Paradiso terrestre

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Paradiso terrestre

 

Arturo Graf

Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo



Edizione di riferimento:
Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo, Mondadori, Milano 1996


IL MITO DEL PARADISO TERRESTRE

Introduzione

È ormai notissimo a tutti che la immaginazione di uno stato di felicità e d’innocenza di cui gli uomini avrebbero goduto nell’inizio dei tempi, e dal quale sarebbero poi decaduti, immaginazione che porge argomento ad uno degli antichi racconti tradizionali che vennero a raccordarsi e collegarsi nella Bibbia, e forma come il luogo d’origine di tutta la rimanente storia che ad essa consegue; non è una immaginazione particolare; non appartiene in proprio a quel libro; ma è generalissima e diffusissima, e appare, con forme varie e mutabili, nei libri e nelle tradizioni di molte religioni diverse, ed è parte vivace e saldissima della comune e spontanea credenza umana, tanto che questa rimanga impenetrata alla scienza e riottosa alla critica. Noi la troviamo su tutta la faccia della terra, dovunque son uomini; essa era già nata quando non era ancor nata la storia; essa vive presentemente; essa vivrà per lungo tempo ancora in avvenire, benché premuta da ogni banda e incalzata da nuovo pensiero e da nuova cultura. Gl’Indi, gli Egizii, gl’Irani, i Cinesi, le varie famiglie dei Semiti, i Greci, i Latini, i Celti, i Germani conobbero il mito: se, lasciato il vecchio mondo, attraversiamo i mari, noi ritroviamo il mito in America, in Oceania, nelle ultime piaghe di terra abitata che cingono il polo.
E in tutti i tempi, e fra tutte le genti, sotto sembianze quando simili in tutto, quando leggiermente disformi, il mito serba la stessa sostanza di concetto e la stessa significazione, e secondoché più direttamente e più strettamente si leghi all’idea di tempo, o all’idea di luogo, esso riesce, sia alla immaginazione di un’età beata ed aurea, sia a quella di un luogo paradisiaco ed arcano, primo ed unico albergo della umana felicità.
I libri sacri dell’India e il Mâhâbârata celebrano l’aureo monte Meru da cui sgorgano quattro fiumi, che si spandono poi verso le quattro plaghe del cielo, e sulle cui giogaje eccelse olezza e risplende, incomparabile paradiso, l’Uttara Kuru, dimora degli dei, prima patria degli uomini, sacra ai seguaci del Budda non meno che agli antichi adoratori di Brama. Gli Egizii, a cui forse appartenne in origine la immaginazione degli Orti delle Esperidi, serbavano lungo ricordo di una età felicissima, vissuta dagli uomini sotto la mite dominazione di Râ, l’antichissimo dio solare. L’Airyâna vaegiâh, che sorgeva sull’Hara-berezaiti degl’Irani, fu un vero Paradiso terrestre, innanzi che il fallo dei primi parenti e la malvagità d’Angrô-Mainyus l’avessero trasformato in un bujo e gelido deserto; e nell’Iran, e nell’India, come in Egitto, durava il ricordo di una prima età felicissima. I Cinesi coronarono il Kuen-lun di un paradiso, ove sono parecchi alberi meravigliosi e d’onde sgorgano parecchi fiumi. Nelle tradizioni religiose degli Assiri e dei Caldei il mito appare con sembianze che non si possono non riconoscere come simili affatto a quelle del mito biblico. Greci e Latini favoleggiarono dell’età dell’oro, dei regni felici di Crono e di Saturno, e di più terre beate. Non giova moltiplicar questi cenni: in tutte così fatte immaginazioni noi troviamo elementi comuni che si compongono insieme o si suppliscono a vicenda, alberi e frutti datori di vita e di scienza, fontane d’immortalità o di giovinezza, fiumi che si spargono intorno a fecondare la terra, mitezza e giocondità di cielo, riso perpetuo di natura, un divieto, una trasgressione, una caduta; – una breve felicità originale a cui sussegue lunga e crescente miseria.
La credenza che il monoteismo giudaico fosse religion primigenia, indivisa, tutta omogenea e tutta coerente, e credenza sfatata da tempo, e non v’è più modo di dubitare che il racconto biblico della caduta dell’uomo non provenga d’altronde e non si leghi ad un mito molto più generale e più remoto. Basterebbe a darne prova il fatto della poca coesione sua con l’altro racconto, detto eloista, al quale esso si congiunge nella Genesi. Il Lenormant, giudice non sospetto in così fatta materia, e che, pur dichiarando di voler rimanere cristiano, accetta le conclusioni della critica biblica moderna, scrive queste testuali parole: «Ce que nous lisons dans les premiers chapitres de la Genèse, ce n’est pas un récit dicté par Dieu lui-même et dont la possession ait été le privilège du peuple choisi. C’est une tradition dont l’origine se perd dans la nuit des âges les plus reculés, et que tous les grands peuples de l’Asie antérieure possédaient en commun avec quelques variantes. La forme que lui donne la Bible est même si étroitement apparentée avec celle que nous retrouvons aujourd’hui à Babylone et dans la Chaldée, elle en suit si exactement la marche, que je ne crois plus possible de douter qu’elle ne sorte du même fond»[1].
E con ciò rimane annullata l’altra credenza che l’unica verità della Bibbia voleva rifratta e dispersa nelle tradizioni e nei miti delle varie genti pagane, a quel modo che, passando pei prisma, si rifrange e disperde, colorandosi variamente, la luce bianca del sole. Questa fu la credenza dei Padri e dei Dottori della Chiesa, e questa era ancora la credenza di Dante, quando a Matelda, là, nel Paradiso terrestre, faceva dire:

Quelli che anticamente poetaro
L’età dell’oro e suo stato felice
Forse in Parnaso esto loco sognaro.

I moderni scrutatori dei linguaggi, delle tradizioni e dei miti posero in sodo che il mito, da alcuni per brevità chiamato edenico, è uno dei più antichi di cui l’umanità serbi memoria. Le indagini loro hanno disvelato una lontana convergenza, ed una, almeno parziale, sovrapposizione geografica delle tradizioni paradisiache sparse fra le genti della doppia famiglia ario-semitica; e una opinione s’è accreditata e fatta ormai generale fra essi, che quelle tradizioni, per quanto spetta ai grandi popoli storici, mettan capo a un’era antichissima, quando la gente aria viveva ancora congiunta nell’altipiano del Tibet, o in regione a quello adiacente, e sieno, in parte, lontane e diversificate reminiscenze di una patria comune. Il mito, quale appare nelle tradizioni assiro-caldaiche e fenice, e quale cel porge il racconto biblico, è esso stesso, secondo ogni probabilità, di origine indo-germanica. Il cherubino, che nel racconto della Genesi sta a custodia del Paradiso, non appartiene, né pel nome, né per la condizione e l’officio, al mondo semitico, ma rimanda, secondo congettura il Renan, a una radice grìbh, o grabh, occorrente in tutte quasi le lingue ariane, e ricorda in singolar modo, secondo avverte il Lenormant, i Garudi dell’India. Da altra banda un vasto complesso d’indizii mostra che l’Eden biblico deve rintracciarsi in quei medesimi luoghi ove i libri sacri dell’India e dell’Iran pongono il Meru e l’Hara-berezaiti. A me basta di avere accennato rapidamente tutto ciò, non essendo mio compito addentrarmi nell’esame dei fatti e delle opinioni, né richiedendosi ch’io ne faccia una esposizione particolareggiata e compiuta[2].
Ma come nacque, e di che ragioni, il mito meraviglioso? e quali sono i collegamenti suoi con la realtà geografica, con la vita storica primitiva, e con quello che, in mancanza di più acconcia espressione, chiamerà il contenuto della coscienza? Non è cosa agevole rispondere a così fatte domande.
Che il mito abbia una radice storica; che contenga dentro di sé, oscurato più o meno, il ricordo di una antichissima sede, di una prisca patria, alla quale tornano col pensiero e col desiderio, fantasticamente abbellendola, le razze che ne migrarono; e che immedesimandosi quel ricordo via via, come porta la fortuna di migrazioni consecutive, con ricordi d’altre sedi mutate e rimutate, serbi pur sempre alcun che dell’originale esser suo, è cosa che si deve senz’altro ammetter per vera, e che tale è provata da più altri esempii di miti affini.
Che, inoltre, nel mito, si riverberi il ricordo annebbiato di una primitiva condizione sociale, anteriore allo stabilimento della proprietà fondiaria, e agli ordinamenti che ne furono la necessaria conseguenza, può credersi; ma che il mito stesso abbia significato essenzialmente economico, ch’esso sia un grido di dolore del proletariato e la propria leggenda del socialismo, come dissero il Laveleye, il Malon, e ultimamente con dottrina copiosissima e lucidissima esposizione, il Cognetti De Martiis[3], non parmi opinione che regga, quando si considerino le condizioni tutte d’organamento e di vita sociale con le quali si concilia, sia l’apparizione, sia la perduranza del mito, e quando si ponga mente agli elementi molteplici ond’esso mito è composto.
Innanzi tutto, come spiegare il fatto che il mito, sia pure in forma rudimentale, appare tra schiatte d’uomini le quali durano nella medesima, primitiva condizione di vita sociale ed economica di cui quello dovrebb’essere, per lo appunto, un ricordo? Inoltre, se il mito è leggenda di proletarii, perché mai le teocrazie e le aristocrazie tutte lo raccolsero esse così amorosamente, e così gelosamente lo custodirono? Più lo scruto e lo sviscero, e più mi sembra che il mito, s’è per qualche picciola parte un ricordo, sia per la massima parte una visione ideale, nasca dalla projezione di un fantasma interiore nel tempo e nello spazio. Vero è che giova, a questo proposito, fare alquanto maggiore la separazione tra il mito dell’età dell’oro e il mito del Paradiso terrestre, e riconoscere che più copiosi in quello sono gli elementi storici, sociali, economici, più copiosi in questo gli elementi ideali, mitici ed etici.
Che nel mito paradisiaco ario-semitico, e in altri affini, si trovin tracce di un antichissimo culto della natura; non credo si possa negare. L’albero della vita è l’albero che porge il nutrimento; l’albero della scienza è l’albero che dà responsi: entrambi appajono in numerose mitologie, fatti spesso compagni dell’albero generatore da cui procedono gli uomini. Indipendentemente da qualsiasi storica reminiscenza, l’uomo è tratto, per virtù spontanea di fantasia, a immaginare uno stato di vita assai più felice di quello toccatogli in sorte, e a porre quella felicità assai remota da sé, o nello spazio, o nel tempo. Se nel tempo, egli deve necessariamente respingerla nel passato o nel futuro. A respingerla nel passato egli sarà sollecitato da quella medesima illusione che forza i vecchi a lodare i giorni e le cose che furono, da quella stessa mitica fantasia che lega insieme la felicità, l’apparir del sole, il cominciamento dell’anno, la primavera, la nascita di tutte le cose. Altre cagioni e ragioni potranno sollecitarlo ad allontanar nel futuro quel sogno di felicità, come interviene a noi, cui la scienza vieta ormai di colorirlo nel passato. Disse lo Schopenhauer: «La felicità è sempre, o nel futuro, o nel passato, e il presente è da rassomigliare a una piccola nube oscura, cacciata dal vento sul piano soleggiato: innanzi ad essa e dietro di essa tutto è chiaro, essa sola getta sempre un’ombra sul piano». E Vittore Hugo, nell’Année terrible:

Les philosophes, pleins de crainte ou d’espérance,
Songent et n’ont entre eux pas d’autre différence,
En révélant l’Eden, et même en le prouvant
Que le voir en arrière ou le voir en avant.

A noi non è più concesso figurare il sogno nello spazio, almeno in quel tanto spazio che la superficie del nostro pianeta comprende; ma tutta l’antichità credette all’esistenza di popoli remoti, i quali, governati dal senno e dalla virtù, beneficati da terra feconda e da clementissimo cielo, vivevano felicissimi, esenti dai morbi, non asserviti al lavoro, fruenti di rigogliosa longevità.
Quando la coscienza morale si desta, nuove ragioni concorrono a figurare il mito e fermarne il significato. Gli uomini primitivi non considerano e non intendono la morte come un fatto naturale: per essi la morte è effetto di un errore, di un malefizio, di un castigo. In molti miti di popolazioni selvagge si afferma che gli uomini dovevano essere immortali, ma che per un error di messaggio, o per malizia di certo messaggere, o per altra cagione si fatta, avvenne poscia il contrario. Allargandosi e chiarendosi sempre più la coscienza morale, si venne a considerare la morte, e i mali stessi ond’è ripiena la vita, quale conseguenza di un peccato commesso e di un meritato castigo. Questa interpretazione non si ebbe se non quando furono ben definiti i concetti di colpa e di pena, ed è frutto di un ragionamento, non giusto certo, ma naturale in menti incolte: la pena è dolore; ma dolore sono e la vita e la morte: dunque la vita e la morte son pena. Allora il sogno di primitiva felicità diventa anche sogno di primitiva innocenza, e l’intero sogno può benissimo intrecciarsi con ricordi storici e semistorici, sia di una patria remota, sia di una perduta condizione di vita sociale.
Dopo quanto son venuto dicendo non credo di dover giustificare con altre ragioni l’uso da me preferito di dire mito del Paradiso terrestre anziché leggenda del Paradiso terrestre, tanto più che io prendo a considerare la tradizione quando è già staccata da quelle radici storiche e reali che possa avere. Da altra banda occorre appena avvertire che il mito, volgendosi, a guisa di largo fiume, attraverso i secoli, e in mezzo a disparatissime genti, accoglie nel suo corso, insieme con altri e svariati miti, leggende in gran numero.
Il mito del Paradiso terrestre doveva acquistare nuovo valore e nuova, maggiore celebrità col diffondersi del cristianesimo, che tutto poggia sulla dottrina della caduta e della redenzione. I profeti appena fanno ricordo della beata dimora; i Padri e i Dottori cristiani son pieni delle sue lodi, e spogliano i poeti pagani per far più vaghe le descrizioni che vanno di essa intessendo. Non senza giusta ragione. Di contro all’opera misteriosa e solenne della redenzione compiuta da un Dio fatto uomo, il fallo dei primi genitori doveva apparire più che mai mostruoso ed enorme, e per necessario effetto di contrasto, a paragon di quel fallo doveva parere incommensurabile il primo benefizio di Dio, doveva la patria dell’uomo innocente rifulgere di un più intenso lume di cielo, e quello stato di prisca felicità dipingersi alle menti con colori tanto più vaghi ed accesi, quanto maggiore era la miseria de’ tempi, quanto più vivo il sentimento della fragilità ereditaria, quanto più angoscioso il pensiero degli ostacoli innumerabili che impedivano il conseguimento della salute, quanto più grave e più insistente il terrore degli atroci castighi minacciati a coloro che fossero per lasciar perdere il frutto della redenzione. Invano si tentò da alcuni dare al racconto biblico un significato puramente allegorico: i più lo presero alla lettera, e i poeti della nuova legge si voltarono desiosamente a quelle prime origini a cui pareva dovesse ripiegare il corso della storia, mentre una opinione già teneva gli spiriti, che la beata dimora dei padri colpevoli, riaperta ai figli redenti, dovesse accogliere, per misurato spazio di tempo, sino al giorno dell’Universale Giudizio, le anime degli eletti, destinate ad ascendere poi alle glorie incomparate e senza fine della Gerusalemme celeste. I Chiliasti sognavano un nuovo Eden, sotto il regno millenario di Cristo, e il sogno loro non era ancor spento nel secolo IX, quando si levava a dannarlo Pascasio Radberto. I tempi, volgenti più e più al peggio, favorivano quella disposizion degli spiriti. Si sfasciava l’impero di Roma, irrompevano i barbari da ogni banda: una età di ferro, quale non avevano immaginata le mitopee dell’antichità, pesava sul mondo, che, nel corso di una storia calamitosa ed oscura, pareva divenir sempre più il regno incontrastato di Satana. Qual meraviglia se poeti de’ primi secoli, Tertulliano, Proba Faltonia, Draconzio, Claudio Mario Vittore, Alcimo Avito; se poeti e romanzatori, e narratori di leggende, e scrittori d’opere ascetiche de’ secoli successivi, raccolgono quante reminiscenze dell’arte classica durano in loro, stemperano i colori più accesi delle lor fantasie, impregnano di mistici ardori il sentimento e la frase, per ripresentare agli animi una viva immagine di quel primo soggiorno di beatitudine? Quanto più rude e turbolenta e malvagia si faceva la vita, tanto più intenso doveva crescere negli spiriti contemplativi il desiderio di ritrarsi con la fantasia in quella solitudine beata e sacra.

Oi! paradis, tant bel maner!
Vergier de gloire, tant vus fet bel veer!

sospirava un trovero del XII secolo. E un poeta latino, forse anteriore:

Eden digne pingere vanum est conari,
Stillas paucas extraho de tam magno mari.

Di quel desiderio, come fiori da pianta vigorosa e feconda, nacquero, nel corso dei secoli, numerose leggende e infinite altre immaginazioni, nelle quali si vedono riapparire, con meraviglia di chi le consideri, venuteci non si sa come, né per qual via, molte particolarità del mito più generale, trascurate nel racconto biblico. Se ne vedranno le prove qua e là, nella trattazione che segue. Quelle finzioni sono, come ho detto, assai numerose, e dovevano essere, dato il luogo che nella memoria di tante generazioni di credenti aveva a tenere quella prima patria degli uomini, dove s’erano scontrati tutti in un punto i pugnanti fattori della storia, l’amor del piacere, l’amor del sapere, il desiderio di potestà, la legge e la ribellione, la virtù e la colpa, la vita e la morte. Molte di esse sono anche belle e fantasiose, accese de’ più vivi colori di una poesia fervorosa ed ingenua, e trasportan la mente in un cielo di sogni meravigliosi, il cui ricordo faceva esclamare al Leopardi:

Oh Fortunata
Di colpe ignara e di lugubri eventi,

E di quelle finzioni principalmente io intendo fare discorso non toccando, se non di volo, qua e là, delle dispute teologiche arruffatissime che si legano e si frammezzano a quelle, e sono, il più delle volte, altrettanto vane e fastidiose, quanto sono quelle dilettevoli ed istruttive.

Note
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[1] Les origines de l’histoire d’après la Bible et les traditions des peuples orientaux, Orleans 1880-84.
[2] Perciò tralascio di ricordare molt’altri libri capitali ove la questione è largamente esposta e discussa. Solo soggiungerò che Federico Delilisch, in un volume intilolato Wo lag das Paradies? Eine biblish-assyriologische Studie, Lipsia 1882, cercò di confutare, senza però riuscirvi, la opinione piú accreditata e diffusa, e di provare che il mito edenico nacque propriamente in Caldea, e dalla Caldea passò nell’Iran e nell’India. Vedi in contrario Oppert, nelle Göttingische gelehrte Anzeigen pel 1882, vol. II, pp. 801-31, e Lenormant, Les origines de l’histoire etc., vol. II, pp. 537-8
[3] Socialismo antico, Torino 1889. Vedi piú particolarmente le conclusioni,p. 250 e sgg.

 

Capitolo I
Situazione del Paradiso terrestre

Dice la Genesi che Dio piantò il mirabil giardino nella parte orientale di una regione chiamata Eden; e questo cenno fece prevaler la credenza ch’esso fosse stato, e fosse tuttavia, nella parte orientale della terra, o, a dirittura, nell’estremo Oriente. Tale fu, come può rilevarsi da Giuseppe Flavio, la comune credenza degli Ebrei; e tale fu pure la credenza più accetta, nei primi secoli, ai Padri della Chiesa, e poi nel medio evo, e oltre il medio evo, a teologi, a viaggiatori, a romanzatori, a cosmografi. San Basilio Magno dice che i cristiani pregano volti ad Oriente, quasi cercando la patria perduta; e Jesujabo, vescovo nestoriano di Nisibi nel secolo XII, reca, come argomento della superiorità dell’Oriente sull’Occidente, il fatto che il Paradiso terrestre è appunto in Oriente.
A confermare tale credenza cooperava del resto una ragione alla quale è forse da far risalire, in qualche parte, la stessa indicazione biblica. Basta ripensare un istante ai caratteri e agli officii proprii del sole in tutte le mitologie, e in ispecie del sole nascente, per tosto avvedersi che l’Oriente, cioè quella plaga della terra onde si leva l’astro datore di vita e dispensator di letizia, doveva, in virtù di un’associazion di concetti non meno naturale che inevitabile, parer la più acconcia a porvi la culla dell’uman genere, il giocondo ricetto della prisca felicità e della vita immortale. Che se più tardi noi troviamo il Paradiso trasposto in altre regioni, o, a dirittura, nell’ultimo Occidente, ciò avviene, come vedremo, per ragioni particolari e avventizie, le quali, posteriori di tempo, nulla detraggono a quella ragion generale e primitiva. Né prova nulla in contrario il fatto che l’Elisio, le cui descrizioni, come di stanza di beati, concordano in molte parti con quelle del Paradiso terrestre, ponevasi dagli antichi nell’ultimo Occidente, nella regione cioè ove si occulta il sole, e muore il giorno; perché l’Elisio era stanza, non di vivi ma di morti, e perciò immediatamente prossima all’Hades. L’opinione pertanto più antica, ed anche, data l’indole del pensiero mitico, più razionale, era quella che situava il Paradiso terrestre in Oriente, e ad essa si legava naturalmente, per le stesse ragioni, l’altra che faceva volta ad Oriente la porta (quando si parlava d’una e non di più porte) del Paradiso medesimo. Da altra banda, il non trovarsi più vestigio di esso nelle regioni prima cognite dell’Asia, e poi nelle regioni che furono conosciute più tardi; e quella natural tendenza che induce gli uomini a immaginare come lontanissimi da loro, dalle loro consuete dimore, i luoghi di sognate meraviglie e di sognata felicità, dovevano esser ragioni atte a far trasporre il Paradiso terrestre in un Oriente sempre più remoto ed arcano. Nell’apocrifo etiopico, d’incerta età, intitolato Combattimento d’Adamo ed Eva, si dice che Dio piantò il giardino paradisiaco il terzo giorno, ai confini orientali del mondo, di là dai quali non v’è più se non l’acqua che circonda la terra e attinge il cielo. Perciò la credenza che il Paradiso fosse in Mesopotamia, credenza suggerita dallo stesso racconto biblico là dove nomina il Tigri e l’Eufrate, se trovò in ogni tempo, e anche ai dì nostri, chi l’accolse e difese, non però si può dire che sia stata la più diffusa, e, anzi, nelle leggende di cui avrò a parlare più oltre, non compare nemmeno.
Fare una enumerazione di tutti gli scrittori sacri e profani, antichi e del medio evo, i quali si contentarono di dire che il Paradiso terrestre è in Oriente, senz’aggiungere altra più precisa indicazione, sarebbe fatica non meno incresciosa che vana: essi sono, starei per dire, innumerabili. A noi importano ora le notizie, o le affermazioni, le quali, riferendosi pur sempre all’Oriente, sieno in qualche modo più specificate e più precise.
Molte mappe del medio evo pongono il Paradiso terrestre in terra ferma, nell’india, o di là dall’India, in una regione incognita, all’estremo limite della terra bagnata dall’oceano che tutto circonda; e di là dall’India lo posero l’Anonimo Ravennate e la più parte dei trattatisti, espositori e commentatori ch’ebbero a parlarne. Non aveva già detto Erodoto che quanto è di più bello al mondo si trova agli estremi confini della terra abitata? Nel secolo XV la credenza per questo rispetto non muta. Le mappe di Andrea Bianco (1436), di Giovanni Leardo (1448), del Museo Borgia, altre, seguitano a porre il Paradiso nell’India, o di là dall’India. Ma la nozione era di necessità confusa ed incerta. Nel secolo XIV, Giovanni di Mandeville afferma di essere stato in India, ma di non aver veduto il Paradiso, il quale è in regione assai più lontana; mentre Giordano da Sévérac riferisce una credenza secondo cui il Paradiso sarebbe stato fra quella che si chiamava la terza India e l’Etiopia. Nel secolo XV, Fra Mauro colloca il Paradiso in Oriente, molto remoto dala habitation e cognition humana; ma non segna nella sua mappa il luogo preciso. Da molti il Paradiso terrestre ponevasi nel Regno del Prete Gianni, o in prossimità di quello, come vedremo più innanzi; regno che mutò più d’una volta luogo sulla faccia della terra, secondo il bisogno della leggenda; ma che fu da prima in India, o da quelle parti.
Dice Ranulfo Higden, nel suo Polychronicon, esser falsa la opinione di coloro che credono il Paradiso disgiunto dalla terra abitata per lunga distesa di mari; ma bisogna pur riconoscere che tale opinione professata, fra gli altri, nel nono secolo, da Valafredo Strabone e da Remigio di Auxerre, e accennata da Rabano Mauro, doveva imporsi, come quella che meglio s’accordava con certi sentimenti, e appagava la fantasia, a molti spiriti. L’isola felice e la città d’oro dei Vidyâdhari, di cui si racconta nel libro di novelle di Somadeva, son poste anch’esse in parte remotissima ed ignota del mondo, e molte altre immaginazioni affini si potrebbero qui recare a riscontro, delle quali sarà detto più opportunamente altrove.
Quella opinione prendeva due forme diverse, secondoché il Paradiso si faceva sorgere nell’antictone di Aristotele e di Eratostene, ossia nella terra opposta all’abitata, divisa da questa dall’oceano innavigabile; oppure in un’isola, remota sì da ogni contrada popolata dagli uomini, ma appartenente nulladimeno al nostro emisfero.
Già Sulpizio Severo, nel IV secolo, dice, parlando dei primi parenti, che essi furono cacciati come esuli nella terra da noi abitata, in nostram velut exules terram ejecti sunt; e in quello stesso secolo Efrem Siro, ne’ suoi Commentarii sulla Genesi, andati perduti, colloca il Paradiso nell’antictone; ma Cosma Indicopleuste, nel VI, espone tutta una sua dottrina in proposito la quale ha strettissima relazione con antiche dottrine asiatiche, e, senza dubbio, ne dipende. Cosma immagina la terra oblunga, e divisa in due parti, delle quali l’una è interna e circondata dall’oceano, l’altra è esterna, cinge l’oceano e si congiunge col cielo, volto in alto e all’ingiro a modo di cupola. Il Paradiso è nella terra esterna, verso Oriente, e in quella terra rimasero gli uomini sino al Diluvio. Noè, con l’Arca, traversò l’oceano, e approdò in Persia, d’onde la sua progenitura si sparse in questa parte di mondo ch’è ora abitata, mentre l’altra, che fu prima abitata, ora è deserta. I quattro fiumi dell’Eden s’inabissano laggiù nella terra, passano sotto l’oceano, e riscaturiscono di qua, dalla parte nostra. Sia ricordato, di passata, che gl’Indiani immaginano un altro mondo (loka) di là dai Sette Mari, e che di là dall’oceano immaginano gli Arabi la montagna di Kâf. Mosè Bar-Cefa, nel secolo X, pose ancor egli il Paradiso nell’antictone; e tale opinione, avvalorata dal fatto (contraddetto, come poi vedremo, da molti sogni che pure avevansi in conto di fatti) che il Paradiso, per quanto si fossero corse le terre ed i mari, non s’era mai potuto rinvenire, ebbe non pochi seguitatori, Dante fra gli altri.
Che Dante, ponendo il Paradiso terrestre sulla cima del monte del Purgatorio, fece cosa non caduta in mente a nessuno dei Padri e Dottori della Chiesa, fu notato già da parecchi; ma che, quanto alla situazione del Paradiso, l’opinione di lui s’accorda con quella dei Padri e Dottori che lo posero nell’antictone, non fu, ch’io sappia, fatto osservare da alcuno. Conformemente alla comun dottrina de’ suoi tempi, Dante crede che la terra emersa, la Gran secca, com’egli la nomina, sia tutta nell’emisfero settentrionale, e non si stenda se non picciol tratto (circa 11 gradi secondo Tolomeo) oltre l’equatore. L’emisfero meridionale è occupato dalle acque dell’oceano, salvo che in un punto dove sorge il monte del Purgatorio, diametralmente opposto alla città di Gerusalemme. Notisi tuttavia che de’ quattro fiumi egli non dice parola. Quel viaggio sotterraneo, che altri faceva compiere loro, doveva destare troppe obbiezioni nella mente di chi aveva disputato la questione De acqua a terra, e aveva così giusta cognizione della legge di gravità[1].
Molto più diffusa fu l’altra opinione, che poneva, come ho detto, il Paradiso in un’isola del nostro emisfero, la quale quando è in Oriente e quando in Occidente, secondo le immaginazioni. Poiché io parlo ora della general credenza che assegnava il Paradiso all’Oriente, dirò, prima, dell’isola, o, piuttosto, dell’isole orientali, salvo a dir delle occidentali un po’ più innanzi, quando parlerò di un’altra credenza principale. In tanto viluppo ed intreccio d’immaginazioni, le quali spesso nascono le une dalle altre, gli è affatto impossibile di serbare, discorrendone, un ordine logico molto rigoroso.
Ma, prima di passar oltre, non sarà fuor di luogo ricordare che l’idea di porre in un’isola segregata la stanza dei beati, o di attribuire ad isole remote ed incognite una felicità non concessa al resto della terra, è una idea naturale, molto antica e molto diffusa. L’Elisio fu posto in una o più isole; e, tutti sanno quanto dagli antichi siasi favoleggiato intorno alle famose Isole Fortunate. L’isola dei Feaci, e l’isola di Ogigia, descritte da Omero, sono terre di letizia e di felicità; e l’isola di Pancaja, descritta da Diodoro Siculo, ha con l’Elisio non piccola somiglianza. L’Atlantide di Platone e la Merope di Teopompo erano immuni dagl’infiniti mali, cui vanno soggette l’altre contrade abitate dagli uomini. Oltre al monte Kâf, gli Arabi avevano l’isola di Vacvac, ricordata nei viaggi di Sindbad delle Mille e una notte, e di cui tante meraviglie narrano Masûdi e altri; e avevano le isole Saili, le quali erano di tanta vaghezza e felicità che chi vi approdava dimenticava il resto del mondo. Di un’isola dalle poma d’oro narrarono le meraviglie i Celti.
L’isola paradisiaca sorgeva dalle acque di quel misterioso oceano che fasciava tutto intorno la terra abitabile. L’immaginazione di quest’oceano, antichissima, dacché, prima che nei poemi di Omero e di Esiodo, trovasi in India e in Caldea, durò viva quanto il medio evo. Isidoro di Siviglia l’accetta, e l’accetta ancora il Boccaccio, quando il medio evo si chiude: le mappe la figurano. Notisi, a tale riguardo, che, secondo Giuseppe Flavio, il fiume il quale esce dal Paradiso, cinge tutta la terra, e che San Giovanni Damasceno fa di quel fiume e dell’oceano circondante una cosa sola.
E molte mappe figurano anche l’isola, posta bensì in Oriente, ma non sempre, come si può ben credere, nel medesimo luogo. Di solito essa non è designata con altro nome che quello di Paradiso, o Isola del Paradiso. Nel poemetto che Cinevulfo (secolo X) compose intorno alla Fenice, è detto che Dio pose l’isola santa così lontano dai peccatori che nessuno può giungervi, e Dante fa un’isola del monte che si leva più dall’onda. Una compilazione francese di storia antica, che passò in traduzioni italiane, la ricorda, e dice che è una dolcie contrada, ed è assisa verso oriente, nel gran mare che tutto il mondo atornea. Talvolta l’isola paradisiaca prende un nome, o s’identifica con un’isola, non più immaginaria, ma reale. Giovanni Witte di Hese (di Hees, Hesius) che negli ultimi anni del secolo XIV compié con la fantasia, senza muoversi da Utrecht, ov’era prete, un meraviglioso viaggio in Oriente, e ne scrisse, in latino, un racconto che fu messo a stampa sino dal 1489, dice che egli e i compagni suoi, lasciate le terre del Prete Gianni, giunsero, dopo dieci giorni di navigazione, a un’isola deliziosa, detta Radice del Paradiso, e dopo dodici altri giorni, al monte Edom, il quale si leva erto e diritto di mezzo il mare, come un’altissima torre, sicché da nessuna parte vi si può salire, e in cima ad esso si vuole che sia il Paradiso: «e circa l’ora del vespero» quando il sole declina «si vede il muro del Paradiso splendere di gran chiarità, e vaghissimamente a mo’ di stella». Di questo monte e isola di Edom, il cui nome è, con tanta disinvoltura, tolto alla Palestina, non so che sia fatta menzione altrove. Giovanni de’ Marignolli, vescovo di Bisignano, che, insieme con altri, fu da Benedetto XII (1334-1342) mandato in missione al Gran Cane dei Tartari, afferma, nel suo Chronicon, che il Paradiso è a quaranta miglia italiane dall’isola di Ceilan, d’onde si ode il fragore e lo scroscio delle sue acque cadenti. Egli si vanta d’avere superato la gloria del massimo Alessandro il quale, pervenuto all’ultimo termine della sua peregrinazione, eresse, a perpetua memoria, una colonna, e di avere, nel cono del mondo, in cono mundi, alzata di contro al Paradiso, una lapide, e sparsovi sopra dell’olio. Ricorda la opinione di alcuni, i quali asserivano in Ceilan stessa essere stato il Paradiso; opinion ch’ei rifiuta, parendogli contraddetta dal nome. Sta a ogni modo il fatto che alcuni ponevano il Paradiso in Ceilan, e vedremo, in altro luogo, parecchie ragioni di così fatta credenza.
Che il Paradiso dovesse essere nella zona torrida, sotto il tropico del Cancro, o a dirittura sotto l’equatore, fu opinione antica benché non molto diffusa. Tertulliano credeva che per il flammeum gladium della Genesi s’avesse appunto a intendere la zona di massima caldura, e fu in tale sua credenza seguito da Filostorgio, da San Tommaso d’Aquino, da San Bonaventura, e da parecchi altri. Ma a tale opinione contraddicevano molti, cui sembrava non la si potesse accordare con quanto sapevasi del temperatissimo clima del Paradiso, e della copia delle sue acque; al che rispondevano quei primi con dire che la troppa caldura poteva essere mitigata dall’altitudine e da altre condizioni. Al punto d’intersezione dell’equatore e del gran meridiano, gli Arabi posero il Castello d’Arîn, di malagevole accesso e il trono d’Iblîs.
Efrem Siro fu di opinione che il Paradiso, di là dall’oceano, circuisse tutta la terra; al qual proposito è da ricordare che anche dell’Hara-berezaiti dei Persiani fu da taluno creduto altrettanto, e che Plutarco parla di un continente che cinge tutto intorno la terra (μεγ αλη ήπειρος) contrapposto al continente abitato (ή οίχουμενον). Altri andaron più oltre, e sostennero che il Paradiso si dovette stendere sopra tutta la superficie della terra, senza di che non avrebbe potuto contenere l’intero genere umano, che vi doveva avere sua dimora, durando in istato d’innocenza. Tale opinione professò ancora in pien secolo XVI, Gioacchino di Watt (Vadianus Sangallensis) nel suo Trium terrae partium epitome.
Ma altre opinioni correvano, affatto a queste contrarie. Sin da’ tempi di San Teofilo di Antiochia (m. c. 181) c’era chi dubitava se il Paradiso fosse mai stato in terra, dubbio ch’egli combatte: e San Gerolamo ricorda una tradizione ebraica, secondo la quale il Paradiso sarebbe stato creato avanti il mondo, e però fuori de’ suoi confini. I Valentiniani lo posero sopra il terzo cielo; e i musulmani credono ch’esso fosse nei cieli, e che Adamo, cacciato, cadesse nell’isola di Serendib (Ceilan), e che quivi morisse dopo aver fatto un pellegrinaggio al luogo dove poi doveva sorgere la Mecca. In un manoscritto del Museo Britannico si legge che il Paradiso è meravigliosamente sospeso fra il cielo e la terra, quaranta cubiti sopra il più alto livello raggiunto dalle acque del Diluvio, che, com’è noto, superarono di quaranta cubiti le cime delle più alte montagne. Altri pensarono che il Paradiso fosse bensì stato in terra, ma che Iddio, corrucciato, l’avesse distrutto il giorno stesso del peccato, o avesse più tardi permesso che lo distruggesse il Diluvio. E qui è da dir qualche cosa della opinion di coloro i quali credevano che il Paradiso fosse stato in Gerusalemme. Tale opinione è già impugnata, nel IV secolo, da Sant’Atanasio, arcivescovo di Alessandria; ma bisogna riconoscere ch’essa non era sorta senza qualche plausibile ragione, e che pareva formata a bella posta per secondare certe tendenze della coscienza religiosa e per appagare certi sentimenti dei fedeli. Dice Ezechiele in un luogo delle sue profezie (V, 5): Ista est Jerusalem: in medio gentium posui eam et in circuitu ejuis terras. Questo luogo, malamente interpretato, fece nascere la credenza, serbata poi lungamente, che Gerusalemme fosse collocata nel centro del continente abitato. Ora, è noto quanto la fantasia cristiana sia stata vaga nei primi secoli, e poi nei secoli di mezzo, di collegar fra loro, col sussidio di varie immaginazioni, più che non avvenisse nel puro concetto dottrinale, i fatti vani della caduta e della redenzione del genere umano, e di conferir loro, oltre alla continuità e unità morale, anche una certa continuità e unità materiale. Si credeva dai più che Adamo ed Eva, cacciati dal Paradiso, fossero poi vissuti in luogo prossimo a quello; si credeva che Adamo fosse stato sepolto sul Calvario; che la croce, fatta del legno dell’albero fatale, che aveva dato esca al peccato, fosse sorta su quella tomba, e che il sangue del redentore avesse bagnate le ossa del primo peccatore. Come non credere allora che l’opera stessa della redenzione si fosse compiuta nel proprio luogo ov’era stato commesso il peccato, e che in quel luogo appunto fosse sorta la città santa e predestinata? Dante pose il Paradiso terrestre agli antipodi di Gerusalemme; ma parecchi dopo di lui, sin oltre il secolo XVI, seguitarono ad aver l’opinione che il Paradiso fosse stato in Giudea.
Se non che questa credenza, e la precedente, ebbero poco seguito, e incomparabilmente maggiore l’ebbe l’altra, la quale affermava, non solo che il Paradiso era stato veramente in terra, ma ancora ch’esso ci si trovava tuttavia, serbato incolume, nella sua condizion primitiva. Di ciò vedremo in seguito molte prove.
L’Elisio di Omero, le Isole dei beati di Esiodo, gli Orti delle Esperidi, mutarono più volte luogo sulla faccia della terra col mutare dei tempi, e altrettanto può dirsi del Meru indiano, dell’Hara-berezaiti iranico, del monte su cui, dopo il Diluvio, si fermò l’Arca ecc. Allo stesso modo mutò luogo il Paradiso terrestre, salvo che il mutar suo non fu, di regola, come in altri casi avvenne, effetto di migrazioni; ma fu più spesso effetto di speculazioni e interpretazioni discordi, e talvolta di alcuno accrescimento del sapere, o di alcuna scoperta geografica; e, più frequentemente ancora, della irrequietezza stessa della fantasia, della mobilità della leggenda. E al mutar suo, almeno in un caso molto importante, non fu estraneo l’influsso di certi miti dell’antichità, e non furono estranee le speciali condizioni di vita e di pensiero di alcuni popoli che non entrarono se non tardi a far parte della grande famiglia cristiana.
La credenza più antica e più diffusa era, come abbiam veduto, quella che poneva il Paradiso in Oriente; ma di contro ad essa vediam sorgere una opinione, contraria, che pone il Paradiso in Occidente, quando più a settentrione, quando più a mezzodì. Già sin dal primo secolo dell’era volgare, gli Esseni, cedendo, senza dubbio, all’influsso di miti pagani, ponevano di là dall’Oceano Atlantico il soggiorno dei beati. I Celti non avevano diversa credenza. Secondo la dottrina loro, «gli uomini hanno per primo progenitore il dio della morte, e questo dio abita una regione lontana, di là dall’Oceano; egli ha sua dimora in quell’isole estreme, d’onde, secondo l’insegnamento dei druidi, era venuta direttamente una parte degli abitanti della Gallia». – «Secondo le credenze dei Celti, i morti vanno ad abitare di là dall’oceano, verso Mezzodì, là dove si corica il sole la più parte dell’anno, in una regione meravigliosa, che vince di gran lunga, per gioje e seduzioni, questo mondo di qua. Da quel paese misterioso traggono origine gli uomini.[2]» Queste credenze hanno, come si vede, molta somiglianza con quelle dei Greci e dei Romani, ed è anzi probabile che abbiano esercitato sopra di esse un influsso non lieve, concorrendo a fare spostare, specialmente verso il Settentrione, l’isola di Saturno, e il regno dei morti. Da altra banda, le immaginazioni dei Greci e dei Romani non potevano non esercitare alla lor volta un notabile influsso su quelle dei Celti. Mutata la fede religiosa, molte delle antiche credenze naturalmente sopravvivevano, accordandosi, fondendosi con le nuove, e in più varii modi alterandone il concetto e la natura. Gaeli e Cimri favoleggiavano di un meraviglioso paese, il quale sorgeva in mezzo all’oceano profondo, e i cui abitatori, bevendo le acque dolcissime della fontana di gioventù, non conoscevano né la vecchiezza, né i morbi. Un tal paese, nelle menti dei convertiti, doveva necessariamente identificarsi col Paradiso terrestre; ed è per questo che San Brandano muove, come vedremo, alla ricerca del Paradiso navigando per l’Oceano occidentale. Tale credenza aveva dunque un fondamento pagano, e perciò non è senza ragione che Isidoro di Siviglia nota di paganità la opinion di coloro che ponevano il Paradiso nelle Isole Fortunate.
Per ragioni medesime furono talvolta situati in isole remote dell’Oceano Atlantico il Purgatorio e l’Inferno. Già fra gli antichi era nata una opinione che poneva in Gallia, o in Brettagna, il regno dei monti. Plutarco ne fa ricordo, attingendo da un ignoto e più antico scrittore. Claudiano, narrando certa navigazione oceanica di Ulisse, già prima narrata da Solino, dice che l’eroe visitò un popolo di ombre su quella estrema parte della Gallia che si protende nell’Oceano, né lascia intendere se alluda propriamente all’ultimo lembo occidentale dell’Armorica, o alla Cornovaglia insulare (Cornu Galliae.) Procopio dà, in forma più compiuta, il racconto di Plutarco, e narra di una popolazione di marinai, sulle coste settentrionali della Gallia, officio de’ quali era di tragittare di notte tempo le anime de’ morti in Brettagna[3]. Di questa credenza è pur cenno negli scolii di Tzetzes all’Alessandra o Cassandra di Licofrone, e nel medio evo essa non era ancora del tutto perduta, perché se ne trova un curioso ricordo in un racconto tedesco del secolo XIII.
Ho detto che la latitudine del Paradiso occidentale variava, quando più verso Settentrione, quando più verso Mezzodì. Che le fantasie lo venissero respingendo talvolta nelle regioni più inospitali del globo, verso i ghiacci e le nebbie del polo, non deve far troppa meraviglia, se si pensa che già gli antichi ebbero alcune immaginazioni consimili; che gl’Iperborei, i quali menavano vita felicissima, furono da essi cacciati nell’estremo settentrione, di là dai monti Rifei; che nell’isola Prodesia, vicina a Tule, fu posto l’Elisio; e che tra gl’Iperborei furono collocati da taluno gli Orti delle Esperidi. Ed è curioso vedere come nella seconda metà del secolo XI, Adamo Bremense tramuti sulle rive del Baltico le Amazzoni, i Cinocefali, i Macrobii, gl’Imantopodi, altri popoli strani e mostri varii, tolti la più parte all’Asia leggendaria, e i Ciclopi per giunta. Incoraggiato da sì fatti esempii, nel sec. XVI, il famoso Guglielmo Postel, che, fra molt’altre cose, pretendeva d’essere ringiovanito e risuscitato, asserì nel suo Compendium cosmographicum che il Paradiso terrestre era sotto il polo artico.
Ma, di solito, si preferiscono latitudini alquanto più basse. A dispetto d’Isidoro di Siviglia, alcuni seguitarono a credere che il Paradiso fosse in quelle Isole Fortunate di cui tanto aveva favoleggiato l’antichità, e dove pure erano stati messi gli Elisii. E a questo proposito è da ricordare che i geografi arabici chiamarono le isole che si trovano a occidente dell’Africa con due nomi diversi, Isole Eterne e Isole della Felicità, e che queste Isole della Felicità pare fossero le Canarie, che poi dovrebbero essere le Fortunate. E dico dovrebbero, perché nel medio evo ci fu grandissima confusione a questo riguardo. Così, per citare qualche esempio, una delle carte di Marin Sanudo (1306) pone a occidente dell’Irlanda nientemeno che 358 isole beate e fortunate, e sulla mappa di Fra Mauro (1457-9) si trovano le insule de Hibernia dite Fortunate. Verso la fine del secolo XV(147l) Grazioso Benincasa segna ancora due gruppi d’isole Fortunate, l’uno a ponente dell’Africa, l’altro a ponente dell’Irlanda. Nel primo gruppo sembra che ponesse il Paradiso terrestre Cristina di Pisan, la quale visse sino all’anno 1431.
La vicinanza delle Isole Fortunate all’Africa doveva, o prima o poi, suggerire l’idea che il Paradiso fosse appunto nel continente africano, tanto più che si credeva da molti, come vedremo, essere il Nilo uno dei quattro fiumi ricordati dalla Bibbia. Abbiam giù veduto che Giovanni de’ Marignolli situava il Paradiso fra la terza India e l’Etiopia: Lodovico Ariosto, più risoluto, lo pone senz’altro sul monte onde nasce il Nilo, vicino al paese del Senapo, o Prete Gianni, mutato ancor esso di luogo, e Giovanni Milton ne segue l’esempio. Più d’uno udrà con meraviglia che il celebre Livingstone cercava ancora il Paradiso nel cuore dell’Africa, nella regione dei grandi laghi equatoriali.
Cristoforo Colombo ricorda la opinione di coloro che ponevano in Africa il Paradiso, ma non vi si acconcia; anzi vuole ch’esso sia nelle nuove terre da lui scoperte, non molto lungi dall’isola di Trinità e dalla foce dell’Orenoco. E con lui il Paradiso terrestre, dopo aver fatto in certo modo il giro del mondo, ritorna in Oriente, giacché, com’è noto, il sommo navigatore morì senza sapere d’aver scoperto un nuovo continente, anzi credendo d’aver raggiunto, navigando a occidente, le isole e la costa orientale dell’Asia; la qual credenza gli facea dire che la terra non è così grande come dai più si crede. Si dovrà, per la stessa ragione, riportare in Oriente il paradiso dei Gaeli? Ebbero veramente costoro cognizione della rotondità della terra, come fu da taluno asserito, e scoprirono essi, insieme con gli Scandinavi, l’America, più secoli prima che il Colombo nascesse? e in che misura la scoprirono? Non bisogna esser troppo corrivi nè ad affermare né a negare in così fatta materia. Se avessero proprio avuta quella cognizione, e fatta quella scoperta, l’estremo Occidente, ov’essi tante meraviglie ponevano, ridiventava, in certo modo, l’estremo Oriente dei Padri e della più comune credenza. Ma sia di ciò come si voglia, non è da dimenticare il fatto che parecchie mitologie, oltre alla greca e alla romana, posero in Occidente paesi di delizie e di beatitudine. In Occidente sorgeva, secondo gl’Indiani, Kanaka-puri, la Città d’oro; in Occidente immaginano gli abitatori della Polinesia un’isola paradisiaca detta Bulotu.
Chiudiamo questa ormai lunga rassegna con dire che non vi fu parte della terra dove non sì ponesse il Paradiso, Giorgio Federico Daumer, nato nel 1800, lo pose in Australia, dove cresce l’albero del pane; il celebre Giacomo Casanova lo cacciò insieme coi Megamicri, non degeneri discendenti di Adamo, nell’interno del pianeta. In leggende popolari tuttora vive, il Paradiso è in luogo prossimo a chi le va rinarrando, nelle Alpi, per esempio, o nel Fichtelgebirge.

Note
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[1] «Quando scrissi questa pagina io credeva assai piú che ora non creda alla autenticità del trattatello De acqua a terra attribuito a Dante»
[2] D’Arbois de Jubainville: Le cycle mythologique irlandais et la mythologie celtique, Parigi 1884, pp. 26-28.
[3] Plutarco, frammento di un commentario sopra Esiodo, conservato da Tzetzes, in Oeuvres de Plutarque, cdiz. Didot, vol. V, pp. 20-21

 

Capitolo II
Natura, condizioni e meraviglie del Paradiso terrestre

Nella Genesi non si dice che il Paradiso fosse un monte, o sopra un monte; ma i quattro fiumi che ne scaturivano lasciano congetturane quale sia stata a tale riguardo la immaginazione primitiva. Essa non era certamente disforme da quella che si trova in altri miti affini: il Meru indiano, l’Alburz iranico, l’Asgard germanico, il Kâf arabico, sono tutti monti; nè è questo il luogo d’andar ricercando le ragioni di così fatta immaginazione. Ezechiele pone il giardino dell’Eden sopra un monte tutto scintillante di gemme. Tale riman poi la credenza nei primi secoli del cristianesimo e durante tutto il medio evo. Molti identificarono il monte del Paradiso col monte su cui si fermò l’arca di Noè quando cominciarono a scemare le acque del Diluvio; per Dante il Paradiso è sulla cima del monte del Purgatorio.
Qui ci si offre una particolarità costante nella finzione. Il monte paradisiaco s’immagina altissimo sopra tutti gli altri monti della terra; al qual proposito non è da dimenticare che molti popoli, fra’ quali gli Ebrei, attribuirono ai monti più alti un certo carattere di santità. Il Meru, meravigliosamente descritto nel Mahâbhârata e nei Purâni, si leva tanto sopra le nubi che nemmeno il pensiero vi può salire. L’Alburz, l’Asgard, sono ancor essi di smisurata altezza. Del Caucaso dissero gli antichi che attingesse col vertice le stelle, e dell’Atlante che sorreggesse il cielo. Il Sinai e l’Olimpo si levavano sopra la regione dei venti.
Le opinioni circa l’altitudine del Paradiso sono tutte concordi in questo, che fanno veramente smisurata la elevatezza del monte, sebbene poi discordino nei ragguagli. La credenza di alcuni, che il giardino dell’Eden fosse stato distrutto dalle acque del Diluvio, era contraddetta dalla credenza degl’innumerevoli, i quali pensavano che le acque punitrici avessero bensì superato tutte l’altre cime della terra, ma non quella, sopra tutte l’altre innalzata, del monte sacro. Nel già citato Combattimento di Adamo si legge che le acque del Diluvio sollevarono l’Arca, sino appiè del giardino, e che quivi si umiliarono gli elementi sconvolti ed infuriati. Efrem Siro, ed altri assai, dicono che il Paradiso non fu sommerso dal Diluvio; Merlino, insieme con altri nove bardi, andò in traccia dell’isola verde che il Diluvio non aveva potuto sommergere.
Nel l. VII delle Istorie apostoliche, attribuite ad Abdia, supposto vescovo di Babilonia, San Matteo, predicando al popolo, afferma il Paradiso terrestre salir tant’alto da esser vicino al cielo; e Alberto Magno dice aver trovato in antichissimi libri che Matteo Apostolo fu il primo a metter fuori la opinione secondo cui il Paradiso attingerebbe il cerchio della luna. Tale opinione ebbe seguaci parecchi, fra’ quali Rabano Mauro, Valafredo Strabone e Pietro Lombardo; ma fu combattuta dai più. Mosè Bar-Cefa si contentò di dare al monte del Paradiso una grande altezza, allegando che senza di ciò non avrebbero potuto i quattro fiumi passar sotto il mare e scaturir di bel nuovo nelle nostre regioni; e San Giovanni Damasceno di dire ch’esso è più sublime di ogni altro luogo che sia in terra. E pare che Dante ponesse ben alto il suo Paradiso, se s’ha a giudicare da ciò che nel c. XXVII del Purgatorio dice delle stelle, le quali sembravangli più chiare e maggiori; ma vuolsi notare tuttavia che in fatto di astronomia stellare le nozioni erano molto imperfette a suoi tempi, e che appena dei corpi del sistema solare si calcolava, assai falsamente, la distanza. Al monaco Alberico il Paradiso era parso prossimo al cielo: in una leggenda italiana di tre monaci che andarono al Paradiso terrestre, leggenda della quale dovrò parlare a suo luogo, il monte è alto cento miglia. Il già ricordato Giovanni de’ Marignolli dice che il monte di Ceilan è forse, dopo quello del Paradiso, il più alto che sia in terra.
Le opinioni circa l’estensione del Paradiso furono molto discordi, e alcune di esse inconciliabili con la credenza che il Paradiso stesso formasse la cima di un monte, o uno spianato altissimo. Come abbiam veduto, credettero alcuni che il Paradiso coprisse in origine tutta la faccia della terra, o la cingesse tutto intorno; altri pensarono ch’esso chiudesse ne suoi confini più regioni assai vaste, in modo da potere accogliere tutto il genere umano, qualora Adamo non avesse peccato. Nella leggenda di San Brandano, si dice che costui, e i compagni suoi, camminarono quaranta giorni nell’isola del Paradiso senza poterne trovare la fine. I rabbini disputarono molto intorno a questo punto, e alcuni di essi fecero l’Eden parecchie centinaja di volte più spazioso della terra. Rabbi Giosuè (Jehoshûa), che ci fu e lo descrisse, vi trovò, fra l’altro, sette case, ciascuna delle quali era lunga 120.000 miglia e larga altrettanto. Per contro affermò il Tostato che il Paradiso ebbe non più di tre o quattro leghe di diametro, e circa dodici di circonferenza.
La credenza più comune fece il Paradiso non troppo esteso, e permise di cingerlo di un muro, il quale è talvolta di solida materia, e talaltra di fiamma viva. Il muro solido è, secondo i casi, di cristallo, di diamante, o d’altra gemma, di bronzo, d’argento, d’oro. Il muro di fiamma, che probabilmente trae la origine dalla spada fiammeggiante del cherubino, ricordata nella Genesi, s’incontra assai più spesso. Già Tertulliano, e poi Lattanzio e San Giovanni Crisostomo, ne fanno menzione; ma chi ne ribadì la credenza nel medio evo fu Isidoro di Siviglia, il quale dice che quell’incendio quasi s’alza sino al cielo; e da esso attinsero, direttamente o indirettamente, Rabano Mauro, Onorio Augustodunense, Giacomo da Vitry, Rodolfo da Ems, e altri assai. Nella già ricordata mappa dei tempi di Carlo V di Francia il muro di fiamme è assai chiaramente indicato, e in pieno secolo XVI lo descriveva ancora Davide Lindsay nel suo poema intitolato The dream. Tale immaginazione non è, del resto, senza riscontri. Il castello in cui, secondo la saga raccolta nell’Edda, dorme per decreto di Odino la valkiria Sigurdrifa, è circonvallato di fiamme; a detta del Mandeville, l’Arca di Noè, tuttavia esistente sul monte Ararat, è circondata da un fuoco celeste che non permette altrui di avvicinarsele.
Molto sovente il Paradiso fu immaginato, nel medio evo, non più come un giardino propriamente, ma come una città chiusa, o come un castello, cinto di buone mura, fornito di torri e provveduto di porte; e così si vede rappresentato in molti manoscritti e in parecchie carte. Tale fantasia si lega, senza dubbio, come vedremo più oltre, alla descrizione che della Gerusalemme celeste si legge nell’Apocalissi, descrizione che diede più di un elemento alle nostre finzioni. Del resto il Vara, o Paradiso dell’iranico Yima, era anch’esso cinto di muro e conteneva molti e varii edifizii.
Ma prima di spingerci attraverso quel formidabile muro di fuoco, o di varcare la soglia di quelle pone, per vedere le meraviglie molteplici che in sé racchiude il divino luogo, bisogna che noi scorriamo alquanto il paese dattorno (isole o terra ferma) e vediamo di qual natura esso sia. Ora, è da notare che queste vicinanze si presentano nella finzione con caratteri alle volte affatto opposti, quando dilettose e felici, quando spaventose ed orrende.
L’idea di far precedere al Paradiso una regione che mostrasse in sé alcuna delle condizioni di quello, e ne ricevesse, in certo qual modo, il benefico influsso, era un’idea così naturale che non poteva non sorgere negli spiriti e non riversarsi nella leggenda, sebbene dovesse contrariarla il racconto dei patimenti a cui erano andati soggetti Adamo ed Eva dopo la cacciata, durante il loro soggiorno in luoghi affatto prossimi al giardino di beatitudine. In certo libro di Juniore Filosofo, libro composto, secondo ebbe ad opinare il Mai, ai tempi dell’imperatore Costanzo, e conservato in un manoscritto del secolo X, si parla di un popolo il quale abita nel paese d’Eden, prossimo al Paradiso, in una condizione di felicità e d’innocenza. Vivono quegli uomini di pane che piove loro dal cielo, non conoscono le infermità e campan cent’anni. In parecchie delle leggende che dovrò riferire più innanzi, coloro che muovono in cerca del Paradiso sono avvertiti della sua prossimità dalla mitezza dell’aria, dallo splendore del cielo, dall’amenità dei campi, dal sorriso dell’intera natura. Il paese del Prete Gianni, situato a poca distanza dal Paradiso, è una specie di paradiso esso stesso, dove è dolcissimo il clima, e gli animali sono pieni di mansuetudine, e abbondano piante di gran virtù e di soavissimi frutti, ed è grandissima copia di oro e di gemme, e scaturiscono acque le quali serbano l’uomo sempre sano e sempre giovane, e scorrono persino fiumi di miele e di latte.

Quivi il balsamo nasce; e poca parte
N’ebbe appo questi mai Gerusalemme.
Il muschio dia noi vien quindi si parte;
Quindi vien t’ambra, e cerca altre maremme;
Vengon le cose in somma da quel canto
Che nei paesi nostri vaglion tanto[1].

Giovanni di Hese, del quale feci ricordo nel precedente capitolo, parla di un’isola deliziosa, ove non è mai notte, e che si chiama Radice del Paradiso: nel romanzo di Ugo d’Alvernia, la terra prossima al Paradiso è detta Terra di promissione. Terre beate si stendono appiè del Meru e dell’Hara-berezaiti.
Non di rado l’immaginazione è tutt’altra: appiè del Paradiso si stende una regione selvaggia, tenebrosa ed orrenda, asserragliata da monti inaccessibili, piena di serpenti spaventosi e di altri animali terribili, Giacomo da Vitry afferma che tra la dimora dei primi parenti e questo nostro esilio è un gran caos, una gran distesa di terre, popolata da serpenti innumerevoli. Giordano da Sévérac narra che nella Terza India, ov’è il Paradiso, sono dragoni in grandissima quantità, i quali recano sul capo pietre lucenti, dette carbonchi. Questi animali giacciono sopra arene d’oro, e crescono assai, e mandan fuori un fiato puzzolente ed infetto, simile a densissimo fumo, quando si leva dal fuoco. A certi tempi si accolgono insieme e mettono le ali, e cominciano ad alzarsi per l’aria; ma allora, per voler di Dio, cadono, essendo di sì gran peso, in un fiume ch’esce dal Paradiso, e quivi muojono». Di una regione popolata di serpenti è spesso fatto ricordo in racconti orientali, come, per citarne uno in quello dei viaggi di Sindbab, che si legge nelle Mille e una notte ; e del Meru è detto che serpenti orribili ne guardano l’accesso. Il Mandeville e altri parlano della regione inospitale ed asprissima che si frappone tra il Paradiso e le terre abitate; una regione tenebrosa trovasi già descritta nelle storie favolose di Alessandro Magno.
Nelle Visioni il Paradiso terrestre è, non di rado, posto in regione assai prossima all’inferno o al Purgatorio, di guisa che l’anima peregrina passa subitamente dai luoghi di tormento al luogo di beatitudine. Così nella leggenda del Pozzo di San Patrizio, nella Visione di Thurcill, in quella di Frate Alberico, ecc. Il Mandeville pone una specie d’antinferno in vicinanza del fiume Fison, e l’Ariosto apre una bocca dell’inferno alle radici del monte su cui è il Paradiso. Dante fa che il Paradiso coroni il monte del Purgatorio, e in una specie di prologo che precede una delle redazioni del noto poema La vengeance de Jésus-Christ, contenuto in un manoscritto della Biblioteca Nazionale di Torino, il Purgatorio è nel fosso da cui il Paradiso è cinto tutto all’intorno. Così l’Elisio fu, dagli antichi, immaginato contiguo al Tartaro: Ulisse, Enea, passano direttamente da questo a quello.
E ora varchiamo il fosso e il muro e penetriamo nel luogo sacro, il quale, stando a una ragionevole opinione di Marcione, il noto eresiarca del secondo secolo, fu formato con la più pura parte della terra, e, secondo Filosseno vescovo di Bagdad (secolo IX) e Mosè Bar-Cefa (secolo X), di una materia più tenue e più pura, che teneva dello spirituale. Regna nel beato giardino una perpetua primavera, non mai turbata da venti e da procelle. Il cielo, che spande sopr’esso un lume sette volte più chiaro che non sia quello del nostro giorno, ma scompagnato da ogni fastidiosa caldura, non vi patisce nube alcuna, e mai non lo ingombra la notte. Né mai per l’aria dolcissima si riversa grandine o pioggia, né mai vi s’ode il pauroso fragore del tuono e l’orrendo schianto della folgore. Tiene il luogo un’altissima quiete, una pace serena e sacra, ignote affatto a chi vive quaggiù. Padri e Dottori della Chiesa, e poeti cristiani dei primi secoli, vanno a gara in descrivere tanta letizia, e lor voci raccoglie Dante, quando nel canto ventesimottavo del Purgatorio descrive

La divina foresta spessa e viva,

e ricorda l’aura dolce, senza mutamento, che ne sommoveva le fronde, e la perpetua primavera. Anche qui i riscontri abbondano. Il Meru e l’Hara-berezaiti non conoscono i rigori del verno, né le tenebre, né le nubi, né intemperie di nessuna sorte. Di tutti gli altri luoghi di beatitudine fu necessariamente immaginato altrettanto. Veggasi ciò che Omero ed Esiodo e Platone e Virgilio e tanti altri antichi dicono del soggiorno dei giusti, o della condizione della terra durante l’età dell’oro, o del paese degl’Iperborei, o di altri così fatti:

Hic aeterna quies, nulla hic jura procellis[2].

L’isola di Avalon, di cui tanto favoleggiarono nel medio evo i poeti e i romanzatori del ciclo arturiano, e dove Artù, mortalmente ferito in battaglia, era, per forza di miracolo, serbato in vita, l’isola di Avalon godeva gli stessi benefizii del Paradiso terrestre[3].
Che quella stanza del Paradiso dovesse poi essere saluberrima; che i morbi non vi potessero penetrare, né vi potesse penetrare la morte, s’intende di leggieri ed è cosa in tutto conforme al concetto del mito biblico. Ma non si creda che essa fosse sola a fruire di così notabili prerogative. Dell’isola di Pafo fu creduto anticamente che nessuna infermità vi potesse aver luogo. Nell’isola de’ Macrobii, posta nel mare dell’India, e visitata da Alessandro Magno, l’aria era così pura, e così sano il clima, che gli uomini vi solevano vivere circa un secolo e mezzo. Plutarco, rimaneggiando finzioni antichissime, narra di due isole a ponente della Brettagna, abitate, l’una da uomini di santa vita, immuni da ogni umana infermità, l’altra da Crono, immerso in letargo e servito da demonii[4]. Nel l. VIII delle sue Istorie Filippiche, delle quali non sono rimasti se non pochi frammenti, Teopompo raccontava, conformemente a un’antica leggenda, come il re Mida fosse riuscito ad ubbriacare Sileno e ad avvincerlo di catene. Per riacquistare la libertà Sileno dovette comunicare al re la sua scienza, e tra l’altro gli narrò della terra Merope, posta di là dall’oceano, e dove gli uomini vivono il doppio che altrove, e non conoscono infermità, e il suolo spontaneamente produce le messi e ogni altro frutto. Di consimil natura era l’isola di Jambulo, di cui dà ragguaglio Teodoro Siculo. Anche di luoghi dove non si moriva ce n’era più d’uno. Giraldo Cambrense parla di due isole, poste in un lago dell’Irlanda, nella minor delle quali nessuno poteva morire e nessuno mai era morto, e perciò era detta Isola dei viventi. Chi, oppresso dai morbi, o giunto allo stremo della vecchiezza, desiderava por fine a una vita divenuta ormai troppo incresciosa, si faceva trasportare nell’altra isola, e come appena toccava terra, moriva. Queste isole sono spesso ricordate in leggende celtiche, e veggonsi poste più di frequente nel mare ibernico. Si legge nel Perceforest che i principi Dardanon, Gadiffer con la moglie sua, Perceforest e Gallafar si ritrassero nell’Isola di vita, per potervi aspettare la venuta del Redentore. Invecchiano oltre modo aspettando, tanto che la vita s’è fatta loro insopportabile. Avuta la nuova che il Redentore è nato, si fanno trasportare altrove e muojono in pace. Pietro Comestore parla di più isole dei viventi, ove a nessuno è dato morire, e Gervasio da Tilbury ne ricorda una, visitata da Alessandro Magno, là nei mari dell’India. Contrastava con queste un’isola dove non si poteva nascere.
Il Paradiso terrestre, che Dante, acconciamente, disse

Fatto per proprio dell’umana spece,

era immune dalla morte e dai morbi, non solo perché il santo luogo non poteva, per sua natura, essere contaminato da nessuna delle miserie di quaggiù, le quali furono il tristo retaggio della colpa; ma ancora perché accoglieva in se stesso, come ora vedremo, più cose le quali avevano virtù di combatterle e di tenerle lontane.
Degl’infiniti alberi d’ogni specie, che dovevano empiere il giardino dell’Eden, la Genesi ne nomina più particolarmente due: l’albero della vita e l’albero della scienza del bene e del male, concesso quello, vietato questo ai due primi parenti. Il linguaggio del libro sacro è del resto un po’ ambiguo, perché ora pare vi si parli di due alberi diversi, e ora di uno solo, il che è da ascrivere certamente alla imperfetta corrispondenza e alla poca fusione dei due racconti onde il libro stesso fu composto. Vi è poi anche ricordato il fico, delle cui foglie Adamo ed Eva copersero la lor nudità. Non parlo del bedolach, intorno alla cui natura fu tanto disputato.
La stretta affinità che gli alberi paradisiaci della vita e della scienza hanno con alberi meravigliosi di altre mitologie, col soma degl’Indiani, con l’haoma degl’Irani, con l’albero delle tradizioni caldeo-assire, con l’albero della immortalità, che insieme con altri alberi meravigliosi sorge nel Kue-lun dei Cinesi, con quello che, tutto splendente di pomi d’oro, era custodito gelosamente nell’Orto delle Esperidi, fu notata da un pezzo, né io intendo di farne qui particolare discorso.
Molto fu immaginato e disputato circa la specie e la natura dei due alberi della vita e della scienza, e più specialmente del secondo. Dall’uno o dall’altro si fece derivare, in una leggenda celebre di cui avrò a parlare in luogo più acconcio, il legno onde fu formata la croce; e il primo diede argomento anche a un’altra leggenda, assai strana, ove si narra che mille anni dopo il peccato dei primi parenti. Dio trapiantò l’albero della vita nell’orto di Abramo; che una figliuola di Abramo ingravidò respirando il profumo dei fiori dell’albero, e diede alla luce un fanciullo, il quale si chiamò Fanuel; e che costui, avendo forbito sulla propria coscia il coltello con cui aveva tagliato uno dei frutti dell’albero, vide la coscia gonfiarsi e mettere al mondo a tempo debito, una bambina che fu Sant’Anna, madre della Vergine Maria.
Nel Testamento d’Adamo, Seth domanda che albero fosse quello del cui frutto mangiarono i suoi genitori, e Adamo risponde che era il fico. Isidoro Pelusiota, morto circa il 450, dice che, secondo l’antica opinione, l’albero che condusse a peccare i primi parenti fu un fico, e un fico si vede talvolta rappresentato nei monumenti della primitiva arte cristiana. Un fico lo dissero pure alcuni rabbini; ma altri rabbini, seguìti in ciò dai Bogomili, pensarono che dovesse essere la vigna (la quale fu, per contro, dai Mandaiti considerata pianta di vita) oppure il grano. Nel Libro d’Enoch, il profeta, seguitando una sua fantasiosa peregrinazione, giunge al giardino di giustizia, e vi trova, fra altri alberi, l’albero della scienza, il quale somiglia al tamarindo, ha i frutti simili a grappoli d’uva, e spande intorno un profumo balsamico. Secondo una opinione molto diffusa tra i musulmani il frutto vietato era, come per alcuni rabbini, il grano. Felice Faber afferma che tutti gli Orientali credevano l’albero fatale essere il musa (banano, fico del Paradiso), e dice che il frutto mostra, quando è intero, la traccia di un doppio morso, e quando è tagliato a mo’ del rafano, il segno della croce, con una oscura immagine del crocifisso, in ogni fetta che se ne leva. Felice scriveva verso la fine del secolo XV; ma molti prima di lui avevano parlato del musa, e de’ suoi frutti, chiamati anche pomi del Paradiso (arbor Adae, poma Adae). Giacomo da Vitry e Giacomo di Maerlant, nel suo poema Der naturen bloeme, e Thietmar, e, in generale, tutti i peregrinatori di Terra Santa, ne fanno ricordo, notando più di proposito la particolarità di quel morso, che pareva attestare in modo irrefragabile l’origine della pianta e la parte da essa avuta negli umani destini. Burcardo di Monte Sion descrive abbastanza minutamente la pianta e i suoi frutti, ma nulla dice né del morso, né del segno di croce. Giovanni de’ Marignolli per contro sa che delle foglie della musa, le quali sono assai grandi, si coprirono, dopo il peccato, i primi parenti, e che tagliando per traverso il frutto si vede in ciascuna metà l’immagine di un uomo crocifisso. Comunque sia, si credeva universalmente che il pomo vietato, e gli altri frutti del Paradiso, fossero di così grato odore e di così squisito sapore da vincere di gran lunga quanti ne nascono in terra. San Giovanni, Enoch ed Elia ne dànno alcuni ad Astolfo

Di tal sapor, ch’a suo giudicio, sanza
Scusa non sono i duo primi parenti,
Se per quei fûr sì poco ubbidienti.

