Tolleranza significato

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Tolleranza significato

 

La Tolleranza

 

Che cos'è la tolleranza? La domanda può apparire retorica, dato che ha già avuto un'autorevole risposta più di due secoli fa: nel suo Dizionario filosofico (1764) Voltaire rispondeva «È l'appannaggio dell'umanità». Noi siamo tutti impastati di debolezze e di errori: perdoniamoci reciprocamente le nostre balordaggini, è la prima legge di natura». Inoltre, il significato del termine ci può sembrare più che noto, scontato, tanto da considerare il suo opposto, l'intolleranza, un retaggio del passato, sopravvissuto solo in culture "altre" rispetto alla nostra, insomma, perché problematizzare - poiché tale è lo scopo dell'interrogare filosofico - un valore indiscusso della cultura contemporanea? Forse proprio perché concetti e valori mantengono significato e validità solo se sono oggetto di una costante riflessione critica, cioè solo se vengono discussi alla luce di mutamenti storici e culturali. Pertanto, la nostra domanda è solo formalmente identica a quella che si poneva Voltaire, poiché altri sono gli eventi storici, spesso anche drammatici, che l'hanno resa urgente e necessaria, come diversa sarà la risposta, inevitabilmente più "aperta", proprio perché i due secoli trascorsi ci hanno insegnato che la comprensione della complessità storica ed esistenziale richiede l'impiego di categorie concettuali più articolate e sfaccettate. Iniziamo allora la nostra ricerca, declinando maggiormente l'interrogativo iniziale: qual è l'etimologia del termine "tolleranza"? Qual è la definizione corrente di tolleranza? Come e quando ha preso corpo tale definizione? Essa è ancora valida?

Da un punto di vista strettamente etimologico, la parola tolleranza discende dal latino tolero, "sopporto". Poiché si sopporta ciò che per motivi di forza maggiore non si può ne evitare, ne modificare a proprio vantaggio, appare subito evidente che il significato del verbo latino connota un atteggiamento sostanzialmente passivo, necessitato.
A questo punto l'analisi etimologica sembra confonderei più che illuminarci: ma la tolleranza non è la disposizione, consapevole e volontaria, a riconoscere legittimità alle idee e ai comportamenti altrui? Che cosa ha a che fare la tolleranza, un atteggiamento cui la nostra cultura attribuisce un'indiscussa positività tanto da ritenerlo costitutivo dell'eticità contemporanea, con la sopportazione, atto che denota disagio, costrizione, limite?
In realtà, come spesso accade, l'etimologia rende conto, proprio attraverso l'apparente divario tra il significato originario e quello derivato, della storia del termine, profondamente radicata nella storia degli uomini. E se è vero, come ha scritto un insigne linguista contemporaneo, che «tutta la storia del pensiero moderno e le principali attuazioni della cultura intellettuale nel mondo occidentale sono legate alla creazione e all'esercizio di poche dozzine di parole essenziali, il cui insieme costituisce il bene comune delle lingue dell'Europa occidentale» (É.Benveniste, Problemi di linguistica generale, II Saggiatore, Milano 1976, p. 401), tolleranza (ingl. toleration, franc., tolérance, ted. toleranz) è sicuramente una di quelle, derivata dal latino tolero ma definita nella sua accezione corrente dalle vicende chiave dell'Europa moderna. Tanto che, pur traendo origine da un verbo latino, utilizzato anche dagli autori cristiani medievali, il sostantivo “tolleranza” acquista spessore semantico e morale, identificandosi con il principio della libertà religiosa, solo a partire dal Cinquecento, quando la società europea sperimentò fino in fondo l'effetto devastante delle guerre di religione, prodotte da intolleranze contrapposte.
Nella società contemporanea il termine ha indubbiamente un'accezione più ampia, che include il significato di tolleranza religiosa ma non si esaurisce in essa: oggi, l'idea di tolleranza è collegata per lo più alla convivenza con minoranze etniche, religiose, sociali o linguistiche o, in un significato ancora più comune, si identifica con una sorta di pluralismo dei valori e viene intesa, in maniera più vasta, «come comprensiva di ogni forma di libertà, morale, politica e sociale» (N. Bobbio, Le ragioni della tolleranza, in L'intolleranza: uguali e diversi nella storia, a cura di R C. Bori, Il Mulino, Bologna 1986, p. 243). In ogni caso, l'idea di tolleranza, centrale in un'epoca di globalizzazione e insieme di crisi delle certezze assolute, riappare con forza come categoria da rileggere e reinterpretare in un mondo, quale l’attuale, percorso da inedite ondate migratorie ma anche da rinnovati contrasti etnici e religiosi, spesso ispirati a concezioni integraliste e in grado di produrre nuovi e tragici conflitti, insomma, ancora una volta, come già nel Cinquecento, la riflessione sulla tolleranza è stimolata dalla pratica dell'intolleranza.
Pertanto, la ricognizione storica di questo termine chiave della cultura europea deve proprio prendere le mosse dall'analisi del rapporto, sempre inversamente proporzionale, tra intolleranza e tolleranza.

