Dispensa arte della comunicazione

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Dispensa arte della comunicazione

Parlare bene con corretta pronuncia e proprietà di linguaggio forse non aggiunge niente al prestigio personale, ma aiuta a farsi strada in qualunque professione.

LA DINAMICA DEL RESPIRO

P

er la comunicazione verbale noi esseri umani utilizziamo la voce, uno strumento rappresentato dall’insieme dei suoni emessi dalla laringe per effetto delle vibrazioni delle corde vocali. Da queste poche parole si deduce che l’organo incaricato alla fonazione, cioè alla formazione dei suoni, è la laringe, quel tratto superiore della trachea in cui si distinguono alcune pieghe della mucosa interna, le corde vocali appunto, che, grazie alla respirazione, avvicinandosi e vibrando, emettono particolari note sonore che ci permettono di parlare, di cantare, di recitare, di leggere a voce alta.

Tecnicamente, sia pure in maniera esemplificata, il processo di formazione dei suoni avviene in questo modo: in fase d’inspirazione l’aria passa senza impedimenti attraverso la laringe e va a riempire i polmoni fino al diaframma, facendolo abbassare. Nella fase d’espirazione il fiato inalato, spinto dal diaframma come se fosse una molla prima tesa e poi rilasciata, ripercorre il cammino inverso attraverso il condotto laringeo. Sospinto verso l’alto, il flusso d’aria trova ostacolo nelle corde vocali chiuse. La forza del mantice polmonare, combinata alla spinta diaframmatica e dei muscoli addominali, pone il flusso nelle condizioni di aprirsi la strada attraverso le corde vocali, che si socchiudono entrando in vibrazione. Il suono prodotto, nella risalita attraverso la faringe, viene indirizzato dal velo pendulo o verso le fosse nasali o verso la bocca.

La voce può essere classificata con riferimento al timbro: grave (di petto), acuta (di testa), gutturale (di gola), nasale (di naso). Ma anche, se correlata al volume di emissione (l’intensità): indistinta, articolata, monocorde, alta, bassa, esile, fioca, stentorea, tonante. Questo perché la laringe varia di dimensioni a seconda del sesso e dell’età dell’individuo.

Tuttavia, prima di scoprire come sia possibile utilizzare al meglio il proprio strumento di fonazione o di tentare di modificare la propria voce se esistono difetti, è necessario imparare ad usare nel modo migliore l’apparato di respirazione di cui ci ha dotato madre natura.

Prima di ogni altra cosa, è indispensabile rendersi conto quanto sia importante respirare bene, non tanto perché una buona ossigenazione ci consente di vivere meglio e più a lungo, quanto, se è nostro desiderio rendere al massimo nella professione che abbiamo in animo d’intraprendere, per esprimerci con quel meraviglioso strumento che è la voce.

 

 

Immagino che vi siate accorti che a ciascuna delle nostre attività corrisponde un tipo di respirazione che le è congeniale. Non è necessario essere particolarmente esperti per sapere che, se corriamo per sport per le strade della città, respiriamo in maniera diversa di quando siamo seduti in poltrona, immersi nella lettura di un buon libro e che il ritmo del nostro respiro quando siamo svegli è diverso da quello che abbiamo quando siamo profondamente addormentati. Sappiamo anche che le emozioni finiscono per influenzare la nostra respirazione. L’uomo in collera respira in modo diverso dall’ansioso, così come il respiro del calmo è differente da quello del nervoso.

È evidente che nessuno dei vostri futuri datori di lavoro vi costringerà a leggere un documentario o ad esprimere un concetto di complicata strutturazione mentre state correndo o nell’esercizio di altre attività forse più faticose ma senz’altro più piacevoli. Tuttavia, sarete d’accordo con me che il ritmo di respirazione nei momenti di calma e tranquillità sia quello più adatto in qualsiasi frangente della vita, qualunque sia la nostra professione. Ciò è soprattutto vero per chi svolge il mestiere di lettore ma anche per chi è un professionista della comunicazione verbale. Vi sfido a leggere ad alta voce non più di due righe di testo quando siete preda di una forte emozione. La gola vi si stringe, il respiro si spezza, la salivazione scompare, il cuore vi squassa lo sterno. Se siete in grado di articolare distintamente cinque parole di fila in queste condizioni siete marziani.

Vi sorprenderà, ma per ottenere una buona dizione e per “farsi sentire” in qualunque ambiente è indispensabile sapere respirare bene. Già, il problema sta tutto nella respirazione. Bisogna sapere respirare nel modo giusto per potere dominare il proprio respiro e permettere alla propria voce di articolare le parole in modo che giungano comprensibili all’ascoltatore. In altre parole, dato che la maggioranza delle persone respira male, è necessario imparare a respirare di nuovo.

 

 

Chi fa uso professionale della voce deve impostare la respirazione sul diaframma, una membrana muscolare a forma di cupola che separa la cavità toracica da quella addominale. È chiaro che chi finora si è abituato a respirare riempiendo i polmoni in minima parte, dovrà sforzarsi a immagazzinare aria (mezzo litro ne basta) per riempirli entrambi fino al diaframma che si curverà in basso (fig. 2). In seguito, l’espirazione lenta e continua porterà il diaframma a sollevarsi.

Il primo esercizio d’impostazione del respiro diaframmatico è semplice e, come avrete capito leggendo le righe precedenti, si svolge in due tempi.

Comodamente sdraiati su una stuoia sul pavimento, sul letto oppure sulla superficie erbosa di un prato, ponete una mano sullo sterno per verificare l’immobilità del torace e l’altra sulla pancia, nella zona dell’epigastrio. È questa zona dell’addome che deve essere coinvolta nella respirazione. Dopo avere eliminato ogni contrazione dei nostri muscoli, eliminiamo dai polmoni ogni fiato residuo. Attraverso le narici (entrambe o, se preferite, attraverso una narice per volta tenendo l’altra tappata), lentamente, inaliamo l’aria, portandola direttamente nell’addome. Per facilitare il movimento, immaginiamo di gonfiare un palloncino nella pancia. Una volta gonfio, dopo essere stati per pochi istanti in apnea, cominciamo ad espellere l’aria, sempre lentamente, attraverso la bocca, immaginando che il palloncino nella pancia si sgonfi, in modo che l’addome si abbassi. Una buona abitudine è far seguire l’espulsione dell’aria dal suono di una vocale che va smorzandosi con il progressivo esaurirsi del fiato dai polmoni. Fate questo esercizio respiratorio più volte al giorno, in auto mentre siete fermi davanti a un semaforo, in autobus o in tram, in fila alla posta, mentre guardate la televisione, al tavolo di lavoro, prima di addormentarvi. Dovete fare l’abitudine a pensare alla respirazione diaframmatici finché non avrete imparato ad eseguirla correttamente ed essa stessa non sia diventata un movimento automatico e non solo volontario.

Una variante dello stesso esercizio respiratorio, tra l’altro molto utile per rafforzare il diaframma, è quello di porre un sacchetto di plastica, di quelli per il freezer, per intenderci, pieno di sabbia (un kg è sufficiente) sulla pancia, proprio sotto la cassa toracica. Ci servirà per allenarci a sollevarlo nel momento in cui impareremo a muovere il diaframma.

Il secondo esercizio, pur essendo simile al primo, è indicato espressamente come tecnica di rilassamento. Dovunque vi troviate, sdraiati o seduti o in piedi, schiena diritta e muscoli rilassati, liberatevi dell’aria rimasta nei polmoni, poi inspirate lentamente attraverso le narici contando mentalmente fino a sei, sino a spingere in basso il diaframma. Dopo avere trattenuto il respiro per qualche istante (ricordatevi di continuare a mantenere rilassati i muscoli dell’addome, le spalle diritte, le natiche contratte), cominciate gradualmente ad espirare contando fino a dodici. Con ciò avrete capito che la fase d’espirazione deve durare il doppio di quella d’inspirazione.

Fate questo esercizio quando volete, possibilmente in un ambiente arioso e ventilato . È un’ottima tecnica di rilassamento, molto utile nelle circostanze della vita che comportano tensione, ansietà, nervosismo, arrabbiature.

Il terzo esercizio che vi propongo è più specifico per l’attività di lettore, ma consideratelo anche un utile allenamento per coloro che usano molto la voce nella loro professione (pensate soprattutto agli insegnanti, ai comunicatori aziendali, a coloro che lavorano nei Call Centers).

In piedi (meglio che seduti perché difficilmente in futuro vi capiterà di leggere comodamente assisi su una sedia con il risultato di schiacciare il diaframma), schiena diritta, muscoli rilassati, testa leggermente piegata all’indietro, svuotate i polmoni dell’aria immagazzinata.

1° tempo, inspirazione: narici aperte, prendete lentamente fiato col naso fino a riempire i polmoni nella loro totalità.

2° tempo, espirazione: dopo qualche attimo di stasi con i polmoni dilatati, cominciate a espellere l’aria (anche attraverso la bocca) scandendo a voce alta una serie di numeri (1001, 1002, 1003, e così via), equivalenti al trascorrere dei secondi.

Probabilmente sarete riusciti a contare dai dodici ai quindici secondi. Bene, è una buona misura. Ripetete l’esercizio ogni mattina per cinque minuti, davanti alla finestra spalancata (meglio se vivete in campagna, lontani dallo smog) cercando di aumentare la numerazione. Basterà poco perché impariate a respirare non solo meglio, ma anche ad immagazzinare il quantitativo d’aria che vi serve per parlare, leggere, recitare, qualunque sia la vostra professione di comunicatori, senza dovere restare senza fiato a metà di una frase.

Certamente qualcuno di voi, davanti a un testo da leggere, potrebbe chiedermi: ogni quante parole si dovrebbe respirare? Dipende dall’allenamento e dalle capacità di ciascuno. Una buona media sarebbe all’incirca una trentina di parole. Certo, sarebbe difficile mantenere questa media con vocaboli piuttosto lunghi come quelli di uno scioglilingua del tipo: se l’arcivescovo di Costantinopoli si arcivescovizzasse... Vi risparmio il resto. Comunque, provate a leggere ad alta voce questo brano di Enzo Cicchino tratto dal suo romanzo “La fonte di Mazzacane”. Sono esattamente trenta parole.

Quel paesaggio di case, Gavena, che un tempo cuciva i suoi colori naturali alla terra in un’armonica gradazione di tegole, finestre, balconi, era diventato ora una scacchiera di geometrie grottesche.

Il diaframma è uno dei più importanti muscoli respiratori. È una membrana muscolare tesa alla base del torace e si presenta sotto forma di cupola. Se ci siamo abituati a respirare male, riempiendo solo la parte alta dei polmoni, ci accorgiamo della sua esistenza quando ridiamo a crepapelle, quando abbiamo il singhiozzo oppure quando sbadigliamo a rischio di slogatura di mascelle.

LA VOCE, IL NOSTRO BIGLIETTO DA VISITA

S

e andiamo ad approfondire il fenomeno della fonazione, cioè il processo di formazione dei suoni, ci rendiamo conto di un primo aspetto basilare. Le condizioni ottimali per l’emissione del suono non dipendono tanto dalla respirazione, quanto dalla correttezza dell’atto respiratorio. Intanto, mi pare evidente un primo aspetto: se non c’è respirazione, non può esistere neppure il suono. È un’asserzione di un’ovvietà sconcertante, lo ammetto, che potete sperimentare con qualunque strumento a fiato: se non ci soffiate dentro, non ne ricaverete alcun suono. Il problema, tuttavia, non è quello di produrre un suono, ma di produrre un suono corretto. Certamente non vogliamo presentarci davanti ai nostri interlocutori con una voce fievole, insicura, tremolante oppure velata, rauca, accompagnata da pruriti, bruciori e vari dolori di gola, tutti effetti determinati da una cattiva respirazione al servizio dell’emissione dei suoni.

Abbiamo già visto fin dalla precedente lezione come per leggere e per parlare, volendo usufruire dell’intera gamma di toni e coloriture di una voce ben impostata, sia indispensabile una respirazione tranquilla, senza forzature, profonda fino al livello del diaframma.

È opinione comune che le donne respirino con il torace (più spesso soltanto con la parte alta dei polmoni) e gli uomini con l’addome. In realtà, è più giusto affermare che le prime respirano in prevalenza con il torace, mentre i secondi in prevalenza con l’addome. Tuttavia, per una più corretta funzione respiratoria sarebbe necessario per le une come per gli altri impiegare la cosiddetta respirazione combinata, determinata dall’abbinamento di entrambe le forme di respirazione.

Una volta messo a punto il mantice diaframmatico-polmonare che fornirà l’aria necessaria per l’emissione di suoni, l’altro aspetto da esaminare riguarda le caratteristiche basilari della voce.

  1. l’intensità: la sonorità del suono, data dal volume in relazione al fiato emesso in fase d’espirazione ed espresso dalla potenza del mantice polmonare;
  2. l’altezza: dipende dalla tensione delle corde vocali. Al variare della tensione si modifica lo spessore delle corde. Tanto più corta e sottile è la corda vocale, tanto più acuto è il suono emesso;
  3. il timbro: la qualità del suono. È il nostro biglietto di presentazione nel momento in cui s’interagisce con un interlocutore, il quale si accorgerà subito se la nostra voce possiede quelle caratteristiche che la rendono espressiva e modulata oppure se è fastidiosa e monocorde.