Ma si sa che il mal desiderato frutto restò nella strozza ad Adamo, e formò quello che appunto di chiama dal volgo il pomo d’Adamo, e dai dotti cartilagine tiroidea. Dio, «perciò che l’uomo sapesse che tutte le schiatte doveano essere colpevoli di questo peccato, fece rimanere lo nodo che àe la gola», si legge nel Libro di Sidrach; e più esplicitamente nei Fioretti della Bibbia: «Et quando Adamo mangiò del pome, avengnia che buono gli parve al ghusto, sì gli ricordò del comandamento che iddio gli avea fatto, et puòsesi allora la mano alla ghola, e ristrinse la volontae e fu pentuto, et per questo si dice che gli uomeni anno uno nodo nella ghola e le femmine no».
Tutti, o quasi tutti coloro che poterono penetrare nel Paradiso terrestre, videro l’albero che aveva dato materia al peccato, spoglio delle sue fronte e inaridito. Le leggende che io riferirò nel capitolo IV cel proveranno. Nel Combattimento d’Adamo è detto che Dio stesso disseccò, dopo il peccato, la pianta; e disseccata prima, poi rinnovellata di novella fronda, la vide Dante:

Io sentii mormorare a tutti: Adamo!
Poi cerchiaro una pianta dispogliata
Di fiori e d’altra fronda in ciascun ramo[5]

Tale, e ingombra di spine per giunta, e con avvolta al tronco la scoglia d’un serpente, la descrive Federigo Frezzi:

Quando trovai un arbor senza fronde
Ch’era di spoglio d’un serpente avvolto,
Sì come un’edra che un ramo circonde.
Lo spoglio avea di forma umana il volto;
E l’arbore di spine era pien tutto
Intorno a sé, siccome luogo incolto.
Ogni altro legno ivi era pien di frutto,
E di be’ fiori e frondi, fresco e bello;
E questo solo era secco e distrutto;
E su non vi cantava alcun uccello[6].

Nello strano racconto francese che ho citato poc’anzi si dice che Dio aveva fatto dono dell’albero della scienza ai demonii, e che Adamo ed Eva, avendo mangiato del suo frutto, caddero in loro potestà. Nella leggenda italiana de’ tre monaci, della quale ho già fatto parola, si ricordano quattro alberi meravigliosi di cui andava lieto il Paradiso: l’albero del bene e del male, l’albero della salute, del cui legno fu fatta la croce, l’albero della vita e l’albero della grazia, o della gloria; ma ben più numerose eran le piante che v’allignavano. Ezechiele ricorda nominatamente i cedri, gli abeti e i platani, e accenna a molti altri ligna voluptatis, quae erant in Paradiso Dei. Nelle innumerevoli descrizioni che se ne fecero la selva divina appar sempre densa di alberi, e dove non è selva, è campo sparso di minori piante, vestito d’erba e smaltato di fiori. I fiori sono, di solito, questi nostri, la rosa, il giglio, il giacinto, la viola, salvo che hanno assai più vivi i colori e più soavi i profumi. Gli alberi, o sono i nostri, con più perfetta natura, come si conviene al luogo, o son di specie meravigliose, incognite a noi, e sempre in grandissima quantità. Rabbi Giosuè già ricordato, ne noverava 800.000 specie.
Si credeva che le piante aromatiche, le spezie, i balsami, venissero dal Paradiso terrestre, o da luoghi prossimi al Paradiso terrestre, e fatti, in certa misura, partecipi della sua condizione. Già Tertulliano ricorda, a tale proposito, la cannella e l’amomo, e Alcimo Avito descrive piante che stillano balsami. Arnaldo di Bonneval (m. dopo il 1156) dice, in una sua entusiastica descrizione, che dalle piante del Paradiso stillavano resine odorose e balsami d’ogni specie; e il Mandeville fa venir giù dal Paradiso, con la corrente del Nilo (che diventò, come s’è già notato, uno dei quattro fiumi), l’aloe: e il Joinville, oltre l’aloè, ne fa venir la cannella, lo zenzevero o gengiovo, il rabarbaro, i garofani e altre spezie. Ma sino dal IV secolo, Sant’Atanasio, arcivescovo di Alessandria, aveva detto che gli aromati vengono dall’oriente, perché il Paradiso terrestre, che appunto è in Oriente, impregna de’ suoi olezzi le piante delle regioni circostanti; opinione seguìta poi dall’Anonimo Ravennate. A quei fiati del Paradiso accenna Gualtiero di Châtillon, quando, descrivendo l’Asia, dice:

instat ab arcto Caucasus, irriguo
Paradisus spirat ab ortu.

Secondo una leggenda musulmana, gli aromati nacquero dalle lacrime di Adamo, espulso dal Paradiso e caduto nell’isola di Ceilan, mentre dalle lacrime di Eva nascevano le perle.
Nel Paradiso era pure ogni specie di piante medicinali. Tertulliano, dopo aver descritte molt’altre cose mirabili che ci si trovavano, dice:

Et pulcre redolet munus medicabile Cretae.

alludendo al dittamo, o a più erbe medicinali, per cui andò famosa un tempo l’isola di Creta. Nel trattato Abodath Hakkodesh del Talmud è detto che nel Paradiso terrestre sono tutte le piante medicinali; e Gotofredo da Viterbo fa menzione di certi frutti ch’eran buoni, sembra, contro tutti i mali:

Optima per fluvium currentia poma tenentur;
Infirmis oblata viris medicina tenentur;
Solus odoratus sanat odore caput.

Piante medicinali coprivano i fianchi del Meru: nell’isola d’Avalon, qual è descritta nella Bataille Loquifer, le pietre della città guarivano tutti i mali del corpo e dell’anima.
Il Petrarca paragona il suo lauro simbolico agli alberi del Paradiso:

In un boschetto novo i rami santi
Fiorian d’un lauro giovenetto e schietto
Ch’un degli arbor parea di paradiso[7]

ma gli è certo che nel Paradiso ci erano alberi i quali vincevano di molto in pregio e in virtù quel suo lauro. Onorio d’Autun ne ricorda di proposito tre, oltre a quello della vita. Chi, a tempo opportuno, avesse gustato dei frutti dei primo, non avrebbe mai più avuto fame; e chi avesse gustato dei frutti del secondo, sarebbe stato liberato in perpetuo dalla sete; e chi di quei del terzo, non avrebbe più conosciuto stanchezza. Vedremo più oltre che nel Paradiso c’erano pure alberi con le fronde d’oro e d’argento. In un luogo del Mondo creato Torquato Tasso accenna a canuta e sacra fama appo gli Ebrei, secondo la quale le piante del Paradiso avrebbero avuto senno e favella. Da altra banda, nel Libro d’Enoch, è ricordato un albero sempre verde, sempre fiorito, che spande un soavissimo odore, e a cui non può agguagliarsi nessuno di quelli dell’Eden. I frutti suoi sono serbati agli eletti dopo il Giudizio. Le piante del Paradiso non abbisognavano di nessuna coltura; e benché mai non le bagnasse la pioggia, serbavansi sempre verdi e fresche, e recavano sullo stesso ramo il fiore appena sbocciato e il frutto già maturo. Tutti i poeti concordemente lo affermano.
Sia ricordato ancora che il paradiso di Maometto è tutto pieno di alberi, tra’ quali primeggia lo smisuratissimo Thuba, grave sempre di ogni specie di frutti; che un nuovo albero vi si pianta ogni volta che un credente dice Lode Dio! e che secondo una opinione del Profeta, o a lui attribuita, deriva dal Paradiso il succo del popone, il quale perciò guarisce settanta specie di mali, e ha tal virtù che un boccone che se ne mangi equivale a dieci buone opere e cancella dieci peccati. Alberi erano pure nel Vara, o paradiso dell’iranico Yima.
Nel racconto biblico è fatta parola della fonte che irrigava il Paradiso, e da cui nascevano i quattro fiumi; ma non è detto che essa avesse virtù di perpetuare la vita, o di restituire la giovinezza perduta. Ciò nondimeno, l’idea di porre accanto all’albero della vita anche una fontana di vita e di gioventù era un’idea così naturale, tanto consentanea ad una delle fantasie mitiche più diffuse e più costanti, che non poteva, o prima o poi, non sorgere nello spirito di qualcuno. A farla sorgere sarebbero bastati i parecchi accenni che ad una fonte di vita si trovano nelle Sacre Scritture; sarebbe bastato l’esempio dell’autore dell’Apocalissi, che nella celeste Gerusalemme fa scorrere presso l’albero della vita il fiume della vita; ma, anche senza di ciò, la fonte meravigliosa sarebbe scaturita nel luogo di tutte le delizie, e perché la natura stessa del luogo pareva richiederla, e perché essa esisteva già e non c’era bisogno d’inventarla. Nel paradiso indiano sgorga la fonte Ganga, da cui nasce il Gange; nell’iranico sgorga la fonte di vita Ardvîsûra; nel cinese è un fonte giallo dell’immortalità, il quale si spartisce in quattro fiumi, o un fiume giallo, che ritorna, alla sua fonte, ed ha la stessa virtù; negli Orti delle Esperidi, o nell’Elisio, sono i fonti dell’ambrosia, cioè dei sacro liquore che procaccia la immortalità. Una fonte di giovinezza si trova nel paradiso messicano, e nel gaelico, e in quello degli abitanti dell’arcipelago di Hawai, e in altri. Di uno stagno, le cui acque hanno virtù di ringiovanire, si parla nel Satapatha Brahmana. La immaginazione riappar frequente in tradizioni di più sorta e in novelline popolari, alcune delle quali sono senza dubbio assai antiche. Di una spedizione di Alessandro Magno alla ricerca della miracolosa fontana si narra nello Pseudo-Callistene, nei poemi di Firdusi e di Nizâmi, in quello di Lambert li Tors e Alessandro da Bernay, ecc. Tra le fiabe tedesche pubblicate dai fratelli Grimm ve n’è una intitolata Das Wasser des Lebens, nella quale si narra di tre giovani principi, che per ridare la sanità al padre ammalato muovono in cerca dell’acqua della vita: solo il minore dei tre riesce a trovarla. Questa novella fu narrata anche in latino, ed ebbe corso nel medio evo; fiabe consimili si trovano nelle letture popolari di tutta Europa. Nei racconti orientali la fontana di vita, o di gioventù, è spesso ricordata, e i più dei geografi arabici la pongono in Oriente, e in Oriente la lasciano, di solito, i racconti occidentali. Il desiderio di Fausto fu desiderio di tutti i tempi e di tutte le genti.
La fontana di vita e di giovinezza doveva dunque scaturire dal suolo benedetto del giardino di felicità. Nel Combattimento d’Adamo, l’acqua di che si formano i quattro fiumi sgorga dalle radici dell’albero della vita. Sant’Agostino racconta nel suo trattato De origine animae come a Santa Perpetua fosse conceduto di vedere il proprio fratello, morto di lebbra, «aggirarsi pieno di salute e di bellezza in una splendente dimora, bevendo acque miracolose entro una coppa d’oro». Non dice che acque fossero; ma s’indovina ch’erano attinte a una fontana di vita: quanto alla, dimora splendente, essa è, senza dubbio, come vedremo più oltre, il Paradiso terrestre. Nelle leggende medievali concernenti il Paradiso si parla risolutamente di una vera e propria fontana.
In altre leggende questa fontana appar di bel nuovo fuori del Paradiso, con cui può serbare o non serbar relazione: nel secondo caso nulla vieta di credere che si ammettessero più fonti diverse; nel primo la fonte deriva in qualche modo dal Paradiso, o è piuttosto un’acqua derivata dalla fonte dei Paradiso. Di una fonte così derivata si parla nell’Huon de Bordeaux:

Ens ou vregiet l’amiral est entré;
Dix ne fist arbrc qui peust fruit porter
Que il n’eust ens el vregiet planté.
Une fontaine i cort par son canel;
De paradis vien! ti rius sans fanser.
Il n’est nus hom qui de mere soit nés,
Qui tant soit vieus ne quenus ne metlés,
Que se il puet el ruis ses mains aver
Que iues ne soit meschina et bacelers.

Nel già citato Romans d’Alixandre di Lambert li Tors e Alessandro da Bernay la fontana ha la medesima origine, sebbene non troppo se ne intenda il modo:

Li fontaine sordait de l’ flun de paradis,
De l’aighe de Deufrate qui départ de Tigris.

Nel Trojanischer Krieg di Corrado da Würzburg, Medea usa di un’acqua venuta dal Paradiso terrestre per far ringiovanire il padre di Giasone; e dal Paradiso deriva la fonte che guarisce tutti i mali, della quale si parla nel Titurel di Albrecht. Nell’Arzigogolo del Lasca è ricordata cert’acqua che ha virtùdi far ringiovanire e che un tale andò a cercare nel Paradiso terrestre, sul Caucaso, consumando nel viaggio gran parte della vita.
Ma della fonte si parla pure, come ho detto, indipendentemente dal Paradiso terrestre. Stefano di Borbone (m. c. 1262) narra, per averlo udito narrare da altri, il caso di un vecchio, il quale avendo, là nelle terre d’oltremare, bevuto, senza intenzione, dell’acqua di certa fonte, tornò subito giovane, ma dopo non poté ritrovar mai più il luogo ov’essa scaturiva. Il Mandeville, che tante cose vide, vide anche questa. Egli dice che la fontana miracolosa sgorga alle falde di un monte; vicino alla città di Polambe; che ha odore e sapore di tutte spezie, e muta l’uno e l’altro a ciascun’ora del giorno. Chi, a digiuno, beve tre volte di quell’acqua guarisce d’ogni male; e gli abitanti di quelle terre vicine, i quali spesso ne usano, vanno esenti da malattie e pajon sempre giovani. Il viaggiatore volle berne ancor egli e credette di sentirsi tutto ringargliardito. Nel Phisiologus di Teobaldo (sec. XI), nei Bestiarii di Filippo di Thaun (sec. XII) e dei chierico Guglielmo (sec. XIII), e altrove, è riferita una credenza secondo la quale l’aquila, quando è vecchia, sale verso il sole, e ne’ suoi raggi quasi s’abbrucia, poi va in Oriente, s’immerge nell’acqua di certa fontana, e insieme con la giovinezza riacquista il vigore perduto. Questa fontana benedetta fu anche fatta sgorgare nel Paese di Cuccagna e nel paese del Prete Gianni. Nella lettera a Emanuele, imperatore d’Oriente, lettera che andò soggetta a tante interpolazioni, il Prete Gianni dice che in un suo palazzo, il quale vince di magnificenza tutti gli altri palazzi del mondo, «scaturisce un fonte che non ha l’eguale per fragranza e per sapore, e che non esce da quelle mura, ma corre da uno a un altro angolo dei palazzo, e scende sotterra, e correndo quivi in contraria direzione, ritorna là d’onde è nata, a quella guisa che torna il sole da Oriente ad Occidente. L’acqua ha il sapore di quella cosa che colui che la gusta può desiderare di mangiare o di bere, ed empie di tanta fragranza il palazzo come se ci si manipolassero tutte le sorta di balsami, di aromi e di unguenti ». Chi la beve con certo modo e regola campa più di trecent’anni, serbandosi sempre in età giovanissima.
In pieno secolo XVI la fontana di vita o di giovinezza faceva ancora sognare più d’uno. Luca Cranach si contentava di torla a soggetto di un suo dipinto, e Giovanni Sachs di una poetica fantasia; ma Ponce de Leon, lo scopritore della florida (1512), mosse appositamente con due navi per cercarla nell’isola di Bimini, dove credeva ch’essa scaturisse. Altri pure ebbe sì fatti sogni, e trovò, sembra, chi lo mise in canzone.
La fantasia degli uomini dei medio evo non si appagò dei resto della fontana di vita o di giovinezza, ma più altre cose venne immaginando provvedute di quelle stesse virtù. In molti racconti si parla di un’erba che ridà la vita. Nella continuazione dell’Huon de Bordeaux si parla di pomi del Paradiso terrestre che fanno ringiovanire; e Ugone ne dà a mangiare anche al sultano di Tauride. Gervasio da Tilbury dice che i frutti degli Alberi della Luna e del Sole, alberi che diedero responso ad Alessandro Magno, facevano vivere quei sacerdoti quattrocent’anni; e Uggieri il Danese ebbe a mangiarne. Del Santo Graal fu detto che avesse, tra le altre virtù, anche quella di ringiovanire i vecchi e risuscitare la Fenice; e dei pastorale di San Patrizio la leggenda narra che conservava la gioventù e la bellezza. Virtù consimili furono attribuite a molte altre cose. L’anello che Morgana dà ad Uggieri il Danese lo restituisce e lo serba in età di trent’anni, sebbene egli ne abbia più di cento; il cavallo bianco del re Thiermana-Oge, nel paese di gioventù, ha, secondo la leggenda irlandese, tal qualità, che chi vi monta su racquista immediatamente la più florida giovinezza, ma, come ne smonta, subito la perde.
La fontana, di cui ho parlato, mi conduce ora, naturalmente, a dire dei fiumi. La Scrittura ne ricorda quattro, tanti quanti ne venivan dal Meru. La fonte da cui traggono l’origine, sia essa, o non sia, la fonte di vita o di giovinezza, è spesso descritta come ridondante di acque, dalle quali i quattro fiumi prendono nascimento. A far immaginare tanta copia di acque nel Paradiso deve aver contribuito, oltre i precedenti mitici normali, la scarsità di cui se ne pativa in Palestina, e che doveva di molto accrescerne il pregio agli occhi degli Ebrei: in fatti sono frequenti nei profeti le lodi dell’acqua fresca; e anche nel paradiso di Maometto sono acque in gran copia. Il Mandeville dice che a cagione delle grandi acque le quali vengono dal Paradiso tutta l’India è come spartita in isole. Precipitando dal monte altissimo, su cui fiorisce il giardino, nella sottostante pianura, le acque levano un così terribil fragore che le genti di quelle terre vicine son fatte sorde, anzi nascono sorde.
Già dentro al Paradiso, oppur fuori di esso, da un lago che il fonte formava, nascevano i quattro fiumi, Fison, Gihon, Tigri (Hiddekel) ed Eufrate, i quali ridussero alla disperazione quanti cercarono di conciliare ciò che se ne dice nella Genesi con una realtà geografica qualsiasi. Circa gli ultimi due non vi fu dubbio, generalmente parlando; ma circa i due primi le opinioni furono infinite, e chi volesse raccogliere tutte quelle che si trovano sparse negli scrittori ecclesiastici e non ecclesiastici potrebbe formarne un volume che riuscirebbe di mole non picciola e di assai maggiore fastidio. Basti dire che non vi fu fiume di qualche importanza il quale non siasi fatto venire dal Paradiso. L’antica, diffusa e comoda dottrina del corso sotterraneo, e anche sottomarino dei fiumi, permetteva, a tale riguardo, e rendeva inconfutabile qualsiasi più arrischiata e più strana opinione; e la confusione, solita a farsi, dell’India con l’Etiopia agevolava le più chimeriche fantasie. Ne ricorderò solo qualcuna.
Che uno dei quattro fiumi, e propriamente il Gihon, fosse il Nilo, è credenza antica. Già Giuseppe Flavio, certamente non primo, asseriva che il Gange, l’Eufrate, il Tigri e il Nilo derivano dal fiume paradisiaco che cinge tutto intorno la terra. Nei medio evo quella credenza fu molto comune e sarebbe lungo ed ozioso recarne le testimonianze: la confusione, pur ora notata, fra l’India e l’Etiopia doveva favorirla e la favorì nel fatto. Secondo gli autori del Bundehesh e dell’Avesta, risalendo l’Indo e il Nilo si giungeva all’Haraberezaiti. Altri, per ragioni facili a intendere, fece venire dal Paradiso il Giordano; e altri, non si sa perché, il Danubio. Federigo Frezzi, per non far torto a nessuno, fa venire dal Paradiso, oltre i quattro fiumi biblici, anche il Danubio, il Po, il Reno, il Tanai.
Ma al Paradiso i soli fiumi d’acqua non potevano bastare, e Tertulliano vi fa scorrere i rivi di latte. Più di un rabbino parla di fiumi di latte, d’olio, di vino, di balsamo; e Maometto se ne ricorda descrivendo il luogo di beatitudine serbato a’ suoi seguaci. Cosa ben più strana, vi scorreva anche un fiume di pietre preziose. Veramente, da prima, si parla di uno o più fiumi che, venendo dal Paradiso, trascinano con sé grande quantità d’oro, d’argento e di gemme. Nel già citato libro di Juniore Filosofo è detto che quelle genti, le quali abitano in prossimità del Paradiso terrestre, raccolgono con reti le gemme che seco mena un fiume. Per Brunetto Latini questo fiume è l’Eufrate; ma secondo Giordano da Sévérac le gemme abbondano in tutti e quattro i fiumi. I fiumi del paradiso di Maometto hanno le rive d’oro, il letto pieno di rubini e di perle, scorrono fra montagne di muschio; e nella paradisiaca dimora di Quetzalcoatl, quale la immaginarono gli Aztechi, sono in copia, fra molte altre cose meravigliose, le gemme e i metalli preziosi. Nella ricordata lettera del Prete Gianni all’imperatore Emanuele si discorre di un fiume, chiamato Idono, il quale venendo dal Paradiso, mena con sé gran quantità di smeraldi, di zaffiri, di carbonchi, di topazii, di crisoliti e di altre pietre preziose; e si discorre di un altro fiume, il quale passa sotterra, menando similmente con sé grandissima copia di gemme. Di questo secondo fiume, che dà occasione a una delle avventure di Sindbad il Navigatore nelle Mille e una Notte, non è detto che venga dal Paradiso. Un piccolo sforzo ancora e si avrà il fiume di sole gemme immaginato da Giovanni d’Outremeuse (secolo XIV), fiume che sbocca nel mar dell’arena, ne quello era uno sforzo difficile a fare, giacché di un fiume di sassi e di un mare d’arena, che si vedevano in Asia, parecchi avevan narrato le meraviglie.
Era naturale che nel Paradiso terrestre si ponessero tutte le ricchezze e tutti gli splendori: l’oro, l’argento e le gemme vi dovevano essere in abbondanza. Un passo di Ezechiele mostra si fatta tendenza in modo assai spiccato; il monte Meru, secondo una delle molte immaginazioni cui porse argomento, aveva quattro lati, l’uno d’oro, l’altro di cristallo, il terzo d’argento e il quarto di zaffiro. Nell’Elisio descritto da Platone gli alberi recano gemme, come nel paradiso di Maometto; e nella Gerusalemme celeste descritta dall’autore dell’Apocalissi, abbondano le pietre e i metalli preziosi. Delle molte gemme che sono nel Paradiso terrestre Tertulliano ricorda il prasio, il carbonchio, lo smeraldo, e Alcimo Avito afferma che quelle che noi chiamiamo gemme sono i sassi di colà. Sebbene il Mandeville dica che non si può sapere di che cosa sia formato il muro del Paradiso, tanto lo velano agli altrui sguardi il musco e l’edera, pure molti sapevano ch’esso era di materia preziosissima e tutto tempestato di gemme. Secondo qualche rabbino, tutto il Paradiso era selciato di pietre preziose e di perle. Si sapeva inoltre che Adamo, uscendo dal giardino, aveva potuto recar con sé l’oro, l’incenso e la mirra che dovevano poi, dai Re Magi, essere offerti al bambino redentore, e deporli, insieme con altre ricchezze, in una caverna, detta, per ciò appunto, la Caverna dei Tesori. Se si pensa alle virtù meravigliose, che giù nell’antichità, e poi, durante tutto il medio evo, si attribuirono alle gemme, virtù di cui si discorre largamente nei Lapidarii, e al significato simbolico che si soleva dar loro, non parrà strano che di gemme si volessero pieni il Paradiso e le sue acque.
Il Meru, quale è descritto nel Mahâbhârata, è coperto d’oro, e aureo è detto nei Purâni. Aureo meriterebbe d’essere chiamato anche il Paradiso terrestre. Il muro che lo serra è, talvolta, tutto d’oro, e d’oro sono i palazzi e le chiese ch’esso contiene. Un soldato di cui San Gregorio narra la visione, passa un fetido fiume, e giunge a prati fioriti dove si stan costruendo di mattoni d’oro, mirabili case. Note sono le relazioni mitiche dell’oro con la luce, col sole, con la felicità. Una città d’oro, stanza di beatitudine, sognarono gl’Indiani; la Gerusalemme celeste sfolgora d’oro; i palazzi del paradiso di Maometto sono costruiti d’oro, di perle, di smeraldi e di rubini. El Dorado chiamarono gli Spagnuoli la nuova terra di promissione.
Con tali condizioni di luogo e di clima quali abbiamo vedute, con tanto rigoglio di vegetazione soprammirabile, con tanto splendore di metalli preziosi e di gemme, il Paradiso terrestre doveva essere di tale bellezza e magnificenza da vincere ogni più ardita e fervida fantasia. Ma ciò appunto doveva stimolare e far vie più intenso il desiderio di rappresentano e colorirselo nella mente, di descriverlo con parole. Chi sa quante anime innamorate di solitarii e di reclusi lo sognarono nelle ore di estatica contemplazione, credettero d’intravvederne gl’immortali splendori nello spettacolo d’un tramonto pomposo! I primi poeti cristiani, che presero a sparger di fiori la nuda terra del Golgota e a lumeggiare l’austera speranza sorta novamente negli animi, andarono a gara in narrarne le divine delizie. Bisognava che gli uomini conoscessero ciò che avevano perduto per poter meglio intendere il pregio di ciò che il sangue di Cristo aveva loro ridato. Tertulliano, Proba Falconia, Prudenzio, Draconzio, Mario Vittore, Alcimo Avito, ci lasciarono tutti descrizioni calde di entusiasmo e non prive di merito, le quali hanno questo carattere comune, che tutte traggono elementi, colori ed immagini dalle descrizioni che i poeti gentili avevan fatte degli Elisii. Né questo poteva sembrare ai poeti cristiani un procedimento illegittimo, giacché essi credevano che il mito degli Elisii altro non fosse se non una ricordanza e come dire un riflesso alterato del racconto biblico. E fu appunto la gran somiglianza di sì fatte descrizioni quella che permise di attribuire a Lattanzio il noto poemetto De Phoenice, il quale, non solo non è di lui, ma non è, forse, nemmeno di autore cristiano, e in cui si descrive, non già, come fu creduto, il Paradiso terrestre, ma il Bosco del Sole. Proba Falconia formava la descrizione sua, e tutto il compendio del Vecchio e del Nuovo Testamento di cui quella descrizione è parte, con versi tolti a Virgilio. Mario Vittore chiamava il Paradiso col nome di Tempe, e sebbene in certa Epistola de perversis suae aetatis moribus ad Salmonem abbatem rimproverasse, più specialmente alle donne, di posporre Salomone a Paolo e Virgilio, ad Ovidio, ad Orazio, a Terenzio, i suoi versi sono tutti pieni di reminiscenze classiche. L’autore di un metrum in Genesim(forse Ilario d’Arles, ancor egli, come Mario Vittore, del V secolo), prendeva a modello il primo libro delle Metamorfosi, e Sidonio Apollinare, cristiano, descriveva gli Orti del Sole con quelle parole medesime che si usavano a descrivere il Paradiso terrestre.
Le descrizioni del Paradiso terrestre si possono dire innumerevoli, e vanno moltiplicando dai primi tempi del cristianesimo, attraverso il medio evo, sino ai giorni nostri, e sono in verso e in prosa, e sono in tutte le lingue. Compajono, com’è naturale, nei Commentarii alla Genesi, negli Hexaemera, nelle Bibbie versificate e istoriate, in molti trattati teologici; compajono in trattati scientifici, varii di natura e di forma; compajono in cronache, in Visioni, in leggende; compajono in poemi d’ogni sorta. I rabbini gareggiano in così fatte descrizioni coi dottori e coi poeti cristiani, e di gran lunga li vincono quanto a stranezza e audacia d’immaginazioni; e tra' cristiani v’è chi non si contenta delle descrizioni fatte da uomini, ma altre ne pone in bocca a Dia stesso e agli stessi demonii.
Molte di quelle descrizioni sono documenti assai notabili del carattere che venne assumendo nei primi secoli del cristianesimo e nel medio evo il sentimento della natura. La natura vi è idealizzata conformemente a una immaginazione di bellezza e di giocondità sovramondana, che il Freni rese non infelicemente in tre versi:

Rallegra tutto il cor quel paradiso:
Ivi ogni cosa intorno m’assembrava
Un’allegrezza di giocondo riso.

Il Paradiso terrestre diventa un prototipo di bellezza, suscitava altre immaginazioni affini, e di esso si ricordavano quanti poeti prendevano a descrivere luoghi di delizie e di felicità. Isole e giardini d’incantevol bellezza abbondano nei poemi cavallereschi, nei romanzi di avventura, e hanno col Paradiso terrestre anche questa somiglianza, che rinchiudono un principio malvagio, una causa di scadimento e di perversione, come i giardini di Alcina e di Armida. Il paese delle fate, o pays de faërie, o semplicemente Faërie, spesso descritto nei romanzi francesi, ha col Paradiso terrestre moltissima somiglianza, e così l’hanno il regno sotterraneo di Venere nella leggenda tedesca, e quello della Sibilla nella leggenda italiana.
E a somiglianza del Paradiso terrestre fu immaginato il Paradiso celeste, come già prova la Gerusalemme celeste dell’Apocalisse, e come si può vedere negli scritti di parecchi Padri. Tale somiglianza è spiccatissima in un Rhythmus de gloria et gaudiis Paradisi, falsamente attribuito a Sant’Agostino, ma certamente assai antico. San Pier Damiano pone nel Paradiso celeste prati fioriti, odori soavi, musiche meravigliose. Leggendo certa poesia latina pubblicata dal Böhmer, non s’intende di qual Paradiso il poeta voglia parlare, fino a che, a togliere il dubbio, non appajono il trono dell’Eterno, e i cori dei santi e degli angeli che gli stanno d’intorno. Talvolta il Paradiso terrestre e il celeste sono fusi insieme e ne formano un solo.
Tali, quali abbiamo vedute, erano le bellezze e le meraviglie di quello che gl’Italiani chiamarono dolcemente il Paradiso deliziano: vediamo ora quali ne fossero, o ne fossero stati, gli abitatori.

Note
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[1] Ariosto: Orlando Furioso, c. XXXIII, st. 105.
[2] Stazio: Sylvae, III
[3] L’isola di Avalon, che diventò un paese meraviglioso e mitico, e veramente un’isola, posta nel letto di un fiume, nella contea del Somerset. Fu creduta prima sede del cristianesimo in Inghilterra, introdottovi, secondo la leggenda, dai discepoli dell’apostolo Filippo, o da Giuseppe d’Arimatea.
[4] De oraculorum defectu, 18; De facie in orbe lunae, 26 sgg.
[5] «Purgatorio», XXXII, 37-39.
[6] Quadriregio, 1, IV, cap. 2.
[7] Nella canzone: Standomi un giorno, solo, alla finestra.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo III
Gli abitatori del Paradiso terrestre

Il primo uomo, e il primo abitatore umano del Paradiso terrestre fu, secondo la Genesi, Adamo. Il mito ampliato e variato de’ tempi posteriori s’attenne scrupolosamente, per questo rispetto, alla parola biblica, e la invenzione dei preadamiti, che prima di Adamo avrebbero dovuto popolare la terra, è una invenzione assai tarda, ignota ai cristiani dei primi secoli, ignota a quelli dei tempi di mezzo. Eva fu la compagna di Adamo nel beato soggiorno.
Il racconto biblico è assai sobrio di notizie intorno ai due primi parenti; ma una tal sobrietà non poteva appagare la fantasia dei credenti, memori dell’antico peccato e consci della infelicità ond’esso era loro stato cagione. Il bisogno di conoscerne meglio gli autori, le condizione, le conseguenze, nacque spontaneo negli spiriti; e da quel bisogno ebbe origine una moltitudine d’immaginazioni, le quali ripeterono fantasticamente tutta la storia dei due protoplasti, dalla creazione alla morte, e più oltre ancora, sino alle vicende della più prossima loro discendenza. In grazia di quelle immaginazioni, il succinto e arido racconto biblico si muta in un lungo romanzo pieno di meraviglie e di stravaganze, le cui parti non sono tutte insieme congiunte; anzi si può dire che formino come tanti romanzi separati, aventi il soggetto medesimo, e informati, generalmente parlando, dal medesimo spirito. Esse appartengono, quando in comune, quando in particolare, alle tre grandi famiglie religiose che nei libri dell’Antico Testamento cercano il verbo primo, se non anche l’ultimo, delle loro credenze: ebrei, cristiani, maomettani. Prima di passare a vedere un buon numero di quelle immaginazioni, non sarà fuor di luogo dare una rapida indicazione delle fonti da cui esse derivano, o, per parlar più giusto, giacché ben poco si conosce circa le loro origini prime, delle scritture in cui ebbero a raccogliersi. Le principali sono: 1. Alcuni trattati del Talmud; 2. La Piccola Genesi, o Libro dei Giubilei, opere di autore ebraico, anteriore a Gesù Cristo; 3. Il Combattimento di Adamo ed Eva, tradotto dall’ebraico in etiopico, e malamente attribuito a Sant’Epifanio, vescovo di Cipro; 4. La Caverna dei Tesori, già ricordata; 5. Il Testamento d’Adamo, il quale è, assai probabilmente, tutt’uno con l’Apocalissi d’Adamo di cui fa parola Sant’Epifanio, e con la Penitenza d’Adamo registrata nel decreto di papa Gelasio; 6. Il Libro d’Adamo dei Mandaiti; 7. Una Vita greca; 8. Una Vita latina; 9. Il Corano, e non poche storie, e non pochi trattati geografici degli Arabi.
Le prime favole di cui noi dobbiamo ora prendere notizia sono quelle concernenti la creazione di Adamo e di Eva. Anzitutto è da ricordare che i cabalisti conobbero un tipo celeste dell’Adamo terrestre, e lo chiamarono col nome di Adam Kadmon, e che un Adamo celeste si mostra pure nelle dottrine dei primi gnostici. La Bibbia si contenta di dire che il Signore plasmò il corpo di Adamo della polvere della terra; ma tale linguaggio parve poi ai credenti troppo generico. Secondo una finzione dei rabbini, la polvere con cui Dio plasmò quel corpo fu raccolta da tutta la faccia della terra; secondo una finzione analoga dei musulmani, la terra necessaria fu dai quattro angeli maggiori recata dai quattro punti cardinali: solo il cuore ed il capo furon fatti di terra tolta nei campi dove sorsero poi la Mecca e Medina, la santa Kaaba e il sepolcro del profeta. Ebrei e cristiani vollero far notare, che Adamo era stato creato di terra vergine, di terra, cioè, non ancora bagnata e polluta dalla pioggia e dal sudore e dal sangue, né seminata, né arata; e Sant’Agostino, per tal ragione, poneva il nascimento del primo uomo a riscontro del nascimento di Cristo, figliuol d’una vergine. La terra non parve più materia sufficiente a tant’opera, e si disse che Adamo fu formato di otto parti diverse, e che la terra fu una delle otto, assegnando le altre, con più varie enumerazioni, a elementi diversi, o sostanze, o corpi; per esempio: mare, sole, nuvole, vento, pietre, spirito santo, chiarità del mondo. La credenza del resto che l’uomo fosse formato di otto parti, si vede già ricordata da Plutarco, il quale l’attribuisce agli stoici. Stando a un’opinione assai diffusa, Adamo fu creato nell’agro damasceno; ma parecchi affermarono ch’ei fu creato in Ebron, presso Gerusalemme, e ciò per ragioni che vedremo tra poco.
I musulmani, i quali narrano più cose mirabili del modo con cui l’anima immortale fu introdotta da Dio nel corpo appena plasmato, e del diffondersi di quella per le varie membra e pei sensi, in guisa che ciascuno ne ricevesse la vita, i musulmani asseriscono che il primo uomo fu creato un venerdì, nell’ora in cui i credenti sogliono recitare la terza preghiera, a egual distanza dal mezzodì e dal tramonto del sole; e s’accordano così, quanto al giorno, con ebrei e con cristiani. Dice Sant’Ireneo che Adamo fu creato un venerdì, e di venerdì peccò, nel qual giorno poi ebbe a morire il Redentore per ricomprar quel peccato. Altri scrittori ecclesiastici notarono che come Adamo fu creato il sesto giorno, così Cristo nacque nel sesto millenario. Vedremo in seguito altri riscontri e collegamenti simili, immaginati per coordinare sempre più fra loro i due fatti del peccato e della redenzione, dei quali l’uno era causa e l’altro effetto; ma gioverà notare sin da ora che nel racconto biblico quel benedetto giorno non è molto sicuramente indicato, perché mentre in una parte l’uomo appar creato nel sesto, subito dopo i bruti, in un’altra appar creato prima dei bruti e prima delle piante; altro segno della poca cura con cui furono congiunte insieme le due tradizioni. Nel Bunde-hesh si legge che Ahura Mazda spese settantacinque giorni in formar l’uomo: non so che nulla di simile siasi detto dal creatore di Adamo.
Ma non da tutti si credette che di una così vile e malvagia creatura come subito ebbe a mostrarsi l’uomo potesse essere fattore Iddio. Gli gnostici, che tanto travaglio diedero alla Chiesa primitiva, e per oltre due secoli ne minacciarono le dottrine e l’esistenza; gli gnostici, per cui la materia era la corporalità stessa del male, affermarono che tutta la creazione, e però anche l’uomo, fosse fattura, non già di Dio, ma del Demiurgo, il quale, nella loro concezione dualistica, s’immedesima sempre più col principio del male, e contro cui è tutta rivolta l’opera salutare di Cristo. Pei Marcioniti il Demiurgo creatore è bensì il Dio degli Ebrei, ma è, in pari tempo, un principio malvagio, contrapposto al Dio superiore, il quale è tutto amore e bontà. Il Demiurgo creò l’uomo e gl’infuse il suo spirito. Fra i Manichei il Demiurgo assume talvolta il nome di Satana. Nel Libro d’Adamo dei Mandaiti, libro tutto penetrato di dottrine gnostiche, si dice che il corpo del primo parente fu creato da genii malefici. Nel medio evo i Concorezensi, i Bogomili e i Catari pensarono che i primi parenti fossero spiriti angelici rinchiusi in corpi plasmati da Satana, e che fosse un’illusione e un inganno dello stesso Satana il Paradiso terrestre.
Che Eva fosse stata creata con una costa d’Adamo fu generalmente ammesso dalle varie famiglie di credenti che si attennero al racconto biblico; e alcuni rabbini seppero dire perché il Signore avesse scelta quella parte del corpo anziché un’altra, e provarono pure che, togliendola ad Adamo, Dio non era stato un ladro. Ciò nondimeno una opinione diversa ebbe pure a sorgere, che suggerita da un’altra ambiguità di quel racconto medesimo, trovò numerosi seguaci fra i rabbini, e qualcuno anche tra i cristiani; la opinione cioè che Adamo fosse creato primariamente androgino, o con due corpi di sesso diverso, congiunti insieme e poi separati da Dio. La celebre visionaria Antonietta Bourignon (1616-1680), la quale giunse a veder l’Anticristo, vide pure il primo padre Adamo, quale fu nella sua gloria, e lo vide androgino; ma a modo suo. In luogo di membro virile egli aveva un naso, simile in tutto a quello che adorna il volto, e provveduto delle medesime facoltà; e nel suo ventre avveniva così la produzione come la fecondazione degli ovuli da cui nascevano altri uomini.
Naturalmente si volle che, prima del peccato. Adamo avesse avuto un corpo molto più perfetto che non ebbero poi, e che non sia questo nostro; e si disse che, mentre durò nello stato d’innocenza, egli fu tutto luminoso. Altrettanto si narrò di quel Yami della mitologia indiana, il quale ha con l’Adamo biblico più di una somiglianza. Nell’Evangelo di San Matteo è detto che i giusti risplenderanno come il sole nel regno del padre loro, e di una parziale lucidità miracolosa apparsa nel corpo di un santo uomo parla Cesario uno de’ suoi racconti. Alcuni rabbini pensarono che Dio avesse creato Adamo con la coda, ma che poi gliela togliesse per amor di bellezza; e qualcuno pur ve ne fu che di quella coda disse formata Eva. Ad ogni modo, Adamo fu la più bella delle creature, superiore in bellezza agli angeli ingelositi, inferiore solamente a Dio; ed Eva fu la sua degna compagna; e se poteva importare, per altri rispetti, che essi avessero, o non avessero avuto ombelico, per la bellezza non importava gran fatto.
Ebbero bensì statura acconcia alle altre loro perfezioni. Secondo i rabbini, Adamo toccava col capo il cielo, si stendeva da una a un’altra estremità della terra. Gli angeli ne furono sgomenti, e allora Dio lo rimpicciolì sino a mille cubiti; oppure, dopo il peccato, gli gravò una mano sul capo e lo ridusse di 1000, 900, 300 o 200 cubiti. Anche pei musulmani Adamo toccava col capo il primo de’ sette cieli, e opinioni consimili corsero tra’ cristiani. Mosè Bar-Cefa riferisce, in relazione con l’opinione che poneva il Paradiso terrestre nell’antictone, una credenza, secondo la quale Adamo ed Eva, essendo di smisurata statura, avrebbero attraversato l’oceano a guado per venirsene nella terra di qua. Non mancarono valentuomini che sulla vera ed esalta statura dei primi parenti istituirono lunghe e faticose indagini.
Il nome stesso di Adamo diede argomento a parecchie strane immaginazioni, perché non pareva possibile che il nome imposto al primo padre da Dio medesimo, non fosse formato in qualche maniera speciale, non contenesse alcuna significazione occulta. Giuseppe Flavio si contenta di dire che Adamo vuoi dire Il Rosso, e che il primo uomo fu così denominato perché formato di terra rossa; ma in un opuscolo De montibus Sina et Sion, falsamente attribuito a San Cipriano, si mostra come il nome di Adam sia formato delle quattro lettere con cui principiano, in greco, i nomi dei quattro punti cardinali, ᾽ανατολή, δύσις, ᾽αρχτος, μεσημβρία; e ivi stesso si svela che nel nome di Adamo era indicato il tempo della passione di Cristo e il numero d’anni speso da Salomone in costruire il Tempio. Sant’Agostino dice che quella composizione del nome di Adamo sta a mostrare, sia che la discendenza di Adamo si spargerà per le quattro piaghe della terra, sia che dalle quattro piaghe saranno raccolti gli eletti. Per quella ragione Adamo fu detto tetragrammatos e microcosmo. Tralascio di parlar di coloro che nei nomi di Adamo e di Eva trovarono, o credettero di trovare, le prove del solito mito solare.
La creazione del primo uomo, se fu incominciamento d’iniquità e di sciagura sopra la terra, fu pure cagione di discordia e di ruina nel cielo. Narrano i rabbini, che come appena si sparse colassù la nuova che l’Eterno voleva creare Adamo, si affollarono intorno al trono di lui gli angeli e i genii, de’ quali, parte lo esortavano a crearlo, e parte ne lo dissuadevano. Gli angeli della Misericordia, della Pace, della Giustizia e della Verità, espressero vani sentimenti e diedero opposti pareri. Quest’ultimo gridò piangendo: «Padre del vero, tu crei sulla terra il padre della menzogna». Ma l’Eterno rassicurò le schiere degli spiriti, dicendo che la verità avrebbe legato la terra col cielo; e Adamo fu creato. Nel Corano il contrasto si aggrava, e produce effetti disastrosi. Dio, dopo che ebbe creato Adamo, chiamò le schiere degli angeli suoi perché onorassero la nuova creatura Tutti si piegarono volentieri al divino comando, salvo Iblîs, l’angelo superbo, il quale ricusò d’inchinarsi alla creta, e fu per tale disobbendienza cacciato dal cielo; di che poi si vendicò, trascinando l’uomo e la donna al peccato. Fantasie simili ebbero anche i cristiani, e si può tener sicuro che Maometto, il quale da cristiani e da ebrei toglieva ciò che gli tornava utile, ne conobbe qualcuna. Nella Vita latina ricordata di sopra, Satana stesso narra ad Adamo la cagione della sua caduta. Creato l’uomo, Dio ordinò a tutti gli angeli di adorare quella sua immagine. Primo obbedì Michele, il quale poi fece obbedire gli altri; ma Satana, tenendosi troppo da più di Adamo, ricusò di adorarlo, e alle minacce di Michele rispose che porrebbe la sua sede sopra gli astri del cielo, e si farebbe simile all’Altissimo. L’ira dell’Altissimo piombò su di lui. Egli fu espulso, insieme coi suoi seguaci, dal cielo, e per vendicarsi trascinò alla colpa chi fu involontaria cagione della sua caduta. Qualche accenno a sì fatto mito si trova già, come fu notato da altri, in Tertulliano, in Sant’Ireneo, in Sant’Agostino. Questi lo ricusa, e sostien la opinione che Satana cadde per superbia nell’inizio dei tempi.
Il primo uomo aveva, del resto, qualità e pregi quasi divini, tali, insomma, da meritargli l’ammirazione e la reverenza degli angeli. In più luoghi si trova detto che egli vinceva in perfezione tutti gli spiriti celesti: stando a una delle tante fantasie rabbiniche, gli angeli, vedutolo, credettero ch’egli fosse un secondo Dio, e l’unico vero Dio, per disingannarli, lo fece cadere in un profondo sopore. Non si dimentichi che in molte altre mitologie il primo uomo è un dio, o quasi un dio.
Adamo fu il più sapiente degli uomini, superato solo da Cristo, l’Uomo Dio. Seguendo San Tommaso e la tradizione patristica, dice Dante che in Adamo e in Cristo fu infuso da Dio stesso.

Quantunque alla natura umana lece
Aver di lume[1].

Sapere connato[2] dunque, non acquisito. I cabalisti pensarono invece che Adamo fosse stato ammaestrato dagli angeli, e Mosè Maimonide asserì ch’egli fu uno stolto finché non ebbe gustato il frutto proibito. La opinione, per altro, ch’egli avesse in sé, comunque acquistata, ogni dottrina, fu la opinion prevalente. Alcuni rabbini dissero che Dio stesso mandò ad Adamo, per mezzo dell’angelo Rasiele, un libro, in cui erano dichiarati tutti i secreti del cielo, ed esposte tutte le sante dottrine, e che gli angeli scendevano apposta per udirne la lettura. Questo libro miracoloso ritornò da se stesso in cielo dopo il peccato; ma quando Adamo ebbe fatto penitenza, Dio ordinò all’arcangelo Raffaele di riportarglielo, e Adamo ne fece diligente lettura, e lo lasciò, morendo, a Seth. Una finzione simile a questa corre tra’ musulmani: nella fantasia di taluno il libro diventò un vero e proprio libro di magia. Adamo fu tenuto inventore dei caratteri, peritissimo in astrologia e, generalmente parlando, institutore di tutte le scienze e di tutte le arti. Frutto di tanto sapere furono parecchi libri. Sant’Epifanio ricorda certe rivelazioni attribuite dagli gnostici ad Adamo; alcuni rabbini parlarono di un libro di singolarissimo pregio in cui egli raccolse quanto nel Paradiso terrestre udì dalla bocca di Dio; Mosè Maimonide dice che i Sabei facevano Adamo autore di trattati sopra l’agricoltura: persino libri di alchimia gli furono attribuiti. Due salmi si volle fossero opera sua. Eva dovette avere, in qualche parte almeno, il sapere di Adamo: Sant’Epifanio fa menzione di un evangelo che si diceva dettato da lei.
Una solenne e innegabile prova del suo sapere, se non altro filologico, diede Adamo quando, essendogli stati condotti innanzi, da Dio, tutti gli animali creati, egli seppe nominar ciascuno in settanta lingue diverse, mentre, per confession dei rabbini, gli angeli non avevano saputo nominarli nemmeno in una lingua sola. Gli è vero, per altro, che di solito non si concede ad Adamo la cognizione di tante lingue quante ne nacquero poi, al tempo della edificazione della Torre di Babele; ma si ragiona della lingua parlata da lui come di una lingua assai più perfetta che non quelle venute dopo, e perdutasi già sin dai tempi della prima sua discendenza.

La lingua ch’io parlai fu tutta spenta
Innanzi assai ch’all’ovra inconsumabile
Fosse la gente di Nembrot attenta[3],

dice lo stesso Adamo a Dante, là nel Paradiso. Vero è che nel trattato De vulgari eloquentia, Dante aveva affermato che la lingua parlata primamente da Adamo fu quella stessa che parlarono poi gli Ebrei, serbata integra, affinché il redentore del mondo potesse parlare il linguaggio della grazia, e non un linguaggio nato dalla confusione[4].
Vogliono alcuni che Adamo fosse introdotto da Dio nel Paradiso terrestre solo quaranta giorni dopo la sua creazione. Checché sia di ciò, la felicità di cui godettero nel giocondo giardino egli e la donna sua fu quale noi non possiamo nemmeno immaginare, nonché descrivere. Vivendo in terra, eglino eran fatti partecipi della vita del cielo. Nel Testamento ricordato pur dianzi, lo stesso Adamo racconta al figliuolo Seth quale fosse la condizione di lui e di Eva nel Paradiso, prima del peccato. Udivano il suono armonioso che moveva dalle ali dei serafini preganti; udivano la gran voce dell’acque, le quali, dal profondo, adoravano il loro fattore; udivano le preghiere di tutti gli esseri distribuite per le diverse ore del giorno e della notte. Fruivano della beatifica visione di Dio, e pascevano l’anime della parola divina. Godevano delle delizie incomparabili del giardino, circondati dalla reverenza e dall’amore di tutte, le creature viventi.
Ma quanto tempo godettero di così invidiabile felicità? quanto durò, in altri termini, lo stato di loro innocenza? Su questo punto le opinioni divariano assai, giacché nulla dicono le Scritture. San Giovanni Crisostomo crede, che Adamo ed Eva non rimasero forse nemmeno un giorno nel Paradiso; e narrano alcuni talmudisti che Adamo peccò nella decima ora del giorno in cui fu creato, e che egli ed Eva furono pieni di terrore quando, essendo già stati cacciati dal Paradiso, videro per la prima volta in lor vita tramontare il sole. In Occidente si accreditò in più particolar modo la opinione che i primi parenti non rimanessero nel Paradiso più di sett’ore, dalla prima alla settima, o dalla terza alla nona del giorno in cui furono creati, e vi furono introdotti. Perciò dice Adamo a Dante:

Nel monte, che si leva più dall’onda,
Fu’ io, con vita pura, e disonesta,
Dalla prim’ora a quella che seconda,
Come il sol muta quadra, l’ora sesta[5].

Ma altre opinioni vi furono in buon numero, delle quali alcune poco si dilungavano da questa, e altre moltissimo; e secondo che si badi all’una o all’altra, Adamo ed Eva sarebbero rimasti nel Paradiso un giorno, sei, nove, quaranta giorni, sett’anni, quindici, ventotto, un secolo. I maomettani ce li fanno stare cinquecent’anni.
Non si creda, del resto, che questi numeri fossero sempre immaginati a caso: molte volte si cercò in essi un indizio di misteriose e recondite colleganze tra i due fatti capitali della storia del genere umano, la caduta e la redenzione. Le condizioni e il modo di quella dovevano prenunziare le condizioni e il modo di questa. Perciò da taluno si fece durare il soggiorno dei primi parenti nel Paradiso quanto poi durò la passione di Cristo; e si disse che il peccato fu commesso l’ora sesta, nella qual ora Cristo fu posto in croce; e che l’espulsione avvenne l’ora nona, nella quale ora poi Cristo morì. Altre corrispondenze pure s’immaginarono. I quarant’anni dovevano rispondere agli altrettanti che gli ebrei passarono nel deserto.
Secondo i musulmani, che drammatizzarono in assai poetico modo la storia della tentazione, Adamo resistette ottant’anni alle sollecitazioni di Eva, che voleva fargli gustare il fatal pomo. I cristiani non si curarono di sapere troppi particolari in proposito. Ammisero, senz’altro, che Adamo fu trascinato al peccato da Eva; e solo si mostrarono alquanto più curiosi di conoscere la vera qualità del peccato commesso da entrambi. La opinione ortodossa e legittima è ch’essi abbiano veramente trasgredito il divino precetto mangiando il pomo; non un pomo simbolico, ma un pomo reale. Divieti simili a quello di cui narra la Genesi si trovano in tutte le mitologie, e non di rado riguardano appunto una pianta; e di ciò non si meraviglia chi ricordi con quanta facilità gli uomini primitivi attribuissero ai frutti, o ai succhi di certe piante, virtù di conferire, sia la immortalità, sia un sovrumano sapere. Dante, che in così fatte questioni suol farsi ripetitore delle dottrine approvate dalla Chiesa, dice, parlando della sacra pianta del Paradiso terrestre:

Per morder quella, in pena ed in disio
Cinquemil’anni e più, l’anima prima
Bramò colui che il morso in sé punio;

e facendo consistere la colpa, non nel fatto materiale dello aver mangiato il frutto, ma nella disobbedienza, pone in bocca ad Adamo queste parole:

Or, figliuol mio, non il gustar del legno
Fu per sé la cagion di tanto esilio,
Ma solamente il trapassar del segno[6].

Alcuni talmudisti, per altro, pensarono, non ostante il detto divino Crescete e moltiplicate, che il peccato fosse consistito nella copula, e questa loro opinione ebbe seguitatori anche fra’ cristiani[7].
Dove, quando seguì il primo accoppiamento dei due primi genitori? Anche intorno a ciò vi furono più disparate opinioni. Alcuni rabbini dicono ch’esso avvenne nel Paradiso, e che nel Paradiso furono concepiti Caino e Abele. I musulmani narrano meraviglie delle nozze di Adamo ed Eva: e del padiglione di seta sotto cui esse furono celebrate, nel bel mezzo del Paradiso. Ma i Dottori cristiani, tra cui San Girolamo e Sant’Agostino, sostennero sempre che Adamo ed Eva uscirono vergini dal Paradiso terrestre, e non si congiunsero se non passato certo tempo, più o meno lungo, dalla loro espulsione: e Felice Faber afferma che, se fossero rimasti nel Paradiso, avrebbero generato senza perdere la verginità. Ad ogni modo si ammetteva da tutti che, immediatamente dopo il peccato, essi avessero perduto in certa guisa la verginità dello spirito, avvedendosi della nudità propria. Perciò parecchie sètte di eretici, che si chiamarono col nome di Adamiti, sorte in vani tempi, considerarono la nudità come un segno di libertà di spirito e d’innocenza e rifiutarono ogni maniera di vesti.
Ma fu veramente Eva la prima moglie di Adamo? ed Eva, la gran prevaricatrice, fu ella sempre fedele al suo legittimo sposo? Strani dubbi si mossero intorno a ciò; anzi strane cose si affermarono. Fu credenza diffusa tra’ rabbini che, prima di generar figliuoli con Eva, Adamo ne generasse con un demone femmina per nome Lilith, il quale vuolsi da taluno che sia una cosa istessa con Ilithia, dea della notte e dello spazio, adorata in Grecia ed in Egitto. Da quelle prime nozze nacquero molti spiriti maligni. Secondo un’altra finzione, Dio, prima di trarre Eva dalla costa di Adamo, creò di terra Lilith, la quale rifiutò di obbedire al marito, lo abbandonò, e divenne un genio malefico, infesto ai pargoli, e madre di demonii. Per contro, una favola satirica, dovuta assai probabilmente alla fantasia di un trovero narra che prima d’Eva, Dio aveva dato ad Adamo una compagna assai più perfetta; ma che Adamo, ingelositosi della superiorità di lei, la uccise, dopo di che Dio, per punirlo, diedegli Eva, che lo trasse al peccato. E fu persin detto che Adamo non ischifò di congiungersi con le fiere.
Eva, dal canto suo, non avrebbe dato prova di troppo maggior continenza. Vogliono ch’ell’abbia avuto commercio con Samaele, principe de’ demonii, e procreato con esso più figliuoli, tra cui v’è chi pone Caino, e anche Abele. Del resto le notizie intorno ai figliuoli di Adamo ed Eva sono molto confuse, e non di rado contraddittorie.
Negli apocrifi ricordati di sopra si narra l’aspra e dolorosa vita che dovettero condurre i due primi parenti dopo la loro cacciata dal Paradiso; si narra la dura e lunga penitenza con cui si studiarono di cancellare il peccato e di riacquistare la grazia e l’amore di quel Dio che avevano offeso; si narra la vecchiezza loro e la morte, supreme calamità che sulla terra produsse la colpa. Usciti dal luogo di beatitudine, si trovano in una terra inospitale ed ingrata, fra belve fatte nemiche; errano in cerca di cibo, e debbono contentarsi di quello onde le belve si pascono. S’accostano di bel nuovo al Paradiso, con isperanza d’esservi riammessi, ma la speranza rimane delusa. Essi piangono vedendo i corpi loro tanto mutati da quelli di prima; piangono pensando alla felicità irreparabilmente perduta. Pregano senza fine il Signore, ne implorano la pietà, digiunando, rimanendo immersi per lunghi giorni nelle acque del mare, o in quelle del Giordano o del Tigri. Ma Satana, e gli spiriti suoi, non danno loro pace, li insidiano in tutti i modi: tentano di ucciderli, seducono una seconda volta Eva, distogliendola dalla cominciata penitenza. A consolare tanta miseria, a confortare gli animi che stanno per cedere alla disperazione, viene di quando in quando dall’alto la voce del Signore, che annunzia il futuro perdono e la redenzione; a rinfrancare i corpi afflitti Dio misericordioso manda delle frutta del Paradiso. Nuovi uomini nascono sopra la terra e si vanno aggravando le conseguenze fatali della colpa. Caino uccide Abele: Adamo ed Eva piangono amaramente l’ucciso. Sono corsi nove secoli e Adamo, stremato dalla vecchiezza e dalla malattia, manda il figliuolo Seth, manda la moglie, prima cagione di tanto soffrire, a chiedere al cherubino, cui fu commessa la custodia del Paradiso, l’olio di misericordia. Qui nuova promessa di futura redenzione. Adamo passa di questa vita, profetando nuove colpe e nuove sciagure; Eva non tarda a seguirlo. I figliuoli danno sepoltura ai loro corpi e la storia del mondo procede qual fu prenunziata, correndo incontro al Diluvio.
Tale in succinto, raccolta da’ varii racconti, la storia dei due primi uomini dopo il peccato. Come ognuno può immaginar facilmente, più e più opinioni particolari si ebbero sopra tale, o talaltro punto di essa. Nel trattato Erubim si legge che la penitenza di Adamo durò centotrent’anni; secondo una tradizione musulmana, le lacrime ch’egli pianse dopo il peccato formarono il Tigri e l’Eufrate; secondo un’altra, quelle lacrime caddero sull’isola di Serendib, e produssero le piante medicinali e gli aromati. Uno dei tristi e più visibili effetti della colpa fu, a detta di ceni rabbini, la calvizie. Circa il luogo ove i due primi parenti vissero dopo l’espulsione dal Paradiso, e il luogo dove poi ebbero sepoltura, furono varie credenze. Si disse da alcuni ch’e’ furono rimessi nell’agro damasceno, ov’era stato creato Adamo. Secondo Sant’Epifanio (sec. IV), Adamo ed Eva dimorarono alcun tempo in prossimità del Paradiso, poi errarono per molte regioni, e finalmente vennero in Giudea, ove morirono. Dionigi di Telmahar (sec. IX) dice che la caverna dei tesori, ove ripararono e vissero i due cacciati, e sulla quale apparve poi la stella che guidò i Re Magi, era posta nell’ultimo Oriente, nella montagna di Scir, di contro all’oceano che cinge il mondo, e non lungi dal Paradiso terrestre. Coloro poi che ponevano il Paradiso nell’antictone, pensavano, come abbiam veduto, o che Adamo ed Eva fossero rimasti di là, e la progenitura loro similmente, sino al Diluvio, o che fossero venuti di qua, attraversando l’oceano. Secondo un’altra opinione, che fu diffusissima, così in Oriente, come in Occidente, e in Oriente è viva tuttora, Adamo ed Eva vissero gli anni del loro esilio nell’isola di Serendib, o Ceilan.
Questa credenza è, senza dubbio, di origine maomettana, o, piuttosto, è una credenza buddistica trasformata da maomettani; ed ecco in qual modo. Credevano, e credono ancora i buddisti, che il Budda soggiornò alcun tempo sopra un monte dell’isola di Ceilan, chiamato Langka dai bramani del continente; che quivi menò vita contemplativa; e che sollevandosi poi al cielo, lasciò nella rupe la impronta del proprio piede, visibile a tutti. I maomettani, usando un procedimento assai frequente nella storia delle leggende, riferirono ad Adamo quanto si narrava del Budda, e le due tradizioni continuarono a vivere l’una accosto all’altra. Di ciò ci porge una curiosa testimonianza Marco Polo nella relazione dei suoi viaggi. Egli dice che l’isola di Ceilan, sulla cima di un alto monte, al quale non si può salire se non con l’ajuto di catene, è un sepolcro, che i Saracini dicono essere di Adamo, e gli idolatri (intendi i buddisti), di Sergamon Borcam. Il séguito del racconto mostra che questo Sergamon non è altri che il Budda, il quale andò soggetto, come è noto, ad un’altra consimile trasformazione diventando il santo Josafat della leggenda cristiana. Gli Arabi chiamarono il monte Rahun, e il primo loro scrittore che abbia fatto ricordo della leggenda sembra essere stato Suleymân. Edrîsi, il quale scrisse il suo trattato geografico alla corte di Ruggero II di Sicilia, nel 1154, Edrîsi, il quale attesta, fra tant’altre cose, d’aver visitato la grotta dei Sette Dormienti presso Efeso, e d’aver veduto i loro corpi tra l’aloe, la mirra e la canfora, non s’intende bene se morti, o sopiti di nuovo, riferisce la leggenda del monte, da lui chiamato el-Rahuk. A suo dire, narrano i bramani esservi sulla vetta del monte l’impronta del piè di Adamo, lunga settanta cubiti e luminosa. Da quel punto, con un passo, Adamo giunse al mare, ch’è lontano due o tre giornate. Dicono inoltre i maomettani che Adamo, cacciato dal Paradiso, cadde nell’isola di Serendib, e quivi morì, dopo aver compiuto un pellegrinaggio al luogo dove poi doveva sorgere la Mecca. Una descrizione del monte si trova pure nei viaggi d’Ibn-Batûta.
La leggenda passò d’Oriente in Occidente, e dai maomettani ai cristiani; e il monte di Ceilan, chiamato poi dai Portoghesi Pico de Adam, diventò celebre. Eutichio, patriarca d’Alessandria (m. 940) dice solo che Adamo fu cacciato in un monte dell’India; ma il monte è poi sempre quello di Ceilan. Odorico da Pordenone lo descrive succintamente, e narra che nella sommità di esso era un lago che quelli dell’isola dicevano formato delle lacrime piante da Adamo e da Eva per la morte di Abele. Giovanni de’ Marignolli ha un racconto più particolareggiato e più esplicito. L’angelo di Dio prese Adamo, e lo posò sul monte di Ceilan, e l’impronta del piede di Adamo rimase miracolosamente impressa nel marmo, lunga due palmi e mezzo. Sopra un altro monte, lontano dal primo quattro piccole giornate, l’Angelo posò Eva, e i due peccatori stettero disgiunti, immersi nel lutto, quaranta giorni, trascorsi i quali, l’angelo condusse Eva ad Adamo, il quale era ormai disperato. Sulla prima montagna erano, oltre l’impronta del piede, una statua seduta, con la destra stesa verso l’Occidente; la casa di Adamo; una fonte di purissime acque, le quali si credeva venissero dal Paradiso, e in cui eran gemme, formate, secondo le opinioni di quegli abitanti, delle lacrime di Adamo; un orto pieno d’alberi che recavano ottimi frutti. Molti pellegrini si recavano a visitare il santo luogo. Sulla fine del secolo XVII, Vincenzo Coronelli diceva ancora che sulla cima del monte era sepolto Adamo, e che ci si vedeva un lago formato dalle lacrime versate da Eva per la morte di Abele. Quest’ultima affermazione contraddiceva a un’altra credenza, che non sembra, per altro; sia stata molto diffusa. Il già ricordato Burcardo di Monte Sion dice che nel fianco di un monte, nella valle d’Ebron, era la spelonca ove Adamo ed Eva piansero cent’anni la monte di Abele, e che ci si vedevano ancora i letti su cui avevano dormito, e la fonte delle cui acque avevano bevuto.
Se fu posta sulla sommità del monte di Ceilan, la sepoltura di Adamo fu posta pure in molti altri luoghi. Secondo una leggenda orientale, Adamo fu seppellito nel Paradiso terrestre; e nella già più volte ricordata Vita latina si dice il medesimo; e nell’Apocalissi greca si dice anche di Eva. Ma questa credenza non ebbe molto favore. Nel Testamento di Adamo si narra che Adamo fu seppellito a oriente del Paradiso, e che gli stessi angeli e le Virtù del cielo ne fecero i funerali. Nel Combattimento di Adamo ed Eva il racconto si arricchisce di particolari a questo riguardo, e si narrano parecchie vicende a cui andò soggetto il corpo del primo genitore. Adamo mancò l’anniversario del giorno in cui fu creato, ricorrendo l’ora in cui fu espulso dal Paradiso. Il suo corpo fu deposto nella caverna dei tesori, dove andarono a raggiungerlo a mano a mano i corpi degli altri patriarchi. Avvicinandosi il Diluvio, Noè e i figliuoli tolsero, per comandamento divino, dalla caverna il corpo di Adamo, insieme con l’oro, l’incenso e la mirra che v’erano raccolti, e lo portarono nell’Arca, lasciando gli altri corpi nella caverna, la quale fu chiusa da Dio per modo da non lasciarne veder segno; e così rimarrà sino al giorno della risurrezione. Molti anni dopo, morto Noè, Sem e Melchisedec traggono, per ordine di Dio, il corpo dall’Arca, e, guidati da un angelo, vanno a seppellirlo sul Golgota. Ecco qui la leggenda celebre che vuole sepolto il peccatore nel luogo stesso ove dovrà poi sorgere la croce del redentore, e che narra bagnata del prezioso sangue di questo il capo ribelle che non aveva saputo piegarsi al divino comandamento. Di questa, che è certo leggenda mirabile, s’ispirarono le arti del disegno: il teschio che in infiniti quadri si vede fuor di terra, appiè della croce, è il teschio di Adamo. Alcuni eretici si spinsero più oltre nei liberi campi della fantasia: essi identificarono il redentore col peccatore, fecero passa l’anima di Adamo prima in Davide, poi in Cristo. E Cristo fu anche detto secondo Adamo. Vogliono alcuni Padri della Chiesa greca che la tradizione, la quale dice Adamo sepolto sul Golgota, sia di origine giudaica: concesso pure che tale sia la sua origine (e gli Ebrei dovevano essere naturalmente tratti a raccostare il padre del genere umano a Gerusalemme), bisogna riconoscere che quella tradizione aveva ogni desiderabil carattere per farsi accettar da’ cristiani. Sant’Agostino esprimeva il pensiero e il sentimento di molti quando mostrava che alla riparazione nessun altro luogo poteva esser più acconcio di quello ove giaceva sepolto il colpevole. Accostandosi a certi racconti di cui dovrò parlare più innanzi, e seguitando una opinione professata da parecchi rabbini e da parecchi Dottori cristiani, dice l’inglese Sevulfo, nella relazione del viaggio che fece in Palestina negli anni 1102-1103, che Adamo era seppellito nella valle d’Ebron, insieme con Abramo, Isacco e Giacobbe. Di così ingegnosi collegamenti non si dilettarono, del resto, solamente gli ebrei e i cristiani: secondo una delle tradizioni maomettane, Adamo fu seppellito a poca distanza dal luogo ove doveva sorgere la Mecca, sul monte Abù-Cais, oppure sul monte Arafat, dove Adamo si ricongiunse con Eva dopo centovent’anni di separazione.
Adamo ed Eva lasciarono, com’è ben naturale, lungo ricordo di sé, del loro peccato, e della punizione che gli tenne dietro, nella loro progenie, defraudata per essi della felicità a cui Dio la voleva chiamata, e data in preda a inenarrabili sciagure. Non si può aprire libro di sacro argomento senza incontrare i loro nomi, e un qualche cenno della istoria loro. Per secoli, durante tutto il medio evo, essi furono vivi nella coscienza dei credenti, che sognavano e agognavano, nella comune desolazione, la perduta felicità. Ai tempi di Michele Psello (sec. XI) si vedevano in un luogo di Costantinopoli le statue di Adamo ed Eva accanto a quelle della prosperità e della fame. Nella solitudine dei chiostri, i monaci si proponevano a vicenda indovinelli, cui porgevano argomento Adamo ed Eva, domandando per esempio: Chi morì senz’esser mai nata? Nei Misteri si vedeva la creazione dei due primi parenti, e tutta la storia dolorosa della tentazione e del peccato, sceneggiata. Nelle epopee francesi del medio evo sono molto frequenti le preghiere poste in bocca a tale o talaltro dei personaggi, e quelle preghiere cominciano assai spesso con un cenno alla creazione dei due progenitori e al peccato da essi commesso. Non era forse uscita da quel peccato tutta, la storia dell’uman genere? I versi d’Alcuino esprimevano a questo riguardo la credenza e il rammarico di un infinito popolo:

Postquam primus homo paradisi liquerat hortos,
Et miseras terme miser adibat opes:
Exiloque gravi poenas cum prole luebat,
Perfidiae quoniam furta et maligna gerit:
Per varios casus mortalis vita cucurrit,
Diversosque dies omnis habebat homo

