Forme di manifestazione del reato

Forme di manifestazione del reato

 

 

 

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Forme di manifestazione del reato

Il reato circostanziato.

Le circostanze del reato nel sistema del codice.

Possibilità per il legislatore di prendere in considerazione dati elementi, non come elementi essenziali di un dato tipo di reato, bensì come elementi rilevanti per la valutazione di gravità del fatto, e conseguentemente per la determinazione della risposta penale.
Istituti di questo tipo vengono definiti circostanze: si tratta di elementi che circum stant, stanno intorno a un fatto di reato che è perfetto indipendentemente da essi. Si tratta di elementi accidentali che possono mancare senza che il reato venga meno.
Le circostanze si distinguono in aggravanti ed attenuanti.
La disciplina delle circostanze è caratterizzata dalle conseguenze sul regime sanzionatorio.
Gli aumenti o le diminuzioni di pena, correlati ad una circostanza, sono di regola fino a un terzo (rispetto alla pena applicabile indipendentemente dalla circostanza). Vi sono anche casi in cui la pena per il reato circostanziato è determinata in modo indipendente dalla pena base, o in modo diverso dalla regola generale.
Il codice distingue (art. 70 c.p.) fra circostanze oggettive e soggettive: “Agli effetti della legge penale:

  • Sono circostanze oggettive quelle che concernono la natura, la specie, i mezzi, l’oggetto, il tempo, il luogo e ogni altra modalità dell’azione, la gravità del danno o del pericolo, ovvero le condizioni o le qualità personali dell’offeso;
  • Sono circostanze soggettive quelle che concernono la intensità del dolo o il grado della colpa, o le condizioni e le qualità personali del colpevole, o i rapporti fra il colpevole e l’offeso, ovvero che sono inerenti alla persona del colpevole. Le circostanze inerenti alla persona del colpevole riguardano la imputabilità e la recidiva”.

Circostanze aggravanti e attenuanti comuni, applicabili teoricamente a tutti i reati, sono previste nella parte generale del codice: le aggravanti previste nell’art. 61 c.p.; le attenuanti previste negli artt. 62, 62-bis c.p.; le circostanze inerenti alla persona del colpevole, indicate nell’art. 70 c.p. (recidiva, artt. 99 s. c.p., e circostanze attinenti alla disciplina dell’imputabilità, artt. 89, 92 s., 98 c.p.); le circostanze attinenti al tentativo e al concorso di persone nel reato. Circostanze speciali, applicabili specificamente a un reato o gruppo di reati, sono largamente disseminate nella parte speciale.

Le circostanze comuni.

Circostanze aggravanti.

Le circostanze aggravanti comuni sono elencate innanzi tutto nell’art. 61 c.p..

  • L’aver agito per motivi abietti e futili. Motivo abietto è il motivo particolarmente turpe o spregevole.
  • L’aver commesso il reato per eseguirne od occultarne un altro, ovvero per conseguire o assicurare a sé o ad altri il prodotto o il profitto o il prezzo ovvero la impunità di un altro reato. È la particolare riprovevolezza del fine che qualifica come sensibilmente più grave la colpevolezza per un reato che è strumentale ad un altro reato, o a un profitto derivante da reato, o all’impunità dell’autore.
  • L’avere, nei delitti colposi, agito nonostante la previsione dell’evento. È l’ipotesi della cosiddetta colpa cosciente.
  • L’avere adoperato sevizie, o l’aver agito con crudeltà verso le persone. Per sevizia s’intende la consapevole inflazione di una sofferenza fisica gratuita, che va oltre quella strumentale alla realizzazione del fatto.
  • L’avere profittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona tali da ostacolare la pubblica o privata difesa. L’aggravante della minorata difesa consente di dare rilievo a situazioni concrete di particolare vulnerabilità della persona offesa o del bene offeso dal reato.
  • L’avere il colpevole commesso il reato durante il tempo, in cui si è sottratto volontariamente all’esecuzione di un mandato o di un ordine di arresto o di cattura o di carcerazione, spedito per un precedente reato.
  • L’avere, nei delitti contro il patrimonio, o che comunque offendono il patrimonio, ovvero nei delitti determinati da motivi di lucro, cagionato alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di rilevante gravità.
  • L’avere aggravato o tentato di aggravare le conseguenze del delitto commesso.
  • L’avere commesso il fatto con abuso dei poteri, o con violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio, ovvero alla qualità di ministro di un culto.
  • L’avere commesso il fatto contro un pubblico ufficiale o una persona incaricata di un pubblico servizio, o rivestita della qualità di ministro del culto cattolico o di un culto ammesso nello stato, ovvero contro un agente diplomatico o consolare di uno stato estero, nell’atto o a causa dell’adempimento delle funzioni o del servizio.
  • L’avere commesso il fatto con abuso di autorità o di relazioni domestiche, ovvero con abuso di relazioni d’ufficio, di prestazione d’opera, di coabitazione, di ospitalità.

Le circostanze attenuanti comuni.

Le circostanze attenuanti comuni sono elencate innanzi tutto nell’art. 62 c.p..

  • L’aver agito per motivi di particolare valore morale o sociale.
  • L’aver agito in stato di ira, determinato da un fatto ingiusto altrui.
  • L’aver agito per suggestione di una folla in tumulto, quando non si tratta di riunioni o assembramenti vietati dalla legge o dall’autorità, e il colpevole non è delinquente o contravventore abituale o professionale, o delinquente per tendenza.
  • L’avere, nei delitti contro il patrimonio, o che comunque offendono il patrimonio, cagionato alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di speciale tenuità, ovvero, nei delitti determinati da motivi di lucro, l’avere agito per conseguire o l’avere comunque conseguito un lucro di speciale tenuità, quando anche l’evento dannoso o pericoloso sia di speciale tenuità.
  • L’essere concorso a determinare l’evento, insieme con l’azione o l’omissione del colpevole, il fatto doloso della persona offesa.
  • L’avere, prima del giudizio, riparato interamente il danno, mediante il risarcimento di esso, e, quando sia possibile, mediante le restituzioni; o l’essersi, prima del giudizio e fuori del caso preveduto nell’ultimo capoverso dell’art. 56 c.p., adoperato spontaneamente ed efficacemente per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato.

Le circostanze attenuanti generiche.

L’art. 62-bis c.p. tratta dell’istituto delle attenuanti generiche: “Il giudice, indipendentemente dalle circostanze prevedute nell’art. 62 c.p., può prendere in considerazione altre circostanze diverse, qualora le ritenga tali da giustificare una diminuzione della pena. Esse sono considerate in ogni caso, ai fini dell’applicazione di questo capo, come una sola circostanza, la quale può anche concorrere con una o più delle circostanze indicate nel predetto art. 62 c.p.”.
È esplicito il rinvio a valutazioni discrezionali del giudice: qualsiasi elemento può venire in rilievo, se il giudice lo ritiene tale da giustificare una diminuzione della pena. Gli elementi che giustificano la concessione delle attenuanti generiche, debbono essere diversi da quelli altrimenti tipizzati come circostanze attenuanti; il medesimo elemento, cioè, non può essere valutato più volte.
La concessione della attenuante potrà essere giustificata, quando un dato elemento abbia un significato attenuante particolarmente spiccato, equiparabile a quello delle attenuanti tipizzate dalla legge.

Le circostanze inerenti alla persona del colpevole. La recidiva.

