Filologia romanza

Filologia romanza

 

 

 

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Filologia romanza

1. Questioni terminologiche

 

1.1 Il temine ‘filologia’

 

La parola filologo significa ‘amante delle lettere dal latino tardo philologus, a sua volta dal greco dal greco philologos. Il significato odierno si riferisce a una disciplina, o meglio, a un gruppo di discipline e non sempre rientrano gli stessi concetti sotto la stessa denominazione. In sostanza, la filologia è la scienza che studia  la lingua e la letteratura di un popolo o di un gruppo di popoli deducendola dai testi scritti. Siccome dal periodo della nascita della scienza filologica si sono rese autonome alcune delle discipline (linguistica in senso stretto, critica del testo, ermenutica ecc.), filologia viene a significare oggi la scienza e la tecnica che si prefigge come fine la ricostruzione di un testo letterario nella sua forma più vicina all’originale indagandone la genesi e la struttura.

 

1.2 Il termine ‘romanzo’

 

Romanzo indica subito il suo etimo, Roma. Le lingue romanze sarebbero, quindi, le lingue discendenti dalla lingua di Roma: galego-portoghese, spagnolo, catalano, provenzale, francese, franco-provenzale, italiano, sardo, ladino, romancio, sardo, dalmatico e rumeno.

Il nome di Roma ha dato origine a numerosi nomi comuni e propri nonché aggettivi in italiano. Vediamo:

romano: aggettivo che indica la Roma antica o quella moderna.

rumeno: lingua e popolo dei Valacchi.

romanesco: il dialetto della Roma odierna.

romanzo, romando: neolatino.

Romagna: regione italiana (con Emilia) con capoluogo Bologna.

Romanía: lo Stato balcanico creatosi nel XXmo  secolo con l’unificazione della

      Valacchia, dell’Oltenia e della Transilvania.

Románia: il territorio che corrisponde alla diffusione delle lingue neolatine.

romanzo: ampio componimento narrativo.

romanticismo: movimento culturale europeo del XVIIIo-XIXo secolo.

 

1.3 I termini ‘latino volgare’, ‘volgare’, ‘volgari’

 

La parola volgare è una voce dotta e viene dal tardo latino vulgaris, ‘comune a tutti, ordinario’. Latino volgare è ormai un termine tecnico consolidato anche se molti preferiscono ‘latino tardo’, ‘latino medievale’, ecc. e si riferisce  alla lingua parlata dal popolo, specie  nel periodo in cui ebbero origine le lingue neolatine, in contrapposizione al latino classico, considerato come lingua colta e letteraria per eccellenza.

Per semplicità e riducendo la situazione a schema un po’ troppo rigida ma didattica, potremmo dire che il termine ‘volgare’ ha nella storia almeno tre significati diversi che si possono mettere in evidenza con il termine contrapposto.

I. Nella prima fase (l’Impero Romano ancora esistente) la contrapposizione sarebbe tra latino classico e latino volgare: il primo inteso come la lingua ricercata e raffinata, riservata a pochi dotti e il secondo come l’uso quotidiano, la realizzazione plebea di questo ideale (v. a questo riguardo l’opposizione di F. de Saussure tra langue e parole).

II. La seconda fase, identificabile come la seconda metà del primo millennio, vede contrapposta semplicemente il latino  e il volgare (designato anche con vari altri nomi: sermo plebeius, maternalis...). L’uso del latino si restringe sempre di più alla scrittura e il divario tra lo scritto e il parlato continua a crescere (diglossia). La disgregazione territoriale del latino volgare è già in atto.

III. La terza fase (dopo l’anno Mille) vede il pieno svilupparsi degli idiomi, nascono sempre di più opere  nei volgari, identificabili ormai secondo una fisionomia ben precisa. I volgari italiani significano praticamente fino al periodo dell’Umanesimo le parlate locali di pari rango. Solo dopo l’attività letteraria dei tre grandi Toscani, e infine dopo la discussione quattro-cinquecentesca sulla Questione della lingua questi volgari italiani si abbassano man mano a livello di dialetto.

 

2. Il dominio romanzo

 

Il dominio romanzo occupa una zona continua da Ovest a Est dal Portogallo all’Italia, comprendendo alcune grandi isole del Mediterraneo (Baleari, Corsica, Sardegna, Sicilia). Sulla Costa jugoslava il dalmatico, saldandosi all’italiano, scendeva un tempo fino a Ragusa (Dubrovnik).

La zona continua comprende dal punto di vista politico (ma con discrepanze anche notevoli ai confini) quattro grandi stati nazionali: Portogallo, Spagna, Francia, Italia con il Belgio francofono, le parti della Svizzera romanda, di lingua francese, italiana e romancia.

Entità linguistiche autonome si considerano abitualmente: il catalano, l’occitanico (provenzale), il sardo; e i tre gruppi romancio, ladino e friulano. In questa zona continua ci sono alcune enclaves alloglotte non romanze. Le principali sono: il basco nei Pirenei fra Francia e Spagna (un fatto di conservazione, più precisamente di resistenza alla romanizzazione), il bretone nella Bretagna (N-O della Francia; un fatto di colonizzazione medievale dalle isole britanniche), penisole e isole tedesche in Francia e in Italia (colonizzazione medievale o annessioni moderne); albanese (in Italia meridionale, soprattutto in Calabria e in Sicilia), greco in Puglia e in Calabria (colonizzazioni e forse resti antichi).

Una grande zona isolata a Est è poi costituita dall’odierna Romania (con la Repubblica Moldava e lembi dell’Ucraina ed i gruppi rumeni di Croazia; e con i dialetti separati in Istria, e in Albania, Jugoslavia e Grecia). Tutto questo dominio è detto Romània.

 

2.1 Romània perduta e Romània nuova

 

Confrontando la Romània attuale con la zona latinofona dell’Impero romano, si identificano le zone in cui il latino non è continuato: nell’Africa settentrionale (berberizzata e poi arabizzata), ai confini al Nord delle Alpi fino al Danubio e oltre il Reno (zone prevalentemente germanizzate, magiarizzate o slavizzate). Questa è la Romània perduta. La Romània nuova comprende i territori di lingua romanza che non hanno conosciuto latinizzazione, e ma dove una lingua romanza è stata importata più tardi. Si tratta soprattutto delle colonizzazioni che hanno portato lo spagnolo nell’America centrale e meridionale, il portoghese in Brasile, il francese nelle Antille e in Canada, ecc. Ma ci sono anche fenomeni di altro genere, come gli stanziamenti di comunità ebree di lingua spagnola nei Balcani e in altre zone europee e nord-africane dopo l’espulsione in massa dalla penisola iberica nel XV sec. Oggi i parlanti lingue romanze nel mondo sono circa 600 milioni, e sono destinati, con lo sviluppo demografico in atto in America latina, a crescere ancora.

Ci sono inoltre le lingue creole e i pidgins (o sabir) a base soprattutto portoghese o francese. Si tratta particolarmente delle lingue formatesi in Africa dal contatto di lingue europee con lingue indigene, e importate poi con gli schiavi dall’Africa in America. Le lingue creole sono diventate lingue primarie (cioè lingue materne) dopo essere state per un certo tempo lingue secondarie, parlate cioè in alternanza con la lingua materna indigena: questo secondo stato è quello del pidgin. Un pidgin diffuso nell’Africa francese, e a base, appunto, francese è il petit nègre. Nel Mediterraneo la lingua franca è stata parlata per molti secoli da popolazioni diverse che navigavano nel bacino comune. La sua base è stata, almeno inizialmente, l’italiano. Pidgins e lingue creole formano un oggetto collaterale della romanistica. Il loro studio è stato inaugurato da Hugo Schuchardt.

Un ordinamento non meramente geografico delle lingue romanze solleva tutti i più gravi problemi della linguistica comparata e della tipologia. Di fronte alle gravi difficoltà di un ordinamento pensato in termini di diversità linguistica, una classificazione meramente geografica finisce per essere preferita da molti, tanto più che è possibile anche una interpretazione dei fatti di contiguità geografica con fattori di sostrato, di superstrato e in genere con fatti storici.

 

a)      Portoghese              ü

Spagnolo                 ý Ibero-romanzo

Catalano                  þ        ü

b)      Provenzale (e guascone)    ú

Franco-provenzale              ý Gallo-romanzo

Francese                             þ

lingue romanze occidentali

lingue romanze orientali

c)      Ladino         ü

Sardo ý                   Italo-romanzo

Italiano         ú

Dalmatico     þ         ü

                               ý         Balcano-romanzo

d)      Rumeno                  þ

 

Da notare il ruolo di “ponte” che ha il Dalmatico tra Balcano­romanzo e Italo-romanzo; e del Catalano tra Gallo-romanzo e Ibero­romanzo. Lo stesso ruolo tra Italo-romanzo e Gallo-romanzo è rap­presentato dai dialetti gallo-romanzi (dialetti dell’Italia settentrionale, ad eccezione del veneto), che pure non figurano in questo schema.

In base a quale criterio si può operare una scelta e stabilire una preferenza tra i vari tipi di ordinamento delle lingue romanze? I fatti “areali” sono interpretati il più delle volte attraverso il lessico, qual­che volta attraverso la fonetica o la morfologia. Ordinamenti come quello di Tagliavini, che rispettano la continui­tà geografica, si appoggiano all’osservazione episodica di concordan­za, gruppo per gruppo, di fenomeni di tutti i livelli linguistici. Tutta­via bisogna riconoscere che si è sempre dimostrato difficile integrare in modo soddisfacente e rigoroso più criteri. Succede naturalmente, per esempio, che due lingue geograficamente vicine abbiano una grande parte di lessico comune, ma possono avere differenze anche molto notevoli dal punto di vista morfologico e sintattico. Bisogna decidere allora se dare la priorità a fatti lessicali o grammaticali. L’unico crite­rio che può passare attraverso diversi livelli della lingua senza cadere in affermazioni arbitrarie è quello che oppone fatti conservazione (fonetica, lessicale, sintattica, ecc.) contro fatti di innovazione, come ha proposto Vidos. Operando in questo modo, si fanno risaltare i fatti più rari che possono essere:

a) mancata parteci­pazione a innovazioni generali, quasi “pan-romanze”, per cui una lingua o conserva una forma latina altrove abbandonata, o innova per conto suo, in modo diverso;

b) innovazioni geograficamente li­mitate, che interessano una sola lingua o un gruppo di più lingue, che spiccano così su un panorama altrimenti uniforme rappresentante in genere lo stato tardo-latino. Ma da questo modo di procedere non discende di per sé nessun principio classificatorio perché, ben­ché certe lingue risultino più spesso conservatrici e altre più spesso innovatrici, i vari fenomeni hanno una distribuzione spaziale diversa.

Gerarchizzando i livelli, e considerando che i fenomeni linguistici di grado alto (sintassi, categorie grammaticali, ecc.) sono più rilevanti di fatti di ordine più superficiale (morfofonologia, fone­tica), si può avere però una generalizzazione più precisa. E questa perciò la via che seguiremo qui in seguito: considereremo i fatti di conservazione e di innovazione di livello più alto, e osserveremo quali gruppi di lingue vengono a esserne interessati. Parlando di “gerarchizzazione” dei livelli linguistici, faccio riferimento alla gram­matica generativo-trasformazionale nella quale il posto più alto (pro­fondo) è riservato alla sintassi; uno intermedio alla morfologia; men­tre fonologia-fonetica e semantica sono considerati “corpi separati”, e sono meramente “interpretative” delle strutture profonde.

Grazie a questo criterio, la tesi di un’opposizione tra la “Romània continua” e due spezzoni separati, il rumeno (con qualche carattere conservativo, e certe novità in proprio) e il francese (innovativo), risulta in gran parte confermata. Wartburg aveva previsto infatti che, a una considerazione sincronica, la Romània sarebbe ap­parsa articolata in tre blocchi: due costituiti rispettivamente dal ru­meno e dal francese, da soli, e un terzo grande blocco che riunisce tutte le altre lingue romanze, dall’Atlantico all’Adriatico: la “Romà­nia continua”. In realtà non si tratta nel nostro caso di un approc­cio rigidamente sincronico. Se da un lato infatti si è cercato di evita­re di pescare arbitrariamente tra fatti di diacronia e di sincronia e perfino tra fatti antichi e fatti recenti, com’era pratica abituale della vecchia scuola, la sincronia della quale ci interessiamo noi ora ricapi­tola in sé la diacronia. Quello che è diverso si è differenziato nella storia, quello che è uguale è frutto di persistenza. Certo, altri feno­meni danno luogo a diversi raggruppamenti di lingue, alcuni dei quali si sovrappongono abbastanza bene a certi raggruppamenti clas­sici. Ritroviamo così il gruppo balcano-romanzo (con l’Italia meridio­nale, e a volte la Sardegna), che è uno spazio linguistico conservato­re. Ritroviamo anche il gruppo gallo-romanzo (con dialetti italiani settentrionali, e spesso il veneto e anche il friulano) che è un gruppo innovatore. Il panorama è perciò abbastanza complesso; d’altra parte uno sforzo per una semplificazione forzata non sarebbe certo giusti­ficato.

Concordanze di alto livello devono riflettere precise circostanze storiche. Per es. la conservatività delle lingue balcano-romanze, di certi dialetti italiani meridionali e del sardo deve essere messa in rapporto al fatto che queste zone sono state escluse durante la tarda antichità dalle comunicazioni con il resto dell’Impero. Oltre a fatti di alto livello, anche molti fatti fonetici e soprattutto lessicali do­vrebbero riflettere questo fenomeno, e lo fanno. E più difficile però la loro valutazione in sede teorica, perché simili fatti sono sparpa­gliati in modo molto vario. In effetti le novità e i prestiti lessicali si trasmettono con grande velocità e facilità, mentre quelli grammatica­li presuppongono una fortissima e prolungata pressione. Corrispon­dentemente una lingua non cambia con il cambiare del lessico origi­nario: è la grammatica che è decisiva. Concludendo, la g r a m­matica (sintassi) dà luogo al massimo di coin­cidenze, e serve perciò tanto meglio a mette­re in rilievo i pochi fenomeni di grande diver­sificazione . All’altro capo della gerarchia dei livelli linguistici, la fonetica e il lessico presentano un massimo di diversificazione, e sono perciò poco utili per ogni criterio di ordinamento.

 


2.2 Le lingue romanze

 

Le tre lingue ibero-romanze hanno una storia parallela che spiega alcune delle loro caratteristiche attuali, per cui alla pre­sentazione delle singole lingue premettiamo un breve schizzo sulla loro formazione storica.

Il punto di partenza per capire lo sviluppo delle lingue ibero­romanze è la conquista della penisola da parte degli Arabi (711-720). La prima conseguenza di questo evento storico fu la divisione della penisola in un nord cristiano e un sud musulmano: infatti subito dopo l’entrata degli Arabi si formano, in una stretta striscia nel nord, alcuni stati cristiani che organizzano la resistenza e poi il lun­go processo di riconquista (Reconquista) che porterà all’eliminazione completa del dominio arabo (1492). Gli stati cristiani era­no, da ovest a est, il regno di León, il regno di Navarra, il regno di Aragona e la contea di Barcellona (che si unirà col regno di Aragona nel XII sec.); dal regno di León si staccherà, intorno al 1095, la contea (poi regno) di Portogallo e, già nel X sec., la contea (poi regno) di Castiglia che diventerà presto il centro politico e culturale più importante della Spagna cristiana e si riunificherà, nel 1230, con il regno di León, ma stavolta con egemonia castigliana.