In ambito lirico, in base alla caratteristica dell’altezza si distinguono le voci femminili di soprano, mezzosoprano, contralto, quelle maschili di tenore, baritono e basso, in ordine di tonalità decrescente. Questi criteri standard sono applicabili anche alle voci normali (non di cantanti, cioè). I primi alle voci femminili, i secondi a quelle maschili con tutte le sfumature e le variazioni che possono esistere.

Esistono diversi timbri di voce che se da un lato possono caratterizzare una persona o il suo stato d’animo, dall’altro, diversificandoli, sono in grado di caratterizzare, coinvolgendo emotivamente l’ascoltatore, qualunque discorso.

  1. timbro di testa: la voce che si alza di tono è resa acuta ed ha come cassa di risonanza parte del cranio. Nella norma la voce di testa entra in funzione nelle discussioni concitate e gridate. È ovvio che chi possiede come dominante il timbro acuto, rischia nell’utilizzare registri di voce più alti di diventare all’orecchio altrui sgradevolmente stridulo;
  2. timbro di naso: di norma si usa nel pronunciare la M, la N, il GN. Tuttavia, in chi è raffreddato o ha le adenoidi tutta la gamma delle consonanti risuona come fosse nasale. Ciò è dovuto al velopendulo che non si solleva per chiudere il passaggio dell’aria-suono nel naso;
  3. timbro di gola: il giusto equilibrio tra faringe, naso e bocca consente la corretta emissione dei suoni. Se è preponderante l’aspetto faringeo a svantaggio degli altri due organi, il suono che ne scaturirà sarà eccessivamente “ingolato”;
  4. timbro di petto: è la voce sana per eccellenza. Per nulla affaticante è la voce giusta dai toni gravi. Perché vi rendiate conto della corretta impostazione, è sufficiente poggiare il palmo della mano all’altezza dello sterno. Poiché la voce di petto è quella che possiede maggiore risonanza, dovreste, attraverso di esso, sentirne le vibrazioni.

Se è necessaria la spinta del fiato per far entrare in vibrazione le corde vocali ed emettere il suono, perché quest’ultimo possa uscire con forza e nitidezza all’esterno c’è bisogno che esso venga amplificato da un apparato di risonanza. Camere di risonanza della voce sono essenzialmente la laringe stessa, la faringe, le cavità nasali e della bocca, capaci di determinare la variazione del timbro di voce di ciascun essere umano. La cavità orale svolge anche una funzione articolatoria perché può modificare la propria forma adattandola alla pronuncia dei fonemi tipici del linguaggio articolato. Il perfetto bilanciamento tra le diverse cavità (laringea/faringea/orale/nasale) consente la corretta emissione di voce, mentre ogni squilibrio teso a privilegiare un organo a svantaggio degli altri produce effetti sgradevoli di voci ingolate e nasali.

Per verificare che la nostra voce sia correttamente impostata, è sufficiente emettere un qualsiasi suono nasalizzato, concentrandosi sulle proprie narici, per esempio vocalizzare a bocca chiusa il suono “hmh-hmh”. Tenete una mano sul naso, mentre provate. Se il vostro timbro vocale è corretto, avrete la prova del coinvolgimento diretto del naso nell’emissione del suono “hmh-hmh”.

Vi ricordate l’esercizio di respirazione abbinato all’emissione voce “1001, 1002, 1003 ecc.”? Adesso, proprio allo scopo di armonizzare l’importantissima funzione fiato/voce, introduciamo una variante in questo esercizio base.

Con i muscoli rilassati, schiena diritta, eliminiamo qualsiasi residuo di aria dai nostri polmoni. Cominciamo ad  inspirare con calma, combinando la respirazione addominale con quella toracica. Dopo pochi istanti apnea, in fase d’espirazione pronunciamo a bocca chiusa il fonema “hmh”, seguito da 1001, 1002, 1003 ecc., in questa sequenza: hmh 1001, hmh, 1002, hmh, 1003, hmh, 1004, hmh, 1005, hmh, 1006, hmh, 1007, hmh, fino alla completa espulsione dell’aria. Se non vi piacciono i i numeri, potete sostituirli con i giorni della settimana oppure con i mesi dell’anno, a vostro piacere. L’importante è che ripetiate l’esercizio più volte, ricordandovi di sentire il coinvolgimento completo della zona compresa tra il naso e il labbro superiore.

Giunti a questo punto ci si può ragionevolmente domandare: quali sono i requisiti perché una voce possa definirsi “fonogenica”, cioè buona, accettabile? Qualunque sia la nostra professione, soprattutto se impieghiamo la comunicazione verbale per insegnare, spiegare, informare, difendere, arringare, convincere, intrattenere, divertire, affascinare, sedurre, dobbiamo poter contare su una voce piena, chiara, sicura, quindi né flebile né tremolante, né, tanto meno, acuta né stridula.

Impostare la propria voce significa riuscire ad ottenere la sonorità migliore senza particolari sforzi. Se abbiamo imparato bene a coordinare il binomio aria-suono e il colore della nostra voce è in prevalenza grave, a meno di non possedere difetti di articolazione, siamo già ad un passo dalla meta. Se, all’opposto, crediamo di averne, esistono degli esercizi specifici di ortofonia che ci aiuteranno a superare quelle manchevolezze che caratterizzano in modo negativo la nostra voce.

La faringe è un condotto membrano-muscolare a forma d’imbuto, posto dietro le fosse nasali e la cavità buccale. In conformità ad esse è un organo di risonanza, un amplificatore di suoni.

Ortofonia, dal greco ortòs che significa “conforme alla norma” e fonè che significa “voce”. In linguistica è la corretta pronuncia di una lingua, mentre in medicina è la capacità di correggere con l’ausilio di alcuni esercizi specifici i difetti della voce e dell’articolazione.

L’Ortofonia

 

 

L’ortofonia, dal greco ortòs che significa “conforme alla norma” e fonè che significa “voce”, in linguistica è la corretta pronuncia di una lingua, mentre in medicina è la capacità di correggere con l’ausilio di alcuni esercizi specifici i difetti della voce e anche dell’articolazione, come vedremo nella prossima lezione.

Giunti a questo punto, potreste giustamente chiedervi: quali sono i requisiti perché una voce possa definirsi “fonogenica” cioè buona, accettabile?

Innanzitutto, deve essere piena, corposa, quindi non flebile né tremolante.

In secondo luogo, deve essere sicura.

Infine, non deve essere né acuta né stridula.

Consigli pratici

Se ritenete che la vostra voce non risponda ai requisiti di base, non preoccupatevi più di tanto. Esistono degli esercizi di ortofonia che fanno al caso vostro.

Per esempio: se volete dare maggiore forza alla vostra voce perché temete che sia debole e insicura, uno degli esercizi più efficaci è quello di sistemarsi davanti ad uno specchio ed osservare con attenzione il comportamento della propria bocca mentre si emettono separati i suoni relativi alle vocali:

ààààààààààààààààà

ééééééééééééééééé

èèèèèèèèèèèèèèèèè

iiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii

óóóóóóóóóóóóóóóóó

òòòòòòòòòòòòòòòòò

uuuuuuuuuuuuuuuuu

Adesso legate insieme i suoni delle vocali in un’unica emissione di fiato:

aaaa-éééé-èèèè-iiii-óóóó-òòòò-uuuu

Cercate come prima volta di mantenere la medesima intensità per tutta la durata dell’emissione. Ripetete più volte l’esercizio.

Quando ritenete di essere riusciti a controllare la vostra voce senza eccessivi tremolii, provatevi ad articolare i sette suoni delle vocali, aumentando e diminuendo il volume dei suoni, sempre utilizzando un’unica presa di fiato.

Se si desidera correggere una voce troppo acuta, vi suggerisco questo esercizio: inspirate ed espirate a bocca aperta in profondità e lentamente. Quando avrete preso un certo ritmo, in fase d’espirazione riproducete un suono vocale senza far uso della laringe. In altre parole, cercate di emettere un suono come se foste particolarmente spossati, estenuati addirittura. Otterrete così un suono bassissimo:

a a a a a a a a

Quando avrete ottenuto l’espirazione sonora nei suoni bassi, provate a pronunciare una parola intera, sillaba per sillaba, facendo attenzione che ogni sillaba abbia una diversa espirazione.

Pre-ci-pi-te-vo-lis-si-me-vol-men-te

Se, al contrario, credete di avere una voce eccessivamente bassa, e con essa rischiate spesso di trovarvi rauchi, è necessario esercitarsi soprattutto con i suoni delle vocali più alte la “i” e la “è”. Ricordate gli esercizi d’impostazione della voce della seconda lezione? La nasalizzazione “hmh” seguita da 1001, 1002, 1003 ecc.? Ebbene, sarà il caso che dopo aver pronunciato a bocca chiusa la nasalizzazione “hmh”, la facciate seguire da sillabe ripetute del tipo: èmme, ènne, nènne, gnègne, oppure mimmi, timmi, dimmi, ninni, gnimmi ecc. e infine dal numero.

All’opposto, se ritenete di possedere una voce troppo sottile, allora è necessario che vi proponiate lo stesso esercizio seguito, però, da sillabe con vocali chiuse: gnogno, gnugno, mommo, mummu, nónno, nunnu ecc.

Se, invece, temete di avere attacchi bruschi di voce e desiderate rendere più sciolta e fluida la vostra voce, l’esercizio che fa al caso vostro è il seguente: mentre vi impratichite via via con la respirazione diaframmatica, in fase d’espirazione, emettete lentamente l’aria che avrete riscaldata all’interno di voi lungo la faringe fino ad espellerla dalla bocca. Ripeto, l’esercizio deve essere condotto con molta lentezza. Da esso ne trarranno beneficio le voci brusche e contratte, ma l’esercizio risulterà ancora più indicato laddove, a causa di affaticamenti vocalici, si verifichi un’eccessiva contrazione dei muscoli della laringe e del collo.

Se, invece, ritenete di avere una voce gutturale, uno dei modi per ovviare a questo difetto, uno dei più comuni, è quello di ridare elasticità alle corde vocali con emissioni leggere della vocale “e” e con la bocca tenuta aperta in senso orizzontale, senza forzature. La voce strozzata dipende anche dall’arretramento della radice della lingua che va a sospingere all’indietro l’epiglottide fino a coprire l’apertura laringea. In questo caso è necessario sforzarsi di portare avanti la lingua  verso i denti incisivi inferiori pronunciando la vocale “e” accompagnata dalla “s” o dalla “r”.

Un buon esercizio, tuttavia, per combattere la voce gutturale è quello di eseguire la scala musicale con un solo fiato, pronunciando invece delle note la vocale “e”.

Se invece ritenete di avere una voce nasale, a causa dell’eccessiva estensione in profondità del campo di risonanza della bocca con il velo palatale che rilassandosi si abbassa troppo e ostruisce il passaggio del fiato sonoro verso la cavità boccale. Se ciò non dipende da cause organiche o patologiche, è possibile correggere il difetto con un’opportuna ginnastica fisiologica basata soprattutto sull’appiattimento della lingua che, per riflesso muscolare, determina l’innalzamento del velo palatale. Un altro esercizio è quello di pronunciare con chiarezza e brevità, a fior di labbra, i fonemi:

du / do / di / de

L’emissione della vocale accompagnata dalla “d” impedisce il parlare col naso perché avviene sul davanti della maschera facciale e quindi il suono non invade le narici. Ottenuto questo primo risultato, sostituite la consonante “d” con le altre consonanti seguite dalle vocali.

Se il vostro difetto è quello di una voce intubata, dovuta soprattutto all’eccessivo abbassamento dell’epiglottide, allora è necessario ricorrere ad esercizi in cui ad un’ampia apertura della bocca segua l’appiattimento della lingua in direzione dei denti incisivi inferiori e il pronunciamento di vocali chiare “e” ed “i”.

Esercitazione sul volume della voce

Uso il diaframma per parlare con voce calda, forte e nitida, con un volume sempre maggiore.

Ugualmente uso il diaframma per parlare invece a volume basso, piano, pianissimo.

Parlo sempre a volume alto perché in questo modo tutti mi sentono ed occupo uno spazio sonoro ampio e vistoso.

Io, invece, uso un tono discreto, mi faccio appena sentire. Chi vuol sentirmi mi ascolta anche così.

Sono affermativo (a), tracimo, domino, invado, sovrasto, sono potente, anzi potentissimo (a).

Lavoro sotto sotto, underground potrei dire, gli altri quasi non si accorgono di me.

Parlo così forte che i miei interlocutori preferiscono troncare ogni conversazione, non mi sopportano.

Parlo tanto piano da obbligare i miei interlocutori a fare uno sforzo per ascoltarmi.

Se abituo la mia voce ad esprimersi a volume altissimo, sarò in grado di farmi ascoltare ovunque.

Non è necessario urlare per farsi ascoltare, basta scandire bene le parole perché tutti mi sentano.

Quando mi esprimo con i toni alti, a voce stentorea, tremano i vetri delle finestre.

Quando, all’opposto, parlo a voce bassa, si sente persino volare una mosca.

N.B.: gli esercizi di ortofonia dovrebbero essere fatti tutti i giorni e più volte al giorno. Solo in questa maniera, potrete ottenere i risultati auspicati.

