Dispensa chimica ambientale e ecologia

Dispensa chimica ambientale e ecologia

 

 

 

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Dispensa chimica ambientale e ecologia

Introduzione

Il termine inquinamento si riferisce ad un'alterazione di una caratteristica ambientale causata da attività antropica. Generalmente si parla di inquinamento quando l'alterazione ambientale compromette l'ecosistema danneggiando una o più forme di vita. Quando si parla di sostanze inquinanti solitamente ci si riferisce a prodotti della lavorazione industriale (o dell'agricoltura industriale).

 “Ennesimo superamento dei valori soglia…”, “aumento abnorme del PM10”, “domani stop alle auto non catalitiche”,“non piove, si prevede un blocco totale del traffico”. Ecco qualche esempio di titoli di giornale a cui ci siamo ormai abituati. E non solo in considerazione dei disagi che comporta il divieto di circolazione, ma anche perché di fronte a una realtà così allarmante viene a tutti da chiedersi quale sarà il nostro destino, quanti rischi corriamo e se esista una soluzione alternativa all’utilizzo di sistemi di trasporto, produzione e riscaldamento che danneggiano l’ambiente. Purtroppo sembrano ancora remote le prospettive di una soluzione efficace e non ci resta che cercare nel nostro piccolo di dare un contributo alla salute di tutti, lasciando magari più spesso l’automobile in garage e riscoprendo il piacere – oltre che il vantaggio per la salute - di passeggiare.

L’inquinamento dell’aria focalizza la maggior parte dell’attenzione collettiva, ma non è l’unica forma di contaminazione ambientale: anche l’acqua e la terra – e da qui le coltivazioni, gli allevamenti e, in ultima analisi, i vari prodotti alimentari – sono uno dei “bersagli” più vulnerabili e diretti delle sostanze tossiche che, una volta emesse nell’ambiente, si disperdono per poi essere assorbite e spesso nuovamente concentrate dalle piante, dai pesci e più in generale dagli organismi viventi.

All’inquinamento chimico si aggiungono poi due forme altrettanto importanti: l’inquinamento acustico e quello elettromagnetico, meglio conosciuto come elettrosmog, dovuto a linee di alta tensione, antenne e apparati per le telecomunicazioni, dispositivi industriali e sanitari nonché comuni elettrodomestici.

Esistono un inquinamento a livello locale e uno a livello globale. In passato si pensava che solo il primo costituisse un problema. Negli ultimi decenni ci si è resi conto che alcuni tipi di inquinamento costituiscono un problema globale. Per esempio i test nucleari, hanno consistentemente alzato il livello di radiazione di fondo in tutto il mondo, cosa che può portare a problemi di salute.

Negli ultimi anni è sotto gli occhi la “tropicalizzazione” del clima. L’ultimo anno trascorso, caratterizzato da alluvioni, esondazioni e frane nel periodo autunnale e da una caldo elevato ci fa rendere conto che, molto probabilmente, come recita il titolo di una canzone di Bob Dylan, “i tempi stanno cambiando”. Rispetto all’inizio del 1900, infatti, la temperatura media della Terra è aumentata di circa 0,6 °C, questo ha portato alla riduzione di circa il 10% dei ghiacciai, all’incremento della temperatura dei mari, tra cui il Mediterraneo, dove si osserva ora la presenza di specie di pesci tropicali, e a una modificazione dell’inverno, nel senso di una diminuzione dei giorni di gelo e a una tendenza verso temperature più miti e costanti. Le precipitazioni, tra l’altro, non sono cambiate in quantità, ma si è osservato un aumento del 2-4% della frequenza delle piogge torrenziali, responsabili di allagamenti, smottamenti e devastazioni, soprattutto dopo lunghi periodi di siccità.

Ma da cosa dipende quella che è stata giustamente definita come “la febbre del pianeta malato”? I dati indicano un aumento delle emissioni di CO2 (anidride carbonica) di 1,5 ppm per anno nell’ultimo ventennio e più recentemente tale aumento ha raggiungo valori ancora più elevati, tra 0,9 e 2,8 ppm. Ed è aumentata anche la concentrazione di biossido di azoto (NO2) e di ozono, responsabili del noto “effetto serra”. Si stima pertanto che, se non si verificherà un’inversione di tendenza, nei prossimi 100 anni si osserverà un ulteriore incremento della temperatura di 1,4-5,8 °C. Una variazione mai documentata negli ultimi 10.000 anni dagli studi scientifici, che porterà inevitabilmente a un aumento delle malattie cardiovascolari, respiratorie e allergiche, a una più elevata mortalità dovuta a “eventi climatici estremi” e a una variazione della diffusione e della tipologia delle malattie infettive a livello mondiale. Senza poi considerare che la vita sulla Terra è legata a una serie di delicati equilibri che, se le previsioni diventeranno realtà, saranno irrimediabilmente compromessi.


MODULO 1 L’INQUINAMENTO ATMOSFERICO

 

L’inquinamento atmosferico urbano

Il termine “inquinamento atmosferico” indica un insieme di sostanze chimiche (per esempio derivati del fumo di tabacco, metalli pesanti, prodotti industriali) e biologiche (acari, spore fungine, virus e così via) presenti nell’aria, sia negli ambienti esterni che in quelli interni (abitazioni, uffici, luoghi pubblici e così via). Benché oggi sia questo un tema di particolare gravità, i problemi legati all’inquinamento sono tutt’altro che recenti: nell’antica Roma il poeta Orazio si lamentava degli edifici anneriti dalla fuliggine, e il filosofo Seneca si rallegrava del miglioramento del proprio stato di salute dopo essersi allontanato dalla città. Prima i forni a carbone, già in uso nel XIII secolo, poi i fumi delle prime fabbriche, con l’avvento della Rivoluzione industriale alla fine del 1700, fino alle prime osservazioni, nel 1860 ad opera del medico londinese Henry Hyde Salter, sull’associazione tra “aria impura” e malattie respiratorie. Non è insomma difficile trovare documenti che dimostrano come l’uomo abbia sempre sfruttato le risorse naturali, senza prestare troppo riguardo nei confronti della natura e soprattutto alle ripercussioni dell’inquinamento sulla stessa salute. Proprio a tale riguardo negli anni 50 incominciarono ad emergere a Londra i primi casi di morte dovute all’inquinamento, che hanno purtroppo registrato un costante incremento parallelamente all’aumento inarrestabile del numero di veicoli a motore. Lo stesso effetto che si è riscontrato, qualche decennio dopo, in quelle regioni, come l’Europa dell’Est e l’estremo Oriente, in cui la crescita delle auto è stata più tardiva ma altrettanto imponente dei paesi occidentali.

 

I principali inquinanti

In tutti i casi di inquinamento possiamo individuare delle sorgenti (i produttori) e dei recettori. Gli effetti sui recettori sono differenti a seconda dei tempi di esposizione, brevi (secondi-minuti), medi (ore-giorni) o lunghi (mesi-anni).

Per quanto riguarda la tossicità sull'uomo, uno dei parametri più utilizzati è il cosiddetto LD50, ovvero la dose che uccide il 50% di individui sottoposti a tale dose. Le unità di misura dei LD50 sono milligrammi di sostanza per kilogrammo di peso dell'individuo: è una misura della tossicità acuta.
In base a questo parametro le sostanze si dividono in:

  • scarsamente tossiche (ad esempio l'alcool etilico, LD50 = 10000 mg/kg);
  • moderatamente tossiche (ad es. il sale da cucina, LD50 = 4000 mg/kg);
  • molto tossiche (ad es. DDT, LD50 = 100 mg/kg);
  • super tossiche (ad es. tossina del botulino, LD50 = 0,00001 mg/kg).

Per quanto riguarda la tossicità cronica possiamo invece individuare:

  • sostanze cancerogene, in grado di provocare il cancro. Sono poche le sostanze scientificamente dimostrate essere cancerogene, tra esse ricordiamo fibre di amianto, composti del cromo esavalente, cloruro di vinile, benzo(a)pirene (un tipo di diossina, catrame nel fumo di sigarette, raggi X e UV;
  • sostanze teratogene, in grado di provocare malformazione sui feti; tra queste: mercurio metile, composti del piombo, alcool, dietilstilbestrol (DES), talidomide, raggi X;
  • sostanze mutagene, in grado di innescare delle mutazioni che possono portare al cancro; tra queste: composti di piombo e mercurio, benzo(a)pirene, gas nervino, raggi X e UV.

Gli inquinanti dell’atmosfera sono innumerevoli, ma per semplificare li raggrupperemo in tre principali categorie:

• sostanze chimiche volatili (cioè sospese nell’aria)

• particolati aerodispersi (polveri)

• metalli pesanti.

Inoltre si è soliti distinguere lo smog, composto dai sopraccitati inquinanti, in 2 categorie:

smog classico, dovuto all'azione di biossido di zolfo e particolato nelle prime ore del mattino in condizioni di bassa insolazione, bassa velocità del vento e temperatura vicina a 0°C (quindi nella stagione autunnale ed invernale).

smog fotochimico, legato all'azione di ossidi di azoto, ossido di carbonio, ozono ed altri composti organici volatili sotto l'azione della radiazione solare.

Lo smog fotochimico si verifica in estate nelle ore centrali della giornata in presenza di alta insolazione, bassa velocità del vento, temperatura superiore a 18°C. Rispetto allo smog classico, quello fotochimico, per quanto irritante e fastidioso, è meno pericoloso per la salute.

 

Sostanze chimiche Volatili

Il benzene

Il benzene, appartenente alla famiglia degli idrocarburi, è una sostanza chimica liquida ed incolore dal caratteristico odore aromatico pungente. Deriva da processi di combustione sia naturali (incendi boschivi, emissioni vulcaniche) che artificiali (emissioni industriali, gas di scarico di veicoli a motore, impianti di riscaldamento e così via). Nell’aria dei centri urbani la sua presenza è dovuta quasi esclusivamente alle attività di origine umana, con oltre il 90% delle emissioni attribuibili alle produzioni legate al ciclo della benzina: raffinazione, distribuzione dei carburanti e soprattutto traffico veicolare, che da solo incide per circa l’80% sul totale. Il benzene viene rilasciato dagli autoveicoli in misura prevalente attraverso i gas di scarico e più limitatamente tramite l’evaporazione della benzina dalle vetture nelle fasi di trasporto, stoccaggio e rifornimento nonché nei momenti di marcia e arresto, compresa la sosta prolungata in un parcheggio. L’impiego della marmitta catalitica e la riformulazione delle benzine riducono sensibilmente il livello di benzene nei gas di scarico delle automobili. Il benzene è presente anche nel fumo di sigaretta, che costituisce la prima fonte di contaminazione degli ambienti chiusi: basta pensare che chi fuma 20 sigarette al giorno inala una quantità di benzene molto più elevata anche rispetto a chi si trova esposto a questa sostanza lungo strade molto trafficate per diverse ore al giorno e che nelle abitazioni di fumatori la concentrazione ambientale di benzene è del 30-35% superiore a quella delle abitazioni dei non fumatori.