Dal punto di vista linguistico, troviamo, sempre da ovest a est, i seguenti gruppi linguistici: 1) il galego-portoghese nella parte occi­dentale del regno di León; Con la formazione della contea di Porto­gallo, il territorio linguistico galego-portoghese resta diviso in due: il nord “galego” resta unito a León e quindi alla Spagna, il sud (porto­ghese) diventa la lingua di un paese indipendente; 2) l’asturo-leonese, nella parte centrale del regno di León; 3) il castigliano, nel regno di Castiglia; 4) l’aragonese, nei regni di Navarra e Aragona; 5) il catalano nella contea di Barcellona. Nel Sud, occupato dagli Arabi, si par­lavano vari dialetti romanzi su cui siamo relativamente poco infor­mati, data la scarsezza di testimonianze dovuta al fatto che la lingua di cultura era l’arabo. Il romanzo dei territori arabizzati veniva chia­mato dagli scrittori al-cagamiya (“lingua straniera”), mentre dai filo­logi moderni viene denominato mozarabico (da una parola araba che significa “suddito degli arabi”).

Il processo di riconquista significò, dal punto di vista politico, l’occupazione progressiva e la ripopolazione del centro e del sud della penisola da parte degli stati cristiani del nord e, dal punto di vista linguistico, l’espansione verso sud delle lingue romanze parlate nel settentrione della penisola, lingue che vennero così a sostituire l’arabo e a eliminare e in parte assorbire i dialetti moza­rabici. Non tutte le lingue del nord peninsulare hanno però preso parte in maniera uguale alla riconquista linguistica: vi hanno preso parte a occidente il portoghese, ormai staccato dal galego; al cen­tro il castigliano, che diventa la lingua egemone nel regno di Ca­stiglia e León e poi, dopo l’unificazione col regno di Aragona nel 1469, nel regno di Spagna (per cui, a partire dal XVI sec., co­mincia a essere chiamato anche spagnolo); e a oriente il catalano. Asturo-leonese e aragonese hanno invece avuto un ruolo minore nell’espansione verso sud. Si arriva così all’attuale carta linguistica della penisola iberica in cui ritroviamo i cinque gruppi linguistici settentrionali, ma con una distribuzione e un’importanza relativa diverse. Il portoghese occupa tutta la fascia occidentale della penisola ed è la lingua ufficiale del Portogallo (per il galego, vedi più sotto la parte dedicata al galego-portoghese); il castiglia­no occupa tutta la parte centrale della penisola ed è la lingua uf­ficiale della Spagna, mentre asturo-leonese e aragonese sono ridotti oggi a gruppi dialettali che vanno via via perdendo terreno sotto l’egemonia del castigliano; il catalano occupa la parte orientale della penisola iberica ed è lingua nazionale della regione autono­ma della Catalogna.

L’attuale assetto linguistico della penisola iberica è dunque il frutto della riconquista e dell’espansione dei dialetti settentrionali

 

2.2.1 Il galego-portoghese

 

Sotto la denominazione di ga­lego-partoghese si racchiude un concetto duplice; da una parte essa indica la lingua letteraria che, nei sec. XIII e XIV, è servita come mezzo di espressione alla lirica iberica di ispirazione trovadorica, essa ha la sua base nei dialetti parlati nel nord­ovest della penisola (Galizia e nord del Portagallo). D’altro lato que­sta denominazione indica il gruppo linguistico formato dal galego e dal portoghese, lingue che, dopo la separazione del Portogallo da León (e quindi dalla Galizia), hanno condotto una vita indipen­dente.

 

Il galego, dopo il periodo della lirica galego-portoghese, continua la sua vita di lingua letteraria fino alla fine del Medioevo, ma finisce con il soccombere di fronte all’egemonia del castigliano. Esso sopravvive oggi allo stato dialettale, anche se a partire dalla metà del secolo scorso sono stati fatti vari tentativi per ricostituire una lingua letteraria. Recentemente è stato elevato al rango di lingua nazionale, accanto allo spagnolo (lingua ufficiale), nelle province ga­liziane. I dialetti galeghi sono stati fortemente castiglianizzati, soprat­tutto nel lessico e nella sintassi, e si differenziano ormai sotto molti aspetti dal portoghese.

 

Il portoghese, oltre a essere la lingua del Portagallo, è anche la lingua di alcune ex-colonie, tra cui la più importante è il Brasile, e la base di varie lingue creole asiatiche e africane. Contan­do solo Portogalla e Brasile, il portoghese è attualmente parlato da 129 milioni di persone (9 milioni in Partogallo e 120 in Brasile) ed è quindi la seconda per diffusione fra le lingue romanze.

Come accennato, il portoghese è la lingua originariamente parla­ta nel nord del Portogallo e poi diffusasi verso sud. Ma, diversamen­te che nel caso del castigliano, anche il centro politico e culturale del paese si è spostato verso sud, per cui la lingua ufficiale ha assun­to ben presto tratti tipicamente meridionali. Dal punto di vista dia­lettale possiamo distinguere oggi un gruppo di dialetti settentrionali (che corrispondono alla zona di formazione del portoghese e alle zone riconquistate più anticamente) e un ampio gruppo di dialetti centro-meridionali (che corrispondono alla zona di colonizzazione, alla zona cioè dove il portoghese è stato impiantato su un territorio originariamente mozarabica). Le caratteristiche dei dialetti cen­tro-meridionali, con cui si allinea la lingua standard, trovano a volte paralleli nei dialetti meridionali dello spagnolo (andaluso): così nel sud del Portogallo, com nel sud della Spagna, è stata eliminata l’opposizione originaria tra [ts] e [dz] e tra [dz] e [z] (a favore di [s]< [ts] e [z] < [dz]); per cui oggi paço “palazzo” non si distingue più da passo “passo” (ambedue [‘pasu]) e cozer “cuocere” non si distingue più da coser “cucire” (ambedue [ku’zer]).

Il portoghese parlato in Brasile si differenzia sotto molti aspetti dal portoghese europeo e presenta inoltre una notevole stratificazio­ne in dialetti sociali: così, se le differenze non sono molte nella nor­ma scritta, esse aumentano man mano che ci avviciniamo ai registri parlati più famigliari. Le differenze riguardano tutti gli aspetti della lingua e in parte rappresentano delle conservazioni di stadi di lingua più antica (in genere il portoghese dell’inizio del XVIII sec.), in par­te sono delle innovazioni tipiche del brasiliano. Un esempio di con­servazione è la pronuncia [i] della e atona finale: passe “che io (egli) passi” [‘pasi], come nel portoghese europeo del XVIII sec. (il porto­ghese europeo ha in seguito centralizzato questa [i], che è pronun­ciata oggi come uno schwa molto chiuso: [‘pase]). Un esempio di innovazione è la pronuncia palatalizzata o affricata di /t/ e /d/ da­vanti a [i]: tipo “tipo” è in genere pronunciato [‘t’ipu] o [‘tòipu]. I due fenomeni si ritrovano, per esempio, nella parola de, pronunciata in Brasile [dzsi] (in Portogallo [de]). Grandi differenze si hanno anche nella sintassi (p. es. nell’ordine dei pronomi clitici: brasiliano me parece, portoghese parece-me “mi pare”) e nel lessico, soprattutto a causa dei molti prestiti da lingue amerindie e africane tipici del portoghese del Brasile.

Fra le principali lingue creole a base portoghese citiamo il creolo di Ceylon e quello di Malacca in Asia e quelli di Capo Verde, della Guinea Bissau e di Sao Tomé e Principe in Africa. Si tratta natural­mente di lingue che, con il portoghese, ormai hanno in comune pra­ticamente solo la base lessicale, mentre la struttura grammaticale è completamente diversa.

 

2.2.2 Lo spagnolo

Lo spagnolo, o castigliano, è la lingua ro­manza più parlata nel mondo. Cca. 220 milioni di persone lo hanno come lingua materna o come seconda lingua; è lingua ufficiale in 29 stati dell’ONU. Lo spagnolo letterario è, come abbiamo visto, origi­nariamente un dialetto settentrionale (con il suo centro attorno a Burgos) che, grazie al ruolo determinante dell’iniziativa castigliana nella Reconquista, ha finito con l’imporsi e quasi cancellare le altre varietà dialettali.

Il castigliano aveva alcuni tratti fonetici eccentrici nel panorama iberico: cioè la sostituzione di /h/ iniziale a /f/ : hijo per fijo “fi­glio”; la dittongazione, del tipo sierra, è arrestata dalla presenza di jod: noche invece di *nueche “notte” (dal latino NOCTEM. Il nesso -ct ­sviluppa uno jod che palatalizza la consonante che diventa /cs/); /l/ in llamar, llover (“chiamare, piovere”) contro clamar, ploure dell’ara­gonese e del mozarabe o altre soluzioni nelle altre varietà. Nel corso del Cinquecento e del Seicento, quando il castigliano era ormai di­ventato lo spagnola letterario, l’antico sistema fonologico è ancora notevolmente evoluto, sempre nel senso di semplificazioni: l’apposi­zione di /b/ e /v/ si defonologizza; così quella di /s/ sonora e sorda cade; si riducono le affricate /ts/ e /dz/ e si ha il nuovo suono /q/; il nuovo fonema /x/, una fricativa velare sorda, prende il posto di /ò/ e /3/: così oggi si dice Quijote con /x/ mentre la pronuncia italiana Chisciòtte conserva l’antico /ò/.

Oggi il panorama dialettale, enormemente meno vario di quello italiano, è il seguente. Il leonese è notevolmente ridotto, e ancor più lo è l’aragonese. Tutta la zona meridionale è castigliana, anche se presenta molti fenomeni fonetici nuovi: ‘yeismo’, cioé pronuncia di ll come [j] anziché come [l]: caye per calle “via” (pronuncia che è testimoniata anche al Nord, e, negli ambienti popolari, perfino a Madrid); passaggio di s in fine di sillaba a /h/ o a zero: mascar “masticare” è [mah’kar] e [ma’kar], los hombres è [lo’hombreh], ecc.; defonologizzazione dell’opposizione di s e q (fenomeno detto ‘seséo’), pronunciati ambedue [s] e non [s] e [q]). All’interno dell’a­rea meridionale le varietà sono limitate: quella andalusa è particolar­mente importante perché sembra stare all’origine dello spagnolo d’America.

La diffusione dello spagnolo fuori di Spagna è dovuta a due grandi avvenimenti storici. Il primo è la cacciata degli Ebrei dalla Spagna nel sec. XV: accolti nell’impero turco, si sparsero nei Balcani e nell’Africa Settentrionale, e hanno conservato fino ad oggi un ca­stigliano arcaico, che ignora le evoluzioni fonetiche fondamentali che lo spagnolo ha avuto dopo quel tempo. ‘Moderno’ è invece la spagnolo d’America parlato dal Messico alla Terra del Fuoco, perché le ondate di colonizzatori sono continuate per secoli: la base comune è un castigliano meridionalizzata, comprendente generalmente i fenomeni descritti sopra (il ‘seséo’ è compatto). Ci sono stati poi fenomeni innovativi più o meno generali; nelle fonetiche locali l’impor­tanza dell’influenza delle lingue indigene è variamente valutata dagli studiosi.

Un altro focolaio di espansione dello spagnolo è nelle Filippine, dove si sono formati anche dei creoli spagnoli. Come si vede da questi rapidi cenni storici, un dialetto molto limitato originariamente ha subito una progressiva espansione, diventando la lingua abituale di un numero sempre crescente di parlanti: questo fatto può spiega­re probabilmente i continui fatti di semplificazione che hanno colpi­to particolarmente il sistema fonologico nel vocalismo, ma soprattutto nel consonantismo, alleggerendolo no­tevolmente rispetto al sistema antico.

 


2.2.3 Il catalano

Il catalano ha oggi più di 7 milioni di parlan­ti. Come lingua amministrativa, letteraria e di cultura il catalano è fiorito tra il XIII e il XV sec., con centro nella Corte di Aragona. Qui il catalano ha assunto un aspetto uniforme. Più tardi il catalano è stato sopraffatto come lingua ufficiale e di cultura dallo spagnolo, una volta avvenuta l’unificazione con il regno di Castiglia. Il catalano ha tuttavia oggi di nuovo un grande centro di attrazione e di diffu­sione linguistica in Barcellona, grande centro economico e culturale. La “rinascita” nazionale catalana ha promosso un uso sempre più vivo del catalano in tutte le attività intellettuali e pratiche, finché il catalano è stato riconosciuto come una delle lingue nazionali che affiancano lo spagnolo (sola lingua ufficiale) nella Spagna retta dalla nuova Costituzione del 1978.

La frammentazione dialettale catalana non è accentuata. Si distin­guono due gruppi dialettali principali (catalano orientale, e occiden­tale), chiaramente subordinati a una sola lingua letteraria. Nell’insie­me, il catalano si parla in Catalogna, nell’antico regno di Valencia, nelle Baleari, e anche nei Pirenei francesi orientali (Roussillon), a Andorra, a Alghero (Sardegna).

La posizione del catalano tra le lingue romanze è stata vivace­mente dibattuta tra gli studiosi. Il catalano è stata talvolta considera­to strettamente affine all’occitanico (Meyer-Lübke): in effetti molti fatti lessicali e anche fonetici del catalano sono piuttosto affini a quelli dell’occitanico che alle altre lingue della penisola iberica (per esempio caduta delle vocali finali diverse da -a, con conseguenze morfolo­giche spesso affini: Ma questo fenomeno è ben più diffuso e interes­sa perfino la gran parte dell’Italia settentrionale).

La cultura comune nella quale si situano le produzioni letterarie medievali accentua ancor più la somiglianza nei testi antichi. Altri studiosi, a partire da Menéndez Pidal, hanno sottoli­neato le concordanze con le altre lingue della penisola iberica.

 

 

2.2.4 Il francese

 

Circa 60 milioni di persone, di cui circa 43 milioni come lingua materna, 11 come seconda lingua in Francia (il resto in Svizzera Romanda, in Belgio, nel Québec) parlano oggi il francese, che è pure larghissimamente conosciuto nel mondo come lingua di cultura. È lingua ufficiale in 52 stati dell’ONU. Si può considerare che la conoscano 80 milioni di persone.

Nel territorio della Repubblica Francese, il francese è oggi presso­ché universalmente conosciuto e usato, a spese sia delle altre lingue che vi si parlano (bretone, fiammingo, basco, tedesco, provenzale e franco-provenzale, corso), sia dei dialetti originari, ridotti all’ambito familiare e rurale (sono i cosiddetti patois). Il fenomeno della diffusio­ne della lingua dell’Ile de France (il francien), irradiata da Parigi, è molto antico. A partire dalia metà del XII sec. la lingua di Parigi influenza i testi letterari e non-letterari del Nord. Ma è nell’Ottocento che, in seguito all’industrializzazione, alla scolarizza­zione e alle condizioni moderne di vita, il francese penetra capillar­mente nell’uso orale di tutto il paese. I dialetti antichi (oggi ridotti a gruppi di patois privi di una norma comune) più importanti, anche per l’impiego letterario che hanno conosciuto, sono stati: il piccardo; il normanno, il vallone; lo champenois; il borgognone ecc. Anglo-nor­manno è chiamata la varietà di francese impiegata in Inghilterra per alcuni secoli da vari strati (spesso, ma non esclusivamente, superiori) della popolazione. La differenza tra il francese (lingua d’oil) come complesso dei dialetti settentrionali, e occitanico (provenzale o linga d’oc) è stata generalmente messa in rapporto a più fatto­ri. Il Nord avrebbe avuto un sostrato celtico compatto, sarebbe stato meno profondamente latinizzato, avrebbe ricevuto una potente azione di superstrato germanico nei secoli di dominio dei Franchi (si sup­pongono tre secoli di bilinguismo franco-germanico in una parte della popolazione). Il Sud avrebbe posseduto diversi sostrati (celtico, ligu­re, iberico, ecc.), è stato più profondamente latinizzato e ha conosciu­to una dominazione germanica, quella dei Visigoti, solo passeggera. Ma è più difficile del previsto riportare precisi fenomeni linguistici che non appartengano al livello gerarchico più basso, quello lessicale, a queste diverse condizioni.