Il primo dato inoppugnabile di ogni ricerca volta a tracciare la storia della polarità intolleranza/tolleranza è la constatazione, da un lato, della sua estraneità ai parametri concettuali dell'uomo antico, dall'altro, della sua appartenenza alla storia della diffusione e della istituzionalizzazione della dottrina cristiana.
Ciò non vuol dire che la cultura antica non contemplasse alcuna forma di discriminazione nei confronti degli "altri", dei "diversi", che erano, ad esempio per l'uomo greco, lo straniero, la donna, lo schiavo. Discriminazione, però, è sinonimo di distinzione, non di intolleranza. Certo, chi discrimina distingue in base a una scala di valori di cui egli ritiene di incarnare quelli positivi e "gli altri" quelli negativi, ma ciò non impedisce la convivenza reciproca all'interno di una medesima società. Si pensi, ancora una volta, alla società greca e alla condizione da essa assegnata alla donna, di cui Aristotele aveva teorizzato l'inferiorità naturale. O, ancora, ai barbari, nemici della repubblica romana ma, in seguito, cittadini dell'impero multietnico dei Cesari. Del resto, la religione pagana, vera e propria istituzione pubblica, finalizzata a promuovere e a rafforzare il senso di appartenenza del singolo allo Stato, si caratterizzò più per la coesistenza pacifica di culti diversi e per il sincretismo religioso che per eventuali pratiche persecutorie, che, anche quando furono attuate, come nel caso dei martiri cristiani, non furono determinate da odio religioso, bensì da ragioni politiche. I Romani non pretendevano affatto la conversione intima dei cristiani, ma l'atto di sottomissione simbolica all'autorità dell'imperatore.
Per contro, l'intolleranza religiosa divenne appannaggio della politica imperiale quando il cristianesimo si trasformò in religione di Stato (Editto di Tessalonica, 380), suggellando quel processo di reciproca integrazione tra Chiesa e Stato avviato da Costantino che, in cambio di concessioni politiche sempre più rilevanti quali l'inserimento di vescovi nella corte e l'ammissione della giurisdizione papale, aveva ottenuto la possibilità di esercitare un controllo sulle strutture istituzionali e nelle dispute dottrinali della Chiesa.
Dobbiamo, allora, considerare l'intolleranza una componente strutturale del messaggio cristiano?
Per rispondere a tale interrogativo, è necessario riflettere preliminarmente sulla natura delle cosiddette religioni rivelate. In effetti, le religioni fondate su una rivelazione - ossia sulla diretta comunicazione della verità da parte di Dio – come l'ebraismo, il cristianesimo e l'islamismo, sembrerebbero comportare "naturalmente" l'intolleranza, radicata nel carattere esclusivistico connesso alla convinzione di possedere l’unica assoluta verità, in realtà tra tale convinzione e la pratica, "umana, troppo umana", dell'intolleranza non vi è un rapporto diretto, scontato. Si pensi, ad esempio, alla politica religiosa dell'impero ottomano, che, pur imponendo il predominio della religione islamica, tollerava che altre comunità religiose - Greci ortodossi, Armeni ortodossi ed Ebrei - si organizzassero in modo autonomo e paritario. Appare evidente, allora, che l'intolleranza non è tanto costitutiva di determinate fedi religiose, quanto dei modi e delle procedure della loro diffusione e istituzionalizzazione, che si realizzano all'interno di specifici contesti storici.