L’ossido (o monossido) di carbonio (CO)

E’ l’inquinante quantitativamente più importante. Il 90% del monossido di carbonio proviene dalle emissioni di gas di scarico dei motori a benzina ma anche da stufe e fornelli. E’ un gas incolore ed inodore ma estremamente nocivo, in quanto si lega stabilmente al principale trasportatore dell’ossigeno presente nel nostro organismo, l’emoglobina, bloccandone così la funzione.

Gli ossidi di azoto

Sono una serie di composti gassosi, di cui il più noto è il biossido di azoto (NO2), derivanti principalmente dalla combustione sia di impianti industriali che di veicoli a motore.

Gli ossidi di zolfo

Sono il biossido (SO2) e il triossido (SO3) di zolfo, che derivano da processi di combustione del petrolio e possono presentarsi sotto forma di particelle aerosoliche, come l’anidride solforosa, responsabili delle cosiddette “piogge acide”. Il loro livello nell’aria è un indicatore del traffico veicolare.

L’ozono (O3)

E’ il componente più importante del cosiddetto “smog estivo” e, come suggerisce la sua stessa formula chimica, è costituito dall’unione di tre atomi di ossigeno. Qualcuno però potrebbe giustamente avanzare un quesito. Perché considerarlo un inquinante se è proprio l’ozono il principale sistema naturale che protegge il nostro pianeta dai raggi ultravioletti? In realtà di ozono se ne trova “troppo nel posto sbagliato. L’ozono che si forma al suolo soprattutto in tarda mattinata-primo pomeriggio a causa dell’interazione dei raggi ultravioletti con i composti dell’azoto (NO2 in particolare) e gli idrocarburi emessi dai veicoli a motore, infatti, non ha nulla che vedere con quello presente nella stratosfera, tra 15 e 30 chilometri di altezza, che invece filtra i raggi del sole. L’aumento di questo tipo di ozono, soprattutto nelle città, può avere serie ripercussioni sia sull’uomo causando problemi di salute (irritazione alle vie aeree - da cui la frequente raccomandazione a bambini e anziani di non uscire nelle ore centrali della giornata - abbassamento della soglia di risposta delle mucose respiratorie agli stimoli ambientali, riduzione della capacità di compiere sforzi fisici…) sia sull’ambiente che ci circonda. E’ dimostrato, infatti, che favorisce la ridistribuzione della vegetazione, portando piante allergeniche, a “colonizzare” regioni in cui prima erano meno diffuse o del tutto assenti.

 

Particolati aerodispersi

I particolati aerodispersi sono le cosiddette “polveri fini”, una miscela di particelle solide e liquide sospese nell’aria, le cui costituenti variano per composizione e origine. Le particelle più piccole si trovano sotto forma di aerosol e in base alla loro massa vengono distinte in pm 2,5 (particelle con diametro inferiore a 2,5 micron – 1 micron = 1 millesimo di millimetro) e pm 10 (particelle con diametro compreso tra 2,5 e 10 micron).

 

Metalli pesanti

L'inquinamento da metalli pesanti, quali piombo, cadmio, cromo, mercurio, cromo e manganese, è strettamente legato alle attività industriali e di combustione che ne procurano la dispersione nell’ambiente. I metalli pesanti sono contenuti nelle vernici, in prodotti di finitura, nei materiali plastici in PVC, nel fumo di sigaretta e dei motori a scoppio, nella polvere domestica in cui si è depositato lo smog. Esistono inoltre numerosi dati sperimentali a sostegno del fatto che i vari inquinanti si potenziano reciprocamente nella loro azione tossica e distruttiva: sia l’anidride solforosa che il biossido di azoto, per esempio, agiscono in sinergia con il benzopirene, un idrocarburo altamente cancerogeno che si libera dalla combustione. E non è tutto. Le ultime ricerche dimostrano che il particolato degli scarichi dei motori diesel modificano le proprietà dei granuli di polline, rendendoli più allergizzanti. Un’indagine condotta in Svizzera, Austria e Germania aveva concluso che l'inquinamento atmosferico sarebbe responsabile del 6% delle morti complessive e il suo costo per quanto riguarda la salute pubblica ammonterebbe a circa 700 euro l'anno a persona. L’Italia non si discosta dagli altri paesi. Negli ultimi dieci anni si è infatti registrato un progressivo incremento nell’atmosfera delle aree urbane dei cosiddetti particolati respirabili, sostanze inquinanti a cui contribuiscono soprattutto gli scarichi dei motori diesel (diesel exhaust particles, DEP), il cui uso per i veicoli privati era stato addirittura incoraggiato dai governi di molte nazioni verso la fine degli anni Ottanta. Le emissioni diesel sono costituite da una mistura complessa di particelle di carbone di dimensioni tali da raggiungere i polmoni (1-2 micron, pari cioè a 1-2 millesimi di millimetro) e in grado di “assorbire” e trasportare sostanze inquinanti come il biossido di azoto, aldeidi, ossido di carbonio e idrocarburi aromatici policiclici. Molti studi hanno infatti dimostrato una relazione tra concentrazione di questi particolati respirabili nell’atmosfera e incidenza di asma e di altre malattie respiratorie. Si calcola che lo smog sia causa di almeno dieci morti al giorno, 3.500 l'anno. A questi numeri si aggiungono poi 1.900 ricoveri per disturbi respiratori, 2.700 ricoveri per disturbi cardiovascolari, 31.500 attacchi di bronchite acuta nei bambini, 30.000 attacchi di asma nei bambini. Uno studio del Centro Europeo Ambiente e Salute dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) nelle 8 maggiori città italiane ha rivelato che nella popolazione di oltre trenta anni, il 4,7% di tutti i decessi osservati nel 1998, pari a 3.472 casi, e il 28,6% di tutte le bronchiti acute nei bambini sono dovute all'inquinamento da polveri, in particolare al pm10, che in tutte le 8 grandi città italiane monitorate nello studio supera abbondantemente i livelli di guardia, 40 microgrammi al metro cubo mcg/mc. Secondo le stime dell’OMS, inoltre, abbassando l'inquinamento a 40 mcg/mc si eviterebbero circa 2.000 morti, riducendolo a 30 mcg/mc si eviterebbero 3.500 morti e arrivando a 20 mcg/mc si salverebbero ben 5.500 vite.

 

L’inquinamento indoor

Per inquinamento indoor si intende "la presenza nell’aria di ambienti confinati di contaminanti fisici, chimici e biologici non presenti naturalmente nell’aria esterna di sistemi ecologici di elevata qualità". L’inquinamento indoor non è da sottovalutare, se si pensa che l’uomo moderno trascorre oltre l’80% del proprio tempo all’interno di edifici, nei quali la composizione dell’atmosfera è simile a quella esterna ma con la presenza aggiuntiva di una serie di agenti inquinanti derivanti proprio da fonti “interne” quali:

• materiali da costruzione

• impianti di riscaldamento, condizionamento e cottura dei cibi

• radiazioni (ultraviolette, campi elettromagnetici)

• arredi

• rivestimenti (pitture murali, vernici, pavimenti e così via)

• prodotti per la manutenzione e la pulizia (detersivi, insetticidi, disinfettanti)

• presenza di acari, muffe, virus e batteri

Il rischio per la salute dipende dalla concentrazione (quantità per m3) e dall’esposizione (tempo di permanenza nell’ambiente) che cambiano a seconda dei singoli individui e che rende di conseguenza difficile individuare delle soglie di allarme come succede per l’inquinamento outdoor. Lo stile di vita che ognuno di noi ha, ad esempio, può influenzare di molto il livello dell’inquinamento indoor: alcuni composti chimici presenti in prodotti per la pulizia domestica, per esempio, malgrado l’efficacia sotto il profilo dell’igienizzazione e della detersione, possono aumentare il rischio di sensibilizzazione a sostanze derivanti da acari, scarafaggi e animali domestici, possedere finestre con i doppi vetri ottime come isolante contro il freddo, “sigillano” gli ambienti, riducendo la ventilazione naturale e aumentando di conseguenza i livelli di umidità interna e inquinanti chimici.

 

Inquinamento da fumo di sigaretta

Un approfondimento a parte merita l’inquinamento causato dal fumo di sigaretta sia per i fumatori in prima persona sia per chi subisce il fumo passivo. Si stima che i fumatori siano un miliardo e cento milioni, pari a un terzo degli abitanti della Terra: ogni anno consumano in media 1660 sigarette a testa, equivalenti a 6.500 grammi di tabacco.

In Italia i fumatori sono 13 milioni, pari al 31% degli uomini e al 29% delle donne. Ma qual è il “prezzo” del fumo? Per questa causa una persona muore ogni secondo (3.500.000 ogni anno; in Italia si verifica un decesso ogni 7-8 minuti, 90.000 in un anno) e, se la situazione non cambierà, si prevede che nel 2025 le morti aumenteranno di 3 volte. Il fumo di sigaretta, d’altra parte, contiene più di 4000 composti nocivi, di cui ne sono stati classificati 42 come cancerogeni. La nicotina è una delle principali sostanze responsabili degli effetti del fumo. Ogni sigaretta ne contiene circa 10-20 milligrammi (1 mg se “leggera”). Impiega soltanto 8 secondi, una volta inalata, per raggiungere il cervello e gli altri organi, e viene eliminata nelle urine. Tre aspetti meritano inoltre di essere evidenziati:

1. Non c’è organo o tessuto del corpo umano (nemmeno capelli, unghie, pelle e denti) che non risenta degli effetti tossici del fumo!

