme di procedura stabilite da legge dello Stato, che disciplina le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza”; la disposizione può essere riferita alle competenze in materia di esecuzione delle norme internazionali e comunitarie che le Regioni hanno sì il diritto di esercitare in piena autonomia, ma una volta che queste siano state formalmente introdotte nell’ordinamento interno.

Pacifico è il principio del rispetto, da parte della Regione, degli obblighi internazionali; tale principio è espressamente sancito in taluni Statuti regionali ed è stato considerato come implicito, anche negli Statuti che non ne fanno menzione, dalla Corte costituzionale. Oggi è sancito dalla L. cost. n. 3/2001 che, all’art. 3, obbliga il legislatore regionale al rispetto dei “vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”.

Agli inizi degli anni Settanta, legislatore e Corte costituzionale muovevano dall’idea che tutto ciò che riguardasse l’applicazione del diritto internazionale e del diritto comunitario, rientrando nella materia ‘affari esteri’, fosse di esclusiva competenza dello Stato; se tale competenza non fosse esistita, lo Stato, non disponendo in base alla Costituzione di strumenti che gli consentissero di sostituirsi alle Regioni in caso di inerzia di queste ultime, avrebbe rischiato di essere chiamato a rispondere nei confronti degli altri Stati per omissioni non sue e non da esso eliminabili. Per evitare che le Regioni fossero spogliate delle loro attribuzioni in determinate materie, esse avrebbero dovuto partecipare all’attuazione del diritto internazionale o comunitario solo mediante strumenti, come la delega da parte degli organi centrali, che comunque garantissero allo Stato le facoltà di controllo e di sostituzione. La Corte ha poi finito col riconoscere la competenza autonoma ed originaria delle Regioni a partecipare, per le materie rientranti nelle loro attribuzioni, all’attuazione del diritto internazionale nonché del diritto comunitario direttamente applicabile; d’altro canto ha però continuato a fondarsi sul limite del rispetto degli obblighi internazionali e comunitari per dedurne il potere dello Stato di sostituirsi alle Regioni, quando si tratta di assicurare il puntuale adempimento degli obblighi medesimi. Essa non ha limitato il potere sostitutivo dello Stato al solo caso di inerzia delle Regioni, ma lo ha esteso senza ben definire i suoi confini (ad es. in caso di “urgenza”, o per “esigenze di uniformità sorrette dall’interesse nazionale”, o per non meglio precisate “finalità attuative”). L’art. 3 della L. cost. n. 3/2001 demanda alla legge dello Stato il compito di disciplinare le modalità del potere sostitutivo in caso di inadempienza delle Regioni; l’art. 6 specifica che il potere sostituivo del Governo si esercita “…nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria, oppure di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” e che la legge deve definire “le procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto dei principi di sussidiarietà e di leale collaborazione”.

 

 

PARTE QUINTA

LA VIOLAZIONE DELLE NORME INTERNAZIONALI E LE SUE CONSEGUENZE

 

43. Il fatto illecito e i suoi elementi costitutivi: l’elemento soggettivo.

Al tema della responsabilità degli Stati la dottrina ha dedicato approfondite indagini fin dall’inizio del XX secolo. Dal 1953 la Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite ha intrapreso lo studio dell’argomento. Nel 1980 essa approvò, in prima lettura, la prima parte di un progetto di articoli che si occupava dell’origine della responsabilità, ossia degli elementi dell’illecito internazionale. Il progetto definitivo (Progetto di articoli sulla responsabilità degli Stati per atti illeciti internazionali) ha visto la luce nell’agosto 2001: esso si occupa, in 59 articoli, sia degli elementi sia delle conseguenze dell’illecito. Cautamente la Commissione raccomanda all’Assemblea generale dell’ONU di prenderne per ora soltanto atto e di considerarne l’eventuale trasfusione in una convenzione di codificazione. Il Progetto considera i principi sulla responsabilità come valevoli in linea di massima per la violazione di qualsiasi norma internazionale: tutti i precedenti tentativi di codificazione si erano limitati ad esaminare la responsabilità nel quadro delle norme sul trattamento degli stranieri; solo in tema di responsabilità dello Stato per danni arrecati agli stranieri nel suo territorio esisteva, infatti, ed esiste una prassi omogenea.

Data la coincidenza tra lo Stato come soggetto di diritto internazionale  e lo Stato-organizzazione, è ovvio che il fatto illecito consista anzitutto in un comportamento di uno o più organi statali, fra cui coloro che partecipano dell’esercizio del potere di governo. Il Progetto, dopo aver indicato all’art. 2 come elementi del fatto illecito un comportamento (azione od omissione) (a) attribuibile allo Stato e (b) consistente in una violazione di un obbligo internazionale dello Stato, specifica all’art. 4 che il primo elemento (elemento soggettivo) consiste nel comportamento di qualsiasi organo dello Stato (legislativo, esecutivo o giudiziario), del governo centrale o di un ente territoriale. Orbene, la violazione di norme internazionali attraverso la semplice emanazione di leggi o di altre norme a portata astratta è scarsamente ipotizzabile; il contenzioso internazionale è, del resto, un contenzioso che ha sempre per oggetto questioni concrete.

Una questione discussa è se le responsabilità dello Stato sorga quando l’organo abbia commesso un’azione internazionalmente illecita avvalendosi di tale sua qualità, agendo dunque nell’esercizio delle sue funzioni, ma al di fuori dei limiti della sua competenza. La questione attiene ai soli illeciti commissivi e riguarda essenzialmente azioni illecite condotte da organi di polizia in violazione del proprio diritto interno e contrari agli ordini ricevuti. Secondo l’art. 7 del Progetto, tali azioni sarebbero comunque attribuibili allo Stato per il fatto che l’organo ha esorbitato dai limiti di sua competenza; per molti autori, l’azione in quanto tale resterebbe invece propria dell’individuo o degli individui che l’hanno compiuta e l’illecito dello Stato consisterebbe nel non aver preso misure idonee ad impedirla. Più aderente alla prassi è la prima ipotesi.

Resta esclusa la responsabilità dello Stato per atti di privati che arrechino danni ad individui, organi o Stati stranieri. A configurare una responsabilità dello Stato in questi termini perveniva la vecchia teoria germanica della solidarietà del gruppo, in base alla quale il gruppo doveva ritenersi come responsabile per le azioni dannose dei suoi membri. La teoria fu già abbandonata da Grozio a favore della dottrina della ‘patientia’ e del ‘receptus’ limitante la responsabilità dello Stato ai soli casi di tolleranza delle, o di complicità con le, azioni compiute da privati nel proprio territorio. Oggi dottrina e prassi sono concordi nel ritenere che lo Stato risponda solo quando non abbia posto in essere le misure atte a prevenire l’azione o a punirne l’autore e quindi solo per il fatto dei suoi organi.

 

44. (Segue). L’elemento oggettivo.

L’art. 12 del Progetto definisce lapalissianamente l’elemento oggettivo dell’illecito, dichiarando che “si ha violazione di un obbligo internazionale da parte di uno Stato quando un fatto di tale Stato non è conforme a ciò che gli è imposto dal predetto obbligo”. L’art. 13 contiene la regola tempus regit actum, ossia prevede che l’obbligazione debba esistere al momento in cui il comportamento dello Stato è tenuto. È poi importante la determinazione del tempus commissi delicti, soprattutto in relazione all’interpretazione dei trattati di arbitrato e di regolamento giudiziario, trattati che di solito dichiarano di non volersi applicare alle controversie relative a fatti avvenuti prima della loro entrata in vigore o comunque prima di une certa data (c.d. data critica).