 

LA GRAMMATICA DEI SUONI

 

L

a disciplina che stabilisce le regole del suono corretto dei fonemi si chiama fonetica. Nel nostro alfabeto, lo abbiamo imparato fin  dalle elementari, ci sono 15 consonanti più una consonante multa (“H”) e 5 vocali. Dal punto di vista del suono le consonanti diventano 21 e le vocali 7. Infatti, tanto per fare un  esempio per i più distratti,  la “C” possiede due suoni: uno dolce come per “cielo” e uno duro come per “cuore”.  Lo stesso accade per la “G” (la “g” di “Genova” è diversa dalla “g” di “Gorizia”).  Per la “S” e per la “Z” le differenze fonetiche sono di una “s” sorda come per “Sassari” e una “s” sonora come per “asola”; di una “z” sorda come per “zucchero” e di una “z” sonora come per “amazzone”.

Dal punto di vista del suono, abbiamo detto che le vocali dell’alfabeto italiano non sono 5 ma 7. Abbiamo la “a”, vocale aperta per eccellenza: la bocca si spalanca, la mandibola scende; la “i”: le labbra si stirano in senso orizzontale e scaturisce un suono chiuso; con la “u”, altro suono chiuso, le labbra si socchiudono protendendosi in avanti.

Tra i suoni chiusi della “i” e della “u” e il suono aperto della “a” s’inseriscono i suoni semiaperti della “è” e della “ò” e i suoni semichiusi della “é” e della “ó”. Per questi ultimi quattro suoni nascono i veri problemi in italiano: l’accento che ci suggerisce il suono aperto e chiuso della “e” e della “o” si chiama “fonico” e dal punto di vista grafico si segnala con un accento grave “è” da sinistra verso destra che apre e un accento acuto “é” da destra verso sinistra che chiude.

Il problema sta tutto nel fatto che in italiano, a differenza del francese, dello spagnolo, del portoghese, non c’è alcun obbligo grammaticale di segnare l’accento fonico, se non nei casi di parole tronche (mercè, scimpanzè, lacché) dell’interiezione (ahimé), della copula (è), delle congiunzioni (perché, poiché, giacché, perciò ecc.), della terza persona singolare del passato remoto di taluni verbi (gemé, andò, temé, parlò), della prima persona singolare del futuro (salirò, parlerò, ecc.), di conseguenza, a causa delle influenze dialettali e la mancanza di un sicuro supporto scolastico, nella fonetica delle parole italiane regna la più grande confusione. Comunque sia, mi dichiaro coerente al mio paradigma di base: l’italiano, come qualsiasi altra lingua, si può parlare come si vuole, basta farsi capire. Milanesi, parlate come vi pare; biciclètta, cunètta, con la “e” aperta, atténto, béne, con la “e” chiusa vanno benissimo. Lo stesso, voi baresi, continuate a mangiare le orecchiètte con i broccolètti, va ultra bene, nessuno può incappare in malintesi. Voi romani, dite pure velòce, feròce, con la o aperta, oppure corridòio o vassòio, va strabene e che dire dei napoletani con ancòra, fòrse e via dicendo. Potrei continuare citando le pronunce fonetiche sbagliate di tutte le regioni italiane, Toscana esclusa, ma ripeto, in una dispensa di public speaking, la fonetica è l’ultimo aspetto da a considerare. Certo, però, una minima attenzione bisognerebbe riservarla a quei vocaboli cosiddetti omografi che, tuttavia, a causa di un accento fonico diverso cambiano di significato. Credo ci sia una bella differenza tra pèsca e pésca, tra bòtte e bótte, tra vènti e vénti, tra ròsa e rósa, tra tòrta e tórta e via discorrendo. C’è differenza anche, sempre parlando di omografi, quando cambia l’accento tonico: nòcciolo e nocciòlo, tèrmite e termìte, tùrbine e turbìne, viòla e vìola. Se, parlando, confondeste un termine con un altro, io credo, a meno che non intratteniate un pubblico di analfabeti, non fareste una bella figura, anzi, probabilmente, simili errori  intaccherebbero la vostra credibilità.

Il difetto di articolazione delle consonanti dà adito a una serie di disfonie che possiamo, a meno che non ci siano di mezzo cause organiche, imputare all’uso del dialetto. Essendo romano, mi permetto di porre l’accento soprattutto sui difetti fonetici dell’impiego delle consonanti da parte dei miei concittadini.

Oltre all’abusato “tera e guera con due ere”, un verace trasteverino maltratterà il suono della “c”, trasformando, per esempio, una braciola in “brasciola”, e, al contrario, la parola “striscione in “stricione”, subito e probabile in “subbito” e “probbabbile”, moglie e paglia in “moje” e “paja”, borsa e scarsa in “borza” e “scarza”. Non voglio fare una disamina delle regioni d’Italia per andare a scoprire quali sono i difetti di dizione imputabili ai diversi dialetti, non è questo il contesto più adatto. Tuttavia, non credo ci voglia grande orecchio per un meridionale, specie se politico di professione, rendersi conto che è una stonatura linguistica maltrattare la “Z” pronunciandola sonora in luogo di sorda in  una frase tipo: “La situazione internazionale comporta una presa di posizione di grande pazienza”.

Finora abbiamo citato difetti in  fondo rapidamente superabili con un minimo d’attenzione alle regole fonetiche. Ci sono, tuttavia, disfonie imputabili a cattive abitudini contratte fin dalla giovane età. Per esempio, siete certi di saper pronunciare correttamente la “S”? Non dico che dobbiate avere il difetto del giovane cuore solitario che, nella pubblicità dei videotelefoni, vede per la prima volta la sua lei sul piccolo schermo e all’innocente domanda “Come mi trovi?” risponde “Sei bellissima” dando prova  di pronunciare malamente la “S”.

Fate un semplice test: dirigete la punta della lingua contro i denti inferiori fino a toccare la gengiva sottostante; stirate le labbra come per pronunciare una “I”; infine, emettete  il soffio della “S” e verificatelo sul dorso della mano: se l’impostazione è corretta il soffio uscirà dal centro della bocca, perpendicolare al dorso, se è sbagliato uscirà obliquo,  dai lati della bocca. La “S” dell’attore interprete dello spot pubblicitario esce in modo distorto perché la punta della lingua invece di essere diretta sulla gengiva dei denti inferiori, va a finire di lato sui molari dell’arco dentario superiore.

Qualcuno potrebbe chiedermi se è possibile fare qualcosa per eliminare o quanto meno attenuare difetti di articolazione della “R”.  Non è semplice.

La “R” è definita una consonante dentata vibrante, nel senso che la sua articolazione avviene allorché la punta della lingua entra in vibrazione a contatto degli alveoli dei denti superiori. I problemi inerenti alla “R” dipendono dal fatto che la vibrazione non avviene sulla punta della lingua ma alla radice, producendo il caratteristico suono della cosiddetta erre moscia. Non solo, a volte la vibrazione non avviene per niente e la “R” viene sostituita da un'altra lettera, per esempio la “L”: la famosa r/l cinese, tipo “spling lolls”, gli involtini primavera.  Gli esercizi, comunque per tentare di ovviare al rotacismo sono i seguenti:

  • schioccando la lingua, imitare dalle venti e alle trenta volte il galoppo del cavallo.
  • Schioccare la punta della lingua contro gli incisivi superiori, come per chiamare il gatto di casa (20/30 volte).
  • Con una mano mantenere la mandibola inferiore abbassata e ferma e nel contempo spingere la punta della lingua contro il centro del palato (20 volte).
  • Far scorrere la punta della lingua sull’intero arco dentario facendo un giro completo della bocca, prima in senso orario, poi antiorario (10 + 10 volte).
  • Pronunciare in modo distinto e con forza le sillabe TI-TI-TI-TI e DI-DI-DI-DI per una trentina di volte.

N.B.: questo esercizio e anche il successivo, praticati con costanza danno alla punta della lingua un’elasticità che favorisce la vibrazione della “r”.

  • Pronunciare le seguenti sillabe dapprima con lentezza, poi con sempre maggiore velocità:

tatatata-tatatata-tatata-ta

tetete-tetete-tetete-te

tititi-tititi-tititi-ti

tototo-tototo-tototo-to

tututu-tututu-tututu-tututu-tu

dadada-dadada-dadada-da

dedede-dedede-dedede-de

dididi-didedi-dididi-di

dododo-dododo-dododo-do

dududu-dududu-dududu-du

  • t + rrrrrrrrrr per cominciare a riprodurre la vibrazione (10 volte).

T + RRRRRRRRR A    D + RRRRRRRRR A

T + RRRRRRRRR È        D + RRRRRRRRR È

T + RRRRRRRRR É        D + RRRRRRRRR É

T + RRRRRRRRR I            D + RRRRRRRRR I

T + RRRRRRRRR Ò        D + RRRRRRRRR Ò

T + RRRRRRRRR Ó        D + RRRRRRRRR Ó

T + RRRRRRRRR U        D + RRRRRRRRR U

B + RRRRRRRRR A        P + RRRRRRRRR A

B + RRRRRRRRR È        P + RRRRRRRRR È

B + RRRRRRRRR É        P + RRRRRRRRR É

B + RRRRRRRRR I            P + RRRRRRRRR I

B + RRRRRRRRR Ò        P + RRRRRRRRR Ò

B + RRRRRRRRR Ó        P + RRRRRRRRR Ó

B + RRRRRRRRR U        P + RRRRRRRRR U

Apparentemente con il gruppo consonantico GL non dovrebbero esserci problemi di pronuncia, ma non sempre avviene così. In alcuni dialetti (ad es. il romanesco) il  “GL” è come se non esistesse: figlia si pronuncerà: fija, paglia, paja, aglio, ajo, ecc.Un veneto tenderà invece ad eliminare la “G” e dirà: filia, palia, alio. Il siciliano invece toglierà la “L “e aggiungerà una “H” per cui pronuncerà: fighia, paghia, aghio.

Se qualcuno di voi ha qualche problema con la corretta pronuncia del GL, può provare a leggere mettendo una L prima del GL: per esempio, “milglio”, “scalglia”, “svelglia” e via dicendo. Si accorgerà che in questo modo la parte centrale della lingua è obbligata ad andare prima in alto e poi a distendersi lungo il palato verso l’arcata dentaria superiore. È esattamente il doppio movimento necessario per pronunciare correttamente il gruppo consonantico GL. È ovvio che una volta imparato il movimento, bisogna abituarsi a pronunciare il GL senza farlo precedere dalla L.

Se il “GL” è seguito dalla  “A-E-O-U” la “G” e la “L” si pronunciano come se fossero separate: glabro, globo, gleba, glume, glucosio.

 

Entriamo adesso nel campo delle dolenti note. Sono sempre più numerose oggi le parole italiane che si pronunciano in maniera sbagliata, vuoi per noncuranza, superficialità o ignoranza. Si ha un bel dire che la lingua evolve, che, se la consuetudine impone di pronunciare un vocabolo in una data maniera, anche se palesemente errata, quella parola detta in quel modo acquisisce diritto di cittadinanza nella lingua italiana. Sarà pur vero per talune parole di origine dotta (per es. il vocabolo alchimia: derivando dall’arabo al-kìmiya nel significato di arte della pietra filosofale, l’accento tonico dovrebbe cadere sulla prima i, alchìmia, ma col tempo si è imposta la pronuncia alchimìa), ma un certo purismo dovrà pur mantenersi nelle parole d’uso comune. Nessuno mi convincerà ad accettare la pronuncia utènsile in luogo di utensìle. Derivando questo sostantivo dal plurale latino utensìlia, l’accento tonico dovrà cadere unicamente sulla penultima sillaba: utensìle. L’aggettivo, invece, derivando dal latino utensĭlis (con l’accento breve sulla penultima “i”), diventa sdrucciolo. Si dovrà quindi dire: macchina utènsile.

Divertitevi a valutare il vostro grado di abilità nella pronuncia italiana. Leggete a voce alta il brano che segue.

Dall’Himalaya al Potomac, da Istanbul a Reykjavik, la diatriba è apertissima: è meglio avere alle proprie dipendenze un uomo in carne ed ossa o un androide in carne ed ossa sintetiche?

Il robot è quel che si dice un alacre lavoratore. In un prossimo futuro, se ne potranno trovare a iosa nelle metropoli più cosmopolite, in Friuli ma anche a Nuoro. Ci saranno di aiuto in casa per rendere più salubri gli ambienti. Persino gli ingegneri edili li potranno utilizzare sia per costruire autodromi con circuiti per le auto ed anche velodromi sia, perché no, anche batiscafi o semplici guaine murarie. Gli scienziati scandinavi ne stanno mettendo a punto un prototipo molto particolare. Sembra un monolito tanto appare robusto. Ha gli occhi di zaffiro, ma sembra che ti guardi sempre in tralice. È servizievole, pudico, del tutto anodino. Non ucciderebbe una mosca, figuriamoci un facocero. Quando va a tutto regime, gli puoi chiedere qualsiasi cosa, persino un piatto di manicaretti e leccornie. Sguaina l’utensile che serve ed è in grado di praticare perfette suture. Il servizio di manutenzione è completamente gratuito.

LETTURA CORRETTA

 

Dall’Himàlaya al Potòmac, da Istànbul a Rèykjavik, la diàtriba è apertissima: è meglio avere alle proprie dipendenze un uomo in carne ed ossa o un andròide in carne ed ossa sintetiche?