2. Il fumo non è dannoso solo per chi lo aspira direttamente dalla sigaretta (fumo attivo) ma anche per chi lo subisce (fumo passivo)

3. Il fumo favorisce l’invecchiamento e riduce la sopravvivenza: una sigaretta accorcia la vita di 3-5 minuti e ogni settimana di fumo di 1 giorno.

(ulteriore approfondimento segue nella sezione dedicata ai danni legati all’inquinamento).

 

L’inquinamento acustico

Chi vive nelle grandi città probabilmente non fa più caso a sirene, antifurti, cantieri e altre fonti di rumore.

Si definisce pertanto “inquinamento acustico” l'introduzione di rumore nell'ambiente abitativo o nell'ambiente esterno tale da provocare fastidio o disturbo al riposo ed ad altre attività umane, pericolo per la salute umana, deterioramento degli ecosistemi, dei beni materiali, dei monumenti, dell'ambiente abitativo o dell'ambiente esterno.

Il rumore, tra l’altro, riduce le prestazioni psicofisiche, e quindi la concentrazione, e oltre a essere dannoso per il benessere di chiunque, costituisce un fattore di rischio per la donna in gravidanza (alcuni studi hanno infatti dimostrato il suo impatto negativo sul feto e perfino la probabilità di danni genetici). L’esposizione prolungata, come nel caso di particolari categorie di lavoratori, comporta inoltre lesioni progressive e permanenti a carico dell’apparato uditivo, fino alla sordità vera e propria.

Alcune regole possono contribuire a limitare i danni causati da livelli eccessivi del rumore:

- Evitare se possibile le strade più trafficate nelle ore di punta.

- L’ascolto della musica ha certamente un effetto rilassante, purché il volume sia opportunamente moderato. Possono essere nocive, per esempio, le casse acustiche negli abitacoli delle automobili, che amplificano in particolare i suoni di bassa frequenza, creando un potente “effetto discoteca”.

- Un fattore di pericolo sono gli aerei a reazione, in particolare in fase di decollo e atterraggio. Per chi abita vicino a un aeroporto sarebbe opportuno far ricorso ad adeguati sistemi di insonorizzazione, come l’installazione di doppi vetri e l’utilizzo di opportuni pannelli isolanti.

- Anche la metropolitana produce notevole rumore, che può superare i 100 decibel. Durante il viaggio è quindi opportuno che i finestrini siano chiusi.

- Una delle situazioni più frequenti sono i lavori di muratura e ristrutturazione che capita di dover sopportare a chi abita in un condominio. In questo caso non esistono alternative – purché siano rispettati gli orari previsti dal regolamento dello stabile – e sarebbe bene trascorrere la maggior parte della giornata lontano dalla propria abitazione oppure nella stanza meno rumorosa, in attesa che torni

un’accettabile condizione di tranquillità.

- In caso di utilizzo di attrezzi rumorosi (trapano, smerigliatrice, sega elettrica e così via) indossare una cuffia protettiva.

- E’ fondamentale interpellare il proprio curante o uno specialista in medicina del lavoro nel caso in cui i soggetti svolgano una professione che comporta una lunga esposizione a rumori di notevole intensità.

 

L’inquinamento da campo elettromagnetico (EMF)

Il progresso e l’evoluzione tecnologica hanno esposto tutti noi fin da prima della nascita ad una molteplicità di campi elettrici e magnetici e ancora oggi risulta difficile stabilirne i possibili effetti.

Un campo elettromagnetico è composto da due componenti, il campo elettrico e quello magnetico. Il campo elettrico è generato dalla presenza di una carica elettrica ed è determinato da una differenza di potenza. Quando l’elettricità viene creata si sviluppano dei campi magnetici per la presenza di numerose cariche elettriche. E’ la corrente a determinare l’intensità del campo magnetico. Le fonti più importanti di esposizione a EMF comprendono la creazione, la veicolazione e l’uso in ambienti residenziali ed industriali dell’energia elettrica, le telecomunicazioni e l’emissione dei segnali radiotelevisivi. Inoltre tutti i dispositivi dotati di cavi elettrici sono sorgenti potenziali di EMF a frequenza di rete. Sebbene l’esposizione predominante sia determinata dalle correnti alternate, si è spesso anche esposti ad un miscuglio di frequenze determinati dall’apertura e dalla chiusura di circuiti legati a strumenti di uso quotidiano come monitor televisivi o di computer, videogiochi elettrodomestici; un uso che spesso è inappropriato e/o eccessivo.

 


CASO DI STUDIO L’ENICHEM DI MANFREDONIA

Tutto cominciò l'ultima domenica di settembre di trent’anni fa. La gente andava ancora al mare perché qui, sulle sponde del Gargano, l'estate finisce quasi sempre in autunno inoltrato. In città ci si apprestava alla consueta passeggiata in centro quando, verso le undici del mattino, si sentì un boato. Era «simile a un tuono», ricordano i testimoni, e veniva dal petrolchimico. Molti però non ci fecero caso, perché sembrava uno dei tanti «botti» già sentiti in passato e provenienti dal solito posto. Non destò paura neanche la nuvola che si alzò nel cielo dopo lo scoppio. Era giorno di festa ma in fabbrica (situata sul golfo, a meno di un chilometro dal centro abitato), c'erano molti operai che lavoravano. Un centinaio rimasero intossicati e furono portati all'ospedale. Con loro anche una trentina di abitanti che si erano recati sul posto per vedere cosa era successo. Era accaduto l'inferno, ma l'azienda tranquillizzò tutti. L'esplosione di una «colonna di lavaggio dell'ammoniaca» aveva provocato la fuoriuscita di 10 tonnellate di anidride arseniosa, 60 di acqua e 18 di anidride carbonica. Tali sostanze ricaddero in gran parte nei pressi dello stabilimento e in parte vennero spinte verso ovest dal vento, ma per i dirigenti dell'Anic (che poi diventerà Enichem) non era successo niente di grave.

Al cronista della Gazzetta del mezzogiorno, spiegarono che lo «scoppio, causato da un incidente tecnico, non aveva provocato alcun danno, e che quella nube non era né più né meno che l'effetto che si ha accendendo una sigaretta». Questo venne ripetuto per giorni ai lavoratori, tanto che la direzione dello stabilimento impiegò un numero consistente di operai alle attività di pulizia degli impianti per la rimozione delle polveri fuoriuscite compreso l’arsenico, senza adottare nessuna cautela: gli operai furono messi a lavorare in diretto contatto con la sostanza, pur essendone nota già da tempo la tossicità. Questa non curanza portò alla morte di diverse decine di operai, specialmente nell’indotto, essendo stati impiegati per i lavori più esposti alla nocività dell’arsenico.

E questo credette anche Nicola Lovecchio, operaio simbolo di questa storia. Una storia che non potremmo raccontare se l'ex capoturno del «magazzino fertilizzanti», ucciso da un tumore a 50 anni, non avesse deciso di andare «fino in fondo» prima di morire. E' infatti grazie alla sua inchiesta, che fu aperta una inchiesta che ha portato al rinvio a giudizio di dieci dirigenti e due medici imputati di omicidio colposo plurimo, lesioni plurime e disastro ambientale per l’esposizione prolungata (circa 6 anni) dei lavoratori alle sostanze tossiche liberatesi dopo l’incidente.

La fabbrica era stata pesantemente contaminata dall'anidride arseniosa e da altri veleni, ma non venne mai fermata del tutto, neanche quando, di fronte all'evidenza, l'azienda si era resa conto che la situazione era molto più grave di quanto non voleva ammettere pubblicamente. E infatti continuò a non dire nulla agli operai, violando così  l'obbligo di informarli del rischio derivante dall'esposizione ai composti arsenicati. All'opera di bonifica, in sé pericolosa in quanto comportante contatto con polveri d'arsenico tossiche, furono impiegati lavoratori non specializzati o comunque non previamente addestrati a tale compito. Furono mandati allo sbaraglio, anzi al macello. Toglievano il veleno dalla fabbrica a mani nude. Non furono infatti dotati né di maschere per il viso né di tute impermeabili a tenuta stagna, così come aveva prescritto anche dall'ispettorato del lavoro. Le conseguenza di queste condotte delittuose avranno un periodo di incubazione di circa quindici anni. Si riveleranno mortali per diciassette operai e gravemente lesive per altri cinque lavoratori.

Il petrolchimico entrò in funzione nel 1971 per produrre fertilizzanti, ammoniaca anidra, urea, solfato ammonico e caprolattame (sostanza utilizzata per la produzione di fibre di plastica). I principali prodotti e reagenti impiegati nei cicli produttivi erano: toluene, zolfo, ammoniaca, gas naturale, fuel oil, cloro, soda caustica e anidride carbonica e ovviamente arsenico. Sono stati diversi gli incidenti che hanno coinvolto il petrolchimico Enichem di Manfredonia, oltre a quello terribile del 1976: Il 3 agosto del 1978 la fuoriuscita di una nube di ammoniaca diffusasi sull’abitato, il 22 settembre dello stesso anno un violento incendio nell’impianto di produzione di fertilizzanti, mentre sei anni dopo, il 17 maggio 1984, un incidente distrusse completamente il magazzino di caprolattame. Il 16 giugno 1987 lo stabilimento di Manfredonia occupa di nuovo le prime pagine della cronaca nazionale con una grave ed insolita moria di pesci nel basso adriatico addebitabile alle acque di scarico del petrolchimico dell’Enichem. Grazie all’intervento delle associazioni ambientaliste, furono bloccati gli scarichi a mare dell’Enichem, che si impegnò a realizzare una discarica per i sali sodici che non fu mai realizzata. Nel novembre del 1988 lo stabilimento ha fermato la produzione lasciando senza lavoro oltre 700 lavoratori tra diretti e indotto.