All’elemento oggettivo dell’illecito internazionale attengono le cause escludenti l’illiceità. 1) Consenso dello Stato leso; l’art. 20 del Progetto afferma che “Il consenso validamente dato da uno Stato alla commissione da parte di un altro Stato di un fatto determinato esclude l’illiceità di tale fatto nei confronti del primo Stato, sempre che il fatto medesimo resti nei limiti del consenso”; tale consenso non configura un accordo, ma è sostanzialmente un atto unilaterale, che non può violare una norma imperativa, essendo assoluta l’inderogabilità dello jus cogens. 2) Autotutela. È costituita da quelle azioni rivolte a reprimere l’illecito altrui e che, per tale funzione, non possono essere considerate antigiuridiche anche quando consistono in violazioni di norme internazionali; il Progetto prevede la legittima difesa e le contromisure (rappresaglie). 3) Forza maggiore. È il verificarsi di una forza irresistibile o di un evento imprevisto, al di là del controllo dello Stato, che rende materialmente impossibile adempiere l’obbligo. 4) Stato di necessità. L’aver commesso il fatto per evitare un pericolo grave, imminente e non volontariamente causato, è controverso se possa essere invocato come circostanza che escluda l’illiceità; la necessità può essere sicuramente invocata quando il pericolo riguardi la vita dell’individuo-organo che abbia commesso l’illecito o degli individui a lui affidati (c.d. distress), ad es. la nave che si rifugia nel porto straniero senza autorizzazione dello Stato costiero per sfuggire alla tempesta; è incerto invece se la necessità possa essere invocata riguardo allo Stato nel suo complesso; l’art. 25 del Progetto si pronuncia in senso favorevole: “1. Lo Stato non può invocare lo stato di necessità come causa di esclusione dell’illiceità di un atto non conforme ad un obbligo internazionale se non quando l’atto: (a) costituisca l’unico mezzo per proteggere un interesse essenziale contro un pericolo grave ed imminente; e (b) non leda gravemente l’interesse essenziale dello Stato o degli Stati nei confronti dei quali l’obbligo sussiste, oppure della comunità internazionale nel suo complesso. 2. In ogni caso la necessità non può essere invocata se: (a) l’obbligo internazionale in questione esclude la possibilità di invocare la necessità; o (b) lo Stato ha contribuito al verificarsi della situazione di necessità”; la prassi è incerta e non ha mai chiarito in che cosa esattamente consista la natura vitale o essenziale di un interesse dello Stato; va detto che, una volta bandito dal diritto internazionale cogente l’uso della forza in tutte le sue manifestazioni, inclusi i c.d. interventi umanitari o a protezione dei propri cittadini all’estero, gli spazi per l’utilizzazione della necessità si riducono a nulla. 5) Raccomandazioni. Le raccomandazioni degli organi internazionali producono il c.d. effetto di liceità. 6) Rispetto dei principi costituzionali dello Stato. Può sostenersi che l’illiceità sia esclusa quando l’osservanza di una norma internazionale, sempre che non si tratti di una norma di jus cogens, urti contro i principi fondamentali della Costituzione dello Stato; ad es. la Corte costituzionale italiana ha talvolta annullato le norme interne di esecuzione di norme internazionali pattizie (in tema di estradizione per reati punibili all’estero con la pena di morte, in tema di limitazione della responsabilità del vettore) contrarie a principi costituzionali, mettendo quindi gli organi dello Stato nell’impossibilità di osservare le norme medesime; l’art. 32 del Progetto esclude invece che il diritto interno possa avere influenze sull’esclusione dell’illecito internazionale.

 

45. (Segue). Gli elementi controversi: la colpa e il danno.

Circa la colpa, possono distinguersi tre tipi di responsabilità. Anzitutto vi è la responsabilità per colpa, che si ha quando si richiede cha l’autore dell’illecito abbia commesso quest’ultimo intenzionalmente (dolo) o almeno con negligenza (colpa in senso stretto, lieve o grave); questi sono i connotati tipici della responsabilità extracontrattuale o aquiliana. Vi è poi la responsabilità oggettiva relativa (strict liability) che sorge per effetto del solo compimento dell’illecito; l’autore di quest’ultimo può invocare, per sottrarsi alla responsabilità, una causa di giustificazione consistente in un evento esterno che gli ha reso impossibile il rispetto della norma (forza maggiore, impossibilità della prestazione e simili); vi è uno spostamento dell’onere della prova dalla vittima all’autore dell’illecito. Vi è infine la responsabilità oggettiva assoluta che, oltre a sorgere automaticamente dal comportamento contrario ad una norma giuridica, non ammette alcuna causa di giustificazione; è prevista in relazione ai danni da attività pericolose o socialmente dannose ed è spesso collegata a sistemi di assicurazione obbligatoria. Per molto tempo, sulle orme di Grozio ed in omaggio alla tradizione romanistica, la responsabilità dello Stato fu configurata come responsabilità per colpa: perché sorgesse la responsabilità, il comportamento dell’organo statale doveva essere intenzionale o frutto di negligenza. Agli inizi del XX secolo Anzillotti sostenne la natura oggettiva relativa della responsabilità internazionale e la dottrina, da allora, si è divisa.

Il regime di responsabilità può anzitutto risultare specificamente previsto in relazione alla violazione di una determinata norma o di un determinato gruppo di norme: ad es. la violazione del dovere di protezione degli stranieri o degli organi stranieri dà luogo ad una responsabilità per colpa, consistendo tale violazione proprio nella circostanza che lo Stato non abbia usato la dovuta diligenza nella protezione. Un regime di responsabilità assoluta risulta invece dalle norme sulla responsabilità internazionale per i danni causati da oggetti spaziali. A parte i regimi specifici, sia consuetudinari che convenzionali, il regime residuale, valido cioè in tutti gli altri casi, è quello di responsabilità oggettiva relativa: lo Stato risponde di qualsiasi violazione del diritto internazionale da parte dei suoi organi, purché non dimostri l’impossibilità assoluta, ossia da lui non provocata, dell’osservanza dell’obbligo. Il Progetto non dedica alla colpa alcun articolo; ma dalla circostanza che la colpa non è menzionata, all’art. 2, come elemento dell’illecito internazionale e dalla circostanza che l’art. 23 considera la forza maggiore come causa di esclusione dell’illiceità, può dedursi che il regime della responsabilità oggettiva relativa sia considerato dalla Commissione come il regime generale applicabile.

Il danno, sia materiale che morale, e dunque la lesione di un interesse diretto e concreto dello Stato nei confronti del quale l’illecito è perpetrato, non è, per la Commissione, elemento dell’illecito. L’inosservanza di determinate norme, ad es. di quelle che obbligano lo Stato a tutelare i diritti umani dei propri cittadini o della norma sul divieto dell’uso della forza, da parte di uno dei loro destinatari è sentita come un illecito nei confronti di tutti gli altri anche quando un interesse diretto e concerto di questi ultimi non sia leso.

 

46. Le conseguenze del fatto illecito internazionale. L’autotutela individuale e collettiva.

Le conseguenze dell’illecito consistono in una nuova relazione giuridica fra Stato offeso e Stato offensore, discendente da una norma apposita, la c.d. norma secondaria contrapposta alla norma primaria, ossia alla norma violata. Circa i contenuti da dare a siffatta relazione, secondo Anzillotti, le conseguenze del fatto illecito consisterebbero unicamente nel diritto dello Stato offeso di pretendere, e nell’obbligo dello Stato offensore di fornire, un’adeguata riparazione: questa comprenderebbe sia il ripristino dello status quo antea (restitutio in integrum) sia il risarcimento del danno oppure, nel caso di danno immateriale, la ‘soddisfazione’ (presentazione ufficiale di scuse, omaggi alla bandiera dello Stato offeso, ecc.).

Sviluppo di detto schema è la tendenza a riportare sotto la norma secondaria, e quindi fra le conseguenze autonome dell’illecito, anche i mezzi di autotutela e, in particolare, le rappresaglie (o contromisure): dal fatto illecito discenderebbe per lo Stato offeso sia il diritto di chiedere la riparazione sia il diritto di ricorrere a contromisure coercitive (non necessariamente implicanti l’uso della forza, oggi in massima parte vietato) aventi lo scopo di infliggere una punizione allo Stato offensore.

Kelsen critica la tesi anzillottiana, sostenendo l’inutilità della costruzione delle conseguenze dell’illecito in termini di diritti e obblighi, costruzione che condurrebbe poi ad un regressus ad infinitum, dato che la violazione dell’obbligo di riparazione, costituendo a sua volta un fatto illecito, produrrebbe a sua volta l’obbligo di riparare, e così via. Per Kelsen l’illecito avrebbe, invece, come unica ed immediata conseguenza il ricorso alle misure di autotutela (rappresaglia e guerra), mentre la riparazione sarebbe soltanto eventuale e dipenderebbe dalla volontà dello Stato offeso e dello Stato offensore di evitare l’uso della coercizione. Le misure di autotutela non costituirebbero oggetto di un rapporto fra Stato offeso e Stato offensore, non sarebbero inquadrabili come diritto del primo ad esercitarle e obbligo del secondo a subirle, ma avrebbero natura di azione coercitiva. È innegabile che la fase patologica del diritto internazionale sia una fase assai poco normativa e sia caratterizzata da reazioni contro l’illecito che non hanno lo scopo di punire (anche se tale scopo non è ad esse del tutto estraneo), ma sono fondamentalmente dirette a reintegrare l’ordine giuridico violato, ossia a far cessare l’illecito e  cancellarne, ove possibile, gli effetti. Non sorge un nuovo rapporto, facente capo ad una nuova norma, dal fatto illecito: l’obbligo per lo Stato offensore di porre fine all’illecito e di cancellarne gli effetti è l’obbligo previsto dalla stessa norma violata (la norma primaria) e il diritto di esercitare l’autotutela non è altro che la sanzione (in senso lato) che sia accompagna alla norma medesima. Kelsen sbaglia però quando considera l’unica forma di riparazione avente rilevanza pratica, il risarcimento del danno, come fondata su un accordo tra gli Stati interessati (ciò è vero solo per la c.d. ‘soddisfazione’): essa è prevista da un’autonoma norma di diritto internazionale.

