Femminismi e culture oltre l' Europa

Femminismi e culture oltre l' Europa

 

 

 

I riassunti , gli appunti i testi contenuti nel nostro sito sono messi a disposizione gratuitamente con finalità illustrative didattiche, scientifiche, a carattere sociale, civile e culturale a tutti i possibili interessati secondo il concetto del fair use e con l' obiettivo del rispetto della direttiva europea 2001/29/CE e dell' art. 70 della legge 633/1941 sul diritto d'autore

 

 

Le informazioni di medicina e salute contenute nel sito sono di natura generale ed a scopo puramente divulgativo e per questo motivo non possono sostituire in alcun caso il consiglio di un medico (ovvero un soggetto abilitato legalmente alla professione).

 

 

 

 

Femminismi e culture oltre l' Europa

 

Nel corso della storia l’evoluzione nel tempo e nello spazio di valori apparentemente immobili ed universali, come la maternità ed il matrimonio, può risultare di grande importanza per cogliere il mutamento del valore sociale assegnato all’identità femminile, all’appartenenza del genere ed alla definizione delle gerarchie sociali.
Analizzando i modi in cui si è articolato il lavoro degli uomini e delle donne e si sono strutturati i rapporti fra gruppi, ceti ed individui, oggi ci si interroga sulla necessità di rivisitare le categorie interpretative di una realtà analizzata quasi esclusivamente al maschile, sia per la carenza di fonti che per la prospettiva adottata per qualificare il concetto di lavoro.
Come ha analizzato a proposito Angela Groppi, anche per il mondo del lavoro la prospettiva di genere apre importanti squarci sulla realtà lavorativa femminile, sollecitando una riflessione sulle risorse e le grandi capacità della donna, sui lavori praticati nelle campagne e nelle città, sull’uso del corpo e delle sue funzioni (l’allattamento, per esempio) come risorsa economica, sull’esame del loro patrimonio, sulle ricerche sulle migrazioni femminili dettate dall’esigenza di sopravvivenza o di miglioramento delle proprie condizioni di vita, ed, in ultima analisi, sulla conquista dell’emancipazione riconosciuta anche sul piano giuridico oltre che morale, civile e politico.

 

1. Il lavoro e le risorse delle donne

In età moderna, le risorse e le grandi capacità della donna sono da sempre state indirizzate verso la loro grande vocazione: essere madre e moglie.
La formazione del lavoro o l’apprendimento di un mestiere non è finalizzato a sé stesso ma è subordinato al valore del matrimonio, al punto che registri fiscali e parrocchiali spesso omettono i mestieri e le professioni riguardanti le donne. Questo perché, mentre l’identità sociale maschile è stata definita soprattutto in relazione al mestiere, quella femminile dipende essenzialmente dallo stato civile (sposata, nubile, vedova) e dalla posizione occupata all’interno della famiglia (moglie, madre, figlia, sorella).                
Fin dall’antichità, il ruolo delle donne nella società intellettuale è stato rappresentato da un presunta inferiorità rispetto agli uomini e da una subalternità nei confronti di questi ultimi.
E’ solo nel corso del XIX secolo che la donna lavoratrice ha acquisito uno straordinario rilievo originato dalla massiccia e sempre più ampia presenza delle donne in molti settori lavorativi e dalla conseguente domanda di partecipazione politica.
Naturalmente la donna lavoratrice esisteva da molto prima dell’avvento del capitalismo industriale, come filatrice, sarta, bambinaia, domestica.
Ma solo nel secolo diciannovesimo la donna fu osservata, descritta e documentata con un’attenzione senza precedenti, discutendo sulla loro appropriatezza, moralità, e addirittura legalità delle sue attività salariate.
La donna lavoratrice fu un prodotto della rivoluzione industriale, non tanto perché la meccanizzazione creò posti di lavoro mentre prima non ne esistevano affatto, quanto a causa del fatto che, durante questo processo, divenne una figura tormentata e ben visibile.
La rilevanza della donna lavoratrice derivò dal fatto che era percepita come un problema, un problema di recente creazione che doveva essere urgentemente risolto. Questo problema sollevava anche la questione della compatibilità fra femminilità e salario. Le donne potevano lavorare solo per brevi periodi, ritirandosi dall’impiego salariato dopo essersi sposate o dopo aver avuto un bambino. Da questo derivava il fatto che esse si raggruppassero in certi lavori non specializzati e mal pagati.
Nel confronto tra mondo contadino e mondo urbano tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento é possibile cogliere meglio le tensioni a cui è soggetta la donna. Nel mondo contadino le potenzialità della donna erano finalizzate esclusivamente ai bisogni della famiglia senza comprometterne il suo onore. Nel mondo urbano, invece, la dipendenza della famiglia dal mercato del lavoro era assai più elevata e spingeva le donne a lavorare fuori dalle mura domestiche e con salari più bassi rispetto a quelli offerti agli uomini. Chiaramente, dal punto di vista dei datori di lavoro le donne rappresentavano una risorsa attraente, sia per i bassi salari sia perché offrivano un lavoro intenso, erano veloci e precise. Nelle fabbriche la divisione dei lavori secondo il sesso si fondava su criteri fisici: le donne lavoravano nei telai più piccoli, dotate di grandi abilità, quali velocità e precisione, dovuta anche alla piccola dimensioni delle loro dita, che talvolta rappresentavano un vantaggio consistente.
Fu proprio in fabbrica che le donne rafforzarono la loro identità, divennero più visibili e più riconoscenti delle loro capacità.

 

1.2 Storia della donna: verso una nuova identità femminile

Fino a qualche decennio fa, nei paesi industrializzati, lo status della persona era messo in diretta relazione all’ambiente di provenienza (campagna, città.), all’età anagrafica, alla formazione culturale, al ceto sociale della famiglia  d’origine,  al  tipo  di  lavoro  svolto...;  queste  schematizzazioni valevano  soprattutto  per  la  donna  che  conduceva  una  vita  appartata, impegnata  nelle  numerose  incombenze  quotidiane,  all’ombra  della  figura maschile.
La donna era l’unica custode delle relazioni familiari  privatizzate e contrapposta  all’uomo, investito di un ruolo strumentale e pubblico.
La  costante,  rispetto  al  ruolo  femminile,  che  ha  permeato  le  varie esperienze  storiche  è  la  capacità  della  donna  di  procreare  e  mettere  al mondo dei figli: l’identità femminile si è espressa ed è stata riconosciuta principalmente per  l’assolvimento  o  meno  della  funzione  biologica  della procreazione.
Gli agenti del cambiamento del ruolo femminile, si possono sintetizzare in tre fattori principali:
a)  il controllo della fecondità;
b)  l’ingresso massiccio della donna nel mondo del lavoro;
c)  il movimento per l’emancipazione femminile.