Gli effetti della contaminazione chimica sulla popolazione è l'altro capitolo del disastro provocato dalla fuga tossica di 26 anni fa. Buona parte di quelle «dieci tonnellate» di veleni sono ancora presenti in oltre trecento ettari di terreno e in una vasta area marina, pari a ottocentocinquanta ettari. Uno studio dell'Organizzazione mondiale della sanità ha di recente registrato tra la popolazione «un eccesso di mortalità per tumore allo stomaco nei maschi e un aumento dei tumori alla laringe, alla pleura e mielomi multipli nelle donne». La stessa ricerca mostra inoltre un aumento generale di leucemie e malattie non tumorali all'apparato genito-urinarie. «Gli eccessi riscontrati - dice l'OMS - possono essere indicativi di effetti dalle esposizioni da arsenico, e in particolare all'emergere dei primi effetti a lunga latenza che potrebbero aggravarsi negli anni successivi». Ad una bassa mortalità generale, comune a tutte le regioni del Sud, si contrappone quindi un eccesso di mortalità per alcune patologie specifiche, con un andamento temporale in aumento, specialmente per alcuni tumori, per cui, concludono gli autori, «è possibile che si stia assistendo all'insorgere di rilevanti effetti a lungo termine sulla salute»

La città ha subito nel corso degli anni gli effetti devastanti dell'inquinamento atmosferico, del suolo e del sottosuolo e corso in più occasioni gravi pericoli a causa delle ripetute fughe di gas tossici e degli incendi. Nello stabilimento esistono tuttora discariche contenenti materiale contaminato da arsenico in attesa di essere rimosso. L'incapacità dell'azienda di smaltire correttamente le ingenti quantità di sali sodici, per anni scaricati in mare, ha portato alla sospensione nel 1988 della produzione di caprolattame.

Modulo 2 Acqua come risorsa

 

La distribuzione della risorsa acqua sulla Terra

“Non c’è vita senza acqua. Non c’è vita senza acqua. L’acqua è un bene prezioso, indispensabile a tutte le attività umane” (1° principio della carta europea dell’acqua)

Le riserve totali di acqua dolce vanno ben oltre le esigenze di tutte le popolazioni attuali e di quelle future: assommano infatti a 37 milioni di km3, una quantità pari a 10 volte il mar Mediterraneo; i 3/4 tuttavia sono bloccati nei ghiacciai, mentre il rimanente è disponibile per gli organismi adattati all'ambiente terrestre, uomo compreso. Gran parte dei problemi legati all'approvvigionamento dell'acqua da parte dell'uomo dipendono da una distribuzione ineguale di questa preziosa risorsa sul nostro pianeta.

Ogni anno, nel mondo, muoiono milioni di persone a causa della scar­sità di acqua, o di malattie da essa trasmesse (colera e varie forme di dissenteria), ma dagli abitanti dei paesi industrializzati la disponibilità di acqua viene data per scon­tata; si consumano decine di litri di acqua pro-capite al giorno in più, rispetto alle reali esigenze (20 lt al giorno), per mancanza dì una adeguata educazione al risparmio idrico. Non a caso i paesi più industrializzati sono anche quelli dotati di maggiori riserve idriche: la disponibilità di acqua incrementa lo sviluppo economico e migliora la qua­lità della vita; la penuria d'acqua, al contrario, mina la salute e limita il progresso.

Utilizzo dell’acqua

L'acqua di cui necessita l'uomo della società moderna è destinata a tre usi princi­pali: nutrizionale e domestico, agricolo e industriale. I consumi nei vari settori non risultano omogenei per tutti i paesi, ma riflettono il livello di vita delle varie popolazioni, il loro sviluppo economico e tecnologico.

Acqua per uso nutrizionale e domestico. Quella che giunge nelle nostre ca­se è acqua potabile (garantita come non nociva alla salute umana), ovvero limpida, inodore, insapore, moderatamente ricca di sali minerali, ben ossigenata, priva di batteri patogeni e contenente un basso numero di batteri non patogeni. Acqua con tali caratteristiche la si trova solo nelle sorgenti di montagna, ma per le altre provenienze (falde, fiumi o laghi), è impensabile il suo possibile utilizzo immediato: è necessario sottoporla a trat­tamenti di filtrazione e disinfezione.

Quando l'acqua esce dalle nostre case, risulta modificata sia per la presenza di rifiuti organici, sia, cosa ben più grave, per la presenza di una sostenuta varietà di prodotti chimici contenuti nei detergenti. Mentre le sostanze organiche sono biodegradabili; la maggior parte delle sostanze chimiche di sintesi non lo sono e si accumulano perciò nell'ambiente. Le acque reflue dalle abitazioni finiscono poi nelle falde superficiali, nei fiumi; nei laghi e nei mari e devono essere preventivamente depurate.

Acqua per uso agricolo. Rappresenta la quota percentuale maggiore (75%) della richiesta annuale di acqua nel mondo. La necessità di aumentare la produzione agricola, minimiz­zando le perdite dei prodotti, ha condotto alla ricerca smodata di fonti d’acqua e all'uso eccessivo di fertiliz­zanti, diserbanti, insetticidi, pesticidi che si accumulano nel suolo, per poi filtrare nelle falde superficiali e in quelle profonde, che rappresentano una delle possibili fonti di acqua potabile. Anche gli alleva­menti intensivi sono fonte di inquinamento.

Acqua per uso industriale. Rappresenta circa il 20% della richiesta e vie­ne utilizzata per scopi diversi, quali il lavaggio degli impianti, la loro refrigerazione, o l'impiego come solvente nelle lavorazioni. In uscita dalle industrie, l'acqua ri­sulta inquinata sia chimicamente che fisicamente: contiene infatti svariate sostanze chimiche e, in molti casi, ha una tempera­tura più elevata dell'acqua in entrata; ciò dan­neggia gli ecosistemi interferendo con le normali attività biologiche dei viventi.

Il quadro generale relativo allo stato delle riserve idriche del pianeta risulta sco­raggiante; è facile prevedere ciò che accadrà in futuro se l'uomo non si assumerà la responsabilità di gestire la risorsa acqua secondo principi dettati dalla ragione e non dalla comodità o dagli interessi economici.

 

La gestione razionale della risorsa acqua

Gli interventi possibili, per ciascuno dei fronti individuati, potrebbero essere i seguenti.

Controllo della distribuzione: può essere realizzata in modi diversi interve­nendo in vari settori:

·       sui bacini idrografici raccogliendo le acque di scorrimento, soprattutto quelle torrenziali, causa di erosioni e smotta­menti, creando sistemi di irrigazione e bacini collegati da utilizzare come riser­va d'acqua per la stagione secca;

·       sul trasporto: gran parte della preziosa risorsa viene persa durante il suo trasporto a causa di condutture inefficienti. Ciò richiede na­turalmente un investimento economico di grande portata, ma il risparmio che ne deriverebbe sarebbe di gran lunga superiore;

·       sull'irrigazione: come viene praticata nella maggior parte dei paesi, risulta i­nefficiente; infatti, solo il 37% dell'acqua di irrigazione viene realmente utilizzato dalle colture, il resto va perso. Esistono tecniche di microirrigazione che pre­vedono la distribuzione di acqua a ogni singola pianta grazie a una rete di tubi­cini che limitano l'eccessiva dispersione;

· sulle dighe: la costruzione di impianti di sbarramento lungo il corso dei fiumi po­trebbe garantire una distribuzione di acqua più regolare in zone tormentate dal­la siccità. È opportuno optare per la realizzazione di piccole dighe la cui costruzione e il cui controllo risultano più sem­plici e senza rischi ambientali di grossa portata;

· sull'acqua di mare: è possibile anche ottenere acqua potabi­le dalla dissalazione di quella marina. Nel mondo ci sono cir­ca 7500 impianti di dissalazione. Tali impianti utilizzano energia elettrica, o termica, ma si prospetta in futuro la possibilità di utilizzare energia so­lare, meno costosa e meno inquinante;

· sull'acqua piovana: sono state sperimentate tecniche d'avanguardia per ottenere "pioggia artificiale"; la condizione necessaria è evidentemente la presenza di nuvole, in cui favorire la formazione delle gocce di pioggia. È possibile portare in atmosfera sostanze come il ghiaccio secco o lo ioduro d'ar­gento, che stimolano la formazione delle goccioline. Questa tecnica richiede poche infrastrutture e il costo di produzione è vantaggioso per zone aride.

Risanamento delle acque inquinate: è attuabile sia nei confronti dei bacini lacu­stri e, in generale, delle acque luride inquinate da rifiuti organici, che delle acque degli scarichi urbani, contaminate da rifiuti organici biodegradabili; queste devono essere trattate in impianti di depurazione prima di essere nuovamente messe in cir­colo.

Prevenzione dell'inquinamento: è attuabile a tutti i livelli, ma risulta assoluta­mente indispensabile nei confronti di quei serbatoi, come le falde e gli oceani, che non sono risanabili. Le normative più interessanti per la tutela delle acque sono: La diffusione di un codice di buona pratica agricola tendente a limitare e a razionalizzare l'uso di diserbanti, fertilizzanti e pesticidi; la protezione delle acque dolci idonee alla vita dei pesci; la realizzazione di pro­grammi di analisi delle acque designate e classificate come potabili; il divieto di scarico diretto e indiretto nelle falde di so­stanze pericolose; la valutazione dell'impatto ambientale legato al carico, trasporto e scarico in mare di idrocar­buri e altre sostanze pericolose.

Prevenzione individuale dello spreco: la quantità di acqua necessaria a un essere umano per poter condurre una vita sana è di 20 1 al giorno; nei paesi ricchi i consumi giorna­lieri pro-capite si aggirano sui 450 l nelle città medie e sugli 800 l nelle grandi città. L'abitudine che abbiamo alla presenza di acqua e il suo basso costo ci impedi­scono di considerarla un valore prioritario nell'attuale società dei consumi, co­sicché assumiamo atteggiamenti di largo spreco nei confronti di questa risorsa. Circa il 68% dell'acqua erogata dagli acquedotti è destinata agli usi domestici, ma spesso si verificano e­normi sprechi dovuti alla superficialità dei cittadini. Un rubinetto che sgocciola consuma in una giornata circa 30 l di acqua potabile. E necessario dun­que anche un impegno personale nella gestione della risorsa acqua. In una famiglia di tre persone, per esempio, in un anno si potrebbero risparmiare 8000-11000 1 facendo funzionare lavastoviglie o lavatri­ce a pieno carico; altri 5000 1 potrebbero essere risparmiati chiudendo il ru­binetto durante il lavaggio dei denti o il taglio della barba e altri 4500 l ancora lavando le verdure in un contenitore anziché sotto l'acqua corrente. Questi pochi dati, già molto significativi a livello di risparmio familiare, assumerebbero una rilevanza imponente su scala nazionale o addirittura mondiale, se tutti considerassero l'acqua un valore primario dal punto di vista biologico, ma anche da quello sociale ed economico.