Ma lasciamo ora, per ritrovarli ancora una volta un po’ più innanzi, Adamo ed Eva, e volgiamoci ad altri abitatori del Paradiso.
Primi ci si presentano Enoch ed Elia, il patriarca il profeta che mai non pagarono il debito loro alla morte, e vivi furono sottratti alla vista degli uomini. La tradizione che entrambi li pone ad abitare nel Paradiso terrestre è assai antica, e comune così ad ebrei come a cristiani: essa aveva una sua ragion naturale nel pensiero che chi scampava per divina grazia alla morte dovesse rientrar nel luogo ove la morte non poteva aver potestà, ov’era l’albero della vita. Sant’Ireneo, Tertulliano, Sant’Agostino, Mario Vittore, Gregorio di Tours, Santo Aldelmo, altri assai, così del tempo più antico, come del medio evo, la ricordano, e se i più l’accettano, parecchi ancora la rifiutano. Un dubbio rimane, se il luogo dove i due santi soggiornano da secoli sia proprio il Paradiso terrestre. Nell’apocrifo Libro d’Enoch è detto che nessuno mai conobbe il luogo ov’ebbe ricetto il patriarca; e Alano de Insulis, per non recare altri esempii, in uno degli scritti suoi dice che il santo fu trasportato nel Paradiso terrestre, e in altro ch’egli fu trasportato, sia nel Paradiso terrestre, sia in luogo a noi occulto. Ma questo dubbio fu di pochi. Le leggende medievali ci mostrano assai spesso Enoch ed Elia nel Paradiso; e nel Paradiso li pongono Fazio degli Uberti e Federigo Frezzi; e Dante non dice qual ragione l’abbia indotto a non lasciarveli vedere.
Tradizioni simili a queste hanno i maomettani, i quali narrano che Enoch, da essi chiamato Edris, ed Elia (Kheder, Khidr) trovarono la fontana di vita, e avendo bevuto delle sue acque non conobbero la morte; essi sono pressoché sempre in moto per vegliare alla sicurezza dei pellegrini che si recano alla Mecca, e solo di tanto in tanto riposano in un paradiso ripieno di tutte le delizie. Il viaggiatore Abulfauaris dei Mille ed un giorno trova Elia e Kheder (qui Kheder è diverso da Elia) in un paradiso serbato agli amici e discepoli del profeta.
Enoch ed Elia compajono di solito vecchissimi, sebbene questa loro vecchiezza male s’accordi con la credenza che nel Paradiso terrestre fosse la fontana di giovinezza. Essi non sono mai morti, e serbano il corpo che già ebbero mentre furon tra gli uomini; ma non per questo si sottrarranno alla comune e inflessibil legge cui è soggetta tutta la discendenza d’Adamo. La morte loro è solamente differita. Alla fine dei tempi essi torneranno sulla terra d’esilio, e combatteranno contro l’Anticristo, e saranno uccisi da lui, ma per risuscitare poco dopo, ed essere assunti alla gloria eterna del cielo. Questa credenza suggerita, per una parte, dalla opinione che i due santi dovessero, come tutti gli altri uomini, andar soggetti alla morte e alla risurrezione, e per un’altra, da ciò che nell’Apocalissi è detto di due testimoni non nominati, i quali saranno uccisi dalla bestia diabolica e poi risusciteranno, questa credenza ebbe tra’ cristiani grandissima diffusione. Non senza variare tuttavia in parecchi particolari. Così qualche scrittore aggiunse terzo campione ai due primi San Giovanni: altri fece compagno ad Elia, non già Enoch, ma Mosè, o Geremia, o Eliseo; altri parlò del solo Elia. I rabbini favoleggiarono di un ritorno di Elia pel tempo della venuta del Messia, e poi pel tempo della irruzione dei popoli di Gog e Magog. Non sarà fuor di luogo ricordare a questo proposito che Lao-Tseu si tolse agli occhi degli uomini ritraendosi sulle cime del Kuen-lun, ov’è il paradiso dei Cinesi; e che la rimozione, o segregazione (quella che i Tedeschi chiamano Entrückung) degli eroi, o di altri personaggi tra l’umano e il divino, è tema comune a molte mitologie.
Nell’Evangelo di Nicodemo Enoch ed Elia accolgono nel Paradiso terrestre le anime che Cristo ha liberate dall’Inferno, e a capo delle quali è Adamo. Che quel Paradiso dovesse esser luogo di dimora pei giusti e per gli eletti, fu opinione seguitata da molti, così tra gli ebrei come tra’ cristiani, e assai naturalmente suggerita dal pensiero che le anime riscattate da Cristo dovessero racquistare quanto la diabolica frode aveva fatto loro perdere. Sant’Isidoro Pelusiota (sec. V) dice che i giusti risorti saranno accolti da Cristo nel Paradiso terrestre, come nella propria lor patria, dalla quale li ha esclusi il peccato; è nel già più volte citato Combattimento di Adamo Dio promette al peccatore che il giorno in cui scenderà nel regno dei morti, e spezzerà le ferree porte dell’Inferno, condurrà le anime dei giusti nel giardino di beatitudine.
Ma la credenza prese, come si può bene immaginare, più forme, e se da molti fu accolta, fu pure da molti contraddetta. Nel Libro di Enoch, il quale, non tenendo conto di certe aggiunte posteriori, fu composto, secondo la più probabile opinione, oltre a cent’anni prima di Cristo, è fatta menzione del giardino ove abitano i giusti e gli eletti, e tale giardino è, senza dubbio, quello stesso di Adamo. Nel racconto di Rabbi Giosuè, figliuolo di Levi, ricordato di sopra, e in un altro racconto rabbinico, ove si narra un’avventura di Alessandro Magno, e del quale dovrò far parola più innanzi, si dice similmente che il Paradiso terrestre è luogo di dimora ai giusti, e nel secondo si soggiunge, sino all’universale Giudizio.
Tra’ cristiani, i più di coloro che pensarono dovere i giusti aver ricetto nel Paradiso terrestre, asserirono che questo loro soggiorno sarà temporaneo, e durerà solo sino alta risurrezione e al Giudizio, dopo il quale ascenderanno in cielo. Taluno di essi volle usata ai soli martiri cotal grazia; mentre altri, o sostennero la opinione che giusti e rei sono accolti in un luogo medesimo sino al novissimo dì, o concedettero ai giusti d’entrare nel Paradiso celeste immediatamente dopo la morte. Quest’ultima opinione trionfò dopo il V secolo, e riuscirono vani gli sforzi con cui Giovanni XXII tentò di far prevalere la contraria dottrina, che gli eletti non saranno ammessi alla beatifica visione di Dio se non dopo il Giudizio universale. Ciò nondimeno, questa dottrina, che l’Università di Parigi condannò come ereticale nel 1240, si vede implicitamente professata in alcune leggende, delle quali dovrò dire più oltre, e in parecchie Visioni. In esse, il luogo ove i giusti attendono il gran giorno, è talvolta il Paradiso terrestre, espressamente nominato, e talvolta un luogo non nominato, che può essere, o non essere, secondo i casi, il Paradiso. Beda narra di un uomo di Nortumbria che, pellegrinando nel mondo di là, giunse a una pianura fiorita e ridente, inondata di luce, chiusa da altissimo muro, e popolata di innumerevoli beati vestiti di bianco, i quali, non essendo stati perfetti in vita, attendono ivi il Giudizio. Non dice che fosse quello il Paradiso terrestre. Nel racconto di cert’apparizione, riferito da Gervasio da Tilbury, è fatto cenno di un Purgatorio nell’aria, e di un altro luogo, più remoto dalla terra, dove le anime dei giusti aspettano il novissimo giorno. Il monaco di Evesham, di cui narra la Visione di Matteo Paris, trovò, dopo essere uscito dai luoghi di punizione, anime beate, che soggiornavano in campi luminosi e fiorenti, separati dal Paradiso da un muro di cristallo. Nella Visione di Tundalo si parla di anime non abbastanza buone per meritare il cielo, le quali si stanno esultanti in una dilettosa campagna; ma non è detto che questa campagna sia il Paradiso terrestre, sebbene possa farlo credere la fontana di vita che vi si trova. Per contro nell’Apocalypsis Pauli sono anime beate, le quali aspettano nel Paradiso terrestre il giorno del Giudizio, in compagnia di Enoch ed Elia; e il medesimo si ha nella leggenda del Pozzo di San Patrizio, nella visione di Frate Alberico e in altre.
Quel Thurcill, di cui narra la Visione il testé ricordato Matteo Paris, trovò nel Paradiso terrestre, seduto appiè di un albero meraviglioso, accanto alla fonte da cui scaturiscono i quattro fiumi, il primo padre Adamo, il quale sembrava ridere con un occhio e pianger con l’altro, ed era coperto di una veste di più colori e di meravigliosa bellezza. Egli rideva pensando ai discendenti suoi che andrebbero a vita eterna, e piangeva pensando a quelli che andrebbero a eterna dannazione. La sua veste non era intera, ma andava crescendo per le virtù dei giusti, simboleggiate nei colori di quella: quando sarà tutta compiuta il mondo avrà fine. Una Visione molto simile a questa narra di un novizio cistercense Vincenzo di Beauvais, il quale ne trae il racconto di Elinando. Qui nulla è detto di altri eletti che si trovino nel Paradiso; ma non si esclude che ci sieno. Altrove si ha notizia di altri particolari eletti, di cui si recano i nomi, sia poi che ad essi diensi pochi compagni soltanto, o moltissimi, quanti posso no essere i giusti. I rabbini nominano di proposito, oltre ad Enoch ed Elia, il Messia che deve venire, Elieser, servitore di Abramo, Hiram, re di Tiro, il quale, montato in superbia, ne fu espulso e precipitato nell’inferno, e alcun altro, nove e tredici in tutto. Nell’Apocalypsis Pauli è fatto speciale ricordo, oltreché della Vergine Maria, la quale non è da considerare come abitatrice ordinaria del Paradiso terrestre, e di Enoch e di Elia, anche di Abramo, d’Isacco, di Giacobbe, di Giuseppe, di Mosè, d’Isaia, di Geremia, di Ezechiele e di Noè. Frate Alberico dice che di coloro che sono nel Paradiso San Pietro gli nominò soltanto Abele, Abramo, Lazzaro e il buon ladrone. L’ingresso del buon ladrone nel Paradiso terrestre è descritto nell’Evangelo di Nicodemo, dove si dice pure che dei redenti da Cristo egli fu il primo a penetrarvi. Altrove sono ricordati i nomi di Giosuè, di Salomone, e, con assai maggior frequenza, di San Giovanni evangelista. Credevasi generalmente che in conformità di alcune parole pronunziate da Gesù a suo riguardo (Si eum volo manere donec veniam, Gv., 21, 22 e 23) l’apostolo prediletto non fosse mai morto, e aspettasse, per ricomparire, il ritorno del suo maestro. Gregorio di Tours racconta che San Giovanni si fece seppellir vivo e che dal suo sepolcro scaturiva manna. Isidoro di Siviglia ripete questa notizia, e dopo lui la ripetono parecchi, alterandola più o meno; e fra i parecchi sono Brunetto Latini e il Mandeville, il quale ultimo non dice cosa punto nuova quando dice che il santo era stato portato in Paradiso, e nel sepolcro suo non si trovava se non manna. L’Ariosto, facendo accogliere Astolfo da San Giovanni nel Paradiso terrestre, si conformava a modo suo a una tradizione assai antica[8]. Un’altra leggenda fa entrar San Giovanni nella numerosa famiglia dei Dormienti, e narra che l’apostolo dorme in una caverna vicina ad Efeso, aspettando le ultime battaglie della fede e il ritorno di Cristo.
Secondo una opinione che discorda da tutte le precedenti, gli eletti non entreranno nel Paradiso terrestre, il quale alle volte diventa tutt’uno col celeste, se non dopo il Giudizio universale. Da altra banda i Chiliasti pensarono che tutta la terra dovesse diventare, in certo qual modo, Paradiso terrestre durante i mille anni del regno di Cristo, prima dell’ultimo sovvertimento finale.
Ma il beato giardino non fu abitato solamente da uomini: esso fu ancora abitato da bruti, i quali vincevano di molto in dignità, in bellezza ed in senno i loro simili della terra d’esilio, ed erano per ogni rispetto tali da aggiunger vaghezza alla santa dimora. Non solo mostravansi pieni di benignità e mansuetudine; ma ancora, secondo afferma San Basilio, parlavano assai sensatamente; e la leggenda maomettana racconta che il cavallo Meimun rinfacciò ad Adamo, suo signore, il commesso peccato. Com’è noto, nel paradiso di Maometto sono parecchi animali, fra gli altri il cammello del Profeta, e l’asino su cui Gesù entrò in Gerusalemme e una leggenda tedesca narra di un paradiso degli animali, dove questi, sotto la tutela di Dio, vivono in piena tranquillità ed innocenza. Vogliono alcuni che tutti gli animali parlassero in origine, e che perdessero la favella in séguito al peccato.
Fra gli animali del Paradiso tengono il principal luogo gli uccelli, i quali empiono tutto il giardino dei loro dolcissimi canti. Non è descrizione del santo luogo che non ricordi espressamente, insieme con l’altre, anche questa delizia; e in più leggende particolari è detto tale essere l’armonia e la soavità di quei canti da forzare al sonno chiunque li ascolti. L’uccello del Paradiso è spesso descritto nel medio evo per la sua gran bellezza, e il nome suo indica la sua presunta origine. Francesco da Barberino scrive meraviglie di due uccelli bianchi che sono nel Paradiso terrestre; e una leggenda dei Copti cristiani narra che il gallo fu messo in Paradiso per aver rivelato a Cristo il tradimento di Giuda.
Ma di quanti uccelli poterono ornare e rallegrare di lor presenza il Paradiso, il più mirabile fu, senza dubbio, la Fenice, quell’una e immortale Fenice, di cui tanto aveva favoleggiato l’antichità, e di cui tanto ancora doveva favoleggiare il medio evo. Le ragioni che dovevano favorire, anzi richiedere, l’introduzione della Fenice nel Paradiso son quelle stesse che noi abbiam già veduto operare in altri casi analoghi: tutto quanto si sottraeva alla morte, a quella morte ch’era apparsa nel mondo come un effetto del peccato, apparteneva in certo qual modo al Paradiso, stanza naturale dell’innocenza e della vita. I rabbini spiegarono la immortalità della Fenice narrando che tutti gli uccelli mangiarono, insiem con Eva, del frutto proibito, salvo quella, che perciò rimase immortale. Per i Dottori cristiani il meraviglioso uccello diventò un vivente simbolo della risurrezione, del rinnovamento mediante il battesimo, della felicità restaurata, della vita eterna, e sono senza numero quelli che ne parlano. Come di simbolo ne usò l’arte cristiana sino dai primi tempi, ritraendo la immagine sua sopra monete, in sepolcri, in mosaici; ponendola accanto a quelle di Cristo e dei santi; facendone più tardi una figura del Redentore medesimo. Secondo Alcimo Avito, la Fenice raccoglie in Paradiso gli aromati con cui forma il vitale suo rogo. Non m’indugerò a ripetere le descrizioni che di essa si leggono nei Bestiarii, e in altri trattati del medio evo, come sarebbe ilTresor di Brunetto Latini. Dirò solo che della sua esistenza nessuno dubitava; che il Prete Gianni asseriva d’averla in quel suo fortunato paese; e che il Mandeville, il quale pretende d’averla veduta due volte, la dipinge più grossa d’un pavone, con una specie di corona in capo, le ali e la coda color di porpora, il dorso turchino, e tinta di tutti i colori dell’arcobaleno quando il sole la illumina. Il Petrarca vide un giorno, sognando desto,

Un strania fenice, ambedue l’ale
Di porpora vestita e ’l capo d’oro;

ma il Tasso, il quale osa dirla

Augello eguale alle celesti forme,

ne fa una pittura ben più pomposa nel poemetto che appunto s’intitola La Fenice. Né m’indugerò a dire dell’altre sue meraviglie; del modo che teneva per abbruciarsi, anzi per rinnovarsi; e del tempo che si diceva passare tra uno e un altro rinnovamento, e che varia, secondo le opinioni, da 500 a 7000 anni. Noterà solamente, parendomi abbia più stretta relazione col nostro argomento, che le fu attribuita anche una certa virtù curativa, conveniente, del resto, alla natura del luogo ove credevasi da molti ch’essa dimorasse. Secondo certa versione di una leggenda che io ho già ricordata più sopra, i tre figliuoli del re infermo vanno in cerca, non della fontana di giovinezza, o di vita, ma della Fenice, che restituisca la sanità al padre loro.
Un’altra finzione fece compagno della Fenice, nel Paradiso terrestre, il pellicano, simbolo anch’esso di Cristo, che dà col proprio sangue la vita ai peccatori.
Certi monaci, della cui leggenda ho già fatto cenno e dovrò dar ragguaglio più oltre, videro nel Paradiso, fra molt’altre meraviglie, «una fontana lunga uno quinto miglio, et era ampia secondo che rispondeva alla grandezza (lunga e larga per spazio di miglia cinque, secondo altre redazioni) et era piena di pesci, i quali cantavano tanto dolcemente, che quasi ogni creatura umana vi sarebbe dormentata, tanto era soave e dolce a udire. E questo canto facevano a certe ore canoniche del dì, quando udivano cantare gli angioli del Paradiso».
E basterà degli abitatori.
Note
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<[1] «Paradiso», XIII, 43-4
[2] connato: nato insieme, innato (B.)
[3] 15 «Paradiso», XXVI, 124-26.
[4] L. I, cap. 6
[5] «Paradiso», XXVI, 139-42.
[6] «Purgatorio», XXXIII, 61-3; «Paradiso», XXVI, 115-7.
[7] Bisogna per altro riconoscere che la dottrina cristiana, coprendo di disprezzo la carne e di vergogna l’atto generativo, legittimò così fatte stranezze. Pei catari, e per altri eretici, la copula fu una frode del diavolo.
[8] Orl. Fur. XXXIV, 54-9.
Capitolo IV
I viaggi al Paradiso terrestre

Fu comune opinione tra coloro (ed erano di gran lunga i più) i quali ponevano il Paradiso terrestre in questa nostra terra, e lo dicevano tuttavia esistente, che esso, o non si potesse per nessun modo trovare dagli uomini, o, se pur si poteva trovare, fosse loro impossibile di penetrarvi. I Padri sono concordi su questo punto. La impossibilità di penetrarvi si faceva venire, di solito, dal volere divino, per decreto del quale il Paradiso terrestre doveva, dopo il peccato, rimanere inesorabilmente chiuso ai viventi; ma si faceva anche venire da difficoltà naturali, che non lasciavano via da passare a chi avesse in animo di recarvisi. Brunetto Latini, ripetendo quanto molti avevano affermato prima di lui, dice nel Tresor: Et sachiez que après lou pechiéz dou premier hom, cist leus fu clos à touz autres. E nel Tesoretto, parlando di Adamo:

Per quel trapassamento
Mantenente fu miso
Fora del Paradiso,
Dov’era ogni diletto,
Senza niuno eccetto
Di freddo o di calore,
D’ira né di dolore.
E per quello peccato
Lo loco fue vietato
Mai sempre a tutta gente

Che anche Dante avesse il monte del Paradiso in conto d’inaccessibile, sembra risulti dal racconto che Ulisse fa del suo viaggio (folle volo) nell’oceano. Il Geografo Ravennate s’ingegna di mostrare, con ogni maniera di buoni argomenti, come non sia possibile agli uomini penetrare nel Paradiso; e il Mandeville, cui duole di non averlo potuto visitare, dice, ripetendo ancor egli cose già dette da altri, che molti tentarono inutilmente di andarvi, e che l’altezza, e l’asprezza dei monti, e le strane fiere che intestano il paese d’intorno, non lasciano che nessun vi s’accosti. Ne’ Fioretti della Bibbia si legge: «Questa montangnia si dice ch’è si alta et dura e aspra fortemente e sì maravigliosa che neuno huomo per sua bontà non vi poté mai salire, né là drento intrare, secondo quelli che vi sono stati nel paese». Perciò Fazio degli Uberti lo dice un monte ignoto a tutta gente, e Giovanni di Hese lo descrive altissimo, con le pareti a perpendicolo, a guisa di torre, ita quod nullus potest esse accessus ad illum montem.
Ricordiamoci che per gli antichi gli Elisii erano reclusum nemus, discretae piorum sedes, regna impervia vivis; e che frugando nelle memorie mitologiche e nelle leggende, molti, altri esempii si trovano di luoghi o vietati, o inaccessibili. Del paese degl’Iperborei dice Pindaro che non vi si può andare né per terra, né per acqua. All’isola dov’era l’Orto dell’Esperidi, serbato agli dei, nessuna nave poteva approdare; e al monte Kâf degli Arabi non si perviene se non per arte magica; e all’isola Bulotu, immaginata dagli abitanti di Tonga, non si approda se non per volontà degli dei. Il Mons Romuleus (Rocciamelone), ove un re Romolo raccolse in, gente quantità di tesori, è descritto come inaccessibile nel Chronicon Novaliciense; e di una montagna inaccessibile, a poca distanza dalla città di Die, nel Delfinato, parla uno scrittore francese del secolo XVII.
Ma, a dispetto di chi diceva che non ci si poteva andare, e di chi affermava che nessuno di coloro che avevan corsa felicemente tutta la via era poi riuscito a penetrarvi, parecchi, in vani tempi, ebbero desiderio di tentare l’avventurosa impresa; e se di alcuni la leggenda narra che non fu dato loro di passare il formidabile muro di fuoco o di diamante, e la ben custodita porta, di altri narra che superato ogni ostacolo, penetrarono veramente nell’impareggiabil giardino, e vi fecero alcuna breve o lunga dimora, e ne tornarono per dare altrui alcun debole ragguaglio delle sue inenarrabili meraviglie. Ricordiamo, anche a questo proposito, che gli Elisii antichi furono, più di una volta, penetrati da vivi, e che altri consimili esempii si trovano in altre mitologie. Le leggende che ora io mi accingo ad esporre sono assai varie, non solo per la qualità delle cose che narrano, e pel modo della narrazione, ma ancora pel diverso spirito che le informa, e la ragione ond’hanno principio. Alcune hanno carattere spiccatamente ascetico, e pajon dettate da un’indomabile fervore di fede e di desiderio; altre hanno carattere spiccatamente romanzesco, e pajon dettate più che da altro sentimento o pensiero, da quella immaginosa e inquieta curiosità, da quel vivo amor del meraviglioso che nelle fortunose epopee, nei lunghi romanzi di avventura, si agitano, ma non si appagano. Molte di esse son figlie tutte ideali della fantasia; ma parecchie ve n’ha, le quali pur solvendosi, come l’altre in un sogno, muovono tuttavia da alcun che di reale. Nessuno di questi viaggi, per certo, ebbe suo compimento nel Paradiso terrestre; ma più d’uno fu, anziché immaginato da narratori, impreso davvero da pellegrini e da naviganti. Ben s’intende come queste distinzioni, che io ho accennate, sieno, del resto, assai più agevoli e sicure in teorica che non in pratica: e se nelle pagine che seguono io mi studierà di tenere un ordine che ad esse corrisponda, questa corrispondenza sarà soltanto approssimativa, e quell’ordine avrà tanto di rigore quanto ne può concedere la natura stessa delle cose, e non più.
Ecco qua, anzi tutto, una leggenda celebre, la quale inspirata bensì da quel fervore di fede e di desiderio che informa l’altre di carattere più risolutamente ascetico; ma vuoi essere pure considerata come una naturale espansione e prosecuzione storica, se così posso esprimermi, di un tema leggendario anteriore, in quanto viene ad esplicare ed a compiere, in conformità di certi postulati della coscienza religiosa, una storia mitica non compiuta e non chiusa. Intendo dire la leggenda di Seth, mandato dal padre infermo, e giù vicino a morte, al Paradiso terrestre per procacciare l’olio della misericordia. Questa leggenda ebbe a congiungersi poi con quella del legno della croce, e delle due se ne formò una assai complessa, la quale nel medio evo più tardo, a partire dal XII secolo, ebbe così gran diffusione che nessun’altra ebbe l’eguale. Tale leggenda ci pervenne in narrazioni di tutte le lingue parlate da popoli cristiani, conservata in libri d’ogni titolo e qualità, distribuita in numerose versioni, le quali furono dottamente paragonate fra loro e raccolte in gruppi e categorie. Nella esposizione che segue io dovrà attenermi a pochi racconti principali, e rimandare il lettore desideroso di più minuti particolari alle ottime monografie cui essi diedero argomento.
La prima memoria, sino a noi pervenuta, di un’andata di Seth al Paradiso terrestre, si ha probabilmente in quell’Apocalissi greca da me più volte ricordata nel capitolo prècedente, e, senza giusta ragione, intitolata Apocalissi di Mosè. Quivi si legge che Adamo, giunto all’età di 930 anni, e infermo, mandò Eva e Seth al Paradiso terrestre, per ottenere, a sollievo delle sue sofferenze, l’olio di misericordia. Cammin facendo, Seth è morso dal serpente. Giungono alla porta del Paradiso, ma non ne varcan la soglia: l’arcangelo Michele dice loro che non avranno, per ora, quanto desiderano, e li fa tornare addietro, annunziando che in capo di tre dì Adamo si morrà. Nella Vita latina, pure ricordata nel precedente capitolo, si ha, con lievi differenze, lo stesso racconto: Michele dice ai due pellegrini che l’olio di misericordia non sarà conceduto se non passati 5500 anni; che allora Cristo, figliuol di Dio, scenderà in terra; si farà battezzare nel Giordano, risusciterà Adamo e gli altri morti, e a tutti i credenti in lui largirà l’olio tanto desiderato. Così li accommiata, annunziando che ad Adamo non rimangono se non sei giorni di vita. Si può tener per certo ch’entrambi questi racconti derivino da una fonte più antica, rimasta sinora sconosciuta.
Il racconto della Vita passa nell’Evangelo di Nicodemo, con questa sola diversità di rilievo, che di Eva più non si parla, e Seth compie solo il viaggio, e solo ascolta le rivelazioni dell’angelo. Da indi in poi Eva rimane esclusa dalla leggenda, la quale, come ho detto, si lega all’altra del legno della croce, e fa corpo con essa. Questo congiungimento si può dire che rosse inevitabile, provocato, e in certa maniera imposto, da quei vivo e tenace desiderio cui ho più volte accennato, di raccostare alla caduta la redenzione, di contessere, per così dire, in un’unica trama i fatti dell’una e i fatti dell’altra. Leggende intorno al legno onde fu formata la croce, strumento di redenzione, dovettero sorgere assai per tempo, ed era naturale che alcune, se non tutte, facessero venire quel legno dallo stesso giardino ov’era stato commesso il peccato, e dallo stesso albero che aveva dato esca al peccato. Di più leggende simili, che poi furono sopraffatte da una finzione più rigogliosa, e che meglio appagava il sentimento e la fantasia dei credenti, è rimasta memoria. «Una tradizione greca narra senza più che un ramo dell’albero nel cui frutto peccò Adamo, fu trasportato a Gerusalemme; e ne sorse un grand’albero, donde fu fatta la croce. Altri dicono che Adamo stesso portò seco dal paradiso un frutto o un rampollo dell’albero. Secondo una terza versione Dio dopo il peccato svelse l’albero e lo gittò di là dal muro del paradiso. Mille anni più tardi Abramo lo trovò e lo piantò nel suo giardino. Un angelo (o Dio stesso) gli annuncia che su di esso Dio (egli) verrà crocifisso»[1]. O prima o poi, una di tali leggende doveva incontrarsi con la leggenda di Seth, e mescendosi con essa, dare origine a una tradizione nuova, secondo la quale l’albero onde fu fatta la croce sarebbe venuto da un virgulto, o da semi che Seth stesso riportò dal Paradiso. E in questa forma la leggenda trionfò.
Non può essere còmpito mio tener dietro alle troppe versioni in cui essa ebbe a spartirsi, e al moto de’ suoi vani elementi, i quali senza posa si accozzano insieme, si disgiungono, trapassano da luogo a luogo e gli uni agli altri sottentrano, come fanno i pezzetti di vetro multicolore nelle mutabili figure del caleidoscopio. Io mi contenterò di dar qui la sostanza di un racconto latino, il quale è certamente anteriore alla fine del secolo XIII, e in cui la leggenda appare in tutta la sua pienezza. Questa, nella forma che in esso consegue, «ottenne straordinario favore, e si diffuse per tutta Europa, dall’Irlanda e dalla Svezia alla Spagna, dalla Cornovaglia alla Grecia»[2] dando luogo a traduzioni e rimaneggiamenti innumerevoli.
Adamo ha vissuto 932 anni nella valle d’Ebron, nella terra d’esilio. Egli è stanco di estirpare i rovi dal suolo, stanco del male e dei mali che vede crescer nel mondo, fra la sua posterità, stanco di vivere. Chiama a sé il figliuolo Seth, e lo manda al cherubino che con la spada fiammeggiante sta a custodia dell’albero della vita, per avere da lui certezza dell’olio della misericordia che Dio promise al peccatore il giorno stesso in cui fu commesso il peccato. Va, dic’egli al figliuolo: tu conoscerai il cammino dalle impronte che noi vi lasciammo, tua madre ed io, venendo in questa valle e sulle quali non è più cresciuta l’erba. Seth s’avvia, giunge alla porta del Paradiso. Il cherubino saputa la ragione del suo venire, lo invita a mettere il capo dentro alla porta, e a gettar gli occhi sul giardino: tre volte pronunzia l’invito ed altrettante Seth vi si conforma. La prima volta questi contempla la vaghezza del Paradiso, vede le piante e i fiori, il fonte lucidissimo da cui nascono i quattro fiumi, e sopra esso un’arbore ramosa, ma nuda di frondi e di corteccia. La seconda, scorge un gran serpente avvolto al tronco della pianta. La terza, vede l’arbore elevata sino al cielo, e sulla cima un bambino appena nato, e, da basso, le radici, penetrate sin nello inferno, ove gli si scopre l’anima di suo fratello Abele. L’angelo spiega a Seth la visione, gli annunzia la venuta del Redentore, e, nell’accommiatarlo, gli porge tre granella del pomo fatale onde mangiarono i suoi genitori, ingiungendogli di porli sotto la lingua di Adamo, quando, di là a tre dì, questi sia morto. Seth se ne torna, e Adamo, udite da lui le parole dell’angelo, ride per la prima volta in sua vita (deve intendersi dopo il peccato), e muore. Seth gli pone sotto la lingua i tre semi, e sotterra il padre nella valle d’Ebron, e dai tre semi nascono tre virgulti, di cedro il primo, di cipresso il secondo, di pino il terzo, i quali così si rimangono, senza mai crescere oltre l’altezza di un cubito, e senza mai perdere il verde, sino al tempo di Mosè. Questi, giunto col suo popolo, dopo l’uscita dall’Egitto, nella valle d’Ebron, conosce essere nelle tre verghe alcun che di miracoloso, le toglie di terra, sana con esse coloro che erano morsi dai serpenti, e con esse fa scaturire l’acqua dal sasso; poi, conscio della morte vicina, le ripianta alle radici del monte Tabor, o dell’Oreb, ed entrato, ivi presso, in una fossa, rende l’anima a Dio. Mille anni stanno le verghe in quel luogo, sino a che Davide, per avvenimento del cielo, le viene a levare, e le porta in Gerusalemme, dove, poste in una cisterna, metton radice, e si uniscono in un’unica pianta, cui Davide, per trent’anni di seguito, cinge, ogni anno, di un cerchio d’argento. Davide sa già, per rivelazione divina, che della pianta si farà la croce, per la cui virtù cancellerassi il peccato. E la pianta cresce lo spazio di trent’anni; e sotto di essa piange Davide i suoi peccati, e sotto di essa compone il salterio; poi muore. Salomone gli succede, e dà opera a compiere il Tempio. Un giorno gli artefici, abbisognando di una trave, recidono l’albero miracoloso; ma poi, per quanto si argomentino, non riescono ad adattare il legno ov’era bisogno, e Salomone, chiamato a veder tal miracolo, ordina che il legno sia posto nel Tempio, e da tutti onorato. Una donna per nome Massimilla vi si pone sopra a sedere, e incontanente le sue vesti prendono fuoco, ed ella grida: Signore mio, e Dio mio Gesù; udite le quali parole, gli Ebrei, come bestemmiatrice, la trascinano fuori della città, e la lapidano, facendo di lei la prima martire; poi tolgono la trave dal Tempio, e la gettano nella probatica piscina che, per nuovo miracolo, acquista virtù di sanare gli’infermi. Sdegnati, gli Ebrei tolgon la trave dalla piscina, e la gettano, a mo’ di ponte, sul Siloe, perché sia calcata dai piedi dei passanti. Viene a Gerusalemme la regina di Saba, e ricusa di passare sulla trave, sapendo a che sia serbata, e profetizza il Messia. Venuto il tempo della passione, gli artefici fanno con essa la croce su cui è confitto Cristo.
Ho detto che non intendo tener dietro alle numerose versioni della leggenda; solo ricorderò che in una di esse i viaggi di Seth al Paradiso son due; e che talvolta l’angelo dà a costui, non già le tre granella, come nel racconto testè riferito, ma un ramoscello dell’albero della scienza, e che da quel ramoscello pende ancora, in uno o due casi, parte del frutto morso da Eva.
Il viaggio che nei precedenti racconti si narra di Seth, Gotofredo da Viterbo narra di Jonito (o Jonico) figliuolo di Noè. Jonito, udita dal padre la descrizione delle meraviglie del Paradiso, chiede a Dio in grazia di poterle contemplare con gli occhi suoi proprii, e ottenuto il suo desiderio, ne riporta tre virgulti, di abete, di palma e di cipresso, i quali piantati da lui separatamente, si congiungono in un’arbore sola, che ha tre colori, e le foglie di tre maniere, a simboleggiare la Trinità. Seguono le fortune del legno (le quali in parte solo concordano con quelle narrate nel racconto precedente) finché di esso si fa la croce. Gotofredo cita un Atanasio, il quale è probabilmente immaginato da lui, come da lui probabilmente è immaginato il rapimento di Jonito, al Paradiso, giacché della leggenda, in questa forma, non si trova altro vestigio. Bensì è narrato altrove che un figliuolo di Noè, per nome Jerico, desideroso di vedere la tomba di Adamo si recò nella valle d’Ebron, e trovati i tre virgulti, li svelse, poi li ripiantò, come narra il cronista.
Ma prima di passar oltre, fermiamoci a fare qualche considerazione non oziosa sovra un punto della leggenda di Seth e del legno della croce. Seth vede da prima l’albero del peccato, vedovo di fronde e spoglio della sua corteccia, e io ho già avvertito nel capitolo II che quell’albero è descritto assai volte come un albero secco. Ora, di un Albero Secco, posto, di solito, nel remoto Oriente, e per più ragioni mirabile, è frequente ricordo in iscritture del medio evo. Varian molto le descrizioni che se ne fanno ma io non dubito che, in alcuni casi almeno, esso non sia da identificare con la pianta disseccata del Paradiso, dalla quale; del resto, un poemetto latino, composto circa il 1300, lo fa derivare. Secondo alcune leggende riguardanti la fine del mondo, l’ultimo imperatore appenderà la corona ai rami dell’Albero Secco, o alla croce.
Seth vede poi la pianta mirabilmente ingrandita, e fatta simile ad uno di quegli alberi cosmogonici che in altre mitologie comprendono fra le radici la terra, e, tra i rami e le foglie, il cielo, quali lo skambha vedico, l’ilpa buddistico, l’irminsul e l’yggdrasil della mitologia germanica. Anche la croce fu considerata come un albero, la quale recò ottimo frutto, e talvolta a dirittura come un albero cosmogonico. Venanzio Fortunato così la saluta in un suo inno:

Arbor decora et fulgida,
Ornata regis purpura,
Electa digno stipite
Tam sancta membra tangere;

e in un altro inno ecclesiastico si legge:

Crux fidelis inter omnes
Arbor una nobilis:
Nulla silva talem profert
Fronde, flore, germine.

Come un albero di dolcissimo e vital frutto, e tutto fragrante di fiori, è invocata spesso la croce nelle laudi e come albero di vita in un canto latino del sec. XIV:

Salve, Christi crux praeclara.
Arbor astris pulchrior,
Facta reis ex amara
Mellis stilla dulcior;
Vitae nobis viam para,
Dux effeta gratior.

L’albero della croce diventa una pianta meravigliosa, come si può vedere nell’opuscolo di San Bonaventura intitolato Lignum vitae, ove si leggono questi due versi:

O crux, frutex salvificus, viva funte rigatus,
Cujus tlos aromaticus, fructus desideratus.

Ma già in un Hymnus de Pascha, attribuito a San Cipriano, la croce è diventata una specie di albero cosmico, che s’innalza sino al cielo e dalle cui radici scaturisce una mirabil fonte. I frutti di quello dànno la vita eterna; l’acqua di questa lava d’ogni macchia. Tutta l’umanità trae all’albero meraviglioso. Gerolamo Vida, in un carme In Jhesu Christi crucem, esclama:

Nunc prope numen habes, sancta et venerabilis arbor,
Coelo mina comas caput inter sidera condis.

Il legno della croce fu fatto derivare di solito dall’albero della scienza del bene e del male, ma talvolta ancora dall’albero della vita, o da un altro albero paradisiaco, detto della salute. Secondo una leggenda siriaca la croce fu fatta del legno di un albero che da indi in poi non cessò più di tremare, la tremula. Abbiam veduto come tre virgulti di specie diversa, ma tutti derivati dal medesimo albero, si ricongiungessero insieme per formar di nuovo un albero solo. Stando ad altre immaginazioni, la croce fu veramente formata di quattro legni differenti, palma, cedro, cipresso, olivo; oppure di tre, cedro, cipresso, pino; palma, cipresso, abete. Il numero di tre simboleggia la Trinità. Ricorderò da ultimo che, secondo i musulmani, la legge da Mosè recata agli Ebrei era scritta su tavole formate del legno di un albero Sedr, ch’è nel settimo cielo, e che secondo Mosè Bar-Cefa la lancia con cui fu ferito Cristo era quella stessa del cherubino posto a custodia del Paradiso.
Io qui non parlo di coloro che videro il Paradiso terrestre solamente in ispirito, come suole accadere nelle Visioni; ma di coloro che v’andarono in carne ed ossa; e perciò solo in passando fo cenno della questione agitata per sapere se San Paolo fosse stato rapito in cielo, o nel Paradiso terrestre, o in entrambi. La questione non era ancor risoluta a’ tempi di Torquato Tasso, il quale nelle Sette giornate chiedeva:

E ver che ’l terzo cielo, ove fu ratto
Già Paolo col pensier levato a volo,
Sia terren paradiso?

Nella leggenda che or segue noi abbiamo la favolosa istoria di alcuni pellegrini che non muovono propriamente alla ricerca del Paradiso, ma, dopo molte avventure, giungono in luogo prossimo ad esso, e di là se ne tornano indietro. E questa la leggenda, greca di origine, e certo assai antica, dei tre santi monaci Teofilo, Sergio ed Igino, nella quale noi cominciamo a far conoscenza con quei monaci irrequieti ed audaci, che spinti, non meno da curiosità venturiera, che da certo fervor religioso, disertano i chiostri e si dànno a correr le terre ed i mari attraverso a mille casi e mille pericoli. Essa si lega al nome di San Macario Romano, santo misterioso ed oscuro, il quale non si sa in che tempo sia vissuto, e da taluno si dubita che in niun tempo, e ch’egli sia, come tant’altri un santo mitico.
Tre monaci di un convento di Mesopotamia, posto tra l’Eufrate ed il Tigri, Teofilo, Sergio ed Igino, sedevano un giorno sulla riva di quel primo fiume, e ragionavano devotamente tra loro della umana vita e delle molte tribolazioni che affliggono i servi di Dio. A Teofilo vien nell’animo un desiderio, e lo palesa ai compagni: Io vorrei, egli dice, camminare tutto il tempo della mia vita, e giungere colà ove il cielo tocca la terra. I compagni s’accendono del medesimo desiderio, e nato del desiderio il proposito, tutti e tre, quella stessa notte, si partono dal monastero. In capo di diciassette giorni giungono a Gerusalemme, ove adorano il Sepolcro; dopo cinquanta, passano il Tigri ed entrano in Persia; scorsi quattro mesi, entrano nell’India. Quivi cadono in man degli Etiopi, e soffrono molti maltrattamenti; poi, cacciati dagli Etiopi, rimangono ottanta dì senza prendere cibo alcuno. Andando sempre verso Oriente, attraversano le terre dei Cananei, altrimenti (così il testo) detti Cinocefali; quelle dei Pichiti, alti un cubito; una regione montuosa ed orrenda, tutta popolata di draghi, di aspidi, di basilischi, e altri animali velenosi; un’altra regione, tutta sparsa di rupi asperrime; una gran pianura, ove pascolano mandrie di elefanti; un’altra, ingombra di dense tenebre, e giungono a un’abside eretta da Alessandro Magno quando inseguì Dario. Vivono la più parte del tempo miracolosamente, senza cibarsi, e, proseguendo il viaggio, trovano un lago pieno di anime dannate; un gigante incatenato fra due monti; una donna avviluppata da un dragone; un bosco di grandi alberi, su cui anime in forma di uccelli chiedono ad alta voce perdono dei loro peccati. Succede a questi orribili e strani luoghi un luogo bellissimo, custodito da quattro vecchi, i quali hanno corone d’oro in capo ed auree palme tra mani; poi viene una regione tutta piena di canti e di odori soavissimi, ove brilla una chiesa di vari colori, d’incomparabil bellezza, e che par fatta tutta di cristallo. Intorno ad essa sono uomini santi, di venerabile aspetto, che cantano, e dall’altare scaturisce un fonte, che sembra di latte. Dopo avere incontrato un altro popolo di pigmei, i tre pellegrini giungono la spelonca ove da lunghissimo tempo San Macario mena vita anacoretica, a sole venti miglia di distanza dal Paradiso terrestre, e il santo dice loro che non si può passare più oltre, e che il Paradiso è vietato a tutti i mortali. Udita da lui la sua storia, i monaci riprendono la via per cui sono venuti, scortati sino all’abside di Alessandro da due leoni, compagni amorevoli e consueti del santo.
In questo racconto noi abbiamo un evidente influsso delle storie favolose di Alessandro Magno, comprovato da quel ricordo dell’abside da costui edificata. Leggonsi appunto in esse alcune delle meraviglie incontrate da’ monaci, e altre molte per giunta, delle quali è frequente ricordo in iscritture del medio evo, e che veggonsi pure raffigurate in parecchie mappe. Non intendo discorrere partitamente di tutte quelle che nella leggenda ascetica si trovano, ma di taluna mi pare opportuno dir qualche cosa. Di una specie di regione infernale posta in prossimità del Paradiso terrestre abbiamo già trovato altri ricordi, molto meno antichi di quello che hassi nella nostra leggenda. Della regione tenebrosa, per contro, abbiamo ricordi e più recenti e più antichi. Una regione così fatta descrivesi nelle dottrine cosmografiche dell’India. Di là dal fiume oceano si distende, a occidente della terra, secondo Omero ed Esiodo, il tenebroso paese dei Cimmerii; più tardi esso fu posto a settentrione, intorno ai monti Rifei. Alessandro Magno si spinse un tratto in una regione coperta di tenebre, la quale chiudeva in sé il paese dei beati; e di terre ov’è notte perpetua fanno parola Marco Polo, il Mandeville e altri.
Le anime peccatrici, che i tre monaci trovano in sembianza di uccelli, appajono molto frequentemente in leggende ascetiche del medio evo, quando come anime dannate, quando come purganti; al qual proposito è da ricordare che nel simbolismo cristiano l’anima è consuetamente rappresentata sotto forma di uccello, e che in una delle saghe della Saemundar Edda, intitolata Solar-liodh, è ricordo di anime in forma di uccelli neri. In una leggenda riferita da San Bonifazio, anime purganti, simili nell’aspetto ad uccelli neri, volano intorno a un pozzo, da cui prorompono fiamme ardenti, e nel pozzo si sprofondano.
Seth poté solamente sporgere il capo dalla porta del Paradiso terrestre, e i tre monaci Teofilo, Sergio ed Igino dovettero fermarsi a venti miglia di distanza da esso. Altri furono più fortunati. Ecco qua la leggenda di tre altri monaci, la quale fa degno riscontro alla precedente, sebbene sia da essa molto diversa.
Sulle rive del Gihon è un monistero abitato da uomini di santa vita. Tre di questi, lavandosi un giorno nel fiume, veggono venir giù, portato dalla corrente, un ramo meraviglioso: «l’una foglia pareva d’oro battuto, l’altra pareva d’ariento, l’altra pareva d’azzurro fino, l’altra vermiglia, l’altra era bianca, e così era svariato d’ogni colore». Il ramo recava, per giunta, frutti molto dilettevoli a mangiare. Lo traggono fuori dell’acqua, e mentre lo contemplano, pieni di ammirazione e di allegrezza, senton nascersi in cuore un desiderio smodato d’andarne sin là, all’incantato paese d’onde quel ramo è venuto. E subito, accordatisi in un comune proposito, senza dir nulla a persona, si partono dal convento, e camminando lungo la ripa del fiume, ch’è uno dei quattro del Paradiso, si pongono in viaggio. Giungono, dopo lunga peregrinazione, alla famosa porta custodita dall’angelo, e domandato e ottenuto di varcare la soglia, s’aggirano fra l’ombre e le delizie del giardino immortale, mangiano di quelle frutta soavissime, bevono di quell’acque miracolose che rinnovano la giovinezza e ragionano co’ due vecchiardi Enoch ed Elia delle cose del cielo. Credono d’essere stati nel beato luogo tre giorni, e vi sono rimasti tre secoli. Tornati al convento, che ancora sussiste, ma dove già dieci generazioni di monaci si son succedute, eglino, con l’ajuto de’ vecchi libri memoriali, mostrano e provano la lor condizione, e narrata la storia mirabile del loro viaggio, in capo di quaranta giorni improvvisamente si dissolvono in cenere, e ascendono alla gloria eterna del cielo.
Questa leggenda sembra sia nata in Italia: io non so che si trovi in altri linguaggi volgari, e nemmeno mi è noto un testo latino da cui le redazioni italiane possano essere derivate. Ed è leggenda schiettamente ascetica. Le descrizioni che delle meraviglie del Paradiso vi si leggono sono come penetrate di un’aura di estasi, partecipano del sogno. Il narratore non trova nel linguaggio degli uomini parole acconce ad esprimere la novità e la bellezza degli spettacoli che si offrono agli sguardi attoniti dei tre pellegrini, a significare lo smarrimento di dolcezza onde sono prese le anime loro; e quando vuoi fare intendere altrui, in qualche modo, la virtù rapitrice che muove da un canto non più udito, dice che ogni anima umana vi si sarebbe addormentata, o avrebbe perduto ogni memoria e cognizione di sé. Nella leggenda sono due cose che voglio notare: quel ramo meraviglioso da cui i tre monaci sono allettati al viaggio, e l’error loro quando essendo dimorati nel Paradiso trecent’anni (settecento, in altre redazioni), stimano esservi rimasti solamente tre dì (altrove, sette). Giovanni de’ Marignolli dice che foglie e frutti degli alberi del Paradiso si trovano sovente nei fiumi che da questo derivano. Secondo una tradizione riferita da Mosè Maimonide, Seth riportò dal Paradiso parecchi alberi, tra’ quali uno che aveva le foglie e i rami d’oro; e secondo i musulmani l’albero della vita aveva il tronco simile a dell’oro, i rami come argento, le foglie come smeraldi.
Di quell’alterazione nel corso del tempo, o nel giudizio della sua durata, c’è da dire qualche cosa di più. Essa si produce in numerose leggende, la più celebre delle quali è la tedesca del monaco Felice, non più antica, sembra del secolo XIV. Era costui un monaco cistercense, di ottima indole, di saldissima fede e d’irreprensibili costumi, il quale, leggendo un giorno come la letizia del Paradiso celeste sia eterna, e senza mescolanza alcuna di dolore, cominciò, per la prima volta in sua vita, a entrare in un dubbio, e a disputar seco stesso per che modo possa ciò essere. E il modo gli fece intendere Iddio con un miracolo. Venne dal cielo un augelletto più candido che la neve, il quale si mise a cantare con sì nuova e meravigliosa dolcezza, che il monaco si credette un tratto rapito in Paradiso, e, voglioso di averlo tra mani, si mosse per prenderlo; ma l’augelletto aperse l’ali e sparì. Felice, rimasto pieno di desiderio e di rammarico, ode una campana sonar mattutino, si ricorda del suo convento, e torna addietro. Ma il portinajo non lo riconosce, e non lo vuoi lasciare entrare, e gli dà dell’ubbriaco e del pazzo quando gli ode narrare la storiella dell’augelletto bianco che rapiva l’anima col suo canto. Sopraggiungono gli altri frati con l’abate; ma nessuno riconosce colui che afferma d’aver dimorato quarant’anni nel chiostro. Finalmente il più vecchio della famiglia, il quale v’era stato già ben cento anni, e giacevasi allora infermo, si ricorda che nel tempo in cui egli era novizio, un dei fratelli, per nome Felice, era sparito un giorno di primavera, e non se n’era mai più avuta novella. L’abate fa portare il libro in cui da trecent’anni si registravano le morti dei monaci, e si trova che Felice, il quale credeva d’essere stato assente un ora, era stato assente un secolo. In altre versioni della leggenda il monaco chiede in grazia a Dio un piccolo saggio della beatitudine del Paradiso, o è travagliato da un dubbio, come mai possa un secolo non parere a Dio maggior di un istante ma in tutte è quell’error di giudizio circa la durata del tempo; e tale errore si ripete in alcune leggende paradisiache delle quale dirò or ora, e in altre pure di vario argomento. Narra il Joinville che un principe dei Tartari fu assente tre mesi, e quando tornò credeva l’assenza sua esser durata non più di una sera, ed ebbe nel frattempo una visione, o fu rapito in Paradiso. L’eroe di una leggenda celtica, Oisin, crede di passare in compagnia di una bella fanciulla alcuni giorni solamente, e sono, in realtà, più di trecento anni. Nel racconto di Roberto di Boron, Giuseppe d’Arimatea, sostentato dalla vista del Graal, passa quarant’anni in carcere senz’avvedersene. Secondo Giovanni di Hese, tre giorni passati in quell’isola dilettosa ch’egli chiama Radice del Paradiso, non sembrano durare più di tre ore[3].
Alla leggenda italiana dei tre monaci credo di dover far seguire la leggenda del giovane principe; sia perché italiana, come pare, ancor essa di origine; sia perché presenta con quella dei tre monaci molta somiglianza nello scioglimento e parecchio nello spirito di che è penetrata. Benché italiana, essa si legge in latino e in tedesco, né so che ve ne sia traccia in libri italiani, stampati o manoscritti. La narra, o si vuol che la narri, Eberardo, vescovo di Bamberg, il quale afferma d’averla udita in Italia, dall’abate di un monastero di cluniacensi, posto nelle Alpi. Di vescovi di Bamberg con quel nome, ce ne furono due, l’uno morto nel 1041, l’altro nel 1172; ma è probabile che il nostro sia il meno antico. Ecco, ad ogni modo, compendiato il suo poetico racconto.
Il figliuolo di un principe si ammoglia, e invita alle nozze il suo angelo custode. Giunto il vespro del giorno solenne, egli, che religiosissimo è, monta a cavallo, e si reca a pregare a certa chiesa, che sorge su un monte. Al ritorno incontra un vecchio di venerabile aspetto, vestito di candidi panni, circonfuso di luce, e seduto sopra un mulo tutto candido anch’esso. Compreso di affettuosa reverenza, il giovane prega lo sconosciuto di volere assistere alle sue nozze, e menatolo al castello, quivi il fa signore d’ogni cosa. Si celebrano le nozze pomposamente, e tre giorni dura il banchettare, senza che mai le provvigioni per quanto si profondano, vengano meno. L’ospite finalmente chiede licenza, e da tutti ringraziato e desiderato si parte, accompagnandolo il giovane sposo per un tratto di via. Giungono al luogo ove si sono incontrati la prima volta. Il giovane vorrebbe, tanto amore gli ha posto, abbandonare e la sposa e la patria, e andarne con esso lui; ma quegli il dissuade dicendo: Non ora: fra tre di, se tu vuoi, potrai venirne alla mia stanza. Questo sentiero vi conduce, e qui troverai tu questa mia cavalcatura, la quale ti porterà ove tu brami di essere. Ciò detto si parte. Venuto il giorno segnato, il giovane si accommiata dalla sposa, annunziandole che in breve sarà di ritorno, si mette in via, accompagnato da’ suoi cavalieri, giunge al luogo stabilito, trova il mulo, e licenziati i compagni, monta su quello e segue suo viaggio. Passa una gola tetra ed angusta, e riesce in una campagna di meravigliosa bellezza, piena di ogni maniera di alberi, dipinta di odorosissimi fiori, rallegrata dal canto d’infiniti uccelli. Percorre quattro stazioni, ove sono tabernacoli costellati di pietre preziose, addobbati di seta e di porpora, adorni di tanta ricchezza e splendore che nulla di simile può raffigurare la fantasia. Ciascuna stazione ha numerosi abitatori, vestiti sfarzosamente, raggianti di luce, i quali accolgono con gaudio e con onore il pellegrino. Nella quarta questi trova l’ospite suo, non più solo, ma circondato da molti compagni, tutti vestiti di bianco, tutti fregiati di corone, e più luminosi che il sole. Le accoglienze sono, quanto mai si possa dire, affettuose e magnifiche; il luogo pieno di tanta gloria e di tanta letizia che nessuna parola può darne una immagine. Il giovane vi dimora trecento anni e stima esservi stato tre ore. Indarno la sposa, i congiunti, i cavalieri, i servi, pieni di ansietà e di dolore, aspettano ch’egli torni. Il padre e la madre di lui vanno ad abitare nel luogo ov’egli s’accomiatò dai seguaci, mutano il castello in un chiostro, in una chiesa il palazzo. Volano gli anni muojono i genitori, muore la sposa, muojono l’uno dopo l’altro tutti i soggetti; le generazioni succedono alle generazioni, ininterrottamente. Scorsi trecent’anni il giovane, il quale ha serbata incolume intanto la sua giovinezza, chiede licenza e l’ottiene; ma tornato nella sua terra, trova ogni cosa mutata, e nuove genti, che né lui conoscono, né sono da lui conosciute. Gli appare il castello mutato in chiostro; gli appar la chiesa eminente e magnifica, guernita di torri, dalle quali scoppia un clamor di campane che fa tremare i monti circostanti, e sulla cui sommità sventola, in luogo del vessillo con l’aquila, il vessillo con la croce. Il giovane si dà a conoscere al portinajo del convento. Ecco l’abate, ecco i monaci tutti trasecolati di meraviglia; ecco accorrere d’ogni intorno il popolo tratto al grido di così nuovo prodigio. Il principe narra la sua storia, la quale è messa per iscritto poi l’abate ordina un sontuoso banchetto, raccoglie buon numero d’invitati; ma il principe, come appena ha assaggiato il pan degli uomini, improvvisamente appar vecchio di decrepita, non più veduta vecchiezza. Lo portano in chiesa; e quivi egli, ricevuti i sacramenti, si muore. Il corpo suo, dopo funerali pomposi, è deposto in quello stesso sepolcro ove da secoli già dorme la sposa.
Questa è leggenda risolutamente ascetica, e tale ancora è la leggenda del cavaliere irlandese Owen, che nel 1153, secondo narra Enrico di Saltrey, visitò in carne ed ossa i luoghi di punizione e il Paradiso terrestre, non peregrinando per lunga distesa di terra e di mari, ma scendendo in quel misterioso Pozzo di San Patrizio della cui fama fu pieno per molti secoli il mondo. Vedremo in seguito che anche altri prese, per giungere al Paradiso, quella medesima strada, non certo più comoda, ma molto più breve.
Il cavaliere Owen, dopo una vita di dissipazione e di peccato, fu preso da pentimento, e cercò modo di scontare, mentr’era ancora vivo, la pena che troppo temeva di dover pagare dopo la morte. A tal fine si fece introdurre nella cava di San Patrizio, la quale dava adito ai regni dei morti, e cominciò il meraviglioso suo viaggio, del quale fece poi, ritornato nel mondo dei vivi, il racconto. Attraversò da prima varii luoghi di punizione, e vide i castighi a cui erano assoggettate le anime, e n’ebbe la parte che gli toccava, insidiato e deriso per giunta dai diavoli che di quei castighi eran ministri. Giunse ad un ponte periglioso (il solito ponte delle leggende infernali), e passatolo si trovò in una gioconda campagna, dinanzi ad un muro altissimo e meraviglioso, e ad una porta tutta contesta di metalli preziosi e di gemme. La quale apertasi, ecco venir incontro al pellegrino una gloriosa processione di santi, e fargli lieta accoglienza, e introdurlo nella divina città, e taluno di quelli mostrargliene a mano a mano tutte le meraviglie. Il cavaliere non vorrebbe più partirsi da quel luogo di beatitudine; ma gli è forza tornare al mondo, e purgato d’ogni antica bruttura, ci torna.
Dice San Patrizio, in certa Confessio a lui attribuita, che quelli del suo sangue furono dalla Provvidenza dispersi in qua e in là sino agli ultimi termini della terra. Queste parole, vere o supposte, di un santo di cui la stessa esistenza fu posta in dubbio, ci richiamano ad un altro gruppo di leggende, nelle quali allo spirito ascetico si accompagnano lo spirito di esplorazione e di ventura, e che hanno per giunta questo comun carattere, d’esser leggende marittime, e di avere ad eroi certi monaci settentrionali che odiano la pace e l’ozio dei chiostri, ardono dal desiderio di propagare la fede di Cristo, sognan cose mostruose e terribili, ed essendo, in generale, grandissimi santi, hanno pure in sé qualche cosa del pirata. Costoro fioriscono più particolarmente sulle coste occidentali dell’Irlanda, della Scozia e della Frisia; e campo alle loro imprese è lo sterminato oceano che le bagna di onde perpetuamente in tumulto, e si stende, formidabile e sconosciuto, fino all’estrema piaga del cielo, ove il sole tramonta, fin sotto alla notte del polo; terribile ed infinito oceano che tutto il mondo circonda, scrive Adamo Bremense (m. 1076), oceano pieno d’intollerabile gelo e di caligine immensa.
Esso fu dalla turbata fantasia degli antichi prima, da quella degli uomini del medio evo poi, empiuto di pericoli, popolato di mostri, il terror de’ quali fu di non lieve ostacolo alla temeraria navigazion di Colombo, ma non valse a trattenere quegli arditi ed oscuri esploratori del Settentrione a cui devesi la scoperta della Groenlandia, e d’altre terre boreali, e della stessa America forse, molti secoli prima che v’approdasse il grande Italiano. Delle esplorazioni loro molti ricordi, tra storici e favolosi, son giunti sino a noi, ed io volentieri m’indugio, prima di proceder oltre, intorno a taluno, dacché essi hanno stretta attinenza con le leggende che verrò poscia esponendo, e servono a determinarne vie meglio il carattere e ad illustrane.
Di Aroldo, principe di Norvegia, narra il testè ricordato Adamo Bremense come corresse con le sue navi il mare settentrionale, finché si vide intenebrare dinanzi gli estremi confini del mondo, e come a stento scampasse da un immane baratro dell’abisso. Lo stesso Adamo narra la seguente istoria. Alcuni nobili di Frisia, desiderosi di accertarsi con gli occhi loro se verso Settentrione non vi fosse più terra alcuna, ma solo quel mare che dicesi concreto o viscoso, com’era comune sentenza, si misero in nave e sciolsero le vele ai venti. Lasciando dall’una mano la Danimarca, dall’altra la Brettagna, giunsero alle Orcadi, e seguitando la navigazione loro a occidente della Norvegia (Nordmannia), pervennero alla glaciale Islanda, d’onde, più oltre procedendo, verso il polo, entrarono nella region delle tenebre e furono travolti, con veementissimo impeto, in quella profonda voragine, che assorbendo, com’è fama, e rivomitando immensa copia di acque, dà origine al flusso e al riflusso del mare. Parecchie loro navi andarono miseramente perdute con quelli che dentro vi erano; altre, risospinte dal gorgo, uscirono dalle tenebre e dalla plaga del gelo, e giunsero insperatamente ad un’isola, la quale era, a guisa di fortezza, munita tutto intorno di altissimi scogli. Scesi a terra, i naviganti non videro per allora gli abitatori, i quali, essendo l’ora meridiana, si tenevano celati nelle loro spelonche; ma ben videro, davanti agli aditi di queste, molti vasi d’oro, e d’altri metalli che gli uomini stimano preziosi, e tolti di quelli quanti più poterono, lietamente fecero ritorno alle navi. Ma ecco che improvvisamente si videro inseguiti da uomini smisurati, che noi chiamiamo Ciclopi, i quali erano preceduti da cani di molto maggior mole che i nostri non sieno. Raggiunsero coloro uno dei fuggenti, e subito il fecero a brani; mentre gli altri poterono riparar nelle navi, e allontanarsi, non senza che i giganti li inseguissero buon tratto in alto mare, gridando e minacciando. Tornarono a Brema gli esploratori, e narrate le lor fortune al vescovo Alebrando, offersero sacrifici a Cristo redentore e al confessor suo Villecado, in ringraziamento di lor salvezza.
Quell’immane abisso, quella voragine che produce il flusso e il riflusso del mare, è probabilmente il Maelstrom, aggrandito e trasposto dalla fantasia, ed altri ricordi se ne trovano in iscritture del medio evo. Quanto ai Ciclopi è noto che il mito loro fu diffuso così in Occidente come in Oriente, e che nel medio evo esso riappare più di una volta. Del mare concreto o viscoso dirò più innanzi.
Un’altra spedizione, degna d’essere rammemorata, narra Sassone Grammatico. Gormo, re di Danimarca, bramoso di scoprir cose nuove, raccoglie trecento compagni, e alla guida di un tal Torkillo con tre navi saldamente costruite, si mette in mare. In capo di certo tempo giungono i naviganti a una terra, ove, essendo già stremati di vettovaglie, fanno strage dei greggi che vi trovano. Le divinità del luogo, offese, non li lasciano partire sino a che non abbiano offerto in sacrificio d’espiazione tre di loro compagnia. Di quivi passano nella Biarnia ulteriore, paese di delusive lusinghe e d’incantamenti diabolici. Torkillo vieta ai compagni di parlare cogli abitanti, di accondiscendere ai loro inviti, questo essendo il solo modo di render vane le loro malie: quattro più incontinenti trasgrediscono il divieto, e rimangono nella terra in una condizione di servitù neghittosa, immemori del passato. Gli altri si partono liberamente, e pervengono a un orribil castello, custodito da cani famelici, abitato da mostruose e spaventevoli larve. Qui Torkillo ammonisce di nulla temere e di nulla prendere delle cose che s’offrono alla vista, e lusingan la cupidigia; ma egli stesso non sa resistere alla tentazione. Ne segue una terribile zuffa. Al ritorno, dei trecento compagni non ne rimangono più che venti.
Narrazioni consimili ebbero corso e celebrità fra i Celti, i quali le designarono coi proprio nome d’imramha. Fantastica in sommo grado, e lunghissima è quella della navigazione di Maelduin, il quale desideroso di vendicare la morte dei padre, ucciso da certi pirati, si mise in mare con più di sessanta compagni, e correndo verso Settentrione e verso Ponente, visitò un numero stragrande di isole, piene d’infinite meraviglie, ed una tra l’altre in cui non s’invecchiava nè di male alcuno si pativa, e dalla quale era malagevole cosa partirsi. I figliuoli di Conall Dearg Ua-Corra erano stati prima pirati, ma poi, pentitisi, fecero un pellegrinaggio in mare, e videro anch’essi moltissime meraviglie, e tra l’altro alcune isole che facevano officio d’Inferno o di Purgatorio, e dov’erano variamente puniti peccatori di più maniere. Avventure in parte simili alle loro, in parte diverse si hanno nella narrazione del viaggio di Snedhgus e di Mac Riaghla, e in altri racconti, alcuni dei quali tuttavia inediti. Di Merlino narravasi che fosse andato con una nave di cristallo in traccia dell’Isole Beate.
Fra tanti navigatori erano forse i più ardenti, e non erano i meno audaci, i monaci; sia che li sollecitasse la speranza di piantare la croce in qualche isola incognita, – perduta nella immensità dell’oceano; sia che li movesse il desiderio di compiere, a salute dell’anime loro, un pio pellegrinaggio su quel mare pien di pericoli, che si credeva accogliesse, nella più remota sua parte, l’isola arcana del Paradiso. Testimonianze del IX e dell’XI secolo provano che lo zelo dei missionarii fece scoprire parecchie terre dell’Atlantico settentrionale; e Dicuil, nel suo trattato De mensura orbis terrae, parla delle loro spedizioni. I monaci di San Colombano correvano temerariamente l’oceano con barche leggiere, intessute di vimini, coperte di pelli, quali usavano sulle coste d’Irlanda, e uno di essi fu spinto dai venti nell’Oceano settentrionale lo spazio di quattordici giorni e quattordici notti. San Colombano stesso (m. 597) fu un ardito navigatore. Ed eccoci giunti ora a quella famosa leggenda di San Brandano, che acconciamente fu detta una Odissea monastica, e cui il Renan giudicò une des plus étonnantes créations de l’esprit humain et l’expression la plus complète peut-être de l’idéal celtique[4], la quale non è punto, come pareva al Greith, un’allegoria mistica intesa a rappresentare la vita claustrale; ma è un racconto fantastico formatosi intorno ad un nucleo reale, e strettamente legato a tradizioni e credenze gaeliche.
San Brandano fu irlandese, e se si debbono tener per sicuri i termini che alla sua vita assegnano i biografi nacque nel 484, morì nel 576 o 577. Il nome suo si scrisse in latino Brendanus; ma prese poi, col divulgarsi della leggenda per le varie province d’Europa, varie forme: Brandan, Brandanus, Brandon, Brandain, Blandin, Borodon, sotto l’ultima delle quali ebbe forse ad essere confuso con San Barinto (Barint, Barrendeus, Borandon) uno dei suoi precursori. San Brandano (noi useremo questa forma, come quella che occorre più di frequente) fu abate di Llancarvan e di Clonfert e fece veramente un viaggio, e vuolsi che tornato in patria scrivesse un libro De Fortunatis Insulis. Questo viaggio egli compiè, secondo affermano parecchi cronisti, l’anno 561, e la leggenda non dovette tardare a narrarlo in guisa fantastica, sebbene sia da credere che solo a poco a poco essa abbia preso rigoglio e raggiunta quella pienezza con la quale è sino a noi pervenuta. Il racconto più antico, fu probabilmente gaelico, ed è forse, in una forma più o meno alterata, quello stesso che si conserva nel così detto Libro di Lismore, il quale è, per altro, di età assai tarda, essendo stato scritto nel secolo XV. Dal racconto gaelico avrebbe attinto l’autore dei primo racconto latino, noto sotto il titolo di Navigatio Sancti Brendani, conservato in un codice della Vaticana, che, a ragione o a torto, fu stimato del secolo IX, e in altri codici assai numerosi dei secoli XI, XII e XIII; e dalla Navigatio dipendono, direttamente o indirettamente, in tutto o in parte, i molti racconti venuti di poi, latini e volgari, in prosa o in verso.
Ridotto in breve, il racconto della Navigatio è il seguente.
Un giorno San Brandano, padre di quasi tremila monaci, ricevette la visita di San Barinto, il quale ebbe a narrargli come fosse andato a visitare un altro sant’uomo, Mernoc, che con più monaci viveva in un’isola dell’oceano, detta Isola Deliziosa; come in sua compagnia fosse andato, verso Occidente, all’isola della promessione dei santi (terra repromissionis sanctorurn ), piena di ogni delizia, durata incolume dal principio del mondo, e serbata da Dio ai santi suoi, quando verranno gli ultimi tempi; come quivi avessero trovato un uomo circonfuso di luce, coi quale parlarono, e un fiume, che divideva l’isola per mezzo, ed oltre il quale non fu loro conceduto di passare; come tornassero indietro pel già corso cammino. Udita la narrazione di Barinto, San Brandano arse del desiderio di vedere ancor egli l’isola meravigliosa; e consigliatosi co’ suoi monaci, dopo un digiuno di quaranta giorni, presi seco quattordici compagni, e poi altri tre, sopravvenuti senza suo desiderio, si recò nella terra ov’erano i parenti suoi, e costrutta quivi una nave assai leggiera, formata di legname e di pelli, entrò in mare e diedesi a navigare verso Occidente, con prospero vento. Passati quaranta giorni, e venute già a mancare le vettovaglie, giunsero gli esploratori ad un’isola altissima, le cui ripe di pietra erano tutt’intorno tagliate a perpendicolo, men che in un punto, ove s’apriva un seno capace di una sola nave; ed essi entrativi, trovarono un castello, con una gran sala parata, ma vuoto di abitatori, e per tre giorni consecutivi ebbero mensa imbandita e ottimo ristoro. Quivi uno dei monaci sopraggiunti da ultimo, rubò, contro l’ammonizione espressa del santo, un freno d’argento, e per questo morì, ma confesso e perdonato, così che l’anima sua fu dagli angeli assunta in cielo. Gli altri, rientrati in nave, ripresero il viaggio, e vennero a un’isola popolata da innumerevoli pecore bianche, di grandezza maggiori dei buoi; poi ad una che pareva isola ed era invece uno sterminato pesce, detto Jasconius, dal quale i monaci fuggirono precipitosamente quando, sentito il calor del fuoco accesogli sul dorso, quello si cominciò a muovere poi a un’altra isola, dov’ era un infinito numero di uccelli candidissimi e parlanti, sotto alle cui penne si celavano gli angeli che si mantennero neutrali al tempo della ribellione di Lucifero; e quivi San Brandano e i suoi monaci celebrarono la festa di Pasqua, e rimasero sino alla ottava di Pentecoste. Partitisi anche da quella, non videro più, per tre mesi interi, se non l’acqua e il cielo, finché giunsero a un’isola abitata da ventiquattro monaci santi, i quali si nutrivan di pane largito loro dal cielo, serbavano rigoroso silenzio, non pativano i danni della vecchiezza e dei morbi. Quivi celebrarono i navigatori il Natale, poi, ripreso il mare, visitarono un’isola ov’era un fonte, le cui acque inducevano profondo sopore in chi le beveva; navigando quindi verso Settentrione, trovarono un mare che per troppa tranquillità era quasi coagulato; poi approdarono di nuovo ad alcune delle isole che già li avevano accolti l’anno innanzi, e nell’isola degli uccelli celebrarono la Pasqua: Sette anni durò la meravigliosa navigazione, e tutti gli anni gli esploratori, condotti dalla Provvidenza, tornarono a celebrare il Natale e la Pasqua ne medesimi luoghi. Noi non terrem dietro a questi ritorni e alle ripetizioni cui dànno argomento; ma noterem solo le nuove cose mirabili onde fa memoria il racconto. In sul principiar del terz’anno i naviganti scamparono da un gran pericolo. Uno smisurato cete li inseguì gran tratto, e li avrebbe tutti inghiottiti, se un altro mostro marino, che sbuffava fuoco dalla bocca, non fosse venuto con esso a combattimento, e non l’avesse ucciso. I monaci approdarono a un’isola, dove stettero tre mesi, trattenuti dall’imperversare dei venti contrarii, poi, navigando sempre verso Settentrione, giunsero a un’altr’isola, popolata da tre torme, di fanciulli l’una, di giovani l’altra, e di seniori la terza, i quali tutti consumavano il tempo cantando salmi e lodando il Padre celeste; e quivi si rimase il secondo di quei fratelli che raggiunsero il santo dopo la dipartita sua dal monastero. E sempre meraviglie seguitavano a meraviglie: un’isola tutta densa di alberi di una sola specie, i quali recavan per frutto grappoli d’uva di portentosa grandezza, ove ogni acino era della misura di un pomo; l’uccello griffa, che minacciò di divorare i naviganti, e fu ucciso da un altro uccello; un mare di meravigliosa limpidità, in fondo al quale si vedevano giacer sull’arena infiniti animali, a guisa di greggi; una smisurata colonna di cristallo chiarissimo, la quale sorgeva dal profondo del mare, e pareva toccar con la cima il cielo, e aveva intorno come un gran padiglione, fatto a maglie larghissime e di una sostanza che aveva il color dell’argento. Tanto corsero i naviganti verso Settentrione che raggiunsero le terre dei dannati. E prima videro un’isola popolata da orrendi fabbri ferrai, i quali scaraventarono loro dietro sul mare ingenti masse di metallo arroventato; poi un monte ignivomo, dove il terzo ed ultimo di quei monaci avventizii fu rapito dai diavoli. Passati alcuni giorni, trovarono Giuda sedente sopra una pietra in mezzo all’oceano, in una condizione che sembra a lui di riposo e di felicità paragonata con quella della sua dimora ordinaria, nel più profondo abisso d’inferno. Quel refrigerio è a lui conceduto dalla divina misericordia in ciascuna domenica, e nei giorni ancora che vanno dal Natale all’Epifania, dalla Pasqua alla Pentecoste, e dalla purificazione all’assunzion di Maria. Più oltre, navigando verso Mezzodì, trovarono sopra uno scoglio un eremita per nome Paolo, il quale, nutrito miracolosamente da una lontra, aveva raggiunto l’età di centoquarant’anni, e doveva aspettare, vivo, il giorno del Giudizio. Essendo già prossima la fine del settimo anno, San Brandano e i compagni suoi si videro avvolti un giorno da una densa caligine, e, quella attraversata, giunsero a un’isola circonfusa di splendidissima luce. Era quella la terra di promissione, l’isola paradisiaca, da essi con sì tenace desiderio cercata. Scesero su quella spiaggia benedetta, e videro la campagna tutta verde di alberi, e mangiarono di quei frutti deliziosi; e bevvero di quell’acque dolcissime. Trovarono il fiume che spartiva la terra per mezzo, e oltre il quale non era lecito di passare, e seppero da un giovane che Dio rivelerebbe quella felice stanza ai cristiani quando fossero ricominciate le persecuzioni. Adempiuto il voto, i felici esploratori presero la via del ritorno, dopo avere empiuta la nave di frutti e di gemme, e rividero finalmente la patria, dove San Brandano indi a poco morì, migrando gloriosamente a Dio e alla gloria del cielo.
Tale è il racconto di questo mirabile viaggio, tutto impregnato di spirito ascetico, ma penetrato ancora di un certo spirito eroico. I naviganti continuamente si raccomandano a Dio, pregano, digiunano, sono pasciuti miracolosamente, ascoltano rivelazioni e predizioni, e si mostrano in tutto degni del nome di santi; ma sostengono pure enormi fatiche, affrontano spaventosi perigli, e provano di meritare anche il nome di eroi. San Brandano chiama i compagni commitones e conbellatores; gli autori delle versioni francesi e tedesche li chiamano baruns e degen.
Di quali elementi, e donde venuti, s’ha a dire composto sì fatto racconto? Fu opinione del Cholevius che alcune delle meraviglie in esso narrate sieno di origine classica; ma sebbene questa opinione, presa in se stessa, non appaja troppo improbabile, quando si pensi al rifornimento di studii classici onde fu rallegrata l’Irlanda nei secoli VI, VII e VIII, pure non regge a un diligente e spregiudicato esame. Le immaginazioni ond’è tessuto il racconto dovettero nascere, per la più parte, nella patria stessa di San Brandano; ma non si può escludere la possibilità che alcune di esse sieno orientali di origine, come non si può escludere la possibilità che alcune sieno passate dal racconto latino in racconti orientali.
Tre sono, come ho detto, le redazioni della leggenda di San Brandano: quella del racconto gaelico; quella della Navigatio; quella di alcuni racconti tedeschi e di uno olandese. Veduta per intero la seconda, vediamo ora alcune particolarità per cui dalla seconda si differenziano le altre due.
Nella redazione gaelica manca il racconto di San Barinto. San Brandano sente nascersi dentro spontaneamente il desiderio di visitare la terra di promessione; la contempla anticipatamente da lungi, per grazia che il cielo gli concede, e riceve da un angelo la promessa che il suo desiderio sarà appagato. Prende il mare con tre navi, entro ciascuna delle quali sono trenta de’ suoi compagni. Naviga sette anni, e ritorna in patria, senz’aver veduta la terra beata che l’aveva tratto sui mari. Imprende un secondo viaggio, e dopo altri sette anni giunge finalmente alla terra di promessione, e gli è conceduto di visitarla. Non accade far ricordo delle avventure del doppio viaggio, le quali son quasi tutte diverse da quelle della Navigatio.
Nella redazione che chiameremo tedesca il principio del racconto è di tutt’altra maniera. San Brandano getta nelle fiamme, come opera bugiarda, un libro in cui son narrate appunto quelle meraviglie di cui egli dovrà essere spettatore più tardi. Dio, per punirlo della sua incredulità, gl’impone di compiere il viaggio e di riscrivere il libro. I naviganti incontrano le stesse avventure narrate nel racconto latino; ma anche più altre, di cui non è cenno in questo: sono spinti da una procella nel Mare viscoso, mar formidabile, sparso di navi trattenute quivi in perpetuo; scampano al gran pericolo del Monte della calamita; hanno briga coi grifoni e con le sirene. Queste immaginazioni son derivate da altri racconti romanzeschi.
Nella Navigatio il Paradiso terrestre è descritto con sobrietà che può parere eccessiva, quando si pensi ch’esso porge lo scopo del viaggio, e si consideri la prolissità con cui vi sono descritte o narrate cose di assai minor conto. Questo difetto non incontra nell’altre due redazioni, e non incontra nemmeno in parecchie versioni della Navigatio. Nella redazione gaelica il Paradiso è descritto assai lungamente, e non troppo in breve nella redazione tedesca. Qui si legge che San Brandano e i compagni suoi giunsero a un’isola tenebrosa, il cui suolo era d’oro, tutto sparso di pietre preziose, e dopo essere rimasti quindici giorni immersi nell’oscurità, pervennero, rimontando il corso d’un’acqua, in una sala tutta scintillante d’oro e di gemme, dinanzi alla quale era un fonte, che spandeva quattro rivi, di latte, di vino, d’olio e di miele, e da cui derivavano la loro virtù tutti gli aromi e le spezie. Nella sala erano cinquecento seggi, e quante ricchezze può avere un imperatore: il soffitto era coperto di penne di pavone. Giunsero poi i naviganti a una città di meravigliosa bellezza, raggiante di luce, immune da qualsiasi intemperie, davanti alla cui porta sedevano Enoch ed Elia, ed era un angelo, con una spada di fuoco in mano. Costoro presero uno dei monaci, e lo misero dentro alla città, e subito Enoch chiuse la porta e lasciò gli altri di fuori. Merita d’esser notato che nella redazione tedesca San Brandano e i compagni suoi giungono al Paradiso, non già in fine, ma quasi in principio del viaggio. In qualche rimaneggiamento latino, e in taluna delle versioni francesi della Navigatio, si descrive il muro tutto sfolgorante di gemme ond’è cinto l’aureo monte del Paradiso, la porta custodita da dragoni, i boschi pieni di selvaggina e le acque popolate di pesci. La versione italiana contiene una descrizione abbastanza diffusa, con particolarità che non appajono altrove.
Soffermiamoci alquanto, ché non sarà senza frutto, a rilevare nella nostra leggenda alcune cose che possono dar materia a indagini e a riscontri.
Il racconto della Navigatio somiglia molto a quelle narrazioni gaeliche di viaggi ricordate più sopra. Il palazzo inabitato, dov’è copia di tutte le cose necessarie alla vita; i frutti portentosi di cui basta uno solo a sfamare e dissetare per lunghi giorni i naviganti; l’isola popolata di fabbri ferrai; il mare limpidissimo di cui si scorge il fondo; la colonna smisurata che si leva dall’acque e nasconde le sommità fra le nuvole; l’isola degli uccelli bianchi; altre meraviglie vedute da San Brandano e da’ compagni suoi, si trovano nel racconto delle navigazioni di Maelduin e di Snedhgus e Mac-Riaghla.
Quanto all’isola popolata di pecore, gioverà ricordare che Ulisse trova, vicino al paese dei Ciclopi, l’isola Lachea; ma è questo un riscontro puramente fortuito. Un’isola, dov’era grandissima quantità di montoni, scoprirono anche gli Almagrurini, viaggiatori arabici la cui navigazione è narrata da Edrîsi e da Ibn-al-Vardi. Notisi che il nome delle isole Färoer è composto di due vocaboli, i quali significano, l’uno pecora, l’altro isola, e che Dicuil dice quelle isole plenae innumerabilibus ovibus.
Il cete scambiato per un’isola si ha nello Pseudo Callistene, nella narrazione dei viaggi di Sindbad, in un racconto talmudico, altrove; ma questo tema di leggenda ebbe origine probabilmente nel Settentrione, e dal Settentrione, insieme con altri assai, che già diedero materia al poema di Aristeo di Proconneso intitolato Ἀριμ'ασπεια, si diffuse verso Mezzodì e verso Oriente.
Gli angeli caduti, che San Brandano trova sotto forma di uccelli in un’isola, darebbero luogo a parecchie osservazioni, e argomento a parecchi riscontri; ma di essi mi si porgerà occasione di discorrere altrove.
Nella Navigatio è cenno di un mare quasi coagulatum pre nimia tranquillitate; ma nei racconti tedeschi esplicitamente si parla di un mare glutinoso, che nelle onde innavigabili trattiene prigioniere le navi. Questo mare non fu ignoto agli antichi. I Latini lo dissero mare pigrum, coenosum , o concretum, ed esso trova un riscontro nel Polmone marino di Pitea e nel Marimarusa di Filemone. Dai Tedeschi fu chiamato Lebermeer, Lebersee (mare jecoreum), Klebermeer, e vedesi ricordato, o descritto, in parecchi de’ loro poemi, per esempio nel Herzog Ernst e nell’Orendel. Il mare coagulatum è ricordato pure nella già citata lettera del Prete Gianni all’imperatore Emanuele, come quello che dovrebbe trovarsi a occidente dell’Europa: ma Giovanni di Hese pone il mare jecoreum in Oriente, di là dall’Etiopia, e seguendo l’esempio datogli da altri, ne congiunge il mito con quello del Monte della calamita. Anche Beniamino di Tudela del resto sembra aver posto nel remoto Oriente un mare coagulato.
Prima di giungere al Paradiso terrestre San Brandano e i compagni suoi attraversarono una così densa caligine che appena l’uno poteva scorgere l’altro. Essi passarono probabilmente quell’incognito e tenebroso mare a cui accenna Adamo Bremense, e che già noto agli antichi, vedesi spesso descritto dai geografi arabici; mare che era nell’estremo Occidente e nell’estremo Oriente, perché confondevasi col misterioso oceano che fasciava tutto intorno la terra. Credettero gli Arabi che fuori dal mar tenebroso occidentale si levasse la smisurata mano di Satana, pronta a ghermire le navi che ci si avventurassero; e nel Pellegrinaggio di tre figli del Re di Serendib, di Cristoforo Armeno, si parla di una regione dell’India, dove si vedeva uscir dal mare una gran mano aperta, che la notte ghermiva gli abitanti e li trascinava sott’acqua.
I fabbri fermi non sono già Ciclopi, come parve al Cholevius; ma veri diavoli (e qualcuna delle versioni lo dice espresso), e, assai probabilmente, diavoli martellatori di anime. Così fatti martellatori già compajono nella Visione di Tespesio, riferita da Plutarco, e ricompajono più volte in Visioni e leggende del medio evo. Nella Visione di Tundalo sono fabbri diabolici che con le tenaglie afferrano le anime, le gettano nelle fornaci ardenti, e arroventatele, e appastatene venti, trenta, cento insieme, le martellano a furia sulle incudini. Giovanni Villani, ripetuto da Ricordano Malispini, racconta che Ugo, marchese di Brandeburgo, cacciando un giorno in un bosco, trovò uomini neri e sformati, che tormentavano, con fuoco e con martello, anime dannate, e fu da quelli avvertito che, non emendandosi, gli sarebbe toccata egual sorte.
Alle genti di razza brettone e gaelica doveva parer naturale di porre l’inferno, anziché nelle viscere della terra, nelle varie isole mai note e di malagevole accesso, sparse per il burrascoso oceano. Nelle carte medievali è spesso indicata col nome d’isola dell’inferno una delle Isole Canarie, e più particolarmente quella di Teneriffa.
Dopoché San Brandano ebbe veduto Giuda sedere sopra una pietra in mezzo all’oceano, più altri esploratori e venturieri, meno reali e storici di lui, ebbero ad incontrarlo, presso a poco nelle medesime condizioni: tali Ugone da Bordeaux e Baldovino da Sebourg. Ugone lo trovò in un gran gorgo di mare, pel quale debbono passare tutte le acque che sono sulla terra:

Toutes les iaves, quanques dix fait en a,
U qu’eles soient par ichi pasera

Il monte ignivomo di San Brandano è certamente l’Hecla.
Da ultimo è da ricordare che la leggenda marinaresca fiorì già in Grecia in antico e riappar frequente nella letteratura tedesca del medio evo.
L’isola paradisiaca visitata da San Brandano lasciò di sé lungo ricordo e vivissimo desiderio. Durante tutto il medio evo, e per buon tratto di tempo anche dopo, si credette generalmente e fermamente alla sua esistenza. Nelle carte essa fu molte volte indicata, sebbene con differenze grandi, e naturali, di luogo. Quelle più antiche le assegnano presso a poco la latitudine dell’Irlanda, o una latitudine anche più settentrionale; nelle più moderne l’isola scende verso Mezzodì, e appare a ponente delle Canarie, o isole Fortunate, e con queste, facendosene d’una parecchie, è confusa talvolta, o col gruppo di Madera. Così nella mappa dei Pizzigani, ove si vedono nel mare occidentale le ysole dicte Fortunate S. Brandany, e San Brandano in atto di stendere le braccia verso di esse; così in quella di Grazioso Benincasa, ove pur compajono le Insule fortunate sancti Brandani, e in quella del Genovese Beccaria. Il Maurolico nel Martyrologium, e Onorio Filopono nella Navigatio in Novum Mundum, affermano che San Brandano approdò alle Canarie. Nel globo di Martino Behaim, dei 1492, l’isola meravigliosa è situata assai più verso Occidente e in prossimità dell’equatore. Gli abitanti delle isole di Madera, di Palma, di Gomera e del Ferro, ingannati da nubi, o dagli spettri della FataMorgana, credevano talora di scorgerla dalla parte di Occidente, come perduta fra l’acqua e il cielo. E già essa aveva preso il nome d’Isola Perduta, Insula Perdita, e dicevasi, con qualche reminiscenza forse dell’απρόσιτον νήσον degli antichi, che quando si cercava non si trovava. Nella Image du monde si legge:

Une autre ille est que on ne puet
Veoir comme on aler se veult,
Et aucune fois est veue:
Si l’appelle on l’Ille Perdue.
Celle ille trouva sains Brandains,
Qui mainte merveille vit ains.

Ma quest’Isola Perduta, visitata da San Brandano, non si diceva poi che fosse il Paradiso terrestre. Onorio d’Autun l’aveva descritta come la più amena e la più fertile di quante ne sono in terra: «Est quaedam Oceani insula dicta Perdita, amoenitate et fertilitate omnium rerum prae cunctis terris praestantissima, hominibus ignota. Quae aliquando casu inventa, postea quaesita non est inventa, et ideo dicitur Perdita»[5]. Rodolfo da Ems dice che l’Isola Perduta è il più bel paese del mondo, dopo il Paradiso terrestre, e che San Brandano v’andò,

der wunderliche gotes degen;

ma a nessun altr’uomo fu più conceduto di ritrovarla. Pietro Bersuire riferisce questa stessa immaginazione alle Isole Fortunate, così dette da alcuni «quia casu et fortuna quandoque reperiuntur; si autem a proposito quaerantur, raro aut nunquam inveniuntur». In un trattato dell’arte di navigare di Pietro di Medina, autore spagnuolo del secolo XVI, l’Isola Perduta si confonde con la famosa Antilia, da cui venne il nome di Antille.
L’Isola Perduta e introvabile fu cercata da molti, specie dopo che la scoperta del Capo di Buon Speranza e dell’America ebbe acceso negli animi la febbre delle remote esplorazioni; e qualcuno pretese anche di averla trovata. Ad ogni modo era comune speranza che dovesse, un dì o l’altro, ritrovarsi; e quando, il 4 di giugno dei 1519, Emanuele di Portogallo rinunziò alla Spagna, col trattato d’Evora, ogni suoi diritto sull’Isole Canarie, l’Isola Perduta, o Nascosta, fu espressamente compresa nella rinunzia[6]. Nei 1569 Gerardo Mercator segnava ancora sulla sua mappa l’isola misteriosa, e nel 1721 partivano in traccia di essa gli ultimi esploratori.
La leggenda di San Brandano n’ebbe poche pari in celebrità. Essa fu introdotta, in forma più o meno svolta, secondo le redazioni, nella Image du monde, che diffusissima essa stessa, ajutò a diffonderla sempre più. Un frate Filippo di Cork la inserì, non so se per disteso o in ristretto, in un suo – trattato provenzale delle meraviglie dell’Ibernia, che si conserva tra’ manoscritti del Museo Britannico; Pietro de Natalibus nel suo Catalogus Sanctorum; Wynkyn de Worde nella sua Golden Legend, ecc. Ricordi se ne trovano nel Lohengrin, nel Wartburgkrieg, e in altri poemi tedeschi. Essa era divenuta un tema consueto di narrazione e di recitare, e in un luogo della prima rama del Renard si trova ricordata insieme con istorie romanzesche del ciclo brettone. Inni di religiosi sonarono in onore del santo che aveva corsi i mari, e preghiere si recitarono, che dissero composte da lui fra i perigli della temeraria navigazione. Giovanni di Hese ebbe fantasia di emulano, e accrebbe con brandelli della leggenda di lui l’ingegnoso tessuto delle sue innocenti bugie. Nel presente secolo poeti inglesi si ricordarono del santo morto da dodici secoli, e presi d’ammirazione, ne ricantarono in vario modo le meravigliose avventure.
Di queste avventure pochissimi si mostrarono disdegnosi nel medio evo, e di questi pochissimi fu Vincenzo Bellovacense. Egli dice d’aver escluso affatto dall’opera sua la storia della peregrinazione di San Brandano a cagione dei vaneggiamenti ond’essa è piena, propter apocripha quaedam deliramenta quae in ea videntur contineri. Ora, sì fatto rigore ha alquanto dello strano, perché se la fama onde Vincenzo gode presso i posteri è, per più rispetti, onorevole, non però è fama di uomo in cui abbondi lo spirito critico e naturalmente avverso a raccontar fanfaluche. E più sembra strano quando si vede ch’egli, mentre ricusa di narrare la storia di San Brandano, narra poi la storia non molto meno miracolosa di San Maclovio.
San Maclovio o Macute, o Macuto (il Saint Malo dei Francesi) fu irlandese ancor egli; ma ottenne poca celebrità in patria, e divenne per contro un santo famoso tra gli Armoricani, i quali si studiarono di allargarne e adornarne quanto più poterono la leggenda, e l’allargarono e l’adornarono, sembra, a spese di San Brandano; e dico sembra, perché la cronologia, in tutte queste storie di santi, è assai oscura ed incerta, e può dar luogo a opinioni contraddittorie. Nei ricordi più antichi San Maclovio è soltanto uno dei monaci di San Brandano, e un compagno de’ suoi viaggi, i quali sono ricordati solamente di volo; ma poi usurpa il luogo del suo superiore e diventa il capo della spedizione, e San Brandano diventa uno dei seguaci. San Maclovio imprende due viaggi per ritrovare l’isola d’Ima, la quale non è il Paradiso, ma ha col Paradiso moltissima somiglianza. Nel secondo ha compagno San Brandano, e chiede a un gigante da lui risuscitato notizie dell’isola di cui va in traccia. Il gigante ricorda d’aver visitato una volta un’isola, la quale cinta di un aureo muro, splendeva come uno specchio, ed era vuota di abitatori. Pregatone, egli, ch’è di smisurata altezza, entra nell’oceano profondo, e si trae dietro la nave dei monaci, per andare alla scoperta dell’isola beata; ma insorge una furiosa burrasca, e debbon tutti tornarsene onde sono venuti. Poco dopo il gigante, che ha ricevuto il battesimo, si muore. Sigeberto Gemblacense narra anch’egli il viaggio di San Maclovio; ma dice che questi fu sollecitato, altrochè dal desiderio proprio, dall’esempio del suo maestro ed abate Brandano, il quale ardeva non men di lui della brama di trovar l’isola felice, e fu il promotore della peregrinazione, ut scriptura vitae ejus demonstrat. Mette, in dubbio che l’isola da essi cercata sia il Paradiso terrestre, e dice che, stando alla fama, è un’isola copiosa di tutti i beni e abitata da cittadini del cielo, che menan quivi santa e gioconda vita. Anche San Maclovio scese co’ suoi compagni sopra il dorso di una balena, credendola un’isola, e vi celebrò una messa. Quanto al gigante risuscitato è battezzato da lui, sarà opportuno avvertire che nel racconto gaelico della navigazione di San Brandano, questi risuscita e battezza una gigantesca fanciulla bionda, la quale misura ben cento piedi d’altezza, e che richiesta, dopo il battesimo, se voglia tornare fra’ suoi, o andarne subito in Paradiso elegge la sode più felice, e ricevuto il viatico, incontanente rimuore.
Gli esempi di San Barinto e di San Mernoc; di San Brandano e di San Maclovio, dovettero scaldare la fantasia e turbare i sonni a molti monaci di buona volontà, non meno provveduti di fede che di coraggio. Gotofredo da Viterbo, che parla della esploratrice curiosità di certi monaci dell’Armorica,

Qui marium fines scrutantur et ultima terrae,
Ut valeant populis post tempora longa referre
Quas ibi materies, quae loca mundus habet,

narra, fondandosi su certo Libro d’Enoch ed Elia a noi sconosciuto, una storia, che reca novella prova di quei desiderii irrequieti. Cento frati in una volta si cacciano a navigare per l’Oceano:

Vela vehunt validis erecta per aequora ventis.
His super alta maris per tempora longa retentis,
Sola poli facies, aequora sola patent.

Corrono fra cielo ed acqua tre anni, poi si scontrano in certe statue emergenti dai flutti, le quali col braccio teso additano loro la via. Arrivano finalmente a una montagna odorosissima, tutta d’oro, sulla cui vetta è una città aurea, e una chiesa, d’oro essa pure, tempestata di gemme sfolgoranti, e nella chiesa, sopra un altare prezioso, un’immagine di Maria col bambino. È quello il Paradiso terrestre. I naviganti, pieni di meraviglia, cercano da ogni banda se non vi sia persona viva, e da ultimo scoprono, in una celletta splendida e riposta, due vecchioni con barbe e chiome lunghe e candidissime, Enoch ed Elia.

Inclyta barba senum fuerat, longique capilli,
Candida caesaries; nautisque petentibus illis,
Surgentes pariter verbe dedere senes,

I due santi dicono loro come in quel luogo sia variata la ragione del tempo; come, al tornare che faranno in patria, troverannosi vecchi, e vedranno mutate le generazioni, e tutt’altra la condizion delle cose. Per ingiunzione di quei due si celebra allora una messa, alla quale séguita una general comunione. I naviganti si partono, e rifanno in cinque giorni la via in cui prima consumaron più anni; ma tornati in patria non trovan più nulla di quanto già vi lasciarono. Sparita è la loro chiesa, sparita è ancor la città, e ad un popolo nuovo re dà legge novella. L’assenza loro durò trecent’anni. Quelle statue che mostran la via hanno qualche riscontro; ma è più frequente il caso di statue, o di colonne, che avvertono altrui di non passare più oltre. Esse si moltiplicano sulle rive, e nelle men remote isole di quel formidabile Atlantico, che fu teatro alle audaci imprese dei nostri esploratori. Già le famose Colonne d’Ercole vietavano il passo gaditano. I geografi arabici, lbn-al-Vardi Yakut, Edrîsi, Masûdi, il Geografo Nubiense, parlano di statue colossali poste in Cadice e nelle Canarie, o anche nelle Isole del Capo Verde, le quali facevano cenno di non passare più oltre; e quella di Cadice è ricordata anche nella Cronaca detta di Turpino. Nel Mare amoroso , attribuito a Brunetto Latini, si fa cenno di un passo di mare

Che fie chiamato il braccio di Saufi,
Ch’à scritto in sulla man; niuno ci passi,
Per ciò che mai non torna chi vi passa;

e nella mappa dei Pizzigani è una figura in atto di respingere i naviganti che vorrebbero inoltrarsi sull’oceano. Il Camoens ebbe a ricordarsi di queste fantasie quando immaginò il suo gigantesco Adamastore, che tenta di far tornare indietro Vasco di Gama. Ma fu pur detto che nell’isola di Corvo, la più settentrionale dell’Azore, fosse la statua di un cavaliere che con la destra indicava l’Occidente, quasi per additare il cammino agli scopritori del Nuovo Mondo.
Dalle spiagge dell’Irlanda e dell’Armorica passiamo ora in Asia, o, se meglio piace, in Ispagna per incontrarvi l’ultimo di questi santi esploratori, Sant’Amaro, di cui narra le avventure una leggenda spagnuola. Chi fu Sant’Amaro? in che tempo viss’egli? Confesso schiettamente di non saperlo, e dubito forte non appartenga ancor egli a quella abbastanza numerosa famiglia di santi, che vivissimi nella fantasia popolare, non furono mai vivi al mondo. Un santo Amaro d’ossa e di polpe ci fu, nativo, credesi, di Francia, fermatosi poi in Burgos, e già venerato in Ispagna, nel, secolo XV; ma egli, che attese tutto il tempo di vita sua a curar gli ammalati e servir i poveri di quella città, nulla ha da spartire col nostro. Sia come si voglia, la leggenda di questo è assai moderna, e forse di poco anteriore al 1558, del quale anno se ne ha una stampa, coi titolo: La vida del bienaventurado sant Amaro y de los peligros que pasò hasta que llegò al Parayso terrenal. Nelle altre letterature non se ne ha traccia; ma in Ispagna essa entrò a far parte della letteratura popolare, e leggesi tuttavia. Io la riferisco di su un pliego suelto stampato in Madrid, senz’anno, ma recentissimo.
Amaro fu d’Asia (non si dice di quale città o provincia) uomo devotissimo, caritativo, e tutto preso dal desiderio di vedere una volta il Paradiso terrestre, di cui sempre chiedeva novelle, ma inutilmente, ai molti pellegrini che gli capitavano in casa. Una notte, stando in orazione, udì una voce che gli disse: «Amaro, abbandona la tua casa, va al porto, entra in una nave, lasciala andare dove la Provvidenza la condurrà, e vedrai ciò che desideri». La dimane il santo distribuì ai poveri le sue ricchezze, solo quel tanto ritenendone che poteva bastare alla sua navigazione, e il terzo dì, accompagnato da due servitori, e da quattro amici che non vollero andasse solo a quell’impresa, si recò al porto più vicino, comperò una buona nave, la fornì del necessario, e spiegò le vele, lasciandosi menare dai venti. Trovò da prima un’isola, chiamata Deserta, ma subito se ne dilungò, avvertito da una voce del cielo che quella era terra di peccatori. Attraversò il Mar Rosso, e giunse a una seconda isola, detta Fuen-Clara, fertilissima e deliziosa, abitata da uomini di buonissima indole, i quali vivevano centocinquant’anni senza conoscere infermità o disagio alcuno. Non si sa come, i naviganti, dopo lungo tempo, si trovarono nei mari polari, e per poco non rimasero prigionieri dei ghiacci, dai quali venne loro fatto di scampare per un buon suggerimento che diede a Santo Amaro la Vergine Maria. Approdarono ad altre due isole, nell’una delle quali vivevano tredici monaci in una badia murata, difendendosi a gran pena da innumerevoli e formidabili fiere, e nell’altra era un sant’uomo, chiamato Leonita, perché viveva in compagnia di sei leoni, mansueti come agnelli. Giunsero finalmente a una spiaggia deliziosa, ove né caldo si pativa né freddo, e quivi Sant’Amaro ebbe finalmente notizia della terra beata di cui andava in traccia, prima da due eremiti, poi da una santa donna per nome Baralides, la quale era badessa di un chiostro ivi presso, e l’aveva veduta una volta di lontano. Guidato da costei per un tratto di via, Sant’Amaro, i cui compagni erano rimasti addietro nel luogo ove avevano preso terra, risalì una valle, superò alti e dirupati monti, e giunse da ultimo in vista di un meraviglioso palazzo, munito di altissime torri, cerchiato di saldissimo muro, formato il tutto di gemme d’ogni colore, le quali ardevano dì luce incomparabile. Fuor del palazzo, alla cui porta vegliava un gagliardo giovane con una spada in pugno, correvano quattro fiumi. Era quello il Paradiso terrestre. Accostatosi alla porta magnifica Sant’Amaro chiese al guardiano se gli fosse lecito d’entrar dentro; ma quegli rispose che no, e che si contentasse di ciò che poteva vedere standosi sulla soglia. Obbedendo al precetto, Sant’Amaro vide gli alberi pieni di frutti, e quello, fra gli altri, del cui frutto mangiarono Adamo ed Eva; e vide cori di bellissime donzelle, coronate di fiori, le quali cantavano dolcissimamente, e sonavano vari strumenti, e servivano con somma riverenza e vivissimo amore la Vergine. Sant’Amaro credette di aver fruito di quel divino spettacolo un’ora, ed erano passati dugent’anni. Tornato al luogo dove aveva lasciato i compagni, trovò una bella città, che essi avevan fondata, e finì i suoi giorni in un monastero che gli abitatori di quella edificarono appositamente per lui.
Ma lasciamo oramai i santi, co’ quali ci siamo trattenuti così a lungo, e accostiamoci a un’altra schiera, formata di conquistatori e di venturieri, i quali, o deliberatamente muovono in traccia del Paradiso terrestre, con animo, talvolta, di assoggettarlo al loro dominio, o, quasi senza pensarvi, a forza di girare il mondo, lo trovano, e riescono, o non riescono, secondo i casi, a penetrarvi. E come ragione vuole cominciamo da colui che la leggenda consacrò principe e modello dei venturieri e degli eroi, da Alessandro Magno.
In un racconto latino, intitolato De itinere ad Paradisum, si legge quanto segue. Alessandro di ritorno dalla conquista dell’Indie, si ferma sulle rive del Gange, il quale è qui tutt’uno col Fison, e contemplando alcune foglie mirabili venute dal Paradiso, esce in tale lamento: «Nulla io feci nel mondo, e nulla stimo la gloria mia, se di tali delizie non godo». E subito, raccolti cinquecento seguaci, salita una gran nave, si mette a navigare su per il fiume. In capo di trentaquattro giorni ecco appar loro una gran città, le cui mura, tutte coperte di musco non lasciano scorgere adito alcuno, e sembrano essere di grandissima antichità. Per tre giorni cercano gli esploratori tutto all’ingiro, e finalmente scoprono una postierla angusta e sbarrata. Alessandro manda suoi messi a intimar l’obbedienza ed a chieder tributo, essendo egli signore del mondo. Al picchiar di coloro, uno di dentro apre l’usciolo, e alle parole minacciose e superbe risponde con voce blanda e tranquilla l’aspettino alquanto fin ch’ei ritorni. Va e torna, recando una gemma di singolare qualità e bellezza, e dice loro la dieno al lor re, perché conosciutane la natura, tosto smetterà ogni ambizioso pensiero. Alessandro, veduta la gemma, udita la risposta, incontanente si parte, e raggiunge le sue genti, insieme con le quali se ne va poscia a Susa. Quivi un vecchio Ebreo gli fa conoscere la virtù della gemma, e gliene svela il misterioso, simbolico significato. La gemma, messa nel piatto di una bilancia, vince di peso ogni maggior copia d’oro che le si contrapponga, ma, coperta di un pizzico di polvere, diventa più leggiera di una piuma. Stupisce Alessandro, e l’Ebreo gli dice: «Questa gemma è immagine dell’occhio umano, che vivo di nessuna cosa si appaga, morto o coperto di terra più nulla vagheggia ». Alessandro intende l’ammaestramento, e represso ogni ambizioso affetto, e licenziati i compagni d’arme, si ritrae in Babilonia, dove dal tradimento è troncata la gloriosa sua vita. La città murata e chiusa è la dimora dei giusti, ove soggiorneranno sino al di del Giudizio.
Questo racconto, pervenuto sino a noi in una redazione che probabilmente appartiene al XII secolo, è, senza dubbio, di origine molto più antica, e scaturisce da fonte giudaica. Nel trattato Tamid del Talmud di Babilonia se ne legge uno che ha con esso colleganza strettissima, anzi si può dir quei medesimo, salvo che il latino deriva da una redazione più larga e più antica. Nel racconto talmudico, l’andata di Alessandro al Paradiso si rannoda con l’avventura della fontana di giovinezza, e l’eroe riceve dagli abitatori del Paradiso, non una gemma simbolica, ma un vero occhio umano, il quale si comporta del resto come la gemma. La leggenda passò nell’Alexander del Tedesco Lamprecht, ma con alcune particolarità diverse da quelle pur ora vedute, e ch’egli, o poneva di suo, o toglieva da scrittura a noi incognita. Alessandro e i compagni suoi risalgono l’Eufrate (non il Fison) sostenendo grandi fatiche, e terribili procelle, che mettono a dura prova il loro coraggio e la loro perseveranza. Alessandro ha fermo nell’animo di conquistare il Paradiso, e infiamma i commilitoni alla gloriosa impresa. Dopo lunga navigazione giungono a un muro altissimo, tutto costruito di pietre preziose, del quale non viene lor fatto di vedere la fine. Trovano da ultimo la porta, fanno la intimazione a quei di dentro, ricevono la gemma. I più giovani contendono co’ più vecchi e savii: questi consigliano ad Alessandro di tornare; quelli di seguitar l’impresa incominciata. Prevale il consiglio dei primi. Tornato in Grecia, Alessandro fa vedere la gemma a molti che non sanno conoscerne la virtù, finché un vecchio Ebreo, da lui fatto venire appositamente, gliela scopre, servendolo per giunta di una lunga ammonizione. Con quest’avventura finisce il poema.
L’avventura fu pure narrata da Tommaso di Kent nel Roman de toute chevalerie, e introdotta da un interpolatore nel poema di Lambert li Tors e Alessandro da Bernay, e ripetuta nella compilazione intitolata Fait des Romains, nei Fatti di Cesare nostri, dal Mandeville, da Pietro Pabudano nel suo Thesaurus novus, Giovanni di Hese dice che vicino al Paradiso terrestre è un monte, sul quale fu Alessandro, che soggiogato tutto il mondo, dallo stesso Paradiso volle avere tributo. La novella dell’occhio umano, o della gemma che lo simboleggia, si trova anche separatamente dal racconto del viaggio di Alessandro al Paradiso.
Gli Arabi e i Persiani, che tante favole meravigliose narrano del Macedone, parlano bensì di una spedizione ch’ei fece in cerca della fontana di giovinezza, ma ignorano la sua andata al Paradiso. Solo Nizâmi, il quale fa compiere all’eroe un viaggio nell’Oceano Atlantico, dice ch’ei seppe, da certi selvaggi abitatori d’un deserto posto di là dal mare, come fosse, nella regione dove più non brilla il sole, una città magnifica, abitata da uomini di santa vita, i quali, senza mai invecchiare, vivevano cinquecent’anni; e il poeta conduce l’eroe a una terra felice, posta verso Settentrione, popolata da genti scevre di ogni malizia. A questo proposito non parrà superfluo ricordare come Firdusi narri dell’andata di Rustem all’Alburz.
Di Alessandro Magno, che presunse di assoggettare persino il Paradiso terrestre, ebbe forse a ricordarsi l’Ariosto, quando attribuì il pensiero temerario di così gran conquista al suo Senapo, che ne fu punito con la cecità e con le Arpie. Il Senapo.

Inteso avea che su quel monte alpestre,
Ch'oltre alle nubi e presso al ciel si leva.
Era quel Paradiso che terrestre
Si dice, ove abitò già Adamo ed Eva.
Con cammelli, elefanti, e con pedestre
Esercito, orgoglioso si moveva,
Con gran desir, se v’abitava gente
Di farla alla sua legge ubbidiente.

Un autore spagnuolo del secolo XVI, Giovanni Gonzales di Mendoza, narra, traendola non so d’onde, la storia di un re del Bengala, il quale mandò gente, con molte barche, su per il Gange, ordinando loro d’andarne alla scoperta del Paradiso terrestre. Gli esploratori navigarono più mesi a ritroso del fiume, e giunsero finalmente a un luogo ove era mitissima la corrente, e già molti segni apparivano della prossimità della felice dimora; ma per quanti sforzi facessero non poterono passar più oltre, sebbene non ci si vedesse impedimento alcuno. Tornando per un istante ancora ad Alessandro Magno, ricorderò, per opportunità di riscontro, come nello Pseudo-Calbistene si racconti l’andata di lui, attraverso a un paese tenebroso, ov’è la fontana di giovinezza, sin presso alle sedi dei beati, dalle quali lo fanno allontanare due uccelli parlanti; e come nel racconto dl Giulio Valerio, sia dato il nome di Paradiso al luogo dove gli Alberi del Sole e della Luna diedero all’eroe il famoso responso. Nel Titurel, due principi indiani che si vantavano discendenti di Alessandro, descrivono il loro paese, che si chiama Paradiso, senza però esser quello dei primi parenti.
Ecco ora farcisi innanzi parecchi eroi della leggenda cavalleresca medievale. Di Merlino si narra che muovesse con una nave di cristallo in traccia dell’isole beate. Di Ugone da Bordeaux si può dire che, se non fu nel Paradiso terrestre, fu in luogo molto a quello somigliante. Un grifone lo trasportò sopra una montagna che non conosce le tempeste, e dove sono alberi bellissimi e tutti i frutti della terra, e la fontana di giovinezza. Gesù Cristo vi si riposò e la benedisse. Per comando di un angelo, il cavaliere tolse tre pomi, che avevano virtù di far ringiovanire. Ma ben giunse al Paradiso terrestre un altro eroe, Baldovino da Sebourg. Spinti da una furiosa procella, Baldovino e Poliban passarono il mar d’Inghilterra, passarono il mare d’Irlanda, e corsero oltre finché si offerse loro agli sguardi un giardino meraviglioso, murato tutto intorno di cristallo, splendente come l’oro. Era quello il Paradiso terrestre. Approdarono i naviganti, e sulla porta trovarono Enoch ed Elia i quali, non vecchi già, ma parevano essere nel fiore della giovinezza, e accolsero i cavalieri molto benevolmente e li misero dentro. Qui le solite meraviglie: uccelli che cantano dolcissimamente, tra quali alcuni che nascono da un raggio di sole e sono detti salamandre; serenità perpetua; alberi sempre verdi e carichi di frutti; l’albero del peccato, tutto secco. Elia fece tornare il re Poliban di trent'anni, dandogli a mangiare di certo pomo. Baldovino, ch’era giovane, avendo voluto far ancor egli l’esperimento, contrariamente all’ammonizion del profeta, divenne in un momento vecchissimo, e pien d’acciacchi, e non racquistò la gioventù perduta se non quando Enoch gli ebbe dato a mangiare di un altro pomo del giardino. I cavalieri seppero da profeti che nel Paradiso avverrà il Giudizio universale. Quando se ne partirono, sembrava loro di esserci stati due giorni, e c’erano invece rimasti due mesi.
Un eroe più illustre di Baldovino, e anche di Ugone, fu Uggeri il Danese, del quale pure si narra che andasse al Paradiso terrestre. In uno dei poemi francesi cui la sua storia porge argomento, il poeta lo conduce, non nel Paradiso propriamente, ma in quelle vicinanze:

Car le Danois s’en va ou chastel d’aimant,
Qui siet par faerie les Avalon le grant,
Et Paradiz terrestre est un petit avant,
Dont Enoc et Elie vont le saint lieu gardant,
Et y furent ravy en char de feu ardant,
Et la sont tous en vie et sont jusqu’a tant
Qu’Antecrist regnera et cil deux dieu sergant
Le meteront a fin: on le treuve lisant
En la sainte escripture qui pas ne va mentant.

Segue poi il racconto del lungo soggiorno che fece l’eroe in quel paradiso dei cavalieri che fu l’isola di Avalon. Il medesimo si ha nel romanzo in prosa, calcato sul poema; ma moltiplicando e affastellandosi sempre più le avventure dell’eroe, gli era naturale che venisse a cacciarsi tra queste anche un vero e proprio viaggio al Paradiso. Di tale viaggio è ricordo nel Fioretti dei paladini. Giovanni d’Outremeuse narra che Uggeri volle conquistare il – Paradiso terrestre, e con un esercito di ventimila uomini passò regioni popolate di serpenti, attraversò la valle tenebrosa, vide molte isole, molti strani e spaventosi animali, mangiò dei frutti degli Alberi del Sole e della Luna, e giunse al Paradiso, il quale è tutto cinto di monti altissimi, ed ha un’unica entrata, guardata da fiamme, che non lasciano passare nessuno.
Uggeri non pare che sia penetrato nel luogo vietato, ma bene vi penetrò un altro cavaliere, il quale ebbe anche la ventura di visitare l’inferno, Ugo d’Alvernia. Dopo molte e molte avventure, le une più strane delle altre, Ugo giunge ai Paradiso terrestre, vede la fonte da cui nascono i quattro fiumi, e presso a quella l’albero disseccato, che pare tocchi con la vetta il cielo, e tra i rami dell’albero la Vergine, con in braccio il bambino; poi trova Enoch ed Elia, i quali si comunicano con cert’ostie ch’egli ebbe dal papa, e portò seco nel viaggio. Così nel testo italiano del poema, che manoscritto si conserva nella Nazionale di Torino, e così ancora, secondo ho ragion di credere, nel franco-italiano della Biblioteca Regia di Berlino. Nel romanzo in prosa di Andrea da Barberino il racconto corre alquanto diverso. Ugo risalì, cavalcando verso le sorgenti del Nilo, accompagnato da alcuni grifoni, suoi fedeli ajutatori: «trovò una nugola, come tenebra scura, ed era come un muro, e alta, e tagliata insino all’aria, e divideva la luce». Quivi presso era un pilastro, con una scritta, la quale avvertiva chiunque non fosse mondo di peccato di non andare più oltre. Ugo penò tre giorni ad attraversar quelle tenebre, dopo di che giunse a un bel prato fiorito, pieno d’alberi, ch’era la Terra Santa di Promissione: vide Enoch ed Elia, e un luogo cerchiato di muro, ch’era più propriamente il Paradiso terrestre, dove i santi dissero che nessuno uomo vivo poteva entrare; e non ben s’intende se all’eroe sia conceduto d’entrarvi.
Molta somiglianza morale ha con Ugo d’Alvernia Guerino il Meschino, e molta somiglianza spesso è tra le loro avventure. Guerino giunge al Paradiso terrestre scendendo nel Pozzo di San Patrizio. Uscito dall’inferno, il cavaliere perviene, in compagnia di molli spiriti vestiti di bianco, davanti a un muro, che gli sembra d’oro massiccio, tempestato di gemme, ed è alto sino al cielo, e splende a guisa di fuoco ardente. S’apre una porta, e n’esce un soavissimo odore, e uno di quegli spiriti porge al cavaliere un pomo molto odorifero, da cui questi si sente tutto riconfortare. Sopraggiungono Enoch ed Elia, i quali menano il cavaliere in giro per una felice campagna che si stende tutto all’intorno. Nel Paradiso stesso nessun uomo mortale può entrare. Più oltre Guerino vede una città risplendente, cinta di un muro di fuoco, e ode il canto degli angeli, ond’è rallegrata, ed ha, attraverso una porta, un’assai strana visione della Trinità. Non s’intende bene se questo sia il Paradiso terrestre o il celeste; ma è probabile sia il celeste. Tullia di Aragona rinarra tutto ciò, con alcune differenze, nel suo poema, e pone ad abitare nel Paradiso terrestre, insieme con Enoch ed Elia, anche San Giovanni.
Con la storia di Ugo d’Alvernia e di Guerino ha molta affinità la storia di un Fortunato, che non ha nulla di comune con quello celebre della leggenda popolare, ai quale la Fortuna aveva fatto dono della borsa che mai non si votava. Tale istoria porge materia a un poderoso romanzo in prosa, che si conserva fra i manoscritti palatini di Firenze. Come Guerino, il nostro Fortunato va in cerca del padre, che non conosce; compie il solito viaggio in remote regioni; vede le solite meraviglie; e giunge con alcuni compagni alle falde del monte del Paradiso, il quale è «tanto altissimo, che la fine dell’altezza» non si può vedere, e nemmeno il mezzo; e così erto, che non ci si può salire da quella parte. I viaggiatori son venuti su per il Fison, e si trovano nella provincia d’Etiopia, confusa spesso, come s’è già notato, con l’India. Dopo molt’altri giorni di viaggio, confessatisi e comunicatisi a una badia, salgono il monte dalla parte opposta, e trovano «molte ville e abitanti», da’ quali sono ricevuti con onore, finché, a un certo punto, vedono il «monte cerchiato di fuoco infimo all’aria», e un angelo «tutto focoso, con una spada in mano» dice loro che a nessun uomo mortale è lecito salir più su, e li invita a mandare un sacerdote che battezzi le genti da essi convertite alla fede cristiana.
Gli è strano che l’altro Fortunato, quello la cui storia compare in tutte quasi le letterature d’Europa, non esclusa l’italiana, non giunga ancor egli al Paradiso terrestre, dappoiché la leggenda lo fa scendere nel Pozzo di San Patrizio, visitare il paese del Prete Gianni, e correre tutto il mondo.
Gli ultimi cavalieri da noi incontrati ci hanno quasi ricondotti nel mondo monacale ed ascetico, tanto è spiccato in essi il carattere religioso, tanta la devozione con cui lungo tutto il corso degli strani lor viaggi, e in meno a mille avventure e a mille pericoli, si raccomandano a Dio, gridano i loro peccati, digiunano, si macerano, e si confessano ogni qual volta è data loro occasione di poterlo fare. Perciò sarà da ricordare qui la saga di Eirek, figlio di Thrand, re di Drontheim, saga che manifestamente intende alla edificazione. Partitosi dalla sua terra, Eirek giunge, in compagnia di un suo amico, a Costantinopoli; ha con quell’imperatore un colloquio di argomento religioso; attraversa la Siria, entra in mare, giunge in India, e a un ponte guardato da un drago. Di là dal ponte è il Paradiso. Eirek vi penetra, gettandosi nella bocca spalancata, passando attraverso il corpo del mostro. Trova una campagna fiorita, corsa da rivi di miele, e una torre sospesa in aria, a cui sale su per una scala leggiera, e dove gli si offre una tavola apparecchiata. Tornato in patria dopo sette anni di assenza, narra, a confusion dei pagani, le sue avventure, poi sparisce, rapito miracolosamente, e di lui non si ha più notizia.
Ricorderò ancora Hélias, o il Cavalier dal Cigno, dei poemi francesi, la figliuola della Reina d’Oriente, e il buon Astolfo. Del primo fu detto che venisse dal Paradiso terrestre quando comparve sulla navicella incantata, cui traeva per l’onde il candido uccello. La seconda ci fu fatta andare dal Pucci. Il terzo ci fu condotto dall’Ariosto. Astolfo chiusa la bocca dell’inferno, e imprigionate per sempre le tetre Arpie, si lava da capo a piè:

Poi monta il volatore, e in aria s’alza,
Per giunger di quel monte in su la cima,
Che non lontan con la superba balza
Dal cerchio della luna esser si stima.
Tanto è il desir che di veder lo ’ncalza,
Ch’al cielo aspira e la terra non stima.
Dell’aria più e più sempre guadagna,
Tanto ch’al giogo va della montagna.

Quivi fiori che pajon gemme, alberi sempre fecondi, uccelletti di tutti i colori che cantano dolcemente, ruscelli, e laghi che vincono di limpidezza il cristallo, un’aura soave che va predando ai fiori il profumo, uno smisurato palazzo

in mezzo alla pianura,
Ch’acceso esser parea di fiamma viva:
Tanto splendore intorno e tanto lume
Raggiava, fuor d’ogni mortal costume.

Enoch, Elia, San Giovanni accolgono amorevolmente il cavaliere, lo alloggiano in una stanza, gli dànno di quelle frutta che non hanno simili in terra, provvedono buona biada all’ippogrifo. Il dì seguente l’eroe si leva, e dopo aver discorso con San Giovanni Di molte cose di silenzio degne[7], venuta la sera, entra con l’apostolo in un carro, tratto da quattro destrieri più rossi che fiamma, e sale al mondo della luna per ricuperare il senno d’Orlando.
Astolfo fu l’ultimo visitatore del Paradiso terrestre. Fausto, l’inquieto ed insaziabile scrutator delle cose, figura e simbolo di una nuova età, dopo aver corso in compagnia di Satana tutta la faccia della terra, e penetrato gli abissi, pervenne secondo il popolare racconto, alle fatali giogaje del Caucaso, e vide, da lungi, fiammeggiare la spada ardente del cherubino; ma, come tratto da nuova cura, non si fermò e passò oltre. E dopo di lui nessuno più vide la porta meravigliosa sognata da tanti, e da così pochi varcata; la porta d’oro e di gemme ormai chiusa per sempre.

Note
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[1] Mussafia. Sulla leggenda del legno della croce, pp. 165-167.
[2] W. Meyer, Die Geschichte des Krenzholzers von Christus.
[3] Le immaginazioni della leggenda e delle novelline popolari hanno importanza notabile per la dottrina psicologica del tempo.
[4] «La poésie des races celtiques», in Essays de morale et de critique, Parigi, 1859.
[5] Vedi la vita inserita dal Mabillon negli Acta sanctorum ordinis S. Benedicti, saec. pr., p. 178
[6] Filippo II, sposando Maria, s’impegnò a rinunziare alla corona d’Inghilterra nel caso che fosse tornato re Artú.
[7] 0rlando Furioso, c. XXXIV, st. 48 sgg.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Appendice
Il paese di Cuccagna e i paradisi artificiali

La immaginazione del Paradiso terrestre, e le altre consimili, hanno stretta relazione con quella del Paese di Cuccagna, o come altrimenti si chiami la terra beata che nelle tradizioni orali e nelle letterature di buona parte d’Europa ebbe quel nome. Tale relazione non è, come fu troppo leggermente asserito, quella proprio che passa tra la parodia e la cosa parodiata; giacché se la parodia fa capolino talvolta nelle allegre descrizioni del Paese di Cuccagna, non però si può dire sia quella che consuetamente ne suscita negli spiriti e ne promuove la immaginazione. Entrambe le immaginazioni piuttosto traggono l’origine da un principio medesimo, da uno stesso desiderio e da uno stesso sogno di felicità, i quali, se variano quanto a certe parvenze e a certi caratteri, nella sostanza rimangono pur sempre invariati. Il Paradiso terrestre e la Cuccagna sono due termini diversi, ma non contraddittorii, a cui riesce lo stesso pensiero, secondo l’affetto che lo muove, e in conformità della mente entro la quale si muove. Del resto, tra le due immaginazioni non c’è una separazione costante e sicura, anzi si passa per gradi dall’una all’altra: il Paradiso è talvolta poco più nobile e poco più spirituale del Paese di Cuccagna, e talvolta il Paese di Cuccagna, idealizzandosi alquanto, diventa un Paradiso. Sarebbe forse difficile dire se l’uno o l’altro sia il luogo di beatitudine promesso da Maometto a’ suoi seguaci. I paradisi delle religioni inferiori sono veri Paesi di Cuccagna, e poco mancò che tal Paese non diventasse talvolta anche il Paradiso cristiano, sia terrestre, sia celeste.
I Greci, ch’ebbero la finzione dell’età dell’oro e dei Campi Elisi, ebbero anche quella di una terra felice, la quale mostra con la Cuccagna grandissima somiglianza. Tale finzione sembra sia stata assai popolare ed ebbe talvolta, ma non sempre, carattere e intenzione di parodia. Ateneo ricorda nel sesto libro de’ suoi Δειπνοσοϕισταί sette poeti comici che la introdussero in loro commedie. La città degli uccelli, nella commedia di Aristofane, abbonda di ricchezze e di letizia. I racconti meravigliosi concernenti l’India e l’Etiopia indussero taluno a porre in quelle remote regioni la terra sognata; mentre certa comica bizzarria d’umore e certo gusto del paradossale, non disgiunti talvolta da intenzione satirica, indussero altri a fare della descrizione di quella terra un tessuto risibile d’ingegnose fanfaluche e di argute panzane. Con la lepidezza che gli si appartiene Luciano descrive nella Vera Istoria la città dei beati, la quale è tutta d’oro, con le porte di cinnamomo, il suolo d’avorio, i templi di berillo, gli altari d’ametista. Cinge la città un fiume d’ottimo unguento, largo cento cubiti, profondo cinquanta. Le terme sono grandi palazzi di cristallo, dove, in luogo di acqua, si adopera rugiada riscaldata. Quivi non è mai notte, né dì, ma un lume mitissimo, quale si ha il mattino, prima del levare del sole; né altra stagione vi si conosce che la primavera, né altro vento che il zeffiro. Abbondano in quella terra piante bellissime d’ogni qualità e che mai non cessano di far frutto. Le viti si coprono di grappoli dodici volte l’anno; le spiche del grano, in luogo di chicchi, recan pani. Intorno alla città sono trecentosessantacinque fontane d’acqua, altrettante di miele, cinquecento di vani unguenti, ma più piccole, sette fiumi di latte, otto di vino. L’Elisio è un campo bellissimo, cinto da una selva di grandi alberi vitrei, che recan per frutti coppe di varie forme e grandezze. Chi vuoi bere non ha che a spiccarne una, la quale tosto si colma di vino. Dense nubi assorbono dalle fontane e dal fiume gli unguenti, e premute da lievi aure li riversano in rugiada Altrove Luciano parla di un’isola di formaggio, che sorge in un mare di latte, coperta di viti che danno latte, e nei Saturnali introduce Saturno a fare una comica descrizione della felicità de’ suoi tempi. In un trattatello, greco in origine, tradotto in latino nel secolo IV, e intitolato Expositio totius mundi, si descrive un paese, dove un popolo felice, ignaro dei morbi, si ciba di miele e di pani che cadono dal cielo.
La finzione fu certamente nota anche ai Latini, sebbene nella loro letteratura non si trovi ricordata in modo esplicito. Il valoroso Terapontigono Platagidoro del Carculio di Plauto, conquistò, fra molt’altre, anche le terre di Peredia e di Perbibesia.
Nel medio evo la finzione riappare assai per tempo, e acquista di poi favore grandissimo. La troviamo la prima volta in quel poemetto latino di Unibos, che un chierico franco d’ignoto nome compose nel secolo X. Il contadino Unibos, di cui si narrano quivi le astuzie e gl’inganni, dà ad intendere a tre suoi persecutori che in fondo al mare è un regno felicissimo, e così li induce a precipitarvisi e si libera di loro. Qui si ha appena un cenno fuggevole del paese felice; ma si può credere che in alcune almeno delle versioni del racconto, che già sin da allora dovevano correre tra i volghi d’Europa, si avesse di esso una descrizione più particolareggiata, e meglio acconcia ad accendere la fantasia e sollecitare il desiderio di coloro cui si supponeva fatto l’inganno. Tale sarà stato il caso per taluno almeno dei racconti orientali, da cui probabilmente traggono la prima origine i racconti largamente diffusi in Occidente, e tale è infatti per parecchi di questi. Nei romanzi persiani è spesso ricordo di un paese di Sciadukiam, che non è punto diverso dal Paese di Cuccagna.
Non si può dire con sicurezza quando appaja da prima questo nome di Cuccagna, né molto sicura è la sua etimologia. A me basterà qui di ricordare che un abbas Cucaniensis è già in una poesia goliardica composta probabilmente fra il 1162 e il 1164; che Cuccagna fu il nome di un castello ancora in parte esistente presso Treviso; che tal nome occorre già in documenti del 1142; che un Warnerius de Cuccagna comparisce in una carta del 1188; e che nel Pataffio si legge:

Erro, cu cu andra’ tu in cuccagna
Dal pero al fico sempre perperando?

Sia qual essere si voglia l’origine del nome, il componimento più antico, fra quelli sino a noi pervenuti, ove si descriva il paese indicato per esso, è un fablieau del secolo XIII, intitolato Li Fabliaus de Coquaigne L’autore dice d’essere andato per penitenza al papa, che lo mandò al paese di Cuccagna:

Li pais a à non Coquaigne,
Qui plus i dort, plus i gaaigne.

Le case vi son fatte di pesci, di salsicce e d’altre cose ghiotte. Le oche grasse si vanno avvolgendo per le vie, arrostendosi da se stesse, accompagnate dalla bianca agliata, e vi son tavole sempre imbandite d’ogni vivanda, a cui ognuno può assidersi liberamente, e mangiare di ciò che meglio gli aggrada, senza mai pagare un quattrino di scotto. Da bere porge un fiume, il quale è mezzo di vino rosso, e mezzo di vino bianco. In quella terra il mese è di sei settimane, e vi si celebrano quattro pasque, e quadruplicate sono l’altre feste principali, mentre la quaresima viene solo una volta ogni vent’anni. I denari si trovano, come i sassi, per terra; ma non bisognano, perché nessuno compra o vende, e tutto quanto è necessario alla vita si dà per nulla. Le donne che vi sono altro non chiedono che di fare altrui piacere, e ci è la fontana di gioventù.

Qui fet rajovenir la gent.

Il poeta, uscitone, non trovò più la via di tornarvi.
Non giova ch’io vada ritessendo la descrizione delle delizie ond’è pieno, secondo i vani racconti, il Paese di Cuccagna, giacché se mutano esse nei particolari, o nell’ordine con cui sono presentate, rimangon sempre, sostanzialmente, le stesse, e non muta lo spirito di sensualità, alle volte assai grossolano, che ne suggerisce e ne informa il concetto. E nemmeno tenterà di rifare la storia della finzione nel medio evo e nel tempo di poi, o di ricordare ordinatamente i componimenti cui essa diede materia nelle varie letterature d’Europa, bastando al proposito mio ch’io noti della finzione alcun elemento principale, alcun carattere più generale.
Il più delle volte non si dice, e per buone ragioni, dove sia il Paese di Cuccagna, o la situazione sua s’indica con parole scherzevoli che non danno senso, come le drey Meil hinter Weynachten, di una poesia di Hans Sachs. Talvolta invece si ha una indicazione geografica più o meno determinata e precisa. La terra di Bengodi, della quale Maso narra le meraviglie a Calandrino, terra dove si legano le vigne con le salsicce, ed hassi un’ oca a denajo e un papero giunta, è posta nel paese dei Baschi, ed è lontana da Firenze più di millanta miglia[1]. In un poemetto inglese, composto, come pare, verso la fine del secolo XIII, o sul principiar del seguente, il paese di Cuccagna è in mezzo al mare, ad occidente della Spagna. In un codice del Museo Correr si ha una Descrittion del Paese di Cuccagna vicino a S. Daniel, città nel Friuli, Stato della Repubblica veneta . Finalmente, in un dramma religioso tedesco lo Schlaraffenland è tra Vienna e Praga. Qui il Paese di Cuccagna s’immagina in luogo assai prossimo a chi scrive: altrove, per contro, è accennata grande distanza, senz’altre indicazioni geografiche. Nella Historia nuova della città di Cuccagna, data in luce da Alessandro da Siena e Bartolamio suo compagno, si dice che per andare in Cuccagna bisogna viaggiare ventotto mesi per mare e tre per terra; e quodam terrae cantone remoto pone il felice paese Teofilo Folengo. Una poesia tedesca del secolo XVI lo pone a mano manca del Paradiso terrestre, mentre un’altra vuole si avverta che esso non è nel Paradiso, dov’era vietato di mangiare. A questo proposito è da notare che l’autore del poemetto inglese testé ricordato giudica il Paese di Cuccagna assai miglior luogo del Paradiso, ove non c’è altro da mangiare che frutta, e altro da bere che acqua.
Se un desiderio, dirò così, generico di felicità e d’innocenza suscita nell’anime devote l’immagine delle delizie del Paradiso, un desiderio più particolare di uscir di stento; di appagare gli appetiti più animaleschi e più imperiosi susciti l’immagine delle delizie del Paese di Cuccagna in tutti i miseri, in tutti gli affamati, in tutti coloro la cui vita è un perpetuo combattimento, fatto più aspro e doloroso dallo spettacolo degli agi e delle lautezze altrui. Per tutti costoro la Cuccagna è una vera terra promissionis com’ebbe a dirla Geiler di Keisersberg, da far riscontro alla terra repromissionis sanctorum delle leggende ascetiche, e dove si mangia e si beve e d’ogni buona cosa si gode senza metter mai fuori un quattrino. Perciò coloro che ne celebrano le meraviglie spesso si volgono ai poveretti, e li chiamano a raccolta, e annunzian loro che anche per essi è venuta finalmente l’ora di scialare: e chi li invita si trova nella stessa loro condizione. In certo Capitolo di Cuccagna esclama il poeta:

hor andiamoci tutti, o poverelli!

e in certo Trionfo de’ poltroni:

Deh poveretti non stemo più a stentar!

L’autore di una poesia spagnuola intitolata La isla de Jauja, detto che in quella terra chi lavora riceve dugento bastonate ed è cacciato in bando, descritte tutte le comodità di cui vi si gode, si volge ai poveri idalghi, al gran popolo dei miseri:

Animo pues, caballeros,
Animo, pobres hidalgos;
Miserables, buenas nuevas,
Albri ias todo cuitado,
Que el que quisiere partirse
A ver este nuevo pasmo,
Diez navìos salen juntos
De la Coruna este ano.

Ma poiché i pasciuti hanno sempre confuso gli affamati coi furfanti, così vediamo il Paese di Cuccagna, sogno degli affamati, diventare talvolta una terra di riprovazione. Dallo Schiaraffenland descritto da Hans Hachs sono sbanditi gli uomini morigerati e dabbene: le bugie vi son tenute in gran conto, e chi più le dice grosse è premiato:

für ein gross lügn gibt man ein kron,

Per contro si vede la finzione del Paese di Cuccagna adoperata come strumento di satira e d’inventiva contro i panciuti e i gaudenti. Così nel poemetto inglese citato di sopra, il quale è tutto una satira contro la grassa e dissoluta vita dei monaci. A volte poi i racconti non sembrano nascere da altro che dalla voglia di ridere e di sballarle grosse. Il Novati giustamente distingue dalla immaginazione dei Paese di Cuccagna certe immaginazioni epicuree, quali son quelle che s’incontrano nel fabliau di Belle Eyse e nella descrizione che il Rabelais fa dell’abbazia di Thélème.
Se le finzioni greche, di cui s’è detto di sopra, sono talvolta parodia dell’età dell’oro o dell’Elisio, la finzione del Paese di Cuccagna non è, o almeno di rado è, una parodia voluta del Paradiso terrestre. Le vere parodie di questo bisogna cercarle altrove, nel Paradis perdu del Parny, in un poemetto intitolato Adam et Eve e inserito nel volume VI della raccolta L’Evangile du jour, pubblicata in Parigi, dal 1769 al 1778, ecc.
Finalmente è qui da dir qualche cosa di quelli che si possono chiamare paradisi artificiali. Non è improbabile che i giardini sospesi di Babilonia volessero essere una riproduzione del Paradiso assiro. Il più celebre di questi paradisi artificiali fu senza dubbio quello del famoso Veglio della Montagna, di cui tanto si parlò e si scrisse nel medio evo. Narrasi in certe tradizioni orientali che Ad, pronipote di Noè, divisò un meraviglioso giardino, e quello poi disse essere il Paradiso, e che Sceddad, figliuolo di Ad, costruì una città chiamata Gennet, cioè Paradiso, la quale sparì dopo l’esterminio di lui e de’ suoi. Di questo Paradiso molti autori mussulmani fanno ricordo. Secondo Scehabeddin, nel Libro delle perle, Scheddad, avendo saputo che nel Paradiso terrestre le colonne erano d’oro e d’argento, la polvere di muschio e d’ambra, e i sassi gemme, volle rifare quelle meraviglie, e mandò messi pel mondo, i quali penarono cent’anni a trovare un luogo acconcio. Altri soggiungono che la città di Sceddad era costruita nei deserti d’Aden; che le mura de’ suoi edifizii erano d’oro e d’argento, le colonne di smeraldi e di rubini, e che c’erano voluti trecento anni per erigerla, Ibn Khaldun, ne’ suoi Prolegomeni storici, lamenta la credulità degli scrittori che avevano divulgato quelle favole. Di un orto nel quale s’erano fatti seppellire Jannes e Mambres, magi di Faraone, con la speranza di risuscitarvi, e vivervi come in un paradiso, si narra nelle Vite de’ Santi Padri.

Nota
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[1] Decamerone, giorn. VIII, nov. 3

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL RIPOSO DEI DANNATI

Ciò che fa maggiore impressione sull’animo di un lettore moderno della Visio Pauli, non è la descrizione degli orrori e dei tormenti infernali, né la descrizione, assai più sbiadita, degli splendori e dei gaudii celesti, in quella unica redazione che la contiene; ma bensì la parte del racconto in cui si narra della sospensione di pena conceduta ai dannati, nell’abisso d’inferno. Guidato dall’Arcangelo Michele, San Paolo ha tutto percorso il doloroso regno, ha veduto i varii ordini di peccatori e gli aspri castighi a cui li assoggetta la divina giustizia, ha versato a quella vista lacrime di pietà e di dolore. Egli sta per togliersi all’orror delle tenebre, quando i dannati gridano ad una voce: «O Michele, o Paolo, movetevi a compassione di noi; pregate per noi il Redentore!». E l’arcangelo a loro: «Piangete tutti, ed io piangerà con voi, e con me piangeranno Paolo e i cori degli angeli: chi sa che Dio non v’usi misericordia». E i dannati gridano: «a Miserere di noi, figliuolo di David!» ed ecco scende dal cielo Cristo incoronato, e rinfaccia ai reprobi la malvagità loro, e ricorda il sangue inutilmente versato per essi. Ma Michele e Paolo e migliaja di migliaja di angioli s’inginocchiano dinanzi al figliuol di Dio, e chiedono misericordia, e Gesù mosso a pietà, concede alle anime tutte che sono in Inferno tanta grazia che abbiano requie, e sieno senza tormento alcuno, dall’ora nona del sabato all’ora prima del lunedì.
Questa poetica finzione, impregnata di un così ardente alito di umanità, è, a parer mio, la più bella e la più nobile di quante se ne trovino nelle Visioni anteriori alla Divina Commedia; e poiché la Visione che la contiene è una delle più celebri e più diffuse nel medio evo, e ce n’ha, insieme con altre versioni volgari, anche qualche versione italiana; e poiché gli è assai probabile che Dante questa Visione l’abbia conosciuta, non sarà, credo, senza qualche utilità discorrere di essa finzione, e delle ragioni ed origini sue, le quali son molto più antiche e più generali di quanto si potrebbe alla bella prima immaginare. Ciò mi porgerà pure occasione e modo di fare alcune osservazioni sopra l’«Inferno» dantesco.
Della eternità delle pene infernali la Chiesa cattolica fece, come tutti sanno, un dogma. Non solo i tormenti dei dannati non avranno mai fine, ma non avranno mai neanche mitigazione: anzi, dopo il giudizio universale, e dopo che alle anime saranno restituiti i corpi, si faranno più atroci di prima. Non indaghiamo se nelle parole dei profeti e negli evangeli il dogma abbia sicuro fondamento, o se ve l’abbia l’opinione contraria, che la Chiesa condanna; non discutiamo gli argomenti addotti e contrapposti dai sostenitori dell’una e dell’altra credenza: l’officio nostro non è di esegeti, e tanto men di polemici; l’officio nostro è di storici, e un tantino anche di psicologi, desiderosi di darsi conto di un motivo religioso, che diventa, in un particolar genere di letteratura, anche motivo poetico.
Riportiamoci con la mente alla prima età del cristianesimo, all’età che si può chiamare precostantiniana. La religione di Cristo è allora, essenzialmente, una religione d’amore. I dogmi, che dovevano poi raccogliere in forme rigide ed invariabili la sostanza della fede, o non son nati ancora, o non sono ancora ben definiti; i grandi concilii non si sono per anche adunati e non hanno piegato le coscienze sotto il grave giogo dell’autorità. La Chiesa si edifica, e ciascun operajo lavora un po’ di suo capo all’edifizio comune: le frontiere dell’ortodossia e dell’eresia sono incertamente segnate. La fede è viva e calda, ma alquanto indeterminata; essa e anche serena e piena d’abbandono, e non conosce le tetraggini e l’ansie che la sopraffaranno più tardi. Una grande speranza la penetra e la feconda: la comune credenza è che i più saran salvi. San Paolo aveva detto: Come tutti muojono in Adamo, così tutti rivivranno in Cristo.
Circa il principio del secolo III Clemente Alessandrino nega le pene puramente afflittive; la pena per lui ha sempre carattere e scopo pedagogico. Origene, suo illustre discepolo, uno dei più grandi spiriti ch’abbia prodotto l’antichità cristiana, e certo il più libero e il più liberale, afferma la salvazione finale di tutte le creature, compreso Satana e gli angeli suoi, il ritorno a Dio di quanto viene da Dio (᾽αποκατ' αστασις των παντων). La dottrina sua era fatta per cattivare gli animi più generosi e aperti; ma per ciò appunto non potè prevalere. Impugnata e contraddetta da impetuosi avversari mentr’egli era vivo ancora, quella dottrina fu condannata dal sinodo di Alessandria del 399 e poi, anche più risolutamente, dal concilio ecumenico costantinopoliniano del 545.
La dottrina contraria, la dottrina che affermava l’eternità delle pene infernali e la dannazione irrevocabile, trionfava, s’imponeva alle coscienze, diventava dogma. Ma il suo trionfo non fu e non poteva essere intero ed assoluto. Da una parte essa si trovò di fronte lo spirito critico e speculativo, cui non riesce ad impor silenzio un canone conciliare; da un’altra il sentimento, che, ributtato o compresso, torna ostinatamente alla sua condizion naturale. E lo spirito critico e speculativo diede più particolarmente forma a dottrine teologiche eterodosse, mentre il sentimento la diede in più particolar modo a credenze popolari. Nel quarto secolo Gregorio di Nazianzo e Gregorio di Nissa insegnano la temporalità delle pene infernali e la restaurazione finale di tutte le creature nel bene. San Gerolamo parla di coloro che al tempo suo avevano quella medesima credenza. Da altra banda l’opinione, già sostenuta da Taziano, da Ireneo, da Arnobio, che i reprobi dovessero perir nel castigo e rimanere annientati non mancò di seguaci né allora, né poi. Ma come più la dottrina della Chiesa s’andava determinando e acquistava rigore dogmatico, più doveva agitarsi negli animi il desiderio di sfuggire, in parte almeno, alle sue terribili conseguenze. La coscienza dei credenti non oserà più contraddire alla dottrina ortodossa in ciò che essa ha di essenziale, ma s’ingegnerà, e le verrà fatto, di temperarla alquanto, di piegarne la rigidezza soverchia. Il ricco malvagio ricordato da Luca non può ottenere che una goccia d’acqua gli bagni le labbra arse dall’incendio infernale, e nell’Apocalissi detta di San Giovanni è scritto che i dannati stanno tormentati nei secoli dei secoli, senza aver mai requie né giorno né notte[1]: la semplice teologia del sentimento affermerà che ai dannati la misericordia divina accorda talvolta riposo e refrigerio. Il dogma vuole che i dannati rimangano chiusi nell’Inferno in perpetuo: quella stessa teologia del sentimento non lo negherà, ma romperà con alcuna eccezione la regola, narrerà di dannati che in virtù di grazia speciale poterono uscir dall’Inferno. La teologia popolare si farà lecito di dissentire dalla teologia dogmatica, e delle due la prima sarà la più pietosa e la più umana. Quanto alle ragioni del dissenso non occorre andar molto lontano a rintracciarle; esse scaturiscono dalla stessa natura dell’uomo razionale ed affettiva.
Ed ecco qua un primo e curiosissimo documento di quella teologia più pietosa e più umana: l’apocrifa apocalissi di San Paolo, composta probabilmente da un qualche monaco greco. Di apocalissi attribuite all’apostolo delle genti ce ne furono due, ricordate da Sant’Agostino, da Sozomene, da Epifanio, da Michele Glica e da altri: di esse l’una andò perduta, se pur non la conserva alcun manoscritto ignorato; l’altra fu ritrovata dal Tischendorf nel 1843 e da lui pubblicata. L’editore opina ch’essa sia stata composta nel 380, il qual anno, se non è proprio quello della composizione, di poco certo se ne discosta. L’autore di questa scrittura s’inspirò evidentemente a quanto San Paolo dice, con coperte parole, nella epistola seconda ai Corinzii, di un suo rapimento al terzo cielo. Guidato da un angelo, San Paolo assiste al giudizio delle anime, vede il soggiorno dei beati, percorre l’Inferno. A un certo punto scende di cielo l’arcangelo Gabriele con le schiere celesti, e i dannati implorano soccorso. San Paolo che ha pianto sui tormenti inenarrabili che ha veduti, prega insieme con gli angeli: Cristo appare mosso dalle loro preghiere, e concede ai reprobi di poter riposare la domenica della sua risurrezione, a cominciar dalla notte che la precede.
L’incognito autore di questo apocrifo ammetteva dunque che i dannati riposassero un giorno nell’anno e propriamente il giorno della risurrezione di Cristo; ma tale credenza non era di lui solo, era, sembra, di molti intorno a quel medesimo tempo. Aurelio Prudenzio (c. 348-408?) la ricorda e la professa in certi versi famosi di un suo inno[2].