La lotta per l’emancipazione delle donne fu segnata a partire dall’intervento di John Stuart Mill che rivendica a favore delle donne quanto promosso dalla Dichiarazione d’Indipendenza americana. Il suo saggio politico The Subjection of Women (1869), tradotto in tutte le lingue europee, diventa un testo di riferimento fondamentale per la corrente egualitaria liberale assieme all’opera di Mary Wollstonecraft, Rivendicazione dei diritti delle donne. Aveva inizio un processo destinato a non arrestarsi più ed a diffondersi in ogni paese.
La nascita del femminismo risale agli anni Venti e chiedeva il superamento dei ruoli tradizionali ed un posto di guida nella società, nel rispetto dell’identità femminile, considerata una ricchezza in grado di far progredire e di rendere migliore il mondo. Le maggiori difficoltà ad ammettere una parità di trattamento tra i sessi sono state una pretesa inferiorità fisica della donna, la difficoltà a riconoscerle il diritto di proprietà, ed il timore che l’attività femminile potesse far diminuire l’occupazione maschile.
Tuttavia la donna ha subito nel corso della storia una notevole evoluzione.
Una data importante nella storia delle donne è il 1903 quando fu fondata in Inghilterra, da Emmelline Pankhurst, la “Women’s Social and Political Union”, definita “il movimento delle suffragette”, che propugnava l’estensione del suffragio elettorale alle donne.
Durante  il  periodo  della  Grande  Guerra  e  nell’immediato  dopoguerra,  le donne  sono “protagoniste  nascoste”, con la speranza  del  suffragio femminile  ancora  incompleto, poi disillusa  dalla  caduta del governo e dagli avvenimenti successivi.
In Europa, la strada che condusse alla partecipazione politica fu molto lunga. I first-comers furono la Finlandia e la Norvegia (1906, 1907), seguiti da altri diciassette paesi (nel 1920 anche dagli Stati Uniti) ed infine dalla Spagna e dal Portogallo nel 1931. Late-comers furono la Francia, l’Italia, la Grecia e la Svizzera (rispettivamente nel 1944, 1945, 1952, 1971).
L’emancipazione sessuale e la parificazione giuridica in campo familiare sono state per la prima volta pienamente realizzate nella Russia sovietica, dove però nel periodo staliniano si è realizzato un processo inverso che ha ristabilito per molti aspetti i valori della famiglia tradizionale.
Ma la donna ha dovuto lottare, come in Cina, anche per sottrarsi a pratiche terribili come la deformazione dei piedi, perseguita nella società maschilista come segno di femminilità e fonte di attrazione sessuale.
Dopo la prima guerra mondiale le lavoratrici che parteciparono alla produzione industriale furono relegate nuovamente all’interno delle mura domestiche in modo che lasciassero il posto agli uomini di ritorno dal fronte.
Fu il fascismo che ricostruì a suo modo un saldo rapporto fra donna e politica e che rielaborò i suoi spazi pubblici e privati. Molte esponenti del movimento emancipazionistico aderirono al fascismo, ma ben presto si accorsero che il nuovo modello femminile propagandato da Mussolini era centrato sul ruolo della riproduzione. Si trattò di una vera e propria politica per la formazione della donna che veniva istruita nell’economia domestica, nell’educazione all’infanzia, nell’assistenza sociale ed educata alla salute ed a una sana maternità.
Se da un lato il fascismo condannava l’emancipazione femminile, dall’altro, nel tentativo di accrescere la forza della nazione si vide costretto ad utilizzare anche la “risorsa donna” e così finì per promuovere quegli stessi cambiamenti che cercava di evitare.
La  piena  cittadinanza  politica  alle  donne,  viene  attribuita  come riconoscimento della funzione esercitata dalle donne anche nel corso della Resistenza.                     
Ciò che più unì le donne nel dopoguerra non fu tanto una qualche sensibilità femminile comune, quanto piuttosto il fatto di reagire tutte ad un insieme di dominio. Le esperienze compiute durante il periodo fascista influenzarono sicuramente il modo in cui la donna partecipò alla vita politica dopo il fascismo. Il diritto di voto finalmente conquistato nel 1946, l’entrata massiccia nel mondo del lavoro industriale e terziario, fecero riemergere con più forza l’eredità lasciata dal primo femminismo degli anni Venti, invano sedata nel ventennio fascista.
Negli  anni Sessanta l’ondata femminile trovò i suoi fondamenti negli scritti di Betty Friedan e Kate Millet. La nuova corrente segnò una svolta netta sia per la radicalità degli obiettivi sia per la novità dei metodi di lotta: la contestazione di tutti i modelli culturali legati al “maschilismo”, l’esaltazione dei valori tipicamente femminili, l’affermazione del separatismo rispetto agli uomini e l’adozione del collettivo femminile come principale forma di aggregazione e militanza.
Nel corso degli anni Settanta, il movimento delle donne si estese in tutti i paesi dell’Occidente industrializzato, ma conobbe anche fratture interne. Da una parte c’era la ricerca della parità con l’uomo, da raggiungersi soprattutto all’interno della struttura familiare; dall’altra parte c’era la rivendicazione della specificità femminile attraverso la rivalutazione dei tratti tipici delle donne.
Tutt’oggi gli effetti di trasformazione del ruolo della donna sono largamente operanti.

 

2. Donne e patrimoni

Analizzando il contenuto del primo libro del codice civile italiano (1865), redatto della commissione del Senato, di cui Paolo Onorato Vigliani era il presidente, è possibile analizzare la questione della parità tra i sessi e la figura della donna quale proprietaria a pieno titolo. Affioravano due principi: l’universalità dei diritti civili individuali e la tutela della famiglia come valore assoluto fondato sulla solidarietà ed affettività, nonché sulle implicite regole di gerarchia.
Ne deriva una contraddizione della società borghese, basata sulla impossibilità della divisione tra sfera pubblica e privata.
Tuttavia dalle fonti che registrano la ricchezza patrimoniale si evince una presenza piuttosto scarsa della ricchezza delle donne di quel tempo. Attraverso le dichiarazioni per causa di morte è possibile ricavare qualche notizia solo sui patrimoni complessivi ma non sui singoli titoli di ricchezza. Ben pochi elementi ci consentono dunque di differenziare i patrimoni femminili da quelli maschili.
Nonostante le scarse possibilità della donna di un suo possibile inserimento nel mondo economico, queste ultime si sono sempre interessate di questo settore, e ciò le ha permesso di essere protagoniste, in misura via via maggiore, della lotta verso l’emancipazione, l’equiparazione giuridica e la professionalità.
A riguardo della concezione della “dote” non esistono studi sistematici, ma sicuramente era una pratica legittima alle donne particolarmente tra l’élite della società. Alla morte del marito, la donna poteva ereditare il capitale dotale, solo se si trovava nelle condizioni per poterlo recepire. Solo allora alla donna le erano riconosciuti i diritti civili e poteva essere titolare di un patrimonio. Questo testimonia il dramma delle “donne sole” e la premessa per l’emancipazione. Solitudine che per lo più si diffonde negli ambienti popolari segnati poi dall’espansione di nuovi mestieri.

 

 

3. Nuovi mestieri: Donne, “maestre d’Italia”

Alle soglie dell’Unità d’Italia nascono i primi programmi per scuole magistrali, cui il nome di “maestre” venne assegnato a chi potesse essere capace di istruire, anche se i profili di quest’attività erano piuttosto incerti.
Le prime “scuole di metodo” e “scuole magistrali” nacquero nel Lombardo-Veneto e in Piemonte; tuttavia, al di sotto del Po non esisteva ancora alcuna scuola.
Furono le donne ad essere riconosciute come i soggetti più idonei all’insegnamento per “affetto”, “sentimento religioso” e “pazienza”, considerate le vere protagoniste dell’ “unificazione morale del paese”.
Con la nascita di questo nuovo mestiere si apre un varco tra il loro spazio pubblico e privato che porterà alla formazione di nuove identità femminili.
Testimonianza della loro vocazione all’insegnamento fu la disponibilità mostrata nell’accettare posti di lavoro anche fuori dalle città stesse, che consentì una maggiore mobilità sociale ed apertura culturale oltre che un incremento dell’istruzione al Sud.
Fra la nascita del Regno d’Italia e lo scoppio della prima guerra mondiale si venne delineando una figura di insegnante femminile del tutto nuova, dotata di una maggiore consapevolezza delle loro doti e abilità che permise, tra l’altro, la diffusione della lingua nazionale.
Le donne divenivano le madri culturali dei futuri cittadini ed avevano il compito di impartire l’amore per la patria che doveva essere amata dalla donna nella stessa misura che dall’uomo.
In quest’ottica, la donna doveva insegnare, prima ancora con i comportamenti che con le parole, i valori della patria e della famiglia, sostenitrice dell’idea di fare della donna il perno del nuovo progresso civile.
Fu soprattutto con il varo delle leggi sull’obbligo scolastico (1877) e sull’ampliamento del suffragio politico (1882) che furono apportate delle modifiche significative nell’insegnamento, necessarie per consentire un maggior livello di consapevolezza dei loro diritti. Solo dieci anni dopo, le donne riuscirono a rivendicarli ed ad impegnarsi in iniziative con finalità sociali.
Nel 1899, la delegazione italiana al Congresso internazionale di Londra, guidata da Maria Montessori, dedicava il suo intervento ai problemi delle maestre, mentre nel 1900 l’associazione “Per la donna” di Roma si interessava delle condizioni morali, economiche e sociali delle maestre del Centro-Sud.
Tra il 1903 ed il 1911 furono emanati una serie di provvedimenti al fine di chiarire le procedure dei concorsi e dei licenziamenti, della concessione del diritto di voto alle donne negli organismi di tutela e di controllo e di innalzare i minimi salariali. Ma le donne divennero vittime di una fitta trama di illegalità dato che quelle leggi e quei regolamenti scolastici non vennero, fino a quel momento, osservati.
Il motto dell’Unione nazionale diede la forza alle maestre di ribellarsi affinché venissero riconosciuti i loro diritti. Questi abusi nei confronti delle donne devono essere interpretati dentro una scuola ancora vista come un’estensione di funzioni proprie della famiglia.
E’ possibile delineare l’immagine della vita privata delle maestre solo in relazione al loro lavoro, intorno alla questione del salario e della dipendenza economica.
Insidiate ed offese dalle autorità e dall’opinione pubblica le maestre sarebbero divenute un “genere storico-letterario” che raccontava di storie di umiliazioni, persecuzioni ed ingiustizie. Dallo studio di questo genere si evincono complessi giochi di costruzione dell’identità, status, relazioni interpersonali e gerarchie sociali. Testimonianza ne è una rubrica del “Corriere delle maestre” che risale ai primi del Novecento: questa definiva L’inqualificabile vergogna del trattamento riservato alle maestre e della violazione di norme relative al lavoro da loro esercitato.

Donne negli ambienti universitari

L’Università è il luogo per eccellenza in cui si producono scienza e cultura, ed è interessante vedere come, anche in questo ambiente che si ispira a principi di universalismo, si riscontrino,  oggi giorno, meccanismi discriminatori. 
E’ possibile notare come l’approccio alla docenza accademica, una scelta lavorativa forte ed invasiva, è sicuramente diverso da quello maschile finora dominante. Risultano fondamentali fattori di tipo culturale insieme a pregiudizi e stereotipi su ciò che è ritenuto più o meno adatto e consono alle donne piuttosto che agli uomini, fattori, che, come abbiamo visto, affondano le loro radici nel più lontano passato ma che continuano ancora oggi ad esercitare fortemente la loro influenza. Una prova evidente è rappresentata statisticamente dalla migliore progressione delle carriere maschili piuttosto che quelle femminili, dovuta anche al diverso effetto esercitato dalla famiglia sulla carriera di uomini e donne, soprattutto in relazione all’uso ed alla disponibilità di tempo, risorsa fondamentale anche per l’instaurazione di tutti quei legami e relazioni utili per la propria visibilità ed il buon inserimento nell’ambito e nella gestione del potere accademico.
La situazione discriminatoria in Italia è simile agli altri paesi europei, dato piuttosto sconfortante, se pensiamo a tutte le energie investite da coloro che lottarono per la rivendicazione dei loro diritti civili, morali e politici.