 

L'acqua potabile

La qualità delle acque di partenza influenza naturalmente il giudizio di potabilità delle acque destinate al consumo umano. Le acque potabili, per potersi definire tali, devono essere caratterizzate da specifici requisiti qualitativi concernenti i parametri organolettici, fisico-chimici e batteriologici, ai sensi del DPR. n0 236/88.

Tale legge indica per ogni singolo parametro la concentrazione massima ammissibile, da non superare pena la non potabilità dell'acqua, ed il valore guida che rappresenta il valore che si dovrebbe raggiungere in una situazione ideale.

La legge, inoltre, stabilisce tre diverse zone di salvaguardia al fine di consentire il raggiungimento dei requisiti qualitativi per le acque potabili : a) zona di tutela assoluta; b) zona di rispetto; c) zona di protezione.

La prima prevede la tutela delle opere di captazione e di tutte le strutture edilizie asservite, mediante un'opportuna recinzione, per un'area circolare avente raggio non inferiore ai 10 m.

Per un'area avente raggio minimo di 200 m dal punto di captazione, la zona di rispetto impone il divieto di molte attività fra cui la dispersione di liquami e fanghi, l'accumulo di concimi di natura organica, l'apertura di pozzi, cave e discariche, la presenza di cimiteri e di "sfasciacarrozze", il pascolo. Nella zona di protezione è possibile adottare misure limitative di tutte le attività antropiche, dagli insediamenti civili a quelli industriali, da quelli agrosilvo-pastorali a quelli turistici.

Quasi tutto il territorio italiano gode di una buona situazione per quanto riguarda l’approvvigionamento idrico. La quantità e la ricchezza delle falde acquifere ci hanno sempre permesso di avere a disposizione acqua di discreta qualità.

Quando un’acqua soddisfa tutti i parametri di qualità fissati verrà definita dall’Autorità Sanitaria preposta come potabile e quindi avviata all’acquedotto per la distribuzione. E’ evidente che bisogna avere la certezza che tali parametri di qualità vengano mantenuti nel corso del tempo. A tale proposito il DPR n. 236 fissa la frequenza con cui tali parametri devono essere analizzati. Tale frequenza è funzione sia della popolazione servita sia dei parametri stessi. A titolo di esempio diciamo che i coliformi totali vanno analizzati almeno120 volte in un anno se la popolazione servita arriva fino a 100.000 unità e ben 360 volte nell’anno se la popolazione supera il milione di unità mentre il dosaggio del piombo va effettuato almeno 12 volte in un anno per popolazione di 100.000 unità e almeno 20 volte se la popolazione servita supera il milione.

Un'ultima considerazione, infine, sulle modalità di prelievo dei campioni da analizzare. E necessario utilizzare bottiglie in vetro da 1 litro, precedentemente sterilizzate ed avvolte in carta d'alluminio per l'analisi batteriologica; chimicamente pulite e sciacquate ripetutamente con la stessa acqua da analizzare per le determinazioni chimico-fisiche.

Se prelevata dal rubinetto o da un pozzo dotato di aspiratore, l'acqua va fatta scorrere per alcuni minuti, dopo aver accuratamente flambato sul punto di emissione. Occorre che l'intervallo fra il prelievo e l'analisi in laboratorio sia inferiore a 72 h per quelle chimico-fisiche, ed a 6 h per quelle microbiologiche, avendo cura che il trasporto avvenga tramite una cassetta frigorifero (a 40C).

Il risanamento delle acque potabili

Il largo impiego di prodotti chimici nel mondo moderno, ed anche inopportuni interventi in campo idrogeologico, hanno comportato una progressiva contaminazione delle falde acquifere, serbatoio fondamentale per le acque destinate al consumo umano. Ciò ha spinto ad utilizzare per questo scopo sempre più le acque superficiali (fiumi, laghi), rendendo indispensabili i trattamenti di potabilizzazione di tali serbatoi idrici.

Fondamentalmente i caratteri che devono essere corretti per un'adeguata potabilizzazione sono quelli organolettici, chimici e microbiologici.

Correzione parametri organolettici

Per correggere eventuali sapori ed odori indesiderati i mezzi più impiegati sono l'aerazione dell'acqua, la filtrazione su carbone attivo e l'ozonizzazione (il più costoso).

Se le acque presentano un alto grado di torbidità e una colorazione particolare si può ricorrere all'impiego di sostanze coagulanti (il più usato è il solfato di alluminio) che agiscono catturando le sostanze in sospensione ed i coloranti. Per questo scopo vengono pure utilizzati sistemi di sedimentazione e di filtrazione.

Correzione parametri chimici

L'addolcimento delle acque potabili consiste nella riduzione della loro durezza, che esprime il tenore dei sali di calcio e di magnesio (bicarbonati, solfati ecc.). Tale decremento viene attuato essenzialmente attraverso l'ebollizione e il ricorso al sistema della calce e soda.

Acque con elevata concentrazione in ferro e manganese possono subire trattamenti di clorazione, oppure possono essere arricchite in ossigeno grazie a sistemi di aerazione.

L'ozonizzazione determina un'eccellente diminuzione degli inquinanti organici principali fra cui detergenti, fenoli e pesticidi.

Correzione parametri microbiologici

La possibilità di contaminazione microbiologica delle acque impone un trattamento con mezzi chimici o fisici. Fra i primi il più utilizzato è la clorazione che possiede capacità disinfettanti con largo spettro d'azione, prolungato nel tempo, grazie al potere ossidante, bassi costi di esercizio e la facilità delle operazioni in un impianto di clorazione, rappresentano degli innegabili vantaggi. Con il cloro è comunque possibile la formazione di sostanze indesiderate (composti cloroorganici) ad azione mutagena. Altro trattamento impiegato per la correzione dei parametri microbiologici è l'ozonizzazione. L'ozono risulta molto attivo nei confronti di batteri e virus patogeni (dell'epatite e della poliomelite). L'unico svantaggio nell'impiego dell'ozonizzazione è l'elevato costo di esercizio.

Fra i mezzi fisici larga modalità di impiego trova la filtrazione. Questa può essere lenta, prevedendo l'utilizzo di filtri inglesi, costituiti da un insieme sabbia e ghiaia su cui si stratifica una membrana biologica, con effetti depurativi dopo qualche giorno; oppure rapida con l'uso di filtri su cui si forma una membrana biologica nel giro di qualche minuto. La correzione microbiologica, infine, può essere attuata anche attraverso l'impiego di raggi gamma.


MODULO 3 L’INQUINAMENTO DELLE ACQUE

Le principali cause determinanti l'inquinamento delle acque vanno cercate nell'aumento della densità di popola­zione delle città, nell'industrializzazione e nell'uso sempre maggiore in agricoltura di sostanze chimiche di sintesi.

 

I principali inquinanti

Fertilizzanti e pesticidi. I fertilizzanti di sintesi chimica che rivestono interesse nell'inquinamento dell’acque superficiali sono essenzialmente i composti azotati e fosforati. Fra i composti azotati di sintesi vanno annoverati i nitrati e l'urea. Tali composti utilizzati in agricoltura non rimangono, però, totalmente legati al terreni, anzi in percentuale variabile fra il 50 e l'80% vengono allontanati con 1e acque di scarico. Questi fertilizzanti quindi rappresentano una fonte di nutrimento per le piante acquatiche, e in condizioni particolari, insieme con i composti del fosforo costituiscono i principali responsabili del fenomeno dell'eutrofizzazione.

I pesticidi raggiungono le acque attraverso vane modalità:

a)        dall'atmosfera, in seguito alla ricaduta dopo dispersione aerea;

b)        dal suolo, mediante il dilavamento dei terreni;

c)        dal sottosuolo, attraverso l'acqua di percolazione dei terreni agricoli nell falde;

d)        dagli scarichi idrici delle industrie produttrici;

e)        dall'impiego diretto in campagne di lotta alle larve e agli insetti.

I pesticidi, una volta giunti in acqua, possono andare incontro a diversi destini caratteristici a seconda della natura chimica (diluizione, degradazione chimica, degradazione biologica, adsorbimento biologico, sedimentazione, volatilizzazione, fotodecomposizione.

La diluizione dei pesticidi è influenzata dalla loro solubilità: Pesticidi poco solubili in acqua si accumulano in breve tempo sia negli animali che nelle piante (superiori e microscopiche): è questo l'adsorbimento biologico che può avere notevole influenza sugli organismi acquatici. Si possono verificare compromissioni del metabolismo biologico che hanno come evento finale o la morte o l'alterazione dello sviluppo di varie specie (pesci, crostacei, molluschi).

Per questi ultimi, in particolare, si verifica l'accumulo di pesticidi organici nei tessuti dove si depositano i grassi. Di particolare importanza è l'accumulo dei pesticidi che si realizza lungo le catene alimentari acquatiche. La maggior parte di esso si verifica negli animali che si trovano all'apice della piramide alimentare (i predatori), attraverso la catena trofica. Nelle acque superficiali la degradazione biochimica dei pestici­di avviene prevalentemente ad opera dei microrganismi acquatici, similmente a quanto accade nel mare. La capacità del corpo idrico di degradare i pesticidi dipende pertanto dall'efficienza dell'attività microbica. Se questa non è in grado di fronteggiare adeguatamente il carico di pesticidi, per un loro eccesso o per la carenza dei microrganismi, il risultato finale è l'inquinamento. Questo, infine, per il fenomeno del bioaccumulo può determinare nella specie umana effetti tossici immediati o a lungo termine. Altro destino che possono seguire i pesticidi è la fotodecomposizione attraverso le radiazioni ultraviolette (UV).

Rifiuti organici. Una grande quantità di nutrienti, quali fosforo e azoto, giunge al corpo idrico superficiale attraverso le deiezioni degli animali dei grandi allevamenti. Le moderne pratiche della zootecnia su larga scala non prevedono più la pro­duzione del letame ed il suo uso come fertilizzante dei terreni; pertanto le deiezioni vengono allontanate dagli allevamenti. Il recettore ultimo di queste deiezioni è l'acqua, con possibile sviluppo del fenomeno di eutrofizzazione. In quest'ultimo caso si può creare un circolo vizioso con svi­luppo della vegetazione aerobica che consuma l'ossigeno acquatico, la cui assenza determina lo sviluppo degli organismi anaerobi con conseguente feno­meno di putrefazione.