Il cristianesimo non fece eccezione: credo religioso incentrato sull'amore (l'agápe -ajgavph - nel lessico neotestamentario), l'amore di un Dio padre degli uomini, egli stesso fonte inesauribile d'amore e che l'amore comanda a tutti i suoi figli come il primo e fondamentale dovere, diede di fatto origine a un'organizzazione, la Chiesa, il cui ruolo di depositaria della Verità si concretizzò in una prassi prevalentemente intollerante, in stridente contrasto con i valori stessi che intendeva difendere. In particolare, gli appelli alla patientia e alla caritas, frequenti nel testo evangelico, trovarono un limite insuperabile nei mutati rapporti tra Chiesa e potere imperiale, che garantirono alla prima non solo il monopolio delle coscienze, bensì anche il ricorso agli strumenti coercitivi e punitivi del secondo, funzionali al mantenimento di quel monopolio.Tale processo produsse, del resto, profonde lacerazioni all'interno della stessa comunità cristiana, poiché non pochi fedeli si opposero allo snaturamento dello spirito delle origini conseguente al compromesso con il potere. Pertanto, proprio a partire dal IV-V secolo, parallelamente alla supremazia riconosciutale dall'Editto di Tessalonica, la Chiesa iniziò a sperimentare il "tarlo" dell'eresia, che ne costituirà per secoli la minaccia più grave, minandone dall'interno la coesione e la coerenza dottrinali.

L'intolleranza parve, allora, lo strumento più adatto alla salvaguardia dell'ortodossia, quale retta credenza nei dogmi ufficialmente insegnati, da qualsiasi contaminazione ereticale: separare il "buon grano" (il buon cristiano) dalla "zizzania" (l'eretico), come, a partire dal IV secolo, divenne abituale ripetere sulla scorta della famosa parabola del Vangelo di Matteo (13,24-30), divenne l'imperativo di una Chiesa che, in quanto "cattolica" (cioè universale) non poteva tollerare il particolarismo dottrinale e rituale proprio di ogni eresia.
La distinzione, però, non comportò fin dall'inizio la necessità dell'eliminazione anche fisica dei dissenzienti: Agostino, che anche a questo riguardo rappresentò l'auctoritas a lungo indiscussa, si convinse della bontà della persecuzione, intesa però come strumento essenzialmente correttivo, non punitivo. Ciò significa, per il vescovo di Ippona, che la Chiesa deve accettare il ricorso all'uso della forza in questioni di fede solo come rimedio estremo, finalizzato al recupero dell'eretico, che, incapace di ravvedersi autonomamente dalle proprie erronee convinzioni, deve essere "costretto" alla Verità.
Tuttavia, durante il Medioevo, la compenetrazione, per quanto problematica e conflittuale, di Chiesa e Stato, all'interno di una società che a partire dall'XI secolo si autoqualifica come "cristiana", favorì una radicalizzazione del rapporto ortodossia/eterodossia. La ricerca della più rigorosa unità religiosa si spinse fino alla creazione di istituzioni che, come la famigerata Inquisizione del XIII secolo, furono appositamente preposte alla repressione del dissenso e della devianza religiosa, mentre le leggi civili ed ecclesiastiche iniziarono a prevedere per gli eretici la condanna al rogo. Considerato, nel senso più rigoroso della parola, un fuorilegge, l'eretico divenne passibile di morte, perché, come ebbe a teorizzare Tommaso d'Aquino, egli era responsabile del delitto di falsificare la fede e, perciò, doveva essere condannato alla stessa stregua dei falsari, ossia "giustamente" messo a morte.

Generalmente considerata come un'èra di pura intolleranza, tuttavia l'epoca medievale, proprio in quanto "epoca" - ossia periodo storico di lunga durata - e, pertanto, definita solo in modo riduttivo da espressioni di carattere generale, conobbe anche i primi tentativi di instaurare, almeno in ambito intellettuale, il confronto e il dialogo tra fedi diverse. È esemplare, a questo proposito, il Dialogo tra un filosofo, un giudeo e un cristiano di Abelardo, grande maestro di dialettica nonché attivo protagonista della rinascita culturale della Francia del XII secolo. In questo testo compare per la prima volta un tema destinato ad avere grande fortuna tra i successivi sostenitori della tolleranza religiosa: l’esistenza in ogni uomo di una legge naturale (coincidente in ultima analisi con la stessa ragione umana), che gli indica i principi fondamentali della vita morale, gli insegna a risalire a Dio, ripercorrendo a ritroso la razionalità del creato, e gli addita la concordanza di tutte le religioni alla luce della ragione. Fermamente convinto che non si possa credere ciò che prima non si è capito (intelligo ut credam, "capisco per credere"), Abelardo non concepisce la ragione in antitesi alla fede, anzi, la considera sia strumento indispensabile all'approfondimento delle verità di fede, sia fonte di verità, certamente parziali (dato che solo il cristianesimo è l'orizzonte della piena verità), ma non fallaci. Pertanto, il confronto tra la religione cristiana e le altre fedi, tra la verità di Dio e le verità dei filosofi è reso possibile dalla natura stessa della rivelazione cristiana che, in quanto realizzazione massima, compimento ultimo della verità, non esclude ma comprende e recupera le singole verità parziali. Certo, la prospettiva abelardiana non è assimilabile alle successive teorizzazioni a favore del pluralismo religioso, in quanto è comunque incentrata sulla preminenza teologica e morale del cristianesimo, tipica della cultura medievale. Tuttavia, essa riduce la distanza tra fede e ragione, tra il cristianesimo e le altre religioni, considerate non come errate interpretazioni della verità, bensì come diverse vie di accesso a essa.