Il ròbot è quel che si dice un àlacre lavoratore. In un prossimo futuro, se ne potranno trovare a iòsa nelle metropoli più cosmopolìte, in Friùli ma anche a Nùoro. Ci saranno di aiuto in casa per rendere più salùbri gli ambienti. Persino gli ingegneri edìli li potranno utilizzare sia per costruire autòdromi con circùiti per le auto ed anche velòdromi e, perché no, anche batiscàfi o semplici guaìne murarie. Gli scienziati scandinàvi ne stanno mettendo a punto un protòtipo molto particolare. Sembra un monòlito tanto appare robusto. Ha gli occhi di zaffìro, ma sembra che ti guardi sempre in tralìce. È servizievole, pudìco, del tutto anòdino. Non ucciderebbe una mosca, figuriamoci un facocèro. Quando va a tutto regìme, gli puoi chiedere qualsiasi cosa, persino un piatto di manicaretti e leccornìe. Sguaìna l’utensìle che serve ed è in grado di praticare perfette sutùre. Il servizio di manutenzione è completamente gratùito.

 

Chi vuole saperne di più sull’uso corretto della fonetica italiana rimando ai miei due volumi precedenti: Speaker, guida alla comunicazione verbale e Parlar Chiaro, guida alla comunicazione intelligente, entrambi editi da Rai Eri.

ALCUNE SPIEGAZIONI

 

Himàlaya: l’accentazione sulla a deriva dalla pronuncia originale hindi (himàalaia).

Potòmac: fiume della Virginia (USA). La pronunzia inglese è appunto pëtóumäk.

Istànbul: la posa dell’accento sulla a è propria della pronuncia turca.

Rèykjavik: l’accento sdrucciolo è tipico del finlandese. Vedi anche: Hàkkinen, Kèkkonen, Ràikkonen, Lìtmanen, ecc.

Diàtriba: derivazione dal latino tardo diàtrĭba (discussione) a sua volta derivata dalla voce greca diatribê, composto di tribê (consumo) e diá (continuo). La pronuncia errata diatrìba deriva invece dal francese diatrìbe.

Andròide: dal greco anêr, andròs (uomo), quindi “simile all’uomo”.

Ròbot: deriva dal cecoslovacco ròbota che significa “lavoro” e ròbot è un vocabolo coniato dallo scrittore ceco Karel Capek per designare gli automi protagonisti del suo dramma “R.U.R.”.

Àlacre:deriva dal latino àlăcre(m). Ricordate la regola? Se la penultima è breve, l’accento cade sulla terzultima sillaba.

Cosmopolìta: è una parola composta di origine greca. E’ formata da kosmos (mondo) e polìtes (cittadini).

Friùli: da Forum Iuli, antico nome di Cividale, capoluogo prima del secolo XIV della Patria del Friuli.

Nùoro: città della Sardegna, di origini preromane. Nel Medioevo si chiamava Nùgoro. Caduta la g è rimasto Nùoro.

Salùbre: deriva dal latino salūbre(m).

Edìle: deriva dal latino aedīle(m), a sua volta derivante dal sostantivo āedes (tempio). Per questa ragione l’accento cade sulla ī lunga. Se fosse derivato da un verbo, l’accento si sarebbe spostato sulla terzultima per effetto della ĭ breve.

Cìrcuito: dal latino circūitu(m), derivato da circuīre, “andare intorno”.

Velòdromo: Malgrado le apparenze la derivazione non è greca ma francese (velodróme) con il suffisso velo (dal latino velox= veloce) usato sulla falsariga di hippo (cavallo in greco). Dromo deriva dal greco dramein“correre”.

Motoscàfo: dal francese motoscaphe; da moto e skajoz “battello” Di conseguenza l’accento cade sulla penultima sillaba.

Autòdromo: parola composta di derivazione greca (autòs = sé + dròmos = luogo per correre). Nell’incontro di due vocaboli di derivazione greca l’accento cade sempre sulla terzultima.

Guaìna: deriva dal latino vagīna(m). Il suffisso VA si è trasformato nel longobardo GUA mantenendo l’accento tonico sulla I.

Scandinàvo: l’accento cade sulla penultima sillaba dato che l’aggettivo deriva dal sostantivo Scandinàvia. Se derivasse da Scandìnavia sarebbe naturale pronunciare scandìnavi.

Protòtipo: dal greco protòtypos composto da protos (primo) e tÝpos (impronta).

Monòlito: derivazione dal composto greco mònos (solo) e lìthos (pietra).

Zaffìro: derivato dal latino sapīru(m), a sua volta originato dal greco sàppheiros e quest’ultimo probabilmente da un vocabolo sanscrito che indicava il lapislazzulo piuttosto che la gemma che conosciamo come zaffìro. “Dolce color di oriental zaffìro” cantava Dante. Provatevi a leggere “zàffiro” e la rima va a farsi benedire.

Tralìce: derivazione dalla voce latina trilūce(m) che significa “tessuto lavorato per traverso”.

Pudìco: derivante dal latino pudīcu(m).

Anòdino: dal greco anôdynos a sua volta derivante dal composto an (privativo) e odýnē(dolore).

Facocèro (cinghiale africano): deriva dal latino phacochērus.

Regìme: derivato dall’incrocio del latino règĭmen con il francese régime.

Leccornìa: deriva da lecconerìa. Secondo altri da lecconìa, attratta da ghiottornìa

Sguaìno: presente indicativo di sguainare, verbo che deriva da guaìna + S estrattiva.

Utensìle: derivazione latina da utensīia “cose da usare.

Sutùra: dal latino sutūra(m) “cucitura”, a sua volta originato da sutus, participio passato del verbo sūere (cucire).

Gratùito: dal latino gratuītu(m) e passato all’accentazione sdrucciola in italiano.

 

L’ARTICOLAZIONE

R

iprendiamo per un attimo il discorso sulla respirazione e sulla voce. Ve ne ricordate? La voce è quel complesso di suoni che vengono prodotti dalla laringe grazie al concorso del mantice diaframmatico-polmonare e delle cavità nasali e boccali. Tradotto in pratica, ciò vuol dire che durante l’espirazione la corrente d’aria, spinta dal diaframma, che risale lungo la trachea fa vibrare le corde vocali producendo suoni che diventano articolati con il contributo degli organi della bocca: labbra, denti, lingua, palato, ugola.

Il rumore dell’articolazione è dato dalle consonanti, i cui suoni si creano in bocca. Di conseguenza, una buona pronuncia deriva dalla corretta articolazione dei suoni all’interno della bocca, resa possibile dal movimento e dall’elasticità dei muscoli facciali.

Abbiamo ammesso di avere sempre utilizzato male l’apparato respiratorio, figuriamoci quindi, se siamo allenati ad usare i muscoli facciali per ottenere la migliore articolazione delle parole.

 

ESERCIZI PER UNA BUONA ARTICOLAZIONE

 

Fate attenzione ai prossimi esercizi, alcuni di essi si riveleranno particolarmente utili soprattutto per coloro che, abituati ad una pronuncia dialettale, non articolano correttamente talune consonanti e taluni gruppi di consonanti. Mentre vi esercitate davanti allo specchio, osservate con attenzione il movimento dei vostri muscoli facciali. Non abbiate paura di esagerare nel metterli in funzione.

Esercizio che coinvolge il movimento delle labbra:

pa pe pi po pu

ba be bi bo bu

Esercizio che coinvolge labbra e denti:

va ve vi vo vu

fa fe fi fo fu

Esercizio che coinvolge labbra e risonanza nasale:

ma me mi mo mu

Esercizio che coinvolge la punta della lingua e i denti:

na ne ni no nu

Esercizio che coinvolge la punta della lingua e il palato:

la le li lo lu

ra re ri ro ru

Esercizio che coinvolge il dorso della lingua e il palato:

ca che chi co cu

ga ghe ghi go gu

Esercizio che coinvolge il dorso della lingua, il palato, il naso e i denti:

gna gne gni gno gnu

Infine, eccovi un esercizio specifico per l’articolazione di determinati gruppi consonantici:

bra bré brè bri bró brò bru

cla clé clè cli cló clò clu

gra gré grè gri gró grò gru

psa psé psè psi psó psò psu

pta pté ptè pti ptó ptò ptu

gla glé glè gli gló glò glu

sca scé scè sci scó scò scu

spa spé spè spi spó spò spu

Vla VVlè  Vli VVVlu

Vna VVVni VVVnu

spra spré sprè spri spró sprò spru

tra tré trè tri tró trò tru

GINNASTICA FACCIALE

A denti serrati pronunciate i seguenti fonemi:

U – X (per 10 volte)

BA – BE – BI – BO – BU

CA – CHE – CHI – CO – CU

CIA – CE – CI- CIO – CIU

DA – DE – DI – DO – DU

FA – FE – FI – FO – FU

GA – GHE – GHI – GO – GU

GIA – GE – GI – GIO – GIU

LA – LE – LI – LO – LU

MA – ME – MI – MO – MU

NA – NE – NI – NO – NU

PA – PE – PI – PO – PU

RA – RE – RI – RO – RU

SA – SE – SI – SO – SU

ŠA – ŠE – ŠI – ŠO – ŠU

TA – TE – TI – TO – TU

VA – VE – VI – VO – VU

ZA – ZE – ZI – ZO – ZU

ŽA – ŽE – ŽI – ŽO – ŽU

U – X (ancora per dieci volte)

 

Un altro esercizio utile per sgranchire l’articolazione è l’odiosissimo scioglilingua.

Anche in questo caso, provatevi a scandire le parole sillaba per sillaba. Poi, velocizzate la lettura.

Eccovi un classico:

Sopra la panca la capra campa. Sotto la panca la capra crepa.

Questo non è male, è utile soprattutto per l’articolazione delle “r”:

Una rana nera e rara sulla rena errò una sera.

Una rara rana bianca sulla rena errò un po’ stanca.

Questo lo conoscete?

Oggi seren non è, doman seren sarà, se non sarà seren si rasserenerà.

E questi altri?

Prendi questa barca e impegolamela e quando l’avrai impegolata, disimpegolamela senza impegolarmi.

Trentatre trentini entrarono a Trento

Tutti e trentatre trotterellando.

 

Andiamo a navigar con nove navi nuove

Ma una delle nove navi nuove non vuole navigar.

 

Tre fiaschi stretti stan dentro tre stretti fiaschi

Ed ogni fiasco stretto sta dentro lo stretto fiasco.

 

Avevo un tegamino da integaminare

Lo portai al maestro integaminatore di tegamini

Non c’era

Mi misi a integaminarlo da me

E lo integaminai meglio dell’integaminatore

Di tegamini.

E, dulcis in fundo, eccovi al completo lo scioglilingua più difficile in assoluto:

Se l’arcivescovo di Costantinopoli

si disarcivescovicostantinopolizzasse

ti disarcivescovicostantinopolizzeresti tu

come si è disarcivescovicostantinopolizzato

l’arcivescovo di Costantinopoli?

 

Esercitazione di velocità

Se devo leggere una scheda di “Mixer”, leggo sempre veloce, molto veloce, anzi velocissimo.

Io invece parlo sempre molto lentamente, riflettendo su ogni parola che dico.

L’attesa mi annoia, il tempo mi sfugge, sembra sempre che qualcuno mi corra dietro.

Ho tutto il tempo che voglio, sono di una calma olimpica.

 

Se m’impunto, impasto le sillabe, scivolo sulle consonanti, non m’importa, tanto lo sforzo di comprendermi deve farlo il mio interlocutore.

Scandire le parole una per una fa arrivare il messaggio più chiaro nelle orecchie del mio ascoltatore.

 

Ho una fretta dannata, sono roso dall’ansia di arrivare qualunque sia la mia meta, devo fare in fretta e vado sempre di corsa.

Forse sono pignolo, pedante e costringo i miei interlocutori ai miei ritmi e qualcuno si addormenta pure.

Corri, corri, se anche i generali ricaricassero le loro armi, non ci sarebbero tanti disertori in questa guarnigione.

Piano, piano, adagio, adagio, l’orizzonte non è mai stato così lontano, fortuna che la mia meta è prossima.

 

Ci sono vocaboli che rendono complicata la lettura veloce. Uno di questi è certamente l’avverbio “preliminarmente”.

Allora sarete d’accordo con me: è meglio leggere più lentamente se si vuole articolare con chiarezza l’avverbio “preliminarmente”.

 

Abbiamo detto che gli stati d’animo possono influire sulla voce, in senso positivo ma anche negativo. In quest’ultimo caso per intervenire su una voce senza espressività o mordente, bisognerebbe agire sulla psiche, ma non è facile esercitare l’auto-controllo sulle proprie emozioni. Sarebbe opportuno, per quanto possibile, seguire il consiglio del grande Eduardo: “A da passà ‘a nuttata!”, dopo di che possiamo sperare che gli avvenimenti che ci hanno causato tristezza, malinconia, depressione, prendano una piega diversa, oppure che le nostre capacità di reazione acquistino  nuova linfa e guariscano il nostro malessere interiore.

Attenzione, però! Non sono soltanto ansia, stress, depressione, ad influenzare la qualità della voce. Può succedere anche con determinati alimenti. Se dovete esibirvi al microfono di una radio o di un canale televisivo o se, comunque, dovete usare la voce a lungo per una conferenza, una lezione,  è meglio che vi asteniate dal mangiare carciofi. Vi allapperebbero, rendendovi difficile l’articolazione delle parole. Non crediate poi, se doveste avere una minima dolenzia di gola,  che le caramelle balsamiche, alla menta e all’eucalipto, siano un toccasana. Sono micidiali per le corde vocali. Vi toglierebbero la voce.