Detergenti. La gran parte dei detergenti utilizzati nelle abitazioni o a livello industriale è di natura anionica. Giunti a contatto con l'acqua i detergenti anionici formano delle micelle colloi­dali che si dispongono nell'interfaccia acqua-aria con la parte idrofila immer­sa nell'acqua e quella idrofobica a contatto con l'aria. In questa maniera si crea sulla superficie acquosa una sorta di film di tensioattivi che può limitare in maniera cospicua gli scambi gassosi fra l'aria e l'acqua, contribuendo soprat­tutto al depauperamento dell'ossigeno (anossia del corpo idrico). Tale effetto risulta più evidente nei corpi d'acqua calmi, dove gli scambi gassosi fra aria ed acqua, è limitato.

 

Inquinamento termico

Nei processi produttivi di molte industrie è necessario diminuire la temperatura dei macchinari attraverso un ciclo di raffreddamento che prevede l'impiego di acqua. Questa viene prelevata soprattutto dai corpi idrici che vengono utilizzati come scambiatori di calore e l'acqua assume una tem­peratura maggiore rispetto alle condizioni naturali, e come tale viene reimmes­sa nel corpo idrico dal quale era stata precedentemente prelevata. L'energia termica accumulata dall'acqua di scarico non consente un facile rimescolamento fra questa e il corpo idrico a causa della differenza di densità che si è venuta a creare (tanto maggiore quanto più grande è la differenza di temperatura). Le conseguenze dell'inquinamento termico riguardano una diminuzione della concentrazione dell'ossigeno nel corpo idrico, hanno effetti sul metabolismo e sulla biologia degli organismi acquatici che presentano uno scarso adattamento all'aumento di temperatura. Questo poten­zialmente crea più danni quanto più alto è il gradiente di temperatura fra l'ac­qua di scarico e quella del corso d'acqua.

 

I liquami

I liquami costituiscono i! prodotto liquido di rifiuto delle acque utilizzate per gli usi domestici, cittadini ed industriali.

Si distinguono i liquami in acque nere e acque bianche. Le prime costituiscono i rifiuti trasportati con il mezzo liquido in cui vengono convogliate le acque di lavaggio domestiche, le feci e le urine. Le acque bianche provengono, invece, o dalle precipitazioni meteoriche o dalle acque impiegate per il lavaggio delle strade.

Potenzialmente i liquami presentano dei rischi per la salute dell'uomo e l'ambiente. E proprio in relazione all'ambiente non sono da trascurare le possibili conseguenze sull'economia, nel senso più ampio del termine, e sulle atti­vità turistiche, in particolare.

La necessità dell'allontanamento effettuato attraverso le fognature e successi­vamente dello smaltimento dei liquami è legata alla presenza nei liquami di varie sostanze contaminanti di origine organica, inorganica, microbica (patoge­ni), di natura acida o basica, che sono fisicamente disciolte, in sospensione nel liquido o galleggianti su esso. Dopo essere stati allontanati attraverso il sistema fognario, i liquami vanno smaltiti. Ciò può avveni­re o attraverso la diluizione (smaltimento naturale) o attraverso la mineralizza­zione (smaltimento artificiale).

Lo smaltimento naturale impiegato nei comuni sprovvisti di impianto di depu­razione è basato sul principio secondo cui la risoluzione del problema inquina­mento e nella diluizione di esso in un corpo idrico, sia esso mare, fiume o lago. Lo smaltimento naturale presenta però notevoli svantaggi, potendo immettere nel corpo idrico recettore microrganismi patogeni a trasmissione fecale-orale (virus dell'epatite A, salmonella del tifo, vibrione colerico ed altri ), materiale tossico (metalli pesanti quali composti del piombo, del cromo, del cobalto, ecc.), sostanze organiche o inorganiche inquinanti (detersivi, oli e grassi, ecc.). Da non sottovalutare poi il problema dell'eutrofizzazione, legato alla proliferazione di vegetali acquatici in presenza di alte concentra­zioni di sostanze nutrienti.

Lo smaltimento artificiale trasforma il liquame dalla fase liquida a quella solida. La mineralizzazione può avvenire in maniera rapida (circa 20 gg.) in presenza di ossigeno e di flora microbica aerobia (ossidazione del liquame). Nel caso in cui non sia presente ossigeno entra in gioco la flora anaerobia che mediante la putrefazione del liquame ne consente la mineralizzazione lenta, in più di 20 gg

Di un liquame avviato in un impianto di depurazione vanno conosciuti diversi parametri. Fra questi il BOD, il COD e le sostanze sedimentabili. Il BOD rappresenta la richiesta biochimica di ossigeno, cioè la quantità di ossi­geno necessaria ai microrganismi del liquarne per mineralizzare (ossidare) le sostanze organiche presenti in esso. Il BOD5 si determina in laboratorio dopo un periodo di 5 giorni, ed il suo valore corrisponde ai 2/3 circa del BOD totale. Il COD, la richiesta chimica di ossigeno, sta ad indicare la quantità di ossigeno necessaria per consentite la mineralizzazione del liquame contenente anche sostanze chimiche (provenienti generalmente da impianti industriali).

Il trattamento di depurazione dei liquami prevede almeno quattro fasi. Una prima fase preliminare, detta anche pretrattamento, prevede l'eliminazio­ne del materiale più grossolano, attraverso sistemi diversi. Tra i più importanti la grigliatura consente di bloccare oggetti di dimensioni maggiori della distan­za fra le sbarre, che è di solito compresa fra 2 e 4 cm.; la disabbiatura, pur se molto costosa, serve per evitare la formazione di sostanze cementanti (sabbia + calce); le vasche di sgrassamento sono dotate di un dispositivo che consente di insufflare aria dal basso verso l'alto, facendo affiorare la componente oleosa.

Conclusa la fase di pretrattamento (che può anche mancare) inizia la fase di sedimentazione primaria (trattamento primario). Questo tipo di sedi­mentazione comporta l'eliminazione della gran parte dei solidi sedimentabili, e l'abbattimento del BOD5 di circa il 30 %. Il trattamento primario avviene in grossi contenitori a forma di cilindro o parallelepipedo, della profondità di 2-3 m. In essi il liquame deve sostare non più di 2-3 ore per non consentire lo svi­luppo di processi di putrefazione. In tal modo si giunge alla formazione da un lato di fanghi, dall'altro di liquame chiarificato.

Il trattamento secondario riguarda i liquami chiarificati provenienti dal trattamento primario. Si possono distinguere un trattamento naturale (disperdimento e diluizione) ed uno artifi­ciale (fanghi attivi e letti percolatori).

Il trattamento naturale per disperdimento comporta lo spandimento del liqua­me chiarificato e la sua successiva infiltrazione nel terreno, o l'utilizzo di esso per scopi irrigui. Naturalmente è necessario in questo caso che il liquame non contenga scarichi provenienti da attività produttive. Il trattamento per diluizio­ne, come già accennato, prevede l'immissione in un corpo idrico ricettore del liquame chiarificato. In tale situazione risulta fondamentale scegliere un ido­neo corso d'acqua superficiale che consenta una diluizione adeguata.

Il trattamento secondario artificiale risulta il mezzo più idoneo per lo smaltimento dei liquami in quanto solo così può essere raggiunta un'adeguata ossi­genazione. Nell'impianto a fanghi attivi la continua aerazione e agitazione del liquame, ottenute con un compressore ed un dispositivo meccanico, permetto­no la formazione di fiocchi di fango in cui è possibile distinguere alghe, batteri, metazoi, miceti e protozoi. Questi microrganismi agiscono digerendo la sostanza organica del liquame, in un ambiente ricco di ossigeno. Nella vasca di sedimentazione secondaria, attigua a quella di aerazione, si verifica la separazione fra il liquame trattato ed i fanghi attivi. Questi ultimi o ritornano nella vasca di aerazione o vengono eliminati quelli in eccesso, i cosiddetti fanghi di supero.

L'impianto a letti percolatori comporta l'immissione del liquame su uno strato di pietrisco dello spessore di 2-3 m. Per gravità il liquame tende ad andare verso il basso, ed in questo tragitto viene in contatto con la pellicola di batteri che si stratifica naturalmente sul pietrisco.

Il primi trattamenti comportano una notevo­le riduzione del carico organico e degli agenti microbici (patogeni e non); tuttavia i composti dell' azoto e del fosforo rimangono inalterati.

Il trattamento terziario, attraverso vari meccanismi chimico-fisici (filtrazione rapida, precipitazione, scambio ionico, adsorbimento, denitrificazione), con­sente di abbattere la quota in eccesso di fosforo e di azoto presente nel liqua­me, ormai molto chiarificato, che, prima di essere avviato definitivamente al corpo idrico accettore, viene sottoposto a clorazione.

I fanghi di supero derivano dal trattamento secondario. Sono ancora molto idratati ed è possibile che contengano microrganismi patogeni. Il loro tratta­mento prevede la stabilizzazione attraverso l'essiccamento (disidra­tazione) o la digestione anaerobica.

La disidratazione avviene su appositi letti di essiccamento di sabbia. La digestione anaerobica si ottiene, invece, in apposite vasche, delle digestori. Qui si realizzano processi di fermentazione con produzione di gas metano. Nelle vasche, inoltre, si verifica una stratificazione acqua nella parte superio­re, e fango nella parte inferiore, risultando questo sempre più denso passando dalla superficie in profondità. I fanghi digeriti che si trovano nel fondo delle vasche vengono asportati settimanalmente ed avviati in discarica o nell'inceneritore. Alternativamente i fan­ghi residui possono essere usati come fertilizzanti.

 

Inquinamento da petrolio

L'inquinamento del mare da petrolio comporta un danno ambientale con relative conseguenze di carattere economico. Vengono colpiti i delicati equilibri della vita del mare, ma anche attività umane come la pesca e il turismo. Lo sversamento di petrolio in mare determina, da un lato, l'alterazione degli scambi di ossigeno fra acqua ed aria e la diminuzione della fotosintesi delle piante acquatiche, dall'altro, l'ingresso degli idrocarburi nella catena alimentare. Le conseguenze di ciò si riflettono sulla variazione quali-quantitativa delle specie marine, animali e vegetali.