Si deve distinguere tra francese antico (fino all’inizio del XIV sec.) e francese moderno. Nel corso del Tre­cento infatti, la lingua ha subito una serie di cambiamenti radicali, nella struttura sintattica e nella fonologia, che ne hanno trasformato profondamente il volto. L’individualità del francese rispetto alle altre lingue romanze è - contrariamente a quella del rumeno - un fatto relativamente recente, e risale a questo periodo. I fenomeni che elen­chiamo di seguito si riportano tutti a quest’età. Si spiega così come sia abitudine, nelle Università, studiare il francese antico come una lingua a parte, e si sa che uno studente francese non capisce la Chanson de Roland o Joinville se non ha ricevuto una preparazione speciale. È avvenuta anche la latinizzazione grafica del francese nel Rinascimento. Pure durante il Rinascimento anche il lessico francese ha subito una profonda latinizzazione, operata per via erudita. È così che il francese moderno si presenta forse più di ogni altra lin­gua romanza come un insieme composito e asimmetrico: si pensi a coppie come langue (parola popolare): linguistique (latinismo); oeil “occhio” (popolare): oculaire “oculare” (latinismo).

Dal Seicento in poi il francese e la cultura francese sono stati diffusi in tutto il mondo, negli ambienti colti, grazie all’attrazione della letteratura, della filosofia, della cultura scientifica della Francia. Molte corti d’Europa hanno parlato e scritto francese (da Torino a Pietroburgo); molti scrittori europei, da Leibniz a Manzoni, hanno scritto anche in francese. Il francese è stato, nell’Ottocento, il mag­giore agente di “occidentalizzazione” del rumeno, un processo che interessa naturalmente soprattutto il lessico della lingua. Ma non è fenomeno eccezionale. In realtà il lessico francese (costituito in parte da latinismi anche crudi, come abbiamo visto) è passato a moltissime lingue europee e non-europee di diverse famiglie, ed è quasi diventa­to un terreno comune di incontro tra lingue altrimenti spesso molto lontane.

La diffusione coloniale del francese fuori d’Europa ha il suo cen­tro principale nel Canada, colonizzato dai Francesi dall’inizio del Seicento, e dove i francofoni formavano all’ultimo censimento ( 1976) ca. il 24% della popolazione, con i centri maggiori negli stati del­l’Ontario e soprattutto del Québec, dove costituiscono l’80% della popolazione. In America il francese è presente poi in alcune regioni degli Stati Uniti, a Haiti, nelle Antille, in Guiana. In Africa il france­se è presente in Tunisia, in Algeria e in Marocco, nell’Africa sub­sahariana, nel Madagascar e nelle isole Mascarene, dove però è co­nosciuto da élites, non dalle grandi masse. In Africa e in America, in particolari condizioni, il francese ha dato origine a pidgins (come il petit-nègre africano, lingua di scambio) e a lingue creole (Haiti, Pic­cole Antille e Guiana, isole Mascarene).

 

2.2.5 Il provenzale

 

10 ai 14 milioni di persone parlano o conoscono oggi l’occitanico (lingua d’oc); in Italia si dice ancora prevalentemente “provenzale”, che designa però anche, più precisamente, una delle “varietà” dell’occitanico. É la lingua ro­manza del Meridione della Francia che per prima si è costituita in una forma letteraria uniforme nel Medioevo (XlI sec.). Geografica­mente il sistema delle parlate provenzali si estende oggi per circa un terzo della Francia. Il confine col francese, partendo dell’estuario della Gironda e seguendo per un tratto la Dordogna, prosegue verso Nord-Ovest girando attorno al Massif Central (comprendendo Limo­sino e Alverniole) e raggiungendo il Rodano a Sud di Lione, scende al mare vicino a Monaco. In Italia è parlato nelle frange occidentali delle province di Torino (confinando a nord con il franco-provenzale) e di Cuneo. I più importanti centri provenzali sono quelli di religione valdese nella Val Pellice. Una colonia valdese medievale (XV sec.) si trova a Guardia Piemontese in Calabria (provenzale di Co­senza), e parla ancora il suo dialetto provenzale arcaico. All’interno dell’occitanico si distinguono diversi dialetti, tra i quali il guascone, con fenomeni molto peculiari, è fortemente distinto, e viene spesso considerato a parte. Il pittavino è oggi piuttosto francese; nel Me­dioevo aveva gravitato prevalentemente a Sud. Le altre varietà sono: il limusino e l’alvernàte; il provenzale alpino; il languedocino aquita­no; e il provenzale propriamente detto. L’occitanico è oggi conosciu­to prevalentemente sotto la forma di uno dei patois locali che lo continuano.

Tale riduzione dell’occitanico è stato il risultato della decadenza politica del Meridione e della politica centralizzatrice di Parigi; per cui il francese, lingua della monarchia, ma poi anche della Rivoluzio­ne e dello stato si è imposta gradualmente nelle città e poi nelle campagne del Sud. La penetrazione è stata lenta, e comprende non solo l’imposizione giuridica dell’Editto di Villers-Cotterets (1539), con il quale Francesco I prescriveva l’uso esclusivo del francese in tutto il regno e che tendeva in realtà a colpire non il provenzale ma il latino, ma anche una serie di adesioni spontanee alla monarchia francese e alla sua lingua precedenti quella data. Ci sono tentativi modemi di proporre una nuova koiné scritta dell’occitanico.

Il provenzale antico non era molto diverso dal francese antico; le differenze appaiono oggi aumentate per l’eccezionale evoluzione del francese. L’occitaliano antico è foneticamente meno evoluto del francese: latino A resta a (mar, ma francese mer); -A finale si conserva: porta (francese porte, con schwa finale), mentre tutte le vocali diverse da a cadono. Questo qua­dro, con altri particolari del vocalismo e del consonantismo, ci ripor­ta abbastanza vicini all’ital. settentrionale. Ma l’occitanico medievale possedeva ancora una declinazione bicasuale, della cui esistenza non ci sono prove per l’italiano; la forma­zione del plurale in -s separa pure l’occitanico dall’italiano settentrionale. Questi sono fenomeni gerarchicamente più alti di quelli fonetici, e mostrano dei tratti di affinità sostanziale tra le lingue della Francia, almeno nelle fasi antiche.

 

2.2.6 Il franco-provenzale

 

Un gruppo di parlate sud­orientali della Francia (Franche-Comté, Lionese, Savoia, la parte set­tentrionale del Delfinato) unite alla Svizzera Romanda e a alcune vallii a Sud delle Alpi in Italia, forma un blocco quasi continuo e relativamente uniforme al suo interno, nel panorama linguistico gal­lo-romanzo. Dall’Ascoli questa varietà è stata chiamata “franco-pro­venzale”. Gli studi sui documenti medie­vali hanno mostrato che quella che si presenta oggi come una con­vergenza tra parlate di regioni anche molto lontane e politicamente divise, era un’unità dialettale ancora più chiara nel Medioevo. Lione è stato il maggior centro letterario e linguistico. Come Lione, Greno­ble e Ginevra sono poi passate al francese, e ora il franco-provenzale comprende solo dialetti rustici (patois). Tali vanno considerati anche i dialetti delle valli di Aosta, la val Soana e la valle di Lanzo in Italia, che subiscono la pressione non solo dell’italiano ma anche del dialetto piemontese. Colonie italiane meridionali del franco-proven­zale sono nella provincia di Faggia (Faeto e Celle di S. Vito).

Il franco-provenzale è stato illustrato dagli studiosi, da Ascoli a Stimm, per le sue caratteristiche fonetiche, che ne fanno un ponte tra Nord e Sud, dunque tra francese propriamente detto e provenza­le. In tsantà “cantare” si osserva uno sviluppo di tipo francese della con­sonante e di tipo provenzale della a tonica. In posizione finale il francese provenzale ha -a, -i, -o, -e (erba, filli, codo “gomito”, pudze “pulce”), mentre il francese ha solo -a o consonante, e il prov a e e. Se l’unità francoproven­zale sia dovuta alla presenza dei Burgundi e al loro dominio secolare su uno spazio poi frazionatosi, resta un argomento discusso.

 

 

  W. von Wartburg, 1941.

cf. C. Tagliavini, 1972, capp. III e VI.

2.2.7 Il ladino, il romancio e il friulano

 

In tre aree periferiche dell’area italiana settentrionale, dei gruppi linguistici mostrano una fisionomia più spiccata. Le somiglianze con i dialetti italiani settentrionali sono chiare, ma appaiono anche con­cordanze con le lingue gallo-romanze, e ci sono infine - nonostante la discontinuità geografica, - accordi tra le varietà separate. Si tratta:

1) del “romancio” del cantone dei Grigioni (Svizzera), parlato in varietà locali nella Sopraselva, Sottoselva e Engadina fino a Oriente nella Val Monastero. Ci sono ca. 45.000 parlanti romancio;

2) dei dialetti della regione dolomitica, comprendenti le valli di Fassa, Gardena, Badia e Marebbe, Livinallongo; parte del Cadore: Ampezzo, Comelico (con propaggini a Sud e a Oriente, che quasi portano a toccare il terzo gruppo). Ca. 25.000 parlanti in Alto Adi­ge, per un totale di 75.000, con le altre valli;

3) del friulano, nel territorio omonimo, a parte alcune isole allo­glotte, tedesche o slave, e l’enclave veneta di Trieste, che ha lasciato l’antico “tergestino” alla fine del Settecento; Udine e altri centri ur­bani sono parzialmente venetizzati in tempi recentissimi. Circa 700.000 parlanti.

Occasionalmente, ci riferiamo ai tre gruppi col termine di ladino.

Non ci sono prove che i tre gruppi abbiano formato un tempo un’unità; né che si siano formati su un sostrato comune. L’evidenza è piuttosto dalla parte contraria. Tuttavia certi fenomeni comuni, come la conservazione di kl, pl e bl latini, o la formazione del plurale con -s, vanno in qualche modo interpretati. Il primo caso si può facilmente riportare a condizioni che si sanno come comuni all’italia­no settentrionale antico; il secondo richiederebbe di ipotizzare, in mancanza di ogni sostegno in documenti antichi, una situazione dei dialetti settentrionali diversa da quella odierna, nella quale non c’è oggi traccia di morfema -s. Altri fenomeni fonetici molto peculiari, come il passaggio di A > e, senza condizionamento palatale, non sono comuni a tutte le parlate, per quanto abbastanza diffusi (Enga­dina superiore, molti pumi del ladino centrale, pochissimi nel friulano). Un’innovazione comune è quella per cui ka tòa (o tòe), nei tre gruppi: latino CAPUT dà engadinese cho [tò], friulano kàf o tòàf. I tre gruppi si presentano oggi come molto distinti dalle varietà italiane confinan­ti, non solo per fatti conservativi ma anche per le molte innovazioni. Delle condizioni politiche particolari hanno poi portato i due gruppi grigionese e dolomitico a costituirsi in piccole “nazionalità”, alle quali è variamente riconosciuto uno statuto a parte rispettivamente in Svizzera e in Italia (nella sola provincia di Bolzano).

Nei due gruppi occidentale e centrale è sviluppato un certo inse­gnamento in ladino, si stampano alcuni giornali, ecc. Nel Friuli, dove particolarmente viva è la tradizione letteraria (non diversa da quella rappresentata da dialetti italiani di prestigio) è pure in atto un movimento di ritorno al friulano, che le generazioni precedenti ave­vano piuttosto abbandonato, come abbiamo visto, considerandolo una parlata “rustica”.

 

 

2.2.8 L’italiano

 

Ha circa 56 milioni di parlanti (anche se molti hanno per lingua materna un dialetto). La base dell’italiano moderna è nel fiorentino del Trecento, rappresentato dai tre grandi autori Dante, Boccaccio e Petrarca, diffusosi largamente per via letteraria soprattutto nell’uso scritto. Solo élites molto ristrette e qualche grup­po geograficamente limitato ha anche parlato l’italiano nei secoli scorsi. Negli ultimi cent’anni, dall’unità in poi e col favore di grandi spinte sociali e di nuove concentrazioni urbane, si è molto diffuso anche l’uso dell’italiano orale (in varietà locali più o meno differen­ziate soprattutto nella fonetica e nel lessico). Accanto all’italiano, o più spesso invece dell’italiano, si sono parlati dei “dialetti”. Questi rappresentano le continuazioni locali del latino, sullo stesso piano dell’italiano, che è il latino come si è evoluto a Firenze (con le preci­sazioni che seguono subito). Naturalmente i dialetti locali - come lo stesso fiorentino - costituiscono delle continuazioni non rettili­nee, ma influenzate dai dialetti vicini di maggior prestigio. In certi casi, il modello fiorentino ha cominciato a esercitare la sua influenza in età molto antica: già nel Tre-Quattrocento il veneziano subisce l’influenza del fiorentino. Mettendo da parte, provvisoriamente, il quadro dei dialetti italiani, cerchiamo di caratterizzare l’italiano in quanto fiorentino e di accennare alla sua storia.

Il fiorentino si presentava nel Trecento come un dialetto partico­larmente conservatore nel quadro italiano, tale da rispecchiare in modo eccezionale certi caratteri del “romanzo comune”: per esempio nel­la situazione del vocalismo (buono, tiene), che negli altri dialetti e lingue romanze è stata poi superata con nuovi conguagli, fatti meta­fonetici, perdita della distinzione tra sillaba aperta e chiusa. Questo fatto dipende probabilmente dalla situazione isolata di Firenze e del­la Toscana rispetto alle principali vie di comunicazione medievali. La nuova importanza economica, politica, commerciale e infine cultura­le di Firenze avrebbe diffuso in tutta Italia un tipo di lingua partico­larmente vicino al latino, e per questo particolarmente gradita ai let­terati e inoltre, almeno in certi casi, equidistante tra varietà diverse. Tuttavia nessun avvenimento politico decisivo ha poi effettivamente diffuso l’italiano oltre cerchie ristrette, come si è detto. Solo a Roma l’uso della corte pontificia ha influenzato profondamente la città. Per questo il “romanesco” è un tipo di toscano, mentre il dialetto della campagna romana è, com’era quello originario di Roma, una parlata centro-meridionale. A parte questo caso, l’Italia moderna ha mante­nuto una pluralità dialettale che, all’uscita dal basso Medioevo, era anche della penisola iberica e della Francia, ma che in quei paesi è stata radicalmente ridotta da fatti storici precisi. Mentre la lingua di Firenze è evoluta, l’italiano letterario e l’italiano parlato oggi, che ne dipende, hanno come modello sostanzialmente il fiorentino del Tre­cento, integrato dalla tradizione letteraria successiva. Così nessuno segue l’uso di Firenze nel ridurre i dittonghi (bòno, non più buono). Incerta è l’antichità dei fenomeni della “gorgia”, cioè di aspirazione di consonanti occlusive intervocaliche (dappertutto poho per poco, in zone più ristrette diqo per dito, ecc.); sicuramente recenti le evolu­zioni di [tò] > [ò] e [d3] > [3] (se precedute da vocale): [laòena] “la cena”; [la3ente] “la gente”. Anche in questi casi logicamente l’uso italiano non è quello fiorentino moderno. Il problema del rap­porto tra l’italiano e il fiorentino è stato dibattuto in un quadro normativo e ai suli fini dell’espressione letteratia, nel corso della co­siddetta “Questione della lingua”. In una pro­spettiva moderna, e quindi con un solo scopo descrittivo, l’Ascoli ha stabilito che l’italiano è il fiorentino antico in base ad alcune prove di fonetica storica, che lo differenziano prima dai dialetti settentrio­nali e meridionali assieme, poi anche dagli altri dialetti toscani. Per es. l’esito -aio del latino -ARIUS è del solo toscano (salvo la Lunigiana) contro i dialetti italiani sia settentrionali che centro-meridionali che hanno -aro: toscano pecoraio contro italiano sett. pegoraro, italiano centro-merid. pecoraro. Vediamo ora dei fenomeni che all’origine erano solo fio­rentini (o quasi) e non genericamente toscani (oggi il toscano è tutto influenzato dal fiorentino):

1) la desinenza innovativa -iamo per tutte le coniugazioni (cantiamo, vediamo, partiamo), invece di forme di­stinte (per esempio -amo, -emo, -imo, ora dei dialetti rustici);

2) i tipi pure innovativi, famiglia e pugno con i e a invece che con e e o (da I e U bevi latine), coi quali il toscano è tornato (casual­mente) al latino (cosiddetta anafonesr. Da notare che l’evoluzione fonetica è condizionata dalla presenza di /l/ /’ny’/ e da altri nessi dopo la vocale in questione (altrimenti fede regolarmente da FIDES e croce da CRUCEMl).