A partire dalla fine della seconda guerra mondiale si è fatta strada l’opinione, espressa anche dalla Corte Internazionale di Giustizia, secondo cui l’autotutela non possa consistere nella minaccia o nell’uso della forza, minaccia ed uso essendo vietati dall’art. 2, par. 4, della Carta ONU e dallo stesso diritto internazionale consuetudinario (come affermato nella sent. Attività militari e paramilitari in e contro il Nicaragua del 1986, tra Nicaragua e Stati Uniti). Il principio che vieta il ricorso alla forza ha carattere cogente, ma trova un limite generale nella legittima difesa, intesa come risposta ad un attacco armato già sferrato. L’art. 51 della Carta, altra norma che la Corte Internazionale di Giustizia ha ritenuto corrispondente al diritto consuetudinario, riconosce infatti “il diritto naturale di legittima difesa individuale e collettiva nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un membro delle Nazioni Unite”.

Attacco o aggressione si ha anche quando lo Stato agisce attraverso bande irregolari o di mercenari da esso assoldati. La Corte ha affermato che non costituisce aggressione armata la sola assistenza data a forze ribelli che agiscono sul territorio di uno Stato, sotto forma di fornitura di armi, assistenza logistica e simili. La legittima difesa ex art. 51 può essere esercitata anche con armi nucleari, purché nel rispetto del principio di proporzionalità della risposta rispetto all’attacco e del diritto umanitario di guerra.

Oltre all’eccezione ex art. 51 della Carta ONU, vi è chi sostiene che interventi armati siano ammissibili per proteggere la vita dei propri cittadini all’estero o per impedire che certi Stati commettano violazioni gravi dei diritti umani nei confronti dei loro stessi cittadini. Vi è anche chi sostiene l’estensione della categoria della legittima difesa in via preventiva o per giustificare reazioni contro Stati che alimentano il terrorismo. La dottrina della legittima difesa preventiva è contenuta nel documento intitolato “La strategia per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti” (c.d. dottrina Bush), presentata dal Presidente americano al Congresso nel 2002.

Quando si è in presenza di una vera e propria guerra ed il sistema di sicurezza collettiva dell’ONU non riesce a controllarla e a funzionare, c’è da prendere atto che il diritto internazionale, sia consuetudinario che pattizio, ha esaurito la sua funzione; la guerra non può allora essere valutata giuridicamente ma solo politicamente e moralmente. C’è anche da tenere presente però che, quando la guerra è scatenata, entra in vigore il corpo di regole, consuetudinarie e pattizie, detto jus in bello, contrapposto allo jus ad bellum. Vanno ricordate in proposito le Convenzioni dell’Aja (1899 e 1907) e le Convenzioni di Ginevra (1949).

Vietata è la forza internazionale, ossia le operazioni militari di uno Stato contro un altro Stato. Ciò che il diritto internazionale non vieta, e non potrebbe vietare se non abolendo il diritto di sovranità territoriale, è l’uso della forza interna, ossia quella forza che rientra nel normale esercizio della potestà di governo dello Stato. La distinzione diviene difficile in certi casi limite e l’unico criterio utilizzabile è quello del luogo ove l’azione dello Stato è stata commessa: l’azione dello Stato nei limiti del suo territorio è sempre un’azione di polizia interna (sempre che non abbia come oggetto mezzi bellici che si trovino sul suo territorio con la sua autorizzazione); mentre l’impiego della forza da parte dello Stato contro comunità o mezzi di altri Stati fuori dal suo territorio è un’ipotesi dell’uso della forza internazionale.

La specie più importante di autotutela è la rappresaglia (o contromisura), comportamento dello Stato leso, che in sé sarebbe illecito, ma che diviene lecito in quanto costituisce reazione ad un illecito altrui. Un limite importante, fra quelli di carattere generale, è costituito dalla proporzionalità tra la violazione subita e la violazione commessa per rappresaglia: si richiede, più che altro, che non vi sia eccessiva sproporzione fra le due violazioni; se sproporzione c’è, la contromisura diviene illecita per la parte eccedente. Altro limite è quello relativo all’impossibilità di ricorrere a violazioni del diritto internazionale cogente, anche nel caso in cui si tratti di reagire a violazioni dello stesso tipo (con l’eccezione consistente nella possibilità di usare la forza per respingere un attacco armato). Assorbito dal rispetto del diritto cogente è il limite del rispetto dei principi umanitari. Si ritiene poi che alla contromisura non possa farsi ricorso se non si sia prima tentato di giungere ad una soluzione concordata della controversia, anche se la prassi è molto incerta.

Come specie del genere dell’autotutela va considerata anche la ritorsione, che si distingue dalla rappresaglia in quanto non consiste nella violazione di norme internazionali ma soltanto in un comportamento inamichevole, come l’attenuazione o la rottura dei rapporti diplomatici (non vi è alcun obbligo internazionale di intrattenere tali rapporti), oppure l’attenuazione o la rottura della collaborazione economica e commerciale (quando non vi siano trattati che la impongano). Si dice che la ritorsione non sia una forma di autotutela, dato che lo Stato può sempre tenere un comportamento inamichevole verso un altro Stato anche senza aver subito un illecito. La ritorsione va inoltre tenuta distinta dalle misure che il Consiglio di Sicurezza dell’ONU può deliberare in base all’art. 41 della Carta, in caso di minaccia o violazione della pace o di atto di aggressione, misure che, inquadrandosi nel sistema di difesa collettiva della Nazioni Unite, gli Stati posono essere obbligati ad attuare.

Circa il problema se le reazioni possano provenire da Stati che non abbiano subito alcuna lesione, nulla esclude che tale possibilità sia prevista da singole norme consuetudinarie internazionali. Il caso più importante è quello della legittima difesa collettiva in caso di attacchi armati, riconosciuta dall’art. 51 Carta ONU ed ammessa, secondo la Corte Internazionale di Giustizia, dallo stesso diritto internazionale generale. Le misure, anche militari, che lo Stato terzo può prendere devono rispondere ai criteri della necessità e della proporzionalità e presuppongono una precisa richiesta dello Stato aggredito. Un’altra norma consuetudinaria è quella che vincola tutti gli Stati a negare effetti extraterritoriali agli atti di governo (leggi, sentenze, atti amministrativi) emanati in un territorio acquistato con la forza o detenuto in dispregio del principio di autodeterminazione dei popoli. E può ricordarsi anche la norma che autorizza tutti gli Stati ad aiutare militarmente i movimenti che lottano per la liberazione del loro territorio dal dominio straniero, quindi contro la violazione del principio di autodeterminazione, aiuti che, fuori da quest’ipotesi, sarebbero illeciti, contravvenendo al divieto della minaccia e dell’uso della forza. Al di fuori del sistema delle Nazioni Unite e delle singole norme consuetudinarie e pattizie, non esiste un regime generale di autotutela collettiva, non esistono principi generali che consentano ad uno Stato di intervenire a tutela di un interesse fondamentale della comunità internazionale o di un interesse collettivo.

L’autotutela è istituto del diritto internazionale consuetudinario. Naturalmente lo Stato può obbligarsi, mediante trattato, a non ricorrere a misure di autotutela o a ricorrervi a certe condizioni. È da ritenere implicito nel vincolo di solidarietà e di collaborazione fra gli Stati membri di qualsiasi organizzazione internazionale l’obbligo di non ricorrere all’autotutela, in particolare di non reagire con la propria inadempienza a quella altrui, se non come extrema ratio. Può darsi poi che siano previste espressamente norme limitative dell’autotutela; ad es. l’art. 228 del Trattato CE demanda esclusivamente alla Corte comunitaria il compito di imporre “il pagamento di una somma forfetaria o di una penalità” allo Stato membro che abbia compiuto una violazione del Trattato, previamente contestata dalla stessa Corte, e non abbia preso i provvedimenti idonei a rimuoverne gli effetti.