1) INQUINAMENTO OPERATIVO

Si definisce inquinamento operativo quello dovuto alle operazioni di routine. Gli idrocarburi sono trasportati via mare allo stato grezzo da navi cisterna di grossa portata e, dopo essere stati raffinati, da navi di piccole e medie dimensioni. Una volta terminate le operazioni di scarico del greggio o dei prodotti raffinati, la nave cisterna è messa in assetto di navigazione per consentirle di raggiungere la destinazione successiva. Ciò comporta un'operazione di scarico di acqua di zavorra (in inglese ballast), che deve essere scaricata quando la nave cisterna raggiunge il porto dove deve effettuare il carico. In mancanza di un impianto di segregazione, l'acqua di zavorra, in seguito a questi passaggi, può essere contaminata dai residui di idrocarburi presenti nelle cisterne. Altro momento di rischio è quello della degassificazione e della bonifica dei residui dei prodotti petroliferi che vengono effettuate quando la nave cisterna viene avviata in bacino per lavori.

2) INQUINAMENTO DA INCIDENTI

Questo inquinamento ha come caratteristica principale l’imprevedibilità; ciò comporta un'intrinseca pericolosità da cui conseguono ingenti disastri ecologici. Le navi cisterna possono essere interessate accidentalmente da incagli in bassi fondali e contro scogli sommersi; collisioni contro altre navi; incendi ed esplosioni a bordo; cedimenti strutturali. Da non sottovalutare poi le esplosioni e gli incendi che possono verificarsi nei pozzi e nei terminali petroliferi. Una volta sversati in mare, gli idrocarburi seguono un destino strettamente legato alla loro composizione chimica, alle loro caratteristiche fisiche, ed alle condizioni metereologiche. I danni più rilevanti si realizzano nel caso in cui sono coinvolti gli idrocarburi più pesanti, come il petrolio grezzo, gli oli combustibili, il gasolio, che presentano una minima tendenza all'evaporazione. A contatto con l’acqua avviene un processo di diffusione che forma sulla superficie marina una pellicola di dimensioni variabili. Successivamente gli idrocarburi possono andare incontro ad un processo di evaporazione in relazione con le caratteristiche degli stessi, oltrechè con le condizioni meteomarine (temperatura, ventosità, moto ondoso). Il fenomeno di solubilizzazione consente agli idrocarburi di discendere al di sotto della zona di diffusione. Una volta raggiunta la fase di stabilizzazione il sistema idrocarburi-acqua di mare è interessato dalla formazione di emulsioni olio-acqua. Un'emulsione viene definita come la dispersione di un liquido in un altro liquido "immiscibi­le". Nel nostro caso possiamo trovarci di fronte a due tipi di emulsioni:

  • il tipo oil in water O-W, in cui l'olio è disperso in acqua; queste consentono la formazione di piccolissime sferule di olio che, insieme agli idrocarburi non emulsionabili, vanno incontro ad un processo foto-ossidativo, regolato dalla luce solare e dall'ossigeno disciolto. Contemporaneamente viene potenziato il potere autodepurante del sistema marino attraverso l'attivazione dei microrganismi marini che metabolizzano la componente oleosa
  • il tipo water in oil W-O, in cui si verifica il fenomeno inverso. In questo ultimo caso si formano microsferule acquose nello strato oleoso, e ciò conduce alla costituzione di una consistente massa galleggiante di colore bruno, definita appropriatamente “mousse di cioccolato” per la stretta somiglianza con il dessert.

Infine bisogna considerare che l'iniziale spandimento va incontro ad una naturale suddivisione, causata soprattutto dalle condizioni del mare. Si formano allora macchie oleose e grumi il cui destino dipende da vari fattori. Queste frazioni possono sedimentare dopo l'interazione con materiali minerali e determinare un inquinamento a lungo termine del fondo del mare, oppure possono raggiungere e stratificarsi sulle coste rocciose e sabbiose, determinando danni incalcolabili sulla vita dei litorali.

Le operazioni di disinquinamento

Si divide in: 1) confinamento; 2) contenimento; 3) abbattimento.

1) CONFINAMENTO

Questa operazione consiste nel salvataggio della nave cisterna e nel trasbordo del carico di idrocarburi su un'altra cisterna o sulla terraferma. Per le operazioni di salvataggio sono fondamentali delle buone condizioni meteomarine che devono consentire l'arrivo dei mezzi di soccorso e di pronto impiego (navi per l'ormeggio della cisterna incidentata, cisterna allibante, materiale per il trasferimento degli idrocarburi, materiale per rendere galleggiabile la cisterna incidentata. In caso di esplosione e/o di incendio risulta necessario valutare l'opportunità di utilizzare mezzi antincendio, in considerazione del fatto che talvolta l'incendio degli idrocarburi sversati consente di abbattere notevolmente (fino al 50 %) l'inquinamento marino diretto.

2) CONTENIMENTO

Allo scopo di contenere lo sversamento si utilizzano barriere fisiche che sfruttano le caratteristiche di galleggiamento degli idrocarburi. E' intuitivo che il funzionamento di tali barriere, dette anche panne, è tanto più agevolato quanto più favorevoli sono le condizioni meteomarine.

Le panne si distinguono in: a) meccaniche; b) pneumatiche; c) assorbenti.

a) Le panne meccaniche sono costituite generalmente da materiale metallico o plastico e sono galleggianti. Quelle metalliche sono incombustibili ed utilizzate negli spandimenti operativi.

b) Le panne pneumatiche realizzano un effetto barriera attraverso la produzione di bolle d'aria generate da un compressore e veicolate mediante una tubazione posta sul fondo del mare. A causa degli alti costi di un simile sistema le panne pneumatiche sono utilizzate solo in postazioni fisse.

c) Le panne assorbenti sono costituite da materiale assorbente prodotto artificialmente. La capacità di assorbimento varia a seconda del tipo di materiale presente. Raggiunta la massima capacità assorbente queste continuano a svolgere la loro azione come panne galleggianti.

3) ABBATTIMENTO

L'abbattimento è l'intervento finale per eliminare lo sversamento. Attualmente si conoscono cinque tecniche di abbattimento; la loro scelta dipende dalle condizioni meteomarine, le dimensioni dello spandimento, le caratteristiche fisico-chimiche degli idrocarburi.

a) Rimozione meccanica. Lo scopo è 1'allontanamento degli idrocarburi dal mare per il successivo smaltimento in impianti di recupero. Teoricamente la rimozione meccanica rappresenta l'intervento più efficace. Se però le condizioni in cui si effettua l’operazione non sono favorevoli, il recupero meccanico è difficoltoso. I dispositivi sono formati da una pompa di aspirazione a monte della quale sono posti degli apparecchi detti skimmers (scrematori) . Questi permettono di separare la fase idrocarburica dell'acqua con vari meccanismi: a disco ad adesione, a stramazzo, a vortice, a ciclone (centrifugo), a nastro assorbente e non assorbente. Talvolta è possibile associare l'uso degli skimmers con quello delle panne. La scelta del tipo di skimmers da impiegare per il recupero dipende essenzialmente dalle caratteristiche del petrolio (peso specifico, viscosità, tensione di vapore) e dallo spessore che lo strato dell'idrocarburo ha acquistato in mare.

Il dispositivo a skimmers prevede l'impiego di una barriera galleggiante, di navi appoggio, e di mezzi per lo stoccaggio temporaneo del petrolio recuperato. A tal proposito molto utilizzati sono dei contenitori flessibili che, una volta riempiti, vengono temporaneamente abbandonati per poi essere recuperati al termine delle operazioni di disinquinamento. Per tutti questi motivi la rimozione meccanica, pur essendo la procedura di abbattimento più desiderabile, è la più costosa.

b) Assorbimento. Gli assorbenti sono generalmente costituiti da sostanze vegetali, come prodotti della cellulosa, e da materiali prodotti dalla polimerizzazione di molecole sintetizzate artificialmente.

Risulta importante che il materiale sia dotato di una certa porosità che consenta la penetrazione degli idrocarburi. Altra caratteristica fondamentale riguarda la capacità di catturare il petrolio e ciò è strettamente in relazione alla possibilità di evitare elevate tensioni superficiali fra la superficie dell'assorbente e lo sversamento. Vengono utilizzati due tipi di assorbenti, i galleggianti e gli autoaffondanti, I primi, molto leggeri, dopo aver agito con effetto spugna, devono essere asportati meccanicamente ed avviati ad apposita destinazione (discarica, incenerimento). Gli autoaffondanti, invece, dopo aver svolto la funzione assorbente cadono in fondo al mare. L'efficacia nell'uso degli assorbenti può essere ostacolata notevolmente dalle avverse condizioni meteomarine, a causa della loro relativa leggerezza che impedisce un adeguato contatto in tali frangenti.

c) Dispersione. L’obiettivo intermedio della dispersione è quello di creare una miriade di goccioline di idrocarburi; quello finale è permettere il più possibile l'azione disinquinante naturale dei microrganismi marini e di favorire i processi di ossidazione. Per raggiungere questi obiettivi è necessario abbassare la tensione superficiale fra la superficie liquida del mare e quella dello spandimento. Ciò viene realizzato attraverso l'impiego di sostanze tensioattive (disperdenti emulsionanti) che, per agire, devono essere veicolate da solventi oleosi o clorurati o dall'acqua. I disperdenti vengono irrorati sulla superficie di mare interessata mediante battelli dotati di apposite attrezzature. Dopo l'irrorazione, per aumentare le possibilità di contatto fra tensioattivi ed idrocarburi, i battelli transitano ripetutamente nello spandimento realizzando un effetto di agitazione meccanica. Il grande vantaggio della dispersione è quello di essere il solo intervento efficace per l'abbattimento quando le condizioni meteomarine risultano avverse. Gli svantaggi sono dovuti all'elevata tossicità delle sostanze disperdenti sull'ecosistema marino.

d) Combustione. E’ la metodica da prendere in considerazione quando sono risultati inefficaci il confinamento ed il contenimento. L'incendio del petrolio (o dei suoi derivati) sversato risulta tecnicamente difficile sia perché, dopo lo spandimento, l'evaporazione allontana le componenti volatili (più infiammabili), sia perché il raffreddamento dello strato di idrocarburi da parte dell'acqua di mare non consente facilmente di raggiungere la temperatura di accensione.