Diffondendosi, l’italiano, come ho già accennato, appare oggi dif­ferenziato dal Nord al Centro-Sud (con la Toscana sempre a parte, e anche - per ragioni diverse - la Sardegna) e poi regione per regio­ne, ma quasi esclusivamente nella fonetica e nel lessico. Roma nel Centro-Sud diffonde un modello particolarmente prestigioso e imita­to di italiano. Le differenze sono spesso sottili, ma veicolano conno­tazioni relative all’origine e alla classe sociale, e perciò vengono os­servate spesso con grande attenzione (per esempio in relazione ai pregiu­dizi verso i meridionali in certe città settentrionali e in certi ambien­ti). Dato il rapido passaggio all’italiano di molti parlanti in anni re­centi e recentissimi, che rompe per la prima volta e bruscamente il quadro d’una dialettofonia imperante, è naturale che ci siano molti “italiani”, ognuno dei quali in stretta relazione - per la fonetica ­con il dialetto locale. Delle grandi forze di uniformizzazione sono ora in atto. Non per questo bisogna pensare che ci sarà un processo regolare in questa direzione, e che nel 2040 o nel 2104 possa esserci un solo italiano. L’esperienza della Francia, degli Stati Uniti e di altri paesi, mostra che delle nuove differenze tendono sempre a ricrearsi (come ha mostrato particolarmente nei suoi studi Labov).

I dialetti settentrionali formano un blocco abbastanza compatto, con molti tratti comuni che li accostano, oltre che tra loro, qualche volta anche alle parlate ladine e alle lingue gallo-romanze, distaccan­dosi dall’italiano sia toscano che centro-meridionale. Così le conso­nanti non possiedono più la correlazione di lunghezza: carro è come caro, penna come pena (non solo nei dialetti, ma anche nell’italiano corrispondente meno accurato).

Alcuni fenomeni morfologici innovativi sono pure abbastanza lar­gamente comuni, come la doppia serie pronominale soggetto (non sempre in tutte le persone): piemontese ti it parli, bolognese te t di, veneto ti te dizi (e anche friulano tù tu dízis). Ma più spesso il veneto si distac­ca dal gruppo, lasciando così da una parte tutti gli altri dialetti, detti gallo-italici. Secondo l’ipotesi classica dell’Ascoli (che sembra però oggi difficile da mantenere), i dialetti dal piemontese fino all’emilia­no-romagnolo risentono del sostrato celtico, che è assente invece nel veneto. Al sostrato celtico si attribuiscono - ma la cosa è tutt’altro che certa - la presenza delle vocali ö e ü, assenti nel Veneto e naturalmente in tutto il resto d’Italia (ma anche in quasi tutta l’Emi­lia). La gran parte dei fenomeni fonetici più originali dei dialetti gallo-italici sono in relazione alla caduta generale delle vocali finali diverse da -a. Questo fenomeno (che esclude però il ligure) è comu­ne al provenzale e al francese. Se si considerano anche le frequenti cadute di vocali protoniche, e certi sviluppi consonantici originali, il risultato è che alcuni dialetti si presentano superficialmente come molto lontani dal latino e dall’italiano letterario: così in bolognese d3an (cioé giàn) < dzàn < *dizan “diciamo”, in piemontese “uovo” è waf e in lombardo oef. Ma l’eccentricità è limitata all’assetto fonologico, dunque a un livello basso.

Su una linea che congiunge Massa e Senigallia (piuttosto che, co­me si dice tradizionalmente, la Spezia con Rimini, i dialetti setten­trionali si incontrano con il toscano e con l’italiano centro-meridio­nale.

Non tutti i dialetti italiani centro-meridionali presentano i carat­teri di arcaicità che ricorderemo spesso nel prossimo capitolo. Per il napoletano, per il pugliese continentale, per il pugliese salentino e il siciliano (che sono affini), sono notevoli soprattutto degli sviluppi fonetici innovativi. In napol. tutte le vocali atone passano a [schwa] - così certe alternanze sono lasciate alla vocale tonica, che è soggetta a metafonesi: spuse “sposo”: spase “sposa”. Una zona di confine tra la Calabria e la Lucania (da Maratea al Golfo di Taranto) presenta lo stesso vocalismo, ritenuto arcaicissi­mo, della Sardegna. Si tratta della cosiddetta "zona Lausberg", dal nome dello studioso tedesco che l’ha identifi­cata e studiata per primo. Il siciliano ha fatto pas­sare latino e lunga a i e o lunga a u: (es. tila < TELA, vuci < VOCE), contrariamente allo schema del romanzo quasi-comune. Le assimilazioni per cui nd > nn e mb > mm del tipo monno per mon­do, quanno per quando e, più raro, jamma “gamba”, diffuse nell’Ita­lia centro-meridionale (e perfino a Roma), sono ritenute un effetto di sostrato: l’osco-umbro si comportava nello stesso modo rispetto al latino. Il panorama linguistico centro-meridionale rivela nella sua grande complessità la scarsità di fenomeni di uniformizzazione lin­guistica intervenuta quasi ovunque altrove.

 

2.2.9 Il sardo

 

Circa 1 milione e mezzo di persone parlano o conoscono il sardo. Il sardo riflette un’evoluzione romanza meno avanzata di ogni altra lingua romanza. Oltre ai fenomeni di livello elevato che ricorderemo, sono molto notevoli due tratti di conservativismo fonetico e morfologico. Così il fonema velare [k] del latino CENTUM è ancora rappresentata dal logudorese e nuorese kentu (mentre tutta la Romània ha accettato la palatalizzazione came in ital. e rumeno: [tò], o l’ha portata ancora più avanti, italiano sett. e franc. [s] ecc.; vedi tuttavia il dalmatico, che concorda col sardo).

Nei neutri singolari della 3a decl. latina è conservata -s: log, e campi­danese tempus “tempo”. La morfologia verbale del sardo antico e in parte anche quella moderna conservano forme latine altrove cadute: il cong. imperf. papparet “mangiasse” (Barbagia) continua il cong. imperf. latino.

La Sardegna dal V sec. d.C. in poi ha una vita separata dal resto dell’Impero, e ha conosciuto forme di amministrazione politica rela­tivamente indipendenti. Dall’XI-XII sec. gli atti ufficiali vennero re­datti in sardo. Le successive penetrazioni economiche e politiche (genovese e soprattutto pisana, sec. XIII) e la dominazione catalana, poi diventata spagnola, hanno influenzato in modo fondamentale l’a­spetto linguistico dell’isola. Non solo tutte le varietà del sardo hanno preso caratteristiche dai dialetti italiani in questione e dal catalano e dal castigliano, ma certe varietà di sardo sono state notevolmente trasformate. Il sassarese e il gallurese (a Nord) sono state notevol­mente trasformate dal toscano con il quale sono venute in contatto già dal Duecento. Questo vale nella sua interezza per il còrso, che originariamente era affine al sardo, nel quale la penetrazione pisana è stata più profonda e diffusa. Il campidanese (a Sud, con Cagliari), e il logudorese e il nuorese (centro-settentrione dell’isola salvo la Costa Nord), rappresentano le odierne varietà del sardo. Il sardo letterario (anche della produzione poetica orale: i mutos) è una specie di logudorese “illustre”.

In Sardegna, Alghero (Ovest) parla catalano: Carloforte e Cala­setta nelle isole di S. Pietro e S. Antioco (Sud-Ovest) sono genovesi, fondate da coloni pegliesi che avevano abitato prima l’isola di Ta­barca sulla Costa africana, e che si sono trasferiti più tardi qui: il loro dialetto è detto perciò “tabarchino”.

 

 

2.2.10 Il dalmatico

 

Il romanzo formatosi lungo la Costa della Dalmazia e nelle isole, da distinguersi da quello che dal Medioevo è stato introdotto da Venezia tramite i suoi mercanti e amministratori, ha gradualmente perso di importanza nel corso dei secoli fino a estin­guersi del tutto. Il dalmatico antico ci è noto attraverso documenti commerciali e lettere, a partire da una lettem del 1280. Già in questo periodo il dalmatico appare soggetto alla pressione del veneziano, che alla fine lo assorbirà del tutto. Il raguseo, cioè il dalmatico di Ragusa (Dubrovnik), è la varietà più rappresentata in documenti antichi; ancora nel XV sec. si discuteva in raguseo nel Senato della importante città marinara (si usavano però anche, è vero, il veneziano e il serbo­croato). Il dalmatico è stato assorbito, come dicevamo, dal veneziano sulla costa, mentre il serbo-croato avanzava dall’interno. A questa doppia pressione ha resistito più a lungo l’isola di Veglia (Krk) all’e­stremo Nord, vicino a Fiume (Rijeka). Del dialetto di Veglia - preci­samente del paese di Veglia sull’isola omonima - ci restano trascri­zioni dirette ottocentesche; e il Bartoli [1906], che è stato il maggiore studioso del dalmatico, ha raccolto ancora nel 1897 della voce dell’ul­timo parlante veglioto (Antonio Udina Burbur) le ultime testimonian­ze di questa lingua. Fonti supplementari della conoscenza del dalmati­co sono il veneziano e il serbocroato che l’hanno sostituito, e che ne conservano numerosi elementi lessicali.

A livello morfologico il dalmatico presenta spesso caratteri arcai­ci, ai quali abbiamo già fatto cenno. A livello fonetico il dalmatico è pure talora arcaico (come il sardo, conserva ki, ke velari: vegl. kenur “cenere”, dik “dici”, loik < latino LUCET. Una serie di tratti, in parte comuni all’italiano toscano e centro-me­rid., lo distinguono dal veneziano: conservazione di t intervocalico e davanti a r: patruno non padhròn, paròn; E lunga > ai, per esempio vegl. ekeit “aceto”, e altri fatti di dittongazione, che è sviluppatissima. La fisio­nomia del dalmatico risulta, quindi, abbastanza originale nei con­fronti di quella dell’italiano - anche se non può certo fare da ponte verso l’”individualità” (Bartoli) del rumeno, più a Est, ormai nel cuore dei Balcani.

 

 

2.2.11 Il rumeno

 

È parlato da circa 23 milioni di persone. Per rumeno si intende l’insieme abbastanza uniforme delle parlate che coincidono, in realtà in modo molto approssimativo, con il territorio dell’odierna Repubblica Romena. In realtà in questo territorio ci sono molti gruppi linguistici diversi, di varia entità (molto cospicuo soprattutto quello ungherese; segue il tedesco, poi l’ucraino, il tartaro ecc.); e viceverse il rumeno è parlato oltre i confini dello stato in Serbia (Banato), in Bulgaria, in Un­gheria, ma soprattutto nei territori annessi dall’URSS dopo la II guerra mondiale, che in parte formano oggi la Repubblica di Moldavia (a maggioranza moldava, cioé rumena) e in parte sono sta­ti inclusi in quella di Ucraina.

La pretesa “lingua moldava”, scritta in caratteri cirillici nella Re­pubblica omonima, non è che il rumeno!

Tutto questo blocco ha due varietà principali: il tipo munteno, a Sud, che ha il centro a Bucarest, e che rappresenta ora il solo tipo letterario ammesso; il tipo moldavo, a Est. A questi due tipi princi­pali si riconduce anche la lingua delle rimanenti regioni, compresa la più grande, la Transilvania, per la quale non pare si possa parlare di una varietà propria. È una situazione di grande uniformità linguisti­ca, le cui ragioni remote ci sfuggono. Ma certo, per quello che ri­guarda tempi relativamente recenti, va messo in rapporto con l’as­senza di quei grandi centri che sappiamo che irradiano continua­mente novità. In effetti le due grandi varietà di cui abbiamo parlato dipendono dai grandi centri principeschi: Bucarest (principato della Valacchia) e Iasi (Moldavia). La Transilvania non presentava un cen­tro paragonabile.

Ripercorrendo dagli inizi la storia del rumeno ci troviamo di fronte a diversi aspetti problematici e perfino enigmatici. Dopo un lungo periodo di pressione e penetrazione romana, la Dacia è con­quistata da Traiano nel 106 d.C. Viene largamente ripopolata con coloni che prendono il posto della popolazione locale decimata in una lotta sanguinosa e in immense stragi. Nel 271 viene abbandona­ta, perché indifendibile, da Aureliano. Contrariamente alle testimo­nianze ufficiali e degli storici, una parte della popolazione locale ro­manizzata deve essere rimasta nel territorio. Secondo un’altra tesi, nota come teoria di Roesler, l’attuale stanziamento dei Rumeni sia frutto di un ritorno, dopo un periodo secolare di permanenza più a Sud e a Ovest (tra l’odierna Albania e la Grecia). Anche senza aderire a questa tesi, che si basa sull’osservazione della quasi totale assenza di toponimia romanza nell’odierno territorio rumeno, è evidente che grandi gruppi di rumeni si sono mossi in una vasta area balcanica. Di questi movimenti è testimonio l’esistenza di dialetti separati del rumeno:

a) arumeno (o macedorumeno). Gli arumeni sarebbero sepa­rati dal X sec., cioè da un periodo precedente alla convivenza degli altri rumeni con gli ungheresi. Oggi sono stanziati nella Macedonia greca, in quella jugoslava, bulgara e albanese. Si tratta di un gruppo molto cospicuo, anche se è difficile dirne l’entità precisa (400.000 persone?) perché la loro nazionalità spesso non è riconosciuta e non esistono perciò statistiche.

b) meglenorumeno. È un piccolo gruppo stanziato in Grecia al confine con la Serbia (e in parte oltre il confine, in Serbia) a N-E di Salonicco.

c) istrorumeno. È un minuscolo gruppo che si trova a Ucka Gora (Montemaggiore) presso Fiume (Rijeka) (15.000 perso­ne). Si sarebbe staccato per ultimo, verso il XII-XIII sec., dal rume­no comune.

Dai tratti comuni di questi tre dialetti e del rumeno di Romania (detto anche “dacorumeno”), è possibile, in prospettiva, ricostruire un protorumeno, o rumeno comune. Nel prossimo capitolo vedremo alcuni fenomeni che mostrano come il rumeno, isolato dal blocco romanzo, si sia sviluppato in proprio. Nel lessieo si possono constatare fenomeni simili come la continuazione di paro­le latine che sono altrove cadute (a cominciare da a fi “essere”, dal latino FIERI); e anche di resti abbondanti di vocabolario pre-romano, tracico (in parte comune all’albanese). Più tardi lo slavo e in misura minore l’ungherese, e infine il turco, hanno influito sul rumeno. La presenza slava nel lessico è imponente. Il rumeno, per l’influsso sla­vo (più precisamente per la dipendenza dalla chiesa ortodossa di ambito slavo) è stato scritto in caratteri cirillici finn al 1840. Dopo un periodo in cui si adottarono alfabeti di transizione, il rumeno è passato ai caratteri latini.