La portata innovativa della concezione abelardiana del rapporto fede/ragione non sfuggì ai contemporanei: il magister di dialettica fu, infatti, condannato come eretico nel 1140 da un concilio di vescovi e la Chiesa continuò per secoli a difendere l'ortodossia non con le armi della ragione, come aveva insegnato Abelardo, bensì con gli strumenti della tortura. Tuttavia proprio l'abuso di quegli strumenti produsse l'esigenza del loro abbandono, vale a dire che l'acme dell'intolleranza coincise con le prime formulazioni del principio di tolleranza. Ciò avvenne tra il XVI e il XVII secolo, quando la cristianità cessò di essere il cemento della società europea e quell'unico cristianesimo che aveva caratterizzato l'epoca medievale si disarticolò in una serie di nuove ortodossie. Aprendo una profonda crisi religiosa e politica all'interno del mondo occidentale, il protestantesimo sembrò segnare il tramonto di un'epoca e l'avvento di una nuova èra; tuttavia, la rinascita del dogmatismo teologico, la rigidità dei criteri di esclusione e di inclusione delle appartenenze religiose, l'integralismo con cui le nuove confessioni si combatterono a vicenda, dando vita a feroci guerre civili, tutto ciò segnò a fondo l'avvento della Riforma e sembrò ripristinare l'oscurantismo e la ferocia persecutoria dei "secoli bui". Ferocia che fu di tutti e tra tutti: tra cattolici e protestanti, ma anche tra cattolici e cattolici, tra protestanti e protestanti. Così la Chiesa romana si impegnò contro l'eresia protestante con grande energia, tanto nell'epoca della crisi (la prima metà del Cinquecento, in cui si dispiegarono gli effetti della frattura luterana) quanto nei decenni successivi (l'età della Controriforma). Allo stesso modo, le grandi Chiese riformate, guidate da leader religiosi e insieme politici che si ritenevano strumenti ed esecutori della volontà divina, unici rappresentanti del "vero Vangelo", repressero con la forza quei dissidenti interni, che, con pari integralismo, aspiravano al monopolio della verità religiosa.
Tuttavia, proprio perché causa di plurime e reiterate intolleranze, la Riforma rappresentò anche l'occasione per l'affermazione di una nuova sensibilità nei confronti di tali problemi, sostanzialmente estranea all'ambito cattolico. Ciò fu possibile perché gli stessi strumenti concettuali che Lutero aveva utilizzato per contrastare il dogmatismo cattolico favorirono la critica delle altrettanto dogmatiche degenerazioni del protestantesimo. È questo il caso, ad esempio, della libertà di coscienza, che, difesa da Lutero contro l'autorità della Chiesa romana, si trasformò in uno dei concetti costitutivi del principio di tolleranza.
La dottrina luterana della giustificazione, fondata sull'assunto che il peccato è un tratto essenziale della natura umana, aveva negato che l'uomo potesse salvarsi per i suoi meriti: la salvezza non è riposta nei nostri sforzi per ottenere la grazia divina, in realtà dono assolutamente gratuito e libero di Dio, ma nell'abbandonarsi a questa fiduciosamente. In una simile prospettiva, il rapporto tra l'uomo e Dio non aveva più bisogno di fondarsi sulla mediazione di una Chiesa giudice e arbitro dei comportamenti dei suoi fedeli: esso si attuava nell'assoluta libertà della coscienza individuale, sola di fronte a Dio. Emancipata dall'ossequio alle leggi della Chiesa "visibile", la coscienza, illuminata dalla fede e guidata dall'insegnamento delle Scritture, sarebbe entrata a far parte della Chiesa spirituale, "invisibile". Tuttavia, proprio in quanto Chiesa, pur se "invisibile", anche quella luterana ebbe ben presto la sua ortodossia, fondata sul testo scritturale, certamente oggetto di una lettura diretta da parte del fedele protestante ma non di una sua autonoma interpretazione. La dottrina della libertà della coscienza non impedì, dunque, a Lutero di attribuire al potere politico un ruolo repressivo contro i "falsi culti" e ben presto anche la Chiesa "invisibile" ebbe paradossalmente i suoi "visibilissimi" eretici.