Sotto la classificazione di circostanze inerenti alla persona del colpevole l’art. 70 c.p. raggruppa le circostanze concernenti l’imputabilità, e la recidiva. Si tratta di circostanze spiccatamente soggettive.
Le circostanze relative all’imputabilità comprendono, da un lato, le attenuanti relative al vizio parziale di mente ed alla minore età (artt. 89, 91, 98 c.p.); dall’altro lato, le aggravanti dell’ubriachezza preordinata a commettere il reato (art. 92 c.p.) e dell’ubriachezza abituale (art. 94 c.p.).
La recidiva (art. 99 c.p.) è una circostanza aggravante. È recidivo chi dopo essere stato condannato per un delitto non colposo, ne commette un altro. La recidiva presuppone una precedente condanna definitiva; non basta l’avere già commesso in precedenza un reato. Per i delitti colposi e le contravvenzioni la recidiva non ha alcun rilievo.
La novella del 2005 ha reintrodotto una ipotesi di recidiva obbligatoria, mantenendo nella maggior parte dei casi la facoltatività, ed ha reso più consistenti le misure degli aumenti di pena.
Questi gli aumenti di pena in caso di applicazione della recidiva:

  • Di un terzo nel caso di recidiva semplice;
  • Fino alla metà nelle ipotesi di recidiva qualificata: recidiva specifica (se il nuovo delitto è della stessa indole del precedente), o infraquinquennale, o se il nuovo delitto è stato commesso durante o dopo l’esecuzione della pena, o nel tempo in cui il condannato si sottrae volontariamente all’esecuzione della pena;
  • Della metà quando concorrano più circostanze fra quelle sopra indicate;
  • Nel caso di recidiva reiterata (commissione di un nuovo delitto non colposo da parte del già recidivo) l’aumento è della metà nel caso di recidiva semplice, e di due terzi nel caso di recidiva qualificata;

la definizione di reati della stessa indole è data dall’art. 101 c.p.: sono tali quelli che violano la stessa disposizione di legge, e quelli che per la natura dei fatti che li costituiscono o dei motivi che li determinarono, presentano, nei casi concreti, caratteri fondamentalmente comuni.
Un limite espresso all’aumento di pena per la recidiva è che esso non può superare il cumulo delle pene risultante dalle condanne precedenti alla commissione del nuovo reato (art. 99 c.p.).
È stata reintrodotta un’ipotesi di aumento obbligatorio, per tutti i tipi di recidiva, nel caso di commissione di uno dei delitti di cui all’art. 407 c.p.p..
In tutti gli altri casi la recidiva resta facoltativa, rimessa ad una valutazione discrezionale del giudice.
La recidiva reiterata è oggetto di una disciplina derogatoria rispetto alla regola generale del bilanciamento fra aggravanti e attenuanti (art. 69 c.p.): vi è divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti.
Un ulteriore effetto di maggior rigore, previsto per il caso di applicazione della recidiva reiterata, riguarda la disciplina del reato continuato.
Gli effetti più significativi (e non facoltativi) dell’essere stato già condannato non stanno nell’aggravante dell’art. 99 c.p., ma in effetti preclusivi rispetto all’applicazione di istituti favorevoli al condannato.

L’imputazione delle circostanze.

I criteri generali d’imputazione.

Dopo la presa d’atto della rilevanza costituzionale del principio di colpevolezza, una novella legislativa ha introdotto anche per le circostanze aggravanti un criterio di imputazione soggettiva, modificando l’art. 59 c.p.: le aggravanti possono essere valutate a carico dell’agente solo se da lui conosciute, o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa.
È rimasta ferma la regola (art. 59 c.p.) secondo cui se l’agente ritiene per errore che esistano circostanze aggravanti o attenuanti, queste non sono valutate a favore o contro di lui.
È pure rimasta ferma la regola della rilevanza oggettiva delle circostanze attenuanti, le quali (art. 59 c.p.) sono valutate a favore dell’agente anche se da lui non conosciute o da lui per errore ritenute inesistenti.

L’errore sulla persona dell’offeso.

L’unica deroga al regime d’imputazione delle circostanze è costituita dalla disciplina dell’errore sulla persona dell’offeso, nei casi considerati dall’art. 60 c.p. e dall’art. 82 c.p..
L’art. 60 c.p. recita: “Nel caso di errore sulla persona offesa da un reato, non sono poste a carico dell’agente le circostanze aggravanti che riguardano le condizioni o qualità della persona offesa, o i rapporti tra offeso e colpevole. Sono invece valutate a suo favore le circostanze attenuanti, erroneamente supposte, che concernono le condizioni, le qualità o i rapporti predetti”.

Circostanze a titolo autonomo di reato.

Le differenze di disciplina.

Se si tratta di elemento costitutivo di una autonomo titolo di reato doloso, per affermare la responsabilità penale quell’elemento dovrà essere coperto dal dolo; se si tratta di circostanza, è sufficiente in ogni caso la colpa.
Se si tratta di circostanza aggravante o attenuante, può rientrare nel bilanciamento con circostanze di natura opposta, ai sensi dell’art. 69 c.p..

I criteri di distinzione.

La qualificazione di circostanza può risultare da dati testuali inequivoci; è espressa di solito nella rubrica o nel testo di un articolo, ed è chiaramente leggibile in formule quali “la pena è aumentata” ovvero “la pena è diminuita”.
Criteri testuali sono l’eventuale nomen iuris adottato dal legislatore, o la collocazione della norma in un articolo autonomo ovvero nello stesso articolo che prevede il reato semplice. Criteri strutturali, cui viene riconosciuto maggior peso, sono le modalità di descrizione della fattispecie o di determinazione della pena. Il criterio teleologico si basa sulla natura del bene giuridico tutelato: se l’elemento specializzante immuta il bene tutelato, ciò sarebbe indice che si tratta di un titolo di reato autonomo.
Tra elementi costitutivi ed elementi circostanziali del reato non esiste alcuna differenziazione ontologica: non vi sono, cioè, criteri rigidi di differenziazione, indipendenti dalle scelte del legislatore. Ma se si parte dalla premessa che la scelta del legislatore non è legata a differenziazioni ontologiche, nessun criterio sostanziale può prospettarsi come sicuro e vincolante.
Non essendovi criteri ontologici di differenziazione, la certezza del diritto può essere assicurata solo da una chiara espressione della scelta del legislatore.

Il delitto tentato.

Il delitto tentato come figura autonoma. Tentativo e attentato.

Il reato è consumato, con le conseguenze che per legge ne derivano, quando è stato integralmente realizzato il fatto previsto dalla norma incriminatrice.
L’ideazione, di per sé, è fuori dalla portata del diritto penale (cogitationis poenam nemo patitur).
L’art. 56 c.p. recita: “Chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato se l’azione non si compie o l’evento non si verifica”.
La punibilità del tentativo, quale che sia il modello di disciplina adottato, dà luogo ad una anticipazione dell’intervento penale, rispetto all’offesa all’interesse protetto incorporata nella consumazione del reato. La figura del tentativo si colloca nella categoria dei reati di pericolo.
La punibilità del tentativo è espressamente delimitata ai delitti, e sotto il profilo soggettivo è ancorata al dolo, criterio normale d’imputazione soggettiva nell’ambito dei delitti.
Un tentativo di contravvenzione non ha rilievo penale.
Le fattispecie di delitto tentato nascono dalla combinazione delle fattispecie delittuose di parte speciale con la clausola generale (art. 56 c.p.) che estende la punibilità a fatti prodromici rispetto alla consumazione del delitto previsto dalla norma di parte speciale.
È possibile tipicizzare delitti di attentato o a consumazione anticipata: per tali intendendosi delitti consistenti nella realizzazione di atti diversi a un dato risultato, la cui realizzazione non è però un elemento della fattispecie.

I requisiti del tentativo punibile.

Atti esecutivi e atti preparatori. L’art. 115 c.p..