Tuttavia dal punto di vista linguistico i fatti più importanti per il rumeno vanno ricercati altrove e precisamente:

1. Nella sua apparte­nenza alla “lega linguistica balcanica”, per cui il rumeno presenta a tutti i livelli linguistici fenomeni comuni al neo-greco, al bulgaro, all’albanese e, in misura minore, al serbo-croato. Questo si spiega con la fitta compenetrazione di popoli e il diffuso bilinguismo (e anche trilinguismo) nei Balcani, per cui ogni lingua tendeva, nella bocca dello stesso parlante, a modellarsi sulle altre;

2. Nell’imponente influenza francese a partire dall’800, che convo­glia una quantità enorme di lessico neologistico, in parte facendo scomparire quello antico. Questo fenomeno è parallelo alla radicale occidentalizzazione della Romania nell’Ottocento, processo che se­gue particolarmente i modelli culturali e linguistici francesi. Nella frase che segue, tratta dal quotidiano Scinteia [“La scintilla”], tutta la parte in corsivo corrisponde a neologismi francesi (o a latinismi veicolati dal francese):

 

In cadrul sedintei au fost examinate, si aprobate principiile si normele generale privind stabilirea preturilor si tarifelor, care urmeaza a fi legiferate.

 

Traduzione; “Nel quadro della seduta sono stati esaminati e approvati i principi e le norme generali riguardanti la determinazione dei prezzi e delle tariffe, che diven­teranno in seguito legge”.

Per le parole sottolineate, si noti che in sedintei il materiale è rumeno di origine latina, SEDERE, ma il significato e la forma di no­me sono quelli del francese séance; privind è di origine slava, ma l’uso è quello del francese regardant. I connettivi sintattici e tutte le parti funzionali sono rumene; l’ordine inverso delle parole è tipicamente romanzo, ma non sarebbe ammesso proprio dal francese. Si vedono l’e­stensione e i limiti dell’influsso.

 

 

3. L’Italia linguistica

 

3.1 Cronologia dell’evoluzione della lingua e della coscienza linguistica sulla penisola italiana

 

3.2 L’italiano standard, l’italiano regionale, il dialetto regionale e il dialetto locale

 

3.3 Allofoni in Italia

 

1) In Val d'Aosta e su una striscia del Piemonte occidentale lungo il confine con la Francia la lingua materna non è l'italiano ma il franco-provenzale (Val d'Aosta e Piemnonte nordoccidentale) e il provenzale (Piemonte sudoccidentale).  Quindi l'italiano è la lingua ufficiale di popolazioni il cui idioma materno ha i suoi centri di irradiazione fuori del paese. In Val d'Aosta si ha una situazione di trilinguismo, in quanto al franco-provenzale si aggiungono come lingu ufficiali l'italiano e il francese.

2) In provincia di Bolzano (Alto Adige o Tirolo meridionale) la maggioranza della popolazione è di lingua tedesca. Ciò è riconosciuto con un'Apposita legislazione che regola i rapporti tra i germanofoni e la minoranza italofona. In alcuni paesi sparsi nell'Italia settentrionale le popolazioni hanno pure conservato la loro identità e lingua germaniche.

3) In provincia di Trento e in Friuli sono suddivisi due tronconi di espressione ladina (ladino centrale o dolomitico e friulano), mentre il terzo è nel Canton Grigioni (retoromanzo o romancio).

4) Al confine con la Slovenia esiste una minoranza che usa la lingua slovena.

5) In Molise si hanno alcuni paesi (Acquaviva Collecroce, San Felice del Molise, Montemitro)  che conservano tracce di colonie serbe e croate, residui di ampi insediamenti avenuti nel XV secolo ad opera di popolazioni che abbandonavano la loro terra per fuggire ai Turchi.

6) È importante la presenza greca in due regioni: la Calabria meridionale (Bova, Condofuri, Gallicanò, Amendolea, Roghudi, Roccaforte) e il Salento  (Calimera, Corigliano, Castrignano, Martano, Melpignano, Martignano, Soleto, Sternatia, Zollino). La lingua dei centri salentini si chiama anche "grico", per distinguerla dal greco, alquanto diverso, della madre patria. L'origine di queste colonie, magnogreca o bizantina, è controversa.

7) La colonia indigena albanese vive dispersa in diverse regioni dell'Italia meridionale: Abbruzzo, Molise, Puglia, Basilicata, Campania (Greci, in provincia di Avellino), Calabria (Castrovillari, Vaccarrizzo Albanese e Spezzano Albanese), Sicilia (Piana degli Albanesi in provincia di palermo). Tali colonie risalgono al XV secolo e sono frutto di accordi politici e militari promossi dalla monarchia aragonese di Napoli.

8) Un'isola di lingua catalana vive nella città di Alghero, in Sardegna. L'origine della colonia è la conquista militare della città da parte di Pietro IV d'Aragona. Nel 1354 la popolazione indigena sardo-genovese è stata espulsa ed è stata sostituita da una colonia catalana.

9) In Puglia, a faeto e Celle (provincia di Foggia) sopravvivono comunità valdesi che hanno conservato il proprio idioma franco-provenzale.

10) In Calabria invece, a Guardia Piemontese (provincia di Cosenza) la comunità valdese locale è di lingua provenzale.

 

Conviene ricordare anche le colonie gallo-italicghe della Sicilia (S. Fratello, Francavilla, Novara) e della Basilicata (Tito, Picerno, Pignola e in parte Potenza).

 

 

3.4 L’italiano L1 al di fuori dell’Italia

 

Se lingue diverse dall'italiano sono parlate ai confini e nell'interno del paese, dall'altra parte l'italiano è parlato anche fuori d'Italia (anche prescindendo agli emigrati all'estero). In primo luogo va menzionato il Canton Ticino nella Svizzera. È risaputo che una della lingue ufficiali della Confederazione Elvetica è l'italiano (assieme al francese, al tedesco e al romancio).

Un dialetto italiano vicino al toscano si parla in Corsica, dove la lingua ufficiale è naturalmente il francese.

Nel principato di Monaco si parla un dialetto ligure. L'italiano è stato vitale a Malta e Albania. Infine si trovano minoranze di lingua italiana disseminate in territorio sloveno e croato (Istria e Dalmazia).

 

 

3.5 L’italiano L2 al di fuori dell’Italia

 

4. Fonti dirette ed indirette per la conoscenza del latino volgare

 

4.1 La diglossia

 

Il passaggio dall'unità latina alla frammentazione romanza ha conosciuto periodi di trasformazione lenta e graduale e di cambiamento abrupto. Teniamo presente il fatto che in ogni lingua del mondo e sempre coesistono varietà diverse, differenziate secondo una gerarchia sociolinguistica, catalogabili secondo i settori professionali o secondo la situazione comunicativa (comunicazione informale o fomale). Di regola i parlanti dispongono di più di una di queste varietà della stessa lingua. Il cambiamento di una determinata lingua avviene molto spesso tramite la ridefinizione dei rapporti tra le diverse varietà, per esempio, l'adozione di modi espressivi di una varietà inferiore viene accettata anche per gli usi superiori. Così avvenne anche per il latino: si espandevano le varietà fino ad allora compresse a scapito dell'uso colto, si imponevano pecularietà linguistiche provenineti dal basso. In termini di sociolinguistica si dice che si è cancallato il marchio dell'inferiorità socioculturale, della rozzezza sgradevole. Dobbiamo parlare perciò non tanto della "nascita di una nuova lingua" ma della nuova posizione assunta da una varietà preesistente, all'interno delle varietà di uso. Parole, costruzioni, strutture concettuali impiegate in età calssica solo dai grossolani commensali della Cena di Trimalchione nel Satiricon si sono più tradi imposte nelle lingue romanze, perdendo in un lungo processo, ricco di trasformazioni socioculturali la connotazione di volgarità e dell'incultura che caratterizza i personaggi del romanzo di Petronio. Questa ristrutturazione avviene soprattutto in seguito alla crisi dell'Impero, dall'anarchia militare del III secolo alle invasioni barbariche e alla mutata temperie culturale e religiosa (basti pensare ala diffusione del Cristianesimo).

Esaminando soltanto due punti fissati lungo la retta immaginaria di evoluzione della lingua,  confrontando quindi due stadi sincronici, anche lontani del tempo, come il latino classico e l'italiano contemporaneo, prevale l'impressione della differenziazione e della frattura. Ricordiamo, molto brevemente, le differenze maggiori: la morfosintassi latina si basa sulla flessione del sostantivo e dell'aggettivo, che in italiano non esiste; l'ordine delle parole del latino è "libero" ma in italiano "fisso"; in latino prevalgono le strutture "sintetiche" mentre l'italiano preferisce le strutture "analitiche"; la coniugazione latina si trasforma in quella italiana attraverso perdite ed acquisti; sorgono nuove categorie grammaticali, quali l'articolo o il modo condizionale.

 

La prima classificazione delle lingue romanze avvenne ad opera di Friedriche Diez ancora all'inizio dell'Ottocento. Lui distingueva sei lingue principali: spagonolo, portoghese, francese e provenzale, italiano e romeno (o valacco). L'elenco del Diez accoglieva solo le lingue di cultura elevata, che sono le lingue nazionali, con l'aggiunto del provenzale di cui è nota l'importanza raggiunta nel Medioevo. Il Diez escludeva quindi il catalano, il sardo, il ladino, il dalmatico e il franco-provenzale. Il Wartburg, con altri romanisti distingueva ormai nove lingue: portoghese, castigliano (spagonolo), catalano, francese, provenzale, sardo, italiano, ladino e il romeno (mancano quindi solamente il franco-provenzale e il dalmatico).  Queste classifiche tutte peccano di confondere criteri linguistici con quelli politico-culturali: guardando più da vicino si avverte che il toscano si differenzia dal lucano più di quanto il portoghese dallo spagnolo.

 

 

4.2 I tipi delle fonti dirette ed indirette

5.1 I casi

 

Le lingue romanze hanno operato una radicale riduzione dei ca­si, che si conclude nell’eliminazione dell’opposizione tra il Nominati­vo e Accusativo. Ma il rumeno benché abbia pure realizzato quest’e­liminazione possiede ancora oggi un sistema casuale. Per esemplifica­re il sistema rumeno mi servo di un nome femminile preceduto dal­l’articolo indeterminato (il maschile neutralizza infatti sempre l’op­posizione casuale; il femminile neutralizza l’opposizione solo al plu­rale, come si vede sotto):

 

 

Singolare

Plurale

Nominativo/Accusativo

o casa

niste case

Genitivo/Dativo

unei case

unor case

 

Come si vede, anche l’articolo indeterminato si declina. Il sistema casuale rumeno, che è una sopravvivenza del sistema latino (certo favorita dal contatto con le lingue slave, che hanno pure in genere mantenuto i casi), è diverso da quella quasi pan-romanzo che era conservato ancora in francese antico e provenzale antico, o dal sistema casuale dei pronomi personali: in quei sistemi la caratte­ristica principale è la distinzione tra Nominativo e Accusativo, che in rumeno invece coincidono.

Il rumeno possiede inoltre, unica tra le lingue romanze, un vocativo con espressione morfologiea propria. Questa appare nella declinazione maschile non-ar­ticolata e articolata (barbate, omule, ambedue “uomo!”), nella femminile non-artico­lata (bunico, “nonna!”). Al plurale maschile e femminile la forma del genitivo/dativo, può valere anche per il vocativo (domnilor, fetelor: “signori! ragazze.!”). Qui alcune concordan­ze con le lingue slave (in particolare col bulgaro) sono chiare; -e è latino ma anche slavo: -o solo slavo. Tuttavia non si può pensare a un semplice influsso esterno. Il sistema vocativo rumeno, con il plurale, è più esteso di quello slavo. Per trattare il fenomeno della flessione latina si deve ricorrere a una spiegazione complessa; l’evo­luzione del latino della Dacia è stata fortemente condizionata dallo slavo. Ma si ricordi che slavo e latino non sono unità incommensurabili, ma solo rami discreta­mente conservativi dell’indoeuropeo. Così il perdurante contatto con lo slavo ha frenato l’evoluzione panromanza del rumeno, l’ha mantenuto morfologicamente più vicino a un punto di partenza sul quale lo slavo concordava con il latino. Arumeno, meglenorumeno e istrotumeno, i dialetti separati del rumeno, hanno perduto del tutto i casi.

A parte il caso del rumeno, si può dire che le lingue romanze sono lingue senza casi. Si differenziano con questo dalle lingue indoeuro­pee più conservatrici, come, tra quelle occidentali più note, soprat­tutto il tedesco tra le lingue germaniche, il russo e quasi tutte le altre lingue slave.

 

5.2 L’articolo

 

La formazione dell’articolo è un tratto comune d’innovazione di tutte le lingue romanze rispetto al latino. Il momento cruciale per la formazione dell’articolo deve essere collacato verso il VI sec., dunque in un periodo di profonda frantumazione nello spazio geografico della Romània. Nonostante questo, l’uso del­l’articolo è sostanzialmente uniforme in tutte le lingue. Anche il ru­meno si inquadra bene nel panorama romanzo’ con un < UNUM e l’articolo determinato derivato da ILLUM. Tuttavia l’articolo determi­nato è generalmente enclitico e si presenta fuso con il nome:

 

 

 

Singolare

Plurale

Nominativo/

Accusativo

casa

cásele

Genitivo/

Dativo

casei

cáselor

 

Nominativo/

Accusativo

múntele

muntii

Genitivo/

Dativo

múntelui

 

múntilor

 

L’articolo possiede delle varianti preposte che si usano per esempio davanti a numerali ordinali: al treilea (“il terzo”) o in certe combina­zioni sintattiche “casa nouà a inginerului” (la casa nuova la dell’in­gegnere”) in quest’ultimo caso aggiungendosi all’articolo preposto, rappresentato da -a in casa. Per questi aspetti e per altre particolarità sintattiche l’articolo rumeno si distingue dall’articolo romanzo delle altre lingue.

 

 

5.3 Il neutro

 

Il passaggio dal latino alle lingue romanze comporta la perdita del genere neutro. Le parole neutre sono riclassificate tra maschile e femminile. Per es. mare, neutro in latino, diventa femminile in francese la mer, maschile in italiano il mare, il latino tempus diventa, certo per l’influenza della desinenza -us, maschile in tutte le lingue romanze. Tutte le lin­gue romanze hanno in conclusione, due generi invece dei tre latini. Non così il rumeno. Il rumeno continua regolarmente accanto al maschile e al femminile il neutro latino. Questo si vede bene dai plurali che continuano regolarmente la forma latina: timpuri < latino TEMPORA “tempi”; ajtoaare < latino ADIUTORIA “aiuti”. Questa classe è arricchita da molti altri elementi, anche da neologismi (stilouri, plurale di stilou, dal francese stilo “penna stilografica”), cosicché può essere definita una categoria viva, contrariamente al caso dei “fossili” neutri delle altre lingue romanze dei quali parleremo subito. Questo non vuol dire che anche in rumeno, come nelle altre lingue romanze, molte parole latine non siano passate al maschile e al femminile (per esempio mare è femminile). Se si aggiunge che il neutro rumeno si comporta per gli accordi come un maschile al singolare e come un femminile al plurale, si capisce bene come la valutazione del fenomeno non sia semplice. Sembra che le parole abbiano le caratteristiche dei due generi, piut­tosto che costituire un terzo genere. In definitiva il neutro rumeno non può essere definito un fatto né del tutto di conservazione né del tutto di innovazione. Certamente è un fatto grandemente originale tra le lingue romanze. Questa originalità non è attenuata dall’esisten­za di “fossili” neutri in altre lingue, per esempio in italiano. Intendiamo per fossili parole come l’italiano le labbra, e anche un singolare come foglia che continua, come il francese feulle e lo spagnolo hoja, il neutro plurale latino FOLIA.