L’autotutela ha i suoi riflessi nel diritto statale: il giudice costituzionale, chiamato a pronunciare l’illegittimità di una legge contraria al diritto internazionale consuetudinario, ai sensi dell’art. 10 Cost., oppure di una legge contraria ad un trattato, ai sensi dell’art. 117 Cost., dovrà chiedersi tra l’altro se una tale legge non si giustifichi come misura di autotutela; così il giudice ordinario, che sia chiamato a far prevalere, in base al principio di specialità, le norme di un trattato rispetto alle norme di una legge ordinaria, potrà negare tale prevalenza se la legge è inquadrabile come attuazione di autotutela. Un meccanismo che rende automaticamente praticabile la violazione di norme internazionali, a titolo di contromisura, da parte degli organi statali, è la condizione di reciprocità, secondo la quale un determinato trattamento viene accordato agli Stati, agli organi e ai cittadini stranieri a condizione che il medesimo trattamento sia accordato allo Stato nazionale, ai suoi organi e ai suoi cittadini. La reciprocità deve essere sempre accertata dal giudice e non dagli organi del Potere esecutivo (la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma della L. n. 1263/26, secondo cui era il Potere esecutivo ad accertare la reciprocità). La reciprocità non è utilizzata esclusivamente come base per l’adozione di eventuali contromisure, ma spesso costituisce soltanto il presupposto di concessioni dettate da puri motivi di cortesia, come avviene, ad es., se uno Stato accorda l’immunità fiscale agli agenti diplomatici stranieri, per imposte diverse da quelle dirette personali, a condizione di reciprocità.

47. (Segue). La riparazione.

Nella riparazione si fa rientrare anzitutto l’obbligo della restituzione in forma specifica (restitutio in integrum) ossia del ristabilimento della situazione di fatto e di diritto esistente prima del compimento dell’illecito, sempre che il ristabilimento sia possibile.

Anche la ‘soddisfazione’ è considerata una forma di riparazione, una forma di riparazione di danni morali, dovuta per il solo fatto che l’illecito sia stato compiuto e a prescindere dalla richiesta di risarcimento degli eventuali danni di carattere patrimoniale; la presentazione ufficiale di scuse, l’omaggio alla bandiera o ad altri simboli dello Stato leso, il versamento di una somma simbolica, il ricorso ad un tribunale internazionale (la Corte Internazionale di Giustizia ha affermato che la ‘soddisfazione’ può anche essere costituita dalla semplice constatazione dell’avvenuta violazione ad opera di un tribunale internazionale), se accettati dallo Stato leso, fanno venire meno qualsiasi ulteriore conseguenza del fatto illecito ed in particolare il ricorso a misure di autotutela. La ‘soddisfazione’, lungi dall’essere oggetto di un obbligo dello Stato offensore, va a formare (come sosteneva Kelsen) il contenuto di una sorta di accordo, espresso o tacito, che, direttamente o attraverso una decisione di un tribunale internazionale, elimina ogni questione tra Stato offeso e Stato offensore.

In definitiva, l’unica vera forma di riparazione è costituita dal risarcimento del danno prodotto dall’illecito internazionale. Un obbligo di risarcire sorge dalla prassi relativa alle violazioni delle norme sul trattamento degli stranieri ed al conseguente esercizio della protezione diplomatica. Il risarcimento è senz’altro dovuto quando la violazione del diritto internazionale consista in un’azione violenta (esclusa forse la guerra) contro beni, mezzi ed organi dello Stato (ad es. danneggiamento di sedi diplomatiche, distruzione di navi o aerei, ferimento di individui-organi, ecc.); fuori di questi casi è difficile ritenere che il diritto internazionale consuetudinario imponga che il danno venga risarcito. Nel senso invece che il risarcimento pecuniario sia sempre dovuto in ordine a qualsiasi violazione di norme internazionali e per “…qualsiasi danno suscettibile di valutazione finanziaria, compreso il lucro cessante…”, si pronuncia l’art. 36 del Progetto, che va inquadrato nel compito di promozione dello sviluppo del diritto internazionale da parte della Commissione di diritto internazionale. Circa i danni prodotti dalle lesioni arrecate agli stranieri che ricoprono la qualifica di organo, occorre distinguere tra danni subiti dall’individuo (da inquadrare nell’esercizio della protezione diplomatica) ed i danni subiti dall’organizzazione statale (c.d. danni alla funzione): in ogni caso i danni risarcibili sono quelli materiali.

Tutto ciò riguarda l’obbligo di risarcimento del danno relativo ai rapporti fra Stati. Diverso è il caso dei trattati che prevedono che lo Stato contraente abbia l’obbligo di risarcire direttamente gli individui, stranieri o cittadini, danneggiati dalla violazione del trattato medesimo: ad es. la Convenzione europea sui diritti umani stabilisce che qualora, accertata dalla Corte europea dei diritti umani una violazione della Convenzione, il diritto interno non permetta di eliminare le conseguenze della violazione, la Corte possa concedere un risarcimento alla parte lesa. Circa il diritto internazionale generale, può ritenersi che dall’obbligo che incombe sullo Stato di non compiere gravi violazioni dei diritti umani, possa ricavarsi un diritto al risarcimento da far valere innanzi ai giudici dello stesso Stato.

 

48. La c.d. responsabilità da fatti leciti.

Una responsabilità oggettiva può essere qualificata come responsabilità senza illecito quando lo Stato è chiamato a rispondere non soltanto delle attività svolte dai suoi organi ma anche delle attività svolte da individui posti sotto il suo controllo. Ma il diritto internazionale non conosce una responsabilità così sofisticata e così improntata al solidarismo come la responsabilità da fatto lecito. Numerose convenzioni si preoccupano del risarcimento dei danni prodotti da attività pericolose; esse però, a parte la Convenzione sulla responsabilità internazionale per i danni causati da oggetti spaziali (1972), il cui art. II prevede che lo Stato di lancio risponda dei danni causati dai suoi oggetti spaziali alla superficie terrestre e agli aeromobili in volo, non si riferiscono alla responsabilità internazionale, ma a quella di diritto interno; trattasi di convenzioni che si limitano ad imporre agli Stati contraenti l’obbligo di predisporre al loro interno sistemi appropriati di responsabilità civile o addirittura penale. La Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite ha adottato due progetti di articoli, il primo sulla “prevenzione dei danni oltre frontiera derivanti da attività pericolose” (2001) ed il secondo sulla ripartizione di tali danni una volta prodotti (2004).

 

49. Il sistema di sicurezza collettiva previsto dalla Carta delle Nazioni Unite.

La Carta ONU, da un lato sancisce, all’art. 2, par. 4, il divieto dell’uso della forza nei rapporti internazionali, dall’altro, al cap. VII (artt. 39 ss.) accentra nel Consiglio di Sicurezza, la competenza a compiere le azioni necessarie per il mantenimento dell’ordine e della pace tra gli Stati, ed in particolare l’uso della forza a fini di polizia internazionale. Il sistema di sicurezza accentrato ha poco e male funzionato fino alla caduta del muro di Berlino a causa del diritto di veto riconosciuto alle grandi Potenze. A partire dalla Guerra del Golfo (1991) esso ha invece avuto una seconda vita, divenendo l’attività principale delle Nazioni Unite. Nel quadro del sistema di sicurezza collettiva è degna di nota l’istituzione della Commissione per la costruzione della pace (Peacebuilding Commission) ad opera di due risoluzioni identiche dell’Assemblea generale e del Consiglio di Sicurezza nel 2005 e definita “Corpo consultivo intergovernativo”.