 

4. Le impiegate del Ministero delle Poste

Alla fine del XIX secolo si verificò la femminilizzazione del lavoro impiegatizio. Settore definito labour intensive, in cui il capitale è rappresentato soprattutto dal lavoro del personale. Le donne, in questo senso, erano un’ottima risorsa, grazie alla loro preparazione e cultura ed ai loro costi.
Le prime occupazioni furono quelle legate al commercio, al segretariato, alla contabilità ed archivio; e, soprattutto, quelle inserite nel campo dell’istruzione e della comunicazione.
Nel 1865 fu emanato il regolamento che consentiva alle donne di impiegarsi nelle Poste, prima solo le vedove, figlie e sorelle di impiegati defunti, poi fu esteso anche a coloro che non avevano alcun legame di parentela con gli impiegati.
Come dimostrano i fascicoli di richieste rivolte dalle dipendenti all’amministrazione delle Poste, lo stipendio non bastava per la sopravvivenza di una famiglia, e spesso si viveva questo impiego come un sacrificio che procurava frustrazione dato che le donne percepivano stipendi decisamente inferiori rispetto a quello dei colleghi, e senza possibilità di carriera. C’è inoltre da aggiungere che questo lavoro non rispondeva a nessuna vocazione o desiderio di dedicarsi agli altri, come invece avveniva per le maestre, le istruttrici, le infermiere.
L’impiego prevedeva la figura di ricevitori e ricevitrici che erano responsabili delle “ricevitorie” (gli odierni uffici postali), locate in tutto il territorio nazionale. Nelle grandi città, il ricevitore (in questo caso era sempre un uomo) aveva alle dipendenze sei o sette impiegati, quasi sempre donne, mentre invece nei piccoli centri si contavano uno o due dipendenti.
Nel 1873 venne istituito il ruolo di ausiliaria telegrafica. Il lavoro consisteva nel ricevere, trascrivere e trasmettere i telegrammi attraverso i cosiddetti “apparati”. Per questo lavoro vennero assunte anche le donne, a patto che fossero nubili. Al momento del matrimonio l’amministrazione offriva una sorta di dote che equivaleva ad un anno di stipendio. Ma dopo anni di intensissime lotte sindacali le donne riuscirono ad ottenere sia l’abolizione del divieto di matrimonio sia il riconoscimento di impiegate di ruolo. Purtroppo però le condizioni peggiorarono quando nel 1907 lo Stato trasformò i telefoni in una propria azienda revocandola dai privati. Le telefoniste si ribellarono aspramente, appoggiate in Parlamento da Turati. La politica dello Stato era improntata sul risparmio e le donne si rivelarono la risorsa migliore per l’ottimo rapporto tra costi e rendimento del lavoro.
Le donne dovevano inoltre difendersi dagli stereotipi sulla loro immagine. Furono ritratte come impiegate frivole, chiacchierone, impertinenti ed ignoranti o, addirittura, come zitelle invecchiate in ufficio, figura che si ritrova nel racconto L’incontro di Ada Negri. Nella letteratura, le impiegate non sarebbero altro che un universo infelice e meschino; contrariamente, sui giornali femminili di stampo socialista o cattolico, si conferisce alla donna un’immagine più complessa che denota una chiara coscienza sia di politica che di genere oltre che della loro professionalità.
Anche in questo caso, come nel mondo delle maestre, diverse furono le campagne di protesta per il riconoscimento dei loro diritti, realizzate con articoli di denuncia, assemblee e dichiarazioni.

Donne alla dirigenza pubblica

Per vedere le donne impiegate nella Pubblica Amministrazione con pari diritti agli uomini e, per vedere accolto un loro possibile inserimento nello scenario della dirigenza pubblica bisognerà aspettare la seconda metà del Novecento, ed in particolare una riforma degli inizi degli anni Novanta a riguardo del ruolo del manager.
Solo a partire da questi anni si difende l’idea che una buona performance manageriale è rappresentata dalla capacità di fare della gestione delle risorse umane uno strumento per migliorare le prestazioni delle amministrazioni pubbliche. Al fine di questo, è importante conoscere anche il profilo, le competenze, il ruolo e gli atteggiamenti della dirigenza pubblica, e dunque, sapere chi sono, da dove vengono, che background educativo hanno, come percepiscono il loro ruolo, considerazioni essenziali nelle decisioni che hanno rilevanza collettiva.
A ragione di queste considerazioni, è fondamentale svolgere un ruolo di primaria importanza per valorizzare le differenze di genere nelle politiche della scelta del personale e promuovere la presenza delle donne in posizione di vertice per raggiungere un equilibrio di genere a livello decisionale, così come ha affermato la Comunità Europea. Tale politica è fondamentale per sviluppare un clima favorevole all’innovazione, e soprattutto alla democratizzazione ed al riconoscimento delle pari opportunità, vincendo, si spera, ogni pregiudizio e stereotipo radicato nella Pubblica Amministrazione sin dalla sua nascita.

 

          5. La partecipazione nel lavoro: dalla differenza all’autonomia      

Con lo sviluppo delle esperienze di lavoro femminile si concretizza un nuovo ruolo della donna. Prima di allora, l’identità sociale femminile, era stata definita in relazione allo stato civile ed alla posizione della donna all’interno della famiglia, e non in relazione al lavoro, come per gli uomini, e questo aveva portato ad una sua invisibilizzazione.
Ma con l’aumento della partecipazione femminile nel mercato del lavoro si è andata modificando la prospettiva della loro immagine all’interno della società.
Il nostro paese ha visto aumentare i tassi di attività femminili nella seconda metà degli anni Settanta ma in venti anni è riuscito a ridurre di poco la distanza che lo separa dagli altri paesi della Comunità.
Ciò che più è degno di nota è, inoltre, il cambiamento nella qualità di questa partecipazione, cioè i cambiamenti nei modi e nella sostanza della presenza femminile sul mercato del lavoro.
Sappiamo, come nota la Groppi, che “la partecipazione ai processi produttivi è per tutti, uomini e donne, il risultato di un’interazione tra strategie domestiche e mondo del lavoro”. Per le donne, però, data la loro posizione subordinata all’interno della famiglia, il carico domestico ha rappresentato, e rappresenta tuttora, un vincolo maggiore, che le influenza pesantemente nelle scelte lavorative.
Così mentre “l’estensione temporale delle carriere maschili è indipendente da ogni altra variabile che non sia lo stato dell’economia e del mercato del lavoro”, non si può dire lo stesso per la situazione femminile. Mediamente, infatti, le carriere femminili delle donne sono più brevi rispetto a quelle degli uomini; sono maggiormente influenzate dal titolo di studio; risultano condizionate dal matrimonio, e ancor di più dalla maternità, che hanno l’effetto di ostacolarle ed abbreviarle. Fino agli anni Settanta, la partecipazione delle donne al mercato del lavoro è stata molto influenzata da questi fattori.
Il dato più rilevante è che, a partire dagli anni Ottanta in poi, si è andato affermando un nuovo modello di partecipazione femminile che è del tutto simile a quello maschile, nei tempi e nei modi di permanenza nel mercato, ed è molto influenzato dal ciclo di vita familiare. In questi anni il livello d’istruzione delle donne aumenta considerevolmente rivelando l’importanza di questo bene d’investimento e risorsa strategica per ottenere l’accesso ad alcuni settori occupazionali, tale da consentire un buon livello di autonomia finanziaria e una buona realizzazione economica.