Sunt et spiritibus saepe nocentibus
Poenarum celebres sub Styge feriae
Illa nocte sacer qua rediit Deus
Stagnis ad superos ex Acheruntiis
Marcent suppliciis tartara mitibus,
Exultatque sui corporis otio
Umbrarum populus, liber ab ignibus,
Nec fervent solito flumina sulphure.

Se si considera che l’autore dell’Apocalissi di San Paolo era greco, e che Prudenzio era spagnuolo, si dovrà ammettere che la credenza fosse molto diffusa: a tale diffusione sembra in fatti che voglia alludere lo stesso poeta quando chiama celebri le ferie concedute ai dannati. Ma di quella diffusione un’altra prova ci si porge, anche più importante. Nel cap. 112 dell’Encheiridion, Sant’Agostino dice, accennando appunto a coloro che tenevano quella credenza: poenas damnatorumn, certis temporum intervallis existiment, si hoc eis placet, aliquatenus mitigari Egli non la biasimava dunque, sebbene non la facesse sua, e tra coloro che in quel tempo la professavano era nientemeno che San Giovanni Crisostomo. Nella leggenda di San Macario egizio, narrata già da Rufino d’Aquileja (c. 345-410), si ricorda come il santo anacoreta trovasse una volta nel deserto un teschio, s’intrattenesse con esso delle pene dell’Inferno, e da esso sapesse che la preghiera reca alcun lieve refrigerio ai dannati.
Gli scritti che vanno sotto il nome di Dionigi Areopagita appartengono, secondo fu dimostrato dalla critica più recente, ai tempi di Proclo, se non alla prima metà del secolo VI a dirittura. In una delle epistole che vi si leggono, la ottava, è narrata una visione di San Carpo, inspirata evidentemente da quello stesso sentimento di umanità che informa la credenza ricordata pur ora. Cristo vi mostra una grande pietà per i pagani che i diavoli cacciano nell’inferno, si dice pronto a morire una seconda volta per gli uomini, ed egli e gli angeli suoi stendono soccorrevolmente la mano a coloro che stanno per essere inghiottiti dall’abisso. In sul finire del secolo VI, o in sul principiare del VII, Isidoro di Siviglia crede che i suffragi giovino in qualche modo alle anime dannate, e la leggenda ascetica afferma di bel nuovo che alle anime dannate è conceduta alcuna requie o alcun refrigerio. La Visione di San Baronto risale alla fine del secolo VII, e in essa si dice che quelli tra i dannati i quali hanno fatto nel mondo alcun bene, solo all’ora sesta di ciascun giorno, confortati con un po’ di manna del Paradiso. Qui la pietà giunge a far scendere ogni giorno in Inferno una particella, sia pur piccolissima, della beatitudine celeste. Nella Visione del monaco Wettin, ch’è del principio del secolo IX, si dice, parlando del castigo a cui sono assoggettati in Inferno i chierici incontinenti e le loro concubine, che essi sono flagellati tutti i giorni della settimana, meno uno, nelle parti genitali.
In quel medesimo secolo IX, il più copioso di leggende ascetiche fra tutti i secoli del medio evo, comincia pure a diffondersi fra i cristiani dell’Occidente la Visto Pauli, la quale altro in sostanza non e se non la versione latina della greca Apocalissi di San Paolo. Quella versione, e le versioni volgari che ne derivano, presentano, rispetto al testo originale, nelle redazioni varie, diversità di maggiore minore rilievo; ma una è quella che più particolarmente chiama la nostra attenzione. Nell’Apocalissi greca un sol giorno di riposo si concede ai dannati, la domenica della risurrezione di Cristo, con le due notti ancora fra le quali è compresa: nella Visio latina, e nelle versioni volgari, i dannati riposano tutte le domeniche, anzi, più propriamente, dall’ora nona del sabato alla prima del lunedì.
Il D’Ancona, ponendo mente alle parole con cui la Visione comincia in alcune redazioni latine e volgari, pensò la santificazione della domenica essere il concetto animatore di tutta la leggenda. Se non che tale pensiero egli esprimeva quando le redazioni latine più antiche non erano conosciute ancora e non erano conosciute le relazioni della Visione latina coll’Apocalissi greca. Nell’Apocalissi greca i dannati riposano, come s è veduto, la domenica di risurrezione; ma il concetto che informa quella parte della leggenda, non è la osservanza e la santificazione di un giorno sacro; bensì è il pensiero semiorigeniano di una intermittenza nelle pene infernali. Così pure nelle redazioni latine più antiche della Visione, dove nulla è detto della particolare santità della domenica, e della osservanza in cui la domenica vuoi essere tenuta, il concetto che informa la leggenda è pur sempre questo stesso pensiero semiorigeniano, e si può dire che continui ad essere anche nelle redazioni latine più recenti, e nelle volgari, nonostante ciò che intorno la domenica vi si nota espressamente. Non è però che la santità del giorno sia stata senza importanza, e senza esercitare un qual che influsso sulla leggenda. Se nell’Apocalissi vediamo assegnata ai dannati, quale giorno di riposo, la domenica di risurrezione, non dovette esser lungi dalla mente dell’autore il pensiero che essendo quello un giorno di universale salute, anche i dannati dovevano averne qualche beneficio. E se nella Visione il riposo si allarga a tutte le domeniche dell’anno, possiamo credere che ciò non avvenga in tutto fuori del pensiero che la domenica è per se stessa giorno di salute e di grazia. Di essa aveva detto Sant’Agostino: Domini enim ressuscitatio promisit nobis aeternum diem, et consecravit nobis dominicum diem; e ancora: Dominicus dies..., aeternam non solum spiritus, verum etiam corporis requiem proefigurans[3]. Si può ricordare, a questo proposito, che secondo i musulmani il fuoco infernale cessa di ardere il venerdì. Del resto anche un altro concetto si fa manifesto tanto nell’Apocalissi quanto nella Visione, il concetto della grandissima efficacia e della quasi irresistibilità della preghiera,

Che vince la divina volontate.

Il credente, il quale ha ferma fede nella efficacia della preghiera, difficilmente può indursi a pensare che questa efficacia possa in tutto mancare in certi casi, e io stesso dicasi quanto alle altre pratiche, cui sia annessa virtù deprecatoria e propiziatoria, e alle cose tutte cui sia attribuito un carattere sacro e una qualche virtù taumaturgica, come le reliquie, l’acqua benedetta, ecc. Al qual proposito vuoi essere notato che nella fede volgare quelle pratiche e quelle cose acquistano una virtù loro propria, di cui altri può giovarsi per un fine anche malvagio. Nei poemi epici del medio evo si parla spesso di reliquie tolte dai saraceni ai cristiani, e delle quali i saraceni al par dei cristiani si posson giovare. In certi malefizii magici si faceva uso di cose consacrate. Della virtù della preghiera si trovano dimostrazioni ed esempii in parecchie religioni oltre la cristiana: mi basterà di citarne un caso che fa più particolarmente per noi. Fu opinione dei rabbini che la punizione dei malvagi in Inferno fosse sospesa durante le preghiere solite a farsi ogni giorno dai credenti. Queste preghiere eran tre, e il riposo per ciascuna preghiera era di un’ora e mezzo. A questo si aggiungeva il riposo del sabato e delle feste del novilunio. Qui vuoi anche essere ricordato che in certi antichi offici della messa si trova una preghiera pro anima de quo dubitatur, e che si leggono in essa le seguenti parole: ut si forsitan ob pravitatem criminum non meretur surgere ad gloriarn, per haec sacrae oblationis libamina vel tolerabilia fiant ipsa tormenta.
Riprendiamo la enumerazione delle immaginazioni e delle leggende in cui è in vario modo espressa la credenza che le pene dei dannati possono essere alcuna volta mitigate o sospese.
San Pier Damiano (988-1072) racconta quanto segue: «Non mi par da tacere ciò ch’io appresi dall’arcivescovo Umberto, uomo di somma autorità. Tornando egli dai confini di Puglia, asseriva essere nel territorio di Pozzuoli un promontorio sassoso e ronchioso, sorgente di mezzo ad acque negre e puzzolenti. Fuor da quell’acque vaporanti si vedono repentinamente sorgere, per consueta usanza, uccelli di spaventevole aspetto, i quali, dall’ora vespertina del sabato sino al nascer del sole del lunedì, son soliti mostrarsi alla vista degli uomini. Durante quel conceduto spazio di tempo si vedono vagare liberamente in qua e in là per il monte, come prosciolti d’ogni vincolo. Spandono l’ali, si ravviano col becco le penne, e per quanto è dato d’intendere si rifanno nella tranquillità del refrigerio che per un tempo è loro largito. Questi uccelli non sono mai veduti cibarsi, nè si possono prendere, per nessun’arte che s’usi. Come schiara l’ora matutina del lunedì, ecco che un corvo, grande quanto un avvoltojo, si mette lor dietro, gravemente gracchiando dalla concava gorga. Quegli incontanente si sommergono nell’acque e si nascondono, nè più si lascian vedere, sino a che all’imbrunire del sabato novamente si levano dalla voragine dello stagno sulfureo. Però vogliono alcuni che sieno essi anime d’uomini dannati alle vendicatrici pene dell’Inferno, le quali anime, tormentate tutti gli altri giorni della settimana, abbiano, a gloria della risurrezione di Cristo, refrigerio la domenica e l’una e l’altra notte tra cui quella è compresa»[4].
San Pier Damiano ricorda, a questo proposito, i versi di Prudenzio, riferiti qui sopra, e dice che Desiderio, abate di Montecassino, sopraggiunto quando egli aveva scritto il racconto di Umberto, negò recisamente la cosa, mentre dal canto suo Umberto disse di non affermarla come vera, ma d’averla solamente riferita quale si narrava dagli abitanti della campagna di Pozzuoli.
Corrado di Querfurt (m. 1202) narra in sostanza il medesimo fatto, ma con qualche diversità, nella nota lettera scritta di Puglia l’anno 1196 allo scolastico Herbord. Egli pone la scena del miracolo in Ischia, forse per un error di memoria, e propriamente intorno a cena bocca dell’inferno che si vedeva: «Tutti i sabati, circa l’ora nona, in prossimità di quel medesimo luogo, si vedono, in certa valle, uccelli nera, e brutti di sulfurea fuliggine, i quali ivi riposano la domenica fino all’ora del vespero, quando con gran dolore e lamento se ne partono e s’immergono in un lago bollente, nè più ritornano sino al sabato susseguente. E stimano taluni siano essi anime tormentate, oppur demonii». Il racconto di San Pier Damiano è riferito, quasi con le stesse parole, da Vincenzo Bellovacense.
Corrado di Querfurt dice che quegli uccelli erano creduti da alcuni anime dannate, o demonii, e demonii veramente sono gli uccelli che incontra nell’avventuroso suo viaggio San Brandano, la cui leggenda latina risale per lo meno all’XI secolo, e quelli ancora che in prossimità del Paradiso terrestre trova Ugone d’Alvernia, e che hanno riposo la domenica. Tale immaginazione deve essere del resto assai antica, perché se ne trova traccia nella leggenda di San Macario Romano, attribuita ai tre monaci Teofilo, Sergio ed Igino.
Che la preghiera potesse alleviare la pena dei dannati, era, come abbiamo veduto, opinione di alcuni, anzi di molti; ma non mancavano altri modi d’alleviarla. Cesario di Heisterbach (m. c. 1240) racconta a tale proposito una edificante novella. Certo milite morto fa manifesto a un tale d’essere in Inferno per avere tolto ingiustamente l’altrui, e dice che se i figliuoli suoi volessero farne restituzione, potrebbero scemargli alquanto il castigo. I tristi figliuoli preferiscono lasciarglielo intero. In una novellina popolare della Bassa Brettagna, viva ancora tra il popolo, ma, probabilmente, antica di origine, un fanciullo mitiga nell’inferno le pene dei dannati gettando acqua benedetta nelle caldaje dove essi stanno a bollire.
Non era possibile che in così fatto ciclo di leggende o prima o poi non entrasse la Vergine, la pietosissima donna, la interceditrice a cui nulla si nega, l’avvocata dei peccatori. Il già citato Tischendorf diede notizia di un’apocalypsis Mariae, conservata in parecchi codici greci, e opera certamente di un monaco del medio evo. La leggenda ebbe, sembra, varie redazioni; ma la sostanza del racconto è la seguente. Maria desidera di visitare l’Inferno, e l’arcangelo Michele, accompagnato da numerosa schiera di angeli, ve la conduce. Vedute le pene orribili dei dannati, ella chiede d’essere condotta in cielo, affine di poter pregare Iddio per loro. L’arcangelo le dice che egli, insieme con gli angeli tutti, prega per i dannati sette volte il dì e sette volte la notte, ma invano. Maria insiste, e rinnovate le preci coi concorso di tutti i beati, Dio accorda un alleviamento di pena, alleviamento che dai frammenti trascritti dal Tischendorf non si può capire qual sia. Mi par probabile che questa apocalypsis Mariae altro non sia che una imitazione dell’apocalypsis Pauli, con la quale ha veramente molta somiglianza, e la sostituzione della Vergine all’apostolo parrà più che naturale a chiunque abbia qualche familiarità con le leggende mariane del medio evo, e specialmente con quelle in cui si vede la Vergine adoperarsi e intercedere per i peccatori più malvagi e più induriti. E nel medio evo fu opinione di alcuni che le pene dei dannati fossero mitigate, in grazia della Vergine, nel santo giorno dell’assunzione di lei.
Il naturale sentimento di pietà che suggeriva l’idea di una generale mitigazione di pena accordata in certi tempi, e con certe condizioni, ai dannati, poteva pure, anzi doveva suggerir l’idea di certe mitigazioni speciali accordate ai dannati più rei, a quelli cui alcun singolare peccato, eccedente i termini della malvagità consueta, procacciava in Inferno o anche fuori di esso, alcuno speciale castigo, eccedente i modi delle pene ordinarie. Il più malvagio dei peccatori, il più indegno di perdono, o di commiserazione, è Giuda, e la pena cui egli soggiace è di regola, tra quante colpiscono i dannati, la più terribile e la più orrenda. Ne fanno fede le Visioni tutte e tutte le descrizioni dell’inferno, nelle quali è parola di lui; e un pezzo prima di Dante, altri aveva pensato di porre tra le formidabili mascelle di Lucifero il discepolo traditore. Ma la stessa immanità del castigo, voluta dal fervore della fede, doveva destare negli animi meno rigidi un senso di pietà, e suggerire il pensiero di un temporaneo alleviamento. Secondo una leggenda musulmana, Iblîs, veduto che Dio aveva perdonato ad Adamo, chiese ed ottenne che il proprio castigo fosse sospeso sino al dì del Giudizio.
Nel corso della sua miracolosa peregrinazione, San Brandano trova Giuda seduto sopra una pietra in mezzo all’oceano; dinanzi a lui pende un panno, raccomandato a certe forche di ferro. Le onde lo assalgono e lo percotono d’ogni banda, recedono, lo investono di bel nuovo; il vento gli sbatte quel panno nel volto. Interrogato dal santo egli dà contezza di sé e narra la propria pena. Per sei giorni consecutivi egli arde e arroventa, simile a massa di piombo fuso; ma il settimo, cioè la domenica, la misericordia divina gli accorcia quel refrigerio, in onore della risurrezione di Cristo. Il medesimo alleviamento di pena gli è conceduto dalla Natività sino alla Epifania, dalla Pasqua sino alla Pentecoste, e dalla Purificazione sino all’Ascensione di Maria. Negli altri giorni soffre inenarrabili tormenti in compagnia di Erode, di Pilato, di Anna e di Caifasso. Quel panno egli diede in vita a un lebbroso; ma poiché non era suo, gli nuoce ora, più che non gli giovi, la mal fatta elemosina. Le forche di ferro diede ai sacerdoti dei Tempio perché se ne servissero a sorreggere le caldaje. La pietra su cui siede usò a turare certa fossa che era in una pubblica via di Gerusalemme. Il suo refrigerio dura dal vespero del sabato a quello della domenica, e in confronto delle torture che sopporta gli altri giorni, gli par quello un paradiso? San Brandano, per quella volta, glielo prolunga sino allo spuntare del sole del lunedì.
Dalla leggenda di San Brandano lo strano racconto passò, alterandosi in varii modi, nella Image du monde, in una leggenda di Giuda, latina ed in versi, pubblicata solo in parte dal Du Méril, nella continuazione Huon de Bordeaux, così in verso, come in prosa, nel Baudouin de Sebourc. Nella continuazione dell’Huon de Bordeaux, Ugone trova Giuda perpetuamente sbattuto in un gran gorgo di mare, dove passano e ripassano tutte le acque del mondo. Il dannato non ha altro schermo che un pezzo di tela, postogli da Cristo accanto al viso. Di altra pena, o di riposo, non è cenno.
Che alleviamento e abbreviamento di pena si potesse procacciare alle anime purganti, con la elemosina, con la preghiera, e altre pratiche di devozione era credenza universale, e su di essa non fa bisogno d’insistere; ma l’alleviamento assumeva anche in tal caso, alle volte, una forma e un carattere che importa di far rilevare. In principio dei secolo VIII San Bonifazio, narra in una delle sue epistole la visione di un tale che vide anime purganti, in figura di uccelli neri, uscir di un pozzo che vomitava fiamme, posare alquanto sul margine, e riprofondarsi nel pozzo. Nella Visione che da lui prende il nome (fine del secolo IX) Carlo il Grosso trova in Purgatorio suo padre Luigi, che un giorno sta immerso in un dolio d’acqua bollente, e un altro in un dolio d’acqua tiepida e chiara, grazia concedutagli per le preghiere di San Pietro e di San Remigio. Migliore d’assai la condizione del re Comarco, cui Tundalo vede sedere con gran gloria e letizia sopra uno splendido trono, in un

Nomar le donne antiche e i cavalieri;

vien meno al racconto dei casi di Francesca e Paolo; lagrima sull’affanno di Ciacco; ha il cor compunto alla vista del castigo che travaglia i prodighi ecc. Vero è che quando egli non può tener lo viso asciutto vedendo lo strazio degli indovini, Virgilio gliene fa rimprovero e io ammonisce con le terribili parole:

Qui vive la pietà quando è ben morta;

ma lo stesso Virgilio, divenuto tutto smorto in su la proda

Della valle d’abisso dolorosa,

aveva detto al discepolo:

L’angoscia delle genti
Che son quaggiù nel viso mi dipigne
Quella pietà che tu per tema senti[5].

Ma la pietà altrui può essa arrecare qualche beneficio ai dannati? e può mai aversi in inferno alcuna interruzione o alcun alleviamento di pena? Parlando della bufera che travolge i peccator carnali, Dante la chiama

La bufera infernal che mai non resta;

e di quei peccatori dice espressamente:

Nulla speranza li conforta mai
Non che di posa, ma di minor pena;

ma poco più oltre fa dire a Francesca che il vento alcuna volta si tace, e questi riposi del vento non si possono intendere disgiunti da un certo riposo concesso alle anime dannate. La piova dei terzo cerchio imperversa sempre ad un modo,

Regola e qualità mai non l’è nova;

ma i dannati

Dell’un de’ lati fanno all’altro schermo[6],

e si volgono spesso, e riescono in tal modo a trovare un alleggiamento, sia pur piccolissimo, al loro tormento. Similmente i dannati dei cerchio ottavo, sommersi nella pegola ardente, guizzan fuori alquanto ad alleggiar la pena. Per contro i dannati, o almeno i diavoli, possono andar soggetti a un accrescimento di doglia prima ancora dei Giudizio universale: dopo il Giudizio, i dannati rivestiti dei corpi loro, soggiaceranno a pena maggiore [7].
Dante ammette che i dannati possono avere, in mezzo alla spaventosa loro miseria, alcuna consolazione. Francesca e Paolo hanno dallo stare insieme, non accrescimento, ma lenimento di pena. Virgilio invita il discepolo a chiamarli a sé per quell’amor che i mena, ed essi non sanno resistere all’affettuoso grido, e delle lacrime di Dante si mostrano riconoscenti. I dannati cui non bruttarono colpe vili, desiderano, come Ciacco, Pier delle Vigne, Brunetto Latini, Guido Guerra, Tegghiajo Aldobrandi, Jacopo Rusticucci, il conte Ugolino, che la memoria di loro sia rinfrescata o vendicata nel mondo, e Dante promette ad alcuno il suo ajuto. Afferma San Tommaso d’Aquino che l’amore dei congiunti e degli amici non lenisce, ma inacerba i tormenti dei dannati, i quali se ne sentono indegni. Dante non la pensa proprio a quel modo. Cavalcante Cavalcanti, tuttoché dannato, ama il figliuolo, e certo non può essergli grave d’essere amato da lui; Brunetto Latini senza dubbio si allieta dell’affetto che addimostragli Dante.
Che Dante abbia conosciuta la Visio Pauli è più che probabile; che non l’abbia imitata in quella finzione dell’interrotto castigo è, credo, da deplorare. Di quella finzione il meraviglioso suo ingegno avrebbe saputo senza dubbio giovarsi. Con far tacere subitamente le grida disperate dei dannati, con farle poi ricominciare, giunto il termine del riposo, più spaventose di prima, egli avrebbe trovata la via a bellezze poetiche di prim’ordine, degne del poema immortale. San Tommaso forse fu quegli che non gliel permise.

Note
_________________________________

[1] XIV, 11.
[2] Catherinon, inno V.
[3] Prologus in psalmox, De civiiate Dei, 1, XXII, c. 30.
[4] Epistula IX, ad Nicolaum II ponteficem maximum.
[5] «Inferno», V, 71; VI 58-59; VII. 36; XX, 28-30
[6] «Inferno», V, 13, 44-45, 96; VI, 7-9, 20-I.
[7] «Inferno», VI, 103-111

 

 

 

 

LA CREDENZA NELLA FATALITÀ

I

Nel dogma cristiano la dottrina del fato, quale già l’ebbero gli antichi, del fato esistente in sé e per sé, come separata e suprema potenza, non può trovar luogo: essa ripugna troppo al concetto del Dio uno e massimo che campeggia nei libri sacri dell’Antico e del Nuovo Testamento, e in cui è fondata la fede. Le opinioni e le sentenza dei Padri e dei Dottori della Chiesa in proposito, così dei più come dei meno antichi, sono concordi ed esplicite; e San Tommaso che le accoglie, le condensa e le epiloga, mostra come il fato, il caso e la fortuna si risolvano da ultimo nella potestà, volontà e provvidenza di Dio, e come la stessa necessità delle cose materiali, essendo conseguenza della natura e dell’ordinamento loro, sia perciò un effetto mediato dell’unica potestà divina, creatrice e ordinatrice del tutto. Dante descrive la fortuna come una ministra di Dio, intesa a permutare li ben vani

Di gente in gente e d’uno in altro sangue
Oltre la difension de’ senni umani.

Il Petrarca, seguendo la opinione di San Girolamo e di Sant’Agostino, dice il fato e la fortuna essere nomi senza significazione.
All’influsso degli astri generalmente si crede nel medio evo; ma non senza molte riserve. San Tommaso ammette l’azione loro sulla vegetazione, sull’atmosfera, sui corpi in genere, non esclusi gli umani; ma nega che possano operare sull’intelletto e la volontà salvo che indirettamente, e togliere o scemare la libertà dell’arbitrio. Anche gli astri, del resto, sono organi e strumenti della provvidenza.
La volontà divina è dunque, secondo il canone cristiano, il principio vivo, eterno ed immutabile d’onde fluiscono le forze tutte, non solo che producono ed instaurano, ma ancora che reggono il mondo. Essa è la necessità suprema ed invincibile, così per rispetto alla natura, come per rispetto agli uomini, i quali possono bene, essendo provveduti d’intelletto e di libertà, agitarsi entro il circolo che quella volontà stringe loro d’attorno; ma non lo possono per nessun modo spezzare, e non ne possono uscire. L’arbitrio umano sarà libero, come sotto l’impero del fato antico; ma gli eventi saran necessarii, e molte volte saranno necessarie le azioni. Di qui quella terribile quanto logica dottrina della predestinazione, secondo la quale la eterna salute e la eterna dannazione dipendono, non già dagli atti umani e dall’umano volere, ma dal volere divino e dalla divina grazia; dottrina che escogitata prima da Sant’Agostino, esplicata e compiuta più tardi da Isidoro di Siviglia (m. 636) e da Godescalco (m. 867), avversata sempre dalla Chiesa greca, fu tratta alle ultime e inevitabili sue conseguenze, asseverata in tutto il suo rigore, da Zuinglio e da Calvino. Un rozzo dramma religioso, composto in Italia in sul principiare del secolo XV, se non forse anche prima, prende argomento da quella dottrina e, in pari tempo, la nega. Un giovane lascia il padre, la madre, e il buono stato in cui era cresciuto, per consacrarsi al servizio di Dio, e attendere, lungi dagli allettamenti e dagl’inganni del mondo, alla salute dell’anima. Un vecchio eremita, che l’ha accolto nella sua cella, e l’ha fatto compagno dell’austera sua vita, vedendolo tutto infervorato nel bene, e dedito alle sante pratiche di devozione, assai se ne loda, e chiede a Dio che gli riveli in grazia qual posto è serbato al giovine fra i beati in Paradiso. Un’amara delusione lo aspetta. L’angelo del Signore gli annunzia che, non il Paradiso, ma l’Inferno sarà dato in premio a tanta virtù;

E tu che vai cercando il destinato,
Sappi che il servo tuo sarà dannato.

Ecco la dottrina della predestinazione affermata in tutta la sua crudezza. L’eremita molto si accora della terribile sentenza, e biasima la presunzione propria con argomenti tolti di peso ai campioni di quella dottrina:

O uomo istolto, che vai tu cercando
Quello che a te non appartien sapere?
Pensi tu, sempre qui bene operando,
Di dover l’alta grazia possedere?
Non sai tu che hai di lassù bando
Per non saperti nel ben mantenere?
E questo vuoi la tua ribellione,
Che stii qui sempre in gran confusione.

Se in Dio non esser giustizia dirai,
Dappoi che vuol chiunque ben fa dannare,
Così per contro arguir tu potrai
Che voglia quei che mal fanno salvare;
E se per lui esser giusto vorrai,
La cagion perché li fa vorrai cercare,
E sarai fatto come chi non vede;
Perché dovè ragion manca la fede.

Egli non sa tacere al giovine ciò che gli fu rivelato; ma questi non si smarrisce, non dispera; anzi, pieno di mansuetudine e di rassegnazione, risolve di servir Dio con più amore e più fervore di prima, quale che sia il decreto divino a suo riguardo, poiché egli non può volere se non ciò che Dio vuole. Il demonio tenta invano distorlo da tale proposito e ricondurlo nel mondo; e il vecchio eremita, dopo aver pregato lungamente, apprende dall’angelo che il discepolo sarà salvo. Udita la buona novella, il giovine esclama:

Padre, ben che l’umana intelligenza,
Gravata dal peccato, intenda poco.
Nondimeno io non ebbi mai temenza,
Facendo ben, d’essere dannato al foco.

Ecco la dottrina della predestinazione risolutamente negata.
Aveva ragione Fausto, vescovo di Riez, nella seconda metà del secolo V, quando affermava che con quella dottrina si tornava per altra via al fatalismo antico. La Chiesa cattolica sentì la gravità del rimprovero, e ricusò da ultimo il dogma pericoloso e spietato, piegando, senza addarsene quasi, verso l’opposta dottrina del grande avversario di Sant’Agostino, Pelagio, che da più di un sinodo era stato condannato per eretico. Ma il concetto della fatalità, cacciato da una banda, irrompeva da un’altra, e in altro modo soggiogava gli spiriti. Il popolo, che poco intende e meno si cura delle sottili dispute e delle più sottili distinzioni dei teologi e dei filosofi, non lasciò mai di aver fede in una o più potenze, occulte e irresistibili, distinte e separate dal volere divino, e variamente designate, secondo i casi, coi nomi di destino, di fortuna, o d’influsso astrologico. Di tale credenza, a cui non rimasero estranei i dotti, sono vestigia e documenti lungo tutto il medio evo. Nel libro I del suo poema De diversitate fortunae et philosophiae consolatione, Arrigo da Settimello (XII secolo) esclama: «A cui mi debbo io dolere della fortuna? non so»; e nel secondo libro chiama quella sua nemica, perfida, stolta, lingua dolosa, meretrice, che si vanta dea e signora del tutto. Un vescovo di molta riputazione, Ildeberto di Lavardin (m. 1133), si lagna assai della fortuna in un carme De exilio suo, e in certa breve poesia, che appunto s’intitola De infidelitate fortunae et amoris mundi. Più tardi il medico fiorentino Tommaso del Garbo, e il poeta aretino Braccio Bracci, chiedevano al Petrarca che fosse la fortuna; e rispondendo al primo, il Petrarca si doleva dei moltissimi che a quei tempi credevano in lei, e come dea la ponevano in cielo, e il favore di lei mettevano sopra, non pure alla virtù, ma allo stesso ajuto divino, e volevano piuttosto essere amici suoi che di Dio. E questa fortuna si vede assai volte figurata in libri del medio evo, quando d’una e quando d’altra maniera, ma più spesso in forma di una ruota simbolica, che mossa da virtù fatale, girando senza posa, muta e rimuta con eterna vicenda, irresistibilmente, le sorti di quaggiù:

Est rota fortunae variabilis ut rota lunae:
Crescit, decrescit, in eodem sistere nescit.

E ciò che della fortuna, s’ha pure a dir del destino. Dante ora fa del volere divino e del fato una sola e medesima cosa, ora sembra che, almeno fantasticamente, li distingua, e distingua pure il fato della fortuna.

Alto fato di Dio sarebbe rotto
Se Lete si passasse e tal vivanda
Fosse gustata senza alcuno scotto[1],

dice Beatrice là nel Paradiso terrestre. Ma prima di lei Virgilio aveva detto, distinguendo l’uno dall’altro:

Senza voler divino e fato destro[2].

Vedendoselo capitare innanzi, laggiù in Inferno. Brunetto Latini chiede a Dante:

qual fortuna o destino
Anzi l’ultimo dì quaggiù ti mena[3].

E lo stesso Dante che percuote col piè nel viso Bocca degli Abati, non sa

Se voler fu, o destino, o fortuna[4]

Ai grandi d’Italia il Petrarca gridava:

Qual colpa, qual giudicio, o qual destino
Fastidire il vicino
Povero; e le fortune afflitte e sparte
Perseguire?

Agl’influssi degli astri si dava assai più forza che i teologi non volessero. Essi reggevano la vita di ciascun uomo, la prestabilivano immutabilmente, e ne svelavano il corso sin dalla nascita. Nei lirici nostri delle origini sono frequenti gli accenni all’irresistibile potere degli astri, e per bocca di Marco Lombardo, Dante biasima la opinion comune che al loro influsso appunto assoggettava tutte le cose di quaggiù:

Voi, che vivete, ogni cagion recate
Pur suso al cielo, sì come se tutto
Movesse seco di necessitate[5].

Ma Cino da Pistoja prega Cecco d’Ascoli di scrutare nei cieli quali stelle sieno a lui, Cino, favorevoli, e quali contrarie, soggiungendo:

E so da tal giudizio non s’appella.

E Cecco d’Ascoli, il quale mostra, come più tardi fa pure Gerolamo Cardano, che la vita dello stesso Cristo fu soggetta al corso degli astri, è, per questo e per altro, accusato di eresia, condannato, bruciato vivo. Il Petrarca, pur così avverso a tali credenze, dice in un verso:

Sua ventura ha ciascun dal dì che nasce.

Gli è un fatto che quelle credenze erano radicate nello spirito dei pii e porgevano argomento a leggende e a novelle diffuse tra i volghi. Un poeta spagnuolo del secolo XIV, Giovanni Ruiz, più conosciuto sotto il nome di Arciprete d’Hita, dice che nessuno può sfuggire alla propria sorte, e narra a tale proposito un esempio che vive ancora nelle letterature popolari dei giorni nostri. Cinque astrologi, tratto l’oroscopo al figliuolo pur allora nato di un re moro, predissero ch’egli morrebbe lapidato, bruciato, precipitato, impiccato, affogato. Il re, dubitando di qualche ciurmeria, fece trattenere e custodire gli astrologi, per vedere che cosa seguisse di quella strana e, in apparenza, contraddittoria lor profezia. Passati più anni, il figliuolo, divenuto adolescente, chiede un giorno al padre e ottiene il permesso di andare a caccia. Si scatena una furiosa tempesta, e il giovinetto è, insieme co’ suoi, lapidato da una orribil grandine. In quell’ora istessa, passando egli un ponte, lo investe la folgore: il ponte si squarcia sotto a’ suoi piedi; egli precipita, rimane appeso per le vesti ad un albero, ma si sommerge con parte dei corpo nel fiume. Così muore lapidato, bruciato, precipitato, impiccato, affogato, secondo dagli astrologi era stato predetto.
Durante tutto il medio evo si credette pure ai giorni perigliosi, che in numero variabile (sino a quarantaquattro, se non più) veggonsi registrati nei calendarii. Chi in uno dì quei giorni infermava, non guariva più; chi si poneva in viaggio, più non tornava; chi toglieva moglie aveva l’inferno in casa. Qualunque cosa si cominciasse a fare in quei giorni non se ne poteva sperare buon fine. Ancora oggi dice il popolo:

di Venere né di Marte
Non si sposa e non si parte.

C’erano necessità che sfidavano la stessa potenza di Dio. Fra Filippo da Siena (XIV secolo) narra la storia di uno sceleratissimo soldato, che venuto a morte, disse al confessore, il quale lo esortava a pentirsi e a sperar perdono: «Io ho tanti nemici nell’altra vita, che mi saranno contrarii, che se Dio mi volesse perdonare quasi non potrebbe»

II

Tali immaginazioni e credenze appajono, nel medio evo, incarnate in numerosi racconti, de’ quali alcuno ripete un tema pagano antico, altri sono certamente venuti dall’Oriente, altri sono, secondoché si può ragionevolmente congetturare, nati qua e colà, fra le genti cristiane, senza che sia possibile dire né come né quando.
Il tema più usuale e più diffuso di racconto è quello di una sequela di casi, meravigliosi e terribili, pronunziati di lunga mano, i quali si effettuano a dispetto di quanti provvedimenti furono presi in contrario; anzi, molte volte, in grazia di quei provvedimenti medesimi. Nasce un bambino, o una bambina: gli astrologi, o gl’indovini, o alcun’altra persona, umana o soprannaturale, a cui sia data facoltà di leggere nel futuro, predicono che l’essere novamente nato morrà di mala morte, in tale o tal modo; o soggiacerà a gravi sciagure; o di gravi sciagure sarà cagione altrui. I genitori, o altre persone cui ciò importi, chiudono e custodiscono il fanciullo, o la fanciulla, in un palazzo, in un castello, in un fondo di torre, o li abbandonano in luogo deserto, o li gettano in mare, o in altro modo procacciano, senza venirne a capo, la morte loro. Dopo alcuni anni, tutto quanto era stato preveduto e annunziato, subitamente e irresistibilmente si compie.
Il più antico racconto di tal fatta che si conosca è la storia del Principe predestinato, scritta in Egitto ai tempi della XX, se non pure della XVIII dinastia, ma narrata forse fra quel popolo assai prima che scritta: dopo di essa si può ricordare la storia di Ati, figliuolo di Creso, riferita da Erodoto. Nel medio evo corsero fra le genti cristiane numerosi racconti inspirati da quel tema, alcuni dei quali mi paiono meritare uno speciale ricordo.
Anzi tutto è da avvenire che il mito di Edipo, il quale è fra i miti dell’antichità pervenuti sino a noi, quello che più fortemente esprime il concetto del fato, non solo fu cognito al medio evo, ma fu, da scrittori di quella età, ripetuto, e preso a soggetto di nuove composizioni. Abbiamo di un ignoto poeta, vissuto non più tardi del XII secolo, una lamentazione latina di Edipo sui corpi de’ suoi due figliuoli. Edipo dice, tra l’altro, che tutta la sequela dei luttuosi avvenimenti, sino al fratricidio, era stata preordinata dal fato:

Ab antiqua rerum congerie
cum pugnarent rudes materiae
fuit moles hujus miseriae
ordinata fatorum serie.

In quello stesso secolo XII, un poeta francese, che non si sa con certezza chi fosse, introduceva il mito classico in un poema che ha il proprio argomento, e quasi anche il titolo della Tebaide di Stazio, il Roman de Thèbes, poema che fu, assai probabilmente, tradotto o rifatto in Italia.
Ma queste sono reminiscenze e ripetizioni di carattere puramente letterario, le quali non provano punto che la credenza nel fato durasse ancor viva tra le genti cristiane. Molti miti, e moltissime storie dell’antichità classica furon tolti nel medio evo a soggetto di nuove composizioni, sia a fine di sola esercitazione scolastica, sia per imbandir nuovo pascolo a menti avide di meraviglie. Ed era, in certi casi, non pur naturale, ma necessario, che chi si faceva a ripetere quei miti e quelle storie, lasciasse parlare in essi dottrine e credenze, che se non quadravano con le sue proprie, erano pur quelle che avevano governato i suoi eroi; come in altri casi era pur naturale, fatta ragione dei tempi e della coltura, che il ripetitore mutasse le parti, e facesse pensare, parlare e operare come cristiani i personaggi mitici o storici di Grecia e di Roma. Difficilmente avrebbe potuto un poeta letterato del medio evo rinarrare la storia d’Edipo senza lasciarvi al fato l’officio che v’ebbe in antico; e perciò quelle ripetizioni erudite nulla provano, come ho detto, in favore di una vera e propria credenza: ma quando noi vediamo quel mito riapparire in racconti affatto popolari per indole e per fattura, i quali non dànno segno d’esser passati mai per nessuna trafile letteraria; o quando vediamo il tema, e come lo spirito di esso, trasportati ad un racconto di origine bensì letteraria, ma affatto cristiano pel soggetto e per gl’intendimenti, noi non possiam più venire nella medesima conclusione negativa, noi abbiamo la prova che una certa credenza nel fato vive, per quanto alterata o contraddetta da altre credenze, nell’intimo della coscienza cristiana. Lascio in disparte i racconti popolari che qui potrebbero essere ricordati, e metto innanzi il racconto di origine letteraria, racconto che com’ebbe giustamente a osservare il D’Ancona, non diventò mai veramente popolare, sebbene abbia avuto diffusione grandissima, e nel quale tutti quasi i critici ebbero a riconoscere il mito di Edipo trasformato, appropriato ad altre persone, trasportato in altro ambiente morale. Questo racconto è fa leggenda di Giuda.
Il medio evo fantasticò molto intorno all’apostolo traditore, alla sua fine scellerata, agli atroci castighi inflittigli dalla divina giustizia nell’ultimo fondo d’inferno, o in altri luoghi di pena, sulla faccia stessa della terra, perché potesse essere ai vivi di ammonimento e di terrore. Per una inclinazion naturale, e di cui non poteva rendersi conto pienamente, la coscienza cristiana era tratta ad aggravare sempre più la malvagità di quanti, in uno od in altro modo, avevano procacciato la morte di Cristo e preso parte, con animo di nemico, alla sua passione, ed in ispecie la malvagità di colui che l’aveva tradito e venduto. La leggenda compie l’usato suo lavoro di concatenazione e di accumulazione così pel bene come pel male; fa magnanimi e forti gli eroi sin dall’infanzia, fa tristi e vili i malvagi sin dalla culla; cerca; con avvedimento degno di un più maturo sapere, negli antenati, nella fortuna delle cognazioni, la causa delle virtù e delle colpe dei nipoti, e non si cheta finché non abbia creato figure compiute e perfette, e interi lignaggi di scellerati e di eroi. Così fece di Giuda, collegando al misfatto finale tutta una sequela di misfatti e di colpe, ch’entran gli uni negli altri come gli anelli di una lunga catena; sequela che si inizia prima ancora che il maledetto sia nato.
Quando e dove e per opera di chi questa leggenda sia sorta, non si sa. Verso la fine del secolo XIII la narrò Giacomo da Varagine, traendola da una storia certamente latina, ch’egli stesso dice apocrifa, ma della quale non si hanno altre notizie. Un uomo di Gerusalemme, chiamato Ruben o Simone, aveva per moglie una donna chiamata Ciborea. Costei sognò una notte di mettere al mondo un figliuolo che sarebbe cagione della ruina di tutto il suo popolo, e narrò il sogno al marito. Passato ceno tempo, partorì un bambino, e ricordando il sogno, consenziente il marito, lo mise in una cesta e lo buttò in mare. Le onde portarono la cesta a un’isola detta Scariot, dov’era una regina, che non avendo figliuoli, fece allevare il bambino segretamente, si finse gravida, e diede a intendere al marito e a tutto il popolo che il trono aveva finalmente un erede. Grande fu la letizia nel regno. Il fanciullo ebbe nome Giuda Scariote, e il re lo fece nutrire ed educare magnificamente; ma non andò molto che la regina ingravidò davvero, e diede alla luce un figliuolo. I due fanciulli crescono insieme, e Giuda comincia a far palese la malvagia sua indole maltrattando il presunto fratello. La regina parteggia naturalmente pel figliuolo vero contro il supposto. Si scopre il fatto della supposizione: Giuda, pien d’ira e di vergogna, uccide di nascosto il rivale, poi temendo il castigo, fugge, ripara in Gerusalemme, ed è accolto da Pilato che lo fa suo maggiordomo. Accanto al palazzo di Filato era l’orto di Ruben, padre di Giuda; né questi sapeva di chi fosse figliuolo, né quegli immaginava che il bambino commesso un dì alle onde fosse scampato dalla morte. Standosi un giorno Pilato alla finestra, vede nell’orto del vicino alcuni frutti bellissimi, ed è preso da un irresistibile desiderio d’averne. Giuda, per fargli cosa grata, va e comincia a coglierne. Sopravviene Ruben: nasce una contesa, e alle parole tenendo dietro le busse, Giuda, con un sassata fra capo e collo, uccide il padre. Pilato dà in premio all’amico suo tutto l’avere di Ruben, e per giunta gli fa sposare Ciborea. Non passa gran tempo e i due sposi si riconoscono. Ciborea induce il figliuolo e marito ad andare a trovar Cristo, e chiedere a lui il perdono de’ sui misfatti. Cristo accoglie Giuda fra i suoi discepoli, poi fra gli apostoli: il resto è noto.
Che l’intenzione dell’autore della favola sia stata quella di rendere vie più malvagio e di mettere in sempre più mala vista l’apostolo traditore, è chiaro; ma si deve pur riconoscere, da altra banda, che egli non raggiunge troppo bene lo scopo, e che la favola da lui narrata, assai più che alla malvagità di Giuda, fa pensare all’occulto destino da cui questo è tratto a compier misfatti ch’egli propriamente non volle, e la cui mostruosità non conosce se non dopo averli compiuti, il parricidio e l’incesto non sono propriamente delitti suoi, ma del destino, del fatum invictum, che ciò che vuole opera, e così saranno gli altri delitti che lo sciagurato commetterà, e che avranno per ultima, inevitabile conseguenza la ruina e la dispersione del popolo d’Israele, annunziata dal sogno fatidico. Un certo concetto e spirito di fatalità appajono del resto in un’altra leggenda, che anch’essa si lega al nome di Giuda, la leggenda dei trenta denari, prezzo del tradimento, narrata da parecchi nel medio evo, e, fra gli altri, da Gotofredo da Viterbo, che certamente, per altro, non fu il primo a narrarla. I trenta denari furono coniati da Nino, re degli Assiri, con la propria effigie, e, diranno alcuni, con l’oro che Adamo portò seco, uscendo dal Paradiso terrestre. Abramo li portò con sé nella Terra di Canaan, e con essi fu comperato dagli Ismaeliti Giuseppe, il figliuol di Giacobbe. Passarono dopo per molte mani; furono nei tesori di Faraone, di Salomone, di Nabuccodonosorre, sempre insieme raccolti. I magi ne fecero offerta al bambino Gesù. Da ultimo, per ordine dello stesso Gesù, furono donati al tesoro del Tempio di Gerusalemme, d’onde passarono nelle mani di Giuda, e poi in quelle dei militi che furono posti a guardia del sepolcro. In un poema tedesco del XII secolo si dice che la Vergine Maria mandò dal cielo trenta monete al re Orendel, perché potesse comperar con quelle la veste di Cristo, e il poeta avverte espressamente, che per altrettante fu venduto Cristo da Giuda. Ecco dei denari predestinati, com’è predestinato il legno della croce nella leggenda famosa di questo nome.

III

Più strano parrà vedere il fato introdursi nelle storie dei santi, ed esser causa precipua dei casi che vi si narrano. Non altrimenti segue nella storia di quel San Giuliano, che, sotto nome di Ospedaliere, ebbe culto celebre nel medio evo, e fu il natural protettore dei viandanti e di quanti abbisognavano d’albergo e di ristoro. La sua leggenda, che fu diffusissima per l’Europa, diede argomento, tra l’altro, a una gustosa e nota novella del Boccaccio e a un dramma di Lope de Vega. Vincenzo Bellovacense e Giacomo da Varagine la narrano press’a poco allo stesso modo.
Giuliano, di nobile famiglia, inseguiva un giorno, essendo giovine, un cervo alla caccia. A un tratto il cervo si volta, e facendo intendere umano linguaggio, gli dice: Osi tu d’inseguirmi, tu che ucciderai tuo padre e tua madre? Inorridito di tale annunzio, il giovine diserta la casa, abbandona la patria, e fugge in remoto paese, ove diportandosi assai valorosamente in guerra ed in pace, entra in grazia del principe, che lo fa cavaliere, e gli dà in moglie una vedova nobile e in dote un castello. Intanto i genitori di Giuliano, non si potendo dar pace della perdita del figliuolo, andavano pellegrinando, chiedendo di lui in ogni luogo, e tanto andarono che giunsero a quello stesso castello ov’egli faceva con la moglie dimora. Quel giorno appunto Giuliano s’era per poco assentato. La donna, riconosciuti, discorrendo, i genitori di suo marito, li accoglie benevolmente, e li fa coricare entrambi nel letto cogniugale, adagiandosi ella in altro letto. Ecco la mattina seguente torna Giuliano, mentre la moglie sua er’ita in chiesa, ed entrato in camera, veduti i due addormentati, crede senz’altro sieno la moglie infedele e lo adultero, e tratta in silenzio la spada, li uccide. Conosciuto indi a poco l’errore, disperato e piangente, risolve di espiare con asprissima penitenza l’involontario delitto, e subito vi si accinge, insieme con la moglie, che non vuole abbandonarlo. Trascorsi molti anni, dopo un miracolo che assicura Giuliano dell’ottenuto perdono, muojono entrambi in grazia di Dio.
Come nella leggenda di Giuda, il destino, in questo racconto, non è nominato, ma è presupposto e sottinteso: esso è dietro gli avvenimenti che, senza altrui volere, si compiono; è la forza primordiale, ineluttabile, occulta, che li preordina e li promuove, incalzando. Giuliano non è, come Giuda, un malvagio. All’annunzio dell’orrenda sciagura che minaccia lui, e per lui i suoi genitori, egli fugge, egli pone di mezzo, tra’ suoi genitori e sé, i monti ed i mari, studiandosi di opporre, in qualche modo, alle insidie del fato i ripari della natura. E che qui del fato propriamente si tratti, e non di altra potenza, si può conoscere con poco studio. Se cagion prima degli avvenimenti fosse il demonio, la leggenda ascetica non lascerebbe di farne cenno; e poi, al cristiano, armi contro il demonio non mancano. Nemmeno si può dire che gli avvenimenti qui sieno opera della provvidenza divina. Molte volte, gli è vero, la provvidenza divina, secondo il concetto che se ne forma il credente del medio evo, opera il male, o sembra operare il male; ma sempre per impedire mali maggiori, per conseguire un fine buono. Questo concetto è in più particolar modo significato nella leggenda celebre dell’angelo e dell’eremita, della quale non è qui luogo a discorrere. Ma nella leggenda di Giuliano non si vede a qual fine buono serva il doppio parricidio; perché, se si dice che esso serve a far di Giuliano, mediante la penitenza, un santo, il mezzo ci sembra troppo sproporzionato al fine, e privo di ogni ragionevole relazione con esso. In fatti, Giuliano è buono sin da principio, e non s’intende che bisogno ci sia di trarlo con si violento modo all’ascetismo, e soprattutto poi non s’intende che bisogno ci sia di farlo avvertito del parricidio ch’egli dovrà mal suo grado commettere. Così non si comporta la divina provvidenza; ma così si comporta per lo appunto il fato. Lo stesso Giuliano sente e mostra di sentire che il terribile decreto viene, non già da Dio, ma da un’altra potestà. Dio si lascia piegare e muta i suoi decreti: egli non è sordo alla preghiera, alla voce di chi implora perdono, o soccorso;

Regnum coelorum vïolenza pate
Da caldo amore e da viva speranza,
Che vince la divina volontate[6],

dice Dante. Ma il fato non si piega e non si muta. Giuliano, udito il formidabile annunzio, non ricorre a Dio, non prega, non si umilia; ma fugge, tratto dall’unica e, starei per dire, istintiva speranza di nascondersi, di far perdere al destino la traccia di sé, di fargli scambiar la via, come usa la belva inseguita dai cani. Ma nemmeno questo avvedimento gli riesce; anzi in grazia di esso la predizione si compie: truce ironia, che fa più oltraggioso l’evento, mesce alla tragedia lo scherno.
Molto simile alla leggenda di San Giuliano è la leggenda di Sant’Ursio, venerato più particolarmente nella diocesi di Vicenza; né so quale delle due possa aver servito di modello all’altra, se pur non nacquero entrambe spontaneamente. Ursio, nato in Francia di nobili genitori, era ancora lattante, quando un pellegrino annunziò alla madre che il figliuol di lei sarebbe un dì parricida. Passano gli anni, e Ursio cresce in corte dell’imperatore, valente della persona, esperto nell’armi. Dalla madre, che non può guardarlo senza piangere, viene a conoscere il terribile vaticinio, ed egli, senza frappor dimora, lascia la patria e se ne va con un suo compagno di Dalmazia. Quivi uccide molti pagani, converte il re loro alla fede di Cristo, ne sposa la figliuola, e sale poi, morto il suocero, sul trono. Il padre del giovine, avuta notizia di questi casi, muove per venirlo a trovare, e càpita al reale palazzo giusto in tempo che il figliuolo era ito a cacciare. Si fa ciò nondimeno riconoscere dalla nuora, la quale lo accoglie in quel medesimo letto in cui ella riposa con un suo fanciulletto. Il demonio, sotto sembianza di un cameriere, fa credere a Ursio che la moglie gli manchi di fede. Ursio accorre, e, ingannato dalle apparenze, uccide il padre, la moglie, il figliuolo. Segue la scoperta della verità, l’orrore del misfatto commesso, la penitenza.
In altri racconti non solo il destino non è nominato, ma non è nemmen fatto cenno di casi preordinati che si debbano compiere: e pure si sente che quei casi seguono, nella mente di chi li narra, per una forza irresistibile, che non è la divina provvidenza, non è, il più delle volte, il demonio, e tanto meno poi la umana volontà. Anch’essi sono, e ciò va notato, leggende di santi.
Cominciamo da quella di Sant’Albano. Un possente Imperatore del Settentrione ama di amore incestuoso la propria figliuola, e la rende madre di un bambino, ch’egli vorrebbe tor di mezzo facendolo uccidere, ma che, per intercessione della madre, è mandato in Ungheria e quivi esposto sulla pubblica strada. Un pallio prezioso, una borsa con entro un anello e non poche monete d’oro, dànno indizio della origine illustre del bambino, che, raccolto, è portato al re. Questi non avendo figliuoli, lo riceve assai lietamente, come un beneficio del cielo, e accordatosi con la moglie, questa simula gravidanza e parto, di maniera che da tutto il popolo si crede il bambino sia veramente figliuolo de’ suoi principi. Albano cresce di bellissimo aspetto, di grande prestanza, di ottimi costumi, tanto che ne va la fama all’imperatore, il quale, desiderando di lasciare l’antico peccato, e nulla sospettando di un nuovo, pensa dargli la figliuola in isposa. Si fanno le nozze pompose e solenni; madre e figlio son moglie e marito e s’amano con gran tenerezza. Inferma intanto il re d’Ungheria, e prima di morire svela ad Albano il segreto del suo ritrovamento, e gli consegna il pallio e la borsa. Poco dopo la donna, e Albano stesso, poi l’imperatore, vengono a cognizione del resto. Lacerati dai rimorsi, desiderosi di cancellare con penitenza adeguata i volontarii e gl’involontarii peccati, ricorrono per consiglio a un vescovo, il quale li manda a un santo eremita. Questi impone loro di andare esuli per sett’anni, e per sett’anni essi vanno pellegrinando, ciascuno per conto suo, con molto travaglio e fra molti pericoli, e ciascuno anno se ne tornano al santo eremita per avere da lui consiglio e conforto. Passato il termine prescritto, fatti mondi oramai d’ogni colpa, si ritrovano insieme, e insieme s’avviano alla dimora dell’eremita. Ma, andando, smarriscono la via e sono soprappresi dalla notte in un bosco. Il giovine, in mal punto, compone pei genitori un letto di foglie, e va a dormir sopra un albero. Ma il demonio risveglia nel cuor dell’imperatore e della donna l’antico ardore scelerato; essi ricadono in colpa, e il giovine, ch’è dì ciò testimone, vinto dallo sdegno, entrambi li uccide. Comincia allora per lui una seconda penitenza, che dura altri sett’anni, in capo dei, quali, avendo rinunziato al regno, e accingendosi a condur nella solitudine il resto de’ suoi giorni, è assalito da ladroni ed ucciso. I miracoli che seguono fanno prova della sua santità.
Più antica, e più famosa della leggenda di Sant’Albano è la leggenda di San Gregorio papa, da cui quella, forse deriva. Un conte d’Aquitania ama per istigazione del diavolo la propria sorella e pecca con lei. Nasce dal loro peccato un bambino, il quale, per ordine della madre, è posto entro una barca in mare, insieme con quattro marchi d’oro, un pallio alessandrino, e alcune tavolette di avorio ov’è narrata la storia del suo nascimento. Il padre, che ad espiar la colpa, aveva fermo d’andarne in pellegrinaggio a Gerusalemme, inferma e muore. Allora molti baroni si fanno, attorno alla donna, rimasta erede di tutto il dominio, e la sollecitano, perché scelga uno di loro in isposo; ma ella ostinatamente ricusa. Di ciò sdegnato, un duca le muove guerra, e il contrasto dell’armi durerà lunghi anni. Frattanto il bambino è tratto fuori dall’acque da due pescatori che, sono al servizio di un’abbazia, ed allevato, per ordine dell’abate, da uno di essi. Il fanciullo cresce degno del suo lignaggio; ma azzuffatosi un giorno con un figliuolo del, pescatore, viene a sapere dalla moglie di costui, sdegnata, la propria storia. Allora va a trovare l’abate, e gli annunzia la deliberazione presa d’andar vagando pel mondo, in cerca d’avventure. L’abate si studia di consolarlo e di dissuaderlo lasciandogli intendere che potrà, col tempo, diventare abate a sua volta; ma il giovine si mostra sordo ad ogni consiglio, dice di voler essere non frate, ma cavaliere, e ottenute le tavolette di avorio ov’è scritta la storia del suo nascimento, se ne parte, ripassa il mare, e giunge al paese materno giusto in punto che l’ultima città, dopo lunga guerra devastatrice, sta per cadere nelle mani del nemico. Sconosciuto, offre i suoi servigi, che sono tosto accettati. Combatte, sconfigge gli avversarii, fa prigione il duca, e in premio della vittoria ottiene la mano della contessa. Ma già s’avvicina la prevedibil catastrofe. Le tavolette fan conoscere alla donna chi sia Gregorio, e questi non tarda a conoscere, chi sia colei ch’egli chiama col nome di sposa. Egli impreca al demonio, cui imputa l’accaduto, e d’accordo con la madre, risolve di cancellare con asprissima penitenza la colpa. Un pescatore, cui egli ha fatto noto il suo divisamento, lo conduce in cima a uno scoglio in mezzo al mare, lo avvince di ceppi, getta la chiave dei ceppi in acqua, e lo abbandona senza più curarsi di lui. Passano diciassette anni. In Roma muore il pontefice, e un angelo, messo del cielo, indica nuovo pontefice ai Romani il penitente, senza per altro far noto il luogo di sua penitenza. Muovono ambasciatori in traccia dell’eletto di Dio, e capitano alla capanna del pescatore, il quale nel ventre di un grosso pesce, che deve servir loro di cena, trova la chiave gettata diciassette anni innanzi nel mare. Gregorio diventa papa, e la madre di lui, che il tutto ignora, si reca a Roma per confessargli i suoi peccati.
Madre e figlio si riconoscono. Quella entra, per esortazione di questo, in un chiostro, ed entrambi finiscono santamente la vita.
A noi ora non importa chi sia stato, nel pensiero del primo narratore, quel Gregorio papa; se Gregorio Magno, o Gregorio V, o Gregorio VII, o altro meno illustre. Le opinioni sono su di questo punto discordi, e l’una non ha nella storia più fondamento dell’altra. Non cercheremo nemmeno se la leggenda di San Gregorio, e quella di Sant'Albano, e alcun’altra simile, abbiano, o non abbiano, col mito di Edipo, relazione diretta o indiretta, prossima o remota, se ne sieno in qualche modo una derivazione o un riflesso, perché anche intorno a ciò dissentono i critici, e a noi non importa, pel proposito nostro, confrontarne e discuterne i pareri. Ma bene c’importa sapere quale sia il concetto che in esse s’accoglie. Secondo il Comparetti, quel concetto sarebbe che non vi è così grave e mostruoso peccato che non possa con opportuna penitenza e per i meriti di Cristo ricomperarsi. Non v'è dubbio che più ragioni favoriscono tale opinione. La dottrina e il sentimento cristiano conferirono alla penitenza valor grandissimo, non inferiore a quello che in India le fu attribuito dagli adoratori di Brama e dai seguaci del Budda. Albano e Gregorio compiono asprissime penitenze, e diventano santi e s’acquistano il regno dei cieli. Ciò si può dire anche di Giuliano e di Ursio. Nei Gesta Romanorum, la leggenda di San Giuliano reca in fronte la seguente intitolazione: Quod omne peccatum, quamvis predestinatorie gravissimum, nisi desperationis baratro subjaceat, sit remissibile: parole che appunto richiamano l’attenzione sulla gran virtù della penitenza. Ma non è però men vero che a provare quella virtù, e a persuadere altrui di farne esperimento, avrebbero giovato assai meglio storie ed esempii di uomini veramente malvagi, i quali avessero con acconcia penitenza ottenuto il perdono di peccati volontariamente commessi. E di tali storie ed esempii v’era dovizia, nonché altrove, nei leggendarii dei santi, ov’è memoria di omicidi, di predoni, di prostitute e di molt’altri malvagi dell’uno e dell’altro sesso, i quali, ravvedutisi in tempo e fatta debita ammenda dei loro peccati, si riconciliarono con Dio e andarono a gloria eterna. In un vecchio racconto islandese si narra di un padre e di una figliuola, che peccarono insieme e generarono tre figliuoli, i quali, nati appena, furono uccisi dalla madre. La madre di costei, e moglie del padre incestuoso, avendo scoperto la tresca, è uccisa dalla figliuola, che poi uccide anche il padre, quando questi, pentito, le annunzia di volersi separare da lei e andare in pellegrinaggio in Terra Santa. Compiuto questo nuovo misfatto, la scelerata femmina toglie l'oro paterno, e va in altra città, e qui mena vita dissolutissima e vituperosa. Ma un giorno entra in una chiesa, ove predicava un santo vescovo, e colta da amarissimo pentimento, e dall'angoscia della contrizione, muore dopo essersi confessata, ma prima d'avere ottenuta l'assoluzione." Una voce dal cielo annunzia ch'ella è salva e fatta compagna di Cristo.
In questo, e in altri racconti simili, è veramente dimostrata, con le giustificazioni opportune, la virtù della penitenza, ma non nelle storie di Gregorio, di Albano, di Ursio e di Giuliano, i quali non vogliono nessuno dei misfatti che commettono, e perciò non sono malvagi, ma sciagurati, e non dovrebbero aver bisogno di penitenza, ma di soccorso. Certo, tra i fatti narrati in esse, non può essere quella logica consecuzione, e quella giustificazione reciproca che non era nemmeno fra i pensieri, i sentimenti e le credenze degli autori loro: ma non è men vero che il concetto il quale sembra se ne sprigioni con più vigore è il concetto di una forza occulta che trae gli avvenimenti e le fortune in modo disforme da ogni avvedimento umano, o, a dirittura, in contrario di ogni umano avvedimento; il concetto stesso del fato, che nella leggenda di San Gregorio appena si occulta dietro il supposto di un'azione diabolica. Giuliano, Ursio, Albano, Gregorio, peccano senza sapere e senza volere, e se non facessero penitenza sarebbero irremissibilmente dannati. Non è questa fatalità bella e buona? Essi, come Edipo, purgano in sé la colpa del fato e la provvidenza nei casi loro non interviene se non forse per volgere da ultimo a fine buono la lunga sequela di mali, o, piuttosto, per trarre il bene dal male.