Ma queste forme sono isolate in italiano, nel senso che non formano una classe grammaticale.

 

 

5.4 L’avverbio

 

L’avverbio è una parte del discorso normalmente relata stretta­mente all’aggettivo. L’aggettivo è un modificatore del nome, l’av­verbio del verbo. In latino gli avverbi si distinguono dagli aggettivi in vari modi, per esempio con una formazione autonoma (BENE contro BONUS) o con suffissi (PARITER contro PAR), mentre OPTIME “ottima­mente” contro OPTIMUS si presenta quasi come un altro “caso” della declinazione. In FACILE e simili si usa come avverbio il neutro singolare dell’aggettivo. Nelle lingue romanze ci sono continuazioni dirette del latino, per esempio bene è continuato in quasi tutte le lingue roman­ze, ma in genere la distinzione morfologica dell’avverbio dall’agget­tivo è nuova. In particolare il tipo -mente (portoghese, italiano, sardo lenta­mente, certamente; spagnolo lentamente, ciertamente; francese lentement, certainement; provenzale certamen; engadinese tschertamaing, ecc.) è panromanzo - ma esclude il rumeno. In rumeno la forma non-marcata degli aggettivi serve direttamente anche come avverbio: încet “lento” e “lentamente”, sigur “sicuro” e “sicuramente”. Così viene esteso a regola il modello del latino facile (che nelle lingue romanze è rap­presentato di solito solo da casi sporadici, per esempio in italiano da molto e da piano, dove aggettivo = avverbio, oppure da sodo in dorme sodo). L’uso del rumeno è quello delle lingue germaniche e slave. Il rumeno tut­tavia, non è completamente solo. L’uso avverbiale dell’aggettivo è pure del dalmatico (che aveva anche bun “buono” per “bene”) e di certi dialetti italiani centro-meridionali, come l’abruzzese e il pu­gliese. Dunque il rumeno, con i suoi “alleati” citati, si stacca dal panorama innovativo romanzo per l’assenza del tipo d’avverbio in -­mente. Incontriamo qui per la prima volta, sia pure senza il sardo, l’area conservativa sud-orientale che ritroveremo nei fenomeni che seguono ai punti 5 e 6.

 

 

5.5 Il condizionale

 

Tra le innovazioni panromanze c’è quella del condizionale, sco­nosciuto al latino e che si è sviluppato parallelamente in inglese, in tedesco o in russo. Il condizionale si trova, oltre che in altre posizio­ni, nella protasi del cosiddetto periodo ipotetico; ma anche i suoi altri usi lo indicano sempre come modo “condizionato” (dipendente da qualcos’altro). Così l’uso di “cortesia”: io vorrei io cercherei,...; quello interrogativo, pure di “cortesia”: mi daresti?...; quello che riporta un’opinione indiretta (per cui dipende da quell’opinione) o non sicura: sarebbe precipitato; verrebbe domani. Dal punto di vista morfologico il condizionale romanzo è formato con l’infinito e l’ausiliare “avere”: CANTARE HABEBAT > francese chanterait; spagnolo, portoghese, provenzale e dialetti italiani cantaria e simili; oppure CANTARE HEBUIT (=HABUIT)> italiano, toscano canterebbe. Le due parti che costituiscono il condizio­nale (e il futuro - vedi paragrafo seguente) sono ancora distinte in porto­ghese, anche se ormai solo nella lingua scritta: un pronome può in­serirsi tra l’infinito del verbo e la desinenza: vendé-los-iamos “li ven­deremo”, falar-me-ao “mi parleranno”.

In rumeno, in sardo e in dalmatico il condizionale si è formato indipendentemente. In rumeno il materiale è lo stesso, ma l’ordine tra l’ausiliare e l’infinito è inverso: “avere” + inf. Es.: am cînta “cante­remmo” (è testimoniato anche l’altro ordine: cîntare am). Più origi­nali sono il sardo, che utilizza déppere “dovere”: deo dià domare, letteralmente “io dovevo domare”. Il dalmatico ha kant(u)ora < latino CANTA­VERAM, secondo una derivazione che era comune una volta anche a molti dialetti italiani centro-meridionali; e anche oggi nel Lazio meridionale ci sono forme come avéra, putéra (Rohlfs, par. 602). Come si vede le lingue che non hanno ricevuto l’innovazione panromanza sono anco­ra le stesse, più, questa volta, il sarda.

 

 

5.6  Il futuro

 

Le lingue romanze hanno lasciato cadere tutte il futuro latino, e, come per il condizionale, hanno normalmente utilizzato l’ausilia­re “avere”, Per es. italiano canterà, spagnolo cantarà < latino CANTARE HABET. Questa innovazione è largamente, ma non universalmente, diffusa. Il futuro ha tendenza a riformarsi: in francese je chanterai che è una for­ma già perifrastica che appare ora come sintetica, ha per concor­rente un nuovo futuro perifrastico: je vais chanter letteralmente “vado canta­re”. Forme simili appaiono in tutte le lingue, e in qualche parlata hanno sostituito il tipo panromanzo descritto sopra. A noi interes­sano però le lingue che non hanno mai accolto il tipo romanzo co­mune. Troviamo qui ancora una volta il rumeno, il dalmatico, il sardo. Il rumeno ha varie forme di futuro: uno utilizza il latino *VOLEO (per VOLO) + infinitivo:  VOLEO CANTARE > voi cînta letteralmente “voglio cantare” (forma nota anche a dialetti italiani settentrionali). Un altro ha “avere” + congiuntivo: am sà cînt “ho che io canti “. In rumeno moderno poi tutte le persone dell’ausiliare “volere” sono neutralizzate nel solo o: si ha perciò un paradigma in cui la perso­na è distinta dalla desinenza del verbo al congiuntivo. Il sardo uti­lizza l’ausiliare “avere” ma in altro modo: app’a fugghire letteralmente “ho a fuggire”. Simili sembrano essere le formazioni di alcuni dialetti ita­liani centro-meridionali, e anche l’italiano settentrionale antico aveva ho corre “correrò”, nel milanese di Bonvesin da Riva. Il dalmatico usava la forma non perifrastica kan­tu(o)ra < latino CANTAVERO (forma resa poi omonima con quella del condizionale), come facevano pure dei dialetti italiani antichi. In molti dialetti italiani centro-meridionali, infine, il futuro man­ca del tutto, e questa era forse una volta la situazione generale.

I fenomeni fin qui esaminati hanno messo in rilievo prima l’originalità del rumeno, fatta di conservazioni e di innovazioni pro­prie, rispetto al panorama generale romanzo. Bartoli aveva, dun­que, parlato a ragione di “spiccata individualità” del rumeno. Nel­l’ultima parte della rassegna (pumi 4, 5, 6), tuttavia, abbiamo no­tato che ci sono altre lingue che risultano isolate rispetto a inno­vazioni generalmente molto diffuse: sono il dalmatico, il sardo e spesso alcuni dialetti italiani centro-meridionali. Nella tavola III, che mostra la consistenza geografica di questo gruppo, esso è designa­to con la lettera A. Passeremo ora ad esaminare alcuni fenomeni che ritagliano nulla carta della “Romània continua” uno spazio centro-settentrionale, parzialmente coincidente con il territorio det­to tradizionalmente gallo-romanzo (ma spesso un poco più vasto). É una zona innovativa, nulla quale faremo spiccare poi, per fenomeni propri moderni (posteriori tutti al XIII sec.) le innovazioni che isolano completamente l’altra grande individualità romanza: quella del francese.

 

 

5.7 La pronominalizzazione obbligatoria del soggetto

 

La posizione di soggetto permette generalmente nelle lingue ro­manze come in latino, l’assenza di pronominalizzazione. In italiano posso dire: è venuto Pietro. Sta bene.; in spagnolo Ha venido Pedro. Està bien.; in rumeno A venit Petru. E bine., e così nelle altre lingue romanze. II pronome egli (o lui) non si usa obbligatoriamente in questi casi, ma solo quando c’è contrasto. (Sua moglie è malata, ma LUI è guarito), o se il soggetto è lontano, o se non è quello atteso. Questo non vale però per tutte le lingue romanze. Alcune hanno reso obbligatoria la pronominalizzazione, come lo è per esempio in inglese e in tedesco, allontanan­dosi con questo dal modello latino e romanzo comune. In francese biso­gna dire: Pierre est venu. Il se porte bien. Per il francese, l’obbligato­rietà del pronome può apparire come un compenso per la perdita di altri morfemi (per esempio quello di 3a pers.) che erano marche formali dell’accordo. Tuttavia, anche senza questa condizione, una larga area italiana settentrionale, che interessa anche il friulano e perfino il fio­rentino popolare ha la pronominalizzazione obbligatoria (ma non sempre in tutte le persone). Sia in francese che nelle varietà italiane settentrionali il pronome personale obbligatorio è clitico, cioé occupa una posizione sin­tattica fissa, che nel nostro caso è prima del verbo, dal quale può essere separato solo da altri elementi clitici, o eventualmente dopo di esso. Siccome ci può essere anche un altro pronome, libero questa volta, si ha qualche volta la somma di due pronomi (della reduplicazione): francese toi tu dis, veneto ti te dizi, friulano tu tu dízis, fiorentino te tu dici, che valgono l’italiano tu dici (per esempio in senso contrastivo) ma se il senso non lo richiede è il solo pronome clitico a essere obbligatorio: francese quand tu dis (*quand dis), veneto quando che te dizi (*quando che dizi), friulano quan che tu dizis (*quan che dizis), fiorentino quando tu dici (quando dici non sarebbe una forma fiorentina popo­lare). Questa situazione ha le sue radici nell’assetto medievale delle lin­gue romanze.

Rientra qui anche il caso del soggetto espletivo (cioé finto, dummy), usato in genere dalle lingue a pronominalizzazione obbliga­toria con verbi impersonali (cfrancese IL faut contro l’italiano bisogna) e me­teorologici (francese IL pleut, contro l’italiano piove).

 

 

5.8 La negazione

 

Come nella gran parte delle lingue, non solo indoeuropee, il lati­no e in generale le lingue romanze riservano alla negazione il posto precedente al verbo: latino NON INTELLEGIT, italiano non capisce ecc. Altre lin­gue pospongono la negazione come il tedesco, l’inglese, il turco, il tartaro. Ma non sempre la negazione è “semplice”. Quando la negazione è completata da un elemento, per esempio temporale, questo si trova nelle lingue romanze dopo il verbo: non capisce mai. In latino la negazione precedeva il verbo, e in qualche caso formava una negazione complessa unica: per esempio NUMQUAM “non-mai”. Questo va messo in relazione col diverso posto del verbo in latino.

Il francese antico aveva la forma negativa panromanza: il n’a en vous leauté “non c’è in voi lealtà” (Chàtelaine de Vergi, 158); questo stato di cose è ancora riflesso in francese moderno in sintagmi fissi (n’importe “non importa”), in certi giri dello stile letterario (il ne cesse de parler “non cessa di parlare”). A parte questi casi marginali, in francese moderno è diventa­ta obbligatoria la presenza di un secondo elemento, anche semanti­camente vuoto, come pas e point, che occupa il posto che ha per esempio in italiano mai: si dice: il NE comprends PAS come NON capisce MAI, o il NE comprend JAMAIS.

Si tratta dell’estensione di una forma romanza, come abbiamo visto. Il francese parlato è andato più avanti, spostando tutto il peso della negazione sul secondo elemento: je sais pas “so mica”, e j’ai vu personne “ho visto nessuno”. Nell’Italia settentrionale si ritrovano gli stessi fenomeni. In Italia da Nord a Sud è largamente diffusa una seconda parte di negazione “vuota”, del tipo di “mica”: lombardo miga, minga; veneto e emiliano miga, mia; bolognese brisa; toscano mica; salentino filu ecc. Questo secondo elemento è diventato in alcuni casi l’unico ob­bligatorio, proprio come nel francese contemporaneo. Così in lombardo (capissi minga “non capisco”), piemontese (capissu nén), ecc. Anche l’italiano popolare ha: capisco mica. Il provenzale moderno ha voli pas, sabe pas “non voglio” “non so”.

La doppia negazione obbligatoria del francese letterario rappresenta, in questa luce, una specie di fissazione d’un momento di transizione.

 

 

5.9 L’interrogazione

 

Ci sono due tipi di interrogazioni, quelle introdotte da un morfe­ma interrogativo (“chi”, “che cosa”, “quando” ecc.), e quelle dette si/no, nel senso che prevedono una risposta positiva o negativa. Ci occupiamo qui di questo secondo tipo.

In generale nelle lingue romanze l’interrogazione si/no è ottenuta con la semplice realizzazione di un’intonazione diversa da quella as­sertiva, e delle altre possibili: esclamativa, desiderativa ecc.

Le lingue medievali tuttavia hanno conosciuto tutte un mezzo sintattico, l’anteposizione del verbo al SN soggetto. Questa costruzione è detta tradizionalmente inversione. Oggi solo il francese e alcune varietà dell’ltalia settentrionale si servono di mezzi sintattici, ma non uguali a quelli medievali.

Il francese possiede due sistemi alternativi: 1) quello dell’inver­sione e 2) quello dell’introduzione di un elemento morfologico inter­rogativo obbligatorio. L’inversione così come si presenta oggi è una novità del francese moderno: dopo il verbo deve sempre trovarsi un pronome personale: était-il malade?; Les enfants seront-ils saitsfaits?; Quand reviéndra-t-il?, letteralmente “era-egli malato?”, “i bambini, saranno-essi soddisfatti?” cosiddetta inversione complessa; prima si trova il sog­getto nominale, poi il verbo con un pronome interrogativo posposto che riprende il soggetto nominale); “quando tornerà-egli?” (inversio­ne anche nell’altro tipo di interrogazione, con un morfema interro­gativo).

Alcuni dialetti italiani settentrionali hanno la stessa struttura del­l’interrogazione: per esempio veneto sestu (situ) malà? (“sei-tu malato?”), zelo malà? (“è-lui malato?”), dove -lo rappresenta il pronome di 3a persona clitico posposto): el putelo zelo malà? (“il bambino è-lui mala­to?”). È chiaro che questa struttura interrogativa è condizionata dall’e­sistenza di pronomi soggetto obbligatori clitici (vedi 4.7). Tuttavia non tutte le varietà che hanno dei pronomi clitici soggetto se ne servono per fare l’interrogazione mediante l’inversione.

Vediamo il secondo sistema. Il morfema di interrogazione in francese è est-ce que: Est-ce qu’il était malade? Quand est-ce qu’il reviendra? letteralmente “È-egli che-egli era malato?” “Quando è-egli che tor­nerà?”. Molte varietà romanze hanno simili morfemi interrogativi, ma, a differenza che in francese, non sembra che in nessuna lingua siano obbligatori.

 

5.10 L’articolo partitivo

 

Un’altra innovazione che interessa tutta la zona gallo-romanza, ma che questa volta si estende anche al toscano, e quindi all’italiano letterario, riguarda l’uso del di partitivo accompagnato dall’articolo definito come forma plurale dell’articolo indefinito: francese des garcons jouaient, italiano dei bambirri giocavano. Anticamente il partitivo era in genere senza articolo, e il francese moderno ha ancora questa forma in certi casi, per esempio in un contesto negativo: Je n’ai pas vu de garcons “non ho visto di ragazzi”.