Naturalmente, mi pare ovvio, nemmeno il fumo, l’alcool, le droghe, sia per inalazione che per bocca,  sono consigliabili per mantenere sana la voce. Ugualmente nefaste sono l’aria condizionata e il riscaldamento eccessivo perché una riduzione del tasso d’umidità favorirebbe secchezza del condotto orale e la voce risulterebbe forzata.  Un’altra controindicazione, per coloro che soffrono di ernia iatale, è il rigurgito gastro-esofageo. La risalita degli acidi gastrici, a contatto con la gola, può irritare le corde vocali e alterare l’emissione di voce.

Ci sarà ben qualcosa che farà bene alla voce, mi chiederete voi. Certamente. Se consideriamo che le corde vocali sono in fin dei conti dei muscoli anch’essi, qualsiasi prestazione vocale, come qualunque esercizio fisico, ha bisogno di un preventivo riscaldamento, una bevanda calda, ma non bollente,  tipo latte con miele, the, cacao, caffé americano, non può che fare bene. Anche il metodo della nonna, del genere decotto di erisimo o erba della cornacchia, usato in tempi passati contro la tosse e le affezioni della gola oppure il tanto decantato “burro e alici” dei cantanti, per quanto la medicina ufficiale non ne abbia mai autenticato l’efficacia, se pensate che facciano bene, usateli senza timore. Di sicuro non fanno male.

Dizione e Fraseggio

F

inora abbiamo parlato soltanto di fonetica, di ortofonia e di ortoepia, cioè dei corretti suoni (fonemi) delle singole lettere, delle sillabe, delle parole secondo i processi delle loro articolazioni individuali. Adesso introduciamo un nuovo capitolo nel mondo ancora in gran parte inesplorato della lettura: la dizione.

Per dizione s’intende il modo di esprimersi. Nel nostro caso, di leggere in conformità al testo che si ha sotto mano. A qualsiasi tipologia appartenga, sia esso un pezzo scientifico o naturalistico o storico o di costume, il testo obbedisce a delle regole di sintassi e di stile uguali per tutti.

Scelta dei vocaboli a parte, è la punteggiatura che definisce in qualche modo lo stile dello scritto. Quei minuscoli segni grafici che corredano qua e là il testo stampato o scritto a penna, sono tanto importanti da determinare la sequenza delle pause logiche del discorso, da sottolineare la rilevanza di un periodo rispetto a un altro, di una parola rispetto ad un altra, da suggerire una modulazione di voce in un senso o in un altro. In ambito puramente grammaticale la punteggiatura ha uno scopo preciso: quello di dare un senso logico al discorso.

Che la punteggiatura fosse un’arte lo sapevano bene i grammatici di qualche secolo fa. Nel ‘500 ci fu appunto qualcuno, Orazio Lombardelli appunto, che dedicò all’argomento un poderoso trattato, intitolato Dell’arte di puntare gli scritti.

La costruzione del testo, e quindi l’inserimento logico delle cesure convenzionali, chiamate segni d’interpunzione, non segue le stesse procedure nel parlato e nello scritto. Le unità del parlato – questo è il settore che c’interessa -  sono governate dall’intonazione e intervallate da motivazioni logiche ma anche interpretative.

L’interpunzione logica che trovate nello scritto dà indicazioni sulla struttura delle frasi e sulla loro connessione sulla base delle regolarità sintattiche.

Se dobbiamo leggere uno scritto a voce alta, il nostro primo approccio è quello di esaminare la punteggiatura dal punto di vista delle cadenze di fiato.

N.B. Ricordiamo sempre, tuttavia, nell’analisi della punteggiatura di uno scritto che “l’occhio non respira” e che, quindi, c’è sempre la necessità di distinguere la scrittura dall’oralità, a meno che lo scritto non sia destinato esclusivamente alla lettura e allora il testo deve ubbidire a precise regole di chiarezza e semplicità.

Il punto (.) è il segno principe. Con esso termina un discorso e ne comincia un altro. Secondo i criteri della normalità sintattica il punto sancisce la conclusione di una frase, di un periodo, di un testo intero. È in presenza del punto che possiamo riempirci i polmoni d’aria. Dal punto di vista della lettura, davanti al punto è necessario essere conclusivi.

Il punto e virgola (;) offre l’opportunità di una pausa meno conclusiva del punto, ma è pur sempre l’occasione di una buona presa di fiato. In generale, è utile per staccare dalla frase principale una serie di proposizioni secondarie di sostegno al concetto espresso dal primo periodo. Eccovi un esempio tratto da Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Il brano è formato da una serie di periodi separati dal punto e virgola, proprio perché non c’è alcuna interruzione sul piano del contenuto.

Non che fosse grasso: era soltanto immenso e fortissimo; la sua testa sfiorava […] il rosone anteriore dei lampadari; le sue dita sapevano accartocciare come carta velina le monete da un ducato; e fra villa Salina e la bottega di un orefice era un frequente andirivieni per la riparazione di forchette e cucchiai che la sua contenuta ira, a tavola, gli faceva spesso piegare a cerchio.

I due punti (:) hanno una funzione sintattica precisa: servono a “introdurre” qualcosa che dipende dalla frase precedente e ne completa il significato. Determinano anch’essi una pausa ma breve dato che la voce, in attesa della spiegazione innescata dai due punti, ha lasciato in sospeso il periodo precedente.

Sono distrutto dal sonno: stanotte avrò dormito sì o no non più di tre ore.

Prima di un elenco che contribuisce a spiegare un elemento della frase principale.

Sabato scorso Antonella ha acquistato per sé un intero guardaroba: due gonne, due pantaloni, tre camicette, un paio di maglioni di cachemire, tre paia di scarpe, una pelliccia sintetica.

N.B. Avvertenza per chi scrive: se l’elenco dipende da un verbo, i due punti non si mettono. Antonella ha acquistato due gonne, tre paia di scarpe ecc.

I due punti servono anche per passare dal discorso indiretto a quello diretto. Garibaldi non ci pensò su, rispose senza tentennamenti: “Obbedisco.”

Le virgolette (“ “), come abbiamo testé visto, impiegate sempre in coppia, delimitano un discorso diretto (al pari della lineetta (-) o dei gradi di caporale o sergente (<< - >>), ma non solo. Sono usate anche per riportare frasi e concetti di un’altra persona che non sia lo scrivente (es.: “Il mio sogno è cantare allo stadio” è questo il concetto espresso dalla Carrà in un incontro con i giornalisti), oppure per sottolineare determinate parole (il cardellino è considerato un vero “architetto” fra gli uccelli) oppure ancora per mettere in rilievo il titolo di un’opera (Harrison Ford è l’attore che interpreta il personaggio di Indiana Jones nel film “I predatori dell’arca perduta” di Steven Spielberg). È evidente che, davanti alle virgolette (alle lineette, ai gradi), è necessaria una breve pausa per evidenziare, anche con un lieve cambiamento di tono, il discorso diretto o con una puntualizzazione della voce non eccessiva la frase o la parola o il titolo virgolettato.

Oggi più che mai è da apprezzare la soluzione scelta da Albert Einstein, il grande scienziato ebreo tedesco, esule negli Stati Uniti, che sul modulo d’immigrazione, a fianco della domanda “A quale razza appartiene?” scrisse: “Alla razza umana”.

NB: Allo stesso modo che davanti al virgolettato ci si deve comportare davanti al corsivo, che nell’uso giornalistico segnala le citazioni di parole e frasi.

Anche davanti alla virgola (,) - dal latino, piccola verga - è possibile prendere brevemente fiato, ma, come vedremo, non sempre è così.

Il punto, il punto e virgola e la virgola tra le loro caratteristiche hanno anche quella del cambio di velocità. Mi spiego meglio con un esempio. Riesci ad afferrare la differenza tra questi tre brani?

Nel vedersi sfuggire la preda, Massimo fu costretto ad una frenata e ad un’altrettanta brusca retromarcia. Una nuvola di fumo acre si alzò dagli pneumatici sollecitati con tanta violenza. Con un ruggito del motore, la Land Rover s’inoltrò a velocità nel viottolo. Sfiorò arbusti e rami. Sobbalzò negli affossamenti del terreno. Slittò sul brecciolino, ma guadagnò terreno.

Nel vedersi sfuggire la preda, Massimo fu costretto ad una frenata e ad un’altrettanta brusca retromarcia; una nuvola di fumo acre si alzò dagli pneumatici sollecitati con tanta violenza; con un ruggito del motore, la Land Rover s’inoltrò a velocità nel viottolo; sfiorò arbusti e rami; sobbalzò negli affossamenti del terreno; slittò sul brecciolino, ma guadagnò terreno.

Nel vedersi sfuggire la preda, Massimo fu costretto ad una frenata e ad un’altrettanta brusca retromarcia; una nuvola di fumo acre si alzò dagli pneumatici sollecitati con tanta violenza, con un ruggito del motore, la Land Rover s’inoltrò a velocità nel viottolo, sfiorò arbusti e rami, sobbalzò negli affossamenti del terreno, slittò sul brecciolino, ma guadagnò terreno.

Sono sicuro che leggendo ad alta voce i tre brani ti sarai accorto che l’unica differenza sta nella velocità di lettura. Nel primo caso i periodi sono separati da un punto ed è ovvio che, se dobbiamo rispettare le indicazioni di base di questo segnale d’interpunzione, la lettura ne risulterà lenta e cadenzata. Il punto e virgola dà al passo una lieve accelerata, ma siamo ancora nei limiti di una velocità da crociera. La virgola, invece, imprime al brano una velocità vertiginosa, adatta alla descrizione di un’auto lanciata all’inseguimento.

Nello scritto come nel parlato, l’alternanza tra frasi lunghe e frasi brevi è un artificio utile a creare tensione e suspense. È utile a mantenere desta l’attenzione del lettore come dell’ascoltatore. Se vuoi mantenere alta la tensione di un discorso, è consigliabile utilizzare periodi brevi alternando virgole e punti. Da questo punto di vista resta mirabile l’esempio degli spot e delle schede di Mixer, la fortunata trasmissione televisiva di Giovanni Minoli.

Un giallo della storia, un intrigo della politica, un dramma della cronaca, un affaire per la diplomazia. Hanno ucciso monsignor Romero. Dal Salvador un monito, un avvertimento, la storia di un assassinio nato dal conflitto di due schieramenti opposti.

Quando la politica diventa fazione, quando la storia la scrivono idee contrapposte, quando un paese naufraga nell’estremismo. La religione come baricentro di speranza, l’impegno come obiettivo di riconciliazione. Racconto di una vita che ha dato fastidio, analisi di una morte che ancora permette di lottare. Questa sera a Mixer…

La virgola è un segno grafico che ha un preciso valore semantico. Assume un’importanza fondamentale per dare intelleggibilità ad una frase.

Franco è arrivato Alessandro

È necessario l’uso della virgola per isolare il vocativo.

Franco, è arrivato Alessandro

Oppure

Franco è arrivato, Alessandro

Sul gioco della virgola si basavano i famosi quanto contraddittori responsi degli oracoli:

Ibis redibis non morieris in bello

In altre frasi la presenza o meno della virgola determina significati diversi. Qual è, secondo voi, il significato di queste due frasi, a prima vista analoghe?

Non ha recitato come i presenti si attendevano

Oppure

Non ha recitato, come i presenti si attendevano

Nel primo caso la virgola influisce sul significato di come. Se non è preceduto dalla virgola, come vuol dire <<nel modo in cui>>. Di conseguenza il significato della prima frase è: non ha recitato nel modo in cui i presenti si attendevano. In presenza della virgola, invece, il significato possibile è un altro: non ha recitato – e i presenti si attendevano che non recitasse.

Nel secondo caso, se non è preceduta da una virgola la frase relativa è definita specificativa e la frase ha questo significato: fra tutti i film non vedo solo quelli che… Anteponendo alla relativa una virgola, la frase secondaria acquista valore non specificativo e fa intendere che: tutti i film mi sembrano scadenti.

Uno dei luoghi comuni che sembra difficile scalzare è quello secondo cui davanti alla congiunzione non debba andare la virgola. Non è affatto vero, per esempio nella frase che segue la virgola è consentita:

Ecco Daniele, Nicoletta, Antonio, e Alessandra che arriva di corsa.

La virgola compare davanti alla e quando serve come strumento di separazione per sciogliere ambiguità di senso.

La Corte costituzionale giudica [….] sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato, e su quelli tra lo Stato e le Regioni, e tra le Regioni [….]

Leggiamo insieme il brano che segue.

Alessandra, te lo ripeto ancora. Spero che così non lo dimenticherai. Le tre grandi piramidi di Gizah, note come quelle di Cheope Chefren e Micerino, sono l’unica delle sette meraviglie del mondo antico ancora in piedi. Il Colosso di Rodi, il Faro di Alessandria, i Giardini pensili di Babilonia, la statua di Zeus ad Elide, che è opera di Fidia, il Tempio di Diana ad Efeso, la tomba di Mausolo ad Alicarnasso, sono scomparsi nel corso dei secoli, ne sono passati più di venti, senza lasciare tracce.