Nello sviluppo del piano criminoso possono distinguersi fasi diverse, che si suole raggruppare nelle due grandi categorie degli atti preparatori e degli atti d’esecuzione.
L’art. 115 c.p. dispone: “Salvo che la legge disponga altrimenti, qualora due o più persone si accordino allo scopo di commettere un reato e questo non sia commesso, nessuna di esse è punibile per il solo fatto dell’accordo”; lo stesso vale per il caso di istigazione, anche accolta, se il reato non è stato commesso.
Tutto ciò non significa che il diritto penale si disinteressi delle attività preparatorie di delitti. Se ne interessa configurando specifiche figure di reati di pericolo, che incriminano attività mirate alla realizzazione di delitti o tipicamente funzionali alla realizzazione di delitti.
Nella discussione dottrinale vi si è contrapposta una teoria materiale oggettiva, che allarga l’ambito del tentativo punibile anche ad atti strettamente connessi e contigui a quelli tipizzati dalla norma incriminatrice.

L’univocità degli atti.

Il concetto di univocità (della direzione a commettere il delitto) è stato elaborato dalla dottrina nella vigenza del codice Zanardelli, appunto per dare concretezza alla formula dell’inizio dell’esecuzione. L’univocità degli atti rispetto al delitto è il primo carattere indispensabile a recarsi negli atti esterni che si vogliono imputare come conati. Finchè l’atto sarà tale da poter condurre tanto al delitto quanto ad azione innocente, non avremo che un atto preparatorio il quale non potrà imputarsi come conato.
Per poter integrare il tentativo, la condotta dell’agente deve di per sé evidenziare, nel contesto in cui è tenuta, un riconoscibile significato obiettivo di realizzazione di una volontà criminosa.
Esigenza che, in sede processuale, sia provato che l’atto tendeva ad un fatto criminoso.
Il requisito dell’univocità degli atti, rispetto alla realizzazione di un determinato fatto delittuoso, va inteso come elemento obiettivo di tipicità del tentativo punibile. Un tale requisito fornirebbe il criterio di demarcazione degli atti cui ricollegare la responsabilità a titolo di tentativo, dalla sfera degli atti preparatori non punibili.
Sullo sfondo della distinzione fra tentativo punibile ed atto preparatorio, l’atto preparatorio può essere identificato in una manifestazione esterna del proposito criminoso che abbia un carattere strumentale rispetto alla realizzazione, non ancora iniziata, di una figura di reato.
Gli atti idonei ed univoci, che integrano il tentativo punibile, sono atti che hanno comunque superato la soglia degli atti meramente preparatori, e hanno dato inizio all’esecuzione del reato.

L’idoneità degli atti.

Per la punibilità a titolo di tentativo non basta l’avere compiuto atti univoci d’esecuzione. Occorre che gli atti siano idonei.
Punto di riferimento del giudizio d’idoneità è la consumazione del delitto. Il metro di giudizio d’idoneità ha a che fare con la maggiore o minore probabilità della realizzazione del fatto di reato. Occorre una probabilità rilevante, o basta una generica possibilità? È necessaria una possibilità rilevante.
Il giudizio di idoneità va effettuato ex ante, riportandosi cioè al momento e alla situazione in cui gli atti sono stati compiuti.
Secondo l’indirizzo prevalente occorre tenere conto delle circostanze conosciute o conoscibili da un uomo avveduto nella situazione dell’agente concreto, eventualmente integrate dalle maggiori conoscenze specifiche di quest’ultimo; non si terrebbe conto di circostanze eccezionali oggettivamente esistenti, ma conosciute dopo.
Secondo un altro indirizzo, il giudizio d’idoneità dovrebbe essere a base totale, tenendo conto di tutte le circostanze esistenti al momento dell’azione. Ciò sarebbe imposto dal principio di offensività e dalla espressa disposizione dell’art. 49 c.p.: la punibilità è esclusa quando, per la inidoneità dell’azione o per la inesistenza dell’oggetto, è impossibile l’evento dannoso o pericoloso.
Altri ordinamenti puniscono anche il tentativo inidoneo. L’ordinamento italiano detta una precisa indicazione in senso contrario, e d’altra parte si preoccupa del significato sintomatico della pericolosità dell’autore, che un reato impossibile può avere. Da ciò la previsione d’applicabilità d’una misura di sicurezza (libertà vigilata).
La punibilità dell’autore colto sul fatto, costantemente affermata in giurisprudenza, è l’unica soluzione coerente con la funzione delle istituzioni penali, in tutti i casi in cui l’azione, intrinsecamente idonea, avrebbe potuto raggiungere il suo scopo in assenza dell’intervento di una forza esterna cui l’ordinamento affida proprio il compito di impedimento dei reati.
L’idoneità degli atti, che caratterizza il tentativo punibile, caratterizza anche le figure di attentato, indipendentemente da un’esplicita menzione, essendo richiesta dalle opzioni di fondo del sistema penale.

L’elemento soggettivo. La questione del dolo eventuale.

La punibilità del tentativo è limitata ai delitti dolosi, in conformità alla regola generale sull’imputazione soggettiva (art. 42 c.p.). Nell’ambito della colpa, anticipazioni della tutela possono essere e sono previste nella forma di fattispecie di reati colposi di pericolo.
L’oggetto del dolo di tentativo è la realizzazione del corrispondente delitto consumato.
Si discute se, ad integrare il dolo del tentativo punibile, sia o meno sufficiente il dolo eventuale.
Nella giurisprudenza più recente, l’affermazione di incompatibilità di principio fra tentativo e dolo eventuale è temperata, quanto alle applicazioni concrete, da una dilatazione della figura del dolo diretto: sarebbe dolo diretto, compatibile col tentativo, e non dolo eventuale, il dolo di chi abbia agito con la rappresentazione dell’evento come alternativa probabile; e le fattispecie concrete in discussione sono state di regola valutate come ipotesi di dolo diretto.

Limiti dell’ammissibilità del tentativo. Tentativo e circostanze.

Nel sistema del codice Rocco, in cui la regola è la punibilità del tentativo di delitto, limitazioni alla configurabilità del tentativo possono teoricamente derivare dalla particolare struttura di determinate fattispecie o categorie di fattispecie.
Problemi di soluzione non pacifica sorgono in ordine ai rapporti fra tentativo e circostanze del reato. Occorre in proposito distinguere.
È pacifica l’ammissibilità di un delitto tentato circostanziato, là dove con il compimento dell’azione siano posti in essere tutti gli estremi di una particolare circostanza aggravante o attenuante. Posto che la circostanza sussiste, il principio di legalità impone che di essa si debba tenere conto, traendone le conseguenze di legge in ordine al trattamento sanzionatorio.
Il punto controverso è se sia o non sia configurabile un delitto circostanzialo tentato, là dove la circostanza sarebbe venuta ad esistenza se il delitto fosse stato portato a compimento.
La più attenta dottrina ravvisa in tale situazione una forzatura del principio di legalità, posto che si finisce per applicare una circostanza in realtà non esistente.

Trattamento sanzionatorio.

La pena per il delitto tentato è determinata nell’art. 56 c.p., diminuendo da un terzo a due terzi la pena edittale prevista per il delitto consumato. Per i delitti puniti con l’ergastolo, la pena per il tentativo è la reclusione non inferiore a 12 anni.

Desistenza volontaria e recesso attivo.

Disposizioni che premiano l’interruzione dell’attività o l’impedimento dell’evento, con la rinuncia a punire o con una pena diminuita. A nemico ce fugge ponti d’oro.
Se il colpevole volontariamente desiste dall’azione, soggiace solo alla pena per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano per sé un reato diverso (art. 56 c.p.). La desistenza volontaria è disciplinata come causa di non punibilità a titolo di tentativo.
L’agente poteva continuare, ma non ha voluto. Non è volontaria la desistenza motivata dall’impossibilità di proseguire o anche solo da situazioni di difficoltà. Non si richiede invece che la desistenza sia frutto di pentimento e significhi abbandono definitivo del piano criminoso; necessaria e sufficiente è la scelta volontaria di non proseguire in quella determinata situazione.
Per l’autore che, dopo aver compiuto l’azione, volontariamente impedisce l’evento, è prevista dal codice Rocco una forte diminuzione (da un terzo alla metà) della pena per il tentativo (art. 56 c.p.).
Il recesso attivo o pentimento operoso è dunque premiato con una semplice diminuzione di pena. È una circostanza attenuante, non una causa di non punibilità. Può essere un esito non disprezzabile, ma non è un ponte d’oro.