Analisi dell’occupazione femminile a partire dagli anni ‘80

In Italia, l’aumento dell’occupazione femminile si registra proprio a partire da questi anni ed ha interessato soprattutto il settore terziario, nel ramo dei servizi pubblici e privati e nel settore commerciale, fenomeno che si rileva fino ai nostri giorni.
Attraverso l’analisi delle curve dei tassi di attività per età, si possono così individuare due modelli principali di presenza delle donne nel mercato del lavoro, corrispondenti a due aree socioculturali e geopolitiche diverse; due modelli che mostrano, rispettivamente, una diversa incidenza del ciclo di vita familiare sull’attività lavorativa delle donne.
Infatti, fino ai primi anni Ottanta, la curva dei tassi di attività dell’Europa centro-settentrionale presentava una caratteristica forma “a M”: ciò indicava una partecipazione delle donne molto elevata fino ai  venticinque anni di età, cui seguiva un periodo di ritiro dal mercato del lavoro al momento del matrimonio e soprattutto alla nascita del primo figlio, e, successivamente, intorno ai trentacinque anni, un rientro nel mercato poiché i figli erano cresciuti e gli oneri familiari meno gravosi.
L’Europa meridionale, invece, con il suo scarso e poco efficiente Welfare State, mostrava anche una permanenza lavorativa delle donne di minore durata, con una curva dalla caratteristica forma “a L rovesciata”. Fino ai venticinque anni di età i tassi di attività femminili erano appena inferiori a quelli dell’Europa settentrionale, ma l’uscita dal mercato del lavoro era più netta e il rientro quasi inesistente.
Dagli anni Ottanta, però, comincia ad affermarsi un modello di partecipazione diversa, simile a quella maschile, rappresentato dalla cosiddetta curva a forma di campana, che indica una presenza femminile, nel mondo del lavoro, non più temporanea, ma stabile, che inizia intorno ai 25 fino agli oltre 50 anni, per poi cominciare a declinare. Questo modello caratterizza la partecipazione femminile nei Paesi Scandinavi e in Danimarca, ma sta sostituendo la cosiddetta curva ad M anche in Francia, Germania e Gran Bretagna, e lo stesso cambiamento si verifica nei paesi dell’Europa meridionale, anche se in diversa misura per Italia, Grecia e Portogallo, mentre la Spagna rimane caratterizzata dal modello a L rovesciata.
In Italia sono soprattutto le regioni centrosettentrionali a presentare questa nuova curva a campana, con in testa l’Emilia Romagna, che detiene anche il più alto tasso di attività femminile del nostro paese, nonché il più basso tasso di natalità del mondo, e la Lombardia.
La crescita della forza lavoro femminile verificatasi nei paesi occidentali, è avvenuta grazie a diversi fattori concomitanti, sia strutturali sia socioculturali.
Dal lato della domanda, ad esempio, è stato decisivo l’esteso ampliamento del terziario, settore che si va sempre più femminilizzando: all’inizio di questo decennio il 40% delle donne era occupata nel terziario, e in Francia e in Gran Bretagna la quota ha già superato da tempo il 50%.
Questo settore, inoltre, comprende, per lo più, attività tradizionalmente demandate alle donne: dall’assistenza ad anziani e malati, all’educazione dei giovani. Attività che un tempo le donne svolgevano all’interno delle mura domestiche, e che adesso si sono professionalizzate.
Il lavoro nel terziario è poi generalmente caratterizzato da un orario ridotto e più flessibile, e viene dunque incontro alle esigenze di gestione della famiglia da parte delle donne, alla cosiddetta “doppia presenza”. Inoltre, al pubblico impiego si accede per concorso su titoli ed esami, quindi attraverso “meccanismi di selezione all’ingresso molto formalizzati e indifferenti agli attributi di genere”, perciò non penalizzanti per le donne, come, invece, lo sono quei meccanismi in cui discrezionalità e cooptazione sono alte.
Anche dal lato dell’offerta di lavoro, quella femminile, si è molto modificata: le donne sono sempre più scolarizzate, e il possesso di un elevato titolo di studio allunga la loro permanenza tra le forze lavorative;  il lavoro, inoltre, non è più visto come una parentesi temporanea in attesa del matrimonio, ma è considerato uno degli elementi centrali del progetto di vita.
I movimenti femminili e femministi, negli anni Settanta, hanno contribuito alla formazione di una nuova identità e coscienza femminile.
Sono cambiati i valori e soprattutto gli stili di vita di uomini e donne. La separazione tra sessualità e procreazione ha dato alle donne la possibilità di gestire e organizzare, diversamente dal passato, la propria vita; il tasso di matrimonio si è abbassato, e l’evento stesso si è posticipato; anche il tasso di fecondità è diminuito e la nascita del primo figlio avviene in età più avanzata.
L’intrecciarsi ed influenzarsi di questi ed altri fattori insieme, ha condizionato positivamente l’ingresso, la presenza e la permanenza delle donne nel mercato del lavoro. Però, nonostante il miglioramento delle condizioni e opportunità lavorative femminili, le disuguaglianze di genere nella partecipazione al lavoro permangono in maniera più meno vistosa, per profonde cause strutturali e culturali.
Le donne continuano, infatti, ad entrare nel mondo del lavoro come agenti sociali subordinati, poiché la loro posizione subordinata all’interno della famiglia e della società nel suo complesso, precede quella lavorativa.
Le lavoratrici partono, fin dall’inizio, da una situazione svantaggiata, rispetto agli uomini che godono di più tempo a disposizione e, generalmente, non sono vincolati, né fisicamente né psicologicamente, dalle responsabilità nella cura quotidiana della famiglia.
L’ineguale strutturazione del lavoro di cura, ed il conseguente minor tempo libero a disposizione delle donne, le penalizza anche dal punto di vista della progressione di carriera, poiché limita la loro possibilità di formazione professionale e di aggiornamento continuo. La mancanza di tempo libero, inoltre, come si diceva in precedenza, rende più difficoltoso intessere quelle reti di relazioni informali che sono invece indispensabili per la propria visibilità e carriera.
A tutto ciò si aggiungono una struttura e un sistema organizzativo dei luoghi di lavoro non neutrali rispetto alle diversità di genere, ma centrati sulla figura del lavoratore maschio adulto capofamiglia, che certo non semplificano né facilitano la permanenza e il recente ingresso femminile nei diversi ambiti lavorativi.
Per questi ed altri fattori, ci troviamo ancor oggi di fronte ad una situazione di perdurante segregazione occupazionale.

 