Ai sensi del cap. VII, il Consiglio di Sicurezza accerta innanzitutto l’esistenza di una minaccia alla pace, di una violazione della pace o di un atto di aggressione (art. 39), e stabilisce poi quali misure sanzionatorie ma non implicanti l’uso della forza, come l’interruzione totale o parziale delle comunicazioni e delle relazioni economiche da parte degli altri Stati (art. 41), sia implicanti l’uso della forza (art. 42 ss.) debbano essere prese nei confronti di uno Stato. Prima di ricorrere alle une o alle altre, esso può invitare le parti interessate a prendere quelle “misure provvisorie” che consideri necessarie al fine di non aggravare la situazione (art. 40). Spesso il Consiglio, dichiarando di agire in base al cap. VII, ricorre a misure che invece non vi trovano fondamento: se tali misure sono avallate dalla prassi, debbono considerarsi come previste da consuetudini sovrappostesi alle norme scritte. Nell’accertare se esista una minaccia o violazione della pace o un atto di aggressione, il Consiglio gode di un larghissimo potere discrezionale; soprattutto l’ipotesi della “minaccia alla pace” si presta ad inquadrare i più vari comportamenti di uno Stato. La discrezionalità del Consiglio, così come sancita dall’art. 39, è rimasta integra anche dopo l’adozione, da parte dell’Assemblea generale, della Dichiarazione sulla definizione dell’aggressione (1974) che riconosce che il Consiglio possa stabilire che la commissione di uno degli ivi atti elencati non giustifichi il suo intervento e che possa considerare come aggressione anche atti non elencati. Il sistema di sicurezza dell’ONU consiste non tanto di principi materiali quanto di regole procedurali.

Misure provvisorie. “Al fine di evitare l’aggravarsi della situazione il Consiglio di Sicurezza…può invitare le parti interessate ad ottemperare a quelle misure provvisorie che esso consideri necessarie o desiderabili. Tali misure provvisorie non devono pregiudicare i diritti, le pretese o la posizione delle parti interessate. Il Consiglio di Sicurezza prende in debito conto il mancato ottemperamento a tali misure provvisorie” (art. 40). Una misura provvisoria tipica in caso di guerra, internazionale o civile, è il cessate-il-fuoco. Le misure provvisorie hanno natura non vincolante, in quanto sono oggetto di una raccomandazione del Consiglio.

Misure non implicanti l’uso della forza. Ai sensi dell’art. 41, il Consiglio può vincolare gli Stati membri dell’ONU a prendere tutta una serie di misure (dalla semplice interruzione dei rapporti diplomatici al blocco economico totale) contro uno Stato che, sempre a giudizio insindacabile dell’organo, minacci o abbia violato la pace, oppure, nelle crisi interne, contro gruppi armati, o ancora, nel quadro della lotta al terrorismo internazionale, contro gruppi terroristici.

Misure implicanti l’uso della forza. Gli artt. 42 ss. si occupano dell’ipotesi in cui il Consiglio decida di impiegare la forza contro uno Stato, colpevole di minaccia o violazione della pace o di aggressione, oppure all’interno di uno Stato, intervenendo in una guerra civile. Il ricorso a misure violente è concepito come un’operazione di polizia internazionale: “Il Consiglio…può intraprendere con forza aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace…”. Tutto ciò attraverso risoluzioni operative, con cui l’Organizzazione non ordina o raccomanda qualcosa agli Stati, ma direttamente agisce. L’azione diretta consiste nell’utilizzazione di contingenti armati nazionali, ma sotto un comando internazionale facente capo allo stesso Consiglio di Sicurezza. Circa le modalità, gli artt. 43, 44 e 45 prevedono l’obbligo per gli Stati membri di stipulare con il Consiglio degli accordi intesi a stabilire il numero, il grado di preparazione, la dislocazione, ecc. delle forze armate utilizzabili poi dall’organo; l’utilizzazione in concreto dei vari contingenti deve far capo ad un Comitato di stato maggiore, composto dai Capi di stato maggiore dei cinque membri permanenti e posto sotto l’autorità del Consiglio. Gli artt. 43 ss. non hanno mai, dal 1945 ad oggi, ricevuto applicazione; gli accordi, che ex art. 43 dovevano essere conclusi “al più presto”, non hanno mai visto la luce; né mai ha funzionato il Comitato di stato maggiore.

Il Consiglio di Sicurezza è intervenuto in crisi internazionali o interne con misure di carattere militare in due modi diversi, talvolta cumulandoli. Esso o ha creato delle Forze delle Nazioni Unite (i famosi caschi blu) incaricate, ma con compiti per lo più assai limitati, di operare per il mantenimento della pace (peacekeeping operations) o ha autorizzato l’uso della forza da parte degli Stati membri, sia singolarmente che nell’ambito di organizzazioni regionali. La caratteristica fondamentale delle peacekeeping operations è costituita dalla delega del Consiglio al Segretario generale in ordine al reperimento, attraverso accordi con gli Stati membri, e al comando delle forze internazionali. Si dice che le Forze operano con il consenso dello Stato, o degli Stati, nel cui territorio sono dislocate; in realtà è questo un elemento puramente fittizio, un vero e proprio sovrano locale non esistendo fin dall’inizio o non esistendo più nel corso delle operazioni. È quasi universale l’opinione secondo cui le Forze per il mantenimento della pace sarebbero semplicemente delle forze cuscinetto, destinate soltanto a dividere i contendenti e ad aiutarli nel ristabilire la pace e la sicurezza senza adoperare le armi, di cui sono dotate per legittima difesa: la loro funzione sarebbe di peace-keeping, non di peace-enforcement. Le forze militari agiscono poi spesso in combinazione col personale civile dell’ONU preposto all’assistenza del Governo locale nel ristabilimento delle normali condizioni di vita politica ed istituzionale (c.d. peacekeeping operations multifunzionali). In realtà molte missioni ONU sono state o sono state trasformate in operazioni di peace-enforcement e, nonostante il loro reperimento ed il loro controllo siano assicurati caso per caso dal Segretario generale (sotto il controllo continuo del Consiglio di Sicurezza), esse realizzano l’azione di polizia internazionale di cui parla l’art. 42: per “azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale” non devono per forza intendersi soltanto la guerra o azioni che comportino lo spargimento di sangue.

L’impiego delle Forze dell’ONU ha finito per rivelarsi impraticabile per ragioni politiche, militari, logistiche e finanziarie. Il Consiglio di Sicurezza è andato sempre più orientandosi verso l’impiego diretto di contingenti militari da parte degli Stati membri, sia individualmente sia per il tramite di organizzazioni regionali. In due casi si è trattato dell’autorizzazione a condurre vere e proprie guerre internazionali, per respingere aggressioni esterne: la guerra in Corea (1950), durante la quale gli Stati membri furono ‘invitati’ ad aiutare la Corea del Sud a difendersi dall’attacco sferratole dalla Corea del Nord, e la guerra del Golfo (1991), condotta da una coalizione di Stati membri ‘autorizzati’ dal Consiglio ad aiutare il governo kuwaitiano a riconquistare il territorio del Kuwait occupato dall’Iraq. La delega, che comporta che il Consiglio, lungi dall’assumersi le responsabilità connesse ad un’azione di tutela della pace, se ne spogli, non sembra sia inquadrabile sotto gli artt. 42 ss. Con la constatata inefficienza del sistema di sicurezza collettiva, si è fatta strada la prassi della delega agli Stati e ne consegue che tale delega può considerarsi prevista da una norma consuetudinaria ad hoc.

Talvolta il Consiglio di Sicurezza, dichiarando di agire in base al cap. VII ed invocando la necessità di mantenere la pace e la sicurezza, ha organizzato il governo di territori oggetto di rivendicazioni di sovranità o nei quali si è verificata una guerra civile; in questo quadro sono stati decisi anche singoli atti di governo. È questo il caso del Territorio Libero di Trieste, istituito dal Trattato di pace tra Italia e Potenze Alleate (1947), concepito come una sorta di piccolo Stato governato da un Governatore la cui nomina era affidata al Consiglio di Sicurezza; il Territorio non fu mai costituito e quello che avrebbe dovuto essere il suo territorio venne diviso fra Italia e Jugoslavia. Recentemente sono da menzionare la UNMIK (Amministrazione provvisoria delle Nazioni Unite nel Kosovo), tuttora in carica, e la UNTAET (Amministrazione provvisoria delle Nazioni Unite in Timor Est), durata dal 1999 al 2002. Inoltre, sono stati istituiti dei tribunali internazionali per la punizione di crimini commessi da individui. Gli esempi più noti sono quelli del Tribunale penale internazionale per i crimini commessi nella ex-Jugoslavia (ICTY) e del Tribunale penale internazionale per i crimini commessi nel Ruanda (ICTR). Le misure consistenti nel governo, o in atti di governo, di territori non trovano fondamento espresso nella Carta ONU; vari tentativi sono stati fatti in dottrina e nella prassi per riportarle alla categoria delle “misure coercitive” previste dagli artt. 41 e 42. Particolarmente l’istituzione di Tribunali internazionali ha costituito oggetto di dibattito; a chi sostiene che l’ipotesi possa riportarsi all’art. 41, si può rispondere che la giurisdizione dei tribunali penali, e lo stesso si può dire per il governo di territori, si esercita su individui, mentre le misure coercitive previste dall’art. 41 sono chiaramente misure dirette contro uno Stato o al massimo contro gruppi armati all’interno di uno Stato; inoltre, le misure ex art. 41 sono destinate a cessare quando la pace e la sicurezza non sono più in pericolo. L’art. 24 della Carta, circa gli “specifici poteri” per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionali attribuiti al Consiglio di Sicurezza con riferimento ai capp. VI, VII, VIII e XII della Carta, li elenca in modo tassativo: dunque, le misure che non rientrano in questo o in quell’articolo della Carta non possono fondarsi su una sorta di potere residuale generale del Consiglio, presumibilmente desumibile dallo stesso art. 24. Dunque, è evidente che il Consiglio abbia largamente deviato dallo spirito e dalla lettera delle norme del cap. VII, ma la mancanza di una qualsiasi opposizione alla partecipazione del Consiglio ad atti di governo di territori in situazioni post-conflittuali indica che detta prassi ha dato vita ad una norma consuetudinaria ad hoc.