Il concorso di persone nel reato.

Il reato come impresa collettiva.

Un fatto di reato può essere realizzato da un uomo cha ha agito isolatamente, o può essere anche il risultato dell’agire di una pluralità di persone.
Nel codice penale italiano la disciplina del concorso di persone è contenuta nell’art. 110 c.p.: “Quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna dei esse soggiace alla pena per questo stabilità”, salva l’eventuale applicabilità di altre disposizioni specifiche in materia di concorso nel reato.
Ciò non significa che tutti debbano essere assoggettati alla medesima pena in concreto: anche nel caso di concorso di persone, la pena deve essere commisurata per ciascun concorrente non solo in ragione dell’obiettiva gravità del fatto, ma anche in ragione della soggettiva colpevolezza di ciascuno, secondo i criteri generali di cui all’art. 133 c.p..

La fattispecie plurisoggettiva concorsuale.

È autore del reato chi ha tenuto la condotta tipica del reato, e/o ha personalmente cagionato l’evento; del reato commesso, l’autore è personalmente responsabile.
Supponiamo che più persone abbiano preso parte, per esempio, ad un furto realizzato in comune, in cui ciascuno si è impossessato di alcune cose. Ciascuno ha personalmente realizzato un fatto tipico di furto, ed ovviamente ne risponde come autore; e può essere ragionevolmente ritenuto coautore della comune realizzazione di un unico furto, comprendente l’insieme delle cose rubate nel medesimo contesto, con il concorso di tutti.
Responsabilità a titolo di concorso significa responsabilità per un fatto che è anche di altri, e che solo attraverso un qualche collegamento, ancora da precisare, può essere considerato un fatto proprio del concorrente.
All’ipotesi in cui ciascuno dei concorrenti ha tenuto una condotta tipica possiamo accostare l’ipotesi di esecuzione frazionata, in cui persone diverse eseguono una parte dell’azione tipica. Esempio, una rapina nella quale uno dei complici attua la violenza o minaccia, e un altro si impossessa del bottino. Anche in questo caso, entrambi sono coautori del fatto, del quale hanno materialmente realizzato un segmento del tipo legale, coordinato a quanto realizzato dall’altro coautore.
Si pone il problema dei requisiti oggettivi minimi della condotta di partecipazione al reato.
I principi sul concorso di persone, combinandosi con le norme incriminatici di parte speciale, concorrono a costruire una fattispecie che comprende anche condotte non corrispondenti alla descrizione del tipo di reato nella disposizione di parte speciale: nel linguaggio della dottrina, una fattispecie plurisoggettiva eventuale, o, meglio, una pluralità di fattispecie plurisoggettive, corrispondenti alle singole norme incriminatici.

La cosiddetta accessorietà.

Accessorietà delle condotte di partecipazione al reato. La condotta atipica di partecipazione acquista rilievo in quanto accede ad un fatto materialmente realizzato da altri.
Non ha rilievo penale un tentativo di partecipazione, non seguito dalla realizzazione di un reato quanto meno tentato.
Una significativa conferma è data dall’art. 115 c.p., che abbiamo già visto essere un limite alla rilevanza dell’accordo o dell’istigazione, cioè di modalità tipiche di concorso.
La disciplina del concorso di persone nell’ordinamento italiano può dirsi modellata secondo l’idea della accessorietà: possono venire in rilievo, come condotte di partecipazione, solo condotte che accedono a un fatto tipico di reato.
Ai fini della disciplina sul concorso di persone, anche persone non imputabili o non punibili possono essere ragionevolmente considerate concorrenti.

I requisiti del contributo concorsuale.

I modelli di disciplina unitario e differenziato. Concorso materiale e concorso morale.

Il codice Rocco, discostandosi dal precedente, ha adottato un modello unitario di disciplina del concorso di persone, nel senso che non v’è una tipizzazione legislativa dei diversi atti di partecipazione, ma l’enunciazione di un criterio in forma di clausola generale, nel già citato art. 110 c.p..
Altri codici hanno adottato e adottano una modalità diversa, di tipizzazione più o meno precisa di categorie di atti di partecipazione.
Per concorso materiale si intende un’attività di materiale partecipazione all’esecuzione del fatto. Per concorso morale si intende il contributo di chi, con comportamenti diretti a influire su altri, fa nascere in altri il proposito di commettere il reato, o rafforza un proposito già esistente, ma non ancora consolidato.
Individuazione dei requisiti minimi, in presenza dei quali sia ravvisabile una condotta di partecipazione. Perché si possa ritenere sussistente un concorso nel reato, e conseguentemente porre il problema d’una eventuale responsabilità colpevole del concorrente, il reato commesso deve essere un fatto proprio anche del concorrente.

 

 

Il paradigma causale.

Secondo un indirizzo autorevolmente sostenuto in dottrina, può essere considerata tipica, entro la fattispecie plurisoggettiva, solo una condotta che abbia dato un contributo causale alla realizzazione del reato.
Teoria della causalità agevolatrice o di rinforzo: sarebbe rilevante non solo l’ausilio necessario, senza il quale il reato non sarebbe stato realizzato, ma anche un contributo che abbia solo agevolato o facilitato l’esecuzione del reato.
Contro il criterio dell’idoneità agevolatrice è stato osservato che esso attribuisce rilevanza a condotte nelle quali potrebbe ravvisarsi solo un tentativo di partecipazione, come tale non punibile.
L’idea della causalità agevolatrice assume che, ai fini della responsabilità concorsuale, possano ritenersi causali anche condotte che tali non sarebbero secondo il modello della condizione necessaria.
Se il contributo agevolatore ha inciso sul decorso causale effettivo che ha condotto alla realizzazione del fatto di reato, tale contributo è una condizione necessaria del fatto di reato,  e come tale è idoneo a fondare una responsabilità per fatto proprio.
Il termine di riferimento del problema causale è la complessiva organizzazione dell’impresa delittuosa, così come in concreto è avvenuta.

La partecipazione all’esecuzione del reato.

Chi ha assunto un ruolo nell’esecuzione dell’impresa comune è compartecipe del reato, indipendentemente dall’utilità del suo contributo. Il palo della banda, che secondo il piano sta fuori a controllare la situazione, è esecutore del furto al pari degli altri.
Partecipazione con voto favorevole ad una deliberazione collegiale criminosa, come l’approvazione di un bilancio falso.
Responsabilità del complice maldestro (che, cioè, volendo aiutare, ha intralciato la realizzazione del reato). Il complice maldestro, pur essendo stato maldestro, risponde del reato portato a compimento da altri, in quanto abbia effettivamente agito da complice, prendendo parte all’esecuzione del reato insieme con altri, in tal modo contribuendo all’organizzazione dell’impresa comune.

Forme di partecipazione al reato.

Gli esempi di cui abbiamo discusso sono esempi di concorso materiale.

Concorso morale.