Questa forma è l’estensione di un uso del partitivo testimoniato già nel latino volgare: Gregorio di Tours: DE SANCTA CERA SUPER EAM POSUI. Letteralmente “di santa cera sopra lei posi”. Questo uso, particolarmente con nomi che indicano materia (soprattutto comme­stibili), è presente in portoghese e spagnolo antico, in sardo, in dalmatico, nei dialetti italiani meridionali - non in rumeno: si estende, quindi, a quanto pare, su un’area molto vasta del dominio romanzo. Ma solo in francese, in provenzale e in italiano si è esteso al plurale, colla funzione che abbiamo detto.

Prima di passare ad esaminare dei fenomeni che isolano la sola individualità del francese dobbiamo interrogarci sul significato delle con­cordanze che abbiamo constatato in qui. L’area geografica coincide parzialmente con quella “gallo-romanza”, come abbiamo già ricorda­to. Quest’area era stata tradizionalmente enucleata in base ad alcuni tratti fonetici macroscopici, come la presenza di /ü/ e /ö/. Neanche allora tuttavia l’area dei fenomeni coincideva bene con quella di maggior densità degli stanziamenti celtici, in maniera d’appoggiare decisamente la tesi dell’Ascoli della “reazione di sostrato”. Se ai fenomeni innovativi che abbiamo descritto, bisogna cercare piuttosto, come sembra logico, delle cause più recenti, dobbiamo tuttavia rico­noscere di mancare ancora dei punti di riferimento essenziali. La cronologia dei fenomeni non è chiara, e non è facile dire quale deve essere il fondamento di questa unità.

 

 

5.11 L’ordine dei sintagmi

 

In latino e nelle lingue romanze ci sono molte possibilità nella collocazione dei sintagmi nella frase. Non tutti gli ordini però si equivalgono, anzi è ovvio pensare che ogni ordine abbia la sua buo­na ragione di essere; e nemmeno tutti gli ordini sono permessi. Cer­to gli autori latini esibiscono una gran varietà di ordini delle parole. Tuttavia non è corretto parlare, come qualche volta si fa, di “liber­tà” del latino nell’ordinare i sintagmi. Di fronte alla varietà di Cicero­ne, un autore classico sobrio come Cesare presenta nel 90% dei casi un ordine con il verbo in posizione finale. In una frase che comprenda Soggetto, Verbo, Oggetto l’ordi­ne “ordinario” latino era dunque: SOV. Quello romanzo è: SVO. Per es.: latino CAESAR (S) OMNEM AGRUM PICENUM (V) PERCURRIT (O), ma in italiano, Cesare (S) percorre (V) ogni parte del territo­rio dei Piceni (O) (e così le altre lingue romanze). Ma già la storia del latino ci mostra dalle fasi arcaiche a quelle tarde un progressivo avvicinamento al secondo tipo, cioè un chia­ro imporsi dell’ordine “ordinario” romanzo. Non ci sono in questo caso, all’origine differenze tra le varie lingue romanze che continua­no tutte il latino tardo.

Tutte le lingue possiedono, però, accanto a un ordine “non-mar­cato”, che si può chiamare anche “ordinario”, come abbiamo fatto, o “normale”, altri ordini “marcati”. In particolare è sempre possibi­le trasportare certi sintagmi (complementi di vario tipo, avverbi, an­che il complemento oggetto soprattutto se abbia espressione morfologica pro­pria) all’inizio della frase, dove vengono a prendere particolare rilie­vo. In questo caso la linea melodica della frase viene mutata: se con­sideriamo “normale” l’intonazione di Vado a Roma col treno, do­vremmo riconoscere che l’intonazione di Col treno vado a Roma è molto diversa (e comporta in particolare un forte rilievo al sintagma iniziale: COL TRENO vado a Roma così in spagnolo EN TREN voy a Roma ecc.). Un ordine del genere è condizionato da un contesto nel quale il sintagma in questione sia in posizione di contrasto: per esempio: te l’ho detto mille volte. Col treno vado a Roma, non con la macchi­na. Questa possibilità non appartiene a tutte le lingue. Manca al francese (*par le train je vais à Rome), e, fuori dal dominio romanzo, per esempio all’inglese. Un’altra possibilità delle lingue romanze, e anche non ro­manze (per esempio delle lingue slave), è quella per cui un verbo intransi­tivo precede il soggetto, senza che ci sia questa volta un’intonazione speciale. Si considerino frasi come italiano arriva Carlo; è passato l’autobus (con equivalente in genere in tutte le lingue romanze, per esempio spagnolo Llega Carlos; ha pasado el bus; rumeno Vine Carol; a trecut autobuzul). Quest’ordine serve o a comunicare la “novità”dell’ultimo sintagma (Carlo, il tram) in confronto alla prima parte che è data per “nota” (e allora potranno essere intese come risposte a domande come: “Chi viene?” “Che cosa è passato?”; oppure a veicolare un conte­nuto interamente nuovo (e allora la domanda che le potrà precedere sarà del tipo: “Che cos’è successo?”). Il francese moderno non pos­siede questa possibilità.ű

 

 

5.12 La diminutivizzazione

 

Tra le possibilità di derivazione nominale c’è quella detta della “diminutivizzazione”. In realtà non si tratta sempre di indicare la piccolezza; c’è un’opposizione semantica del tipo coltello:coltellino, ma anche una del tipo: erba: erbetta, caffé: cafferino (caffeino, caffettino) e simili, che indicano piuttosto un atteggiamento affettivo, per il quale si parla perciò spesso di “ipocoristici”. Il nesso tra di­minutivo e ipocoristico deve essere comunque così largamente dif­fuso (evidentemente su base psicologica comune) che non vale la pena di insistere nelle variazioni, e qui si parlerà per comodità solo di “diminutivo”. Il latino esprimeva volentieri il diminutivo con suffis­si come -IDUS e -ILLUS. Le lingue romanze hanno diversi suffissi: lo spagnolo ha, con diversa distribuzione geografica, -ito (sombrerito; anima­lito), -illo (chiquillo), -ico (cantarico), -uelo (mozuelo) e variazioni come panecillo da pan; il rumeno ha as (iepuras “leprotto”), -sor (po­misor “alberello”) ecc. Il francese moderno non possiede più un processo produttivo di diminutivizzazione. L’impiego dei diminutivi, fiorente nel Medioevo e nel Rinasci­mento, si è bruscamen­te fermato nell’epoca classica (XVlI sec.). Il francese moderno possiede alcu­ni diminutivi fissati dall’uso, ma è la sola lingua romanza a non avere processi diminutivali: oggi si dice petit Pierre (italiano Pierino, spagnolo Pedrito). Il francese ha così raggiunto l’inglese (little boy “ragazzino”, small boat “barchetta”).

 

 

5.13 La parola dal punto di vista del significante

 

Consideriamo la consistenza della “parola” sul piano del signifi­cante, cioé come unità formale segnalata dalla presenza di almeno un accento e di pause sintattiche (più o meno opzionali) all’inizio e alla fine: italiano: # viene # Carlo #; spagnolo: # viene # Carlos #, ecc. L’articolo, le preposizioni e i pronomi obliqui sono privi di accento proprio. Il posto dell’accento nelle lingue romanze non è completa­mente predicibile, benché in alcune di esse, per esempio in italiano (o in spagnolo), ci sia un tipo nettamente dominante, come per esempio in italiano quello paros­sitono (o piano): ci sono più parole del tipo di càne e abbàia (piane) che di tipo teléfonano (proparossitono, rarissime), àlbero (parossito­ne) o città e abbarò (ossitone o tronche).

Perciò possiamo dire che il posto dell’accento nelle lingue ro­manze è fonologicamente rilevante: italiano àncora: ancòra; spagnolo ànimo: animo: animò (“animo” “io animo” “egli animò”); e così in portoghese, in catalano, in rumeno. Il francese moderno si stacca nettamente da questo quadro. Prese isolatamente le parole sono ossitone, cioè han­no un accento fisso sull’ultima sillaba: per esempio coquelicot “papavero”; confetti “coriandolo”. Nella parola isolata il ruolo dell’accento - essendo fisso sull’ultima sillaba - non è perti­nente. Ma in realtà in francese l’accento non esiste affatto come caratteri­stica della parola, ma, data una sequenza completa, si posa su alcune delle sillabe nelle quali si sciolgono quelle che nel codice scritto (e in francese antico) sono le “parole”. Esempio: il est dangereux de se pencher au-dehors. Sul piano del significante la sillaba è in francese un’unità più importante della parola; e può anche superarla (si veda: il est come). In conclusione per tutta l’organizzazione fonica il francese si è notevolmente distaccato da tutte le altre lingue romanze. Il francese antico era ancora soli­dale con le altre lingue romanze: non solo isolatamente, ma anche in contesto traire e pencher erano sempre rispettivamente un bisilla­bo con accento piano e un bisillabo con accento tronco. Questo in francese moderno può essere vero solo considerando le parole in isolamento.

Quest’innovazione del francese è un fatto relativamente recente. In generale si è notato che il francese ha abbandonato il tipo comu­ne in età moderna, dunque per un fatto di innovazione: i punti 11, 12 e 13 hanno messo in luce il carattere individuale delle innovazioni che contribuiscono a staccare il francese moderno dalla “Romània continua”. Esaminiamo ora alcuni fenomeni la cui distribuzione geo­grafica appare meno generalizzabile.

 

 

5.14 “Essere” e “stare”; “avere” e “tenere”

 

Un’innovazione che interessa la penisola iberica (portoghese, spagnolo, ca­talano) e anche una larga parte dell’Italia meridionale (esclusa la Sici­lia) è quella per cui a essere dell’italiano o al francese étre, corrispondono spagnolo ser e estar, a avere spagnolo haber e tener. L’innovazione non si riduce a un mero fatto lessicale, cioè alla penetrazione di forme di stare nel paradigma di essere, che avviene anche in italiano: esempio: participio passato stato, e in modo più massiccio in francese: étais<STABAM. Le forme si oppongo­no per il significato: soy malo “sono cattivo”: spagnolo estoy malo “sto male”; e mentre una relazione di identificazione o appartenenza ri­chiede ser: somos Italiànos “siamo italiani”, una relazione di luogo richiede estar: estamos en casa “siamo in casa”. Ancora più netta­mente, tener occupa tutto lo spazio di “avere” non-ausiliare: tengo familia, tiénes frio (a parte l’uso in spagnolo di haber impersonale: hay una novedad “c’è una novità”). Un’ulteriore innovazione promuove tener a ausiliare enfatico in spagnolo (se lo tengo dicho “gliel’ho ben detto”) e a solo ausiliare possibile in portoghese, dove l’ausiliare haver è ormai limitato agli stili più arcaizzanti della lingua scritta (tinha bebido “avevo/a bevuto”, teràs comido “aurai mangiato”).

 

 

5.15 Il passato remoto

 

Tra le innovazioni indipendenti che hanno finito per interessare gran parte della Romània c’è l’eliminazione della forma sintetica del passato detta “passato remoto” o “perfetto”. L’eliminazione si è fat­ta a vantaggio della forma del passato prossimo: “ho letto” prende il posto di “lessi”, cumulando così due forme inizialmente distinte. La poligenesi del fenomeno è evidente. La sua realizzazione è stata lun­ga: in rumeno il passato rem. è limitato alla sola lingua letteraria e sopravvive in pochi punti conservativi, soprattutto dell’Oltenia, (è conservato invece in arumeno e meglenorumeno). In Italia settentrionale ci sono pochi resti (per esempio nelle parlate friulane arcaiche di Erto e di Collina). Il passato remoto doveva essere caduto a Venezia già nel Quattrocento, e bisogna probabilmente pensare a una data diversa per ogni località. In catalano si è formato un nuovo tempo perifrastico, fatto con il verbo modale anar “andare” e che non esclude il passato prossimo: va cantar “cantò” contro ha cantat “ha cantato”. Il perfetto è scomparso pure nella gran parte delle varietà del sardo. In dalmatico il perfetto era scomparso sotto l’influenza del veneziano (e del serbo-croato). Nell’italiano letteralmente, come in francese e in rumeno, il passato remoto è diventato una forma tipica della narrazione storica, cosicché Roland Barthes ha po­tuto scrivere in un saggio molto acuto “scaduto dal linguaggio parla­to, il passato remoto, pietra angolare del Racconto, è sempre il se­gnale di un’intenzione artistica; fa parte di un rituale delle Belle Let­tere”.

Il fatto che una forma sintetica ceda di fronte a una forma anali­tica, e che questo accada in diverse lingue, anche indipendentemen­te, mostra chiaramente che si tratta della continuazione della tenden­za romanza già osservata per il futuro.

Da questa tendenza innovativa generale sembrano essere esclusi il portoghese e lo spagnolo, l’occitanico, l’italiano centro-meridionale e anche il toscano. Il catalano sembra, formalmente, allearsi con le lingue inno­vative, avendo perduto le vecchie forme, ma in realtà ha riformato la distinzione tra due tempi diversi del passato.

 

 

5.16 L’infinito personale

 

Un tratto caratteristico del galego-portoghese è il fatto che l’infi­nito ammette desinenze personali (infinitivo flexionado o pessoal): così abbiamo forme come cantarmos “cantar-noi” o cantarem “can­tar-loro” dove l’infinito cantar porta la desinenza -mos di prima per­sona plurale o -em di terza persona plurale Questo permette di usare l’infinito in costruzioni in cui le altre lingue romanze usano una forma finita del verbo. Così in portoghese si può dire: Antes de sairmos, o Joào telefonou à policia, con l’infinito sairmos (prima persona plurale), mentre in italiano si dovrebbe dire: Prima che uscissimo, Giovanni telefonò alla polizia, col congiuntivo uscissimo (se usassimo l’infinito, avremmo un senso diverso: Prima di uscire Giovanni telefonò alla polizia, dove è Gio­vanni che esce; lo stesso in portoghese se usiamo l’infinito senza desinenze personali: Antes de sair, o Joào telefonou à policia). Sostan­zialmente, mentre con le forme verbali non personali la referenza del soggetto della forma stessa è determinata dalla costruzione sintattica (nel nostro es. il soggetto dell’infinito deve essere coreferente col soggetto della frase principale), la desinenza personale permette al­l’infinito di avere un soggetto indipendente, come in genere avviene con le forme finite del verbo.

L’infinito personale portoghese è completamente isolato nel do­minio romanzo (è attestato, in Europa, solo nell’ungherese, una lin­gua non indoeuropea), se si eccettua il caso particolare dell’italiano scritto a Napoli intorno alla fine del Quattrocento, in cui si trovano vari casi di infinito e di gerundio con desinenze personali plurali: potere­no “poter-loro”, posseremo “poter-noi”, avendono “avendo-loro”. Ma questo fenomeno tipico della lingua aulica dell’uso scritto napo­letano (e del tutto assente dal dialetto) è scomparso senza lasciare traccia con l’imporsi della norma toscana.

 

 

5.17 La formazione del plurale

 

Una ripartizione geografica differente da tutte quelle considerate si ottiene esaminando il modo di formazione del plurale. L’alternan­za di numero è espressa nella Romània in due modi fondamentali: con -s, oppure con alternanza vocalica. Questa distinzione taglia la Romània in un gruppo occidentale (comprendente questa volta an­che la Sardegna), e un gruppo centro-orientale. Da un lato ci sono, quindi: portoghese cavalo: cavalos, cabra: cabras; spagnolo caballo: caballos, ca­bra: cabras; catalano cavall: cavalls, cabra: cabras; francese cheval: chevals, che­vaus (grafia moderno chevaux), chévre: chévres, provenzale caval: cavals, cabra: cabras; sardo kaddu: kaddos, kraba: krabas; soprasilvano cavagl: ca­vagls; caura: cauras. Dall’altra parte c’è l’italiano, con tutti i suoi dialetti: cavallo: cavalli; capra: capre e il rumeno cal: cai; capra: capre.