IV

Il fato si mostra in più diversi modi, e talvolta anche più aperto, in altre leggende, varie di età, di origine, di carattere.
Gli eruditi sanno che la leggenda dei Santi Barlaam e Giosafat, la quale appare da prima in greco, poi, nel XII secolo, in una versione latina, d’onde passa in numerose versioni occidentali, mentre altre versioni se ne moltiplicano in Oriente, altro non è se non la favolosa storia del Budda, venuta d’India fra genti cristiane, e fatta essa stessa cristiana. Di così fatte derivazioni ed appropriazioni sono altri esempii in buon numero, e mercé loro si leggono di santi cristiani, veri o immaginarii, storie meravigliose, narrate gran tempo innanzi fra gl’infedeli, nelle più remote contrade dell’Asia. A tacere di Barlaam, Giosafat non esistette mai, o esistette sotto tutt’altro nome, chiamandosi prima Siddhârtha, poi il Budda. Ecco che cosa si narra di lui. Un re dell’India, glorioso e possente, ha, dopo averlo lungamente desiderato, un figliuolo. Gli astrologi, consultati, annunziano mirabili cose; ma uno di essi svela che il principe novamente nato abbandonerà il regno, e le pompe del mondo, e la religione de’ padri suoi per darsi a Cristo e alla vita ascetica. Profondamente addolorato di tal predizione, il re fa rinchiudere il figliuolo in un meraviglioso palazzo, dove ha tutto raccolto quanto può rallegrare i sensi e lo spirito, e dove al fanciullo fanno compagnia servitori e donzelli, cui fu severamente proibito di lasciarsi sfuggir parola che alluda, comechessia, alla miseria del mondo, alla brevità della vita, alla morte inevitabile. Spera il re per tal modo di poter combattere nel figlio ogni innata inclinazione all’ascetismo e contrastare al destino; ma torna vana ogni sua cautela. Giosafat cresce, d’animo naturalmente austero e raccolto, e in breve acquista cognizione della infermità, della vecchiezza, della morte, di quanto la provvidenza paterna avrebbe voluto occultargli. Allora subito si risolve. Istruito da Barlaam nella dottrina di Cristo, rigenerato nel battesimo, egli rinunzia al regno, agli agi, al mondo, e si ritrae a vita solitaria, mutando la corona del principe nell’aureola del santo.
Il tema del parricidio predestinato, che abbiam veduto porgere argomento a leggende di santi, appare anche in parecchie storie profane. Secondo un’antica tradizione, riferita la prima volta, verso la fine del secolo X, nella cronica che va sotto il nome di Nennio, e ripetuta poi da parecchi, tra gli altri dal poeta normanno Wace nel XII, Bruto, figliuolo di Silvio e nipote di Enea, Bruto, che diede il nome alla Brettagna, uccise involontariamente la madre ed il padre, secondo quanto era stato predetto dagl’indovini. In un poema latino, attribuito a Ildeberto di Lavardin, già citato, o a Bernardo di Chartres (XII secolo), si narra di due sposi di Roma, i quali si struggevano d’aver figliuoli, e a’ quali fu predetto che il figliuolo nato da loro ucciderebbe, per decreto del destino, il padre. In un racconto olandese d’incerta età si legge di uno sconosciuto eroe, Seghelino di Gerusalemme, che esposto appena nato, è raccolto e allevato da un pescatore, compie, giovanissimo ancora, molte mirabili imprese, sposa la figlia di Costantino Magno, trova insieme con lei la croce, diventa imperatore, uccide imprudentemente il padre e la madre, si fa eremita, e, come San Gregorio, finisce papa sotto il nome di Benedetto I.
Ma non sempre il fanciullo fatale, che campeggia in tutti questi racconti, uccide entrambi i genitori, o l’uno o l’altro di essi. Talvolta, conformemente a una predizione fatta, egli acquista alcuna gran dignità, per modo che i genitori diventano suoi soggetti e gli si debbono umiliare innanzi; oppure uccide il padre adottivo, ovvero anche compie certa azione, o sale a certo grado, a dispetto di tutti i provvedimenti presi in contrario. Parecchi di tali racconti si leggono nelle varie redazioni del Libro dei Sette Savii, o in altre così fatte raccolte, venuteci originariamente dall’Oriente. Uno speciale ricordo merita a questo punto una curiosa favola, che di Costanzo, padre di Costantino, si legge in un racconto francese del secolo XIII. Un imperatore di Bisanzio, a nome Muselino, vagando una notte con alcuni suoi cavalieri per la città, s’imbatte in un uomo, il quale, pregando ad alta voce, chiede a Dio alternatamente due grazie, l’una all’altra contraria: la prima che gli faccia sgravare felicemente la moglie soprappresa dalle doglie del parto; la seconda, che non permetta a costei di partorire. Stupito, l’imperatore interroga lo sconosciuto, il quale risponde la contraddittoria preghiera essergli suggerita dalla scienza di astrologia, che egli appieno intende, e che gli mostra quali sieno i buoni e i maligni influssi degli astri, e quale il punto del tempo propizio o infausto al nascere. Soggiunge poscia d’avere ottenuto che il suo figliuolo nasca in un punto felicissimo, e che però questi sposerà la figlia dell’imperatore, e all’imperatore succederà nel dominio. Sdegnato e turbato di tale annunzio, Muselino si parte; poi manda un suo cavaliere a involare il bambino. Avutolo tra mani, gli fende il ventre, dallo stomaco all’ombellico, e s’accinge a strappargli anche il cuore, ma, ad istanza del cavaliere, nol fa, e ordina che così mezzo morto sia gettato nel mare. Il cavaliere, cui non regge l’animo di eseguire il crudele comando depone il bambino davanti alla porta di un monastero. I frati lo raccolgono, lo fanno curare, e in ricordo di quanto loro costò l’opera dei medici, gli pongono nome Costante. Il fanciullo cresce e dà assai buona speranza di sé. L’imperatore, che per caso viene a conoscerlo e a sapere chi egli sia, risolve novamente di farlo morire, e dovendo muovere contro a’ nemici, consegna al giovinetto una lettera da recapitare al governatore di Bisanzio, lettera che contiene una sentenza di morte. Prima di recapitarla Costante, o Costanzo, entra nel giardino imperiale e vi si addormenta. La figliuola dell’imperatore lo vede, se ne innamora, legge la lettera, e s’affretta a sostituirne un’altra, scritta da lei, con la quale s’ingiunge al governatore di far sposare al giovine la principessa. L’imperatore, al suo ritorno, trova il matrimonio già celebrato, e allora, rinunziando a’ suoi tristi propositi, riconosce Costante per figliuolo. Più tardi, Costantino, figlio di Costante, diede a Bisanzio il nome del padre. Cosi ebbe compimento la volontà del destino.
Molta somiglianza con questa storia di Costante ha la storia dell’imperatore Enrico III, che Gotofredo da Viterbo (m. 1191) è forse il primo a narrare. L’imperatore Corrado, secondo di questo nome, era severissimo punitore di chiunque turbasse la pace. Un conte Lupoldo che appunto era reo di tal colpa, temendo l’ira di lui, fuggì in una selva remotissima, ed ivi si stette insieme con la moglie sua, abitando in un tugurio. Avvenne che l’imperatore, cacciando, capitò da quella banda, proprio la notte che la contessa metteva al mondo un bambino, e standosi a riposare, udì per tre volte una voce dal cielo che diceva: O imperatore, questo bambino sarà tuo genero e regnerà dopo di te. Sul far del giorno Corrado diede ordine a due suoi famigli di uccidere il bambino e di recargliene il cuore. Quelli, mossi a pietà, abbandonarono la creaturina sopra un albero e recarono all’imperatore un cuore di lepre. Certo duca, passando per di là, trova il bambino abbandonato, lo prende con sé, e lo adotta come figliuolo. Passati molti anni, l’imperatore vede in casa del duca il giovine, e venutogli sospetto che possa essere il bambino della selva, gli consegna una lettera che lo condanna a morte, e gl’ingiunge di portarla alla imperatrice. Ma un prete scambia la lettera, sostituendone una in cui è ordinato all’imperatrice di dare la figliuola in moglie al giovine. Così segue, e il giovine diventa poi imperatore sotto il nome di Enrico III. Nei Gesta Romanorum tedeschi questa medesima storia si trova narrata; salvo che un re Annibale vi prende il posto dell’imperatore Corrado, e Lupoldo è il duca che adotta il bambino.
Ma non sempre la storia fatale si lega, come negli esempii recati sin qui, a un fanciullo fatale: il destino prepara anche e svolge altri temi e altri casi. Nel poema di Gudruna è fatale l’andata dei Burgundii alla corte di Attila, fatale la strage loro, predetta dalle ondine. Francesco Pipino, cronista bolognese del secolo XIV, narra nel seguente modo la morte di quel Michele Scoto, che Federico II ebbe assai caro, e che Dante pose per mago in Inferno. Michele previde ch’e’ morrebbe della percossa di un sassolino di peso determinato che doveva coglierlo in capo, e a guardarsene si munì di una celata di ferro, e mai non andava senz’essa. Ma un giorno, trovandosi in chiesa nel momento dell’elevazione, per riverenza se la tolse, e in quel medesimo punto cadde una pietruzza dal soffitto e lo colpì nel capo. Pesatala e trovatala del giusto peso che aveva preveduto, conobbe essergli imminente la morte, e dato ordine alle cose sue, poco dopo morì. E così soggiunge il cronista, si vede avverato per lui quel detto di Giuseppe Flavio, che gli uomini non possono fuggire il destino nemmen quando il prevedono.
Come abbiam veduto, si poteva peccare, servire il diavolo, rendersi compartecipi della sua iniquità, e meritare l’eterna dannazione, senza sapere e senza volere: è questo il luogo di dir qualche cosa di una specie di predestinazione diabolica, in virtù della quale l’uomo poteva essere dannato anche senza peccare, senza far nulla che, a ragione o a torto, dovesse tirargli addosso sì fatta sorte. Numerose storie del medio evo narrano di figliuoli consacrati, ceduti o venduti al diavolo, prima ancora che nascessero, e dopo nati, dai proprii loro genitori. Talvolta è il marito che così cede o vende la moglie; tal altra, ceduto e cedente, venduto e venditore, sono affatto estranei l’uno all’altro. Nella novella popolare italiana di Liombruno, che appare in istampa già nel secolo XV, è un pescatore, che per assicurarsi buona pesca, cede il figliuolo al demonio. Chi si trovava in tal condizione era irremissibilmente perduto, se una fortissima volontà, o il cielo, non l'ajutavano. Fra Filippo da Siena, già ricordato, narra la storia di due genitori, che avendo un loro figliuolo inalato, e non potendo ottenere da Dio che il guarisse, ricorsero a una incantatrice, la quale, in loro nome, l'offerse al diavolo. II fanciullo da prima sembrò guarire; ma in capo di tre mesi morì, e sotterrato tre volte, fu tre volte rigettato dalla terra benedetta del cimitero, che mal volentieri accoglie i dannati. Da ultimo se ne trovarono le membra lacerate e sparse per un bosco attiguo alla chiesa. Più ancora pesava la diabolica fatalità su quelli ch'erano veri e proprii figli del demonio; ma nemmeno ad essi era chiusa ogni via di salute; e se Ezzelino da Romano fu dannato, Merlino e Roberto il Diavolo riuscirono a riscattarsi.
Gli uomini (lei medio evo credettero alla libertà dell'umano valore; ma le azioni umane ed i casi assoggettarono a influssi, a necessità molteplici. La terra, luogo per essi di passaggio e di prova, luogo ancora di punizione, perché vi espiavano l'antico peccato ereditario, ond'erano macchiati già prima di nascere, cinta e chiusa tutta intorno dai nove cicli di Tolomeo, li faceva inevitabilmente sottoposti a tutti gli influssi che del continuo piovevano dagli astri. E altri influssi salivano pur di continuo dal grembo di essa, ov'era 'l regno di Satana e degli spiriti suoi, di guisa che l'uomo era preso in mezzo e premuto, tra il cielo e l'inferno, da un doppio sistema di forze. C'era poi la provvidenza divina, imperscrutabile ne' suoi fini e nelle sue vie, che soprastava a quelle forze, ma lasciava pur luogo ed azione ad altre potenze, oscure e ma definite, al caso, alla fortuna, al destino. Gli uomini di quella età credettero nel destino, senza troppo discutere, se e come il potessero fare, e di tale loro credenza porgono documento, oltre alle leggende e ai racconti che abbiamo veduti, innumerevoli novelle popolari, che da quella età vennero sino a noi, e sono tuttora vive nei parlari d'Europa.

Note
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[1] «Purgat.», XXX, 142-4
[2] «Inf.», XXI, 82
[3]. «Inf.», XV, 26-7.
[4] «Inf.», XXXII, 76
[5] «Purgat.», XVI, 67-9.
[6] «Parad.», XX, 94-6.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA LEGGENDA DI UN PONTEFICE
(SILVESTRO II)

I
Sembra a molti che Dante, col parlare dei mali pontefici come in più luoghi notissimi della Commedia ne parla, con lo sprofondarne un buon numero nell’Inferno, col porre in bocca allo stesso principe degli apostoli quella terribile sfuriata del XXVII canto del «Paradiso», abbia dato una singolar prova di arditezza e libertà di giudizio, abbia fatto cosa mirabile e nuova, in pien contrasto con le usanze, le opinioni, lo spirito dell’età che fu sua.
È questo un errore.
Il medio evo, se ebbe (come Dante, del resto) viva e salda la fede, e sincera

La riverenza delle somme chiavi,

del papato quale istituzione divina, intesa a procacciare il trionfo della verità e la salute delle anime, ebbe pure, stimolato a ciò dalla stessa indole del suo sentimento religioso, pronta la mente e spedita la lingua a condannare e vituperare i troppo umani traviamenti di quella istituzione, e uso sempre, parlando dei reggitori spirituali suoi, così maggiori come minori, non velati giudizii e libere ed acute parole. Di ciò fanno fede certe Bibbie satiriche, certi trattati del pianto e della corruzion della Chiesa, molte poesie di goliardi, molte narrazioni di storici e di novellatori, e alcune leggende meravigliose, le quali, per aver avuto divulgazione larghissima, ed essere state credute vere universalmente, hanno anche più significato e fanno vie più valida testimonianza. Tale la leggenda che dice Giovanni XII accoppato dal diavolo; tale l’altra che manda all’Inferno e libera poi Benedetto IX; tale quella che narra della magia e della mala fine di Silvestro II: anzi questa, essendo per molta parte ingiusta, come or ora si vedrà, non avendo, cioè, nella vita quel pontefice ragion sufficiente e giustificazione opportuna, riesce più significativa e più notabile delle altre.
La cornice storica, se così posso esprimermi, dentro a cui essa s’ inquadra, è, in breve, la seguente.
Gerberto, che poi fu papa col nome di Silvestro II, nacque di umile famiglia in Aurillac, o ivi presso, nell’Alvernia, non si sa precisamente in quale anno, ma verso il mezzo del secolo X. Rimasto orfano, fu accolto, fanciullo ancora, nel monastero di San Geroldo, ove fece i primi suoi studii, e d’onde, in compagnia di Borel, conte d’Urgel, passò in Ispagna a seguitarli, sotto la disciplina del vescovo Attone. In Ispagna dimorò alcuni anni, poi, essendo già versatissimo nella matematica, nell’astronomia, nella musica, se ne venne, insieme col vescovo e il conte, in Roma. In Roma il pontefice, ch’era allora Giovanni XIII, gli pose amore, e dopo alcun tempo lo mandò all’imperatore Ottone Il, che a sua volta lo mandò a studiar logica con un arcidiacono di Reims. Nel 972 Gerberto insegna in quella stessa città con grande onore, e la fama del suo mirabil sapere cresce rapidamente; ma Ottone, credendo di fargli bene, lo toglie di là per preporlo all’abazia di Bobbio. Quivi Gerberto si attira molte inimicizie e cade in disgrazia così del papa, come dell’imperatore. Fa ritorno a Reims, si getta in mezzo alle contese politiche, coopera efficacemente alla deposizione di quell’arcivescovo Arnulfo, accusato d’aver tradito Ugo Capeto suo signore, e ne usurpa il luogo; ma nol tiene a lungo, e condannato da un concilio, si ritrae. Nel 999 lo troviamo arcivescovo di Ravenna, e in quell’anno medesimo, il 2 di aprile, è fatto papa. Governa la Chiesa quattr'anni, con fermezza e rettitudine, e muore il 12 maggio del 1003.
Questi, in succinto, i fatti storicamente accertati, da cui prende argomento, e tra cui s’insinua e si dilata la leggenda che mi accingo ad esporre. Essi hanno, senza dubbio, dello straordinario, ma nulla di portentoso, nulla di arcano, e non eccedono in nessunissima guisa i termini naturali delle cose umane e delle umane operazioni. La fortuna di Gerberto, salito per gradi e lentamente dall’umile condizione di monaco alla suprema dignità di papa, non dà nemmen luogo a uno di quei problemi storici indeterminati e involuti, intorno a’ quali il critico, che vede ogni po’ dileguarsi o confondersi le cause presunte dei fatti, o diventarne perplesso il significato, si affatica inutilmente. Data la condizione generale dei tempi in cui Gerberio ebbe a vivere, date le qualità dell’ingegno e dell’animo di lui, dato il favore di cui, a tacere d’altri, gli furono larghi gli Ottoni, quella fortuna appar naturale e spiegabilissima.
Appar tale a noi; ma tale non doveva facilmente apparire agli uomini che la videro, o a quelli che; per più secoli di poi, ne udirono il racconto. E però nacque la leggenda, frutto della ignoranza, congiunta, per una parte, con l’ammirazione, per l’altra, col malvolere, stimolata senza posa e riscaldata dalla fantasia. Dove e quando appajono le prime vestigia di essa, e quali sono le sue prime sembianze? Ogni leggenda, simile in questo a una pianta, nasce di certi germi, cresce, fiorisce, prolifera, e dopo un tempo più o meno lungo, secondo l’indole dei popoli, le condizioni della civiltà, le vicissitudini storiche, svigorisce e muore. Come quell’albero meraviglioso dei tropici, che abbarbicando a mano a mano i suoi rami alla terra, forma intere foreste, la leggenda, sin che dura nel suo rigoglio e nella sua fecondità, copre di sé province e reami; ma negli inizii suoi, e poi nella fine, si raccoglie in poco spazio, e facilmente si occulta; e chi ne vuol dar contezza, non sempre riesce a dire se ci sia o non ci sia, se sia già nata, se sia già morta. E ciò perché, la leggenda è bensì un fatto psicologico e storico alla produzione del quale concorrono cause insistenti, molteplici, generalissime; ma è altresì un fatto che si produce e si determina a poco a poco, in certi spiriti da prima, in uno anziché in un altro luogo, irresolutamente, con manifestazioni scarse e leggiere, che sfuggono all’occhio e facilmente dileguano.
Così per l’appunto seguì della leggenda di Gerberto. Diffusissima nei tre secoli che seguiron l’undecimo, essa, negli anni più prossimi alla morte di colui che le porge argomento, appena dà qualche segno del suo formarsi. Nei cronisti più antichi, coetanei di Gerberto, o a lui di poco posteriori, non se ne vede pur l’orma. Un monaco di San Remigio, Richerio, grande amico ed ammirator di Gerberto, cui dedicò quattro libri di storie, narra con molte lodi la vita di lui, descrive gli studii, esalta l’ingegno e il sapere, celebra le opere, ma non ha nemmeno una parola che accenni a leggenda. Vero è che Richerio, appunto perché amico, avrebbe potuto tacere, per deliberato proposito, ciò che da molti, non amici, si mormorava; ma non mancano altri cronisti, antichi egualmente, o poco meno, sui quali non può cadere un sospetto così fatto. Ditmaro di Merseburgo, Ademaro Cabannense, o Campanense, Elgaldo, Radulfo Glaber, Ermanno Contratto, o di Reichenau, Lamberto di Hersfeld, Mariano Scoto, Bernoldo, Ugo Floriacense, tutti fioriti tra il finire del X e il principiare del XII secolo, nulla narrano che s’accosti od alluda alla posteriore leggenda, e par più che probabile, conoscendo l’indole, il gusto e i costumi di quei semplici narratori, e dei più semplici lettori loro, che nessuna leggenda, propriamente detta, fosse ancora lor giunta all’orecchio. Ma ciò non vuoi proprio dire che la leggenda non fosse già nata; vuol dire solo che essa era appena fuor di terra, e aveva poca radice, e non mostrava altrui nè fiori nè fronde. Anzi è probabile che essa avesse cominciato a germogliare mentre Gerberto era ancora vivo, forse nell’ultimo tempo del suo breve papato, forse anche (nessuno potrebbe nè affermarlo, ne negarlo) qualche anno innanzi.
Vediamone un primo germoglio, a dir vero assai debole, e appena formato, ma che potrebbe pure esser venuto dopo altri parecchi, e lascia forse vedere più che non mostri.
Per molti anni, dal 977 al 1030, fu vescovo di Laon un uomo ambizioso e iracondo, Adalberone, detto anche Ascelino, mescolato a molte brighe e fazioni del tempo suo, gran nemico dei Cluniacensi e dei monaci in generale, cattivo poeta, risoluto di animo e sciolto di lingua. Costui, nel 1006, secondo è da credere, compose, in forma di un dialogo col re Roberto di Francia, un lungo poema latino, nel quale diede libero sfogo alle ire che gli covavan nell’anima, pigliandosi quella miglior vendetta che poteva. In certo luogo egli fa che il re alle sue minacce risponda:

Crede mihi, non me tua verba minantia terrent;
Plurima me docuit Neptanabus ille magister

A primo aspetto questi due versi sciagurati non pajono avere con Gerberto e la sua leggenda relazione alcuna; ma se si riflette che il re, nella cui bocca son posti, era stato, in Reims, discepolo di Gerberto, e se si bada a quel Neptanabus, il quale altro non è che il famoso mago Nectanebus, secondo antiche e divulgatissime finzioni re dell’Egitto e padre adulterino di Alessandro Magno, la relazione scopre, e si sente il veleno dell’argomento. Roberto dice di non temere le minacce del suo avversario, perché dal maestro mago apprese a difendersi. Con poco o punto pericolo di errare, noi possiamo vedere in quei versi un’allusione a Gerberto, e un’accusa di magia, per nessun modo larvata ai lettori di quel tempo. Ecco dunque apparire, sino dal 1006, tre anni dopo la morte del pontefice, la leggenda della sua magia; la stessa risolutezza e recisione dell’accenno lasciano ragionevolmente supporre che non fosse quella la sua prima apparizione.
Teniamole dietro, e vediamola crescere a vista d’occhio.
Negli ultimi anni del secolo XI, un tedesco, fatto cardinale da un antipapa, Benone, compose col titolo di Vita et gesta Hildebrandi, un rabbioso libello, dove con Gregorio VII, suo capitale nemico, sono calunniati e vituperati parecchi dei pontefici che lo precedettero. Benone narra una lunga e tenebrosa istoria, di cui non mancarono di menar vanto e giovarsi, ai tempi della Riforma, gli oppositori più ardenti ed astiosi della Chiesa di Roma; e se molte delle cose ch’ei narra sono frutto della sua fantasia invelenita, altre e non poche, sono probabilmente (potrei anche osare di dir certamente) frutto dello spirito dei tempi, della comune ignoranza, e del maltalento, non sempre irragionevole, e ingiusto, di molti.
A dir di Benone, Gregorio VII, l’amico della contessa Matilde, il trionfatore di Arrigo IV, il più formidabile e potente dei papi, fu uno sceleratissimo mago, discepolo, nelle arti maledette, di Teofilatto, il quale fu pontefice col nome di Benedetto IX, di Lorenzo, vescovo di Amalfi, di Giovanni Graziano, che fu pontefice anch’egli, e si chiamò Gregorio VI. Teofilatto sacrificava ai demonii, innamorava, con le sue arti, le donne, e come cagne se le traeva dietro per selve e per monti. Di ciò fanno fede i libri che gli si trovarono in casa quand’egli finì miseramente la vita, e tale storia è (dice Cenone) cognitissima in Roma, al volgo. Grande amico e fautore di Teofilatto era Lorenzo, principe dei malefizii, il quale intendeva il linguaggio degli uccelli, profetava, e destava, coi vaticinii e gli augurii, l’ammirazione della plebe, dei senatori, del clero. Giovanni ospitava in sua casa Lorenzo, e imparava da lui il diabolico magistero. Ildebrando fu degno in tutto de’ suoi maestri. Scotendo le maniche, egli spargeva nell’aria un nugolo di faville, e Benone racconta di lui, d’un suo libro magico, e di due suoi familiari, una paurosa novella, che, con poca diversità, ricorre nelle storie di altri maghi famosi, tra’ quali Virgilio. Ma la malvagia tradizione e l’esecrando esercizio avevano più antica la origine. Teofilatto e Lorenzo, prima d’esser essi maestri, erano stati discepoli, e il maestro loro aveva avuto nome Gerberto. Benone parla chiaro e preciso: «Essendo ancor giovani Teofilatto e Lorenzo, ammorbò la città co’ suoi malefizii quel Gerberto di cui fu detto:

Transit ab R Gerbertus ad R post papa vigens R.

«Questo Gerberto, ascendendo, poco dopo compiuto il millennio, dall’abisso della permissione divina, fu papa quattr’anni, mutato il nome in Silvestro secondo; il quale, per divino giudizio, morì di morte repentina, colto al laccio di quegli stessi responsi diabolici co’ quali tante volte già aveva ingannato altrui. Eragli stato detto da un suo demonio ch’e’ non morrebbe sino a tanto che non celebrasse messa in Gerusalemme. Illuso dalla equivocazione del nome, pensando si dovesse intendere di Gerusalemme in Palestina, andò a celebrare messa il dì della stazione in quella chiesa di Roma che appunto si chiama Gerusalemme, dove, sentendosi venire addosso la morte, supplicò gli fossero tronche le mani e la lingua, con le quali, sacrificando ai diavoli, aveva disonorato Iddio. E così ebbe fine condegna a’ suoi meriti» Ecco Roma fatta un covo di pessimi incantatori, i quali, per colmo di danno e di sceleratezza, sono quegli stessi pastori che più gelosamente dovrebbero custodire e difendere la greggia dei fedeli contro le insidie e le offese del lupo diabolico. Credere che tutte quelle accuse sieno mere invenzioni di Benone non mi par ragionevole, soprattutto per quanto spetta a Gerberto. Il nemico di Benone era, non Gerberto, morto oramai da un secolo, ma Ildebrando, e la pensata e voluta denigrazione d’Ildebrando sarebbe riuscita, parmi, tanto più efficace e più piena, quanto più circoscritta e appropriata a lui solo. Benone avrebbe, con minor fatica, reso assai più iniquo Ildebrando, e saziato il suo odio, se invece di far di costui un discepolo, ne avesse fatto un caposcuola; se a lui, anzi che a Gerberto, avesse dato colpa della prima infezion di magia ond’era stato contaminato l’ovile di Pietro. Assai più probabile dunque mi sembra che Benone non inventasse di pianta, ma raccogliesse in uno, forse esagerando, forse travolgendo, credenze, accuse, lembi di leggende, già formate, o in via di formarsi. Lo stesso modo succinto ed ellittico usato da lui in parlar di Gerberto, mi pare che sia come un accennare a cose note, sottintese, fatte oramai di pubblica ragione. E non si dimentichi che l’accusa di magia pesò anche su altri papi parecchi.
Nel poema di Adalberone abbiamo un cenno allusivo e non più; nel libello di Benone abbiamo già uno schema di racconto. Un cronista di poco posteriore a Benone, Ugo di Flavigny, nato nel 1065, morto non si sa quando, ma dopo il 1102, parla di Gerberto con manifesto dispetto, dice che per l’insolenza sua fu espulso dal convento ov’era stato accolto fanciullo, e che usando di certi prestigi, quibusdam praestigiis, si fece fare arcivescovo, prima di Reims, poi di Ravenna. Non dice altro di notabile; ma mi par da credere che con la parola praestigiis egli abbia voluto intendere arti magiche, e riferirsi, senza altrimenti esporla, a una leggenda già cognita. E la leggenda fa di bel nuovo capolino nell’opera di un monaco belga, la celebratissima Chronographia di Sigeberto di Gembloux, nato circa il 1030, morto il 1111. Quivi si legge che alcuni, taciuto il nome di Silvestro II, il quale fu per dottrina chiaro tra’ chiari, , ponevano in suo luogo Agapito, né ciò senza qualche ragione. «Dicesi (così Sigeberto) che questo Silvestro non entrò per l’uscio, e ci è chi lo accusa di negromanzia, e più cose strane si narrano della sua morte, e vogliono alcuni che egli morisse percosso dal diavolo, le quali cose io non affermo e non nego, ma lascio in dubbio». Come si vede, quando Sigeberto scriveva, la leggenda era ancor titubante, mal definita, male compaginata, e si reggeva con le grucce dei si dice e dei si crede, che escludono la fede piena, incontrastata ed universale. Tale carattere essa serba nel racconto di un altro monaco, Orderico Vital, inglese, che fra il 1124 e il 1142 compose la sua Historia ecclesiastica. Fatte lodi grandissime di Gerberto e de’ suoi numerosi discepoli, Orderico nota: «Di lui si narra che conversasse col diavolo mentre era maestro, e che avendo chiesto di conoscere il proprio avvenire, il diavolo gli rispondesse col verso:

Transit ab R Gerbertus ad R post papa vigens R.

«Tale oracolo fu allora abbastanza oscuro a intendere, che poi si vide manifestamente adempiuto; dacché Gerberto passò dall’arcivescovado di Reims a quello di Ravenna, e fu da ultimo papa in Roma» – Questo verso l’abbiam già trovato nello scritto di Benone, e ci tornerà più d’una volta sott’occhio. Il primo che lo rechi è il già citato Elgaldo, il quale nulla sa della sua diabolica origine, ma dice che lo stesso Gerberto il compose, lietamente scherzando sulla lettera R dopo essere stato assunto al pontificato.
Col cenno di Orderico si chiude, per noi, il periodo iniziale della leggenda di Gerberto mago, il periodo delle formazioni embrioniche, dei primi nuclei staccati, a cui tien dietro il periodo delle esplicazioni e delle forme compaginate ed intere. Un terzo ed ultimo periodo è quello dello svigorimento progressivo e della obliterazione finale. Prima d’andar più oltre, soffermiamoci alquanto, e indaghiamo un po’ meglio le ragioni, appena accennate sin qui, della leggenda, e le condizioni in mezzo alle quali essa prendeva nascimento.

II

La ragione prima e principale è da cercare nella riputazione grandissima che Gerberto ebbe di dotto. A noi, che ne abbiamo i frutti tra mani, il sapere di lui non sembra un gran che, ma fu, pei tempi in cui egli visse, straordinario davvero, e a quegli uomini doveva sembrare meraviglioso, e ai più ignoranti inesplicabile e sovrumano. Il già ricordato Richerio parla con entusiasmo del grande ingegno e del mirabile eloquio di Gerberto; celebra la dottrina di lui, egualmente versato nell’aritmetica, nella dialettica, nell’astronomia, nella musica; discorre dell’abaco da lui inventato; ricorda alcune sfere celesti da lui con mirabile artificio costruite. Ditmaro narra che Gerberto fu, sin da fanciullo, ammaestrato nelle arti liberali; che ebbe ottima conoscenza del corso degli astri; che superò in dottrina tutti gli uomini del suo tempo; che nella città di Magdeburgo costruì un orologio solare, spiando a traverso a una canna, la stella che guida i marinai, cioè la polare. Ademaro Cabannense dice che Gerberto fu fatto papa dell’imperatore in grazia del suo sapere, propter philosophiae gratiam.
Ma quel sapere appunto, così fuor del comune, ai più doveva riuscire sospetto, e a molti, che pur non ci sospettavan nulla di soprannaturale, doveva tornare increscioso e non in tutto scevro di colpa. Non si dimentichi che siamo in tempi di fede viva ed angusta, e in mezzo ad uomini superstiziosi, i quali facilmente nel sapere umano scorgono come una presunzione audace di contrapporsi al sapere divino, e negli studii profani un esercizio pien di pericolo, assai più atto a trarre gli spiriti in giù, verso Satana, che a sollevarli in alto, verso Dio. E Gerberto attese con troppo ardore agli studi profani, e non celò la sua passione per essi. Non giunge egli a dire, in una lettera ad Amulfo vescovo di Reims: «A questa fede noi annodiamo la scienza, poiché non hanno fede gli stolti»? In queste parole facilmente altri avrebbe potuto trovare il germe di una falsa dottrina, contraria agl’insegnamenti dell’Evangelo. Nessuna meraviglia dunque se due cronisti, già più sopra citati. Lamberto di Hersfeld e Bernoldo, pur non facendo il più piccolo accenno ad origini o collegamenti soprannaturali, dicono risolutamente che Gerberto fu troppo debito agli studii profani.
Ma le cose non potevano fermarsi lì. Durante tutto il medio evo gli uomini più celebrati per ingegno e per dottrina, i filosofi e i poeti più illustri, così degli antichi come dei nuovi tempi, furono tenuti generalmente in conto di maghi, da Aristotele ad Alberto Magno e Ruggero Bacone, da Virgilio a Cecco d’Ascoli. Bastava a Gerberto la fama di dotto per mutarsi, nella opinione d’infiniti, di vescovo in mago; ma tale mutazione era in lui favorita da più altre ragioni. Si sapeva del suo viaggio in Ispagna; si sapeva che in Ispagna egli aveva atteso con sommo profitto agli studi; e non ci voleva un grande sforzo di fantasia per porlo in relazione con gli Arabi, per far di lui il discepolo di qualche dottore saraceno, avverso, come tutta la sua gente, ai cristiani, e naturale amico del diavolo. La critica del secol nostro provò che Gerberto deriva il suo sapere principalmente da Boezio, del quale fece in versi un fiorito elogio, e che nulla egli deve agli Arabi; ma chi, ai tempi di lui, avrebbe potuto provare o affermare altrettanto e troncar dalla radice un sospetto che sorgeva spontaneo e irresistibile nelle menti? Ademaro, che pur gli è tanto benevolo, dice (né si sa donde tragga cotal notizia) che Gerberto fu a Cordova per amor di studio, causa sophiae. Ora, Cordova era in mano degli Arabi, e se non aveva, come Toledo, fama di essere una scuola massima di magia, e un covo di negromanti, doveva pur sembrare ai cristiani un asilo e un propugnacolo dell’Inferno, dove s’insegnava una scienza perigliosa e diabolica. Perciò sarebbe da meravigliare se Gerberto avesse potuto sottrarsi a quella accusa di magia che avvolge tanti altri, i quali forse meno di lui sembravano meritarla.
Ma a procacciargliela, quell’accusa, un’altra ragione cooperò, non meno efficace delle notate: l’odio. Gerberto ebbe amici molti e potenti; ma ebbe anche molti nemici, de’ quali fa spesso ricordo nelle sue epistole. Ne ebbe a Bobbio, d’onde gli fu forza partirsi; ne ebbe a Reims pei fatti che ho detto; ne ebbe in tutta la Francia, e in Germania ancora, a cagione della parte presa negli avvenimenti politici; ne ebbe in Roma dove gli odii che sempre bollivano contro l’imperatore si riversavano naturalmente sopra i suoi protetti. E quegli odii Gerberto ricambiava. A Stefano, diacono di Roma, scriveva, piena l’anima di livore: «Tutta Italia m’è sembrata una Roma. Il mondo ha in esecrazione i costumi dei Romani».
Nemici dunque molti, e di varia condizione, e per più ragioni; alcuni mossi solo dalla gelosia e dall’invidia, altri da legittimo risentimento: giacché non è da tacere che se Gerberto ebbe grandi virtù, e parecchie, ebbe anche gran mancamenti; e se attese fedelmente, con zelo e carità, come vescovo e come papa, all’officio ecclesiastico, nei maneggi e nelle gare della vita si diportò più di una volta in modo degno di biasimo. Certo egli fu poco, aperto all’amicizia e agli affetti in genere, non ischivo dell’adulazione, non sempre alieno dall’intrigo e dall’inganno; soprattutto fu ambiziosissimo; e se la tristizia dei tempi in parte lo scusa, non lo scusa però interamente. Aggiungasi che gli Atti del concilio di San Basolo, da lui compilati, potevano anche far nascere qualche dubbio circa la sua ortodossia. Per quella brutta faccenda dell’arcivescovo Arnulfo gli si dichiararono avversi gli stessi pontefici, Giovanni XV prima, Gregorio V poi.
Qual che si fosse, del resto, la ragion della inimicizia, ben si vede che i nemici dovevano adoperarsi con tutte le forze ad oscurare la fama di lui, e che l’accusa di scelerati commerci con lo spirito delle tenebre doveva essere da loro, se non immaginata e prodotta, almeno accolta e promossa. Quanti poi, ed erano molti, sparsi pel mondo, , avevano in odio la curia di Roma, le sue prevaricazioni e te sue frodi, dovevano favorire il sorgere e il divulgarsi di una leggenda che poneva sulla cattedra di San Pietro una creatura del diavolo. Quel medesimo odio suscitò più tardi la leggenda famosa della Papessa Giovanna. Perciò gli è assai probabile che le prime voci, timide e fuggevoli, dell’accusa cominciassero a levarsi e andare attorno mentre Gerberto era ancor vivo. Il non trovarsi cenno della leggenda nei cronisti più antichi non prova punto, come a taluni sembra, il contrario, giacché le leggende, di solito, compajono nelle scritture un pezzo dopo che sono nate, e quando già hanno cominciato a esplicarsi e assodarsi: prima vivono nella fantasia dei molti e dei pochi, e nelle scucite narrazioni orali.
Il Doellinger crede che la leggenda nascesse in Roma, e che quivi la raccogliesse Benone. Le sue ragioni, a dir vero, non pajono di gran peso, e stimo assai più probabile che nascesse un po’ qua e un po’ là, dove trovava le suggestioni più acconce e le condizioni più favorevoli. Certo gli esplicamenti ulteriori delta leggenda non si produssero in Roma.

III

Lo storico inglese Guglielmo di Malmesbury, accingendosi, nella prima metà del secolo XII, a narrare la storia di Gerberto, diceva: «Non sarà assurdo, credo, se poniamo in iscrittura ciò che vola per te bocche di tutti»; e sul finire di quel medesimo secolo, un altro inglese, Gualtero Map, accingendosi anch’egli a quel racconto, esclamava: «Chi ignora la illusione del famoso Gerberto?» La leggenda, che nel secolo precedente sembra nota a pochi, ha fatto molto cammino, ed è ora cognita a tutti. Non solo è cognita a tutti, ma s’è ampliata, ha preso rilievo e colore, ha ricevuto numerosi innesti. Non è più uno schema di racconto, mal composto e reticente, è addirittura un romanzo.
Ascoltiamo Guglielmo di Malmesbury, gran raccoglitore, gran narratore, caloroso, efficace e credulo, di storie incredibili.
Gerberto nacque in Gallia, e fu monaco, sin da fanciullo, nel monastero di Fleury. Giunto al bivio pitagorico (così si esprime l’autore), sia che gli venisse tedio del monaco, sia che il vincesse cupidigia di gloria, fuggì di notte tempo in Ispagna con proposito di apprendere l’astrologia, ed altre arti sì fatte, dai Saraceni, i quali vi attendono e ne sono maestri. Giunto fra loro, poté appagare il suo desiderio, e vinse Tolomeo e Alandreo (?) nella scienza degli astri, Giulio Firmico nella divinazione del fato. Quivi imparò ad intendere e interpretare il canto e il volo degli uccelli; quivi a suscitar dall’Inferno tenui figure; quivi finalmente quanto di buono e di reo può comprendere la umana curiosità. Nulla è a dire delle arti lecite, aritmetica, musica, astronomia, geometria, le quali per tal modo esaurì da farle parere minori del suo ingegno, e con industria grande poi fece rivivere in Francia, ov’erano quasi perdute. Sottraendo, egli primo, l’abaco ai Saraceni, diede regole che a mala pena s’intendono dai sudanti abacisti. L’ospitava in sua casa un filosofo di quella setta, cui egli rimunerò, con molto oro da prima, e con promesse da poi. Nè mancava il Saraceno di vendere la propria scienza, e spesse volte invitava l’ospite a colloquio, ragionando seco lui quando di cose serie e quando di sollazzevoli, e gli dava de’ suoi libri da trascrivere. Aveva tra gli altri, il Saraceno, un volume, che contenea tutta l’arte, e questo, Gerberto, sebbene ardesse della voglia di farlo suo, non poté mai trargli di mano. Riuscite vane le preghiere, le promesse, le offerte, egli finalmente diede opera alle insidie, e ubbriacato, con l’ajuto della figliuola di lui, il Saraceno, tolse il volume, che quegli teneva custodito sotto il capezzale, e via se ne fuggì. Destatosi il Saraceno dal sonno, leggendo nelle stelle, delta cui scienza era maestro, si diede a inseguire il fuggiasco; ma questi, usando detta scienza medesima, conobbe il pericolo, e si celò sotto un ponte di legno, ch’era ivi presso, aggrappandovisi con le mani, per modo che, penzolando, non toccava né la terra né l’acqua. Così deluso, il Saraceno ebbe a tornarsene a casa, e Gerberto, accelerando il cammino, giunse al mare. Colà evocato con gl’incantesimi il diavolo, pattuì di darglisi in perpetuo, se, difendendolo da colui che l’inseguiva, lo portava oltre l’acqua. Il che fu fatto.
Qui Guglielmo entra a discorrere dell’insegnamento di Gerberto, de’ suoi compagni di studio e de’ discepoli illustri; ricorda un orologio meccanico (trasformazione dell’orologio solare di Magdeburgo) e un organo idraulico, in cui d’opera dei mantici era supplita dall’acqua bollente, fabbricati l’uno e l’altro da Gerberto per la cattedrale di Reims; dice come Gerberto diventasse arcivescovo di questa città, arcivescovo di Ravenna e finalmente pontefice; poi soggiunge: Fautore il diavolo, Gerberto procacciò la propria ventura per modo che nulla mai di quant’ebbe immaginato lasciò imperfetto, e da ultimo fece segno detta propria cupidità i tesori delle antiche genti, da lui per arte negromantica ritrovati.
E qui un’altra storia, che ebbe ancora essa divulgazione grandissima, e che Guglielmo sembra sia stato il primo a narrare.
Era in Campo Marzio, presso Roma (così dice il nostro cronista), una statua, non so se di bronzo o di ferro, che mostrava disteso l’indice delta mano destra, e recava scritto in fronte: Percuoti qui; Hic percute. Gli uomini del tempo andato, credendo di trovarvi dentro un tesoro, avevano, con molti colpi di scure, squarciata la statua innocente; ma Gerberto corresse l’error loro, intendendo in tutt’altro modo le ambigue parole. Epperò, notato di pien meriggio il luogo ove giungeva l’ombra del dito, ivi infisse un palo, e sopravvenuta la notte, fatto colà ritorno con la sola scorta di un suo cameriere, che recava una lucerna accesa, fece con suoi incanti spalancare la terra. Ed ecco apparire agli sguardi loro una grandissima reggia, auree pareti, aurei lacunari, e cavalieri d’oro giocanti con aurei dadi, e un aureo re, sedente con la sua regina a mensa apparecchiata, con intorno i ministri e sulla mensa vasellame di gran peso e pregio, ove l’arte vincea la natura. Nella più interna parte del palazzo, un carbonchio, gemma fra tutte nobilissima e rara, fugava col suo splendore le tenebre, e aveva di contro, nell’angolo opposto, un fanciullo con l’arco teso, incoccata la freccia. Ma nessuna di quelle cose, che con l’arte preziosa rapivano gli occhi, poteva esser tocca, perché come l’uno degli intrusi vi appressava la mano, subito quelle immagini tutte parevano balzargli incontro e voler far impeto nel temerario. Vinto dal timore, Gerberto represse la sua cupidigia; ma il cameriere ghermì un coltello di mirabile valore, che era sul desco, pensando così picciolo furto dovesse rimanere occulto fra tanta preda. Incontanente insorsero le immagini tutte fremendo, e il fanciullo, scoccata nel carbonchio la freccia, empié di tenebre il luogo; e se il cameriere, ammonito dal suo signore, non si fosse affrettato a deporre il coltello, avrebbero entrambi pagata la pena detta loro petulanza. Così inappagata la loro bramosia, guidati dalla lucerna, se ne tornarono addietro. Erano quelli i tesori di Ottaviano Augusto imperatore, a proposito dei quali Guglielmo narra altre avventure e altre meraviglie.
Segue un terzo racconto, col quale il romanzo si chiude.
Gerberto, osservati gli astri, compose una testa artifiziata, la quale rispondeva per sì o per no alle domande che tesi facevano. Così se Gerberto chiedeva: Diventerò io papa?, la testa rispondeva: Sì. E se Gerberto domandava: Morrò io prima che canti messa in Gerusalemme?, la testa rispondeva: No. E vogliono che dall’ambiguità di questa seconda risposta egli sia stato tratto in inganno, perché non pensò esservi in Roma una chiesa che appunto è detta Gerusalemme, dove suol cantar messa il papa le tre domeniche cui dassi il titolo di Statio ad Jerusalem. Ora avvenne che in uno di quei giorni Gerberto, mentre si parava per la messa, ammalò, e crescendogli il male, consulta la testa, conobbe l’inganno e la morte imminente. Chiamati pertanto i cardinali, pianse a lungo i suoi malefizii, e mentre quelli per lo stupore non sapean che si fare, egli, perduto per l’angoscia il senno, ordinò lo tagliassero a pezzi, e così ne lo gittassero fuori, dicendo: Abbia le membra chi ebbe l’omaggio, perché l’anima mia sempre detestò quel sacramento, anzi sacrilegio.
Due sarebbero state principalmente, secondo la narrazione di Guglielmo, le ragioni che indussero Gerberto a studiare la magia e legarsi col demonio: il desiderio di sapere e l’amor della gloria; la cupidigia appare solo più tardi. In un poema latino anonimo, di cui non è accertato se appartenga al secolo XII o al XIII, narrasi che Gerberto si diede al diavolo perché non era buono d’imparar nulla, ed ebbe il diavolo stesso a maestro, e da lui apprese a compor l’abaco; ma nel già ricordato racconto di Gualtiero Map vengono fuori altri fatti, altre ragioni, altre meraviglie.
Dice quest’uom dabbene, con torturata e torturante eleganza di concetti e di stile, che Gerberto, essendo a Reims s’innamorò perdutamente della figliuola di quel preposto, bellissima, ammiratissima, desideratissima. Per amor di lei Gerberto si diede a spendere e spandere, si caricò di debiti, cascò in mano agli usurai, e in poco tempo, abbandonato da servi ed amici, toccò il fondo della miseria. Un giorno, lacerato dalla fame e fuori di sé, nell’ora del meriggio, si cacciò in un bosco, e vagando a caso, capitò in un luogo dove improvvisamente gli si offerse alla vista una donna d’inaudita bellezza, seduta sopra un gran drappo di seta, con innanzi a sé un mucchio grandissimo di monete. Gerberto volge il piè per fuggire; ma la donna il chiama per nome, e come mossa a compassione del suo stato, gli offre quante ricchezze possa mai desiderare, a patto solo che rinunzii alla figlia del preposto, la quale non si curò punto di lui, e voglia lei, che gli parla, per compagna ed amica. Ella soggiunge: Meridiana è il mio nome, e sono, come tu sei, creatura dell’Altissimo, e a te, come al più degno fra gli uomini, ho serbata la mia verginità. Non sospettar d’inganno e d’insidia; non credere che io sia un qualche demone succubo; io tutto ti offro, e non ti chiedo promessa o patto alcuno. Gerberto, rimosso dall’animo ogni timore, offre la propria fede, bacia l’amica (salvo, dice il buon Gualtiero, il pudore), prende quant’oro può portare, torna in città, paga i suoi creditori, e ajutato dalla sua Meridiana (o Marianna), la quale gli è meno maestra che amante, e gl’insegna la notte che cosa abbia da fare il giorno, ristora tutto il perduto, agguaglia la magnificenza di Salomone, vince quanti hanno fama di dotti, diventa il soccorritore dei bisognosi, il redentor degli oppressi, e non è città nel mondo che per amore di lui non porti invidia a Reims. La figliuola del preposto, ciò vedendo, arde a sua volta di amore e di gelosia, e si strugge del desiderio di aver tra le braccia colui che tanto avea disprezzato. Con l’ajuto di una vecchia, vicina di Gerberto, appaga il suo desiderio, un giorno che quegli, dopo lauto desinare, s’era addormentato nell’orto. Meridiana si sdegna, e da prima respinge il pentito, poi gli perdona, a patto che si leghi a lei con formale promessa e indissolubile nodo. Muore intanto l’arcivescovo di Reims, e Gerberto, per la fama de’ suoi meriti, è chiamato a succedergli; poi, in Roma, è dal papa fatto cardinale e arcivescovo di Ravenna; poi, morto il papa, è, per universale suffragio, coronato della tiara. Ma durante tutto il tempo del suo sacerdozio egli più non si cibò del corpo e del sangue di Cristo, solo simulando con frode il sacramento. L’ultimo anno del suo pontificato gli apparve Meridiana, e gli annunziò ch’ei non morrebbe finché non celebrasse messa in Gerusalemme, ed egli, dimorando in Roma, e facendo pensiero di non girsene mai in Terra Santa, si tenne sicuro. Se non che, andato un giorno a celebrare messa nella chiesa di Santa Croce in Gerusalemme, si vide improvvisamente innanzi Meridiana, che l’applaudiva, come fosse lieta del suo prossimo venire a lei. La qual cosa veduta, e conosciuto il nome del luogo, egli, convocati i cardinali, e tutto il clero e il popolo, si confessò pubblicamente, e fatta acerbissima penitenza, morì. Fu sepolto nella chiesa di San Giovanni Laterano, dentro a un’arca marmorea, dalla quale trasuda acqua; e dicono che quando sta per morire il papa, di quell’acqua si forma un rigagnolo che scorre in terra, e quando muore alcun grande, se ne aduna più o meno, secondo il grado e la dignità di ciascuno. Gerberto, sebbene per avarizia sia stato gran tempo impigliato nel vischio del diavolo, pure con forte mano e magnificamente resse la Chiesa.
Il racconto di Gualtiero ha un intonazione gaja che manca al racconto di Guglielmo e degli altri: l’orror del diabolico è in esso raggentilito dall’amore e dalla bellezza. Quella Meridiana, o Marianna., non è se non l’antichissima Diana trasformata in diavolo, e più propriamente nel diavolo meridiano, che soleva lasciarsi vedere sull’ora del meriggio, e di cui è frequente ricordo negli scrittori del medio evo. Essa ha nel romanzo di Gerberto, quale Gualtiero lo narra, una parte molto simile a quella che certe fate hanno nei romanzi cavallereschi, e la storia degli amori appartiene al divulgatissimo tema degli amori d’uomini d’ossa e di polpe con donne soprannaturali.
D’onde attingeva Gualtiero? Dalla propria fantasia, o da una tradizione scioperata e caduca, nata forse e morta in Inghilterra, prima che giungesse a valicar lo stretto e a propagarsi nel continente? Propendo per questa seconda soluzion del dubbio, ma senza poterla provare. Certo si è che un altro scrittore inglese, di poco anteriore a Gualtiero, e non noto per nome, di Meridiana non fa parola: dice che Gerberto si diede al diavolo per avidità di onori e di ricchezze; che fu dallo stesso demonio ingannato con quell’ambiguo responso della messa da celebrare in Gerusalemme, e fatto un cenno della penitenza, chiude il racconto, annunziando la salvazione del pentito, e riferendo il miracolo del sepolcro.
Così abbiam veduto variare le ragioni assegnate al diabolico patto: amor del sapere, inettitudine allo studio, cupidigia di onori e di potere, avidità di ricchezze; più che non se ne sieno addotte per Fausto. Un poeta e cronista alquanto più tardo, il viennese Enenkel, il quale, circa il mezzo del secolo XIII, compose una specie di storia universale in versi, narra che Gerberto, uomo di gran sapere, ma giocatore sfrenato, per torsi alla miseria cui s’era ridotto, si legò col diavolo, pattuendo d’esser suo il giorno in cui celebrerebbe messa in Gerusalemme. Ajutato dal suo diavolo, Gerberto seguita a giocare a dadi, vince quanti si cimentano con lui, diventa segretario del vescovo, poi vescovo, poi papa. Segue il racconto della messa fatale e della penitenza: le membra tronche sono gettate ai diavoli congregati, che giocano con esse alla palla.
Ma non corriamo tropp’oltre, e prima di seguitare, soffermiamoci un poco a considerar più da presso alcuna delle finzioni che ci si sono preparate dinanzi.

IV
Il verso:

Scandit ab R Gerbertus in R, post papa viget R,

riferito la prima volta, come ho detto, da Elgaldo, ripetuto poi, con leggiere variazioni, da Benone e da molti altri, può benissimo, come lo stesso Elgaldo afferma, essere stato composto da Gerberto dopo la sua esaltazione al pontificato; ma mi par più probabile sia fattura di qualche scolastico di quei tempi. Comunque sia, più tardi esso diventa una specie di vaticinio posto in bocca al diavolo. Il cronista inglese, che andava sotto il nome di Guglielmo Godell, ne fece un epitafio inscritto sulla tomba di Gerberto.
Ditmaro parla di un orologio solare. L’anonimo autore di certi Gesta episcoporum Halberstadensium, il quale scriveva nei primi anni del secolo XIII, si contenta di dire che Gerberto costruì in Madgeburgo un orologio abbastanza ammodo (orologium quoddam honestum satis); ma Guglielmo di Malmesbury vuole fosse un orologio meccanico, e Sant’Antonino dice molto più tardi, nelle sue Istorie, che Gerberto fece un orologio meccanico mirabile. Gli è così appunto che la leggenda lavora.
La storia della statua, che indica misteriosamente un luogo nascosto, ha molti riscontri, ed è certamente, almeno in parte, più antica di Gerberto cui Guglielmo l’appropria. In un libro arabico, intitolato Il libro del secreto della creatura del saggio Belinus (il quale Belinus si crede con buon fondamento essere Apollonio Tianeo), si narra che nella città di Tuaya (probabilmente Tiana) c’era una statua di Ermete, sul cui capo leggevasi scritto: Se alcuno desidera conoscere il secreto della creazione degli esseri, e come fu formata la natura, guardi sotto a’ miei piedi. Nessuno aveva mai saputo scoprirci nulla; ma Belinus scavò sotto i piè della statua, e trovò un sotterraneo, e nel sotterraneo un vecchio seduto sopra un trono d’oro, con innanzi un libro aperto. Belinus tolse il libro, e acquistò per esso la cognizione di tutte le cose. Similmente la storia dei tesori trovati nel sotterraneo fu narrata, prima che da Gerberto, da altri. Il già citato cronista Sigeberto di Gembloux racconta, all’anno 1039, che in Sicilia era una statua marmorea, la quale recava scritto intorno al capo: Alle calende di maggio, nascente il sole, avrò il capo d’oro. Un Saraceno, fatto prigione da Roberto Guiscardo, intendendo il significato di quelle parole, il dì primo di maggio, al nascer del sole, notò diligentemente il luogo ove giungeva l’ombra della statua, e quivi, scavata la terra, trovò un infinito tesoro, col quale poté riscattarsi. Di questo caso fa ricordo anche il Petrarca nel suo libro delle cose memorabili. L’avventura non ebbe così buon fine per un chierico innominato, di cui si narra la storia nei Gesta Romanorum. Costui, penetrato, come Gerberto, in luogo sotterraneo, ov’era accolto un inestimabile tesoro, non seppe frenare la voglia, e tolse un coltello: immediatamente un sagittario scoccò la freccia nel carbonchio che illuminava la caverna, e il temerario chierico, non potendo più, fra le tenebre, rinvenir la via dell’uscita, morì miseramente. Quel sagittario, o uno che assai gli somiglia, appare anche in altri racconti: nella leggenda di Virgilio mago, nella Image du monde, nella Eneide del tedesco Enrico di Weldeke.
Veniamo alla testa artifiziata che dà responsi. Teste così fatte, o anche intere statue favellatrici, o androidi, furono pure attribuite ad Alberto Magno, a Ruggero Bacone, ad Arnaldo di Villanuova, a Enrico di Villena, a un rabbino per nome Löw. Di una si parlò nel famoso processo dei Templari, e Guglielmo di Newbury, storico inglese morto il 1208, racconta di un procuratore di Andegavia, per nome Stefano, ingannato, come Gerberto, da una testa magica; e chi non ricorda la gherminella fatta con una testa presunta magica al povero Don Chisciotte? Se Gerberto sia stato il primo ad averne una dalla generosità della leggenda è difficile dire, e non è gran fatto probabile; ma certo il fallace responso ch’egli ebbe da essa, o dal diavolo, altri ebbero assai prima di lui, come altri ebbero dopo. Di responsi ambigui e fallaci è assai spesso ricordo negli scrittori dell’antichità. Di un responso, o, a dir meglio, di un avvertimento, non diabolico, ma divino, nel quale, come nella risposta data a Gerberto, si ha una equivocazione sul nome di Gerusalemme, narra Giovanni Villani riferendola a Roberto Guiscardo ». Questo Ruberto Guiscardo, dopo molte nobili opere e cose fatte in Puglia, per cagione di devozione si dispose d’andare in Gerusalemme in peregrinaggio, e detto li fu in visione che morrebbe in Gerusalemme. Adunque accomandato il regno a Ruggieri suo figliuolo, prese per mare viaggio verso Gerusalemme. E pervenendo in Grecia al porto che si chiamò poi per lui porto Guiscardo, cominciò a gravare di malattia. E confidandosi nella revelazione a lui fatta, in nullo modo temè di morire. Era incontro al detto porto una isola, alla quale, per cagione di prendere riposo e forza, vi si fece portare, e là portato non migliorava, anzi più aggravava. Allora dimandoe come si chiamava quella isola: fu risposto per li marinai che per antico si chiamava Gerusalemme. La qual cosa udita, incontanente certificato di sua morte, divotamente di tutte le cose che a salute dell’anima si appartengono sì si ordinò, e divotamente si acconciò e morio nella grazia d’Iddio negli anni di Cristo 1090. Nella leggenda di Cecco d’Ascoli si ha, come in quella di Gerberto, un inganno diabolico. Il diavolo aveva annunziato a Cecco ch’e’ non morrebbe se non tra Africa e Campo de’ Fiori. Condotto al supplizio, l’infelice non dava segno di timore alcuno, aspettando che quegli venisse a liberarlo; ma saputo allora come Africo fosse il nome di un fiumicello che scorreva ivi presso, intese sotto il nome di Campo de’ Fiori celarsi Firenze, e si conobbe perduto. Il mago polacco Twardowsky fu, dice la leggenda, ingannato dal diavolo con una equivocazione sul nome di Roma, che aveva pure un piccolo villaggio in Polonia; Enrico IV d’Inghilterra, nel dramma dello Shakespeare che da lui s’intitola, è ancor egli ingannato col nome di Gerusalemme.
Per ciò che spetta alla terribile penitenza con cui Gerberto espiò le sue colpe e si liberò dalle mani del diavolo, la tradizione è certo assai antica, perché si trova giù, come abbiam veduto, nello scritto di Benone, sebbene poi Sigeberto di Gembloux ne taccia. Il medio evo è pieno di cosi fatti racconti di penitenze spaventose, intesi a mostrare l’efficacia appunto della penitenza, e come non siavi peccato, per quanto grande e mostruoso, che non possa ottenere il perdono di Dio: si direbbe che quella età abbia a bella posta inventati peccatori sceleratissimi, per poi farli pentire, e renderli degni dei Paradiso. Anche la penitenza di Gerberto ha non pochi riscontri. Guglielmo di Malmesbury ne racconta una in tutto simile di un mago Palumbo e Tommaso Cantipratense reca l’esempio di un malvagio pentito, che, condannato a morte, chiede in grazia d’essere tagliato a pezzi. Taluno di tali racconti è ancor vivo nelle letterature popolari.
In relazione con la notizia data da Gualtiero Map, che Gerberto più non comunicò durante tutto il tempo del suo sacerdozio, è quanto dice un altro scrittore inglese del secolo XIII, Giraldo Cambrense, il quale, ricordato quel caso, soggiunge: «onde fu statuito nella Chiesa Romana che i sommi pontefici, nel momento della comunione, dovessero voltarsi verso il popolo»; precauzione che ricorda quella secondo altri racconti usata per accertarsi del sesso dei pontefici dopo la scandalosa avventura della papessa Giovanna.
Finalmente la favola del sepolcro che suda acqua. Il primo a farne cenno sembra essere un diacono Giovanni, che in Roma, ai tempi di Alessandro III (1159-1181), compose un Liber de ecclesia Lateranensi. Egli dice che il sepolcro di Gerberto, sebbene non fosse in luogo umido, mandava fuori, anche quando l’aria era in tutto serena, gocce d’acqua, e che ciò era agli uomini cagione d’ammirazione. Di presagi non fa parola; ma gli è assai probabile che qualche immaginazione, simile a quella che in proposito riferisce Gualtiero, fosse già nata in Roma fra il popolo.
La leggenda di Gerberto faceva ciò che sempre fanno le leggende maggiori, congiunte ad alcuna persona illustre, o ad alcun memorabile avvenimento: come un rivo nato di picciola fonte, il quale ingrossa di sempre nuove acque trovate per via, essa ingrossava di quante finzioni le si paravano innanzi consentanee al suo spirito e conformi ai suo tema.

V

Guglielmo di Malmesbury e Gualtiero Map ci dànno la leggenda nella sua forma più piena e colorita, quale sembra siasi foggiata, per ragioni che ci sfuggono, in Inghilterra. Da indi in poi essa si diffonde sempre più, ma accrescimenti nuovi, di molto rilievo, più non ne riceve; anzi si assottiglia alquanto cammin facendo, e ciò assai prima d’essere pervenuta all’età della declinazione e dell’esaurimento. La storia della figlia del preposto e della bella Meridiana, benché tale da dover necessariamente piacere alle fantasie di quei tempi, si perde, nè è possibile dire perché: rimangono al loro posto, ma non tutte salde egualmente, le altre parti, il patto col diavolo, la testa magica, il responso ingannevole, l’ultima messa, la penitenza, il miracolo del sepolcro. Talvolta, dell’antica leggenda, tramenata di qua e di là, strappata fuori da tanti libri e cacciata dentro a tanti altri, rinarrata spesso da chi non l’aveva più se non imperfettamente nella memoria, si lascia vedere solo un membro divelto, come un rottame di nave perduta che galleggi a fior d’acqua.
Ma l’opinione della veracità sua, l’opinione che fosse non favola, ma storia, per lungo tempo sempre più si rafferma. Sigeberto di Gembloux, Guglielmo di Malmesbury e alcun altro, avevano espresso un dubbio in proposito, dubbio proprio o d’altrui. Sigeberto, narrate le cose che abbiamo udite, soggiungeva: «Ciò udii da altri; se vero o falso, lascio giudicare al lettore». Guglielmo accennava al dubbio che da taluno si sarebbe potuto muovere; ma, diceva, a farlo dileguare basta la prova della morte; nè gli veniva in mente che anche la storia della morte potesse essere favola. Nel secolo successivo ogni dubbio si tace.
Chi volesse ricordare tutte le scritture in cui, per lo spazio di quattro secoli, dal XIII al XVI, ricomparisce la leggenda di Gerberto, dovrebbe recitare una litania non più finita. Io mi contenterò di ricordare le più importanti, notando certe variazioni che, per esse, si andavano introducendo nella leggenda.
La fonte principalissima, quando diretta e quando indiretta, dei nuovi, o, per dir meglio, rinnovati racconti, è Guglielmo, la cui opera fu assai nota nel continente, e usufruita e saccheggiata da molti. Da lui attinse, negli anni intorno al 1230, Alberico dalle Tre Fontane, e da lui attinse, circa quel medesimo tempo, Vincenzo Bellovacense, il cui Speculum historiale procacciò, con la grande sua diffusione, nuova celebrità alla leggenda, e divenne a sua volta una fonte a cui attinsero molti. In quello stesso secolo la leggenda è narrata, ma solamente in parte, da Filippo Mousket (il quale non visse oltre il 1244) in una sua fastidiosissima cronica rimata, e dal celebre Martino Polono, il quale morì nel 1279. Il Chronicon di Martino fu, per tutto il rimanente medio evo, il libro di storia più letto e più frequentemente citato, e accrebbe di molto, se pur era possibile, la diffusione e il credito della leggenda. In esso è per la prima volta ricordata una particolarità curiosa circa il seppellimento di Gerberto. Fattosi troncare le membra, il contrito pontefice ordinò che il suo tronco fosse posto sopra una biga, e sepolto nel luogo ove lo traessero e si fermassero gli animali aggiogati: questi lo trassero a San Giovanni Laterano, e quivi fu sepolto. Della biga molti poi ebbero a ricordarsi, facendola tirare da buoi, da bufali, da cavalli indomiti, rinnovando il tema di altre leggende, così sacre, come profane. Quando Martino scriveva, nessuno più dubitava della veracità di quei racconti, i quali erano stati accolti e condensati in apposita iscrizione, incisa sul sepolcro del pontefice mago. A tale iscrizione accenna chiaramente Martino in fine della sua narrazione. Parve duro a taluno credere che la Chiesa stessa volesse, con l’autorità che le è propria, in luogo sacro, farsi mallevadrice di tante e così ingiuriose favole; ma la iscrizione ci fu veramente; anzi ce ne furono due, di consimil carattere, l’una in San Giovanni, e l’altra in Santa Croce, vedute entrambe da Michele Montaigne, che ne fa espresso ricordo. Quella di Santa Croce era, dice Raimondo Besozzi nella storia che scrisse di tale basilica, nel lato diritto della cordonata che conduce alla cappella di San Gregorio, e ci fu conservata da Lorenzo Schrader nell’opera sua intitolata Monumenta Italiae, dove si legge del tenore seguente: Anno domini MIII tempore Otthonis III Sylvester Papa Secundus qui fuerat ante Otthonis praeceptor, non satis rite forsam Pontificatum adeptus, a spiritu praemonitus qua die Hierusalem accederet se fore moriturum, nesciens forte hoc sacellum esse Hierusalem secundum, sui Pontificatus anno quinto, statuta die rem hic divinam faciens, ipsa die moritur. Eo tamen divina gratia ante communionem, cum se jam tunc moriturum intellexisset, propter dignam poenitudinem et lacrymas ac loci sanctitatem ad statum verisimilem salutis reducto: reseratis enim post divina populo criminibus suis et oridinatione praemissa, ut in criminum ultionem exanime corpus suum ab indomitis equis per urbem quaqua versum discurrentibus traheretur, et inhumanitum dimitteretur, nisi Deus sua pietate aliud disponeret, equisque post longiorem cursum intra Lateranam aedem moratis, istich ab Otthone tumulatur, Seriusque IIII successor mausoleum deinde expolitius reddidit.
Ma qui nasce un dubbio. Sergio IV, uno dei primi successori di Gerberto (1009-1012), compose, o fece comporre, per il predecessore suo un lungo e pomposo epitafio in distici, che tuttora esiste, sebbene non esista più il sepolcro a cui appartenne. In esso molte e magnifiche lodi, e non un, minimo cenno di leggenda ingiuriosa. Non è egli dunque da credere che abbia errato Martino Polono, ricordando come incisa sul sepolcro una iscrizione ispirata dalla leggenda, e, che abbia traveduto il Montaigne, credendo di leggere in San Giovanni Laterano una iscrizione simile a quella di Santa Croce in Gerusalemme? L’epitafio di Sergio, epitafio che appunto leggevasi in San Giovanni, non escludeva, con la sua presenza, ogni iscrizione di carattere leggendario ed ingiurioso? Non parmi; e mostrerebbe di conoscere assai malamente il medio evo chi, per affermano, si fondasse, sulla contraddizione palese e violenta. A ben altre contraddizioni quella età si acconciava, senza addarsene punto, o senza torsene briga. L’affermazione di Martino, il quale (si noti) fu lunghi anni in Roma cappellano e penitenziario papale, è categorica e degna in tutto di fede, come è categorica e degna di fede l’affermazione di Michele Montaigne, ed entrambe sono avvalorate dalle parole di un devotissimo tedesco, del quale sarà fatto ricordo più oltre. Ben più strana della notata sarebbe a ogni modo l’altra contraddizione, che la leggenda si potesse veder descritta in Santa Croce, e, poco di là discosto, in San Giovanni, sulla tomba del Pontefice, non se n avesse traccia. Noi possiamo dunque tener per fermo che una iscrizione di carattere leggendario sulla tomba ci fosse: a canto ad essa il panegirico del buon papa Sergio si reggeva come poteva.
Insieme con quella della biga vengono fuori qua e là, altre particolarità curiose. Dice Martino che, in segno della ottenuta misericordia, il sepolcro di Gerberto, così per l’agitazione e il rumore delle ossa che vi son dentro, come pel trasudare dell’acqua, annunzia la imminente morte dei pontefici. Di quel tumultuar delle ossa molti parlano di poi; al qual proposito è da osservare che l’agitarsi dei morti nelle tombe, è, di solito, considerato quale un segno, non di salvazione, ma di dannazione.
L’acqua, in certi racconti, si muta in olio, e si parla di una indulgenza accordata a quanti si recano a visitare la tomba e vi recitano un Pater noster.
Nei racconti più antichi, Gerberto, pentito, si fa tagliare a pezzi, e la cosa finisce lì; racconti posteriori accolgono il fatto, ma ci mettono un po’ di frasca intorno. Filippo Mousket, nella già citata sua cronaca, insiste molto e con manifesto compiacimento, sopra quella macellazione finale. Le membra del malcapitato pontefice sono date a mangiare ai cani. I diavoli, che, sotto forma di nerissimi corvi e di orribili avvoltoi, erano accorsi in gran numero (più di 536, dice il cronista tirato dalla rima), le contendono ai cani, e se le contendono fra loro, menando un chiasso veramente indiavolato. Enenkel fa, come si è veduto, che i diavoli giuochino con quelle povere membra alla palla. Tali racconti intesi ad accrescere l’orrore e l’efficacità dell’esempio, trovano ripetitori e rimaneggiatori: due secoli dopo, Sant’Antonino sente il bisogno di mitigare alquanto le feroci immaginazioni de’ suoi predecessori, e con lodevole accorgimento vuole che il papa si faccia tagliare a pezzi dopo morto. Circa il 1260, il cosi detto Minorita Erfordiense narra, con parole di santa esecrazione, che nella cappella dove seguì l’orribil fatto, nessun papa volle più mettere il piede.
E la leggenda sempre più si diffonde, passando di secolo in secolo e di gente in gente. Sin qui non abbiamo trovato scrittori italiani che la narrassero. Romualdo Salernitano, morto nel 1181, sembra che la ignorasse affatto; ma nel secolo XIV molti Italiani la narrano, primi Riccobaldo da Ferrara e Leone d’Orvieto. Con essi la leggenda penetra nelle storie speciali dei pontefici, d’onde non uscirà più, se non molto tardi. Narrano quasi con le stesse parole, succintamente, e nulla recano di nuovo. Ad essi tengono dietro Tolomeo da Lucca, il quale cita Vincenzo Bellovacense e Martino Polono; Giovanni Colonna, il quale attinge da Guglielmo di Malmesbury; Domenico Cavalca, nei Pungilingua, il quale, dei resto, è poco più che traduzione di un libro francese, e nei Frutti della Lingua; Andrea Dandolo, che parla della statua e dell’ambiguo responso. Fuori d’Italia ripetono la leggenda Matteo di Westminster; Bernardo Guidonis, Roberto Holkot, Pietro Bersuire (o Berchorio) Amaury d’Augier, Enrico di Ervordia, Giovanni d’Outremeuse, l’autore del Chronicon Vezeliacense, ed altri parecchi. A forza di viaggiare, la leggenda era giunta; già nella prima metà di quel secolo, se non anche prima, sino in Islanda.
Nel secolo seguente, l’antica favola, non punto scemata di credito, riappare nelle già citate Istorie di Sant’Antonino, il quale altro quasi non fa se non copiare Giovanni Colonna; nelle Vite dei Pontefici del Platina; nella Fleur des histoires di Giovanni Mansel; nelle Rapsodiae historiarum di Marc’Antonio Sabellico; nelle Novissimae historiarum omnium repercussiones di Jacopo Filippo da Bergamo; negli Annales silesiaci compilati, ecc.; e nel secolo XVI la riferiscono, Giovanni Wier nel libro suo De praestigiis daemonum; Hans Sachs in una delle innumerevoli sue poesie: Giovanni Guglielmo Kirchhof nel Wendunmuth; i così detti Centuriatori di Magdeburgo nella loro Historia ecclesiastica, e parecchi altri scrittori della Riforma, ai quali stava molto a cuore di narrar le gesta di un papa che s’era venduto al diavolo. Nel 1599 Giorgio Rodolfo Widmann introduceva la novella di Santa Croce di Gerusalemme nella sua Storia di Fausto.
Ben s’intende come alla longeva e vagabonda leggenda dovesse far codazzo un popolo di errori, che la leggenda, veramente, non chiedeva, alcuni dei quali, anzi, essa volentieri avrebbe respinti, ma che in sua compagnia non facevano poi troppo brutta figura. Ne additerò alcuni.
Gualtiero Map, forse più di proposito che per errore, fa nascere Gerberto di nobile prosapia; ma molto prima di lui, in un Catalogo di pontefici, attribuito, non so con quanta ragione, a Mariano Scoto, il quale visse fino ai 1086, Gerberto era stato fatto a dirittura figliuolo dell’imperatore Ottone (di quale?). In alcuni, come nell’autore della cronaca che andava sotto il nome di Guglielmo Godell, nasce un dubbio, se, cioè, Gerberto e Silvestro II sieno una sola e stessa persona, e in certi Annales remenses et colonienses si dice risolutamente che Silvestro II fece deporre Gerberto, il quale aveva usurpato il luogo di Arnulfo, arcivescovo di Reims, e sospendere i vescovi che avevano consentita la sua consacrazione. Altri, a cominciare da Guglielmo di Malmesbury, confondono Silvestro II con Giovanni XVI, l’antipapa che da Crescenzio fu opposto a Gregorio V, e a questo Gregorio Ugo di Flavigny fa precedere Silvestro, che invece fu suo successore. Il nome stesso di Gerberto si altera in vari modi: Guiberto, Gilberto, Giriberto, Goberto, Uberto, e talvolta, come or ora vedremo, si mura in nomi di tutt’altro suono. Gli anni della esaltazione e della morte oscillano molto, e per solo citare due esempii estremi, mentre, nel secolo XI, l’autore di una parte di certi Annales Formoselenses pone l’esaltazione all’anno 895, con errore di più che cent’anni, Giovanni d’Outremeuse, nel secolo XIV, fa che Gerberto riceva dal diavolo il fallace responso il 7 di giugno del 1022. Gli anni del papato variano da meno di uno a sette. Qui pure sono da ricordare certe affermazioni di storici, le quali contraddicono, o poco, o molto, alla leggenda diabolica. Più cronisti asseverano, quando giù la leggenda è larghissimamente diffusa, che fu il popolo romano tutto intero quello che acclamò pontefice Gerberto; e più altri ricordano una santa visione che Gerberto ebbe concernente il conferimento della corona d’Ungheria.
Ci riman da vedere come la leggenda traviasse, e come da ultimo si perdesse, simile a un fiume, che, dopo lungo corso, dilegui, bevuto dalle sabbie del deserto e dal sole.
Un poemetto inglese dei secolo XIII narra la meravigliosa istoria di Silvestro II, ma riferendola a un papa Celestino, il quale, evidentemente, non può aver nulla di comune con Celestino II. Esso ricorda in principio, per le cose che narra, il poemetto latino che ho già citato, ma poi se ne scosta molto nel séguito. Celestino, perduto assai tempo nelle scuole senza apprendere nulla, si dà al diavolo, e il diavolo l’ammaestra, e nel corso di pochi anni lo fa arcidiacono, poi arcivescovo, poi cardinale, poi papa. Divenuto papa, Celestino predica, per dodici mesi consecutivi, contro la fede, poi un bel giorno gli viene in mente che ha pur da morire, e vuol sapere quando morrà. Il diavolo, appositamente evocato, lo inganna con quell’ambiguo responso della messa da celebrare in Gerusalemme. Venuto il dì fatale, e scoperta la frode, il papa si pente, e invoca l’ajuto di Gesù. Vengono mille diavoli, urlando, strepitando, schizzando fuoco, e fanno ressa alla porta della cappella, gridano a gran voci: Il papa è nostro; il papa è nostro! Il povero papa si confessa davanti al popolo adunato, disputa e contrasta con i sette peccati capitali, che sono poi altrettanti diavoli, e non cessa di raccomandarsi a Cristo redentore e alla Vergine Maria. I diavoli traggono innanzi un orribile cavallo alato, per portare il papa in Inferno, e menano intorno alla cappella una scorribanda furiosa. Celestino fa testamento, e lascia agli avversari le vesti, e le membra, che si fa troncar dal carnefice. Quando costui s’appresta a tagliare il capo, ecco scende di cielo la Vergine, con una schiera di angeli e consola il pentito, e gli promette l’eterna salute. Il carnefice compie allora il suo officio, e getta il corpo del papa al diavolo Avarizia, che subito lo acciuffa e lo divora. Le altre membra sono trasportate nella basilica di San Pietro, e lo stesso principe degli apostoli scende con cento angioli dal cielo, per assistere alla sepoltura del suo successore, e per dire che il trono di lui è in Paradiso, accanto al suo proprio.
Nel racconto molto più tardo di un buon tedesco, cittadino cospicuo di Norimberga, Niccolò Muffel, che nell’anno 1452 venne in Roma per l’incoronazione dell’imperatore Federico III, e ivi comperò, a buon mercato (così egli dice), una notabile indulgenza, Celestino si tramuta in Istefano. E perché non rimanga alcun dubbio, Niccolò narra la storia due volte. Quando il papa Stefano vide venir i diavoli in figura di corvi e di cornacchie innumerevoli, subito si confessò, e si fece tagliare a pezzi, e gli uccelli diabolici ne portarono via i lacerti e le viscere, meno il cuore che fu sepolto in San Giovanni Laterano. Niccolò avverte espressamente che il ricordo di questi fatti si leggeva nella chiesa di San Giovanni.
Finalmente, ai tempi di Francesco I re di Francia, la vecchia leggenda riappare in una novella di Niccolò di Troyes; ma, come una moneta, che a forza di correre per le mani degli uomini abbia perduto l’impronta del conio, essa ha perduto l’effigie di Gerberto e non poco di ciò che v’era scritto intorno: pur nondimeno gli è facile riconoscerla. Un cardinale di Roma desiderava ardentemente di diventar papa. Gli viene innanzi il diavolo, e gli promette dieci anni di papato, e di non porgli le mani addosso se non in sancta civitas (sic). Trascorso il termine, il papa va a celebrar messa in una chiesa di Roma, e come appena v’è entrato, ecco più di diecimila corvi calar d’ogni banda e posarsi sul tetto. La chiesa è detta appunto in sancta civitas. Il papa non si perde di animo: celebra la messa con gran devozione, chiede a Dio perdono de’ suoi peccati, e ottenutolo, vive ancora molt’anni senza paura e senza pericolo.
La leggenda, sfinita, si perde.