6. Madre e figlie nell’emigrazione americana

La progressiva femminilizzazione dei flussi migratori è un fenomeno recente ed estremamente significativo. La peculiarità della migrazione femminile ha gran parte delle sue motivazioni di base riferibili ad esigenze economiche ma, a differenza della migrazione maschile, unisce motivazioni anche intime e soggettive, come le fratture affettive ed i ricongiungimenti familiari. Dal processo migratorio emerge una figura complessa di una donna in bilico sul confine che separa il rischio della marginalità e l’obiettivo della emancipazione.
Nel complesso processo migratorio, la propria identità femminile, la propria identità nazionale o etnica, la tensione all’emancipazione coinvolgono la donna al livello di tutto il suo sistema culturale di riferimento, producendo esiti che vanno dalla tormentata integrazione all’adattamento definitivo nel tempo per motivi economici. Quella che emerge è una figura di donna che, pur vivendo una condizione di scarsa visibilità sociale rispetto ai maschi, è fortemente determinata a “riuscire” nel proprio progetto migratorio ed a custodire la propria identità culturale e di genere. E’ pur certo che l’universo migratorio femminile non è un tutt’uno monolitico ma presenta varie componenti in relazione alla provenienza rurale o urbana della migrazione, e con riferimento specifico alla etnia di appartenenza. Pertanto non si può parlare di donne emigranti come un gruppo sociale omogeneo, portatrici di un’unica cultura.
Il modello migratorio in genere deve la sua complessità a due flussi paralleli, uno temporaneo ed uno definitivo. Luigi Bodio distingue un’emigrazione permanente per l’America meridionale da una temporanea europea, anche se non sempre la bipolarità europeo-americana era così netta.
L’emigrazione italiana negli Stati Uniti fu soprattutto una migrazione proletaria, costituita per la maggior parte da contadini, manovali e manodopera non specializzata, inizialmente proveniente soprattutto dall’Italia settentrionale o centrale.
La proclamazione del regno di Italia nel 1861 fu uno dei primi motivi della emigrazione. La libertà che gli italiani avevano conseguito dal dominio straniero non segnò infatti anche la fine delle disuguaglianze e delle ingiustizie, al contrario si assistette all’inizio dello sfruttamento sistematico delle regioni più povere da parte di quelle più ricche.
In questo periodo gli emigranti dal Sud Italia superarono di gran numero quelli dall’Italia settentrionale. La fuga dalla fame costituì una delle principali motivazioni dell’emigrazione meridionale, ma non va tralasciata l’altra e non meno importante, rappresentata dal desiderio di raggiungere un grado di mobilità sociale maggiore di quello generalmente consentito dalla situazione nazionale, cui meta più ambita erano gli Stati Uniti, scalzando il posto alla America del Sud che in un primo momento costituì una meta importante per gli emigranti.
Il numero di quanti emigrarono dal Mezzogiorno aumentò di anno in anno, ma con particolare intensità dal 1875 alla vigilia della prima guerra mondiale. L’ottanta per cento degli emigranti erano uomini e la maggior parte di quello che guadagnavano lo inviavano alla loro famiglia in Italia. I legami con la madrepatria erano forti ed il soggiorno in America era visto solo come temporaneo. I primi immigrati vennero chiamati birds of passage ed il loro viaggio in America era finalizzato solo a raccogliere il denaro necessario per una vita migliore nella propria terra. Tale processo sarebbe mutato solo più tardi con l’insediamento definitivo di intere famiglie di immigrati in suolo americano.
La mobilità delle donne era di molto inferiore, inibita dai loro ruoli familiari. Era infatti molto più difficile per le donne emigrare per conto proprio, quando anche il buon costume vietava loro di viaggiare da sole. Coloro che lo facevano, emigravano o per aiutare economicamente la propria famiglia, o per migliorare la propria dote, o ancora per trovare marito. Saltuariamente, anche alcune donne abbandonate dai mariti o rimaste vedove sceglievano di emigrare per dare una svolta alla propria vita. La condizione di moglie era poco propizia alla partenza. Vi si opponevano il disagio e l’incertezza cui andavano incontro gli uomini sui mercati del lavoro esteri, nonché la necessità di gestire le risorse coniugali. Dunque erano le donne ad assumersi lavori agricoli pesanti, a soddisfare i creditori ed a investire i risparmi spediti dal coniuge, ma, talvolta, il disbrigo di funzioni prima di allora inaccessibili le faceva crescere nella considerazione di sé e degli altri. La partenza degli uomini era una sorta di impresa rischiosa che doveva trovare favorevoli tutta una serie di fattori, a cominciare dal trovare all’arrivo un alloggio adeguato, per completare con un buon mercato del lavoro.
Anche la comunicazione epistolare influenzava il flusso emigratorio: notizie sui salari, sui momenti di depressione, o sulle possibilità di lavoro, potevano incentivare o arrestare per un po' il fenomeno. Gli stessi emigrati che ritornavano a casa rappresentavano un incentivo. Venivano chiamati americanos, delineando con il termine coloro che erano diventati ricchi, non importava come, il denaro da solo dava un'altra identità alle persone. Nelle Little Italies del Nuovo Mondo si verificavano fenomeni di “invasione” e di “successione” da parte delle nuove ondate d'immigrati.
Nel 1930, in America, erano presenti quasi due milioni di persone di origine italiana, il più grande numero mai registrato in un censimento.
Evidentemente, nonostante le leggi severe che riguardavano l’immigrazione, gli italiani non rinunciavano al sogno americano. La quota delle donne fornisce l’indicatore più certo dell’ammontare dell’immigrazione permanente e se ne può dedurre che questo equivalesse all’incirca alla metà dell’intero flusso verso gli Stati Uniti.
L’emigrazione italiana portò una gran quantità di denaro nell’economia del Sud Italia, denaro che, anche se non cambiò le condizioni del sistema agricolo, permise ad alcuni contadini, una volta tornati in Italia, di comprare la propria terra o pagare le tasse imposte dai proprietari; tuttavia, la struttura sociale sovrastante impediva ogni cambiamento sostanziale.
Fu New York da subito la città con maggiori insediamenti d’immigrati. Le offerte di lavoro furono svariate: lavori per scalpellini, manovali, muratori, sarti ed anche le poche donne erano inserite in questa sorta di “terziario informale”, tra cui emerge il lavoro a domicilio, le occupazioni di raccoglitrici di stracci, e operaie addette alla biancheria  che proliferavano nelle cosiddette tenement-houses di New York. Ad ogni modo, l’apogeo del lavoro a domicilio fu di breve durata; meccanizzazione e centralizzazione ne minarono l’esistenza. Da allora in poi il mercato femminile si scisse in due in base all’età ed allo status.
Nel primo trentennio del Novecento ebbe una diffusione senza pari un nuovo fenomeno: il sistema del subaffitto o boarding house. L’ospitalità era molto disagiata. L’inquilino non disponeva di una stanza tutta per sé. Lavoro a domicilio e boarders erano le uniche due risorse delle donne coniugate. Il servizio domestico forniva una risposta immediata al problema del lavoro, ma anche a quello dell’alloggio. Malgrado quindi la sua gravosità, il lungo orario di lavoro, la mancanza di privacy ed il basso status, questo tipo di servizio fu il più accettato e condiviso dalle immigrate di quel tempo.
Durante la Grande Depressione il blocco dell’immigrazione europea fu evidente motivo dell’alta disoccupazione femminile. La segregazione sessuale del mercato del lavoro provocò alti costi sociali. Durante la Depressione si susseguirono campagne intese ad allontanare le donne dalla produzione per far posto agli uomini. A onta di ciò, la richiesta di donne conobbe in breve una crescita vertiginosa a partire dal 1930; si registrò un decisivo aumento del lavoro a domicilio durante la presidenza rooseveltiana che dichiarava che “L’America di prima della seconda guerra mondiale era innanzitutto un paese di casalinghe”. Si promosse una politica a favore della scolarizzazione ed anche le famiglie italiane si videro messe alle strette dalla più severa vigilanza dello Stato; fra queste, a molte si negò la permanenza in America a causa della loro inadeguata istruzione. Ma né la politica restrizionista né la seconda guerra mondiale fecero estinguere del tutto l‘afflusso verso gli USA. Si registrò un meccanismo di scorrimento sociale che permise alle donne di integrarsi nella terziarizzazione americana, le stesse che prima le era consentito fare solo le domestiche.
Oggi si parla di “femminilizzazione” dei flussi migratori per indicare sia la portata numerica sia la specificità delle donne all’interno dei processi migratori su scala planetaria. Negli ultimi anni infatti le donne hanno raggiunto la metà circa della popolazione emigrata a livello mondiale. E’ da sottolineare ancora una volta che, per la donna, migrare significa compiere un salto più difficile che per l’uomo, perché comporta l’allontanamento da quella rete di relazioni con la comunità d’origine, che se da un lato costituisce una forma di dipendenza, dall’altra è una garanzia di difesa e di sicurezza per sé e per i figli.
Il progressivo aumento della componente femminile nei processi migratori, ha fatto emergere una diversa modalità interpretativa del fenomeno che si può sintetizzare nei seguenti punti nodali:

  • Il riconoscimento del ruolo economico centrale che le donne assolvono.
  • Il significativo superamento di una rappresentazione della donna immigrata come “marginale”, sostituita con l’idea di una donna attiva e portatrice di capacità.
  • L’evidenziazione dell’azione delle donne emigrate nel riadattamento delle culture d’origine, nella vita associativa, nell’inserimento professionale.
  • La messa in rilievo di un quadro dell’emigrazione femminile variegato per tipologie culturali e paesi di provenienza.
  • L’impossibilità di considerare le donne migranti come un gruppo omogeneo; anche se condividano una serie di problemi specifici.

Negli ultimi anni le migrazioni internazionali hanno assunto nuove caratteristiche, offrendo nuovi inserimenti professionali e dinamiche migratorie che rispondono a diverse esigenze. Nell’epoca della globalizzazione, la migrazione è divenuta essa stessa un fenomeno globale che interessa il mondo intero. Le trasformazioni economiche, sociali, politiche e culturali connesse alla moltiplicazione delle comunicazioni e dell’informazione, prodottesi tanto nei paesi di partenza quanto in quelli di destinazione, s’inseriscono nel processo di globalizzazione dell’economia, che fa del mercato l’unica forza regolatrice che tende a rompere qualsiasi barriera.

 