Con i vocativi, cioè con quei nomi cui viene esplicitamente rivolto il discorso, la virgola è obbligatoria. Nel caso del primo inciso, note come quelle di Cheope Chefren e Micerino, la breve pausa di fiato iniziale e finale e il conseguente abbassamento del tono di voce evidenzieranno, separandoli dal contesto generale del periodo i tre faraoni della IV dinastia costruttori delle tre piramidi. Simile al primo è il secondo inciso, (chiamato “relativa appositiva”, nel senso che aggiunge un’informazione, peraltro sopprimibile nel contesto) che è opera di Fidia: la voce sottolinea con il cambio di ritmo che la statua di Zeus è opera del grande scultore ateniese Fidia, costruttore anche del Partenone. Attenzione, però: l’elencazione non deve essere letta come se fosse una lista della spesa. Ogni meraviglia deve essere letta a sé stante, come se doveste imprimere una martellata. Di solito, se dobbiamo fare un elenco, recitiamo con voce monocorde: questo questo questo questo e quest’altro, senza pause. Insomma, la lista della spesa. Quando si legge e qualcuno ci ascolta, dobbiamo invece dire: questo, questo, questo, questo e quest’altro. Solo sul penultimo questo la voce sale per appoggiarsi definitivamente su “e quest’altro”.

Dopo l’enunciazione delle meraviglie del mondo, la voce, dopo una brevissima pausa, cala di tono per dire: ne sono passati più di venti; per poi salire di nuovo. Questa volta senza pausa, nonostante la presenza della virgola.

Il trattino (-) si usa per circoscrivere un inciso quando una semplice virgola non costituirebbe un chiaro stacco: - Accordo o me ne vado - ha dichiarato il primo ministro - e a gennaio avremo la crisi. In questo caso lo stacco non viene creato tanto dalle pause che delimitano i due trattini quanto dal calo della voce che mette in risalto l’inciso.

Le parentesi [()], delimitano anch’esse un inciso, ma non così importante da imporre una pausa d’intonazione. Vigasio (in provincia di Verona) è un simpatico paesino del Veneto. In un certo modo, le parentesi producono effetti polifonici: intrecci di voci o di toni. Nello scritto attuano passaggi dal “mondo narrato” al commento da parte del narratore, che s’intromette facendo sentire la sua voce.

Don Abbondio (il lettore se n’è già avveduto) non era nato con un cuor di leone.

I puntini di sospensione (...), come dice chiaramente il nome, interrompono la frase lasciando in sospeso il finale di parola. Tornai a casa e trovai il cane... Se leggessimo questa semplice frase con la chiusura sull’ultima sillaba, chiunque ci ascolti penserà giustamente che il concetto espresso sia concluso. Evidentemente, può dedurne, il cane si era smarrito, ma era stato in grado di trovare da solo la strada di casa. Ma, se leggessimo la frase tutta d’un fiato e ci interrompessimo di botto dopo avere articolato la parola cane, avremmo procurato come minimo un sobbalzo al nostro ascoltatore, il quale si chiederebbe quanto meno che cosa abbia combinato il cane. È esattamente questo il risultato voluto dai puntini di sospensione. Talvolta i puntini possono essere definiti di esitazione per preparare il lettore ad un motto di spirito, ad un doppio senso, a un gioco di parole:

se non è di bufala è… una bufala

Talvolta però, la punteggiatura dello scritto dà istruzioni anche riguardo all’intonazione. Il punto esclamativo (!) è una di queste e si usa al termine di frase per indicare... Che cosa? Ma una esclamazione, che diamine! Dal punto di vista della lettura, sarà il caso, per ottenere l’effetto esclamativo, che teniate aperta l’ultima sillaba in modo che il tono tenda verso l’alto.

Che diavolo! Sta’ attento!

Anche il punto interrogativo (?) è un classico segno d’intonazione che posto in finale di frase serve a concludere una domanda diretta.

NB: Tu resti qui. Tu resti qui ? Tu resti qui ! Tu resti qui?! Sono quattro enunciati in cui i quattro segni d’interpunzione suggeriscono quattro intonazioni diverse. La prima assertiva; la seconda interrogativa; la terza un comando; la quarta sorpresa o incredulità.

Il punto di domanda si evidenzia con l’appoggiatura della voce sulla sillaba tonica dell’ultima parola: in questo modo la voce tende ad andare verso l’alto con un piccolo svolazzo.

Parti per le vacanze? Dove vai? Quando ritorni?

Attenzione, però, quando la domanda non è così diretta, ma anzi comporta una serie di incisi e contro incisi, vi consiglio di non cadere nella tentazione dello svolazzo finale.

Sapete cosa disse Papa Giulio II a Raffaello il giorno che il grande pittore, di passaggio per Roma prima di andare ad Urbino, venne a trovarlo in Vaticano?

Altro esempio, ancora più lungo del precedente.

Cosa possiamo fare allora, per affrontare la nostra vita a contatto con le sostanze chimiche, quando le autorità e i politici ci dicono che i computer sono pericolosi, che le verdure sono piene di sostanze chimiche sintetiche e che non dobbiamo tinteggiare la stanza del bambino appena nato perché la vernice emette sostanze tossiche?

Oppure ancora:

Come comportarsi di fronte agli atteggiamenti arroganti di certuni, tipo quegli automobilisti che non si curano minimamente di coloro che transitano sulle strisce o vogliono avere sempre ragione perché provengono da destra oppure, ancora, di coloro che solo perché indossano una divisa, si arrogano il diritto di abusare dei loro poteri, dimenticandosi di essere loro al servizio dei cittadini e non viceversa?

In tutti questi casi sappiate che è molto meglio limitare l’interrogativo, nella prima circostanza, al sapete? E nella seconda, al cosa possiamo fare?, e nella terza, al come comportarsi? Non terminate l’intera frase con quell’orribile svolazzo finale tanto fastidioso. È preferibile concludere il periodo con un bel punto.

Un discorso a parte merita il punto finale di una qualsiasi lettura. L’ultima frase che conclude il discorso deve sempre essere, perdonate il gioco di parole, conclusiva. L’ascoltatore deve poter capire che la vostra lettura è terminata e non seguiranno altre parole.

Provatevi a contare fino a dieci. Vi renderete conto da soli che in prossimità del numero finale, il ritmo di voce, sull’otto, tenderà a rallentare per dare un tono conclusivo alla sequenza di numeri. Potete esercitarvi ottenendo il medesimo risultato nell’enumerare i mesi dell’anno o i giorni della settimana. Al termine dell’esercizio, provate a dare un tono conclusivo a questa frase:

Al servizio dei cittadini è lo slogan cui si ispira l’impresa “XY”, una società al passo coi tempi, in attesa del Duemila per raccogliere il guanto di sfida del futuro che avanza.

Ripeto: per dare il tono conclusivo è sufficiente fare una piccola pausa intenzionale prima delle ultime parole.


 

ESERCITAZIONE

Avevate mai pensato alla letteratura come a una specialissima e particolare dimensione in cui si entra dopo aver aperto un libro?

Avreste immaginato che qualcuno potesse leggere per voi i brani più cari alla vostra memoria?

Potevate supporre che leggere Dante o Pasolini significasse immergersi in un’epoca, ascoltarne la musica, contemplarne le immagini e vederne scorrere gli avvenimenti storici?

L’avreste mai detto che la critica letteraria potesse trasformarsi in suono e colore, racconto e suggestione e non essere solo una materia da studiare?

FRASEGGIO

Secondo il vocabolario, il fraseggio è il ritmo sintattico correlato alle prerogative stilistiche. Detta così, la definizione sembra piuttosto criptica. Cerchiamo di tradurre il concetto con parole più semplici.

Un qualsiasi brano che ci venga sottoposto per la lettura, non è una concatenazione di soggetti, attributi, forme verbali, complementi oggetti, messi uno dietro l’altro senza un filo logico. Le proposizioni principali e secondarie con le loro relative sono concepite in modo che l’intero discorso, che tutte insieme concorrono a costruire, abbia un significato compiuto.

Il primo compito del lettore è proprio quello di afferrare il senso di ciò che va a leggere ad alta voce. Se non lo capisce appieno, sarà poi difficile, se non impossibile, renderlo comprensibile a chi ascolta. Gli elementi espressivi, contenuti nel testo, costituiti dagli accenti, dal flettersi delle intensità, dalle cesure sonore, suggeriti dalla punteggiatura per dare ritmo e coloritura alla lettura, apposti in prima istanza dall’autore dello scritto e in seconda istanza dal lettore, rendono comprensibili le singole frasi di un discorso inteso in senso armonico.

Purtroppo, non sempre capita che la punteggiatura sia posta nei giusti termini dall’estensore del testo di un documentario o di un servizio giornalistico, sia per noncuranza che per la fretta, sempre cattiva consigliera. Il più delle volte è carente. Allora è necessario che sia il lettore stesso ad intervenire con propri segni grafici, in modo da rendere colorito ed espressivo ciò che è in procinto di leggere. Le “pause che si fanno nel parlare” non trovano riscontri adeguati neppure negli scritti migliori. Provatevi, a titolo di esempio, a trascrivere fedelmente con il corredo della punteggiatura che conoscete un testo parlato. Vi renderete subito conto delle difficoltà cui andate incontro. Per parlare ma anche per leggere bene, i segni d’interpunzione in uso per lo scritto non sono sufficienti: bisogna introdurne altri che sembrano più adatti a rappresentare la scansione del discorso orale.

CONSIGLI PRATICI

 

Ricordatevi quanto detto a proposito della punteggiatura. Sono i segni d’interpunzione che danno ritmo alla lettura. Tuttavia, scordatevi, a meno che non abbiate per le mani un brano di Pirandello, di trovare nel testo di un documentario o di un notiziario un minimo di punteggiatura vocale, che è qualcosa di differente dalla punteggiatura dovuta allo stile. La punteggiatura vocale è quella, a titolo di esempio, che vi fa trovare l’inciso tra due virgole: l’altro ieri, uscendo di casa, sono passato dal portiere. Quelle due virgole, se non ce le mettete voi, non le troverete mai nel testo che dovrete leggere. Ancora meglio, se le evidenzierete con due vistose parentesi: l’altro ieri (leggera pausa), uscendo di casa (altra pausa), sono passato dal portiere.

In presenza di una frase virgolettata, per sottolineare le parole tra virgolette, è sufficiente fare una leggera pausa e rallentare la dizione sul virgolettato: secondo il presidente Ciampi, “l’Italia non è allo sbando”.


Quando ritieni di poterti prendere una sosta, sia per rifiatare che per dare una pausa logica al discorso, separa una frase dall’altra con una doppia cesura:

 

Quando la presa di fiato è breve e la sosta dà maggiore coloritura al ritmo di lettura, intervieni graficamente con una cesura semplice:

 

Quando, invece, la pausa è solo una intenzione della voce senza alcuna presa di fiato, segna una mezza cesura tra le parole:

 

Quando t’imbatti in un sostantivo seguito da uno o più aggettivi, specialmente se uno di essi fa parte della riga successiva, unisci le parole tra loro con un breve archetto:

 

Quando t’imbatti in un inciso e ti accorgi che le virgole non sono sufficienti ad evidenziarlo, mettilo fra parentesi:

 

Quando incontri una o più frasi interrogative, fai come gli spagnoli (molto più furbi), i quali mettono un interrogativo capovolto ad inizio di frase. A te basta metterlo diritto:

 

Quando corri il rischio d’impastare le parole tra loro specie in prossimità di articoli e di preposizioni articolate (per esempio: un noto nobiluomo, la forza della Lazio e così via), sottolineale: sarà per te un segnale di pericolo.

 

Fai altrettanto con i vocaboli inusuali o di difficile articolazione che temi ti faccia sbagliare o interrompano il ritmo di lettura.

 

Se hai bisogno di aumentare il volume di voce per sottolineare una parola o una frase intera, usa questo segnale.

 

Se hai bisogno per un effetto interpretativo di diminuire il tono, il segnale è questo.

 

Se la necessità è invece quella di accelerare il tono di voce, usa quest’altro simbolo, sottolineando la parola o la frase.

 

Se, all’opposto, ti trovi nella necessità di abbassare il tono di voce, usa quest’altro segnale grafico.

 

çç

 

 

 

ç

 

 

 

 

 

 

/

 

 

 

È

 

 

 

(-)

 

 

 

?

 

 

 

¾

 

 

 

 

 

¾

 

(+++)

 

 

(---)

 

 

 

 


 

Brano ancora inedito tratto da “La casa dalle orbite vuote” di Alberto Lori.

Brano tratto dallo Spot di Mixer del 23 aprile 1994. Come quasi tutti gli spot di Mixer anche questo brano è stato scritto da Stefano Rizzelli.

Eccovi un esempio pratico:

Come la storia fosse cominciata / non lo sapeva neppure lei. êê In seguito/ quando avrebbe scavato nella memoria per rivangare i fattiÈ come si erano susseguiti,ê non avrebbe ricordato neppure che giorno fosse. êêAvrebbe ricordato soltantoÈ che era a Verona da un paio di settimaneç e come ogni giorno/ da quando era arrivata,ê vagava per la cittàÈ con la macchina fotografica,/(la mitica Pentax)/ alla ricerca di uno spunto/ - (di costume,È di cronacaÈ oppure solo di colore) -/ che le consentisse di affermareÈ di vivere per qualcosa.êê Silvia si era ritirata in provincia con la speranza/ (che in un ambiente meno dispersivo della grande metropoli),ê la sua vita cambiasse,ê (ma almeno all’inizio) / le era sembrato un tentativoÈ inutile. êê Non c’era nullaÈ che la gratificasse,ê né un impiegoÈ interessanteÈche non riusciva a trovare neppure a Verona,ç né un uomoÈ al quale valesse la pena di dedicare il suo tempo.çç Insomma,/ (per farla breve),/ Silvia considerava il bilancio dei suoi ventotto anni/ fallimentareÈ su tutta la linea

Naturalmente, questi segni convenzionali sono del tutto personali. Potreste aggiungerne altri, sia per evidenziare eventuali rischi che appartengono alla vostra sfera d’insicurezze, sia per coloriture della lettura che riguardano la sensibilità artistica di ciascuno di voi.