In quegli stessi anni, però, Erasmo da Rotterdam, guida indiscussa di quell'umanesimo evangelico che considerò le humanae litterae come un possibile strumento per riformare la Chiesa e riportarla a una pratica religiosa meno dogmatica, aveva più volte ribadito la necessità di non gridare "al rogo, al rogo" per qualunque divergenza dottrinale. Profondamente convinto che la dignità umana non dovesse essere mortificata da alcuna costrizione e che la risoluzione della crisi della cristianità occidentale dipendesse più dalla tolleranza che dall'intolleranza, Erasmo fece appello alla libertà di coscienza, che, proprio in quanto spazio di autonoma scelta di ciascuno, doveva essere comunque rispettata, indipendentemente dai contenuti delle sue convinzioni ma conformemente all'autenticità e alla coerenza delle stesse. Solo in tal modo, cioè ammettendo che il seguace di dottrine che noi consideriamo erronee sia mosso da una fede sincera, era possibile per il grande umanista porre le basi della complessa ma indispensabile convivenza tra le diverse confessioni cristiane.

Nella seconda metà del Cinquecento gli appelli di Erasmo vennero di fatto soffocati sia dai toni sempre più acuti delle invettive teologiche sia dal clamore delle armi, impugnate a difesa delle varie fedi. Ciò nonostante l'insegnamento erasmiano alimentò, come una sorta di sorgente sotterranea, le riflessioni di quanti - per esempio l'umanista savoiardo Sébastien Castellion, il poeta inglese John Milton, il filosofo calvinista francese Pierre Bayle - contribuirono a tracciare, tra il XVI e il XVII secolo, la via "individuale" alla tolleranza, che fonda tale principio sul motivo razionale della capacità di scelta e di determinazione propria del singolo.
Così venne gradualmente chiarendosi il dualismo tra religione istituzionalizzata, imposta d'autorità, e religione personale, con il conseguente concatenarsi di esigenze inerenti la libertà religiosa in una più completa libertà di coscienza, garantita dalla laicità dello Stato e dalla sua separazione da qualsiasi Chiesa.

La via "individuale" alla tolleranza si intersecò così con quella "statuale", che fa della tolleranza, intesa come neutralità religiosa operata dal potere sovrano, un principio pubblico, poiché determina un dovere giuridico che deve essere fatto osservare dallo Stato. Anche per questa accezione, la storia e la cultura della seconda metà del Cinquecento si rivelarono fondamentali: l'Editto di Nantes, con il quale Enrico IV aveva garantito nel 1598 la libertà di culto agli ugonotti (i calvinisti francesi), concretizzò di fatto le dottrine sostenute durante le guerre di religione francesi dal partito dei politiques, che non si era identificato né con la lega cattolica né con gli ugonotti. Profondamente convinti, al pari del grande moralista Montaigne, che fosse l'intolleranza a costituire un pericolo per l'ordine pubblico, perché spingeva alla ribellione le confessioni religiose discriminate, i politiques avevano considerato la tolleranza alla stregua di una tattica politica, di uno strumento a disposizione del sovrano per difendere gli interessi (in questo caso la pace e l'ordine) dello Stato. Certamente, sia le teorizzazioni dei politiques sia l'Editto di Nantes si ispirarono a una concezione "debole" del principio di tolleranza, dettata soprattutto da opportunismo politico: la religione riformata era soltanto "sopportata", perché con spirito "politico" si riconosceva che tentare di sopprimerla avrebbe provocato mali maggiori che concederle delle garanzie. Tuttavia, proprio questa prima valutazione "politica" della tolleranza stimolerà nel corso del Seicento l'approfondimento di taluni aspetti costitutivi dello Stato, del potere politico e di quello religioso, che culminerà nella concezione della separazione tra Stato e Chiesa, tra potere politico e potere religioso.