7. La protezione concessa e l’uguaglianza negata: il lavoro femminile nella legislazione italiana

Il lavoro è stato da sempre uno degli argomenti più dibattuti dalle diverse parti sociali nella storia della Repubblica Italiana. Basti semplicemente pensare all’articolo di apertura della Costituzione, che definisce l’Italia una Repubblica democratica fondata sul lavoro.
A partire dalla seconda metà del secolo scorso il mondo del lavoro delle donne era già affollato da sarte, maestre, commesse, impiegate. La legislazione si occupò, però, prevalentemente delle operaie.
Fino ad allora  l’attenzione era rivolta maggiormente al lavoro dei bambini, ma da quel momento in poi, ci si occupò, in special maniera, delle donne; preoccupazioni suscitavano per le malattie, gli aborti, ed in genere i danni fisici che il lavoro industriale procurava alle operaie. Lo sfruttamento di questo era agevolato dall’assenza di limitazioni legali; per gli industriali l’impiego delle donne era fondamentale ed il lavoro notturno era divenuto una regola.
In Italia, il primo atto della storia della legislazione sociale fu la legge 11 febbraio 1886, n. 3657, sul lavoro dei bambini, che venne promulgata solo dopo una lunga vicenda parlamentare. La legge, al di sotto dello standard delle leggi europee simili, introduceva il divieto di utilizzare il lavoro dei minori di nove anni in opifici, cave e miniere; limitava a otto ore giornaliere l’orario di lavoro per i minori di dodici anni ed a sei ore il lavoro notturno dei fanciulli dai dodici ai quindici anni; e vietava il lavoro dei minori di quindici anni nei lavori pericolosi e malsani. Tuttavia, la legge prevedeva numerose eccezioni e deroghe. Le donne furono escluse dalla protezione di questa legge e si dovrà aspettare il 1902 per una loro presa di coscienza.
Anna Kuliscioff sosteneva l’urgenza di dare una tutela al lavoro delle donne; a questa esigenza si contrapponeva però la paura che la  tutela legale del loro lavoro avrebbe causato di far uscire le donne dal mercato. La parità salariale non veniva neppure richiesta per il timore che potesse causare l’abbassamento dei salari maschili anziché l’aumento di quelli femminili.
La legge n. 242 a tutela del lavoro delle donne venne varata in Parlamento il 19 giugno 1902; le nuove disposizioni fissavano il limite d’età per l’ammissione al lavoro dei fanciulli a dodici anni; la legge vietava altresì i lavori sotterranei per le donne di qualsiasi età, e limitava a dodici ore giornaliere l’orario massimo di lavoro, prevedendo per le donne un riposo settimanale di ventiquattro ore. Il lavoro notturno era vietato solo alle minorenni.
La tutela del lavoro delle donne era concessa solo perché si credeva nella naturale inferiorità delle donne ed alla maternità come loro unica funzione sociale. Tale legge, nominata “Carcano” venne modificata nel 1907 con la legge n. 416, che sanciva il divieto del lavoro notturno verso tutte le donne
Un’innovazione importante fu l’istituzione del congedo di maternità. In Svizzera era già stata istituita nel 1877; ad essa faranno seguito Austria, Ungheria, Olanda, Belgio Portogallo, Inghilterra, Norvegia e Spagna. In Francia la svolta si verificò con la legge Engerand del 1909, che garantiva il mantenimento del posto di lavoro alle donne che lo abbandonavano per un massimo di otto settimane prima e dopo il parto; tuttavia questo congedo non era obbligatorio e non veniva compensato da alcun sussidio. Furono necessari altri quattro anni di agitazione politica prima di giungere alla legge Strauss del 1913 e ad un’altra legge finanziaria. Entrambe le leggi obbligavano i datori di lavoro a concedere il congedo di maternità e si stabilirono in seguito sussidi anche per i figli. Queste leggi posero le basi per lo stato sociale francese.
In Italia la “cassa di maternità”, destinata a finanziare il congedo, fu introdotta nel 1910. Si basava sul modello assicurativo ed i suoi contributi obbligatori venivano versati solo dalle lavoratrici donne oltre che dai datori di lavoro.
In Gran Bretagna la questione aveva invece causato grande agitazione. La Women’s Co-operation riuscì a far accogliere nel testo della legge sulla maternità un maternity benefit non solo per le donne assicurate, ma anche per le parenti non lavoratrici di uomini assicurati. Singolare fu la legge australiana del 1912 che garantiva alle citizens il sussidio di maternità indipendentemente dallo stato di famiglia e dal mestiere, e pertanto era più progressista del modello assicurativo europeo.
Durante il nazismo vennero escluse dalla protezione della maternità le donne di “razza inferiore”, in particolare le ebree e le operaie che svolgevano lavori forzati.
L’evoluzione europea della protezione della maternità pose le basi per la compatibilità del lavoro femminile retribuito e di quello domestico. In tutti gli stati europei si dovette far ricorso al “popolo”, alla “razza” o al “genere umano” per riuscire a convincere i legislatori e l’opinione pubblica del fatto che il denaro ed il tempo per le madri non erano investiti solo nel loro proprio interesse, ma anche in quello del “bene comune”. Nasce lo Stato sociale europeo e insieme ad esso nasce il concetto di intervento dello stato nel libero gioco delle forze di mercato al fine di risolvere i problemi sociali.
Nel 1919 con la legge 1176 fu sancita per la prima volta l’ammissione delle donne, “a pari titolo degli uomini, ad esercitare tutte le professioni e da coprire tutti i pubblici impieghi”, esclusi soltanto “quelli che implicano poteri pubblici giurisdizionali o che attengono alla difesa dello Stato”.
L’uguaglianza all’uomo era però ancora molto incompleta.  Le amministrazioni conservavano il potere di individuare i casi di esclusione delle donne non sul presupposto dell’inferiorità morale o intellettuale della donna, ma solo sulle obiettive esigenze di determinati uffici. A farne le spese furono soprattutto le insegnanti; le donne potevano essere escluse in alcune scuole per regolamento e/o per talune materie.
Durante il periodo fascista l’inferiorità naturale delle donne a svolgere lavori di responsabilità era definita secondo la legge. Emergevano talvolta diverse contraddizioni: si necessitava manodopera a basso costo, ma era anche necessario assicurare l’occupazione dei maschi capifamiglia; espellere le donne dal mercato del lavoro, ma tutelare contemporaneamente le lavoratrici nell’interesse della razza. Venne separata la tutela del lavoro femminile dalle tutela della maternità. L’astensione dal lavoro era prevista per un periodo di un mese prima del parto e sei settimane dopo; venne in seguito sancito il divieto di licenziamento dalla presentazione attestante lo stato di gravidanza fino alla cessazione del periodo di astensione obbligatoria post partum.
Un’importante innovazione venne introdotta nel regime assicurativo: il sussidio di disoccupazione per i giorni di astensione dal lavoro veniva inserito nel sussidio erogato dalla Cassa nazionale di maternità; era raddoppiato nell’ammontare e condizionato ad un minimo di anzianità contributiva.
Negli anni Trenta si susseguirono ripetuti interventi legislativi di carattere “espulsivo”, aventi ad oggetto l’estromissione delle donne dal pubblico impiego prima, ed anche dal lavoro privato dopo, con l’obiettivo di limitare il lavoro femminile extradomestico.
La fine della seconda guerra mondiale segnerà la grande svolta nella storia della legislazione sul lavoro femminile: grazie all’adozione nel Testo costituzionale dell’art. 37 infatti alle donne verrà finalmente riconosciuta la stessa retribuzione “che spetta al lavoratore”. Ad ogni modo, la strada dell’attuazione di questo articolo fu lunga e difficile.

 

8. Genere, identità e complessità sociale

A partire degli anni Ottanta si apre una nuova riflessione entro le ricerche sulla donna. E’ noto come in tutte le società avanzate le opportunità di accedere al mercato del lavoro non si distribuiscono in modo proporzionale fra i vari gruppi sociali; in altri termini, tutte le società moderne sono caratterizzate, in misura maggiore o minore, da un certo grado di disuguaglianza delle opportunità occupazionali”. Una delle fonti di questa disuguaglianza risale a una caratteristica individuale ascritta: il genere.
Il progressivo incremento delle forze di lavoro femminili degli ultimi 30-40 anni (il quale più che l’ingresso segna il ritorno delle donne al lavoro retribuito) rappresenta una delle basi su cui costruire la sopravvivenza e la continuità dell’attuale modello di sviluppo degli Stati europei. Questo richiede l’elaborazione di un nuovo gender contract, che non si limiti a considerare la parità di genere come un “affare di donne”, e quindi come una concessione, ma che riconosca i nuovi bisogni espressi dalle donne.
Per questo motivo, l’analisi della presenza delle donne, nata all’interno delle politiche del lavoro, si è estesa negli ultimi anni ad altri ambiti, come la questione della rappresentanza politica, dell’inclusione sociale, della povertà.
L’esistenza di una identità femminile può essere definibile come “work in progress”: l’identità femminile sarebbe cioè un elemento in continua transizione che le donne tentano di volta in volta di stabilire attraverso una costante ridefinizione degli equilibri fra esperienze, situazioni e dimensioni di vita e significato spesso tra loro contraddittorie.
La donna farebbe emergere la propria specificità di genere mettendo in atto una strategia e concezione di vita basate sulla pluralizzazione delle esperienze di vita e di significato con la volontà precisa di conciliare in modo equilibrato queste diverse dimensioni esistenziali.
Il concetto di genere è stato definito e introdotto ufficialmente nel 1975, con il saggio "The Traffic in Women".
Negli Stati Uniti furono avviati diversi programmi di “women’s studies”: studi sulla condizione, la cultura e la storia delle donne. Le studiose femministe diedero vita a ricerche, quali “Womens’s Studies (1972), “Feminist Studies” (1972) e “Signs” (1975), pur rimanendo una minoranza all’interno della docenza universitaria.
Una nuova fase fu aperta nel 1976 dalla pubblicazione su “Feminist Studies” di un saggio di Natalie Zemon Studies (La “storia delle donne” in transizione: il caso europeo, 1976), che introdusse la nozione di “genere” come categoria interpretativa accanto a quella di classe, razza ed etnia. Dieci anni dopo Joan W. Scott (Il “genere”: un’utile categoria di analisi storica, 1986) precisò i termini e l’uso di questa categoria.
Il termine genere è stato elaborato all’interno del più ampio concetto di “sex-gender system”. Quest’ultimo è inteso come l’insieme dei processi attraverso i quali ogni società trasforma le differenze sessuali e biologiche in prodotti dell’attività umana e organizza la divisione dei compiti tra uomini e donne, differenziandoli gli uni dagli altri, creando cioè il genere. Mentre il “sex” è una categoria biologica costante che si riferisce alle differenze fisiche fra uomo e donna, il “gender” è un’istanza di tipo culturale, in quanto è definibile come il prodotto di un processo di codificazione storico-sociale delle differenze fra maschio e femmina.
Il concetto di genere era già stato elaborato nell’ambito degli studi femministi verso la fine degli anni ’60 a partire dalla constatazione dell’esistenza di un profondo squilibrio all’interno della realtà sociale tra i ruoli sessuali. Per le studiose femministe, la società si è storicamente organizzata sulla base delle differenze biologiche fra i due sessi. In questo senso la divisione del lavoro, le attività quotidiane, l’accesso alla sfera pubblica sono stati organizzati secondo una logica asimmetrica che ha privilegiato la componente maschile discriminando ed escludendo quella femminile. Il movimento neo-femminista ha cercato di rispondere a questa situazione proponendo valori come la parità, l’uguaglianza, l’emancipazione che fossero alternativi rispetto i valori dominanti, ritenuti valori prettamente maschili.
Come ha affermato Rossana (1989) “questa trasformazione messa in atto dal movimento neo-femminista non può essere una semplice integrazione...La cultura del femminismo è una critica vera, e perciò unilaterale, antagonista, negatrice della cultura altra”: cioè negatrice della cultura rappresentata dal genere maschile.
Questo modo di intendere il rapporto fra genere maschile e femminile basato sulla separatezza, sulla non-integrazione e veicolato dal neo-femminismo, è stato sicuramente fonte di stimolo per gli studi sulle donne.
A differenza delle elaborazioni dei movimenti femministi che, come ho già accennato, tendevano a sottolineare la contrapposizione fra genere maschile e femminile, nella prassi sociologica questa elaborazione del concetto di genere significa rivolgere l’attenzione alle condizioni, i processi, le relazioni che strutturano l’esperienza femminile nei contesti sociali, che sono vissuti anche dalla componente maschile.
Il concetto di genere così inteso è stato molto utilizzato nei diversi ambiti di studio sulle donne. Tra questi è necessario ricordare i tre ambiti sicuramente più significativi, in cui l’introduzione del concetto di genere ha contribuito a modificarne l’impianto analitico.
Il primo è rappresentato dall’analisi dell’organizzazione del tempo e delle diverse dimensioni temporali che strutturano la vita individuale nella società più ampia. Questo ambito si è occupato soprattutto dello studio della divisione del lavoro, e quindi del tempo, all’interno ed all’esterno della famiglia sulla base dell’appartenenza di genere. Ciò ha evidenziato sia l’esistenza di asimmetrie nell’uso del tempo e negli impegni fra donne e uomini sia l’elaborazione del concetto di “doppia presenza“ (Balbo, 1978) introdotta per spiegare la capacità delle donne nelle società sviluppate di occuparsi delle attività e dei compiti all’interno della famiglia ed al tempo stesso di proiettarsi al suo esterno, verso il mercato del lavoro, mantenendo comunque un equilibrio armonico con se stesse.
Il secondo ambito è rappresentato dagli studi sulle differenze di genere all’interno del mercato del lavoro, nel quale è possibile evidenziare l’esistenza di settori lavorativi femminilizzati, come il settore impiegatizio, della assistenza e cura dei malati e dei bambini, delle istituzioni scolastiche (per quest’ultimo si è parlato di tendenza al matriarcato magistrale), e di altri settori caratterizzati da maggior precariato, come ad esempio quello dei lavori stagionali. Inoltre, come già detto, la retribuzione delle lavoratrici è in media inferiore a quella degli uomini e questo non solo nel caso in cui le donne svolgano attività più precarie, come è stato accennato, ma anche all’interno della stessa categoria occupazionale.
Il terzo settore in cui la categoria di genere è stata utilizzata con frequenza crescente è quello degli studi sui processi di formazione e differenziazione del Welfare State. Mentre per gli uomini il diritto al sostegno anche finanziario (sotto forma di assegni, sussidi di disoccupazione, ecc.) da parte dello Stato è riconosciuto in quanto lavoratori, lo stesso non avviene per le donne, dato che, in misura maggiore rispetto agli uomini non sempre svolgono o hanno svolto un’attività retribuita o formalmente riconosciuta dal mercato del lavoro.
Il presupposto comune all’analisi di questi ambiti è il valore della famiglia ed il fatto che la posizione di quest’ultima sia legata dalla posizione professionale e sociale del capofamiglia, il quale è quasi sempre un uomo.
Negli anni Novanta, a seguito di questi studi, il genere è dunque inteso come un codice che implica relazionalità e reciprocità fra i due sessi. Alla luce della nuova consapevolezza che ne derivò si diffonde la convinzione che la storia delle donne dovesse essere affrontata non più in un rapporto di opposizione o complementarietà rispetto a quella “ufficiale”, ma come storia delle relazioni tra i generi. E’ in questo nuovo contesto che nasce lo studio Di Groppi su Il lavoro delle donne, quando la storia delle donne e di genere aveva appena acquisito cittadinanza nella storiografia, ma tuttavia, tendeva ancora a concentrarsi prevalentemente sulle differenze femminili.