VI

A mezzo il secolo XV, in pien concilio di Basilea, Tommaso de Corsellis, uomo, dice Enea Silvio Piccolomini, storico del concilio stesso, di mirabile dottrina, amabilità e modestia, usciva, dinanzi ai padri assembrati, in queste parole: «Voi non ignorate che Marcellino, per comando dell’imperatore, incensò gl’idoli, e che un altro pontefice, cosa ben più grave ed orribile, salì al pontificato con l’aiuto del diavolo». Egli non nominava Silvestro II, e non aveva bisogno di nominarlo: tutti a quel cenno intendevano di chi si parlava.
Ma i tempi erano già molto mutati, e sempre più si venivano mutando. Era nata la critica, e innanzi a lei, sotto il suo sguardo scrutatore, le grandi e immaginose leggende venute su di mezzo alle caligini del medio evo, cominciavano a vacillare, a diradarsi, a smarrirsi, e non molto dopo dovevano dileguarsi affatto, come nubi leggiere in un cielo caldo d’estate. Il secolo XVI vide sorgere i primi difensori di Gerberto, i primi restauratori della sua fama, da tanti secoli offesa. Un domenicano spagnuolo, Alfonso Chacon (Ciaconio), morto in Roma verso il 1600, inseriva nelle sue Vitae et gesta romanorum pontificum et cardinalium un epigramma latino, in cui la imputazione di magia fatta a Gerberto era ascritta alla inerzia ed ignoranza dei volgo. Due cardinali celebri, il Baronio e il Bellarmino, sgravarono l’antico pontefice di un’accusa che a molti oramai sembrava assurda, e lo stesso fece il dotto medico francese Gabriele Naudé nella sua Apologie pour tous les grands personnages qui ont été faussement soupçonnez de magie, stampata la prima volta nel 1625. Finalmente un domenicano polacco Abramo Bzovio, nato nel 1567, morto nel 1637, compose in onor di Gerberto, e in trentotto capitoli, un vero panegirico, che vide la luce in Roma nel 1629, e diede alla tenebrosa leggenda il colpo di grazia. Peccato che alle favole antiche egli, di suo capo, sostituisse una favola nuova, facendo di Gerberto un discendente della gente Cesia, di Temeno re d’Argo e di Ercole. Gli stessi protestanti rinunziarono a usare della leggenda come di un’arma contro la Chiesa di Roma, e alcuni di essi risolutamente la confutarono.
Del resto, una smentita, per dir così materiale, non si fece aspettar troppo a lungo. L’anno 1648, rifacendosi per ordine d’Innocenzo X la fondamenta alla basilica di San Giovanni, fu aperta l’arca marmorea di Silvestro II, e il pontefice scelerato, che s’era fatto tagliare a pezzi, e le cui membra erano state involate e divorate da corvi, da cani e da diavoli, apparve, dice il canonico Cesare Rasponi, intero ed illeso, vestito degli abiti pontificali, con le braccia in croce, e la tiara in capo; ma appena sentì l’aria si sciolse in polvere.
Così finiva, dopo quasi sei secoli di vita, una delle più curiose e celebri leggende del medio evo, meravigliosa per le finzioni di cui è tessuta, notabile pel senso che racchiude. Nessuno la stimi una immaginazione scioperata, fatta solo di sogno e di nebbia. Storia essa non è, ma della storia è come un corollario e un commento. Anzi, in certo senso, ai pari d’altre leggende senza numero, è storia più generale e più recondita, perché se non narra singoli fatti veri, esprime ragioni e cognizioni di fatti, desiderii e terrori di popoli, spirito grandezza e miseria di secoli.

 

 

 

 

 

 

 

 

DEMONOLOGIA DI DANTE

Una dottrina demonologica ordinata e compiuta negli scritti di Dante non si trova, e nemmeno poteva esserci; ma da molti luoghi della Commedia, e più particolarmente dell’«Inferno», nei quali o sono introdotti demonii, o si parla di demonii, e da alcuni altri sparsi qua e là per le rimanenti opere, confrontati fra loro e aggruppati opportunamente, si ricava un certo numero di credenze e di opinioni che giova esaminare congiuntamente e conoscere. E come appena siensi esaminate alquanto, una cosa anzi tutto si rileva, ed è che la demonologia del poeta, in parte è dottrinale e dommatica, si rannoda cioè alla speculazione e alla disquisizione teologica, in parte è popolare, conforme cioè a certe immaginazioni comuni ai credenti del tempo; senza che manchino per altro qua e là, dentro di essa, vestigia di un pensar proprio e personale. Per ciò che riguarda la parte dottrinale, il poeta l’ha senza dubbio attinta dalla teologia scolastica, di cui egli si mostra, come tutti sanno, assai ampio conoscitore, e più particolare delle opere di S. Bonaventura, di Alberto Magno, di S. Tommaso d’Aquino, il suo dottor prediletto. Non è improbabile tuttavia che egli abbia udito in una od altra Università d’Italia, forse anche di fuori, lezioni e dispute sopra un argomento di tanta importanza quale si era nel medio evo la dottrina dei demonii, intimamente congiunta con quella degli eterni castighi, e intorno a cui s’erano sino dai primi tempi della Chiesa esercitati gl’ingegni più acuti e più alacri. Se non che sono così scarse ed incerte le notizie tramandateci degli studii e delle peregrinazioni di Dante, che nulla si può affermare in proposito. Se fosse vero quanto afferma Giovanni Villani, e infiniti ripeterono dopo lui, che Dante, sbandito di Firenze, se ne andò allo studio di Bologna; quivi avrebbe potuto il poeta apprendere di molte cose circa l’essere e le operazioni di Satana e degli angeli suoi. Una ragione per crederlo si ha in quelle parole che egli pone in bocca a frate Catalano de’ Malavolti:

Io udi’ già dire a Bologna
Del diavol vizii assai, tra i quali udi’
Ch’egli è bugiardo, e padre di menzogna[1].

Ma comunque se la procacciasse, il poeta del mondo invisibile non poteva non avere una dottrina demonologica: senza curarci d’altro, vediamo qual sia.

I

Gli è noto che il mito della ribellione e della caduta degli angeli si fonda sopra alcuni luoghi del Nuovo Testamento, i quali non sono di troppo sicura significazione. Un mito parallelo, e che ha radice nel Testamento Antico, narra di angeli, che avendo avuto commercio con le figlie degli uomini furono cacciati dal cielo. Entrambi i miti trovarono credito fra i Padri dei primi secoli; ma poi il primo soperchiò e fece in qualche modo dimenticare il secondo. Dante osserva su questo punto la comune credenza del tempo suo. Nel Convivio egli chiama in generale i demonii intelligenzie che sono in esilio della superna patria[2], e piovuti dal cielo li dice nel c. VIII dell’Inferno; di Lucifero,

Che fu la somma d’ogni creatura,

dice nel XIX del Paradiso, che

Per non aspettar lume cadde acerbo;

ma nel VII della prima cantica allude alla parte più drammatica del mitico racconto, alla cacciata dei ribelli, vinti dall’arcangelo Michele, che

Fe’ la vendetta del superbo strupo;

e cacciati dal ciel, gente dispetta, li chiama nel IX[3]. Essi corsero in colpa immediatamente dopo la loro creazione:

Né giungeriesi, numerando, al venti
Sì tosto, come degli angeli parte
Turbò il suggetto dei vostri elementi[4]

e ciò avvenne fuori della intenzione divina, benché non fuori della divina prescienza.[5] Cagione della colpa fu la superbia; e invidia e superbia sono, secondo S. Tommaso, i due soli peccati, che possano propriamente capire nella diabolica natura.

Principio del cader fu il maledetto
Superbir di colui che tu vedesti
Da tutti i pesi del mondo costretto,

dice Beatrice al poeta; di colui che fu primo superbo, e

Contra il suo Fattore alzò le ciglia[6].

Di tutti gli ordini degli angeli si perderono alquanti tosto che furono creati, forse in numero della decima parte; alla quale restaurare fu l’umana natura poi creata. I cacciati dal cielo furono precipitati sopra la terra: Lucifero cadde folgoreggiando, dalla parte dell’emisfero australe,

E la terra, che pria di qua si sporse,
Per paura di lui fe’ del mar velo,
E venne all’emisperio nostro; e forse
Per fuggir lui lasciò qui il loco voto
Quella che appar di qua e su ricorse...

Questa mirabile immaginazione è, per quanto io so, tutta propria di Dante, e dà luogo ad alcune difficoltà sulle quali io non intendo di trattenermi. Ma non tutti gli angeli tristi peccarono egualmente: alcuni di essi si serbarono neutrali;

non furono ribelli,
Né fûr fedeli a Dio, ma per sé foro.

Cacciati dal cielo, e rifiutati dal profondo Inferno, essi scontano la loro pena nel vestibolo, insieme con

l’anime triste di coloro
Che visser senza infamia e senza lodo[7].

Dicono i commentatori, ultimo lo Scartazzini, tal classe di angeli neutrali non trovarsi nella Bibbia, ed esser forse invenzione di Dante. Che nella Bibbia non si trovi è verissimo; ma non così che Dante ne sia l’inventore. Nella leggenda del Viaggio di S. Brandano, la cui redazione latina risale, per lo meno, all’XI secolo, si legge che, nel corso della sua avventurosa navigazione, il santo, co’ suoi compagni, giunse ad un’isola, dove trovò un albero meraviglioso, popolato di uccelli candidissimi, i quali erano appunto angeli caduti, ma non però malvagi. Essi non soffron castigo, ma sono fuori dell’eterna beatitudine. Certo, la finzione della ingenua leggenda si scosta per più ragioni da quella del poeta, ma ha con essa un concetto comune, il concetto di una schiera di angeli che, travolti nella ruina, perdettero il cielo, senza diventar propriamente ospiti dell’Inferno. La leggenda di S. Brandano fu una delle più diffuse nel medio evo, e passò dalle redazioni latine, di cui rimangono ancora innumerevoli manoscritti, nelle volgari, dove ebbe spesso a soffrire alterazioni di più maniere. Si può tenere per certo che Dante la conobbe. Del resto quella finzione non ricorre soltanto nella leggenda di San Brandano. Ugone di Alvernia, eroe di uno strano romanzo, del quale, perdutasi la redazione francese originale, non rimangono se non rifacimenti franco-italiani e italiani, viaggiando alla volta dell’Inferno, trova, in prossimità del Paradiso terrestre, e in forma di uccelli neri, demonii d’intermedia natura, i quali han riposo la domenica. Ora, sebbene nella descrizione dell’Inferno, quale si ha nei rifacimenti nostri, sieno evidenti gl’influssi danteschi, molto nulladimeno è in essa che va esente da tali influssi e che certamente appartiene a immaginazioni e tradizioni predantesche, accolte nel poema primitivo. E al poema primitivo tengo per fermo che spetti quanto si dice di quei demonii intermedii, la cui condizione è non poco disforme dalla condizione che Dante attribuisce agli angeli del cattivo coro. Assai probabilmente la intera finzione passò nell’ Ugone d’Alvernia dalla leggenda di San Brandano. Né questo basta. Una finzione consimile si trova in un altro poema, di un buon secolo anteriore alla Divina Commedia. Wolfram von Eschenbach (m. c. il 1220) fa dire a Trevrizent, nel suo Parzival, che i primi custodi del Santo Gral furono gli angeli che nella battaglia fra Lucifero e Dio si mantenner neutrali.

II
I demonii che Dante pone nel suo Inferno si possono, avuto riguardo ai luoghi di loro provenienza, dividere in due classi, demonii biblici e demonii mitologici, secondoché sono tolti alla tradizione scritturale e patristica, o al mito pagano. Così è che insieme con Satana, o Beelzebub, o Lucifero, troviamo nel doloroso regno Caronte, Minosse, Cerbero, Plutone, Flegias, le Furie, Medusa, Proserpina[8], il Minotauro, i Centauri, le Arpie, Gerione, Caco, i Giganti. E non solo il poeta ricorda molti più demonii mitologici che non biblici; ma assegna inoltre a quelli, fatta eccezione pel solo Lucifero, officii assai più importanti che a questi: infatti, mentre agli altri demonii è solo commesso di tormentare alcune classi di dannati, il che è pure commesso ai Centauri e alle Arpie, Caronte traghetta le anime, Minosse le giudica, Cerbero e Plutone stanno a guardia, l’uno del terzo, l’altro del quarto cerchio, e via discorrendo. Ma qui c’è argomento a parecchie osservazioni.
Più volte fu Dante ripreso per aver mescolato insieme cose appartenenti al mito pagano e cose appartenenti alla credenza cristiana; e chi lo riprese in nome di questa credenza medesima, contaminata, in qualche modo, per tale immistione; chi in nome di certe convenienze estetiche, quanto evidenti e necessarie a chi le propugna, tanto ignote ai tempi di Dante e un gran tratto prima e dopo di lui. Considerare poi quella mescolanza come l’effetto anticipato di certe tendenze e di certe usanze dell’umanesimo, se non è erroneo in tutto, è erroneo in gran parte, e bisogna a questo proposito distinguere una doppia tradizione, letteraria e popolare.
Echi e riflessi del mito pagano si trovano in molte descrizioni dell’Inferno cristiano, a cominciare dai primi secoli della Chiesa e a venir giù giù sino ai tempi che immediatamente precedono Dante. Il Tartaro, l’Averno, il Flegetonte e gli altri fiumi infernali, la palude Stigia, Caronte. Cerbero, ricorrono frequentissimi. L’Inferno descritto nel Roman de la Rose ha tra’ suoi abitatori Issione, Tantalo, Sisifo, le Danaidi, Tizio; e Alano de Insulis pone a dominare nelle tartaree sedi le Furie.
Qui noi ci troviamo di fronte a una tradizione letteraria; ma questa non è sola, ché insieme con essa va anche una tradizione popolare.
È noto che la Chiesa cristiana non giunse a far ciò, che a un certo punto della loro storia religiosa (ma a un certo punto solamente) fecero gli Ebrei: negare cioè in modo reciso e assoluto l’esistenza degli dei delle genti. La Chiesa cristiana, qual che ne fosse la ragione, che a noi ora non tocca indagare, non nego l’esistenza delle deità pagane, ma la divinità, e con lo stesso giudizio le convertì in demonii. Non è cosa su cui gli apologeti e i Padri della Chiesa primitiva insistano con più vigore; né il fatto è tale da doverne stupire se si pensa che in molte altre regioni avvenne per appunto il medesimo. Così si trasformarono in diavoli, non solamente gli dei maggiori e minori, ma ancora i semidei, e degli dei quelli più facilmente, come ben s’intende, cui già i pagani attribuivano qualità paurose e maligne: inoltre le Lamie, le Empuse, le Arpie, le Chimere, i Gerioni, non furono spenti, ma diventarono ospiti dell’Inferno, sudditi e ajutatori di Satanasso.
Si potrebbe tessere di questa trasformazione un’assai lunga e curiosa istoria. I nomi delle antiche divinità, o almeno di alcune di esse, continuarono a vivere nella memoria dei popoli bene o male convertiti, e intorno a quei nomi nacquero superstizioni, leggende e fantasie. Sant’Antonio incontrava nel deserto un centauro, e San Gerolamo non sa risolvere se fosse apparizione diabolica, o mostro naturale. Incontrava anche un satiro che parlava e lodava Dio, ma per eccezione certamente, giacché quella del satiro fu una delle forme che più spesso si diedero al diavolo. Ai tempi di Gervasio da Tilbury (XII e XIII sec.) si parlava ancora di fauni, di satiri, di silvani, di Pani, e molti affermavano averli veduti; i fauni s’invocavano ancora nella diocesi di Lione ai tempi di Stefano di Borbone (m. verso il 1262).
Mercurio diventa un diavolo nella leggenda di Giuliano l’Apostata; Venere un diavolo in parecchie leggende, di cui la più famosa è quella del cavaliere Tannhäuser[9]; un diavolo, com’è del resto assai naturale, Vulcano. Sigeberto Gemblacense ricorda che certe bocche vulcaniche in Sicilia, le quali si credevano essere spiracoli dell’Inferno, si chiamavano da quegli abitanti col nome di Ollae Vulcani. C’erano diavoli acquatici che si chiamavano Nettuni, pericolosi a chi si trovava in prossimità di acque profonde, e infesti, pare, alle donne; c’erano le sirene che, come in antico, traevano a perdizione col canto gl’incauti navigatori[10]. Demonio di molta importanza diventò Diana, certamente in grazia della identificazione sua con Ecate e con Proserpina. Di Diana demonio si discorre nella leggenda di S. Niccolò, mentre altre leggende la designano più propriamente come il demonio meridiano[11]. In una Vita di S. Cesario, vescovo di Arles (m. 542), si fa menzione di un demonio chiamato Dianum dai campagnuoli. Un canone, indebitamente attribuito al sinodo di Ancira dell’anno 314, ma riportato da Reginone, abate di Prüm (m. 915), da Burcardo di Worms (m. 1024), da Graziano (m. 1204?), fa menzione di donne le quali s’immaginavano di andare in giro la notte, a cavallo di varii animali, in compagnia di Diana e di Erodiade; e a questa stessa superstiziosa credenza alludono, un Capitolare di Lodovico II imperatore, dell’anno 867, il già citato Stefano di Borbone, Giovanni Herolt (m. 1418), e altri. Anzi è da notare che il nome di Diana e la credenza accennata non sono per anche in tutto dileguati dalla memoria di alcuni popoli cristiani. Sant’Eligio, morto poco oltre il mezzo del settimo secolo, dice in un sermone famoso, combattendo certi avanzi di credenze pagane: Nullus nomina daemonum, aut Neptunum, aut Orcum, aut Dianam invocare praesumat. Il pessimo pontefice Giovanni XII fu, nel sinodo romano del 963, accusato d’aver bevuto alla salute del diavolo, diaboli in amorem , e di avere, giocando a dadi, invocato l’ajuto di Giove, di Venere, ceterorumque demonum.
Se, dunque, le antiche divinità s’erano tramutate in demonii, era non pure lecito, ma necessario, porle con gli altri demonii in Inferno. Gli autori delle Chansons de geste ricordano spesso quali diavoli Giove ed Apollo, talvolta i Nettuni rammentati di sopra e Cerbero. Cerbero apparisce inoltre come cane infernale in alcun documento di poesia medievale tedesca, e in molti di poesia latina. Nella Visione di Tundalo, Vulcano e i suoi ministri arroventano nel fuoco le anime, le martellano sulle incudini; nella Kaiserchronik si racconta che l’anima di Teodorico fu portata dai demonii nel monte, a Vulcano, in den berc ze Vulkân . Dante anche in ciò non fece se non seguire la tradizione e il costume, salvo che egli si contentò di porre nell’Inferno cristiano divinità pagane infernali, e lasciò in pace Giove, Apollo e gli altri: anzi il nome di sommo Giove diede a Cristo. Forse non gli bastò l’animo di abbassare alla condizione di diavoli malvagi e deformi le divinità luminose di cui la fantasia di lui doveva pure essersi innamorata leggendo Virgilio e gli altri poeti latini.
Ma i diavoli mitologici dell’Inferno dantesco porgono argomento a più altre considerazioni.
Dante ricorda parecchi giganti tolti al mito pagano (Efialte, Briareo, Anteo, Tizio, Tifeo) e uno tolto al mito biblico (Nembrot): sono essi demonii nel concetto del poeta? Credo che sieno a quel modo che i Centauri, ed anche perché, quelli del mito pagano almeno, sono, non uomini, ma dei. Quanto a Nembrot si può osservare che, sonando il corno, e poi con le inintelligibili e orrende parole, egli sembra, o volere spaventare i poeti che si avvicinano, o avvertire Lucifero di loro venuta, e così fa presso a poco ciò che già prima avevano fatto Caronte, Minosse, Cerbero, Plutone. Perciò non si può dire che i giganti sieno in luogo a loro non conveniente, laggiù nel pozzo dell’ottavo cerchio. Demonii appunto erano, secondo un’antica opinione, i giganti nati dal commercio degli angeli e delle figlie degli uomini; giganti nerissimi trova Carlo il Grosso nell’Inferno da lui veduto, intesi ad accendere ogni maniera di fuochi; nelle Chansons de geste, i giganti sono spesso considerati come diavoli venuti fuor dall’Inferno, o come figli di diavoli, e Tundalo vede due enormi giganti tenere aperta la voraginosa bocca del mostro Acheronte, la quale capere poterat novena milia hominum armatorum.
Minosse e Flegias sono due semidei, figlio di Giove l’uno, di Ares o Marte l’altro. A prima giunta sembra che se ciò che in essi era di divino doveva rendere possibile provocare la trasformazione in demonii, ciò che era di umano doveva impedirla, se non per Minosse, il quale aveva già trovato posto, come giudice, nell’Inferno pagano, almeno per Flegias. Ma, in verità, questo impedimento non c’era. Nei demonii Giuseppe Flavio riconosceva le anime degli uomini malvagi (αντρωπων πονηρων πνεύματα): nelle Chansons de geste appajono spesso come demonii Nerone, Maometto, Pilato; e come demonio appare Maometto nel poema di Giacomino da Verona, De Babilonia civitate infernali. Dante stesso riconosce una grande affinità fra lo spirito dell’uomo malvagio e il demonio, quando col nome di demonio appunto chiama l’anima dannata, e Demonio dice Maghinardo Pagani. Come Dante di Minosse, Wolfram von Eschenbach fa un diavolo di Radamanto.

III

Dante dà un corpo ai demonii, seguendo in ciò la opinione di molti Padri e Dottori della Chiesa e la vulgata credenza; ma di che natura è desso? Sia che il poeta non avesse in proposito concetti ben definiti, sia che la materia del suo poema e certe convenienze di trattazione non gli permettessero di sempre osservarli, fatto sta che in quanto egli dice o accenna a tale riguardo si nota incertezza e contraddizione. Le opinioni stesse dei Padri non sono troppo concordi. Fra quella di Gregorio Magno, che voleva i diavoli al tutto incorporei e quella di Taziano, che volentieri esagerava la materialità loro, alcuna ve n’è più temperata; ma si ammetteva quasi generalmente che i demonii avessero un corpo formato d’aria o di fuoco; anzi un corpo si attribuiva anche agli angeli, e si diceva che, dopo la caduta, quello dei demonii era divenuto più grossolano e più spesso. Dante ha gli angeli in conto di forme pure, di sustanze separate da materia, e nulla dice del modo onde i demoni acquistarono un corpo; ma forse ci può dar qualche lume in proposito, quanto egli dice del modo che tengon le anime uscite di questa vita nel formarsene uno d’aria condensata. E badisi che qui si discorre del corpo che i demonii hanno in proprio, e non di quello onde possono rivestirsi accidentalmente, per loro particolari propositi.
Ho accennato a incertezze e contraddizioni di Dante in sì fatto argomento. Il corpo di cui è provveduto il demonio Flegias è certo un corpo sottilissimo, non più pesante dell’aria entro a cui si muove, e in tutto simile all’ombra di Virgilio, giacché la barca con cui egli fa passare ai due poeti la palude degli iracondi sembra carca solo quando Dante vi entra. Il corpo di Lucifero per contro dev’essere assai più denso e grave, non solo per quel suo essersi sprofondato sino al punto

Al qual si traggon d’ogni parte i pesi;

e perché la ghiaccia lo stringe tutto intorno e ritiene, come solo può fare solido con solido; ma ancora perché i due poeti, e specialmente Dante, che è d’ossa e di polpe, possono scendere e arrampicarsi sopra di esso non altrimenti che se fosse una rupe. Può darsi che Dante abbia con pensato proposito dato un corpo più grossolano e più denso al più malvagio degli angeli ribelli, a colui che è

Da tutti i pesi del mondo costretto;

ma vuolsi notare che qualche incertezza egli lascia scorgere anche riguardo ai nuovi corpi rivestiti dalle anime dannate o purganti. Nell’Antipurgatorio il poeta vuole abbracciare Casella e non può:

O ombre vane, fuor che nell’aspetto!
Tre volte dietro a lei le mani avvinsi,
E tante mi tornai con esse al petto;

e pure trova poco più oltre le anime dei superbi che si accasciano sotto i ponderosi massi. Nel terzo cerchio dell’Inferno i poeti passano su per l’ombre che adona la greve pioggia, e pongono le piante

Sopra lor vanità che par persona;

ma nel nono Dante forte percote il pié nel viso ad una delle anime triste dell’Antenora. Virgilio non isparge ombra in terra; ma e in grado di sollevare e portar Dante.
Quanto alla forma e all’aspetto de’ demonii Dante non dice gran che, fatta eccezion di Lucifero. Caronte è da lui dipinto quale già il dipinse Virgilio. Minosse ha più del bestiale e del diabolico: sta orribilmente, ringhia, agita una lunga coda, con cui può cingersi ben nove volte il corpo, quanti sono i cerchi dell’Inferno. Plutone, che Virgilio chiama maledetto lupo, mostra altrui un volto gonfio d’ira enfiata labbia, una sembianza di fiera crudele, ha la voce chioccia. Gerione, mutato l’aspetto che già ebbe nel mito, ha faccia d’uom giusto, il resto di serpe, due branche pelose, coda aguzza, il dorso, il petto, le coste simbolicamente dipinti di nodi e di rotelle. Cerbero, le Furie, il Minotauro, i Centauri, le Arpie, serbano invariate le forme tradizionali; e così dicasi dei Giganti, dei quali non si descrive se non la smisurata statura[12].
Ma non mancano nell’Inferno dantesco diavoli in cui più propriamente si scorge l’aspetto che ai nemici dell’uman genere attribuì la turbata fantasia dei credenti, specie nel medio evo. Questi diavoli sono neri angeli neri, neri cherubini, quali già s’immaginavano nel IV secolo[13] , e con forma umana, la forma che in quel medesimo tempo si attribuì loro. I demoni che sferzano i mezzani nella prima bolgia dell’ottavo cerchio, sono cornuti; Ciriatto è sannuto; Cagnazzo mostra, non un volto, ma un muso; ed essi e i compagni loro sono armati di artigli. Il demonio che butta giù nella pegola spessa dei barattieri uno degli anziani di Santa Zita è dipinto quale infinite opere d’arte del medio evo appunto cel mostrano:

Ahi, quanto egli era nell’aspetto fiero!
E quanto mi parea nell’atto acerbo,
Con l’ale aperte e sovra i piè leggiero!
L’omero suo, ch’era acuto e superbo,
Cercava un peccator con ambo l’anche,
E quei tenea de’ piè ghermito il nerbo[14].

Se non che bisogna dire che Dante, trattenuto forse da un delicato sentimento d’arte, non diede a nessuno dei demonii suoi, nemmeno a Lucifero, la deformità abbominevole che spesso hanno i demonii descritti nelle leggende, o ritratti da pittori e scultori nel medio evo.
Lucifero, il principe dei demonii,

La creatura ch’ebbe il bel sembiante,

è da Dante rappresentato di smisurata grandezza, brutto quanto già fu bello, e forse più, con tre facce alla sua testa, l’una vermiglia, tra bianca e gialla l’altra, nera la terza, sei enormi ali di pipistrello, corpo peloso. Quelle tre facce diedero assai da pensare ai commentatori, parecchi dei quali attribuirono loro significati, cui non sarebbero certo andati a rintracciare, se invece di stimarle una immaginazione propria di Dante, avessero saputo che assai prima di Dante si trovano. I commentatori più antichi, i quali dovevano saperlo, ne diedero, in generale, interpretazione assai più giusta che non i moderni, e non si smarrirono dietro a sogni, come il Lombardi, che nelle tre facce vide simboleggiate le tre parti del mondo onde Satana ha tributo di anime, e come il Rossetti che vi riconobbe Roma, Firenze, la Francia.
Questo Lucifero con tre facce non balza fuori per la prima volta dall’accesa fantasia di Dante; già innanzi la coscienza religiosa l’aveva immaginato e scorto, già le arti l’avevano raffigurato. Esso è come l’antitesi della Trinità, o come il suo rovescio. La Trinità fu qualche volta nel medio evo rappresentata sotto specie di un uomo con tre volti; e poiché il concetto della Trinità divina suggerisce il concetto di una Trinità diabolica, e poiché inoltre nello spirito del male si supponeva essere tre facoltà o attributi opposti e contraddicenti a quelli che si spartiscono fra le tre persone divine, così era naturale che si ricorresse per rappresentare il principe de’ demonii a una figurazione atta a far riscontro a quella con che si rappresentava il Dio uno e trino. Lucifero appare con tre facce in iscolture, in pitture su vetro, in miniature di manoscritti, quando cinto il capo di corona, quando sormontato di corna, tenente fra le mani talvolta uno scettro, talvolta una spada, o anche due. Quanto tal figurazione sia antica è difficile dire. Un manoscritto anglo-sassone del Museo Britannico, appartenente alla prima metà del secolo XI, reca una immagine di Satana, nella quale si vede, dietro l’orecchio sinistro (la figura e di profilo), spuntare di traverso una seconda faccia. Più tardi il corpo di demonii ebbe spesso a coprirsi di facce, significative di malvagi istinti. Senza dubbio Dante volle con le tre che dà al suo Lucifero, conformemente a una usanza già antica, rappresentare gli attributi diabolici opposti ai divini; e poiché, per lo stesso Dante, come per S. Tommaso, il Padre è potestà, il Figliuolo è sapienza, lo Spirito Santo è amore[15], le tre facce non possono simboleggiare se non impotenza, ignoranza, odio, come rettamente giudicarono alcuni dei commentatori più antichi.
Non solo Dante non immaginò, egli primo, il Lucifero con tre facce; ma nemmen primo immaginò di porre in ciascuna delle tre bocche immani un peccatore non degno di minor pena. Nella chiesa di Sant’Angelo in Formis, presso Capua, una grande pittura, stimata opera del secolo XI, rappresenta Lucifero in atto di maciullar Giuda. Nella chiesa di S. Basilio, in Étampes, una scultura del XII rappresenta appunto Lucifero che maciulla tre peccatori, e rappresentazioni sì fatte erano, sembra, frequenti in Francia. Il Boccaccio ricorda il Lucifero da San Gallo, e il Sansovino dice che nella chiesa di San Gallo, in Firenze, era dipinto un diavolo con più bocche.
Dante parla del terror che lo colse alla vista di Lucifero:

Com’io divenni allor gelato e fioco,
Nol dimandar, lettor, ch’io non lo scrivo,
Però ch’ogni parlar sarebbe poco.
Io non morii e non rimasi vivo.
Pensa oramai per te, s’hai fior d’ingegno,
Qual io divenni d’uno e d’altro privo[16].

Non è forse da tacere, a tale proposito, che la vista del diavolo si credeva potesse essere perniciosa e letale. Cesario di Heisterbach narra di due giovani che languirono gran tempo per aver veduto il diavolo in forma di donna; Tommaso Cantipratense dice che la vista del diavolo fa ammutolire.
Dante non dice nulla delle forme varie che i demonii possono assumere a lor piacimento. Egli fa ricordo di cagne bramose e correnti che lacerano i violenti contro a se stessi; di serpenti che tormentano i ladri; di un drago, che stando sulle spalle di Caco, affoca qualunque s’intoppa[17], ma non dice che sieno demonii, e noi non possiamo indovinare con sicurezza il pensier suo a tale riguardo. Animali diabolici s’incontrano nelle Visioni: in quella di Alberico si fa espressa menzione di due demonii che hanno forma, l’uno di cane, l’altro di leone; ma, da altra banda è da ricordare che serpenti e scorpioni smisurati e lupi e leoni sono nell’inferno di Maometto, e che molte fiere selvagge e voraci sono nell’Inferno indiano.

IV
Circa la natura morale dei demonii

Dante non ha e non poteva avere cose nuove da dire: conosciuti erano gli atti e portamenti loro; la loro riputazione era fatta.
Lucifero fu creato più nobile d’ogni altra creatura; ma il peccato, il superbo strupo, cancellò in lui, come ne’ seguaci suoi, ogni natia nobiltà. La superbia fu il suo primo peccato; fu il secondo l’invidia, e questa trasse a perdizione i primi parenti, e con essi tutto il genere umano. Egli è il nemico antico ed implacabile dell’umana prosperità, l’antico avversaro di tutti gli uomini, ma più di quelli che non vanno per le sue vie, e cui egli tenta trarre a peccato e a ruina; il vermo reo che il mondo fora. Perciò egli con amo invescato attira le anime, e tenta insidiarle persino in Purgatorio, donde lo cacciano gli angeli. Egli, il perverso κατ' έξοχήν, è bugiardo e padre di menzogna. Il mal voler, che pur mal chiede, è fatto natura sua e degli angeli suoi: Dante, con tutti i teologi del suo tempo, rifiuta e condanna la opinion di Origene e di alcuni seguaci di lui, che i demonii possano ravvedersi e trovar grazia. L’ira e la rabbia sono passioni principali dei maledetti. Caronte parla iracondo, si cruccia, batte col remo qualunque anima si adagia; Minosse si morde per gran rabbia la coda; Plutone consuma dentro sé con la sua rabbia; Flegias, conosciuto il proprio inganno, se ne rammarca nell’ira accolta; i demonii che stanno a custodia della città di Dite parlan tra loro stizzosamente; il Minotauro morde se stesso,

Sì come quei cui l’ira dentro fiacca;

e non parliam delle Furie e d’altrui demonii che con atti o con parole fan manifesta la rabbia che li divora. Quelli della quinta bolgia dell’ottavo cerchio digrignano i denti e con le ciglia minaccian duoli. Opportuna perciò la comparazione che più di una volta Dante fa de’ suoi demonii con mastini sciolti, con cani furibondi e crudeli. Se Rubicante è pazzo, come Malacoda lo chiama, la sua è certo pazzia furiosa.
I demoni sono[18] gelosi del loro regno, e malvolentieri vedono altri penetrarvi e aggirarvisi, se non è condotto da loro e in lor servitù. Come già si opposero alla discesa di Cristo, così si oppongono al viaggio di Dante. Caronte, Minosse, Cerbero, Plutone, i demonii della città di Dite, le Furie, forse anche Nembrot, cercano in varii modi e con varii argomenti di farlo retrocedere[19] . Allo stesso modo, nella leggenda del Pozzo di San Patrizio, i demonii tentano ripetutamente di far tornare addietro il cavaliere Owen. La tracotanza e l’insolenza sono proprie qualità dei superbi caduti, a umiliare le quali è talvolta necessario l’intervento divino. E anche quando sanno non essere senza l’espresso volere di Dio l’andata dei due poeti, i demonii più protervi si studiano di nuocer loro, minaccian Dante coi raffii, ingannano Virgilio con false informazioni, inseguono l’uno e l’altro per prenderli, dopo averli lasciati andare[20]. Nella Visione di Carlo il Grosso appajono nigerrimi demones advolantes cum uncis igneis, i quali tentano di uncinare Carlo, e ne sono impediti dall’angelo che lo guida; nella Visione di un uomo di Nortumbria, narrata da Beda, demonii minacciano di afferrare con ignee tenaglie l’intruso; anche Alberico è minacciato da un diavolo e difeso da San Pietro. Giunto in prossimità dell’Inferno, il Mandeville si vide contrastare il passo da un nugulo d’avversarii, ed ebbe da uno di loro una mala percossa, di cui portò il segno per ben diciott’anni. Che con un naturale sì fatto i diavoli non possano amarsi tra loro s’intende facilmente. Come Alichino e Calcabrina fanno, là, nella bolgia dei barattieri, così debbono gli altri azzuffarsi quando l’occasione se ne porga. Vero è che Barbariccia, co’ suoi, tiran poi fuori del bollente stagno, in cui eran caduti, i due combattenti.
Quest’opera di fraterno soccorso ci lascia pensare che anche nei diavoli possa talvolta essere alcun che di men tristo. Minosse, il conoscitore delle peccata, ha da avere, se non altro, un sicuro sentimento di giustizia, senza di che non potrebbe assegnare a ciascun peccatore la pena che gli si conviene. Chirone dà una scorta fida ai poeti; Gerione concede loro il suo dorso; Anteo li posa sull’ultimo fondo dell’Inferno[21] .
È opinione comune dei teologi che l’intelletto dei demonii siasi ottenebrato dopo la caduta, di maniera che, se vince ancora, e di molto, l’umano, è di gran lunga inferiore all’angelico. Essi non conoscono il futuro se non in quanto Dio lo fa loro palese, o in quanto possono argomentarlo da indizii e da fenomeni naturali; similmente non penetrano l’animo umano, ma da segni esteriori argomentano ciò che in esso si muove. Dante non pare abbia pensato altrimenti, sebbene, sul conto del saper loro, mostri di essere incorso in qualche contraddizione. A suo giudizio i demonii non possono filosofare, perocché amore è in loro del tutto spento, e a filosofare... è necessario amore; ciò nondimeno, il demonio che se ne porta l’anima di Guido da Montefeltro può vantarsi d’esser loico, e de’ buoni. Caronte conosce essere Dante un’anima buona: da che? non sappiamo. Flegias, per contro, crede vedere in Virgilio un’anima rea[22]. Del resto né Caronte, ne Minosse, né Plutone, né i demonii della città di Dite, sanno la ragione del viaggio di Dante e il divino patrocinio sotto cui esso si compie, e Virgilio a più riprese deve far ciò manifesto. Ora tale ignoranza può parere un po’ strana, se si pensa che Dante stesso afferma non avere i demonii bisogno della parola per conoscere l’uno i pensamenti dell’altro. Dato dunque che non potessero penetrare nella mente di Virgilio e di Dante, essi avrebbero dovuto aver cognizione del fatto come prima uno dei loro l’avesse avuta. Ma i demonii, che Dante trova in Inferno, usano della parola anche quando conversan tra loro.
Della potenza diabolica Dante non dice gran che; ma si conforma in tutto alla comune opinione quando attribuisce ai demonii potestà sugli elementi, e narra della procella da essi suscitata, che travolse con le sue acque il corpo di Buonconte da Montefeltro.
Il demonio può invadere il corpo umano e produrre in esso turbazioni simili a quelle che arrecano certi morbi; può inoltre animare i corpi morti e dar loro tutte le apparenze e gli atti della vita. I traditori della Tolomea hanno, secondo dice frate Alberigo a Dante, questa sorte, che l’anima loro piomba in Inferno e pena, mentre il corpo, governato da un demonio, si rimane, in apparenza ancor vivo, nel mondo:

Cotal vantaggio ha questa Tolomea,
Che spesse volte l’anima ci cade
Innanzi ch’Atropós mossa le dea.
E perché tu più volentier mi rade
Le invetriate lagrime dal volto,
Sappi che tosto che l’anima trade,
Come fec’io, il corpo suo l’è tolto
Da un dimonio, che poscia il governa
Mentre che il tempo suo tutto sia vôlto.

Nella medesima condizione si trovano Branca d’Oria, che

In anima in Cocito già si bagna,
Ed in corpo par vivo ancor di sopra,

ed un suo prossimano[23].
Ora questa ingegnosa invenzione non è, come sembra allo Scartazzini, una invenzione di Dante, suggerita da quanto nell’Evangelo di Giovanni (XIII, 27) si dice di Giuda: Et post bucellam introivit in eum Satanas; perché con tali parole l’Evangelista non vuol dir altro se non che da indi in poi Giuda fu in potestà di Satana, e come invasato del maligno spirito. In fatti Giuda non muore allora, ma, dopo consumato il tradimento, da se stesso si uccide. La invenzione, o, meglio, la immaginazione, Dante la trovò già bella e formata, e le citate parole dell’Evangelista poterono tutto il più suggerirgli l’idea di applicarla a pessimi peccatori, traditori come Giuda. Cesario di Heisterbach racconta la storia di un chierico cuius corpus diabolus loco animae vegetabat. Questo chierico cantava con voce soavissima e incomparabile; ma un bel giorno un sant’uomo uditolo, disse: Questa non è voce d’uomo, anzi è di demonio; e fatti suoi esorcismi costrinse il diavolo a venir fuori, e il cadavere cadde a terra. Tommaso Cantipratense racconta come un diavolo entrò nel corpo di un morto, che era deposto, in una chiesa, e tentò di spaventare una santa vergine che pregava; ma la santa vergine, datogli un buon picchio sul capo, lo fece chetare. Di un diavolo, che, per tentare un recluso, assunse il corpo di una donna morta, narra Giacomo da Varagine. Ma la immaginazione è assai più antica. Di un diavolo, che, entrato nel corpo di un dannato, traghettava a un fiume i viandanti, con isperanza di poter loro nuocere, si legge nella Vita di San Gilduino; di un altro, che teneva vivo il corpo di un malvagio uomo, si legge nella Vita di Sant’Odrano. Se e come in quei corpi dei traditori animati dai demonii si compiessero le funzioni vitali, Dante, non dice: la opinione che non si compiessero se non in apparenza doveva essere la più diffusa. Nei racconti testè citati di Cesario e di Giacomo, i cadaveri, appena abbandonati dagli spiriti maligni, presentano tutti i caratteri di una inoltrata putrefazione, e ciò conformemente ad altre opinioni e credenze, delle quali non mi dilungo a discorrere.

V

I demonii avevano due sedi, l’Inferno, per punizione loro e dei dannati, e l’aria, per esercitazione degli uomini, sino al dì del Giudizio. Della sede aerea Dante non dice nulla di proposito; ma la suppone evidentemente quando accenna a tentazioni diaboliche, quando parla della potestà che hanno i demonii di suscitar procelle, o di demonii che contendono agli angeli le anime dei morti.
In Purgatorio Dante non pone demonii: l’antico avversario tenta di penetrarvi in forma di biscia, Forse qual diede ad Eva il cibo amaro; ma gli angeli, gli astor celestiali, lo volgono in fuga[24]. I teologi sono comunemente d’accordo nel ritenere che in Purgatorio non ci siano demonii a tormentare le anime; ma moltissime Visioni rappresentano il Purgatorio pieno anch’esso di diavoli, intesi a farvi il consueto officio di tormentatori. La Chiesa, che solo nel 1439, nel concilio di Firenze, fermò il dogma del Purgatorio, la cui dottrina era stata innanzi svolta da S. Gregorio e da S. Tommaso, non si pronunziò sopra questo punto particolare. Dante, che, quanto alla situazione e alla struttura del Purgatorio ha immaginazioni e concetti proprii, quanto alla relazion di esso coi demonii tiene la opinion dei teologi, rifiutando quella dei mistici.
Della situazione dell’Inferno, erano state, ed erano tuttavia, molte svariate opinioni; la più accreditata e diffusa lo poneva nel centro della terra, e questa è appunto l’opinione seguita da Dante. Nell’Inferno dantesco i demonii sono variamente distribuiti, conforme al concetto che il poeta s’era formato della gravità delle colpe e della conseguente gravità dei castighi. Che demonii non debbano essere nel limbo, dove sono gli spiriti magni, solo esclusi dal cielo perché non ebber battesmo, e i fanciulli morti prima di averlo, s’intende facilmente; e mezzi demonii si possono dire quelli che nel vestibolo scontano lor pena insieme con gli sciaurati che mai non fur vivi. Il primo vero demonio che Dante incontri è Caronte, ed è strano abbastanza che egli ne abbia posto alcuno a guardia della porta su cui sono le parole di colore oscuro, e che, forzata da Cristo, trovasi ancora, a dir di Virgilio, senza serrame. Nel secondo cerchio è Minosse, solo nominato; ma debbono pure esservi altri demonii esecutori delle sentenze di lui, quelli per le cui mani le anime giudicate son giù vôlte. I diavoli appajono per la prima volta numerosi (più di mille) sulle porte della città di Dite. Possono i diavoli che sono in Inferno, e cui è commesso di tormentare le anime, uscir di là entro? Dante nol dice, ma per alcuni espressamente lo nega. Lucifero è confitto nel ghiaccio, né si può muovere, suggerita senza dubbio la immaginazione da quel luogo dell’Apocalissi, detta di S. Giovanni, ove si narra che l’arcangelo Michele prese il dragone e lo legò per mille anni. Lucifero legato nell’ultimo fondo dell’Inferno appare anche in alcune Visioni. Efialte è legato, mentre Anteo è sciolto. I diavoli della quinta bolgia del cerchio ottavo, non possono uscire di là,

Che l’alta provvidenza che lor volle
Porre ministri della fossa quinta,
Poder di partirsi indi a tutti tolle[25].

Ed è assai probabile che Dante abbia inteso il medesimo dei diavoli che nell’altre bolge e negli altri cerchi hanno ufficio di punitori.
S. Tommaso, al pari di molti altri teologi, e conformemente a quanto è accennato nel Nuovo Testamento, ammette che fra i demonii come fra gli angeli rimasti fedeli, ci sieno varii ordini e una gerarchia, a capo della quale è Beelzebub. Dante non esprime a tale riguardo una opinione categorica; ma presenta Lucifero quale re dell’Inferno e principe dei demonii, cui forse Plutone invoca nel suo inintelligibile linguaggio. Quanto agli altri demonii si può notare qua e là qualche indizio di primazia e di soggezione. Abbiamo già veduto che Minosse deve avere altri demonii sotto di sé, esecutori delle sue sentenze. Chirone sembra essere il duce dei Centauri: Malacoda sembra avere alcuna signoria sui diavoli che tormentano i barattieri. Forse Dante ebbe a ricordarsi dell’antica opinione di Erma, di Clemente Alessandrino, di Origene e di altri, che ordinavano i demonii secondo le varie specie di peccati a promuovere i quali più specialmente attendevano: questo dubbio nasce quando si vede l’iracondo Flegias fatto navicellajo della palude degli iracondi; il ladro Caco perseguitare i ladri; Lucifero, il primo traditore, dirompere coi denti i tre grandi traditori[26].
Dante considera l’Inferno quale un regno opposto e contrario regno de’ cieli, e come Dio è l’imperador che lassù regna, l’alto sire del regno della beatitudine, così Lucifero è

Lo imperador del doloroso regno,

e le Furie sono

le meschine
Della regina dell’eterno pianto[27].

Questo concetto di un regno satanico si trova già negli Evangeli e in Padri della Chiesa, onde si trasse argomento, nelle rappresentazioni dell’arte, a dare a Lucifero, quali insegne della sua potestà, scettro e corona. Con tali insegne, o seduto sopra un trono, comparve anche Satana fuori dell’Inferno, in molte leggende. Giacomino da Verona chiama anch’egli Lucifero re dell’Inferno; ma, come Dante, gli nega ogni segno e fregio di signoria.

VI

Vediamo ora i demonii di Dante in relazione coi dannati, nell’ufficio loro di giustizieri e tormentatori infernali. Quando muore Guido da Montefeltro, resosi, dopo una vita tutta piena di colpe, cordigliero, S. Francesco viene per raccorne l’anima; ma un de’ neri Cherubini gli dice:

. . . . Nol portar; non mi far torto.
Venir se ne dee giù tra’ miei meschini,
Perché diede il consiglio frodolente,
Dal quale in qua stato gli sono a’ crini;
Ch’assolver non si può chi non si pente,
Né péntere e volere insieme puòssi
Per la contradizion che nol consente.

Quando invece muore Buonconte, sinceramente pentito, e col nome di Maria sulle labbra, viene l’angel di Dio e ne prende l’anima; ma quel d’Inferno grida:

O tu dal ciel, perché mi privi?
Tu te ne porti di costui l’eterno
Per una lagrimetta che il mi toglie:
Ma io farò dell’altro altro governo[28].

Qui abbiamo, se non isvolti, indicati due contrasti, del demonio e d’un santo l’uno, del demonio e dell’angelo l’altro: nel primo vince il demonio; nel secondo l’angelo.
È noto che contrasti sì fatti furono popolarissimi nel medio evo, e varie letterature di quella età ne serbano numerosi documenti. Il concetto che li inspira scaturisce del resto dall’intimo della credenza cristiana e non è d’indole popolare soltanto. La lotta fra il divino e il diabolico è in essa iniziale, immanente. Prima Lucifero si ribella al suo fattore, poi perverte i primi parenti e tutta l’umana generazione; Cristo vince Lucifero e spoglia l’Inferno; Maria calpesta l’antico serpente; l’Anticristo, campione di Satana, rinnovera la pugna. Se oggetto dell’interminabile contesa è l’umanità, gli è giusto che per ogni singola anima le contrarie potestà combattano. La credenza che ciascun uomo sia, lungo il corso di tutta la vita, accompagnato, a destra da un angelo, da un demonio a sinistra, e tanto antica quanto ovvia, e poiché, mentre dura la vita di quello, i due spiriti avversarii tentano di sopraffarsi a vicenda, l’uno persuadendo il bene, l’altro istigando al male, ragion vuole che il contrasto non cessi, anzi si faccia più vivo in quel supremo momento in cui si decide il destino immutabile delle anime e si suggella sopr’esse l’eternità. In una lettera che i vescovi Remensi e Rotomagensi scrissero nell’858 a Luigi il Germanico si dice che i diavoli sono sempre presenti alla morte degli uomini, così dei malvagi, come dei giusti; e poiché, da altra banda, son pur presenti gli angeli, il contrasto è inevitabile. Un tale, di cui narra la Visione di S. Bonifazio, apostolo della Germania (683-755), assiste a una specie di contrasto generale delle milizie celesti e infernali: Innumerabilem quoque malignorum spirituum turbam nec non et clarissimum chorum supernorum angelorum adfuisse, narravit. Et maximum inter se miserrimos spiritus et sanctos angelos de animabus egredientibus de corpore disputationem habuisse, daemones accusando et peccatorum pondus gravando, angelos vero relevando et excusando. Nel Muspilli è detto che ogni qual volta un’anima esce dal corpo angeli e diavoli s’azzuffan tra loro.
L’immaginazione di sì fatti contrasti è assai antica. Nella epistola cattolica di Giuda, tenuta ora generalmente apocrifa dai critici, ma che si trova già ricordata nel secondo secolo, si accenna (v. 9) ad un alterco che l’arcangelo Michele ebbe col diavolo pel corpo di Mosè. Di Sant’Antonio racconta Sant’Atanasio, che una volta fu rapito in ispirito, e levato dagli angeli in cielo. I diavoli, ciò vedendo, cominciarono a contrastare, e gli angeli a chiedere perché il facessero, non essendo in Antonio macchia di peccato. I diavoli allora presero a ricordare tutti i peccati che egli aveva commessi, prima di abbracciare la vita solitaria, sin dalla nascita, e ad aggiungerne molt’altri, da loro calunniosamente inventati. Finalmente, non riuscendo loro la cosa, sgombrarono il passo. I Mongoli credono che ogni anima d’uomo che, muore giunga in presenza del supremo giudice accompagnata da uno spirito buono e da uno spirito malvagio, i quali con sassolini bianchi e neri fanno il novero delle sue buone e cattive azioni.
Il contrasto è più spesso tra demonii e angeli; talvolta è tra demonii e santi, come si vede nella lettera apocrifa che si volle scritta da S. Cirillo, arcivescovo di Gerusalemme, a Sant’Agostino, e nella Visione che un sant’uomo ebbe della liberazione dell’anima di re Dagoberto. Talvolta pure è tra i demonii e la Vergine, e ne’ varii casi assume varia forma e vario carattere, secondo tempi, luoghi, e condizioni di persone. Come s’è veduto, Dante accenna appena ad un diverbio; anzi diverbio propriamente non pone, giacché S. Francesco nulla risponde alle ragioni del diavolo loico, e nulla risponde l’angelo ai rimproveri del vinto avversario. Ma di forme così parche e temperate non avrebbe potuto appagarsi né la fantasia dei mistici, né la fantasia popolare, e per esse il contrasto doveva, facendosi sempre più grossolano, accogliere in sé tutti i possibili modi della contestazione e della contesa. Il libro dove sono notate tutte le buone azioni, e il libro, di solito molto maggiore, dove tutti i peccati son registrati, l’uno recato degli angeli, l’altro dai diavoli, figurano già nella storia di un malvagio cavaliere del re Coenredo, narrata da Beda, ripetuta dal Passavanti. Essi trovansi del resto anche in altre mitologie. I Mongoli credono che il dio della morte ha un libro dove nota tutte le azioni degli uomini. In altre leggende cristiane si ha la bilancia con cui angeli e diavoli pesano azione buone e cattive. In una delle Visioni di S. Furseo, i demonii disputano assai dottamente con gli angeli di peccati e di penitenza, citano le Scritture, e non si mostrano men buoni dialettici del diavolo che se ne porta l’anima di Guido. Per l’anima di Baronto contrastano due demonii e l’arcangelo Raffaele. Disputano un giorno intero, senza venire a nessuna conclusione: allora l’arcangelo, spazientito, tenta di levar senz’altro l’anima in cielo; ma invano, perché l’uno dei demonii l’acchiappa dal lato sinistro, l’altro, da tergo, la tempesta di calci. La battaglia dura un pezzo, si fa più aspra. Sopraggiungono altri quattro demonii in ajuto de’ compagni, altri due angeli in ajuto di Raffaele. Dàgli e picchia, finalmente le potestà celesti trionfano. Notevole esempio di antropomorfismo anche questo, da aggiungersi agl’infiniti onde è piena la storia di tutte le religioni. Con certe forme di tali contrasti ha stretta relazione quello che fu chiamato il processo di Satana, di cui io qui non mi curo. Noterò solo che in Dante il contrasto che passa oltre ad un grado, che si potrebbe chiamare, sebbene impropriamente, di prima istanza. Né S. Francesco per l’anima di Guido, né il demonio per l’anima di Buonconte, si richiamano di quanto nel primo caso risolve il diavolo loico, di quanto nel secondo pare abbia già risoluto l’angelo. Così non avviene in molti altri contrasti. Nella Visione di S. Furseo angelo e demonio, non potendo accordarsi circa il possesso di un’anima, si appellano a Dio. Giacomo da Vitry narra di un gran peccatore che, in punto di morte, si confessò al diavolo, credendo confessassi a un prete. Morto il peccatore, angeli e demoni furono, contrastando, intorno all’anima, e quelli dicevano che la confessione era valida, perché fatta in buona fede, e questi gridavano che non poteva valere, perché fatta al demonio. Per giudizio di Dio il peccatore risuscitò e poté rifare la confessione. Questa storia è ripetuta dal Cavalca.
Degno di attenzione nel secondo contrasto narrato da Dante è il mal governo che il demonio, non potendo avere l’anima, fa del corpo di Buonconte; giacché, di solito, non è data ai demonii potestà di offendere i corpi di chi muore riconciliato con Dio. Bensì sono spesso dati loro in balia i corpi degli scelerati le cui anime vanno in Inferno; e molte storie spaventevoli si raccontano di corpi che furono strappati a furia fuor delle chiese, bruciati negli avelli, o fatti a pezzi. Le peripezie del corpo di Pilato sono note abbastanza.
Ma qui viene in taglio un’altra osservazione. Il diavolo loico prende l’anima di Guido da Montefeltro, e la porta a Minosse, che la giudica e la manda fra i rei del foco furo. Come ciò? Dice Virgilio che le anime di coloro che muojon nell’ira di Dio convegnon d’ogni paese alla triste riviera d’Acheronte, e che son pronte a passare il fiume, così spronandole la divina giustizia che la tema si volge in desio. Se esse convengono di per sé al fiume; se Caronte è quegli che le traghetta; se per tal via giungono in cospetto del giudice infernale, come va che l’anima di Guido, e portata al giudizio da un diavolo? Si può rispondere che Dante, narrando il passaggio delle anime oltre il fiume ebbe in mente il mito pagano, e che, narrando poi di Guido, si scordò quel mito, e si sovvenne della comune credenza de’ tempi suoi, secondo la quale le anime malvage erano portate via dai diavoli, e non le anime soltanto, ma qualche volta anche i corpi. Né Dante ebbe a sovvenirsene in questo caso soltanto. Il diavolo che porta nella bolgia dei barattieri l’anziano di santa Zita, dice:

Mettetel sotto, ch’io torno per anche
A quella terra che n’ho ben fornita.

Anche nell’Inferno dantesco i diavoli hanno per ufficio di tormentare i dannati; ma bisogna subito dire che tale officio essi non adempiono con la frequenza, il furore, l’atrocità di cui porgono tanti esempii le altre Visioni. Caronte si contenta battere col remo qualunque si adagia; poi, per tutto il primo e secondo cerchio, come già innanzi nel vestibolo dove sono i vigliacchi, non è più cenno di diavoli tormentatori, fino a Cerbero, che

Graffia gli spirti, gli scuoja ed isquatra[29].

Minosse assegna soltanto a ciascun’anima la pena adeguata. Dante volle, non senza un concetto profondo, che i dannati trovassero lor castigo, almeno nella più parte dei casi, in una condizione prestabilita, in un ordinamento fisso e costante di pene, nelle quali i demonii non han troppo ingerenza, e volle ancora sovente che i dannati stessi fossero gli uni contro gli altri esecutori e strumenti del meritato castigo, così gli avari e i prodighi del quarto cerchio percotonsi coi pesi che van voltando per forza di poppa; così le fangose genti fanno strazio di Filippo Argenti; così il conte Ugolino rode il teschio dell’arcivescovo Ruggeri con denti come d’un can forti[30]. Però non vediamo nell’Inferno di Dante demonii far bollire le anime in pentole affocate, arrostirle infisse in lunghi spiedi, struggerle in padelle roventi, segarle per lungo e per traverso, come in tante Visioni e rappresentazioni dell’Inferno interviene. L’orribile cuoco dell’Inferno di Giacomino da Verona non ha luogo nell’Inferno di Dante, dove l’opera dei diavoli tormentatori comincia propriamente solo nel primo girone del settimo cerchio[31]. Quivi i Centauri vanno a mille a mille intono al fosso, saettando le anime che alcuna parte di sé levan fuori dal sangue bollente. Ora, col settimo cerchio comincia quella parte dell’Inferno nella quale sono puniti i più malvagi, secondo dice Virgilio. Da indi in poi troviamo, per non parlare delle cagne nere, bramose e correnti, che inseguono e lacerano i violenti contro a se stessi, e dei serpi che mordono i ladri, le Arpie, le quali si pascono delle fronde degli arbusti in che pure le anime dei violenti contro a se stessi son prigioniere; i diavoli cornuti, che con grandi sferze battono di dietro i mezzani; quelli che coi raffii arrocingliano i barattieri; il diavolo che accisma i seminatori di scandalo e di scisma; Lucifero, che maciulla i tre massimi peccatori, e col vento delle grandi ale aggela Cocito[32].
Ma i demonii cui è commesso l’ufficio di tormentare i dannati, soffrono essi pure una qualche pena, oltre a quella cui soggiacciono per la esclusione dal regno dei cieli, e per l’avvilimento di loro natura, conseguenza della caduta? Non mancano scrittori i quali dicono che dei tormenti infernali essi non soffrono, perché, se ne soffrissero, assai di mala voglia attenderebbero a quel loro officio, e all’altro, di tentare i cristiani; e spesso nelle rappresentazioni dell’arte i; diavoli tormentatori mostrano in viso il compiacimento che provano di quel loro esercizio. Del solo Lucifero Dante, accenna, più che non narri, l’intimo crucio, quando dice che

Con sei occhi piangeva, e per tre menti
Gocciava il pianto e sanguinosa bava.

Il Lucifero di Dante è confitto nel ghiaccio, né si può, muovere: altrove siede tra le fiamme, o è dagli stessi demonii suoi arrostito a fuoco vivo. Ad ogni modo le torture dei demonii non sono senza refrigerio, se è vero, come gli scrittori affermano, che essi godono del commesso peccato, dell’ingiuria fatta a Dio e ai santi, dell’anima che piomba in Inferno, dei mali infiniti che affliggono la misera umanità. Dante dice che Lucifero nel suo fondo si placa, vedendo le brutture e le nefandità della Curia di Roma[33].

VII

I diavoli che Dante trova nella quinta bolgia del cerchio ottavo, se hanno del terribile, hanno anche del comico. Essi stringono la lingua coi denti per far cenno al loro duce, come è usanza dei monelli, e il lor duce fa trombetta di ciò che non occorre rammentare. Si lasciano ingannare da Ciampolo, o chi altri si sia il famiglio del buon re Tebaldo, e due di loro, Alichino e Calcabrina, si azzuffano per ciò, e cadono nel bel mezzo del bollente stagno[34].
Diavoli così fatti, se possono incutere terrore (e molto ne incutono a Dante), possono anche muovere a riso, ed hanno grande somiglianza con quelli che si vedono trescare per entro ai Misteri e alle Moralità del medio evo. Io non ho a ricercare qui come la fantasia popolare, e anche la non popolare, pure ingombre come erano dei terrori dell’Inferno, giungessero a ideare il demonio burlesco, sciocco, ridicolo. Molti elementi concorrono in sì fatto concetto, a sceverare i quali sarebbe necessaria un’accurata analisi. Ricorderò solo che il diavolo appar ridicolo in numerose leggende, e che viene un tempo in cui l’officio principale suo sulla scena è quello di far ridere gli spettatori.
Se fu in Francia, il che è assai dubbio, Dante può avervi veduto, in certe rappresentazioni di sacro argomento, diavoli molto simili a quelli ch’ei pone nella bolgia dei barattieri, poiché, già nel XII secolo, alla rappresentazione di Mistère d’Adam, si vedevano demonii correre per la piazza, tra il popolo, ma è da credere che anche in Italia Dante potesse vedere così fatti demonii, sebbene sia vero ciò che nota il D’Ancona, non avere, cioè, più tardi, nelle Sacre Rappresentazioni nostre, il diavolo raggiunto mai quel grado di ridicolo che raggiunse in Francia. La rappresentazione dell’Inferno, fattasi in Firenze nel 1304, e nella quale erano, secondo narra Giovanni Villani, diavoli orribili a vedere, è possibile non si facesse in quell’anno la prima volta. In una sua costituzione, del 1210, Innocenzo III parla di monstra larvarum, che s’introducevano nelle chiese, ed è assai probabile che tra esse ce ne fossero di diaboliche.
Anche i nomi che Dante dà a que’ suoi demonii rimandano a Misteri e a Sacre Rappresentazioni, dove nomi consimili occorrono frequenti. Tali Misteri e tali Sacre Rappresentazioni sono, gli è vero, posteriori alla Divina Commedia; ma nulla vieta di credere che essi occorressero già in drammi più antichi, non pervenuti sino a noi[35].