In effetti, nel corso del Seicento le due vie alla tolleranza tracciate in precedenza confluirono nella grande strada maestra della tolleranza come concetto-cardine della modernità.
Primo, grande artefice di detta confluenza fu Baruch Spinoza. Con Spinoza il concetto di tolleranza abbandonò definitivamente l'accezione "debole" per assumere la connotazione positiva di valore fondante e fondamentale della socialità umana. Significativamente il filosofo ebreo-olandese affidò le sue riflessioni a un'opera intitolata Trattato teologico-politico, palesando fin dal titolo la consapevolezza che la compiuta formulazione del principio di tolleranza dovesse evidenziarne la necessità in entrambi gli ambiti. Necessità che Spinoza deduce, e perciò fonda razionalmente, dalla specificità ontologica dell'uomo, che in quanto essere dotato di ragione non può in alcun modo e da nessuna autorità essere privato della propria libertà di coscienza e di espressione, poiché tale libertà non dipende dalla concessione di un potere esterno all'individuo, ma è elemento costitutivo dell'essenza umana.
La tolleranza diviene così, con Spinoza, il necessario corollario della capacità di giudizio di ciascun individuo: lungi dall'identificarsi con la semplice sopportazione di opinioni e/o dottrine comunque ritenute erronee, essa si trasforma nel riconoscimento e nella valorizzazione di un diritto universale, quello della libertà di pensiero, il cui esercizio, proprio in quanto esplicazione dell'identità umana, non può che rivelarsi un fattore di potenziamento e di arricchimento non solo dell'esistenza individuale bensì anche di quella collettiva. Lo Stato per Spinoza (ma anche per John Locke, autore della celeberrima Lettera sulla tolleranza, prima opera della cultura europea intitolata al principio in questione) deve essere "indifferente" verso qualsiasi fede religiosa, proprio per assicurarne di fatto condizioni di diffusione paritarie. Stato e Chiesa sono, per i teorici della tolleranza moderna, due istituzioni ben distinte, nettamente separate, con origine, finalità e strumenti diversi: la "cura delle anime", compito specifico di ogni chiesa, non può e non deve avvalersi delle norme e dei mezzi del potere politico, deputato invece alla salvaguardia degli interessi pratici e civili dei singoli.
In tal modo la genesi speculativa del concetto di tolleranza religiosa poteva a ragione considerarsi conclusa, poiché, proprio teorizzando la necessità della separazione tra Stato e Chiesa, la cultura moderna negava legittimità e valore all'alleanza tra trono e altare.
Il Settecento, pertanto, si preoccupò soprattutto di divulgare le "ragioni" della tolleranza, onde trasformarle da convinzioni di una minoranza di "spiriti liberi" in patrimonio culturale di ciascun individuo. È significativa, a questo proposito, la presenza della voce Tolleranza nel Dizionario filosofico di Voltaire, vero e proprio compendio del pensiero illuministico concepito per un vasto pubblico.