 

9. La difesa della donna nel diritto internazionale

Negli ultimi cinquant’anni anche il progressivo processo di globalizzazione ha avuto i suoi riflessi sul lavoro femminile e sulla legislazione in materia. Questo non appartiene più alla domestic jurisdizion ma rientra nell’interesse dell’intera comunità internazionale la quale incita i singoli Stati ad adottare tutte le misure a carattere legislativo, amministrativo e giudiziale per accrescerne la tutela.
Nel diritto comunitario, l’approccio più recente al rapporto donna pone l’accento più sulla differenza che sull’uguaglianza; anzi si sviluppa come critica all’eguaglianza e alle regole che la istituiscono. Il diritto prende in considerazione la differenza esistente, per promuovere condizioni di eguaglianza nei fatti. Le misure specifiche diseguali saranno di necessità temporanee, saranno legittime fino a che sarà verificata l’esistenza e la persistenza di queste condizioni. La politica ed il diritto comunitario sembrano aver fatto propria questa versione della differenza sessuale, come diversa condizione sociale e come situazione di svantaggio da riequilibrare in vista dell’uguaglianza.
Tutte le istituzioni dell’Unione europea sono state coinvolte in una composita dialettica tra loro e i governi nazionali; ciò ha permesso che l’era della protezione del lavoro femminile sia definitivamente tramontata, travolgendo quel diritto “a misura di donna” che l’inizio del secolo aveva fatto delle donne gli eterni fanciulli del diritto del lavoro.
Nel secondo dopoguerra, oltre 50 Stati sottoscrissero la Carta delle Nazioni Unite. L’organizzazione, sin da principio, recò in sé i presupposti per eliminare il pregiudizio della discriminazione dei sessi in ambito lavorativo. Più in generale l’organizzazione si auspicava nel Preambolo di “promuovere e incoraggiare il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti senza distinzione di razza, sesso o di religione […]”. In conformità a questa normativa il Consiglio Economico e Sociale, uno degli istituti specializzati dell’ONU, istituì nel 1946 la Commissione sulla condizione della donna con il compito di studiare e proporre una serie di misure dirette a migliorare la condizione femminile nel mondo.
Inoltre, con l’intenzione di ribadire maggiormente i principi ispiratori della Carta delle Nazioni Unite, tramite la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1948, vennero adottate alcune norme nelle quali si riaffermò il concetto, fondamentale in ogni società civile, dell’uguaglianza delle persone indipendentemente dalla razza, dal sesso, e da ogni altro attributo. L’art. 23, specialmente, sancì il principio secondo cui ogni persona, senza discriminazione, ha diritto ad “eguale retribuzione per eguale lavoro” e quello per cui ogni individuo che lavora ha diritto “ad una remunerazione equa e soddisfacente, che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia un’esistenza conforme alla sua dignità umana ed integrata, se necessario, da altri mezzi di protezione sociale”. È opinione comune ritenere la Dichiarazione una mera esortazione di valore morale, non dotata di valore giuridico vincolante.

La Convenzione n.100 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro

L’interesse al problema da parte del diritto internazionale divenne esplicito con la Convenzione OIL n. 100 del 1951, in cui l’organizzazione si batte per il principio di parità salariale. L’opinione di fondo era che esistesse un valore oggettivo del lavoro e che questo potesse essere quantificato.
Prima di essere ratificata la Convenzione incontrò una serie di difficoltà e non diede origine a significative esperienze legislative in materia di parità retributiva. Per di più, negli anni successivi la portata innovativa della Convenzione verrà svalutata rispetto al contenuto dei suoi elementi costitutivi.

La normativa internazionale in materia di parità uomo – donna

La ricerca dei fondamenti normativi della parità di trattamento tra uomo e donna nei rapporti di lavoro non può escludere dal proprio campo di analisi le altre disposizioni di diritto internazionale, che la riguardano. Infatti, in tale contesto normativo, si riscontra da sempre una diffusa attenzione verso i diritti sociali fondamentali.
Nell’ambito delle norme internazionali rivestono sicura rilevanza almeno due ceppi normativi: la Carta sociale europea, adottata dal Consiglio d’Europa a Torino il 18 ottobre 1961, ed il Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali.
Per quanto concerne la Carta sociale europea, essa impegna gli Stati contraenti, al fine di assicurare l’esercizio effettivo del diritto ad un’equa distribuzione, a riconoscere tanto il diritto dei lavoratori a una retribuzione sufficiente, quanto il diritto di lavoratori e lavoratrici a “una remunerazione uguale per un lavoro di uguale valore” (art.4, punti 1 e 3). Il principio viene espresso in forma elementare, includendo, tra l’altro, qualche previsione protettiva per la donna con riguardo alla maternità, al lavoro notturno nell’industria e ai lavori particolarmente insalubri e faticosi.
Per quanto riguarda il Patto firmato a New York sui diritti economici, sociali e culturali, esso prevede il riconoscimento a tutti i lavoratori del “diritto ad un salario equo ed a una retribuzione eguale per un lavoro eguale senza alcuna distinzione”; “il diritto di ogni individuo di godere di giuste e favorevoli condizioni di lavoro”; la possibilità “uguale per tutti di essere promossi, nel rispettivo lavoro, alla categoria superiore appropriata, senza altra considerazione che non sia quella dell’anzianità di servizio e delle attitudini personali”(art.7, lett. a - i).
Il principio di non discriminazione acquista rilievo nella Convenzione OIL n. 111 del 1958, relativa alla discriminazione nell’impiego e nell’occupazione, contenente, tra l’altro, la prima definizione comprensiva del termine. Secondo l’art. 1, lett. a, per discriminazione deve intendersi ogni distinzione, esclusione o preferenza basata su razza, colore, sesso religione, opinioni politiche, origine nazionale o estrazione sociale che abbia l’effetto di annullare o danneggiare l’uguaglianza di opportunità o di trattamento nell’impiego o nell’occupazione.
Alla Convenzione n. 111 sono seguite tutta una serie di altre convenzioni e dichiarazioni, tra cui la Convenzione del 18 dicembre del 1979 sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti della donna, che estende il divieto di discriminazione in ambito sociale e legale. La discriminazione nei confronti della donna, afferma il Preambolo della Convenzione, viola il principio dell’uguaglianza di diritti e del rispetto della dignità umana.
Negli anni Ottanta nasce un Comitato consultivo per l’uguaglianza delle opportunità tra donne e uomini. Si approvarono diversi Programmi d’azione a medio termine a sostegno dell’occupazione e della formazione femminile, aiutando le donne a prendere coscienza dei loro diritti, controllando l’applicazione delle Direttive sulla parità e migliorando la posizione sociale delle donne nella società.
Nel 1991 venne avviata l’Iniziativa Comunitaria NOW (New Opprtunities for Women) che si rivolge a giovani disoccupate poco qualificate, donne che hanno difficoltà ad entrare nel mondo del lavoro, disoccupate di lungua durata.
A partire dagli anni Novanta sembra che l’era della protezione sia tramontata; come si diceva in precedenza si è ormai aperta l’era dei diritti che le fanno eguali; oggi parlano il linguaggio dell’uguaglianza le donne che chiedono al mondo del lavoro che le riconoscano come eguali e senza sesso; parlano il linguaggio della disuguaglianza le donne che hanno imboccato una nuova strada e che difendono la loro “differenza”, rivendicando il diritto “diseguale”; quel diritto che ha trovato applicazione, in Italia, con la legge n. 125 nel 1991. Sembra che la storia si ripeti e che sia entrata in un circolo vizioso cui non avrà mai fine.
L’ultima direttiva che sancisce la parità di trattamento tra donne e uomini fu emanata nel 2004. Il campo d’applicazione riguarda il divieto di discriminazione fra donne e uomini nell’accesso ai beni e servizi, nonché nella fornitura di beni e servizi, tanto per il settore pubblico quanto per il settore privato. É inoltre vietato anche ogni discriminazione collegabile allo stato di gravidanza e alla maternità. In più, la direttiva prevede che ogni Stato membro affidi ad uno o più organismi la promozione a livello nazionale della parità di trattamento tra donne e uomini. 