Per concorso morale si intende il contributo di chi, con comportamenti diretti a influire su altri, fa nascere in altri il proposito di commettere il reato (in tal caso si parla di determinazione a commettere il reato) o rafforza un proposito già esistente, ma non ancora consolidato (in tal caso si parla di istigazione).
L’avere determinato altri a commettere un delitto è circostanza aggravante nei casi di cui agli artt. 111, 112 c.p..
L’istigazione deve aver fornito all’istigato ragioni per agire, che l’istigato ha effettivamente considerato nella sua decisione finale di realizzare il fatto oggetto di istigazione.
Per poter acquistare rilevanza di concorso morale, l’istigazione deve rivolgersi a destinatari ben definiti ed avere ad oggetto un fatto concretamente determinato. Non basta un’esortazione di contenuto generico.
Come forma di partecipazione morale viene in rilievo l’accordo per commettere un reato.
L’idea del rafforzamento dell’altrui proposito criminoso viene applicata anche in contesti diversi dall’istigazione in senso proprio, per affermare la rilevanza concorsuale di qualsiasi attività in cui venga ravvisato un effetto di sostegno psicologico alla decisione o esecuzione di un altrui proposito criminoso.
Possono venire in rilievo, come atti di partecipazione al reato, solo condotte il cui effetto psicologico su altri sia stato positivamente accertato, e sia un effetto di concreto impulso ad un proposito criminoso che altrimenti non si sarebbe manifestato, o si sarebbe realizzato in forme diverse.

Concorso omissivo.

Un concorso nel reato può essere realizzato anche mediante omissione, da chi ricopra una posizione di garanzia il cui contenuto consista nell’impedimento di reati da parte di altri.
Fuori dei casi in cui l’impedimento di reati sia oggetto di una posizione di garanzia, chi si trovi ad assistere alla commissione di un fatto di reato non ha il dovere di impedirne la realizzazione. Può allontanarsi e può assistere senza intervenire.
La mera presenza sul luogo del delitto non fonda una responsabilità per concorso.

L’autore mediato.

Taluno si avvale, per la realizzazione di un reato, dell’attività materiale di altra persona non punibile per incapacità, o perché vittima di violenza o di frode.
Appartengono a questo gruppo: costringimento fisico a commettere un reato (art. 46 c.p.); determinazione al reato mediante inganno (art. 48 c.p.) o minaccia (art. 54 c.p.) o messa in stato d’incapacità (art. 86 c.p.).
L’autore mediato è il reale dominus della situazione, e l’agente materiale non risponde, secondo i casi, per non imputabilità o per mancanza di dolo o in quanto abbia agito in stato di necessità.

Il dolo di partecipazione.

La responsabilità per concorso nel reato richiede la colpevolezza del concorrente in relazione al commesso reato. Le considerazioni svolte fin qui si riferiscono ad ipotesi di concorso di più persone in delitto doloso; ne risponde, secondo i principi generale, il concorrente che abbia agito con dolo.
Il dolo di concorso ha oggetto sia il fatto di reato realizzato in concreto, sia, per il singolo concorrente, il suo personale contributo atipico. Agisce con dolo di concorso colui che sa e vuole contribuire, con la propria condotta, alla realizzazione del fatto di reato, rappresentato nei suoi elementi costitutivi.
Il dolo va accertato in capo a ciascun concorrente, e per ciascuno è del tutto indipendente dal dolo di altri.

Reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti.

Art. 116 c.p.: “Qualora il reato commesso sia diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, anche questi ne risponde, se l’evento è conseguenza della sua azione od omissione. Se il reato commesso è più grave di quello voluto, la pena è diminuita per chi volle il reato meno grave”.
Il concorrente ha agito con il dolo di un reato diverso.
L’autore che ha commesso dolosamente il reato ed il concorrente che non lo ha voluto vengono equiparati nella attribuzione di responsabilità a titolo di dolo.
Caso esemplare del criterio del versari in re illicita.
Dopo l’entrata in vigore della Costituzione è stata denunciata l’incompatibilità dell’art. 116 c.p. con il principio di cui all’art. 27 Cost.. La corte costituzionale ha risolto la questione, con una sentenza interpretativa di rigetto.
Per l’imputazione del reato diverso da quello voluto non è sufficiente un’imputazione di meramente obiettiva, ma occorre anche un rapporto di causalità psichica, concepito nel senso che il reato diverso o più grave commesso dal concorrente debba potere rappresentarsi alla psiche dell’agente, nell’ordinario svolgersi e concatenarsi dei fatti umani, come uno sviluppo logicamente prevedibile di quello voluto, affermandosi in tal modo la necessaria presenza di un coefficiente di colpevolezza.
Occorre, dunque, a fondare la responsabilità del concorrente che non lo ha voluto, la prevedibilità del reato diverso.
Unico correttivo a questa severità, la previsione di una diminuzione di pena per il concorrente che non ha voluto il delitto realizzato, se più grave di quello voluto.

Il concorso dell’estraneo nel reato proprio.

Tutte le forma di partecipazione atipica possono essere senz’altro realizzate da soggetti estranei.
Il dolo del concorso in reato proprio richiede che il concorrente, non diversamente dall’intraneo, sia consapevole della qualifica soggettiva dell’autore.
L’interpretazione sistematica induce a ritenere la responsabilità per concorso a titolo di dolo anche del concorrente che non abbia conosciuto la particolare qualifica o il particolare rapporto che fa mutare il titolo del reato.

Il concorso in reato plurisoggettivo necessario.

La partecipazione di più persone caratterizza alcune figure di reato, che vengono definite come reati necessariamente plurisoggettivi.
Si può parlare di reato necessariamente plurisoggettivo quando la realizzazione del fatto da parte di più persone fa parte della descrizione del tipo di reato, nella norma incriminatrice di parte speciale, e tutti i partecipi sono nella medesima posizione di fronte al precetto penale.
Delitti di associazione o rissa. Ciascun partecipe risponde di concorso nel reato, secondo le regole generali.

Concorso di persone e reati associativi.

Reati associativi, consistenti nella partecipazione ad una associazione illecita, con ruoli dirigenziali o come semplice partecipe.
Possono essere proibite solo associazioni che abbiano fini vietati dalla legge penale, oppure associazioni segrete o che perseguano, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare.

Il problema del concorso esterno.

Problema se sia configurabile, nei reati associativi, un concorso nel reato mediante atti di partecipazione atipica, da parte di persone estranee alla struttura associativa (concorso esterno).
La possibilità di un concorso esterno in reati associativi deve essere ammessa in via di principio, sui medesimi presupposti su cui il concorso (materiale o morale) mediante condotte atipiche è ammesso in relazione agli altri reati.
Poiché nel reato associativo il risultato della condotta tipica è la conservazione o il rafforzamento del sodalizio illecito, il concorso esterno potrà essere ravvisato in relazione a condotte di persone esterne alla associazione, che portino al medesimo risultato.
Si richiede espressamente che il contributo del concorrente esterno abbia avuto un’effettiva rilevanza causale rispetto all’esistenza ed operatività dell’associazione.

Il problema della responsabilità dei dirigenti dell’associazione criminosa per delitti commessi dagli associati.

Dei reati realizzati nell’ambito dell’attività dell’associazione, rispondono coloro che li hanno commessi, secondo le regole generali. Non basta, a fondare una responsabilità per concorso in un qualsivoglia reato della associazione, l’essere membro, e nemmeno l’essere dirigente della associazione.

Desistenza e recesso attivo.

Il concorso di persone nel reato può riguardare anche un delitto solo tentato. Valgono, in proposito, le regole generali sul tentativo. Possono trovare applicazione anche gli istituti della desistenza volontaria e del ravvedimento operoso.
La soluzione più coerente con i principi del sistema, e più ragionevole nelle conseguenze, è che per la non punibilità sia sufficiente la neutralizzazione del contributo che il desistente abbia dato: venuto meno quel contributo, il fatto che i complici abbiano eventualmente realizzato sarebbe, per il desistente, un fatto altrui.

 

Il trattamento sanzionatorio. Le circostanze.