Del sistema di sicurezza collettiva facente capo al Consiglio di Sicurezza fanno parte, in base al cap. VIII Carta ONU, anche le organizzazioni regionali, create per sviluppare la collaborazione fra Stati membri e per promuovere la difesa comune verso l’esterno. L’art. 53 stabilisce che il Consiglio di Sicurezza utilizza “gli accordi e le organizzazioni regionali per azioni coercitive sotto la sua direzione” ed aggiunge che “nessuna azione coercitiva potrà venire intrapresa in base ad accordi regionali…senza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza”. Le organizzazioni regionali appaiono quasi come organi decentrati delle Nazioni Unite. L’art. 51 ammette la legittima difesa sia individuale che collettiva: ne consegue che le organizzazioni regionali possono agire coercitivamente contro uno Stato con l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza in ogni caso (art. 53) e senza l’autorizzazione del Consiglio solo nel caso di risposta ad un attacco armato già sferrato (art. 51).

Le organizzazioni regionali esistenti sono: la Lega degli Stati arabi, l’Organizzazione degli Stati americani (OSA); l’Unione Europea Occidentale (UEO) che, ex art. 17 del Trattato UE costituisce l’alleanza difensiva dell’Unione; l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), creata nel 1949 tra le Potenze occidentali (c.d. Patto atlantico); l’Organizzazione per l’Unità Africana (OUA); la Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale (ECOWAS); l’Organizzazione degli Stati dei Carabi Orientali (OECS); la Comunità di Stati indipendenti (CIS), creata nel 1991 tra le Repubbliche già facenti parte dell’Unione Sovietica; l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE).

 


PARTE QUINTA

L’ACCERTAMENTO DELLE NORME INTERNAZIONALI NELL’AMBITO DELLA COMUNITÀ INTERNAZIONALE

 

50. L’arbitrato. La Corte Internazionale di Giustizia.

La funzione giurisdizionale internazionale ha ancor oggi sostanzialmente natura arbitrale, essendo ancorata al principio per cui un giudice internazionale non può giudicare se la sua giurisdizione non è stata preventivamente accettata da tutti gli Stati parti di una controversia. Gli Stati sono liberi di deferire ad un tribunale internazionale una qualsiasi controversia che riguardi i loro rapporti. Ai fini dell’esercizio della funzione giurisdizionale internazionale vale la nozione di controversia data dalla Corte Permanente di Giustizia Internazionale nella sent. Mavrommatis (1929) e ripresa dall’attuale Corte Internazionale di Giustizia: “la controversia è un disaccordo su di un punto di diritto o di fatto, un contrasto, un’opposizione di tesi giuridiche o di interessi fra due soggetti”. Dunque, non esistono controversie giustiziabili e controversie non giustiziabili, dato che su qualsiasi rapporto tra Stati il diritto internazionale è capace di pronunciarsi. La distinzione fra controversie giuridiche e controversie politiche, consistente nel fatto che nelle seconde, a differenza delle prime, entrambe le parti o almeno una non invocassero il diritto internazionale ma pretendessero di mutarlo a loro favore, ha ormai scarso significato. L’art. 36, par. 2, dello Statuto della Corte Internazionale di Giustizia, prevede che gli Stati che, con una dichiarazione ad hoc, accettino come obbligatoria la giurisdizione della Corte, possano essere citati avanti alla Corte medesima da un qualsiasi altro Stato che abbia emesso la stessa dichiarazione, e stabilisce che la dichiarazione di accettazione può riguardare “…ogni controversia di natura giuridica avente ad oggetto: a) l’interpretazione di un trattato; b) qualsiasi questione di diritto internazionale; c) l’esistenza di un qualsiasi fatto che, se accertato, costituirebbe la violazione di obbligo internazionale; d) la natura o la misura della riparazione dovuta per la violazione di un obbligo internazionale”. Non risultano casi in cui la Corte Internazionale di Giustizia si sia rifiutata di giudicare a causa dell’eccezione di ‘politicità’ della controversia.

Nel secolo XIX l’arbitrato isolato si svolgeva di solito nel modo seguente: sorta una controversia tra due o più Stati, si stipulava un accordo, il c.d. compromesso arbitrale, col quale si nominava un arbitro (ad es. un Capo di Stato) o un collegio arbitrale, si stabiliva eventualmente qualche regola procedurale, e ci si obbligava a rispettare la sentenza (che spesso consisteva nella sola parte dispositiva, non essendo l’arbitro obbligato a far conoscere la motivazione) così emessa. Si distinguono due fasi di sviluppo dell’istituto.

I fase. Tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo si è cominciato a ricorrere a dei meccanismi per facilitare l’accordo degli Stati necessario per l’instaurazione del processo internazionale e sono apparsi due istituti: la clausola compromissorianon completa’, che accede ad una qualsiasi convenzione e crea l’obbligo per gli Stati di ricorrere all’arbitrato per tutte le controversie che sorgano in futuro in ordine all’applicazione e all’interpretazione della convenzione medesima, ed il trattato generale di arbitratonon completo’, che egualmente crea un obbligo generico di ricorrere ad arbitrato addirittura per tutte le controversie che possano sorgere in futuro fra le Parti contraenti, eccettuate alcune controversie (c.d. clausola eccettuativa dei trattati di arbitrato) indicate una volta come quelle toccanti l’onore e l’indipendenza delle Parti o aventi natura politica, e oggi come quelle relative a questioni di dominio riservato. I due istituti ‘non completi’ creano soltanto un obbligo de contrahendo, cioè l’obbligo di stipulare un compromesso arbitrale; se questo però non interviene, non può comunque pervenirsi all’emanazione di una sentenza. Nello stesso periodo si tendono ad istituzionalizzare i tribunali internazionali, creando organi arbitrali permanenti e a predisporre regole di procedura applicabili in ogni procedimento così instaurato. L’avvio di tale istituzionalizzazione si ha con la Corte Permanente di Arbitrato, tuttora esistente, creata dalle Convenzioni dell’Aja sulla guerra terrestre (1899 e 1907). All’interno della Corte, l’istituzionalizzazione è minima, trattandosi infatti di un elenco di giudici, periodicamente aggiornato, tra i quali gli Stati possono scegliere ai fini della composizione del collegio arbitrale; anche le regole di procedura non sono molte e cedono il passo di fronte a quelle eventualmente stabilite dalle Parti.