Il prof  Norbertio Nobbio illustrò recentemente come l’emancipazione femminile fu l’unica vera rivoluzione del nostro tempo. Essa infatti ha comportato grandi mutamenti sociali, con conseguenze rilevanti di carattere economico e politico e, soprattutto, con incidenze profonde e durature nell’organizzazione della società, a partire dal suo nucleo di base della cellula familiare.

 

10. Le nuove dinamiche familiari

Nella società odierna, le dinamiche familiari sono in evoluzione permanente nella forma, nei contenuti e nelle modalità di espressione.
Lo status femminile contemporaneo è caratterizzato da uno sfondo in costante cambiamento, sulla cui base si inseriscono le tappe evolutive personali fondamentali, la preparazione culturale e professionale, il distacco dalla famiglia d’origine, l’esercizio della professione, la maternità, la gestione della casa, la convivenza col partner, il contatto frequente con strutture sociali, sanitarie, scolastiche.
La struttura dell’assetto familiare si è modificata sostanzialmente dando origine alle “nuove famiglie”, cambiamenti che sono stati agevolati solo grazie all’immissione della donna nel mondo del lavoro. Altri fattori non meno importanti che hanno contribuito alla trasformazione del modello della famiglia italiana negli ultimi quarant’anni furono: la rivoluzione sessuale, l’emancipazione della donna, il divorzio (legge n. 898, 1970), la contraccezione, l’aborto (legge n. 194, 1978) e l’autonomia della coppia. Come studiò il demografo Antonio Golini, la progressiva laicizzazione della società contribuisce ad accelerare l’emancipazione della donna che trasforma il proprio ruolo all’interno della famiglia. La coppia acquista nuova autonomia ed il rapporto tra i sessi diviene egualitario. Un fenomeno che ha conseguenze anche sulla procreazione, considerata non più una responsabilità sociale ma un’opzione individuale. La stessa famiglia muta progressivamente la propria identità, privilegiando i rapporti sentimentali ed i legami di sangue. Trova così spazio un nuovo modello familiare “nucleare”, in cui si ha una netta preminenza della coppia sessuale sulla famiglia, comune a tutte le società occidentali  industrializzate. Naturalmente questi fattori sono fra loro interdipendenti, amplificati oggi dalle distorsioni dei mass-media e frutto di una lenta e graduale evoluzione dell’immagine della donna “creatrice” della famiglia e del ruolo che la famiglia oggi assume.

 

Bibliografia

  G. Bock, Le donne nella storia europea, Laterza, Bari, 2003.
B. Bhutto, Discorso del Cairo, in B. Bhutto, G. H. Brundtland, Il pianeta a misura di donna, Manifestolibri, Roma, 1995, pp. 17-25.
C. Bonanno, L’età contemporanea nella critica storica; dalla rivoluzione industriale agli anni Novanta, Liviana, Torino, 1995.
R. Calabrò e L. Grasso, F. Angeli, Dal movimento femminista al femminismo diffuso. Ricerca e documentazione nell’area lombarda, Milano, 1985, pp. 39-71.
V. Cannistraro, La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media, Laterza, Bari, 1975, pp. 419-24.
T. Detti, G. Gozzini, Storia contemporanea; Il Novecento, Bruno Mondadori, Milano, 2002.
A B. Frabotta, Femminismo e lotta di classe in Italia, Savelli, Roma, 1973, pp. 107-12.
A. M. Galoppini, Il lungo viaggio verso la parità. I diritti civili e politici delle donne dall’Unità ad oggi, Bologna, Zanichelli, 1980.
A. Giardina, G. Sabbatucci, V. Vidotto, Profili storici dal 1900 a oggi, Edizioni Laterza, Bari, 2000.
A. Golini, Profilo demografico della famiglia italiana, in La famiglia italiana dall’Ottocento a oggi, a c. di P. Melograni, Laterza, Bari, 1988, pp. 346-49.
A. Groppi, Il lavoro delle donne, Edizioni Laterza, Bari, 1996.
A. M. Kaeppeli, Scenari del femminismo in Storia delle donne, in G.Duby, Michelle Perrot, Storia delle donne, L'Ottocento a c. di G. Fraisse e M. Perrot, Laterza, 1991, p. 483-85.
A. Kuliscioff, In nome della libertà della donna. “Laissez faire, laissez passer!”, in “Avanti!”, 19 marzo 1898.
J. Mitchell, La condizione della donna. Il nuovo femminismo, Einaudi, Torino, 1972, pp. 54-59.
A. M. Mozzoni, Lettera al Direttore in “Avanti!”, 8 marzo 1898.
S. Rokkan, Cittadini, elezioni, partiti, Il Mulino, Bologna, 1982, pp. 232-37.
N. Rovelli, L’anello forte; la filanda di Marsiglia, Einaudi, Torino, 1985, pp. 5-11.
S. Rowbotham, Esclusa dalla storia, Editori Riuniti, Roma, 1977, pp. 128-44.
M. L. Salvatori, L’età contemporanea, Loescher Editore, Torino, 1990.
J. W. Scott, La donna lavoratrice nel XIX secolo, in Storia delle donne. L’Ottocento, a c. di G. Duby e M. Pierrot, Laterza, Bari, 1991, pp. 354-66.
M. Sineau, Le donne nella sfera della politica: diritti delle donne e democrazia in Storia delle donne, a c. di G. Duby, M. Pierrot, Il Novecento, Roma, 1992, pp. 531-32.
C. Saraceno, La questione femminile, in AA.VV., La storia, vol. VI, Utet, Torino, 1988.

 

 

Fonte: http://www.torrearchirafi.it/tesionline/Ricerca%20sul%20lavoro%20delle%20donne%20dal%20medioevo%20ad%20oggi.doc

Sito web da visitare: http://www.torrearchirafi.it

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

Il testo è di proprietà dei rispettivi autori che ringraziamo per l'opportunità che ci danno di far conoscere gratuitamente i loro testi per finalità illustrative e didattiche. Se siete gli autori del testo e siete interessati a richiedere la rimozione del testo o l'inserimento di altre informazioni inviateci un e-mail dopo le opportune verifiche soddisferemo la vostra richiesta nel più breve tempo possibile.

 

Femminismi e culture oltre l' Europa

 

 

I riassunti , gli appunti i testi contenuti nel nostro sito sono messi a disposizione gratuitamente con finalità illustrative didattiche, scientifiche, a carattere sociale, civile e culturale a tutti i possibili interessati secondo il concetto del fair use e con l' obiettivo del rispetto della direttiva europea 2001/29/CE e dell' art. 70 della legge 633/1941 sul diritto d'autore

Le informazioni di medicina e salute contenute nel sito sono di natura generale ed a scopo puramente divulgativo e per questo motivo non possono sostituire in alcun caso il consiglio di un medico (ovvero un soggetto abilitato legalmente alla professione).

 

Femminismi e culture oltre l' Europa

 

"Ciò che sappiamo è una goccia, ciò che ignoriamo un oceano!" Isaac Newton. Essendo impossibile tenere a mente l'enorme quantità di informazioni, l'importante è sapere dove ritrovare l'informazione quando questa serve. U. Eco

www.riassuntini.com dove ritrovare l'informazione quando questa serve

 

Argomenti

Termini d' uso, cookies e privacy

Contatti

Cerca nel sito

 

 

Femminismi e culture oltre l' Europa