Nel caso di concorso di persone in un medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita (art. 110 c.p.).
Ciò non significa che tutti i concorrenti debbano essere assoggettati alla medesima pena in concreto. Significa che per tutti si deve fare riferimento alla cornice edittale di pena corrispondente al reato commesso. Per il resto, si applicano le regole generali sulla commisurazione della pena.

Concorso di persone e reato colposo.

Il concorso di più persone nel reato è ipotizzabile anche nei reati colposi.
Nel codice Rocco c’è una disposizione (art. 113 c.p.) intitolata alla cooperazione nel delitto colposo: “nel delitto colposo, quando l’evento è stato cagionato dalla cooperazione di più persone, ciascuna di queste soggiace alle pene stabilite per il delitto stesso”.
L’idea di cooperazione colposa sottende un legame psicologico fra i diversi agenti: una consapevolezza di cooperare, anche se scompagnata dalla consapevolezza di concorrere alla realizzazione di un reato.
La colpa deve essere autonomamente verificata in capo a ciascuno, avendo riguardo alla sua personale posizione.
Un’altra ipotesi è quella del confluire di condotte colpose indipendenti verso la realizzazione del fatto di reato.
Esempio di più soggetti che, con condotte colpose del tutto indipendenti l’una dall’altra, abbiano dati causa ad un incidente stradale con esiti di lesione in danno di terzi. In casi del genere non parleremo di cooperazione colposa, ma tutti gli agenti che hanno per colpa concorso a cagionare l’incidente sono chiamati a risponderne.

Limiti alla responsabilità per concorso nel reato.

Le norme sul concorso di persone nella legge penale tributaria.

Una disposizione speciale in materia di concorso di persone è inserita nella recente normativa sui reati tributari.
In deroga all’art. 110 c.p., l’emittente di documenti per operazioni inesistenti non concorre nel reato di dichiarazione fraudolenta commesso da chi si sia avvalso di tali documenti. Correlativamente, quest’ultimo non concorre nel reato di emissione di documenti per operazioni inesistenti.

L’agente provocatore e l’infiltrato in organizzazioni criminali.

Ai confini della responsabilità per concorso nel reato troviamo la figura dell’agente provocatore: per tale si intende chi provochi la realizzazione di un reato da parte di altri, al fine di assicurarne l’autore alla giustizia prima che il reato sia portato a termine. Esempio il finto acquirente di sostanze stupefacenti. L’esclusione da responsabilità può essere argomentata dall’assenza del dolo di partecipazione, che non è configurabile nei casi in cui l’agente provocatore fa affidamento sull’interruzione dell’iter criminoso allo stadio del tentativo.
Un’ipotesi diversa è quella dell’infiltrato in organizzazioni criminali. Esigenze investigative, di acquisizione di elementi di prova in ordine a determinati delitti, possono fondare la previsione di una causa speciale di non punibilità di comportamenti che, di per sé valutabili come di concorso nel reato, a determinate condizioni vengono eccezionalmente considerati una modalità legittima di adempimento dei doveri di investigazione, e perciò non punibili. La non punibilità è qui il riflesso di una vera e propria causa di giustificazione, limitata agli ufficiali e/o agenti di polizia giudiziaria legittimati a compiere attività sotto copertura.

Responsabilità penali nell’ambito di organizzazioni complesse.

Il soggetto apicale come garante primario.

L’ordinamento giuridico individua le posizioni soggettive fondamentali nei soggetti titolari dei poteri di direzione e organizzazione al livello più elevato. Possiamo definirli soggetti apicali.
I poteri e doveri dei soggetti apicali danno corpo a posizioni di garanzia: si caratterizzano come poteri e doveri d’attivarsi, relativi al modo di essere e di operare delle organizzazioni che essi dirigono.
Corrispondenza fra poteri e doveri.
Fino a che il soggetto apicale mantiene la posizione dirigenziale cui la legge riconnette gli obblighi penalmente sanzionati, è suo il potere di organizzare e dirigere l’impresa o altra struttura di cui è a capo, definendo nelle linee generali i ruoli e le responsabilità, i mezzi ed i fini.

Doveri non delegabili del soggetto apicale. La valutazione dei rischi.

La posizione di garanzia del soggetto apicale si incentra su doveri che il sistema addita, in modo espresso o implicito, come indelegabili.
Il d. lgs. 626/1994 individua come adempimento fondamentale, indelegabile, del datore di lavoro la valutazione dei rischi, e la conseguente redazione di un documento che rifletta gli esiti della valutazione e definisca programmi e procedure per il raggiungimento degli obiettivi di sicurezza.
Oggetto della valutazione è la situazione di fatto: l’attività che si tratta di svolgere, i contesto in cui si svolge e su cui può incidere.
La costruzione del sistema di sicurezza richiede allora, da parte dei garanti, l’individuazione di quali regole cautelari, espressamente stabilite o implicitamente desumibili dall’ordinamento giuridico, siano pertinenti alle situazioni di rischio rilevate.
L’attività di individuazione di regole cautelari poste dall’ordinamento giuridico non esaurisce un compito che è di attuazione delle regole. A tal fine, occorre che le regole siano specificate con riferimento alle situazioni concrete, mediante un sistema di discipline le quali traducano i criteri normativi generali in prescrizioni specifiche per chi si trovi ad agire in situazioni date.

 

 

La struttura a rete delle posizioni di garanzia entro l’organizzazione.

Di fondamentale importanza è la costruzione del modello di cooperazione dell’intera struttura rispetto all’obiettivo dell’osservanza della legge.
La sostanza della garanzia sta nell’assicurare certi risultati: a tal fine il garante apicale deve fare il mestiere suo proprio, che è quello di adottare decisioni organizzative. Per tutte le questioni che richiedono il contributo di conoscenza, di esperienza, o di puntuale lavoro di altri, il dovere del soggetto al vertice non è un dovere di fare da sé, ma è dovere di assicurare il contributo di chi sia in grado di darlo utilmente.
Quanto più complessa l’organizzazione, tanto più ampia deve essere la rete dei soggetti tenuti ad attivarsi per l’adempimento della garanzia.
Per talune attività è esplicitamente prevista l’obbligatoria preposizione di un responsabile provvisto di determinati requisiti d’idoneità.
Ciascuno risponderà delle conseguenze degli errori, carenze, omissioni nell’adempimento del proprio compito.
Sul piano sistematico, la disposizione sugli adempimenti non delegabili staglia il dovere del soggetto apicale come dovere di buona programmazione e organizzazione della sicurezza. Per gli adempimenti ulteriori, di attuazione delle misure doverose, l’indicazione sistematica, leggibile nella esplicita selezione normativa del no delegabile, è nel senso che tutto è delegabile, anzi tendenzialmente da delegare, nella misura in cui proprio una adeguata ripartizione di compiti e responsabilità è elemento fondamentale della organizzazione della sicurezza.
Resta, per definizione, ciò che caratterizza tale posizione, vale a dire il potere decisionale, e, correlato a questo, il dovere di esercitarlo in modo coerente con la garanzia dovuta.

La questione della delega di funzioni.

Con specifico riguardo alla posizione del delegante, si ammette che, a date condizioni, la delega di funzioni possa avere efficacia liberatoria rispetto a violazioni di legge avvenute nella sfera delegata ad altri.
La giurisprudenza richiede che la delega sia espressa, e dovuta ad effettive esigenze organizzative; che insieme ai doveri concernenti date attività siano conferiti i poteri necessari ad adempierli; che il delegato sia persona tecnicamente idonea.

Necessità della delega?

A fondare la legittimità della delega non è la sua necessità in senso stretto. Ciò che interessa è l’idoneità del sistema di deleghe rispetto alla tutela degli interessi penalmente protetti, messi in gioco dal funzionamento dell’organizzazione.

Il trasferimento di poteri al delegato.