II fase. Alla fine della prima guerra mondiale si è avuto un maggior processo di istituzionalizzazione con la creazione prima della Corte Permanente di Giustizia Internazionale all’epoca della Società delle Nazioni, e poi, nel 1945, con la Corte Internazionale di Giustizia, organo delle Nazioni Unite che ha sostituito la prima: essa ha sede all’Aja e funziona in base ad uno Statuto annesso alla Carta ONU e ricalcante lo Statuto della vecchia Corte. Presenta un forte grado di istituzionalizzazione: trattasi di un corpo permanente di giudici, eletti dall’Assemblea generale e dal Consiglio di Sicurezza, che giudica in base a precise e complesse regole di procedura inderogabili dalle parti; trattasi pur sempre però di un tribunale arbitrale che giudica solo sul presupposto di un accordo tra tutte le Parti di una controversia. La Corte Internazionale di Giustizia può decidere non solo secondo il diritto ma anche ex aequo et bono se le Parti così richiedono. Oltre alla giurisdizione in materia contenziosa, la Corte svolge anche una funzione consultiva: i pareri non sono vincolanti, ma possono divenire tali se, con una convenzione o altro atto vincolante, ci si impegni a rispettarli. Ex art. 34 dello Statuto, la Corte non può essere adita da tutti i soggetti internazionali ma solo dagli Stati. Compaiono le figure della clausola compromissoriacompleta’ e del trattato generale di arbitratocompleto’: questi prevedono direttamente l’obbligo di sottoporsi al giudizio di un tribunale internazionale (di solito la Corte Internazionale di Giustizia) già predisposto e perfettamente in grado di funzionare; permettono ad uno Stato contraente di citare unilateralmente un altro Stato contraente di fronte al tribunale internazionale così investito della controversia: il fondamento del giudizio resta pur sempre volontario, ma la giurisdizione è un potere che, una volta accettato, come negli ordinamenti interni, si impone al singolo indipendentemente dalla sua volontà. Analogo al trattato generale di arbitrato è il procedimento di cui all’art. 36 dello Statuto: “gli Stati aderenti al presente Statuto possono in ogni momento dichiarare di riconoscere come obbligatoria ipso facto e senza speciale convenzione, nei rapporti con qualsiasi altro Stato che accetti la medesima obbligazione, la giurisdizione della Corte…”.

A partire dagli anni Sessanta e fino agli anni Ottanta, l’arbitrato ha attraversato una consistente fase di declino. Gli Stati sorti dalla decolonizzazione, diffidenti verso la Corte a causa di alcune sentenze emesse, considerate contrarie ai loro interessi ed obiettivamente discutibili, presentarono un numero scarsissimo di ricorsi, mentre alcune grandi Potenze, come gli Stati Uniti, si rifiutarono di eseguire sentenze emesse. La situazione si è andata modificando a partire dagli anni Ottanta, aumentando enormemente il ruolo della Corte.

Come per le norme così per le sentenze c’è da lamentare la scarsezza dei mezzi coercitivi a livello interstatale e da affidarsi al diritto interno degli stessi Stati che devono osservare la sentenza. L’osservanza di una sentenza internazionale deve ritenersi assicurata nel diritto interno dalle stesse norme che provvedono all’adattamento alle regole internazionali (consuetudinarie, pattizie o contenute in atti di organizzazioni internazionali) di cui la sentenza abbia accertato il contenuto: ad es. la legge italiana di esecuzione di un trattato comporta l’obbligo di osservare non soltanto il trattato ma anche l’eventuale sentenza internazionale emessa, in ordine al trattato medesimo, nei confronti dell’Italia o di persone che operano all’interno dello Stato italiano.

 

51. I Tribunali internazionali settoriali e regionali.

Si vanno moltiplicando gli organi giurisdizionali internazionali che hanno competenze settoriali (si parla di ‘frammentazione’ del diritto internazionale). Competenze sui generis presenta la Corte di Giustizia delle Comunità europee, con sede a Lussemburgo: essa, in comune con gli altri tribunali internazionali, ha solo l’origine pattizia. La maggior parte delle sue competenze sono accostabili a quelle dei tribunali interni ed il loro esercizio non dipende dalla volontà degli stessi soggetti destinate a subirle. A parte la funzione arbitrale di tipo classico ex art. 239 del Trattato CE, la Corte ha tre competenze fondamentali. 1) Inadempimento del Trattato da parte di uno Stato membro. I ricorsi diretti ad accertare la violazione del Trattato CE da parte di uno Stato sono proponibili dalla Commissione o da ciascun altro Stato membro previa consultazione della Commissione; lo Stato ‘accusato’ non può sottrarsi al giudizio della Corte e, se questa lo dichiara inadempiente, è tenuto a prendere tutti i provvedimenti che l’esecuzione della sentenza comporta. 2) Controllo di legittimità sugli atti comunitari. È limitato agli atti vincolanti (regolamenti, direttive, decisioni) del Consiglio e della Commissione; i vizi, che se riconosciuti comportano l’annullamento ex tunc degli atti, sono dati dall’incompetenza dell’organo, dalla violazione di forme sostanziali, dalla violazione del Trattato o di altra regola relativa alla sua applicazione e dallo sviamento di potere; essi sono denunciabili entro determinati termini, da ciascuno Stato membro, dal Consiglio o dalla Commissione, ed anche, nel caso di decisioni, da qualsiasi persona fisica o giuridica interessata. 3) Questioni pregiudiziali. Quando, innanzi ad un giudice di uno Stato membro, è sollevata una questione relativa all’interpretazione del Trattato CE o alla validità o interpretazione di atti comunitari, tale giudice ha il potere o, se è di ultima istanza, il dovere di sospendere il processo e di chiedere una pronuncia della Corte al riguardo; la pronuncia della Corte ha effetto immediato nel giudizio nazionale a quo, ma l’interpretazione in essa racchiusa sarà utilizzata in tutti gli Stati membri finché la Corte non sia sollecitata a mutarla attraverso una successiva pronuncia; tale competenza ha lo scopo di assicurare l’interpretazione uniforme del diritto comunitario negli Stati membri. Alla Corte è affiancato, dal 1988, il Tribunale di primo grado delle Comunità europee, la cui principale competenza ha per oggetto i ricorsi promossi dalle persone fisiche e giuridiche ai sensi dell’art. 230 del Trattato CE; le sentenze del Tribunale sono impugnabili per motivi di diritto davanti alla Corte. Le sentenze della Corte e del Tribunale che comportano, a carico di persone diverse dagli Stati, un obbligo pecuniario, costituiscono titolo esecutivo negli Stati membri.

Nel campo del diritto internazionale marittimo opera il Tribunale Internazionale del Diritto del Mare, il cui Statuto è contenuto nell’Annesso VI alla Convenzione di Montego Bay. Ha sede ad Amburgo ed è composto da ventuno giudici indipendenti. Nel settore del commercio internazionale opera un sistema complesso predisposto dall’Intesa sulle regole e procedure relative alla soluzione delle controversie, contenuta nell’Allegato n. 2 all’Accordo istitutivo dell’OMC, organizzazione nata dagli sviluppi della prassi relativa al GATT. Il Dispute Settlement Body, l’Organo per la soluzione delle controversie, si articola in due gradi di giudizio: il primo costituito da panels di esperti di volta in volta nominati dall’Organo, il secondo consistente in un corpo permanente di appello in cui siedono sette giudici; i panels hanno anche una funzione conciliativa, al cui insuccesso è subordinata la decisione della controversia secondo diritto. L’Organo può anche decidere all’unanimità di non costituire un panel oppure di non approvare le decisioni emesse in prima o seconda istanza ed il sistema può anche essere paralizzato da un decisione ‘interpretativa’ adottata, su richiesta di una delle parti della controversia, dalla Conferenza ministeriale o dal Consiglio generale della WTO.

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con sede a Strasburgo, è l’organo che controlla il rispetto della Convenzione europea sulla salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali da parte degli Stati contraenti. La Corte è nata nel 1988 dalla fusione con la Commissione Europea dei Diritti dell’Uomo ed è formata da un numero di giudici pari a quello degli Stati contraenti (oggi 45). Giudica attraverso Comitati composti da tre giudici o attraverso Camere di sette giudici; una Grande Camera di diciassette giudici può essere chiamata eccezionalmente a pronunciarsi su richiesta di una Camera oppure come una sorta di istanza di appello contro la sentenza di una Camera. Il ricorso alla Corte può essere proposto da un altro Stato contraente nell’interesse obiettivo (c.d. ricorso interstatale), sia da qualsiasi persona fisica o giuridica o organizzazione o gruppo di individui (c.d. ricorso individuale), ma in questo caso occorre che il ricorrente si pretenda vittima di una violazione della Convenzione. Constatata la violazione della Convenzione da parte di uno Stato contraente, e se il diritto interno dello Stato non permette di eliminarne le conseguenze, la Corte può concedere alla parte lesa un’equa soddisfazione, di solito una somma di denaro.