La definizione voltairiana, la stessa dalla quale ha preso le mosse la nostra esplorazione storico-semantica del concetto di tolleranza, ha conosciuto un'indubbia fortuna, tanto da costituire ancora nel 1981 lo spunto di una, altrettanto famosa, conferenza di Karl Popper, uno dei più autorevoli filosofi del secolo scorso.
La riflessione di Popper trae alimento proprio dal riconoscimento voltairiano della nostra fallibilità, della nostra fragilità e della nostra inclinazione a sbagliare:«Noi siamo tutti impastati di debolezze e di errori» (Dizionario filosofico). Tale riconoscimento fonda, per il filosofo viennese, non solo la necessità della tolleranza, ma anche la convinzione che la discussione razionale possa aiutarci a correggere i nostri errori e ad avvicinarci alla verità. Su tali basi, il rifiuto di tollerare è una forma di arroganza intellettuale, una sorta di cecità di fronte alla possibilità che "io possa avere torto e tu possa avere ragione".
Si noti come in tale accezione la tolleranza si trasformi in una modalità conoscitiva, indispensabile per la ricerca della verità. Questo ampliamento di significato è particolarmente emblematico e rivelatore di una tendenza comune a tutta la riflessione contemporanea. Quest'ultima, infatti, ha radicalizzato taluni aspetti del concetto di tolleranza tramandatoci dalla modernità, aspetti il cui approfondimento concettuale è risultato funzionale alla comprensione e gestione di problematiche politiche e sociali tipiche della nostra società. Così, l'insistenza di Popper sulla valenza gnoseologica della tolleranza, quale categoria di una ragione autenticamente improntata alla ricerca della verità proprio in quanto autenticamente aperta al confronto, è stata giustificata dalla storia del Novecento, segnata da diversi settarismi ideologici (nazismo, fascismo, comunismo sovietico, fondamentalismo islamico).
Dunque, se un tempo era cruciale la differenza di opinione religiosa all'interno di un credo prima comune (il cristianesimo), oggi nelle società dette "multiculturali" si tratta di far coesistere gruppi non solo di diversa religione, ma anche con storie, culture, lingue e identità "altre". Ancora, si pensi ad altre forme di discriminazione verso minoranze "deboli", per le ragioni più disparate: sessuali (gli omosessuali), razziali (gli ebrei nella Germania nazista), politiche (la dissidenza nei regimi totalitari), di genere (la questione del femminismo). In tutti questi casi vi sono individui e gruppi che, rivendicando i loro "diritti", pretendono di essere riconosciuti e trattati come persone e formazioni sociali dotate di dignità pari a quella di tutti gli altri.

Non sorprende, allora, che Norberto Bobbio, autorevole esponente della cultura italiana del Novecento, abbia operato un distinguo tra la tolleranza nel suo significato storico e la tolleranza “allargata” oggi teorizzata: «Altro è il problema della tolleranza di credenze o opinioni diverse, che implica un discorso sulla verità e la compatibilita teorica e pratica di verità anche contrapposte; altro è il problema della tolleranza di colui che è diverso per ragioni fìsiche o sociali, un problema che mette in primo piano il tema del pregiudizio e della conseguente discriminazione» (Le ragioni della tolleranza, cit, p. 243).

Sembra proprio, allora, che l'ampliamento semantico del concetto di tolleranza sia direttamente proporzionale allo sviluppo della complessità sociale, alla variegata articolazione di rapporti economici, sociali, politici, culturali che è ormai parte integrante della nostra stessa vita quotidiana, vita che, per Michael Walzer, filosofo americano contemporaneo particolarmente attento alla tematica e alla pratica della tolleranza nella società postmoderna, appare priva di confini netti, di identità precise e stabili e che, in quanto tale, non può prescindere dalla tolleranza, non certo intesa come mera sopportazione dell'altro, bensì come riconoscimento e rispetto delle reciproche differenze, nella convinzione che esse costituiscano una risorsa, non una realtà "a priori" inferiore.

Certo, l'enunciazione dei princìpi è sempre più facile della loro applicazione, soprattutto nella prosaicità dell'esistenza quotidiana. La difficoltà di "vivere" la tolleranza è stata descritta, spesso con rara efficacia, dalla letteratura contemporanea: già Luigi Pirandello aveva dedicato una delle sue novelle alla difficile convivenza tra un genero "giudeo" e un suocero cattolico, ma è soprattutto con autori che incarnano essi stessi, con il loro vissuto, il multiculturalismo, come lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun e l'autore anglo-pakistano Hanif Kureishi, che la tolleranza perde l'astrattezza propria di ogni principio e assume la problematicità tipica di ogni comportamento che si pone come superamento di stereotipi e pregiudizi, talmente radicati da apparire "naturali".
Ciò che tuttavia accomuna l’attuale riflessione teorica sulla tolleranza e la narrazione delle concrete condizioni della sua praticabilità è la mancanza di "ricette" universalmente valide, poiché prevale la consapevolezza che essa, proprio in quanto finalizzata all'integrazione reciproca di diversità variamente connotate a seconda delle società nelle quali si manifestano, debba costituire una modalità di convivenza flessibile, da adattare alle singole circostanze, da forgiare, più che sulla base di astratti principi, sulle necessità della concretezza storica.

 

(testo tratto da La Tolleranza, Trattato teologico politico, a cura di Marina Maruzzi, collana “Filosofia e dintorni”, Paravia 2002, introduzione pagg. 9-16)

Fonte: http://www.marialuigia.eu/wp-content/uploads/TOLLERANZA-evoluzione.doc

Sito web da visitare: http://www.marialuigia.eu

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