È ricorrente l’idea che debba essere trasferita al delegato una quantità di poteri corrispondente ai poteri del delegante.
Per costituire il delegato come ulteriore garante degli interessi protetti necessario e sufficiente è un conferimento di poteri idoneo ad individuare una autonoma posizione funzionale entro l’impresa. Se la delega è limitata, per il delegante non potrà avere che un’efficacia liberatoria limitata. La misura dei poteri delegati, cioè la minore o maggiore ampiezza della delega, incide non sulla ammissibilità ed efficacia della delega stessa, ma sulla ripartizione dei poteri e doveri fra delegante e delegato.

L’idoneità del delegato.

Fra i requisiti della delega liberatoria viene di solito menzionata anche l’idoneità del delegato. Per l’esattezza, dovremmo dire che l’inidoneità del delegato, se riconoscibile ex ante, può essere fondamento di un addebito di culpa in eligendo a carico del delegante.
Per quanto concerne il delegato, la sua inidoneità non impedisce il costituirsi della posizione di garanzia, né l’eventuale responsabilità per non essersi dimostrato all’altezza dei suoi compiti. Assumere un incarico che non si è in grado di svolgere nel rispetto delle regole proprie di esso, è il fondamento della colpa per assunzione.

Requisiti formali della delega?

In assenza di disposizioni di legge che prevedano per la delega forme particolari, gli indirizzi interpretativi si muovono su linee divaricate.
L’orientamento più rigido richiede necessaria una delega formale che consenta di verificare quali poteri siano stati dati al delegato e quali i limiti degli stessi. Da ciò l’esigenza che la delega sia esplicita e in equivoca e fatta, tendenzialmente, in forma scritta.
Secondo un altro indirizzo, tale esigenza potrebbe essere superata quando la ripartizione delle funzioni emerge chiaramente dalla situazione di fatto.

La rilevanza della delega: obiettiva o soggettiva?

Una delega efficace, con effetto liberatorio per il delegante, ha rilevanza oggettiva (esclusione della attribuibilità del fatto ad una condotta del delegante) o meramente soggettive (esclusione della colpevolezza)?
Se il garante primario ha adempiuto ai suoi doveri, con la costruzione di un idoneo modello organizzativo, il fatto reato che si sia eventualmente verificato nella sfera attribuita alla competenza di altri non può essere ricollegato ad alcuna condotta omissiva del soggetto adempiente. Anche il fatto del delegato è, per il delegante immune da colpa, un fatto altrui.
In questo senso la delega ha rilevanza obiettiva: consente di escludere già sul piano oggettivo la responsabilità del delegante per il fatto reato che si sia eventualmente verificato nella sfera attribuita alla competenza di altri.
Le responsabilità del delegante e del delegato, tuttavia in alcuni casi, possono concorrere tra loro.

 

 

Potere e sapere come presupposti di posizioni di garanzia.

La valutazione dei rischi e la programmazione della sicurezza, ineludibilmente, richiedono conoscenze scientifiche che il detentore di potere, specie quello al vertice, per lo più non possiede.
Un ordinamento razionale deve fare i conti con la scissione non evitabile fra potere decisionale e sapere tecnico. La garanzia esigibile dal detentore di potere non passa affatto per l’acquisizione, inesigibile e inutile, di un personale sapere specialistico in qualsivoglia campo, ma passa attraverso l’impegno di assicurare che i saperi specialistici occorrenti siano  reperiti e funzionino. Il dovere in delegabile del datore di lavoro è di assicurare che la valutazione e poi la gestione dei rischi sia effettuata utilizzando il sapere scientifico e tecnico pertinente.
Il sapere scientifico e tecnico richiesto, ai fini della valutazione dei rischi, è il sapere di un agente modello che svolga il tipo di attività cui la valutazione si riferisce.

Doveri non delegabili e colpevolezza del soggetto apicale.

Nell’ambito in cui sia prevista, la non delegabilità attiene ai contenuti obiettivi della posizione di garanzia del datore di lavoro. Ai fini della responsabilità penale resta impregiudicata l’esigenza della soggettiva colpevolezza.
Anche in caso di obiettive carenze nell’adempimento di doveri non delegabili, resta teoricamente aperta la possibilità di scusanti soggettive. L’ambito della possibile scusa può essere identificato soprattutto nell’affidamento verso collaboratori qualificati, relativamente a questioni tecniche. Affidamento ha un duplice significato: affidamento obiettivo al consulente tecnico del lavoro di rilevazione ed analisi tecnica; affidamento soggettivo nei risultati dell’attività del consulente.

Il dovere di vigilanza.

Secondo quanto affermato in dottrina e in giurisprudenza, persisterebbe in capo al delegante un dovere di vigilanza.
Non menzionato fra i doveri non delegabili, il dovere di vigilanza può ritenersi aspetto essenziale della garanzia dovuta, con contenuti differenziati e delimitati in relazione ai compiti propri di ciascun garante.
Il dovere di vigilanza no può assolutamente intendersi come obbligo di vigilanza su fatti specifici entro sfere di competenze delegate, magari con verifiche personali saltuarie a campione su tutto e su tutti; un dovere di vigilanza, correlato ai poteri-doveri di direzione, non può che essere riferito alla tenuta del sistema organizzativo: apprestamento di un sistema informativo interno all’organizzazione, che garantisca la trasmissione agli organi competenti, ai diversi livelli, delle informazioni rilevanti per l’espletamento dei loro compiti.
Quando l’esistenza della situazione irregolare sia venuta a conoscenza del garante, sorge un obbligo specifico di intervenire, che potrà richiedere una specifica sollecitazione del delegante verso soggetti delegati, o anche, in caso di disfunzioni del sistema, l’esercizio dei poteri propri del soggetto apicale.

Unità e pluralità di reati.

L’unità del fatto di reato come problema di qualificazione normativa.

L’unità del fatto di reato, pur radicata nel mondo dei fatti, è un’unità normativa. Ciò che fa di un fatto un reato, è la qualificazione operata dalla norma penale, che seleziona e insieme unifica i fatti rilevanti.
La norma penale può ricondurre ad unità, ad un unico reato, una pluralità di condotte e di eventi.
Ciò avviene nei reati di durata: reati abituali o permanenti, come i maltrattamenti o il sequestro di persona. Anche dopo che il reato è stato realizzato, fatti successivi entrano a far parte di un unitario e unico reato.
Poiché l’unità del reato è normativamente determinata, come unica e unitaria offesa a un determinato bene giuridico, il criterio decisivo è quello dell’unicità o pluralità di offese.

Concorso apparente di norme e concorso formale di reati.

Il concorso apparente di norme. Il principio di specialità.

È possibile, e spesso avviene che un dato fatto sia preso in considerazione da più norme penali, come fatto costitutivo di reato o come elemento costitutivo di un dato reato. In casi del genere, il problema dell’unicità o pluralità di reati è un problema di rapporti fra norme diverse: quando un fatto concreto è suscettibile di qualificazione da parte di più norme penali, secondo quali criteri si fonda l’applicabilità dell’una e/o dell’altra?
Il criterio di base, espressamente formulato dall’art. 15 c.p. è il principio di specialità: “Quando più leggi penali o più disposizioni di legge regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito”.
Lex specialis derogat legi generali; la legge speciale deroga alla legge generale, escludendo l’applicabilità di quest’ultima nei casi compresi entro la fattispecie speciale. Quando fra più norme sussiste un autentico rapporto logico di specialità, il concorso di norme è solo apparente.

Il criterio di sussidiarietà.