È facile riconoscere nel plurale sigmatico la continuazione dell’acc. plurale latino, che finiva in -s in tutte le declinazioni. È più difficile dire da dove provengano i plurali vocalici, se dal nominativo della prima declinazione (CA­PRAE: italiano, rumeno capre) e della seconda declinazione (CABALLI: italiano: cavalli, rumeno cai) esteso a tutti gli altri casi, o se si debba pensa­re anche questa volta alla riduzione di forme più antiche sigmatiche, sempre provenienti dall’accusativo latino (-AS per il femminile che da­rebbe -e, -IS per -ES al maschile che darebbe -i.

Il friulano presenta plurali sigmatici, provenienti dall’accusativo latino, ma anche una classe originariamente vocalica, che proviene dal nominativo della seconda declinazione del latino in -i.

Alcune lingue, nei loro sviluppi ulteriori, sembrano essersi stac­cate dal loro quadro di origine. Non si può più dire che il francese ha un plurale sigmatico senza un’accurata discussione che mostrerà il ruolo, in verità limitato, che ha [z] che continua -s nel francese moderno. Anche il plurale vocalico non è sempre riconoscibile a prima vista nelle varietà moderne, co­me lo è invece perfettamente in italiano. Spesso le vocali finali sono cadute. Qualche volta hanno lasciato tuttavia, prima di cadere, delle conseguenze. Un esempio classico è la metafonesi, provocata da -i finale poi caduta: questo è quanto si osserva in piemontese tetò, plurale titò : “tetto, tetti”. Altre volte la vocale ha modificato la con­sonante precedente: così sempre in piemontese l’opposizione gros: groò “grosso, grossi” si spiega con l’effetto della -i poi caduta. Questo caso è generale in rumeno dove nella grafia il plurale masch, appare fatto con la -i, ma nella realizzazione fonetica abbiamo in realtà la palata­lizzazione della consonante: pom: pomi “albero (da frutto), alberi” è in realtà [pom, pomj]. La -i appare invece nella forma con l’artico­lo definito posposto: pomu è realizzato come [‘pomi].

Benché nei casi che abbiamo visto non si possa più parlare di plurale sigmatico o vocalico, è interessante constatare che la fonolo­gia generativa ha sempre preso in esame la possibilità di postulare rispettivamente la -s o le vocali cadute nella struttura profonda fono­logica.

l due morfi di formazione del plurale tagliano la Romània in modo chiaro (a parte il caso del friulano). Tradizionalmente ce se ne è serviti per suddividere in due parti la Romània. Ma nessun altro fenomeno ro­manzo sembra coincidere con questa linea. Possiamo dire perciò che il suo valore come test per una caratterizzazione interna della Romà­nia è stato sopravvalutato.

 

 

 

6. Antologia di testi in latino volgare con commenti linguistici

 

6.1. Iscrizioni murali di Pompei

 

Le iscrizioni murali di Pompei ed Ercolano hanno il grande vantaggio di una datazione sicura, in quanto devono essere precedenti all’eruzione del Vesuvio, avvenuto nel 79 d.C. In esse sono attestate tendenze fonetiche che ritroveremo poi nelle lingue romanze e soprattutto nell’italiano.

i.) Sonorizzazione delle consonanti sorde occlusive intervocaliche: p®b, t®d, c [k]®g, p.es. lat. pacatus ® pagatus (attestato a Pompei) ® it. pagato.

ii.) Caduta della m finale. La m finale è fin dalle origini una consonante molto debole, tanto che talvolta in metrica non viene letta. P.es. a Pompei si legge Successus amat ancilla. Non possiamo pensare a dei banali errori perché il fenomeno è troppo frequente.

iii.) La sincope ovvero l’eliminazione di una vocale atona all’interno della parola, p.es. domnus invece di dominus, maldixi invece di maledixi.

iv.) La prostesi (o protesi) è l’introduzione di una vocale davanti a s seguita da altra consonante all’inizio di parola. Avviene soprattutto quando la parola precedente finisce anch’essa per consonante, p.es. per iscritto, in iscuola. Lat. scholae ® sp. escuela;  ® fr. école, ecc. Il primo esempio si trova proprio a Pompei: Smyrna ® Ismurna.

v.) Trasformazione di e breve in i e delle i atone in iato, p.es. lat. ca/se/um®lat. volg. ca/sium (attestato a Pompei) ® it. cacio.

 

Secundus quoservis proficisces salutem libes.

Secondo in procinto di partire saluta volentieri i compagni di schiavitù.’

 

a) quosevis, proficisces, libes: caduta di n davanti ad s. Ciò avviene in tutte le parole popolari di evoluzione ininterrotta. Di consegenza, le parole contenenti il nesso consonantico ns sono voci dotte (p.es. console, censura,ecc.);

b) quoservis: ipercorrettismo. Lo schiavo liberato Secondo ha scritto quo- invece di co- perché era cosciente del fatto che quo- si riduceva spesso erroneamente nella pronuncia corrente in co-.

 

Trax Celadus retiarius. Cresces puparru domnus.

‘Celado trace gladiatore (retiario). Crescenzio padrone delle bambole.’

 

Si tratta di una cosidetta iscrizione-firma.

 

a) Trax è una grafia non corretta; essendo parola di origine greca dovrebbe essere thrax.

b) retiarius è un nome di professione con suffisso -arius, inesistente nel latino classico.

c) Cresces sarebbe in latino calssico Crescens. A Pompei si trova 44 volte il prenome Cresces e solo 4 volte Crescens.

d) Domnus da dominus, con la sincope della vocale atona post-tonica.

e) Puparru corrisponde al latino classico puparum, abbiamo quindi la caduta della m finale e il raddoppiamento di r. Il termine pupa o diminutivo pupula significava con ogni probabilità le meretrici, quindi il nostro retiario era probabilmente un frequentatore se non un protettore delle ‘bambole’.

 

6.2 Glosse di Reichenau

 

iterum: alia vices

semel: una vice ®a)

rufa: sora ®b)

reus: culpabilis ®c)

flasconem: buticulam ®d)

minas: manaces

pincerna: butiliarius ®e)

fibulas: hrincas vel fiblas ®f)

iecoris: figido ®g)

 

Queste glosse sono così chiamate perché il manoscritto principale che le contiene proviene dall’abbazia benedettina di Reichenau, sul lago di Costanza (questo manoscritto si trova oggi a Karlsruhe). Queste glosse sono molto recenti e quindi vi si possono trovare delle latinizzazioni tradive. Per esempio, il termine del latino classico MINAS da MINAE, MINARUM (deverbale da MINARI), che non era più compreso, è spiegato con una parola non del latino volgare, ma dell’antico francese addirittura contenente un tratto dialettale, la prima ‘a’, del Nord-Est della Francia, manaces [manatses]. Normalmente in antico francese si aveva menaces.

Secondo alcuni filologi le Glosse di Reichenau sono della fine dell’VIII o degli inizi del IX secolo, secondo altri del X.

a) Alcuni fenomeni illustrano bene le tendenze del latino parlato: la creazione di forme analitiche (alia vice, una vice) dalle forme sintetiche (iterum, semel).

b) rufa è parola latina, sora è invece un germanismo latinizzato (‘biondo-rossiccia’). Sora ha dato in italiano (attraverso il provenzale) sauro, in francese è rimasto nella forma (hareng) saur (‘aringa affumicata’)

c) Reus nel latino classico non significa colpevole bensí accusato. Culpabilis  nel buon latino non c’è.

d) flasconem non appartiene al latino classico, è una parola di origine germanica e si ritrova nel francese flacon. Buticulam significa bottiglia o piccola botte, termine mascherato di latinità (anche buttis non è attestato che in latino tardo).

e) pincerna ‘coppiere’ (dal greco) è reso con butilliarius, derivato evidentemente da buticula, ma rifatto chiaramente sul francese bouteiller.

f) fibulas ‘fibbia’ in latino classico, è spiegato doppiamente, con la parola germanica (francica) hrincas e con fiblas che è la forma sincopata della stessa parola fibulas.

g) iecoris ‘fegato’ (genitivo di iecur) è spiegato con figido, forse per la prelibatezza del fegato d’oca, fatto ingrossare dando da mangiare fichi alle oche stesse, donde *ficatu. In francese abbiamo foie, in spagnolo higado, in italiano fegato.

 

 

6.3 Appendix Probi

 

 

          a.        speculum non speclum

                     masculus non masclus

                     vetulus non veclus

                     oculus non oclus

                     calida non calda

                     viridis non virdis

         

          b.       vinea non vinia

                     cavea non cavia

                     lancea non lancia

                     alium non aleum

 

          c.        columna non colomna

                     turma non torma

                     coluber non colober

 

          d.       auris non oricla

 

          e.        olim non oli

                     idem non ide

 

          f.        mensa non mesa

                     formosus non formonsus

                     occasio non occansio

 

          g.        rivus non rius

                     pavor non paor

 

          h.       baculus non vaclus

                     plebes non plevis

 

          i.        pauper mulier non paupera mulier

                     ipse non ipsus

 

          k.       nurus non nura

                     socrus non socra

 

          l.        persica non pessica

                     grundio non grunnio

                     sibilus non sifilus

 

Marco Valerio Probo fu un grammatico latino del I sec d.C. In verità la cosidetta Appendix Probi non ha niente a che fare con lui, per due ragioni: il trattato di grammatica in questione, contenuto in diversi codici, gli fu attribuito erroneamente, porbabilmente risale al IV secolo. Una copia, circa del VII-VIII secolo, proviene dal monastero benedettino di Bobbio (fondato dal monaco irlandese San Colombano nel 612); in appendice a questo manoscritto si leggono cinque brevi testi, tra cui la rinomata Appendix Probi che forse sarebbe piu opprotuno chiamare Appendix Bobbiensis. La lista contiene 227 parole, nella forma ‘giusta’ del latino classico (anche se a volte già la prima forma pecca di correttezza) e nella forma ‘errata’ del latino volgare parlato all’epoca, preceduto da non. In esse si manifestano praticamente tutti i fenomeni fondamentali della fonetica del latino volgare. La lista con ogni probabilità era destinata ad uso scolastico.

La divisione a gruppi è quella di A. Menichetti e non rispecchia l’ordine originale ma intende fornire una tipologia degli errori.

 

a) Fenomeno della sincope (caduta della vocale interna post-tonica), p.es. alterum ® altro e similmente specchio, maschio, occhio, verde. Secondo una testimonianza di Quintiliano, l’imperatore Augusto considerava “odiosa”, insopportabile la pronuncia calidus anziché caldus (ovviamente a livello di lingua parlata). L’Appendix Probi raccomanda invece ancora l’uso, nella scuola , della forma “corretta” anche se l’itaiano caldo viene, ovviamente, proprio della variante parlata caldus.

 

b) e atona in iato (cioè seguita immediatamente da vocale) ® i, cioè ‘iod’ o i semiconsonantica, p.es. caronea ® caronia ® carogna.

vi/ne/a ®vi/nia la parola è diventata bisillaba e tale è nelle lingue romanze, p.es. sp. vińa, it. vigna. lancea è stata dal I sec. a.C. in Varrone come parola non propriamente latina ma di origine iberica (forse celtica).

Di contro, il fenomeno dell’ipercorrettismo in alcuni casi conferma la tendenza della coscienza linguistica: si correggono le parole perché giuste la gente sa di sbagliare (pronuncia rustica). Siccome si sa che molte parole pronunciate con i + vocale dovrebbero invece avere, nella forma corretta, e + vocale, si tende a correggere tutte le parole scritte con i + vocale, anche quelle giuste, p.es. alium.

 

c) Fenomeno della trasformazione di u breve in o. Nei primi due casi cambia la vocale tonica, nell’altro la post-tonica.

 

d) Indica la predilezione del latino parlato per i diminutivi, che però perdono il loro valore originario, p.es. auricola si ritrova già in Paluto col valore di auris.

 

e) Fenomeno della caduta della m finale. È un fenomeno normale sin dal latino delle origini, tant’è che la m finale seguita da vocale iniziale metricamente non conta, permette la sinalefe. Ritroviamo questo fenomeno già nelle iscrizioni di Pompei (I.secolo d.C.), e a partire dal III-IV secolo la m tende a cadere anche nelle iscrizioni ufficiali.

 

f) Assistiamo alla caduta di n davanti a s, p.es. lat. monstrum ® it. mostro, lat. mensa ® sp. mesa, rom. masa, fr. moise (col significato di una tavola speciale nel lessico dei carpentieri). Naturalmente, la conservazione del nesso consonantico ns nell’it. mensa è chiaro segno del fatto che si tratta di parola dotta. Altri esempi da iscrizioni antiche: cesu per censu e cosul per consul.

Di contro, le ipercorrezioni formonsus, occansio fanno vedere un inserimento errato di n.

 

g) Questi esempi testimoniano l’antica pronuncia di v [u]. Quando, poi, questa v si trovava vicino ad u oppure o, tendeva a fondersi con queste vocali. P.es. lat. rivus ® sp. rio, lat. pavorem® lat. volg. paor ® fr. ant. peeur ® fr. mod. peur e anche ® it. paura.

 

h) Confusione tra v, b, u.

Probabilmente in alcune zone, come la penisola iberica i verbi bibere e vivere erano pronunciati (quasi) allo stesso modo. Perciò baculus (®it. bacchio) venica confuso con vaculus, con sicope vaclus. La stessa confusione si crea anche in plebes. L’it. plebe è parola dotta che si afferma nell’Italia solo nel ‘300 in seguito alle prime traduzioni dal latino. La tradizione ininterrotta da invece pieve (con significato di ‘popolo di Dio’ ®‘Chiesa’).

 

i) La necessità di distinguere il femminile dal maschile porta all’estensione analogica sul tipo bonus -a degli aggettivi ad una sola uscita come pauper. Ipse ha una desinenza inconsueta, per cui si crea per analogia ipsus ® it. esso. Le altre lingue romanze invece partono da ipse ® sp. ese, fr. ant. es, provenzale eis, ecc.

 

k) Per analogia alle forme femminili della prima declinazione che escono in a, si estende a quasi tutte le forme femminili la desinenza a (la desinenza di socrus rischiava di far pensare che si trattasse del suocero).

 

l) Persica = il frutto che viene dalla Persia ® pessica. È una tendenza del latino al fenomeno di assimilazione regressiva in quanto è la seconda consonante ad influenzare la prima. In seguito pessica ® pesca per sincope.Alcuni dialetti e lingue romanze continuano comunque la prima forma.

grundio non grunnio: le due varianti (la seconda dialettale) coesistevano nel latino parlato. La prima da la forma del fr. ant. grondir® fr. mod. gronder ‘rimproverare’; la seconda forma è continuata nell’it. grugnire e nel prov. gronhir.

Similmente, esistono forme provenienti da sibilus e da sifilus: L’it. sibilo è parola dotta, quella di tradizione ininterrotta sarbbe zufolo. L’occitanico ha siflar e siblar, entrambe di tradizione ininterrotta).


Bibliografia:

Menichetti, Aldo, Filologia romanza. Anno accademico 83-84. Milano, CUSL, 1984.

D’Arco, Silvio Avalle, Bassa latinità, 3 voll. Torino, 1969-1971.

Väänänen, Veiko, Introduzione al latino volgare. Bologna, 1974.

Menichetti, 38-39.

Menichetti, 29-30.

 

Fonte: http://olasz.btk.ppke.hu/letoltesek/dispensa%20parziale%20di%20filolgia%20romanza.doc

Sito web da visitare: http://olasz.btk.ppke.hu/

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