Mordente ed espressività

 

U

no degli aspetti meno semplici dell’emettere suoni articolati è quello della modulazione di voce. Non è per niente facile acquisire a comando mordente emotivo, ma è certo che chi è in grado di dare espressività ai propri toni di voce riesce anche ad essere convincente. Con ciò passiamo dall’aspetto puramente verbale a quello paraverbale. A questo punto assume rilevante importanza non tanto il contenuto del nostro discorso  quanto come lo diciamo.

 Mentre parliamo, ve ne sarete accorti, specialmente se stiamo narrando ad un amico un episodio che ci ha coinvolto emotivamente, la nostra voce varia più volte di tono con il risultato di non essere mai monotona. Passare da un tono all’altro di voce, da una vibrazione all’altra, significa modulare. Imparare a modulare la voce vuol dire darle vivacità, non renderla monocorde, vale a dire noiosa, monotona.

Per parlare bene, per comunicare in maniera convincente il proprio pensiero, occorre equilibrio. Non perché non ci si possa esprimere correttamente anche su un piede solo, ma per la ragione che l’equilibrio di cui parlo deve riguardare il nostro cervello. Per la precisione, i due emisferi cerebrali. L’emisfero sinistro, lo sappiamo, sovrintende il linguaggio, il pensiero astratto. Deve consentirci di usare al meglio l’hardware del linguaggio: respirazione, fonazione, casse di risonanza. L’emisfero destro sovrintende il pensiero creativo, l’espressività del linguaggio, insomma  il software, l’aspetto paraverbale e analogico del nostro modo di esprimerci. In sintesi: una bella voce non basta; è necessario che la voce abbia colore, mordente espressivo. Per qualsivoglia comunicazione è indispensabile usare il cuore non meno della testa.

Siamo partiti da un obiettivo dichiarato:  conquistare una voce piena, chiara, sicura. Ora possiamo porci un obiettivo ancora più ambizioso: una voce che sappia esprimere stati d’animo diversi e, soprattutto, sappia evocare emozioni in chi l’ascolta. In una parola, una voce in grado di affascinare.

Mi spiego meglio: con una corretta respirazione diaframmatica e un giusto equilibrio fra le varie casse armoniche in nostro possesso, dovremmo avere ottenuto una voce rotonda, corposa, che si fa sentire. In secondo luogo, se avremo imparato ad aprire la bocca e ad utilizzare i muscoli zigomatici, la nostra voce dovrebbe aver raggiunto una sufficiente chiarezza d’espressione.  Ottenere sicurezza di eloquio è un altro paio di maniche. Se dobbiamo intrattenere un pubblico senza avere alle spalle una discreta pratica, c’è il rischio che l’ansia di prestazione, la timidezza, il timor panico, c’impediscano di esprimere la nostra personalità, anche se ne abbiamo da vendere.

Vedremo di risolvere il problema della gestione dello stress prima della prestazione nel prossimo capitolo quando parleremo delle tecniche di comunicazione. Per ora vi basti mettere alla prova il test dell’autodistensione basato sul respiro 6/3/12 di cui abbiamo parlato nel primo capitolo dedicato alla respirazione.  Sicuramente questo esercizio, se lo avrete applicato con costanza, vi metterà sulla buona strada per diminuire l’ansia, ma da solo non basterà per darvi la sicurezza  cui aspirate. È necessario mettere il bavaglio, come vedremo meglio in seguito, alle cosiddette profezie autoavverantesi, tipo “non ce la farò mai”,  “non  riuscirò a spiccicar parola”,  “non mi ricordo nulla di ciò che dovrò dire” e via dicendo. Vi basti sapere per ora che, se intendete fare i facili profeti, mettete la museruola alla Cassandra che è dentro di voi e profetizzate solo eventi positivi. Vedetevi al meglio, non al peggio.

Esercitazione.  Prendete una semplice frase come questa:

buongiorno,  come stai?

Riportate su un foglio di carta una qualunque emozione con la quale potreste pronunciare questa frase: in modo rabbioso, annoiato, euforico, nervoso, addormentato, ansioso, ironico, felice, freddo, eccitato, etc. Poi, pronunciate la frase in questione intonata allo stato d’animo prescelto. Difficile?

Meno di quanto pensiate. Queste emozioni le conoscete bene. Quante volte ne siete stati preda?  Allora cercate d’immaginare  quella volta in cui vi siete arrabbiati. Riproducete nella vostra mente quel particolare stato d’animo e  pronunciate la frase. Poi ricordate quella volta in cui avete superato un esame difficile e avevate toccato il cielo con un dito per la felicità? Riproducetelo dentro di voi e pronunciate con voce squillante: “Buongiorno, come stai?”

Tutto qui. Semplice come bere un bicchier d’acqua. O meglio, sarebbe semplice per chi è dotato d’immaginazione. Il cosiddetto metodo Stanislavskij, uno dei massimi maestri di teatro del ‘900, si basa proprio su questo concetto. L’immaginazione è la pietra angolare del mestiere di attore. È, però, un cavallo pazzo che bisogna saper domare e tenere sotto controllo, altrimenti il dispendio confuso di fantasia porta alla dispersione.

“Uno dei primi concetti che Stanislavskij propone” sostiene Fausto Malcovati nel suo godibile saggio sul maestro russo, “è il se da cui secondo lui parte tutto il processo creativo: il se è la condizione fittizia in cui l’attore deve agire per rappresentare.” Se io attore immagino, non che il personaggio che interpreto, ma io stesso sono innamorato di questa donna, il mio comportamento, per quanto fittizio, provoca in me “il risveglio dell’attività creativa interiore”, costringendomi di fatto a “reagire con un’azione reale a una circostanza immaginaria. L’attore deve convincersi che quel  se è vero.

“Dovete credere” dice lo stesso Stanislavskij rivolgendosi ai suoi allievi attori, “che possa esistere una vita simile nella realtà: dovete abituarvici tanto che questa vita estranea deve diventare come vostra. Se vi riuscirà, allora spontaneamente nasceranno dentro di voi passioni vere.”

La tecnica del se è quella stessa che vi permette di trovarvi nella vostra stanza abituale cambiando per esempio l’ora: non più alle nove di sera, ma alle nove del mattino oppure cambiando stagione, non a primavera inoltrata con i primi caldi, ma in  autunno con gli spifferi gelidi che preludono all’arrivo dell’inverno. Pensate a muovervi pensando di esservi appena destati, in una stanza priva di riscaldamento, intirizziti e affamati. L’insieme delle vostre visualizzazioni, una sorta di film proiettato nella vostra mente, sarà il tessuto sul quale costruire il vostro personaggio.

Se ci ragionate sopra, il metodo Stanislavskij, oltre ad essere di facile applicazione per un attore, lo è anche per voi che attori non siete e nemmeno intendete diventarlo.

Un’opera d’arte, sia essa pittorica, scultorea, musicale o cinematografica, è convincente quando voi, davanti ad essa, provate la stessa emozione che il suo autore ha provato nel crearla. Se volete essere persuasivi nel comunicare la vostra idea, il vostro messaggio, il vostro progetto, è così che dovete fare.

Eccovi un esercizio efficace per combattere una voce poco colorita perché troppo monocorde: recitate la frase che segue con diverse tonalità, prima bassa, poi intermedia, poi alta, legando bene le parole fra loro.

Sarà bene che veniate con le migliori intenzioni se volete che

il tutto non si trasformi in una farsa dalle conseguenze inimmaginabili.

L’ultima fase dell’esercizio sta nel recitare la battuta nei diversi stati d’animo: con rabbia, con ironia, con dolcezza, con ansia e via dicendo. Registratevi e riascoltatevi.

A questo punto, fatto tesoro dei suggerimenti, mettiamoci alla prova e leggiamo un brano tratto da un classico che al liceo abbiamo sempre strapazzato: I Promessi Sposi.

 

Il palazzotto... pareva un feroce che, ritto nelle tenebre, in mezzo a una compagnia d’addormentati, vegliasse, meditando un delitto. Lucia lo vide, e rabbrividì; scese con l’occhio giù giù per la china, fino al suo paesello, guardò fisso all’estremità, scoprì la sua casetta, scoprì la chioma folta del fico che sopravanzava il muro del cortile, scoprì la finestra della sua camera; e, seduta, com’era, nel fondo della barca, posò il braccio sulla sponda, posò sul braccio la fronte, come per dormire, e pianse segretamente.

“Addio, monti sorgenti dalle acque, ed elevati al cielo; cime ineguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l’aspetto de’ suoi più familiari; torrenti, de’ quali distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendio, come branchi di pecore pascenti; addio! Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana!”

 

“Figuratevi un omino più largo che lungo, tenero e untuoso come una palla di burro, con un visino di melarosa, una bocchina che rideva sempre e una voce sottile e carezzevole, come quella di un gatto che si raccomanda al buon cuore della padrona di casa. (Collodi)

 

Un breve colpo al vetro, come se qualcosa l’urtasse, seguito da un’ampia cascatella leggera come di grani di sabbia lasciati cadere da una finestra più alta, poi la cascatella s’estendeva, diveniva regolare, prendendo ritmo, facendosi fluida, sonora, musicale, innumerevole, universale: era la pioggia. (Proust)

 

Fuori la tempesta rumoreggiava. Qualche cosa di rabbioso e cattivo, ma nello stesso tempo di profondamente triste, frustava la locanda con la furia di una belva, e cercava d’irrompere nell’interno. Facendo sbattere le porte, picchiando alle finestre e sul tetto, graffiando i muri, ora minacciava, ora implorava, ora si calmava per un momento e poi di nuovo irrompeva nel tubo della stufa con un urlo allegro e traditore; ma allora i ceppi avvampavano e il fuoco, come un cane alla catena, si protendeva furiosamente incontro al nemico; la lotta s’impegnava e dopo di essa singhiozzi, sibili, muggiti rabbiosi. (Cecov)

 

“Tu vedi!... Può essere castigo, può essere misericordia. Il sentimento che tu proverai ora per quest’uomo che t’ha offeso, sì; lo stesso sentimento, il Dio, che tu pure hai offeso, avrà per te in quel giorno. Benedicilo, e sei benedetto.” (Manzoni)

 

LE TECNICHE DI COMUNICAZIONE

 

 

A

lmeno a livello teorico abbiamo imparato la corretta pronuncia delle parole, grazie alla quale abbiamo messo il bavaglio alle nostre inflessioni dialettali. Con le regole dettate dalla corretta pronuncia dell’italiano e una buona dizione, adesso dovremmo essere in grado non solo di leggere un testo, ma anche di esprimerci senza l’ausilio di un supporto scritto. Se ciò appare semplice quando interagiamo con un amico, un collega, un conoscente, diventa più complicato se dobbiamo esibirci in pubblico.

 

Intanto è buona norma seguire un primo dettato di base: si dovrebbe parlare in pubblico soltanto se si ha qualcosa da dire, altrimenti è meglio tacere. Se, tuttavia, qualcuno di voi sente l’impulso incoercibile di dover comunicare a più di dieci persone che vi ascoltano una notizia, un progetto, un indirizzo programmatico, sarebbe un’imperdonabile stupidaggine parlare in modo da non farsi capire.

 

PARLARE IN PUBBLICO È UNA TECNICA, un insieme di regole di comportamento grazie alle quali si è in grado di persuadere l’ascoltatore della bontà di un discorso. È un’arte antica che nasce, secondo la tradizione, a Siracusa verso la metà del V secolo a.C. quando, in seguito alla caduta del tiranno Trasibulo, si assiste alla proliferazione di numerosi contenziosi concernenti il recupero da parte di privati di proprietà confiscate. È qui che abili avvocati del calibro di Corace e del suo allievo Tisia fissano i fondamenti della retorica, intesa come capacità di servirsi della lingua, con i suoi poteri di suggestione e di suscitare emozioni, per convincere il pubblico e guadagnarne il consenso. Con Aristotile la retorica, più che un’arte volta al convincimento, diventa lo studio dei mezzi di persuasione.

 

Nella tradizione greco latina la retorica si articolava in 5 punti base, peraltro validi ancora oggi:

  • Inventio, la ricerca dei contenuti di un discorso. Alla base dell’inventio ci sono ricerche, documentazioni, esperienze personali, creatività, etc.
  • Dispositio, consiste nel fissare l’ordine degli argomenti da trattare, quello che oggi definiremmo la “scaletta” degli argomenti.
  • Elocutio, serve a rendere più avvincente il modo col quale si esprimono i contenuti di un discorso e aiuta a mantenere desta l’attenzione del pubblico.
  • Memoria, è la memorizzazione del discorso. Ciò significa che è consigliabile evitare di ricorrere alla lettura, un modo di comunicare che non aiuta certo a instaurare un rapporto di confidenza con il pubblico, ma anzi toglie spontaneità ed efficacia a qualunque discorso.
  • Actio, infine, è la recitazione del discorso con l’uso della gestualità e della dizione. Ne sono punti salienti l’espressione del viso, il tono della voce, il modo di gesticolare.