La Convenzione interamericana dei diritti dell’uomo di San Josè de Costa Rica (1969) istituisce un importante sistema regionale di cui sono parti contraenti la maggior parte degli Stati del continente americano, fra i quali però non figurano gli Stati Uniti; il controllo sul rispetto dei diritti riconosciuti dalla Convenzione è affidato ad una Commissione e ad una Corte di giustizia. Dal 1986 è in vigore anche la Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli che ha istituito una Commissione, organo quasi giurisdizionale competente a ricevere comunicazioni e con potere decisionale limitato.

Sul piano universale vengono in rilievo i due Patti internazionali promossi dalle Nazioni Unite. Il Patto sui diritti civili e politici prevede il funzionamento di un Comitato per i diritti dell’uomo che può prendere in esame reclami presentati contro uno Stato contraente da altri Stati o da individui, se lo Stato accusato ha, per i reclami statali, dichiarato di accettare la competenza del Comitato in materia, oppure, per i reclami individuali, ratificato un Protocollo opzionale ad hoc: la procedura non sfocia comunque mai in atti vincolanti, ma in rapporti e tentativi di amichevole composizione. Il Patto sui diritti economici, sociali e culturali, non prevede l’istituzione di organi ad hoc, limitandosi a stabilire che gli Stati contraenti sottopongono rapporti periodici al Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite, perché formuli raccomandazioni “di ordine generale”, o anche sottoporli all’attenzione dell’Assemblea generale.

Alla formazione delle norme internazionali sui crimini di guerra e contro l’umanità si accompagna la tendenza ad attribuire la corrispondente giurisdizione penale a tribunali internazionali. La prima esperienza in materia fu quella del Tribunale di Norimberga, creato dall’Accordo di Londra (1945), concluso tra le Potenze che occupavano la Germania debellata, per la punizione dei criminali nazisti. Così il Tribunale di Tokyo che giudicò i criminali di guerra giapponesi e che fu addirittura costituito con una decisione della sola Potenza occupante, gli Stati Uniti. Recentemente, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha costituito il Tribunale per i crimini commessi nella ex-Jugoslavia ed il Tribunale per i crimini commessi in Ruanda. Il primo, composto da due Camere di prima istanza e da una Camera di appello formate da giudici che vi siedono a titolo personale, funziona in base ad uno Statuto allegato alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza e ad un Regolamento che esso stesso si è dato; lo Statuto prevede la primacy del Tribunale rispetto alle Corti nazionali, nel senso che esse devono spogliarsi della loro competenza e gli Stati che detengono il presunto criminale devono consegnarlo al Tribunale, che ha sede all’Aja; il Regolamento disciplina la procedura ma contiene anche norme sostanziali. Disciplina simile ha il Tribunale per il Ruanda.

Lo Statuto della Corte penale internazionale permanente (1998), adottato a Roma da un’apposita Conferenza ONU, è in vigore dal 2002 ed è osteggiato da taluni Stati, fra cui gli Stati Uniti; esso prevede che la giurisdizione della Corte, relativamente ai crimini di genocidio, di guerra e contro l’umanità (con esclusione dell’aggressione), sia complementare rispetto a quella degli Stati, nel senso di poter essere esercitata solo quando lo Stato che ha giurisdizione sul crimine non voglia o non abbia la capacità di perseguirlo. Un cenno meritano infine i tribunali penali interni a composizione internazionale, istituiti in Paesi in via di sviluppo ed in situazioni post-conflittuali (ad es. il Tribunale Speciale della Sierra Leone).

 


52. I mezzi diplomatici di soluzione delle controversie internazionali.

I mezzi diplomatici si distinguono dai mezzi giurisdizionali di soluzione delle controversie in quanto tendono esclusivamente a facilitare l’accordo delle parti: essi non hanno carattere vincolante e, anche quando non vengono trascurati gli effetti giuridici della controversia, è sempre il compromesso fra le opposte pretese, e non le determinazione di chi ha torto e chi ha ragione, a costituirne l’oggetto. L’accordo può essere facilitato innanzitutto da negoziati diretti. Si parla poi di buoni uffici e mediazione quando si verifica l’intervento di uno Stato terzo, o anche di un organo supremo di uno Stato o di un’organizzazione internazionale a titolo personale, intervento meno intenso nel caso dei buoni uffici e più penetrante nel caso della mediazione: con i primi ci si limita ad indurre le parti a negoziare, con la seconda c’è una partecipazione attiva del terzo alle trattative. Infine la conciliazione, che si realizza grazie a Commissioni apposite istituite talvolta su base permanente e talvolta in modo occasionale, composte solitamente da individui e non da Stati, e che hanno il compito di esaminare la controversia in tutti i suoi aspetti, accertando i fatti che hanno dato luogo alla controversia medesima e formulando una proposta di soluzione che le parti sono libere di accettare o meno. Alle Commissioni di conciliazione vanno accostate le Commissioni di inchiesta, il cui compito è limitato all’accertamento, non vincolante, dei fatti. Spesso il ricorso alla conciliazione è previsto come obbligatorio, con la conseguente possibilità, per uno degli Stati contraenti, di dare unilateralmente l’avvio alla procedura conciliativa; tipiche al riguardo sono le norme degli artt. 65-68 della Convenzione di Vienna del 1969. Ai mezzi diplomatici vanno riportate anche quelle procedure di soluzione delle controversie a carattere non vincolante che si svolgono in seno ad organizzazioni internazionali (c.d. funzione conciliativa delle organizzazioni internazionali): tali procedure devono conformarsi alle regole statutarie di ogni singola organizzazione e possono sfociare in raccomandazioni.

La Carta ONU stabilisce che gli Stati hanno l’obbligo di risolvere le loro controversie con mezzi pacifici (art. 2). L’art. 33 ribadisce l’obbligo delle parti di una controversia, la cui continuazione sia suscettibile di mettere in pericolo il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, di perseguirne una soluzione “mediante negoziati, inchieste, mediazione, conciliazione, arbitrato, regolamento giudiziale, ricorso ad organizzazioni od accordi regionali, od altri mezzi pacifici di loro scelta”. Alla “soluzione pacifica delle controversie” è dedicato il cap. VI della Carta ONU. Ex art. 34, il Consiglio di Sicurezza dispone anzitutto di un potere di inchiesta che può esercitare direttamente o creando un organo ad hoc (ad es. una Commissione di inchiesta composta da membri del Consiglio, da funzionari dell’ONU, ecc.). L’art. 36 prevede che il Consiglio indichi quale specifico procedimento, tra quelli elencati dall’art. 33, sia appropriato in ordine al caso in specie. Nella funzione conciliativa del Consiglio rientra infine il potere di raccomandare “termini di regolamento”, ossia di suggerire alla parti come risolvere, nel merito, la loro controversia: tale potere è previsto dall’art. 37 e dovrebbe essere esercitato quando la controversia sia portata all’esame del Consiglio dalle stesse parti, o almeno da una di esse, e quando sia stata accertata l’impossibilità di raggiungere un’intesa attraverso i mezzi elencati dall’art. 33; il Consiglio ha, in realtà, finito con l’entrare nel merito delle questioni se e quando ha voluto.
Nell’ambito delle Nazioni Unite, una funzione conciliativa è svolta anche dall’Assemblea generale. L’art. 14 della Carta ONU prevede che “…l’Assemblea può raccomandare misure per il regolamento pacifico di qualsiasi situazione che…essa ritenga suscettibile di pregiudicare il benessere generale o le relazioni amichevoli tra le Nazioni…”. Una formula così generica permette di far rientrare nella funzione conciliativa dell’Assemblea tutte le misure conciliative adottabili dal Consiglio di Sicurezza in base al cap. VI. In base all’art. 12, l’Assemblea deve astenersi dall’intervenire su questioni di cui si stia occupando il Consiglio. Anche il Segretario generale dell’ONU ha prestato la propria attività mediatrice agli Stati coinvolti in crisi internazionali; la Carta non prevede simili iniziative, salva l’ipotesi in cui il Segretario generale agisca su autorizzazione del Consiglio di Sicurezza o dell’Assemblea generale: sembra pertanto che le iniziative autonome debbano collocarsi al di fuori del quadro istituzionale delle Nazioni Unite. Alla funzione conciliativa dell’ONU si affianca quella delle organizzazioni regionali; l’art. 52 della Carta ONU prevede che in seno a tali organizzazioni si compia “ogni sforzo per giungere ad una soluzione pacifica delle controversie di carattere locale…prima di deferirle al Consiglio di Sicurezza”.

 

Fonte: http://www.marcobava.eu/09Mb/Mb/APP%20GIUR%2007/Diritto%20Internazionale.doc

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