Esistono criteri ulteriori rispetto al principio di specialità, che consentano di escludere in taluni casi il concorso di reati, e di fondare l’applicazione di una sola fra le norme penali astrattamente riferibili al caso concreto?
Diverse norme incriminatici di parte speciale contengono clausole che ne delimitano l’applicazione, del tipo “salvo che il fatto non costituisca un più grave reato”, “se il fatto non è preveduto come reato da altra disposizione di legge”, e simili. Mediante clausole di sussidiarietà, il legislatore attribuisce alle norme che le contengono una funzione ed un ambito di applicazione che entrano in gioco solo quando non siano applicabili nel caso concreto altre norme che prevedano reati più gravi.

 

Criteri di assorbimento.

Più fatti concreti commessi in tempi diversi, ciascuno di per sé costituente reato, che siano però in qualche modo collegati fra loro.
In alcuni casi l’unificazione avviene entro un’unica fattispecie normativa. Altri casi di assorbimento in una considerazione unitaria sono enucleati ed unificati dalla dottrina nelle categorie degli antefatto e postfatto non punibili.
L’ipotesi dell’antefatto non punibile prende corpo in relazione a fatti strumentali, che, autonomamente configurati come reati di pericolo, perdono autonomo rilievo quando l’attività criminosa sia arrivata ad uno stadio ulteriore.
In assenza di clausole espresse, ipotesi tacite di antefatto non punibile vengono ravvisate in casi di progressione criminosa, come quando, per esempio, nel medesimo contesto d’azione, taluno passi da semplici percosse alla causazione di lesioni personali, o dalle lesioni all’omicidio.
Ipotesi di postfatto non punibile si hanno nei casi in cui un determinato fatto sia previsto come reato fuori dei casi di concorso con un reato precedente.

Concorso di reati.

Il principio del cumulo materiale delle pene.

Nel caso che una persona abbia commesso non uno solo, ma più reati.
In astratto ad ogni reato deve seguire la pena per esso prevista: criterio del cumulo materiale delle pene (somma aritmetica delle pene corrispondenti a ciascun reato).
Il più diffuso fra i criteri alternativi è il cumulo giuridico: la pena complessiva viene determinata partendo dalla pena per la violazione più grave, sulla quale si applica un aumento fino ad un limite massimo fissato dalla legge.
Altro criterio in uso è quello dell’assorbimento (si applica la pena prevista per la violazione più grave).
Il criterio del cumulo materiale delle pene è temperato, nel massimo, dal limite del quintuplo della pena per il reato più grave (art. 78 c.p.), e non è senza eccezioni.

Le eccezioni al principio del cumulo materiale. Il cumulo giuridico.

Nell’ordinamento vigente, fermo restando il principio generale del cumulo materiale delle pene, v’è un ambito molto ampio di applicazione del più favorevole criterio del cumulo giuridico.
Art. 81 c.p.: si assume come pena base la pena prevista per la violazione più grave, e su questa pena base si applica un aumento fino al triplo (della pena base); la pena non può comunque superare la somma delle pene corrispondenti ai singoli reati.
Quanto alle pene accessorie, debbono tenersi applicabili tutte quelle previste per uno qualsiasi dei reati uniti nel cumulo.
Il cumulo giuridico delle pene è oggi applicabile in qualsiasi caso di qualificazioni plurime del medesimo fatto, o di fatti contestualmente commessi (concorso formale) è applicabile inoltre al reato continuato.

Problemi comuni alle ipotesi diverse di cumulo giuridico.

L’identificazione della pena più grave.

Per quanto concerne l’individuazione della violazione più grave, cui corrisponde la pena base, l’alternativa in discussione è se la violazione più grave sia quella per la quale è prevista la pena edittale più severa (maggiore gravità in astratto), oppure quella per cui il giudice, in applicazione dei criteri di commisurazione della pena in concreto, infliggerebbe la pena più severa (maggiore gravità in concreto). La giurisprudenza propende per la valutazione in astratto, la dottrina per la valutazione in concreto.
Quando la disciplina del cumulo giuridico parla di pena per la violazione più grave, da assumere come pena base e sulla quale operare l’aumento fino al triplo, certamente si riferisce ad una pena determinata dal giudice in concreto, e non ad un limite edittale di pena.
La pena per i delitti deve ritenersi, per una precisa indicazione sistematica, più grave si in astratto che in concreto, indipendentemente da ogni ulteriore considerazione.

Cumulo giuridico e reati puniti con pene eterogenee.

Nel caso di reati puniti con pene eterogenee è prevalsa a lungo in giurisprudenza la tesi dell’inapplicabilità del cumulo giuridico.
L’applicabilità del cumulo giuridico è poi stata ammessa dalla giurisprudenza. L’aumento di pena dovrebbe essere operato sulla pena prevista per la violazione più grave, e le pene eventualmente di specie diversa, o addirittura di genere diverso, acquisterebbero la natura della pena base.
La dottrina condivide la tesi della applicabilità del cumulo giuridico in tutti i casi in cui ne ricorrano i presupposti sostanziali ex art. 81 c.p., anche quando si tratti di unificare pene di specie o di genere diverso; ma giustamente non condivide il criterio di calcolo adottato dalla giurisprudenza, che finisce per trasformare pene di genere o di specie meno grave in una pena di natura più grave.

Reato continuato.

Dal reato continuato omogeneo al reato continuato eterogeneo.

Nel sistema originario del codice il reato continuato era l’unica eccezione al criterio del cumulo materiale delle pene.
Il codice Rocco prevedeva la figura del reato continuato omogeneo, caratterizzata dalla identità del disegno criminoso e dalla omogeneità delle violazioni, tutte riferibili ad una medesima disposizione di legge. L’insieme delle violazioni si considerano un solo reato.
La novella del 1974 ha radicalmente ridisegnato questa figura: nel reato continuato, ormai caratterizzato dalla sola unità di disegno criminoso, possono confluire violazioni di disposizioni di legge diverse.
La frase secondo cui le violazioni si considerano come un solo reato è stata eliminata. Il reato continuato eterogeneo è un contenitore di reati diversi, che la disciplina vigente considera unitariamente con riguardo a taluni effetti, e come reati tra loro distinti relativamente ad altri effetti.
L’unificazione riguarda il trattamento sanzionatorio: applicazione del criterio del cumulo giuridico.
Ad ogni altro effetto, i singoli episodi vanno considerati come reati autonomi.

Il medesimo disegno criminoso.

Ciò che caratterizza il reato continuato, sia prima che dopo la novella del 1974, è l’unità di disegno criminoso.
Una tale scelta può ritenersi conforme a un criterio di proporzione, in quanto risulti poter poggiare su una valutazione di minore gravità, o meglio di minore colpevolezza del soggetto agente, in relazione all’unicità del disegno criminoso sotteso alla pluralità di reati.
È sufficiente, ma anche necessario, che le condotte criminose siano programmate nei loro profili essenziali. Non basta ad identificare il disegno criminoso una generica scelta di vita.

Reato continuato e cosa giudicata.

Si è posto il problema se l’unità del disegno criminoso venga interrotta da una sentenza di condanna per taluno dei reati programmati, dopo la quale il soggetto agente commenta ulteriori reati ricollegabili al programma iniziale. La giurisprudenza ha a lungo attribuito alla sentenza (quanto meno a quella passata in giudicato) l’effetto di interrompere la mcontinuazione.
Questo orientamento è stato poi superato con il riconoscimento che l’unicità del disegno criminoso va vista nella sua realtà psicologica, e non necessariamente è interrotta da interventi di giustizia penale.
Non mancano voci dissenzienti, le quali osservano che, negando al giudicato l’effetto normativo di interrompere la continuazione, si rischia un indebolimento della funzione di prevenzione speciale, concedendo al condannato, che avesse già impostato un disegno criminoso, una sorta di licenza di commettere ulteriori reati, a prezzi, in termini di pena, estremamente scontati.

 

Fonte: http://www.studentibicocca.it/file/download/1103?license_confirmed=true

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