Ove fosse possibile la combustione con l'impiego di particolari sostanze, occorre prestare particolare attenzione all'inevitabile, conseguente , inquinamento atmosferico.

e) Abbattimento microbico. Altra forma di abbattimento dell'inquinamento da idrocarburi, prevede l'impiego di microrganismi marini che hanno il compito di accelerare i processi di depurazione naturale del mare. Questi microrganismi sono dotati di particolari enzimi lipolitici, proteolitici e glicolitici che riescono a "digerire" rispettivamente molecole grasse, proteine e carboidrati.

Lo scopo dell'abbattimento microbico è proprio quello di fornire all'ambiente marino la possibilità di incrementare il processo di autodepurazione. Pertanto i batteri marini vengono miscelati con nutrienti a formare una mistura polverosa che viene lanciata sullo sversamento con elicotteri.

Il metabolismo dei microrganismi marini conduce alla formazione di prodotti di degradazione rappresentati da acidi grassi (mono, di e tri-gliceridi), solubili in acqua e fonte alimentare per altri organismi marini.


CASO DI STUDIO 2 MARE MONSTRUM

1988: Le navi dei Veleni

Il 26 aprile di quell’anno la Zanoobia con il suo equipaggio ormai esausto e intossicato dai rifiuti tossici che trasportava, riesce ad attraccare al porto di Livorno, dopo una peregrinazione durata quaranta giorni, perché nessun porto dava l’autorizzazione all’attracco e perché nessuno voleva riprendersi quel carico di veleni. La storia della Zanoobia, che riportò in patria i rifiuti della Jelly Wax, respinti al mittente dopo che un’altra imbarcazione – la Lynx - li aveva portati in Venezuela, è emblematica per raccontare il vergognoso scaricabarile di rifiuti tossici - in qualche caso anche radioattivi - che in quegli anni invase le cronache italiane. Navi partite dai porti italiani per portare rifiuti tossici di aziende nostrane in paesi che allora venivano definiti del Terzo mondo, e che dai quei paesi come boomerang riprendevano la strada di casa. Due giorni dopo l’attracco della Zanoobia al porto di Livorno, dallo stesso porto partì un’altra spedizione di rifiuti tossici provenienti da Porto

Marghera e diretti a Port Koko in Nigeria, a bordo della nave Jorgen Vesta. Ma la Vesta sarà l’ultima nave dei veleni: grazie infatti ad un dossier, scritto anche da Legambiente, che un gruppo di studenti nigeriani residenti a Perugia inviò al principale quotidiano nigeriano, scoppiò un’accesa protesta nel paese africano contro il colonialismo tossico. L’epilogo si ebbe con il sequestro di una portacontainer triestina attraccata a Port Lagos, la nave Piave, con l’intero equipaggio di 24 marinai. In cambio dell’”ostaggio” il Governo nigeriano chiedeva a quello italiano di riprendersi i propri veleni. Fu così che dopo quasi un mese di trattative e di veri e propri scaricabarile di competenze tra ministeri, la protezione civile dette l’incarico a Eniambiente di occuparsi del caso. La società stipulò un contratto con un armatore di Amburgo, che inviò tre navi in Nigeria per caricare i bidoni di rifiuti tossici e portarli ad un impianto di incenerimento inglese, per essere definitivamente smaltiti. La nave Piave liberata dai nigeriani salpò dal Lagos e contemporaneamente salparono anche le prime due navi che avrebbero dovuto portar via i rifiuti tossici, una di queste era la Karin B. Ma le cose non andarono per il verso giusto: la notizia dell’arrivo dei rifiuti creò un’ondata di proteste nel mondo industrializzato inglese e nessuno dei 140 porti britannici accettò di far attraccare le navi. La notizia fece presto a diffondersi nel resto d’Europa e anche in Italia: nessuno vuole quelle navi. Nacque così un’altra odissea per le navi dei veleni che, rifiutate dai porti inglesi, cacciate dai porti spagnoli e francesi, attraversarono per mesi il Mediterraneo approdando alla fine a casa. I tre porti designati furono Livorno, Ravenna e Manfredonia e la cifra spesa per mettere la parola fine a questo brutto affare raggiungerà i cento miliardi. Ma il traffico dei rifiuti e non solo- continua a lambire le coste del Mediterraneo

1990: L’ultimo viaggio della Jolly Rosso

Il 14 dicembre 1990 sulla spiaggia tra Amantea e Campora S.Giovanni, in provincia di Cosenza, si arena la nave Jolly Rosso. La Rosso per quel che sarebbe stato il suo ultimo viaggio era partita da La Spezia e, quando si presentò davanti alla costa calabrese, era di ritorno da Malta: ufficialmente trasportava tabacco, nylon e materiali vari. La nave aveva iniziato ad imbarcare acqua fin dalle prime ore del mattino e dopo essere stata abbandonata, si era rovesciata sul fianco destro finché si arenò nei pressi della spiaggia di Formiciche. In seguito intorno alla nave arenata si verificarono alcuni episodi poco chiari ai quali ancora oggi si sta cercando risposta. Tra questi il ricorso da parte della Compagnia Ignazio Messina, responsabile della Moto Nave Jolly Rosso, alla società olandese Smit Tak “specializzata in bonifiche a seguito di incidenti radioattivi”, che rinuncia dopo 17 giorni all’incarico. Nella fiancata sinistra della nave, rivolta verso il mare e non visibile dalla spiaggia, era apparso intanto un grosso squarcio che non c’era prima come dimostrano alcune testimonianze e le riprese contenute in una videocassetta amatoriale acquisita agli atti dalla Procura di Paola. Questi e altri punti importanti risultano da un’indagine eseguita dall’Espresso e da alcuni atti istituzionali tra cui la risposta del 27 luglio 2003 del Ministro per i rapporti con il Parlamento, On. Carlo Giovanardi all’interrogazione sull’argomento presentata dall’On. Ermete Realacci, in cui il ministro parla di “…spiaggiamento della nave, o meglio di mancato affondamento…” e ribadisce la comparsa dello squarcio sul fianco sinistro dello scafo solo in un secondo momento. La vicenda, che sembrava dimenticata, è tornata a galla agli inizi del 2004 grazie alle nuove indagini della Procura di Paola, dopo 13 anni di indagini delle Procure di Reggio e Lamezia Terme. Più recentemente l’Espresso ha pubblicato la drammatica testimonianza di un pentito della ‘ndrangheta che sembra confermare le ipotesi più catastrofiche. Il pm titolare delle indagini, sta indagando su diverse ipotesi di reato: dal tentativo di affondamento doloso all’occultamento di rifiuti tossici e radioattivi. Sono molti e molto pesanti gli interrogativi che la procura di Paola dovrà ora sciogliere per far luce sulla questione. Tra questi il fatto che la motonave Jolly Rosso trasportasse materiale radioattivo.

1991: Il disastro della Haven

Il 14 aprile, dopo un incendio ed un’agonia di 3 giorni, la petroliera cipriota Haven con 144.000 tonnellate di greggio, affonda nelle acque di Arenzano, nel mar Ligure, provocando la morte di 5 uomini dell’equipaggio, tra i quali il comandante. È il più grave inquinamento da idrocarburi mai avvenuto nel Mediterraneo e nelle acque territoriali italiane. La Haven era una vera e propria “carretta del mare”: faceva parte di un gruppo di quattro petroliere gemelle costruite in Spagna, tutte finite in tragici naufragi. Durante la prima guerra del golfo era stata colpita da un missile e quello tragicamente finito di fronte al litorale ligure era il suo primo viaggio dopo oltre due anni trascorsi in un cantiere di Singapore per le riparazioni. Il disastro della Haven, fece emergere con forza il problema del trasporto petrolifero lungo le acque del Mediterraneo: nel bacino che rappresenta lo 0,8 % delle acque del globo si dipana un traffico giornaliero di oltre 2.000 navi mercantili, circa 300 di queste trasportano qualcosa come 350 milioni di tonnellate di petrolio all'anno, il 20% degli idrocarburi complessivamente movimentati nel pianeta. Si tratta di una cifra destinata ad una incredibile moltiplicazione con la costruzione di nuovi oleodotti e terminal petroliferi e che sicuramente stabilizzerà ulteriormente la posizione del Mediterraneo in testa alla classifica mondiale dei mari più inquinati da catrame con ben 38 mg/metro cubo. Il Mediterraneo è la via di navigazione preferita nel trasporto di greggio dai paesi produttori ai paesi più industrializzati, in primo luogo gli Usa. Nel nostro paese sono presenti 19 impianti attivi per un totale di raffinazione complessivo, per il solo petrolio (crudo), di circa 2,4 milioni di barili al giorno. Gli arrivi di greggio vengono distribuiti su circa 15 porti, ma ben il 60% delle importazioni di petrolio è concentrato in soli 4 porti (Trieste, Genova-Multedo, Siracusa-Melilli, Cagliari), una situazione che rende piuttosto rigido il sistema e non consente di ovviare a eventuali defaillance di uno dei nodi principali. In sostanza dal momento che l'importazione di greggio è una quota crescente che si ripartisce in prevalenza su pochissimi terminali attrezzati, le eventuali difficoltà di uno dei porti maggiori comportano inevitabilmente situazioni di rischio in tutti gli altri che non sono sufficientemente attrezzati ad accogliere le variazioni di input. Proprio il trasporto petrolifero rappresenta la fonte più consistente d'inquinamento da idrocarburi dei sedimenti marini: sono almeno 150.000 le tonnellate di petrolio che finiscono in mare ogni anno a causa di sversamenti intenzionali (soprattutto il lavaggio delle cisterne), ma secondo stime più allarmanti questa cifra andrebbe moltiplicata per sette.

 

 

 


 

Fonte: http://digidownload.libero.it/alfredeluca/scuola/dispensa%20chimica%20ambientale%202009-10.doc

Sito web da visitare: http://digidownload.libero.it

Autore del testo: A.De Luca

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