 

Le cosiddette capacità affabulatorie, l’arte di parlare insomma, non si acquisiscono per diritto di nascita, s’imparano con il costante allenamento. Senza dubbio, uno dei più potenti freni che c’impediscono di parlare in pubblico, come di fare altre cose che pure ci sarebbero utili per progredire nella scalata del successo personale, siano l’ansia, la paura che nasce dall’inesperienza e dall’insicurezza. L’emozione ci prende alla gola, le tempie pulsano, la salivazione si azzera, il cuore ci batte contro lo sterno a velocità forsennata, vorremmo fuggire, trovarci miglia e miglia lontani da quella sala, ma il nostro ruolo, la nostra professionalità, c’inchiodano alla responsabilità di dover parlare. Tutte quelle persone che ci stanno davanti sono lì per noi, attendono le nostre parole per sapere come comportarsi in futuro.

 

Ricordate l’esercizio di rilassamento che vi ho insegnato all’inizio del corso? È il momento di provarne l’efficacia.

 

Dobbiamo recuperare quel tipo di respirazione profonda e tranquilla che abbiamo quando siamo seduti in poltrona, immersi nella lettura di un buon libro. Proviamo a prendere due o tre respiri profondi e lenti. Ricordiamoci, tra l’altro, che l’iperventilazione polmonare agevola una migliore ossigenazione del cervello. Ciò permette di riacquistare la lucidità mentale e di uscire dall’imbarazzante situazione di chi non ricorda nulla.

 

L’abitudine a pensare in positivo e una sana tendenza all’ottimismo restano i migliori antidoti all’ansia.

 

Cerchiamo di visualizzare nella nostra mente situazioni positive, nelle quali, in passato, abbiamo superato, grazie alla nostra abilità, situazioni conflittuali. Oppure proviamo ad immaginare in ogni dettaglio come si svolgerà la nostra performance di oratore: parole e concetti ci usciranno con facilità di bocca, coglieremo nel pubblico interesse e approvazione.

 

Una volta che avremo recuperato il senso di sicurezza, che ci deriva dalla forza dei nostri argomenti – ricordatevi sempre: siete padroni della vostra materia e nessuno può mettervi in scacco – non dimentichiamoci di dedicarci ad uno degli aspetti preliminari più importanti del rapporto con il pubblico. Non commettiamo l’errore di presentarci di fronte ad un uditorio senza sapere chi sono i destinatari del nostro messaggio. Più dettagli impareremo a conoscere dei nostri ascoltatori, più questi dettagli ci saranno utili nel coinvolgere il nostro pubblico, che avrà l’impressione di ascoltare un discorso preparato su misura per lui. Il modo migliore per tenere desta l’attenzione degli ascoltatori è di toccare i loro interessi.

 

Per ciò che riguarda i contenuti di un discorso, c’è poco da dire: per comunicare con efficacia è indispensabile avere un’idea chiara di ciò che si vuole dire e indicare con altrettanta chiarezza l’obiettivo che si desidera raggiungere. La “scaletta” che avete preparato in precedenza, ha lo stesso scopo del progetto: garantire uno svolgimento chiaro e ordinato del processo di comunicazione.

 

Dopo avere messo a fuoco il messaggio, lo si dovrà esprimere con frasi brevi e con un linguaggio semplice.

Sembra incredibile ma il più delle volte che abbiamo ascoltato oratori non eccelsi abbiamo avuto l’impressione che il loro sforzo di comunicazione fosse teso unicamente allo scopo di non farsi capire: ragionamenti astrusi, concetti involuti, paroloni usati a sproposito. È ovvio che così facendo il grafico dell’attenzione del povero ascoltatore precipiterà sotto lo zero. Al contrario, il modo più diretto per attirare l’attenzione degli altri sarà proprio quello di creare loro delle immagini, di fornire dei sostegni cui aggrapparsi per non lasciarsi andare nel marasma della noia. Se parliamo di alberi, tralasciamo di insistere sulla “forestazione”, così se facciamo riferimento al punto di vista dell’oratore precedente, per favore non discutiamo sulla sua “Weltanschaung”. La concretezza della nostra esposizione indurrà gli ascoltatori a non pensare che ci arrampichiamo sugli specchi, ma, anzi, penseranno che le nostre idee sono chiare, come è chiaro e realista il nostro modo di esprimerci.

 

Per mantenerci nell’alveo della semplicità dei concetti sarà meglio dimenticare di ricorrere al gergo. Se ci affidiamo di continuo a parole, frasi, prese a piene mani dal gergo della materia di cui siamo specialisti facciamo come colui che vuole rimpinzare il suo hamburger di troppa mostarda o di sugo di pomodoro con il risultato non solo di sporcarsi la cravatta o la camicia, ma anche di irrorare di schizzi il suo malcapitato interlocutore.

Al di là della metafora, il ricorso al gergo o alle locuzioni straniere o alle frasi fatte o ai luoghi comuni, dimostra soltanto la povertà delle nostre idee unita alla superficialità e pigrizia mentale. Meglio ricorrere ad una metafora che almeno strapperà un sorriso e si farà ricordare dal nostro uditorio meglio di tanti paroloni dal significato spesso ermetico.

Per farvi un esempio, se siete un politico, lasciate da parte il politichese del tipo: l’attuale assetto politico-istituzionale presuppone l’accorpamento delle funzioni e il decentramento decisionale, implementando nella misura in cui ciò sia fattibile l’appianamento delle discrasie esistenti.

Se poi siete un assessore al comune, liberatevi dalle lusinghe del burocratese. Se discutete di aumentare il numero degli accalappiacani per porre un freno al randagismo, evitate di chiamarli ogni volta che se ne presenta l’occasione “nucleo mobile di operatori professionali d’igiene veterinaria”. Esprimetevi con semplicità e lasciate parlare i fatti.

 

Un elemento importante da non sottovalutare quando si parla in pubblico è la cosiddetta verve, la vivacità d’espressione, la capacità di un eloquio brillante e coinvolgente. Anche l’argomento più interessante finisce nel tritacarne della noia se l’esposizione è fatta con voce monocorde, senza coloriture, improvvise accelerazioni, rallentamenti, pause, uso della gestualità. Se avete problemi ortoepici e fate confusioni sull’uso corretto delle “E” e delle “O” aperte e chiuse, non preoccupatevene. Se avete inflessioni dialettali, altrettanto. Quello che è importante per voi è la corretta articolazione delle parole. Dovete solo farvi intendere ed essere comprensibili. I vostri difetti e le sfumature di vernacolo aggiungeranno colore al vostro eloquio.

In secondo luogo, partiamo dal presupposto che la nostra voce non abbia difetti che possa renderla insopportabile a chi ci ascolta: sappiamo distribuire i nostri fiati, sappiamo articolare bene consonanti e sillabe, non abbiamo una voce né flebile né stridula, gutturale o nasale. Possiamo quindi dedicarci alla valorizzazione dei diversi elementi espressivi che dovranno caratterizzare la nostra emissione di voce.

 

VOLUME: ormai dovremmo averlo imparato. È la sonorità di un suono, in relazione alla quantità d’aria immessa nei polmoni necessaria per ottenere quel suono. L’intensità è data dal grado di forza emozionale che le parole riescono a trasmettere.

 

TONO: è la capacità di passare da una vibrazione di voce intermedia ad una più alta o ad una più bassa. Solo in questo modo, toni diversi, modulati con efficacia e armoniosità, sono in grado di esaltare quelle parti del discorso che consideriamo più rilevanti.

 

COLORE: è la capacità espressiva per antonomasia. Chi è in grado di modulare la propria voce variandone le inflessioni, sa anche esprimere un’emozione, uno stato d’animo. L’assenza di colore in una voce è l’anticamera dell’anestesia. Non dite che non siete capaci di colorire i vostri toni di voce. Fate mente locale: quando raccontate ad un amico, ad un familiare, un episodio di vita vissuta particolarmente divertente o soltanto interessante, la vostra voce assume senza sforzo ritmi, inflessioni e toni diversificati che vanno a sottolineare i vari aspetti della vostra esperienza. È esattamente quello che dovete fare quando parlate davanti a un pubblico di estranei. Di tanto in tanto, inframmezzate la vostra esposizione di fatti ed eventi che vi sono accaduti personalmente. Sono le vostre esperienze personali che interesseranno maggiormente il pubblico, perché niente coinvolge di più degli esempi concreti.

 

Dobbiamo essere realisti, per quanto le nostre informazioni possano suscitare interesse, la memoria di chi ci ascolta tende a selezionare le notizie e a ricordare soltanto lo stretto necessario. Tutti i test effettuati sui meccanismi della memoria, riportano dati sconcertanti. In media, si ricorda soltanto una minima parte di ciò che si ascolta, anche se il conferenziere è in gamba; se esiste il supporto di audiovisivi, la cifra può aumentare, ma non di molto. Mettiamoci quindi il cuore in pace: qualsiasi discorso faremo, gran parte di ciò che diremo andrà comunque dispersa al vento. Il vero segreto non è di esporre il maggior numero di concetti, ma di esporre, sempre in maniera diversa, pochi concetti. La formula di una buona comunicazione verbale è tutta qui.

 

CONSIGLI UTILI

 

La forma più semplice di comunicazione è il colloquio fra due persone. Spesso nel corso di una conversazione c’illudiamo che tutto quello che desideriamo esprimere venga automaticamente recepito, compreso e memorizzato dalla persona che ci sta di fronte. È un’illusione pericolosa che può compromettere l’esito di un incontro. Il fenomeno della dispersione è infatti molto più intenso di quanto si pensi.

 

Recenti studi su questo tema hanno dato risultati sorprendenti. Paragoniamo a 100 il messaggio integrale che vogliamo inviare. La traduzione verbale del nostro pensiero, con la ricerca mentale delle parole più adeguate e la necessità di mantenere scorrevole il discorso, comportano una prima dispersione media del 20%. L’emittente, dunque, riesce di solito ad esprimere, con maggiore o minore chiarezza, solo l’80% di ciò che avrebbe desiderato dire. La ricezione da parte dell’interlocutore determina un’ulteriore dispersione. In questo caso intervengono fattori di carattere fisico o psicologico: distrazione, differente significato attribuito ad alcune parole, difficoltà d’ascolto, rifiuto psicologico di concetti che evocano situazioni sgradite, eccetera. In media la ricezione è pari al 50% di ciò che l’emittente intendeva comunicare. A distanza di qualche giorno, è poi probabile che la controparte ricordi solo il 20% di quanto ascoltato nel corso del colloquio e riesca a ripetere non più del 10% della conversazione.

 

Contro il rischio della dispersione è indispensabile esprimersi in modo chiaro evitando le frasi ambigue. È bene giungere al colloquio (non solo puntuali, curati nell’aspetto, eleganti ma non appariscenti) preparati, avendo riflettuto sulle domande da porre.

Lo sguardo è il primo mezzo espressivo della persona. È con lo sguardo che si stabilisce il contatto con l’interlocutore, suscitando simpatia e fiducia o, al contrario, ostilità e diffidenza. Nel corso del colloquio non si deve mai commettere l’errore di evitare lo sguardo dell’interlocutore, concentrando altrove la propria attenzione. È necessario, invece, guardare direttamente negli occhi chi ci parla, in modo franco e amichevole. La persona che evita lo sguardo, di solito è giudicata fredda, pessimista, inaffidabile.

Il naturale complemento dello sguardo è il sorriso. Il sorriso comunica all’interlocutore che lo si trova simpatico e, in base alla legge della simmetria, anche la controparte sarà indotta a un atteggiamento cordiale nei nostri confronti. La voce deve rassicurare l’interlocutore con un tono gradevole, nitido, sciolto e fluido. I gesti devono infine rafforzare i contenuti del discorso. Devono essere calmi e misurati. Movimenti troppo rapidi, brevi e secchi infastidiscono l’interlocutore.

 

Un consiglio a chi desidera fare l’intrattenitore radiofonico. Se volete rendere particolarmente accattivante il tono della vostra voce, sorridete mentre parlate. È un metodo infallibile. Non urlate al microfono. Se usate un volume troppo alto per parlare al microfono di una radio o anche alla cornetta di un telefono, sappiate che finirete per indisporre chi vi ascolta. Per ottenere, al contrario un tono più caldo e coinvolgente, è sufficiente abbassare lievemente il volume della propria voce.

 

Un consiglio a chi parla in televisione, inquadrato da una telecamera. Ve l’ho già detto: guardate sempre nell’obiettivo; chi sta a casa penserà che state parlando direttamente a lui. Siate cordiali e sorridenti, proprio come se vi rivolgeste ad un amico. Se vi mostrate impacciati, rigidi, tesi, la telecamera ingigantirà questi difetti e farete una figura barbina. Fate attenzione al linguaggio che usate: deve essere alla portata di tutti. Parole semplici e chiare, frasi brevi di senso compiuto. Non imbarcatevi in discorsi astrusi, di difficile comprensione. Ricordatevi sempre che il teleutente ha in mano il telecomando e il passaggio da un canale all’altro è facilissimo.

 

Tratto da “Stanislavskij. Vita opere e metodo” di Fausto Malcovati. GLF Editori Laterza. 1988.

 

Fonte: http://www.lateledipenelope.it/public/Dispensa%20Dizione%20-%20Alberto%20Lori.doc

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Autore del testo: Master di Public Speaking di A. Lori L’ARCHIVIO www.artedellacomunicazione.com

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