Note
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[1] «Inf.», XXIII, 142-4
[2] Tratt. III, c. 13
[3] V. 83. Cfr. De vulg. el. I, 2; «Paradiso», XIX, 46-8; «Inferno», VII, 11-12; «Inferno», IX, 91
[4] «Parad.», XXIX, 49-51
[5] Conv., III, 12. Punto delicato intorno a cui i teologi annasparono assai
[6] «Parad.», XXIX, 55-7; «Parad.», XIX, 46; «Inf.», XXIV, 35
[7] Conv., II, 6; «Purgat.», XII, 27; «Inf.», XXXIV, 122-6; «Inf.», III, 34-42
[8] Che Proserpina sia tra i demoni si argomenta, sebbene il poeta non dica altro di lei, dai vv. 43-44 del c. IX dell’«Inferno» e da quelle parole di Farinata degli Uberti, X, 80: «La faccia della donna che qui regge»
[9] Per la leggenda di Giuliano l’Apostata e per le varie leggende in cui comparisce la Venere diabolica, vedi il mio libro, Roma nella memoria e nelle immaginazioni del medio evo, capitoli XIV e XVIII
[10] Il diavolo fu rappresentato spesso in forma di sirena
[11] Meridiana (o Marianna) chiamavasi il diavolo succubo con cui, secondo la leggenda, ebbe commercio Gerberto
[12] «Inf.», III. 82 sgg. Cfr. Aeneid, VI, 298 sgg.; «Inf.», V, 4 sgg.; «Inf.», VII, 1 sgg.; «Inf.», XVII, 1 sgg.; «Inf.», VI, 13-8, 22-23; «Inf.», IX, 37-42; «Inf.», XII, 11-25; «Inf.», XII, 55 sgg.; «Inf.». XXV, 19-21; «Inf.», XIII, 10-5; «Inf.», XXXI, 19 sgg.
[13] «Inf.», XXIII, 131; «Inf.», XXVII, 113
[14] «Inf.», XVIII, 35; «Inf.», XXI, 131; «Inf. «, XXII, 106; «Inf.», XXII, 136-41; «Inf.», XXI, 31-6
[15] «Inf.», XXXIV, 18; 28 sgg; «Inf.», III, 5-6
[16] «Inf.», XXXIV, 22-7
[17] «Inf.», XIII, 124-9; «Inf.», XXIV, 82 sgg; XXV, 4 sgg; «Inf.», XXV, 22-5
[18] «Purgat.», XII, 25-6; «Parad.», XIX, 47; «Parad.», IX, 129; «Purgat.», XI, 20; «Inf.», XXXIV, 108; «Purgat.», XIV, 14-6; «Purgat.», VIII, 95 sgg; «Parad.», XXVII, 26; «Inf.», XXIII, 144; «Inf.», XXIII, 16; «Purgat.», V, 112; «Inf.», XXII, 42; «Inf.», III, 84 sgg.; «Inf.», XXVII, 126; «Inf.», VII, 9; «Inf.», VIII, 23-4; «Inf.», VIII, 83-4; «Inf.», XII, 14-5; «Inf.», XXI, 131-2; «Inf.», XXI, 44; 67-8; XXIII, 16-8; «Inf.», XXI, 123
[19] «Inferno», III, 88-93; V, 16-20; VI, 22-24; VII, 1-6; VIII, 82 sgg; IX, 52-4; XXXI, 12 sgg.
[20] «Inf.», XXI, 100-2; «Inf.», XXIII, 139-41; «Inf.», XXIII, 34-6
[21] «Inf.», XXII, 133-41; «Inf.», XII, 97-102; «Inf.», XVII, 79 sgg.; «Inf.», XXXI, 130 sgg
[22] Conv., III, 13; «Inf.», XXVII, 121-23; «Inf.», 88-93; 127-9; «Inf.», VIII, 18
[23] De vulg. el., I, 2; «Purg.», V, 109-29; «Inf.», XXIV, 112-4; «Inf.», XXXIII, 124-32; «Inf.», XXXIII, 134-57
[24] «Purgatorio», VIII, 94-108
[25] «Inf.», VIII, 126; «Inf.», V. 15; «Inf.», VIII, 84-5; «Inf.», XXXI, 85-90; «Inf.», XXXI, 101; «Inf.», XXIII, 55-7
[26] «Inf.», XXXXIV, 1-28; «Inf.», VII, I; «Inf.», XII, 64 sgg.; «Inf.», XXI, 76 sgg.; «Inf.», VIII, 13 sgg.; «Inf.», XXV, 16 sgg., (vedi, contra, Almansi, op. cit., p. 56); «Inf.», XXXIV, 55 sgg.
[27] «Inf.», XXXIV, 28; «Inf.», IX, 43-4
[28] «Inf.», XXVII, 112-120
[29] «Purgat.», V, 109-129; «Inf.», XXVII, 121-7; «Inf.», III, 121-6; «Inf.», XXI, 39-40; «Inf.», III, 111; «Inf.», 18
[30] «Inf.», VII, 25-30; «Inf.», VIII, 58-60; «Inf.», XXXII, 130-2; XXXIII, 76-8
[31] De Bab. civ. inf., vv. 117-24. Veggansi le pene descritte nella Visione di Tundalo, le piú spaventose forse e le piú strane che mai siensi immaginate da mente in delirio
[32] «Inf.», XII, 73-5; «Inf.», XI, 76-90; «Inf.», XIII, 124-29; «Inf.», XXIV, 82 sgg.; XXV, 1 sgg.; «Inf.», XIII, 101-2; «Inf.», XV-III, 35-6; «Inf.», XXI, 52-7; XXII, 34-6; «Inf.», XXVIII, 37-8; «Inf.», XXXIV, 52-7
[33] «Inf.», XXXIV, 53-4; «Parad.», XXVII, 22-7
[34] 75 «Inf.», XXI, 137-39; «Inf.», XXII, 97-123; «Inf.», XXII, 133-51
[35] ... Parecchi di essi diedero da arzigogolare ai commentatori... Io non imiterò il loro esempio; noterò solo che Alichino, anziché derivare dal chinar le ali, come piacque ad alcuno, potrebbe essere l’Hellequin dei Francesi

 

 

UN MONTE DI PILATO IN ITALIA

Fra le devote leggende più diffuse e più celebri nel medio evo, diffusissima e celeberrima fu quella di Pilato. Germogliata nei primi secoli del cristianesimo, cresciuta smisuratamente dipoi, trapiantata d’uno in altro suolo, essa soggiacque a varia fortuna, ebbe molte e curiose vicende, si mutò in tutto da quella ch’era stata in origine. I primi cristiani, solleciti di raccogliere quante più prove e testimonianze potevano in favore dell’insidiata e combattuta lor fede, giudicarono molto benignamente il giudice pusillanime; affermarono ch’egli aveva fatto quant’era in poter suo per istrappar Gesù all’ingiusto supplizio; mostrarono una lettera da lui scritta all’imperatore, nella quale era ampiamente riconosciuta l’innocenza del Nazareno ed esecrata la malvagità de’ nemici suoi; giunsero a dire persino ch’egli era morto martire della fede. Mutati i tempi, e assicurato il trionfo della Chiesa, mutarono anche i giudizii. La sospetta testimonianza, divenuta inutile ormai, fu lasciata volentieri in disparte, e sotto l’influsso di un altro pensiero, in virtù di un postulato della coscienza che voleva colpiti da formidabile e condegno castigo quanti, in un modo o in un altro, avevano avuto parte nella condanna e nella morte del Redentore, cominciò un lavoro delle fantasie in tutto diverse da quel di prima, e la leggenda si trasformò, e starei per dire si capovolse. Ecco Pilato diventare un pessimo scelerato, degno d’andarne alla pari co’ rei giudici del Tempio e con lo stesso Giuda. Si narra allora come l’imperatore lo chiamasse al suo cospetto per chiedergli conto della morte del Giusto; come rigorosamente il punisse; come il punito si togliesse da se stesso la vita, e il maledetto suo corpo fosse tramutato di luogo in luogo, cagione sempre alla terra che l’accoglieva di turbamenti e di calamità. Si ricercano le origini di lui, il paese ove nacque, i primi suoi fatti, e tutta una storia s’immagina, la quale cel mostra malvagio sino dalla puerizia, e spiega il gran misfatto finale. La sua leggenda si lega ad altre leggende celebri, a quella della Veronica, a quella della vendetta del Salvatore, fa corpo con esse, riceve da esse nuovo vigore e notorietà nuova. Egli finisce con Giuda, e con alcun altro massimo scelerato, fra le mascelle formidabili di un Satanasso trifronte, nel più profondo e tenebroso abisso d’Inferno.
Io ho ricordato brevemente le origini e le vicende della leggenda di Pilato, ma non è mio proposito di addentrarmi nello esame e nella discussione di essa. Tale lavoro fu già fatto, se non in modo che possa dirsi compiuto, almeno in modo sufficiente, e qui non accade ripeterlo. Io intendo solamente far parola di alcune immaginazioni che si riferiscono alla presenza di Pilato in Italia, e che propriamente appartengono a quella parte della leggenda ove si narra della sorte toccata al corpo di lui. In tale argomento sono da notare alcune cose che non furono, per quanto io mi sappia, notate e che non mancano di curiosità.
La leggenda, o, a meglio dire, le varie versioni di essa, fanno nascere Pilato in Vienna di Francia, o in Lione, o in Magonza, o in Forchheim, o nei dintorni di Bamberga, o in Ispagna. La ragione di tale variate facilmente s’intende quando si pensi che, affermando patria di alcun celebre tristo la tale o tal città, la tale o tale regione, si dava sfogo di consueto a passioni d’inimicizia e di gelosia, e durevole e concreta espressione a un intendimento ingiurioso. Ciò che si fece per Pilato si fece, com’era naturale, anche per Giuda. In un luogo del Dittamondo Fazio degli Uberti dice:

Entrai nella Marca, com’io conto,
Io vidi Scarïotto onde fu Giuda,
Secondo il dir d’alcun, da cui fu conto.

Giuda fu dunque fatto nascere, oltreché in molti altri luoghi, anche in Italia, e in più luoghi d’Italia, similmente, fu fatto nascere Pilato. Durante il medio evo soleva mostrassi in Roma, tra l’altre cose mirabili, anche una torre, o casa o palazzo di Pilato[1].
La fine di Pilato è, nelle varie versioni della leggenda, narrata assai diversamente. Egli morì sotto Tiberio, sotto Caligola, sotto Nerone, sotto Vespasiano e Tito: fu fatto decapitare; fu ucciso dallo stesso Nerone furente; fu scorticato; fu cucito, come si usava coi parricidi, in una pelle di bue, insieme con un gallo, una vipera ed una scimmia, e lasciato morire al sole; fu chiuso in una torre, ed egli con le proprie sue mai si uccise; fu, con la torre insieme, inghiottito dalla terra. La credenza che egli si fosse ucciso, suggerita forse dall’esempio di Giuda, e dal desiderio di far commettere al reo un’ultima colpa, a giudizio di cristiani gravissima, e molto antica e quasi cancellò tutte le altre: ad essa si legano, e ad essa in certo qual modo derivano, i racconti in cui si dice delle vicende cui andò soggetto dopo la morte il corpo maledetto, e dei danni ch’esso produsse. Secondo un racconto più antico, Pilato si uccise nella città di Vienna dov’era stato chiuso in una torre, e il suo corpo fu gettato nel Rodano. Secondo un racconto più recente, e che ebbe poi molto maggior diffusione, Pilato si uccise in Roma, e il corpo suo fu da prima gettato nel Tevere, poi tolto di là, trasportato in Gallia e buttato nel Rodano, ove non rimase nemmeno. Non solamente questi due racconti, che io reco qui in una forma meramente schematica, ma anche altri, sui quali non ho bisogno di soffermarmi, dan notizia dei turbamenti prodotti dal corpo sommerso del suicida e delle successive traslazioni che ne furono la conseguenza.
In un racconto latino intitolato Mors Pilati qui Jhesum condemnavit, pubblicato dal Tischendorf, si dice che Tiberio, fatto venire a Roma Pilato, ordinò fosse chiuso in un carcere, poi radunò il consiglio perché pronunziasse sentenza sopra di lui. Saputo d’essere stato condannato a morire di morte turpissima (ut morte turpissima damnaretur) Pilato con un coltello si uccise. «Informato della morte di Pilato Cesare disse: Veramente è morto di morte turpissima coluj che non risparmiò se stesso. Fu legato a un enorme masso e gettato nel Tevere. Ma gli spiriti maligni e sordidi, tripudiando per amor di quel corpo maligno e sordido, si agitavano tutti nell’acqua, suscitando terribilmente nell’aria folgori e bufere e tuoni e grandini, così che teneva gli uomini un orribil timore. Onde i Romani, trattolo dal Tevere, lo portarono per vituperio a Vienna, e lo sommersero nel Rodano: Vienna, gli è come dire via Gehennae, poiché era allora luogo di maledizione. Ma anche quivi accorsero i malvagi spiriti, producendo le medesime turbazioni. Però gli uomini di quel paese, non potendo sopportare tanta infestazione di demonii, allontanarono da sé quel vaso di maledizione e lo buttarono in certo pozzo, ch’era tutto intorno serrato di monti, dove, per riferimento d’alcuni si vedono sobbollire tuttavia le diaboliche macchinazioni». Così l’ingenuo ed incognito narratore.
Il codice ambrosiano, dal quale il Tischendorf trasse questo racconto, è del secolo XIV; ma il racconto stesso risale per lo meno al XII, nel qual tempo si congiunse alla già ricordata leggenda dei natali e dei primi fatti del proconsole romano, e diventò parte di maggior racconto, che, sotto il titolo di Vita Pilati, ebbe più redazioni diverse, e grandissima diffusione. Ciò che nella Mors Pilati si narra del corpo di costui, sommerso prima nel Tevere, poi nel Rodano, e gettato da ultimo in un pozzo fra’ monti, accenna evidentemente a più leggende locali già sorte, e al desiderio dell’autore del racconto di legarle possibilmente tra loro senza negarne nessuna. L’autore, o, per dir meglio, il compilatore della Vita, precede alquanto più oltre su questa via, e dice che dal Tevere il corpo passò nel Rodano; che tolto dal Rodano fu trasportato a Losanna; e che tolto finalmente anche da Losanna, sempre per le stesse ragioni, fu buttato in un pozzo dell’Alpi. Questa è la versione che, insieme con molti altri, accetta anche Giacomo da Varagine (m. 1298) nella Legenda aurea. L’anonimo autore di un commento allo Speculum regum di Gotofredo da Viterbo dice, sebbene in modo erroneo, qualche cosa di più, che accenna a nuove leggende locali; dice, cioè, che il corpo di Pilato, estratto dal Rodano, fu gettato in una palude tra’ monti, non lungi da Losanna, vicino a Lucerna: in montanis circa Losoniam (o Losaniam) prope Lucernam in quondam paludem proiecerunt. L’anonimo, il quale sembra fosse romano, fonde qui insieme due tradizioni diverse, l’una che si riferiva a Losanna, l’altra che si riferiva a Lucerna, e, propriamente, al famoso Monte di Pilato, che sorge a ridosso di quella città. Altre tradizioni del resto sembra non mancassero in Isvizzera. Un canonico di Zurigo, Corrado a Mure, dice nel suo Fabularium, finito di scrivere nel 1273, che dal Rodano il corpo di Pilato fu trasportato sul monte Septimer, poco lungi da Chiavenna. Forse quand’egli scriveva, la leggenda lucernese non era nata ancora: il primo a fare espresso ricordo di quello che ora si chiama il Pilato, e che prima fu detto il Fracmont, Frankmünd ecc. (mons fractus), sembra sia stato Felice Haemmerlin (Malleolus), morto in Lucerna nel 1457. S’intende facilmente come la Svizzera, in grazia della sua stessa configurazione fisica, dovesse essere paese assai favorevole alla moltiplicazione di così fatte leggende.
Con la sommersione del corpo di Pilato nel Tevere, con la credenza che in Roma si vedesse ancora quella ch’era stata casa del giudice malvagio, sembra che l’Italia, o almeno una regione di essa, volesse richiamare più risolutamente a sé una leggenda illustre, la quale per più altri rispetti le apparteneva. Una leggenda più particolarmente italiana era sorta; ma questa doveva, come abbiam veduto, comporsi con altre leggende più antiche, e se voleva tener dietro, come lo stesso suo spirito le dettava, alle vicende cui andava soggetto il corpo dello scelerato suicida, doveva uscire d’Italia. Doveva, dico, sino a tanto che non avesse trovato modo di supplire alle leggende straniere, e di liberarsi dallo straniero concorso. Ora, un tal modo, o prima o poi, l’aveva a trovar facilmente.
Notiamo anzi tutto che il luogo della relegazione e della prigionia di Pilato non era al tutto certo. Si credeva più generalmente fosse stato in Vienna; ma un racconto famoso, la Vindicta Salvatoris, lo poneva in Damasco, e un altro racconto, famoso ancor esso, e di origine sicuramente italiana, la Cura sanitatis Tiberii, lo poneva in una città di Toscana, variamente detta nei manoscritti Ameria, Amerina, Cimerina, Timerina, Arimena. La città di Toscana, qual ch’essa fosse, facendo dimenticare Vienna, faceva dimenticare anche l’avventura del Rodano, e poneva la leggenda italiana, sciolta da ogni legame con tradizioni straniere, in condizione di poter narrare a suo modo, e con intendimento italiano, le vicende del corpo di Pilato. In un racconto latino intitolato De Veronilla et de imagine Domini in sindone depicta, e che volentieri crederei composto in Italia, o derivato da alcuna fonte italiana, si dice che Pilato fu imprigionato in Roma; che quivi di sua mano si uccise; che il corpo di lui fu gettato nel mare, dove tutti i pesci morirono; che trattolo dal mare, i cittadini lo portarono in un luogo deserto che non nomina: in heremun tam longe duxerunt, ubi nullum hominem venire ultra sciverunt[2].
Non mancavano luoghi in Italia a cui la leggenda del corpo di Pilato poteva essere opportunamente legata. Tutte le tradizioni di cui ho fatto cenno sin qui parlano di danni recati da quel corpo, e parecchie dicono più specificatamente di formidabili procelle suscitate da esso. Una conseguenza si può subito prevedere: i luoghi di fama paurosa, le solitudine de’ monti che si credevano infestate dai demonii, i laghi portentosi di cui da tempo antichissimo si diceva non potervisi gettar dentro un sassolino senza che se ne levassero tempeste devastatrici, dovevano, naturalmente, attrarre a sé la leggenda, dovevano, o almeno potevano, diventare monti e laghi di Pilato. In Italia monti e laghi così fatti erano meno frequenti che altrove, ma non mancavano: l’Etna aveva le sue leggende, le aveva il Lago d’Averno presso Pozzuoli, e Giovanni Boccacci parla del lago Scaffajolo negli Apennini, il quale suscitava procelle spaventose, come appena ci si gettasse dentro alcuna cosa. I monti e il lago di Norcia avevano un’antica riputazione diabolica e magica diffusa per tutta Italia. Quivi ponevasi un antro della Sibilla, che diè luogo a leggende molto simili a quelle sorte in Germania intorno al Monte di Venere; quivi ancora si raccolse la leggenda di Pilato.
Pietro Bersuire (m. 1362) racconta nel suo Reductorium morale la seguente istoria: «Di un terribile esempio che si ha presso Norcia, città d’Italia, udii narrare, come di cosa vera e cento volte esperimentata, da certo prelato, fa tutti degnissimo di fede. Diceva egli pertanto essere tra’ monti prossimi a detta città un lago, dagli antichi consacrato ai demonii, e dai demonii sensibilmente abitato, al quale nessuno oggi può appressarsi (salvo che i necromanti) senz’essere da quelli portato via. Perciò fu cinto il lago di muri, guardati da custodi, affinché non possano andarvi i necromanti a consacrare i libri loro ai diavoli. E la cosa più terribile è questa, che la città deve, ciascun anno, mandar per tributo ai demonii, entra la cerchia dei muri, presso al lago, un uomo vivo, il quale subito e visibilmente è da essi lacerato e divorato: e dicono che se ciò non si facesse, sarebbe quella città distrutta dalle tempeste. Ogni anno sceglie la città alcuno scelerato, e lo manda per tributo ai demonii. Né questo io crederei, non avendone mai trovato cenno in iscrittura alcuna, se da tanto vescovo non l’avessi udito asserir fermamente».
La storia narrata da Pietro Bersuire ha molta somiglianza con quella che del monte Cannaro in Catalogna racconta Gervasio da Tilbury nei suoi Otia Imperialia. In essa non è fatto cenno di Pilato, come non ne è fatto cenno nel Guerino Meschino, il quale fu composto poco dopo il tempo in cui il benedettino francese compilava il suo Reductorium, e dove si parla a lungo dell’antro della Sibilla e della lieta vita che si menava nei regni sotterranei di lei; ciò nondimeno, una, leggenda in cui figurava Pilato era indubbiamente già nata, giacché se ne trova il ricordo nel Dittamondo di Fazio degli Uberti, il quale visse sino circa il 1367. Nel già citato luogo di questo poema, Fazio dice, continuando a parlare della Marca:

La fama qui non vo’ rimanga nuda
Del monte di Pilato, ov’è uno lago
Che si guarda la state a muda a muda.

Perché, quale s’intende in Simon Mago
Per sagrar il suo libro la su monta,
Onde tempesta poi con grande smago,
Secondo che per quei di là si conta.

Il Capello nota a questo passo: «El monte de Pilato se dice ch’è supra Norcia, e lì è un luogo di diavoli, al qual vanno quei che si vogliano intendere de arte magica», e non aggiunge altro, e forse non sapeva altro. Può darsi che lo stesso Fazio abbia avuto notizia di questa leggenda un po’ tardi, giacché in un precedente luogo del poema si trova ricordo dell’altra, che poneva in Vienna la prigionia e la morte di Pilato, e le due difficilmente possono insieme accordarsi. Nel L. II, cap. 5, il poeta così si esprime:

Qui ti vo’ dir, perché ti sia diletto,
Pilato fue confinato a Vienna,
Dove s’uccise d’ira e di dispetto.

Merita considerazione un riscontro, forse non fortuito. Pietro Bersuire e Fazio degli Uberti parlano di guardie poste al lago per impedire ai necromanti di accedervi, e il simile si racconta del Monte di Pilato presso Lucerna, su cui, ancora nello scorso secolo, era vietato di salire. Nel 1387 sei ecclesiastici di Lucerna furono messi in prigione, perché avevano tentata l’ascensione del Fracmont, e il già citato commentatore dello Speculum regum dice, seguitando a parlare della palude in cui era stato gettato il corpo di Pilato: «Egli è certo che ogni qual volta si gitti nella palude alcuna cosa, per minuta che sia, incontanente si muovon bufere e grandini e folgori e tuoni. Perciò vi si pongono custodi, che in tempo d’estate non lasciano che nessuno vi salga». Anche vicino a Lione si poneva un Mont Pilate con un lago suscitatore di tempeste; ma non so se fosse vietato l’andarvi.
La leggenda raccolta da Fazio fu ripetuta da altri, con le variazioni consuete e inevitabili. Un predicator di Foligno, fra Bernardino Bonavoglia, ebbe, sembra, a recitarla dal pulpito: egli nulla sa di muri e di custodi. «Dicesi che presso Norcia sia un monte, e quivi un lago, detto di Pilato, essendo opinione quasi di molti che il corpo di lui fosse quivi portato dai diavoli sovra un carro tirato da tori. E da luoghi prossimi, e da remoti, si recano colà uomini diabolici, e formano are con tre circoli, e ponendosi, con alcuna offerta, nel terzo circolo, chiamano quel diavolo che vogliono, leggendo il libro che da esso debb’essere consacrato. E venendo il diavolo con grande strepito e clamore, dice: A che mi citi? Risponde: Voglio consacrar questo libro; voglio cioè che tu ti obblighi a fare quanto in esso è scritto, quante volte io te ne richiederò, e in premio ti darò l’anima mia. E così fermato il patto, il diavolo toglie il libro, e vi segna alcuni caratteri, dopo di che egli è pronto a fare ogni male, quando altri lo legga. Ecco in che modo son fatti schiavi quei miseri e dannati uomini. Accadde una volta che un tale, voglioso di consacrare nel modo predetto il suo libro, stando nel circolo ordinato, chiamò certo demonio, e gli fu risposto, ch’e’ non v’era allora, ma era ito nella città di Ascoli, per farvi morire molti di ferro, così dei fuorusciti, come de’ cittadini che hanno il demonio, e che tornerebbe ad opera compiuta, e farebbe ciò onde fosse richiesto. Meravigliato di tale risposta, colui s’avvio verso Ascoli per conoscere la verità di sì gran fatto, e giunse ad un luogo dei frati minori, ove dimorava allora il santissimo fratello Savino da Campello, e narrato per ordine quant’eragli occorso, riseppe che la notte precedente trenta de’ fuorusciti erano stati impiccati in piazza, e che molti dell’una e dell’altra parte erano, nella città, morti di ferro. Venuto a cognizione di ciò, il detto uomo fermamente risolvette... di rinunziare all’arte magica e agl’incanti, considerando grande esser l’arte del diavolo in accalappiare e perder le anime. Ciò riferì il detto sant’uomo frate Savino, a certo frate nostro de’ predicatori».
Fra Bernardino accenna ad uomini che venivano da remoti paesi per attendere a lor pratiche di magia; sembra in fatti che la fama dell’antro della Sibilla e del monte e lago di Pilato che si ponevano presso Norcia, si diffondessero per la Germania e per la Francia, e ne richiamassero frequenti visitatori. Nel 1420 vi capitò un noto cavaliere e poeta francese, Antonio de la Sale, che raccontò poi le cose vedute, e nel 1497 ne imitò l’esempio Arnaldo di Harff, patrizio di Colonia. Leandro Alberti, dopo aver parlato, nella sua Descrittione di tutta l’Italia, dell’antro della Sibilla, così prosegue: «Poscia alquanto più in su nell’Apennino, nel territorio Nursino, vi è il Lago, non meno biasimevole della Grotta, addimandato Lago di Norsa, nel quale dicono gli ignoranti notare i diavoli, impero che continuamente si veggono salire et abbassare l’acque di quello in tal maniera che fanno meravigliare ciascuno che le guarda, parendogli cosa sopra naturale, non intendendo la cagione di tal movimento. La onde in tal guisa essendo volgata la fama di detto Lago, et non meno dell’antidetta Caverna appresso gli huomini, non solamente d’Italia, ma altresì fuori, cioè che quivi soggiornano i Diavoli, et danno risposta a chi gli interroga, si mossero già alquanto tempo (come scrive il Razzano) alcuni uomini di lontano paese (pero leggiermente) et vennero a questi luoghi per consagrare libri scelerati et malvagi al Diavolo, per poter ottenere alcuni suoi biasimevoli desiderii, cioè di ricchezza, di honori, d’amorosi piaceri, et di simili cose... Vedendo i Norsini tanto concorso d’incantatori, che salivano sopra questi aspri et alti monti, acciò non possano passare a detti luoghi, hanno serrata primieramente detta Caverna, et poi tengono buone guardie al Lago». L’Alberti, che scriveva verso il mezzo del secolo XVI, di Pilato propriamente non fa menzione, ma cita i versi di Fazio che lo ricordano. Il Razzano da lui nominato e quel Pietro, che nacque in Palermo nel 1420, fu domenicano, storico, oratore e poeta, e morì vescovo di Lucera nel 1492, lasciando molte opere manoscritte. Egli aveva avuto occasione di parlare con alcuni tedeschi dai quali era stato inutilmente tentato l’esperimento della consacrazione.
Nel 1621 ricorda il lago portentoso di Norcia Paolo Merula, nella sua Cosmographia generalis: «Nel Piceno, di fianco al Monte Vittore, dalla parte che guarda a Oriente, è un lago nobilitato dalla fama detto Nursino. Dice il volgo ignorante che in esso nuotano i diavoli, e ciò perché quelle acque si vedono con perpetui moti salire e calare a vicenda, non senza grandissima ammirazione di coloro che ne ignoran la causa». Riferisce ancor egli, come l’Alberti, quanto aveva già detto il Razzano; ma non fa parola di Pilato. Sembra del resto che queste leggende norcine cominciassero allora, o poco dopo, a perdere della loro celebrità, perché non se ne trova cenno in una poesia che in vituperio di Norcia scrisse monsignor Francesco Maria di Montevecchio, andatovi per sua sciagura prefetto, e nemmeno nei due capitoli che a Pilato e a Norcia consacro il Marucelli, nel suo sterminato Mare magnum, che manoscritto si conserva in Firenze nella biblioteca da lui nominata. Quando la leggenda norcina di Pilato sia nata io non so, né vorrei affermare che qualche concorso di elementi e qualche suggestione non le sieno venuti d’oltr’alpe. Essa ha perduto ormai ogni celebrità, e appena ne rimane qualche vestigio tra il popolo di quella provincia[3]; e mentre il Monte di Pilato presso Lucerna è cognito a tutti, e attrae ogni anno migliaja e migliaja di visitatori, son ben pochi coloro che conoscano l’esistenza di un monte e di un lago di Pilato fra gli Apennini, nel cuore d’Italia.

Note
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[1] Domus Pilati, Palatium Pilati, anche casa di Crescenzio e casa di Cola di Rienzio. Era presso Ponte Rotto
[2] Massmann, Der Keiser und des boech oder die sogenannte Kaiserchronik, Quedlimburgo e Lipsia, 1849/1854, vol. III, pp. 573 sgg., 594 sgg.
[3] Così le immaginose e paurose leggende di altri tempi si vanno scoloranndo, attenuando e perdendo anche tra i volghi, e nelle piú recondite vallate, loro ultimo asilo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

FU SUPERSTIZIOSO IL BOCCACCIO?

I

Gustavo Körting, parlando, in un suo libro assai noto agli studiosi della letteratura italiana, del sapere del Boccaccio e di quello che si potrebbe chiamare l’indirizzo della mente di lui, notate alcune false opinioni e alcune irragionevoli credenze che si trovan qua e là ne’ suoi scritti, non dubita di affermare che, generalmente parlando, il Certaldese, per quanto s’appartiene alla superstizione e alla credenza nel meraviglioso, è, pressoché in tutto, un uomo de’ tempi suoi, mentre il Petrarca è anche per questo, come per altri rispetti, quasi un uomo dei tempi nostri[1].
Un sì fatto giudizio parrà, non solamente eccessivo, ma a dirittura falso a molti, che, leggendo più propriamente il Decamerone, avran creduto di riconoscere nell’autore di esso uno spirito disinvolto e spregiudicato, amabilmente scettico e beffardo, niente devoto della tradizione, poco rispettoso dell’autorità, aperto assai più alle impressioni della vita reale, di cui fu dipintore insuperato, che non ai sogni della leggenda e alle ubbie di una fede superstiziosa. Dire che il Boccaccio è, pressoché in tutto, un uomo de’ tempi suoi, quanto a credulità e gusto del meraviglioso, gli è come dire ch’egli sta quasi alla pari con Gervasio da Tilbury, con Cesario di Heisterbach, col troppo famoso Elinando. La conseguenza a cui si giunge è manifestamente mostruosa. Altri recarono del Boccaccio ben altro giudizio, un giudizio, se non iscevro di esagerazione, assai più giusto sotto ogni rispetto. Col Boccaccio il Settembrini fa principiare un’era nuova, il terrore cessato, cominciato il riso e lo scetticismo; col Boccaccio fa principiare un nuovo mondo il De Sanctis; vanto che non gli si potrebbe in nessun modo concedere se, in fatto di credulità e d’inclinazione al meraviglioso, egli fosse in tutto ancora, o quasi in tutto, un uomo del medio evo. Parlando del libro De montibus, fluminibus, ecc., il Landau riconosce che, quanto a spirito critico, il Boccaccio vince i suoi contemporanei; e l’Hortis, il più profondo conoscitore e l’illustrator più felice delle opere latine del Certaldese, giustamente osserva: «Il Boccaccio fu spesso accusato di ripetere di molte fole;... se non che sarebbe gran torto non avvertire che la massima parte delle favole deriva dagli antichi da lui copiati, e che il Boccaccio ripete bensì mille favole, ma per questo e’ non le crede. Quando scrive che agli antichi non osa contraddire e crede più a loro che agli occhi propri, e’ non va creduto sulla parola. Quando questi antichi narrano un che d’inverosimile, il Boccaccio li trascrive fedelmente, però vi aggiunge: ‘ma ciò non cred’io’, ‘ciò mi sembra impossibile’, ‘questa è a mio giudizio una favola’, oppure osserva arditamente: ‘codesto io lo stimo ridicolo!’».
Noi udiamo ora un tutt’altro linguaggio. Quale dei giudici ha ragione? L’argomento non è senza curiosità e senza importanza, e merita, parmi, che se ne discorra un poco.
Vediamo anzi tutto quali sono le prove su cui il Körting fonda la sua accusa. Eccole, nell’ordine stesso con cui egli le reca. Il Boccaccio credeva nei sogni; il Boccaccio credeva che i moribondi potessero esser fatti partecipi dello spirito profetico; il Boccaccio credeva nell’astrologia; il Boccaccio credeva che lo strabismo fosse indizio di anima perversa; il Boccaccio credeva che nelle evocazioni dei morti comparissero, non già questi, ma diavoli; il Boccaccio credeva che Enea fosse veramente sceso all’Inferno, e che Virgilio avesse costruito ogni specie d’ingegni magici. Qui c’è luogo a parecchie osservazioni. Anzi tutto giustizia vorrebbe che, enumerate le cose cui il Boccaccio erroneamente credeva, si ricordassero quelle cui molto saviamente il Boccaccio non dava fede, e quelle ancora di cui dubitava prudentemente. La lista loro riuscirebbe assai lunga a volerla fare compiuta. Così il Boccaccio non credeva (e il Körting stesso lo avverte) che certe subite infermità, e certe morti improvvise, avvenissero per opera del demonio, come era opinione dei meno sani (son sue parole); ma a tali fenomeni assegnava cause in tutto naturali. Il Boccaccio chiama a dirittura ridicola la credenza secondo cui la gramigna nascerebbe dal sangue dell’uomo. Il Boccaccio stima una favola ciò che di quell’arche sepolcrali ricordate da Dante, le quali presso ad Arles facevano il loco varo, dicevano quei del paese, cioè che fossero opera divina. Il Boccaccio non crede che il re Artù sia sopravvissuto alle sue ferite, e debba tornare, secondo l’opinione dei Brettoni; ma dice che morì e fu sepolto segretamente. E notisi che questa opinione, non al tutto spenta in Iscozia, nemmen oggi, fu tanto diffusa ed ebbe già tanta forza, che, secondo afferma uno scrittore spagnuolo, Filippo II, nel dar la mano a Maria d’Inghilterra, dovete far solenne giuramento di rinunziare al diritto acquistato sopra quel regno nel caso che il re Artù facesse ritorno. Il Boccaccio non diede fede alle cause mosse ai Templari, tra le quali non era ultima l’imputazione di magia. In nessun luogo delle sue opere il Boccaccio mostra d’aver creduto ai miracoli dell’alchimia. Parlando di Giuliano l’Apostata nel libro VII del De casibus virorum illustrium, fa pure ricordo della arti magiche esercitate dal quell’imperatore, secondo piace ad alcuni; ma non dice di credere egli ciò che quegli alcuni credevano. Parlando del lago d’Averno nel libro De montibus, silvis, ecc., dice dagli ignoranti essere stato anticamente creduto si potesse andare per esso ai regni infernali; ma non fa motto, né degli uccelli negri che, secondo San Pier Damiano e Vincenzo Bellovacense, vi aleggiavano intorno dal vespero del sabato all’alba del lunedì, e non erano se non anime dannate; né delle ingenti porte di bronzo, infrante da Cristo, che, a detta del veracissimo Gervasio da Tilbury, ci si vedevano in fondo. Discorrendo, nel già citato libro De montibus, delle fonti, ripete, gli è vero, parecchie favole spacciate già dagli, antichi; ma queste parecchie son pur poche in confronto di quelle infinite che si leggono in altri e molti consimili trattati del medio evo.
Oltre a ciò se il Boccaccio crede a certe cose, non per questo si deve sempre dargliene carico, o si deve dargliene solo con certa misura, avuto riguardo alla qualità delle credenze, o al modo tenuto dallo scrittore nel farle palesi, o anche alle condizioni generali del sapere e della coltura ai tempi suoi; e quelle che hanno più particolarmente carattere di errori scientifici non debbono dare argomento a taccia di superstizione, essendo l’errore scientifico e la superstizione due cose troppo diverse fra loro.
Se il Boccaccio crede che lo strabismo sia indizio di animo malvagio, noi non lo accuseremo per questo di partecipare ad un error popolare, dopoché si son veduti criminalisti e psichiatri riconoscere in questa e in molte altre deformità un indizio (non una prova certa) d’imperfezione morale e di predisposizione a delinquere; onde viene a trovar conferma l’antico adagio latino: cave a signatis.
Narrata nel libro II del De casibus la storia di Astiage, il Boccaccio soggiunge alcune considerazioni sui sogni e afferma, provandolo con altri esempii, che per essi l’uomo può avere cognizione dell’avvenire; ma attenua poi di molto egli stesso il valore delle sue parole, avvertendo che non sempre si vuole ai sogni dar fede. Un cristiano difficilmente poteva andar più in là, perché la veracità di certi sogni è solennemente attestata dalla Scrittura, e di sogni profetici sono piene le vite dei santi. Il Boccaccio non fu in ciò più credulo di Dante, del Petrarca, o di chi, come il Cardano, sulla interpretazione dei sogni scriveva ancora in pieno Rinascimento.
Quanto all’astrologia la questione è un po’ più complicata. Il Boccaccio non nega gli’influssi degli astri, ma dice che di questi influssi l’uomo non può aver cognizione, e così dicendo nega la scienza astrologica, e riconosce per vani e per illusorii i pronostici degli astrologi. Inoltre, sebbene in ciò qualche volta si contraddica, pure afferma che gli astri nulla possono sugli animi umani, e che la liberà dell’arbitrio non ne rimane in modo alcuno menomata. Anziché biasimo, noi dovremmo dar lode al Boccaccio d’aver tenuto una opinione così misurata e prudente in un tempo in cui la credenza comune dava agl’influssi celesti qualità d’irresistibili e di fatali, e un Cecco d’Ascoli (in ciò non primo né ultimo) assoggettava al corso degli astri la vita dello stesso Cristo, e i principi d’Italia e le stesse città libere tenevano ai loro stipendii astrologi, con gli avvertimenti de’ quali si governavano. In certo suo sonetto Cino da Pistoja pregava Cecco di scrutare ne’ cieli e di dirgli quali stelle egli s’avesse favorevoli e quali contrarie, soggiungendo:

E so da tal giudizio non s’appella.

La dottrina professata da Dante quanto agl’influssi celesti non è per nulla disforme da quella seguìta dal Boccaccio, e con questo si accorda anche Giovanni Villani, il quale, del rimanente, si mostra assai più proclive al meraviglioso e più credulo. Certo, il Petrarca mostrò maggiore risolutezza nel bandire la fallacia dell’astrologia e nel combattere gli astrologi; ma bisogna anche dire che le ragioni di cui egli si, giova sono assai più religiose che scientifiche. Del resto, quando pure il Boccaccio avesse avuto nell’astrologia assai più fede che veramente non ebbe, non sarebbe questo un buon argomento per aggravargli addosso l’accusa d’essere, troppo impigliato nella superstizione del medio evo, giacché l’astrologia fiorì assai più dopo il Rinascimento che non prima, ed è superstizione intimamente legata con l’umanesimo, come non poche altre rinovellate allora dall’antichità. Certo, nessuno vorrà accusare di tendenze e d’idee medievali uomini come il Pontano e il Campanella, e pure il Pontano e il Campanella furono partigiani convinti dell’astrologia. Il primo che l’abbia combattuta con altri argomenti che non sieno i religiosi e i morali, fu Pico della Mirandola.
Di alcune altre credenze superstiziose il Boccaccio non dev’essere troppo severamente ripreso, perché assai difficilmente si sarebbero potute allora, e assai difficilmente si potrebbero anche oggidì, staccare in tutto dalla credenza religiosa: così di quella che concerne le apparizioni degli spiriti maligni. Veggasi, in fatto di apparizioni, quali fanfaluche potesse spacciare in pieno Rinascimento un umanista come Alessandro Alessandri, in quella imitazione delle Notti attiche di Aulo Gellio da lui intitolata Dies geniales. Ma c’è ben altro da dire.
Da che libri deriva il Körting le prove della credulità e della superstizione del Boccaccio? L’abbiam veduto: dalla Genealogia degli Dei, dai Casi degli uomini illustri, dal Comento a Dante. Or che libri son questi? Son libri di conto per molti rispetti, libri su cui riposa in gran parte la riputazione del Boccaccio come umanista e come erudito, ma libri che hanno, quanto all’argomento di cui si discorre, sia lecito dirlo, un vizio comune e non piccolo, quello cioè di essere, in tutto o in parte, frutti piuttosto tardi dell’ingegno dello scrittore, di appartenere più o meno all’età decadente di lui. La Genealogia degli Dei, sebbene cominciata negli anni giovanili, non uscì dalle mani del suo autore prima del 1373, due soli anni innanzi alla morte. La interpretazione naturale che in questo suo trattato il Boccaccio dà di molti miti dell’antichità classica fa testimonio di una mente tutt’altro che inviluppata negli abiti intellettuali del medio evo, e può ancora porgere occasione di meraviglia a noi, tanto più addentro di lui nei misteri della mitologia; ma nessuno è in grado di dire che cosa, nel corso del lungo lavoro, egli abbia aggiunto o tolto all’opera sua. Così ancora non prima di quello stesso anno 1373 uscì in pubblico il libro dei Casi degli uomini illustri. Quanto al Comento, esso fu in quell’anno medesimo cominciato, e il Boccaccio, soprappreso da gravissima infermità, e poi dalla morte, non poté condurlo a termine. Il libro dei Casi dunque, il Comento, e, in parte almeno, anche la Genealogia, sono opere senili del Boccaccio, e questa loro qualità dà più che sufficiente ragione di certi caratteri e di certe tendenze che si notano in esse.
La vecchiezza, tutti lo sanno, è assai più inclinata alla superstizione che non la gioventù. Il sentimento della decadenza crescente, la preoccupazione angustiosa di una prossima fine, il sospetto d’insidie celate e di subiti danni, a cui non può fare più schermo L’affievolita natura, lo sfiacchimento della mente, che di signora ridiventa serva, lo stesso arcano della morte che come più incombe più riempie l’animo di meraviglia paurosa, dispongono e quasi forzano a una inclinazione così fatta. Nel detto: aniles fabulae, non è senza grande ragion quell’epiteto. Ed è noto ancora come risorgano irresistibili nel vecchio i sogni e le ubbie onde fu malamente nutrita la mente del fanciullo.
Il Boccaccio ebbe anticipata vecchiezza. I primi segni di scadimento fisico erano già apparsi, quando, a provocare ne’ pensieri e nella vita di lui un totale rivolgimento, ecco capitargli addosso il certosino Gioachino Ciani con quella diavoleria delle visioni e delle minacce del santo frate Pietro de’ Petroni. Io non ho bisogno di ripetere questa storia notissima, alla quale, non so perché, si vuole da taluno scemare importanza. Quanto il Boccaccio ne rimanesse sbigottito, e come, ravveduto, si proponesse di fare ammenda de’ suoi trascorsi, è noto del pari. Egli rinnegò i frutti migliori del suo ingegno; egli detestò l’opera maggiore, per cui il nome suo vive e vivrà perpetuo nella memoria degli uomini; e ci volle tutta l’autorità del Petrarca per impedirgli di vendere i libri con tanto amore e con tante fatiche raccolti, rinunziare a ogni studio, darsi all’anima interamente. L’infelice avvenimento non ringiovanì certo il Boccaccio, anzi confermò in lui la già sopravvenuta vecchiezza. E che questa vecchiezza non fosse nemmen prima solamente fisica, ma dovesse, in parte, essere anche morale, lo prova il fatto stesso; giacché il Boccaccio, grandissimo beffatore di frati, e canzonatore di loro miracoli, si sarebbe dato assai poco pensiero dei sogni di fra Pietro e delle prediche di fra Gioachino, se fosse durata in lui la giovanile baldanza e vivezza del pensiero, l’antico vigore della ragione, e la secura indipendenza del giudizio. Dicono che irreligioso e miscredente il Boccaccio non sia mai stato, e ne recano le prove. Io non lo nego; sebbene si vorrebbe vedere quanto le prove valgano, e quanto addentro ci mettano nella coscienza del nostro autore: ad ogni modo gli è certo che la fede non gli diede mai briga soverchia negli anni della gioventù e della virilità più rigogliosa.
La visita di fra Gioachino dovette produrre un doppio effetto nell’animo del Boccaccio; rinfocolarvi la fede non ben calda, ed eccitarvi il senso del meraviglioso rimasto insino allora sopito. Dando fede al racconto mirabile del frate, il Boccaccio veniva a mettere il piede sopra la via maestra della superstizione e della credulità, via sulla quale un passo tira l’altro, e ad ogni passo si perde un tanto di spirito critico e di libertà di giudizio. Se, per esempio, egli credeva alla veracità dei sogni, questa sua credenza doveva farsi più certa che mai. Se aveva opinione che i moribondi vedessero le cose avvenire, questa opinione doveva levarsi in lui al disopra di ogni dubbio. Pentito d’avere speso le forze dell’ingegno in opere che ora gli pajono riprovevoli, il Boccaccio rifugge dal libero esercizio del suo pensiero, e si dà a lavori di compilazione e di erudizione, nei quali la sua mente è come infrenata dal soggetto, si fa recettiva delle opinioni altrui, e perde a poco a poco l’abito e il gusto della critica. La condizione di spirito, in cui egli per tal modo si ridusse, ebbe necessariamente ad aggravarsi quando l’infermità prese a travagliare l’organismo già affaticato. Nella state del 1372, o in quel torno, il Boccaccio poté credersi in fin di vita. Nella lettera che scrisse allora all’amicissimo suo Maghinardo de’ Cavalcanti, lettera tutta inspirata a sensi di profondo sconforto, egli, detto de’ mali fisici che lo affliggevano, non tace i morali: avversione per lo studio, odio pei libri, indebolimento delle facoltà mentali, perdita della memoria. Il pensare gli si era fatto difficile, e tutti i suoi pensieri erano rivolti alla morte e al sepolcro. In quel tempo appunto egli adoperava lo stremo delle sue forze intorno al laborioso Comento: non doveva lo studio del poema sacro, la cui azione si svolge tutta nei regni del soprannaturale, inclinar più sempre l’animo angosciato del comentatore verso il meraviglioso, ottundere in esso il senso del reale, farlo vago di quanto trascende l’esperienza, o vince la ragione? Nel Comento, più che in altra scrittura del Boccaccio, occorrono frequenti segni di credenza superstiziosa; ma e’ non poteva essere diversamente. Noi non dobbiamo già meravigliarci e scandalizzarci di alcune non gravi superstizioni penetrate negli scritti senili del novellatore pentito e turbato; bensì dobbiamo meravigliarci che il numero loro non sia molto maggiore, e molto più trista la lor qualità. Ma perché giudicare superstizioso il Boccaccio sulla testimonianza de’ suoi scritti senili? Perché, ravvisato, o creduto ravvisare certo aspetto del vecchio, dire: tale fu l’uomo? Perché non cercare piuttosto i documenti del suo pensiero e della sua credenza nelle opere da lui composte nel tempo migliore? Perché non rintracciarle, sopra tutto, in quell’immortale Decamerone, in cui il poeta mi se la miglior parte di sé, e che in ogni sua pagina attesta il vigore degli anni e dell’intelletto? Ponetevi a questo studio, e vedete come si giunga a tutt’altra conclusione e a tutt’altro giudizio.

II

Io non dirò col De Sanctis che il Decamerone sia una catastrofe, o una rivoluzione, che da un dì all’altro ti presenta il mondo mutato. Non lo dirò, perché non credo a queste catastrofi letterarie più che dagli scienziati non si creda alle catastrofi geologiche; perché ho ferma fede che la legge di evoluzione, la quale governa le cose tutte che vivono, e quelle ancora che non vivono, non patisce eccezione; perché ho per sicuro che se un libro può molto nel rifare uomini e cose, il mondo è già profondamente mutato quando appare il libro che porge, come dipinta in un quadro, la mutazione. Quando si dice fonti del Decamerone, s’intende parlare dei luoghi d’onde provengono, per via più o meno lunga, i temi delle novelle raccontate nel libro; ma nel libro non ci sono le novelle soltanto; ci è anche un complesso d’idee, di sentimenti e di giudizii, un modo di considerar la vita, un indirizzo generale di mente, che pajono essere in tutto il fatto dell’autore, e che fatto suo non sono se non in parte. Anche di queste cose ci sono le fonti; ma non è così agevole dire quali e dove sieno, come non è agevole indicare la fonte di un fiume che nasca d’infiniti rivoli, di scaturigini sparse e recondite. Le fonti sono nel pensiero, ancora malamente determinato, di una età tutta intera; il che è tanto vero, che quando poi il libro è nato, nel quale un nuovo pensiero si affaccia in forme vigorose e scolpite, gli uomini di quella età lo riconoscono per cosa loro e si compiacciono in esso. Dico ciò perché non voglio presentare il Boccaccio come un eroe del libero e spregiudicato pensare, nato di sovrumani connubii, e perché, con affermare che il suo modo di sentire e di giudicare ha pur le sue ragioni nel pensiero de’ tempi, non credo di fargli maggior torto di quello si faccia a un bell’albero rigoglioso con dire che esso si nutre degli elementi della terra in cui figge le radici, e degli elementi dell’aria in cui distende i rami e le foglie. Del resto, io non ho qui a parlare del Decamerone in quanto ha significazione storica generale, ma ho da parlarne solo in quanto porge documento dell’animo del suo autore rispetto alla credenza superstiziosa. E il documento, a mio credere, non potrebbe essere né più esplicito, né più favorevole.
Incominciamo dalla Introduzione.
Nella Introduzione, com’è noto, il Boccaccio descrive la spaventosa peste del 1348, uno dei più tremendi flagelli che la storia umana ricordi, perché si calcola che nel giro che fece per l’Europa uccidesse non meno di 25.000.000 di persone. Quale occasione migliore di questa per lasciarsi trascinare dalla fantasia e dare un tonfo nel meraviglioso e nel soprannaturale più sformato? Ma mentre qua e là per l’Europa le menti eccitate dalla paura si smarrivano in mille strane immaginazioni, sino a credere la moria opera dei demonii, il Boccaccio, serbando la serenità del giudizio, non dice altro, se non che essa sopravvenne per operazion de’ corpi superiori, o per l’ira di Dio, a correzion della iniquità umana. Qui, senza dubbio, la superstizione fa capolino; ma il poco che se ne mostra è proprio un nulla in confronto di ciò che hassi altrove; e toccato appena delle cause, il Boccaccio passa a fare quella magistral descrizione degli effetti fisici e morali del morbo, la quale tutti conoscono, e che rivela qualità di osservatore eminenti. In certo luogo accenna a diverse paure ed immaginazioni che nascevano negli animi conturbati, ma non dice quali fossero. Nel Comento invece ne ricorda una con le seguenti parole: «E se io ho il vero inteso, perciocché in quei tempi io non ci era, io odo, che in questa città (Firenze) avvenne a molti nell’anno pestifero del MCCCXLVIII, che essendo soprappresi gli uomini dalla peste, e vicini alla morte, ne furon più e più, li quali de’ loro amici, chi uno e chi due, e chi più ne chiamo, dicendo: vienne tale e tale; de’ quali chiamati e nominati, assai, secondo l’ordine tenuto dal chiamatore, s’eran morti, e andatine appresso al chiamatore». Il Comento fu scritto vent’anni dopo l’Introduzione e il Boccaccio, pur lasciandosi andare a raccontare il miracolo, non nasconde un certo dubbio che gli si leva nell’animo. Vent’anni innanzi egli non lo aveva creduto meritevole di ricordo; e in fatto, come avrebbe potuto pensare altrimente chi, accingendosi a narrare cosa tutt’altro che soprannaturale ed incredibile, qual è quella dell’appiccarsi del contagio agli animali, non pare che sappia scusarsi abbastanza, ed esce in queste precise parole che si leggono nella Introduzione: «Maravigliosa cosa è ad udire quello che io debbo dire: il che, se dagli occhi di molti e da’ miei non fosse stato veduto, appena che io ardissi di crederlo, non che di scriverlo, quantunque da fede degno udito l’avessi»? Certo, chi andava così peritoso in riferir cosa, insolita, se vuolsi, ma al tutto naturale, non doveva essere troppo disposto a raccoglier leggende e a dar loro lo spaccio.
La novella 1ª della I giornata ha per noi molta importanza. In essa il Boccaccio racconta assai piacevolmente la storia di quel Ser Ciappelletto, che avendone fatte d’ogni risma in vita, muore, in virtù di una falsa confessione, in concetto di santità, e, dopo morto, fa miracoli e dispensa grazie ai suoi molti e creduli devoti. In più altre novelle il Boccaccio si fa beffe della santità bugiarda; ma in questa egli va più oltre, e se non deride a dirittura, mette in mala vista, senza voler parere, e con l’usato suo accorgimento, il culto smodato dei santi, e le pratiche ond’esso e occasione al volgo, pratiche in cui poco o nulla è che s’innalzi sopra la superstizione più grossolana, e biasimate assai volte dagli uomini di fede più illuminata. Nelle letterature del medio evo non mancano altri esempii e documenti di satira contro sì fatto culto. La storia di San Nessuno, contemporaneo di Dio padre, e in essenza consimile al figlio, è un’ardita e abbastanza gustosa parodia di quelle prediche fratesche, in cui si celebravano le virtù e i miracoli dei santi patroni. Nella letteratura francese abbiamo Saint Tortu e Saint Harenc, e nell’italiana San Buono. Santa Nafissa, di cui parla il Caro, e narra l’opere benedette l’Aretino in uno de’ suoi ragionamenti, appartiene al Rinascimento. Ma la novella del Boccaccio tende a scalzare le basi stesse del culto dei santi. Se un solenne gaglioffo può, con una semplicissima gherminella, farsi credere santo, chi ci assicura che molti santi del calendario, onorati in sugli altari, non sieno stati gaglioffi? L’ultima, più solenne e più irrecusabile prova: della santità, il miracolo, diventa ingannevole anch’essa, se sul sepolcro d’uno scelerato possono avvenire quegli stessi prodigi che sui sepolcri dei santi uomini. «E se così è» nota il Boccaccio con fine ironia «grandissima si può la benignità di Dio cognoscere verso noi, la quale, non al nostro errore, ma alla purità della fede riguardando, così facendo noi nostro mezzano un suo nemico, amico credendolo, ci esaudisce, come se ad uno veramente santo, per mezzano della sua grazia, ricorressimo ». Dunque indifferente la qualità del mezzano; dunque inutile il mezzano stesso, se a muovere la grazia di Dio il buon animo basta, in qualunque modo esso si dia a conoscere; dunque biasimevole questo ricorrere sempre a mezzani di dubbia fede e di credito incerto, quando la misericordia di Dio ha si gran braccia che, senza bisogno di sollecitazione o di ajuto,

Accoglie ciò che si rivolve a lei;

dunque assurda, antireligiosa, ridicola quella distribuzione e division di lavoro fatta tra i santi, con attribuire a ciascuno una particolare cognizione degli umani bisogni, una giurisdizion propria e una personal competenza in fatto di grazie e di miracoli. Le ragioni che, nel medio evo, fecero sorgere e dilatare oltre misura il culto dei santi, in guisa da torre di grado quasi la intera Trinità, con alterazione profonda della idea cristiana, son note anche troppo. Si badi che io intendo parlare più particolarmente della forma che quel culto assunse tra le plebi mezzo barbare. La principale e la più increscevole la porse il desiderio, naturale del resto in animi grossolani, di conseguire con l’ajuto di patroni potenti, senza merito proprio, senza interna dignificazione, senza operosa volontà del bene, benefizii che invano si sarebbero chiesti alla severa ed incorruttibile giustizia di Dio. Il culto dei santi si risolve in una vera e propria clientela, nella quale il devoto è tenuto a prestare certe servitù, e il santo accorda in ricambio protezione ed ajuto. Ognuno può eleggersi il suo particolare patrono, e non v’è così grande scelerato che non possa sperare mercè sua di salvarsi. Per tal modo l’opera del patrono potrà spesso esercitarsi, non solo intempestivamente, ma ancora in aperta contraddizione con la giustizia, colmando di favori chi manco n’è degno. In più di una leggenda si vede la Vergine riscattare dalla morte o dall’Inferno chi, dimentico di ogni legge divina ed umana, non serbò in fondo all’animo efferato altro sentimento irriprovevole che una sterile devozione al nome di lei. In altre si vedono i santi strappare a viva forza dagli artigli dei diavoli le anime dei loro devoti, le quali, non senza giusto decreto del supremo giudice, erano dannate agli eterni castighi. Il culto dei santi, inteso a quel modo, è una grande superstizione cresciuta dentro e sopra al cristianesimo, e noi abbiamo buon argomento per dire che a questa superstizione non partecipo il Boccaccio.
A questo medesimo argomento appartiene il culto delle reliquie, e che cosa pensasse di questo culto il Boccaccio si rileva dalla novella 10ª della giornata VI, dove, con vena comica impareggiabile, è narrata la storia di frate Cipolla. A quale e quanta superstizione di credenze e di pratiche, a quale esercizio d’impostura desse occasione nel medio evo il culto delle reliquie, è noto abbastanza. I leggendarii, le cronache claustrali, le memorie di chiese infinite, son piene dei documenti di questa triste istoria. Il sentimento che si ritrova in fondo a un culto sì fatto contraddice nel modo più risoluto ai principii essenziali di quella religione dello spirito che è, o avrebbe dovuto essere il cristianesimo. Riappare in esso, mal dissimulato, un feticismo stolto, antica e grossa religione degli uomini, riappare la credenza nella magia. La reliquia è un amuleto o un talismano, il quale, secondo la varietà dei casi, preserva dai morbi, guarda dalla folgore, difende dai ladri, partecipa alle armi vittoriosa efficacia, lega i demonii, assecura contro i perigli del mare, e in mille e mille altri modi protegge, ajuta, salva chi ne è in possesso, e ciò per una sua propria connaturata virtù, la quale può esercitarsi anche se il possessore sia in tutto fuori della grazia di Dio. Così ne’ vecchi poemi epici francesi si veggono i maledetti Saracini porre ogni opera a procacciarsi le reliquie tenute più care dai cristiani, e, avutele, giovarsene contro di questi, in onta a Cristo. Informe e sconcia superstizione, a più potere favorita e rinforzata dai frati, che si fecero mercanti di vere o false reliquie, moltiplicarono le più celebrate, le più stravaganti inventarono, e spesso con l’ajuto loro procacciarono ai proprii conventi assai più riputazione di quello avrebbero potuto fare dando esempio altrui di vita santa e veramente cristiana. Invecchiato, il Boccaccio cedette ancor egli alla universal frenesia, e si diede a raccoglier reliquie: da giovane egli certamente, derise la superstiziosa credenza, e la sua novella lo prova.
Frate Cipolla, ignorantissimo, ma facile parlatore, e piacevol compare, andava ogni anno in Valdelsa, come usano questi frati, a ricogliere le limosine fatte loro dagli sciocchi. A promuovere la carità, un po’ infingarda, di que’ buoni terrazzani, egli, una volta, promette di far vedere loro una stupenda reliquia, da lui riportata d’Oriente, una penna dell’angelo Gabriele, rimasta nella camera di Maria, quando l’angelo venne a farle l’annunzio divino. Questa è satira mordace, che va più direttamente a colpire certe reliquie non meno solenni che strane, le quali si veneravano qua e là nelle maggiori chiese di Europa, come il latte della Vergine, o la lacrima versata da Gesù sopra il corpo di San Lazzaro, o un pezzo della carne arrostita di San Lorenzo, o proprio penne dell’arcangelo Gabriele e dell’arcangelo Michele. E non è se non il principio; perché, trovati, per la beffa ordinata da due giovani sollazzevoli, carboni spenti nella cassetta ove aveva riposta la penna dell’angelo, la quale non era se non una penna di pappagallo, il frate, senza smarrirsi, entra in uno spropositatissimo racconto dei viaggi da lui fatti per mezzo mondo, e ricorda le reliquie da lui vedute in Gerusalemme, le quali erano: il dito dello Spirito Santo, così intero e saldo come fu mai; et il ciuffetto del Serafino che apparve a San Francesco; et una dell’unghie de’ Cherubini; e de’ vestimenti della Santa Fè cattolica; et alquanti de’ raggi della Stella che apparve a’ tre Magi in Oriente; et una ampolla del sudore di San Michele, quando combatté col diavolo; e la mascella della morte di San Lazzaro et altre. Poi ricorda come nella stessa città di Gerusalemme avesse in dono da quel santo patriarca uno de’ denti della Santa Croce, et in una ampolletta alquanto del suono delle campane del tempio di Salomone, e la penna dello Agnolo Gabriello, e altro ancora. In Firenze ebbe poi di quei carboni onde fu arrostito San Lorenzo, e son quegli appunto ch’egli ha nella cassetta.
Che in parecchie novelle del Decamerone, come nella 2ª della giornata II, nella 1ª della giornata VII, si parla con molta irriverenza di certe orazioni e della loro efficacia, basta qui ricordar di passaggio; è tale irriverenza e, non già in ciò che di esse dicono i personaggi introdotti nella novella, ma nella intenzione che l’autor lascia scorgere, nel riso con cui egli manifestamente accompagna, e vuole sieno accolte dai lettori, le parole dei superstiziosi e dei creduli. Togliere argomento di riso e di beffa dalle sciocche credenze del volgo è solo proprio di chi non partecipa a quelle credenze. Parlando di frate Puccio nella novella 4ª della giornata III, il Boccaccio dice «E per ciò che uomo idiota era e di grossa pasta, diceva suoi paternostri, andava alle prediche, stava alle messe, ne mai falliva che alle laude che cantavano i secolari esso non fosse, e digiunava e disciplinavasi, e bucinavasi che egli era degli scopatori». Qui non le orazioni soltanto, ma tutte quasi le pratiche di devozione son giudicate cose da uomini idioti e di grossa pasta, non altrimenti da quanto fecero poi più tardi, nel Cinquecento, molti umanisti. Una stolta penitenza, ma non più stolta di molte inventate dal superstizioso ascetismo, dà occasione a quanto poi nella novella si viene narrando, e s’intreccia nel modo più comico, ma più profano ancora, coi fatti tutt’altro che ascetici ond’essa è pel rimanente intessuta.
Che una mente quale si è quella che il Boccaccio addimostra in queste novelle non dovesse essere troppo inclina a credere ai miracoli s’intende facilmente; e sta il fatto che in tutto il libro non se ne trova uno solo che sia narrato da senno, ma sempre sono burle e ciurmerie, e non se ne cava se non argomento di riso. Nella novella 1ª della giornata II abbiamo un facchino tedesco, alla cui morte in Treviso, sonarono, secondo che i Trivigiani affermano, tutte le campane della chiesa maggiore, senza che nessun le toccasse. «Il che in luogo di miracolo avendo, questo Arrigo esser santo dicevano tutti; e concorso tutto il popolo della città alla casa nella quale il suo corpo giaceva, quello a guisa d’un corpo santo, nella chiesa maggiore ne portarono, menando quivi zoppi, et attratti, e ciechi, et altri di qualunque infermità o difetto impediti, quasi tutti dovessero dal toccamento di questo corpo divenir sani». Un Martellino, buffone, si finge attratto e mostra di guarire sul corpo del santo. Scoperto l’inganno, il popolo fanatico gli è addosso, e lo concia pel dì delle feste. Dato in mano al giudice, il malcapitato corre pericolo della forca, finché il signore della; città, udita la cosa, e fattene grandissima risa, ne lo manda sano e salvo, col dono di una roba per giunta. E il buon Sant’Arrigo si riman con le beffe. Un altro bel miracolo si ha nella novella 2ª della giornata IV, dove frate Alberto si trasforma nell’angelo Gabriele, con quel che segue. Come lo sciocco Ferondo si muoja, vada in purgatorio, e risusciti per le preghiere del santo abate, si può vedere nella novella 8ª della giornata IV, dove non solamente, a parer mio, si deridono le risurrezioni, ma ancora quei fantastici viaggi nel mondo di là, che con tanta frequenza occorrono nella letteratura leggendaria del medio evo. Ferondo, domandato di molte cose, «a tutti rispondeva e diceva loro novelle dell’anime de’ parenti loro, e faceva da sé medesimo le più belle favole del mondo de’ fatti del purgatorio, et in pien popolo raccontò la revelazione statagli fatta per la bocca del l'agnolo Braghiello».
Dalla considerazione delle cose che precedono mi pare si possa ricavare il seguente giudizio. Il Boccaccio, quando componeva il Decamerone, non sarà stato un miscredente, ma certo non era un credenzone. Nulla prova che egli negasse i dogmi fondamentali della fede cristiana; ma tutto mostra che, di fronte a certe pratiche religiose, di fronte al miracolo e alle credenze volgari, egli assumeva un contegno risolutamente scettico e beffardo. Il Boccaccio non era accessibile allora a nessuna forma di superstizione religiosa, e sotto questo aspetto, sarebbe grande ingiustizia, non solo il dire che egli si manteneva tuttavia, come il Körting dice, al basso livello del medio evo, ma il non riconoscere che sopra quel livello si levava di molto.

III

Oltre le superstizioni di carattere più particolarmente religioso, molte ve ne sono, le quali con la credenza religiosa o non han che vedere, hanno solamente una qualche attinenza lontana. E anche per queste si possono trovare nel Decamerone i documenti del pensiero del Boccaccio.
Anzi tutto si vuole avvertire novamente che certe opinioni, sebbene contrarie a verità, non vogliono reputarsi superstiziose, fondandosi esse sopra semplici errori di fatto. Nella novella 7ª della giornata IV si narra come Pasquino e la Simona morissero dopo essersi fregata ai denti una foglia di salvia, e come dell’esser divenuta velenosa la salvia fosse cagione una botta, o specie di rospo, che trovandosi nel cesto della pianta l’aveva col fiato attossicata. Che il rospo fosse velenoso fu credenza comune nel medio evo, derivata dagli antichi. Alessandro Neckam, nel suo libro De naturis rerum, Corrado di Megenberg, nel suo Buch der Natur, ed altri, dicono che il rospo mangia volentieri la salvia, e comunica spesso il suo veleno alle radici di essa. Checchessia di ciò, al rospo, oltre a parecchie qualità naturali abbastanza strane, non poche se ne attribuivano soprannaturali e diaboliche. Cesario di Heisterbach racconta la meravigliosa storia di un rospo, che ucciso più volte, bruciato e ridotto in cenere, perseguitò senza requie il suo uccisore, finché poté morderlo e vendicarsi. Nelle pratiche di magia il rospo figura continuamente. Il Boccaccio nella sua novella non accenna se non ad una proprietà naturale. Che il Boccaccio credesse nei sogni fu già avvertito di sopra, ed è provato ancora dalle novelle 5ª e 6ª della giornata IV, e 7ª della giornata IX. Di questa credenza, la quale non appartiene ad ogni modo alla superstizione più grossolana, non voglio scusarlo; ma è da notare per altro che egli non la séguita senza recarvi qualche restrizione. Cominciando a narrare la novella dell’Andreuola e di Gabriotto, Pamfilo, che esprime qui evidentemente la opinione dell’autore, dice: «... molti a ciascun sogno tanta fede prestano, quanta presterieno a quelle cose che vegghiando vedessero; e per li lor sogni stessi s’attristano e s’allegrano, secondo che per quegli o temono o sperano. Et in contrario son di quelli che niuno ne credono, se non poi che nel premostrato pericolo caduti si veggono. De’ quali né l’uno né l’altro commendo, per ciò che né sempre son veri, né ogni volta falsi».
Tra le molte credenze superstiziose del medio evo una delle più diffuse e delle più irrazionali fu quella che attribuiva alle pietre preziose svariate virtù soprannaturali. Basta leggere il Liber lapidum che va sotto il nome di Marbodo, vescovo di Rennes (morto nel 1123) e gl’innumerevoli Lapidarii che ne derivano, per vedere a quali stranezze quella credenza, ereditata del resto in massima parte dagli antichi, potesse giungere. C’erano pietre che rendevano invulnerabili, pietre che assicuravano la vittoria, pietre che componevano le discordie, pietre che davano la sanità, pietre che fugavano i diavoli, pietre che mettevano in grazia di Dio.
Gli è certo cosa strana, e tale da poter offrire argomento a più di una considerazione, il vedere come nella opinione dei superstiziosi le pietre potessero, per virtù propria, operare moltissimi di quegli effetti mirabili a cui le reliquie dei santi erano atte solo per una specie di partecipazione di grazia divina. Che il Boccaccio non prestasse fede alcuna a quelle fole, tuttoché confermate dall’autorità di scrittori di molta riputazione, come Isidoro di Siviglia, Alessandro Neckam, Alberto Magno, Vincenzo Bellovacense, ed altri in gran numero, si può sicuramente argomentare dalla novella 3ª della giornata III. Notisi che quelle fole sono riportate per intiero nel Poema dell’Intelligenza, e dal Sacchetti in suo trattatello Delle proprietà e virtù delle pietre preziose; e nel Novellino si racconta molto seriamente come il Prete Gianni mandasse a donare all’imperatore Federico II tre preziosissime gemme, delle quali l’una aveva questa virtù, che rendeva invisibile chi se la recava in pugno. Alle virtù delle pietre Marsilio Ficino credeva ancora, e così pure Gianbattista Porta e Simone Majolo. Nella novella del Decamerone testè citata si tratta appunto di una pietra che ha virtù di rendere invisibile, l’elitropia, alla quale Marbodo attribuisce, oltre a questa, parecchie altre qualità mirabili, come di dare spirito profetico e buona reputazione, assicurare l’incolumità, ecc. L’eroe della novella del Boccaccio è quel Calandrino, che anche altrove, nel Decamerone, fa così bella figura, e il cui nome è passato in proverbio. Che certe fanfaluche si mettano appunto in istretta relazione con la insuperabile sciocchezza di lui, è già buono argomento a giudicare del concetto in cui quelle fanfaluche si hanno dall’autore. Udendo l’astuto Maso, che vuole burlarsi di lui, parlare delle virtù delle pietre preziose, Calandrino domanda ove tali pietre si trovino, e Maso risponde «che le più si trovavano in Berlinzone, terra de’ Baschi, in una contrada che si chiamava Bengodi, nella quale si legano le vigne con le salsiccie, et avevasi un’oca a denajo et un papero giunta, ecc.». Richiesto da Calandrino, se di quelle pietre non si trovino anche là, presso a Firenze, Maso risponde che sì; essercene due di grandissima virtù, i macigni da Settignano e da Montisci, di cui si fanno le macine da molino, e l’elitropia, che rende l’uomo invisibile. Vago di trovare tal pietra, Calandrino, con gli altri due famosi burloni Bruno e Buffalmacco, ne va in cerca nel letto del torrente Mugnone, e ci fa quell’acquisto che nella novella si può vedere e che qui non accade ripetere. Non poteva il Boccaccio schermire più saporitamente la sciocca credenza; né si obbietti che nel Filocopo egli parla di certo anello dotato di virtù miracolose, perché ei non ne parla se non per maniera di finzione romanzesca, e senza credervi più di quello credesse l’Ariosto all’Ippogrifo.
Un’altra superstizione assai diffusa nel medio evo fu quella delle malie amorose, e contro questa direi che il Boccaccio dovesse avere un’avversione particolare. Il Boccaccio conosce troppo bene il cuore umano, e nella cognizione di quella che si potrebbe dire storia naturale dell’amore non v’è chi gli vada innanzi. Egli sa come l’affetto nasca spontaneo o provocato, come cresca e si nutra, ov’abbia le radici, a quali vicende soggiaccia, come venga meno e si spenga. Egli ha dell’amore un concetto talmente naturalistico che nessuna credenza superstiziosa vi si potrebbe appiccicare. Miracoli d’amore egli non conosce se non dovuti a gioventù, a bellezza, a gentilezza d’animo, a naturale concupiscenza: son queste le vere malie a cui si deve ogni amoroso affetto. A che pro i filtri se la seduzione può trionfare di ogni animo più restio? Non v’è incantamento che possa aver più forza d’uno sguardo, di una paroletta, di un riso. Di un’amorosa malia si discorre nella novella 5ª della giornata IX; se non che, a farci intendere sin dalla bella prima quale sia la disposizione d’animo dell’autore, ecco anche qui farcisi incontro il buon Calandrino, il nuovo uccello, a cui non è fandonia che non si possa dare ad intendere. Calandrino, pazzamente invaghito di una femmina di mal affare, ricorre per ajuto a Bruno, il quale fa di carta non nata un certo suo breve magico e dà a credere all’innamorato che, tocca con esso la donna, questa non potrà fare che non lo segua dove più a lui piacerà di condurla. Il povero Calandrino, secondo il solito, paga le pene della sua credulità, uscendo dall’avventura tutto pesto e graffiato. Altre più gravi e complicate malie s’hanno nella novella 7ª della giornata VIII, ma non per altro fine che per servire ad un fiero inganno e ad un’atroce vendetta. Cagione del tutto anche qui una sciocca credulità. La Elena è abbandonata dall’amante suo, e non può darsene pace; la fante «non trovando modo da levar la sua donna dal dolor preso... entrò in uno sciocco pensiero, e ciò fu che l’amante della donna sua ad amarla come far solea si dovesse poter riducere per alcuna nigromantica operazione».
Che cosa, del resto, il Boccaccio sentisse degl’incanti, degli affatturamenti, della tregenda e dall’arti magiche in genere, si scorge chiaro dalle novelle 3ª e 9ª della giornata VII, 6ª e 9ª della giornata VIII, 10ª della giornata IX. In quest’ultima è assai piacevolmente messa in canzone la credenza che, per arte magica, gli uomini si possano mutare in bruti, e in tutte l’altre i pretesi incantamenti non servono se non a dar materia di beffa e di riso. Nella novella 9ª della giornata VIII è nominato il famoso negromante Michele Scotto, di cui è memoria in tante scritture di quella età; ma non per altro è nominato che per burlarsi di quel pover uomo di maestro Simone.
Si potrebbe obbiettare che nelle novelle 5ª e 9ª della giornata X il Boccaccio racconta di prodigi operati per arte magica come di cose veramente accadute. Nella prima narra di un fiorente giardino fatto sorgere di pien gennajo da un negromante, storia narrata anche di Alberto Magno e di molti altri presunti incantantori; nella seconda, ch’è la notissima storia di messer Torello e del Saladino, si racconta del buon cavaliere cristiano, come per arte magica, in una notte, fu trasportato sur un letto da Alessandria d’Egitto a Pavia. Ma queste due novelle, tanto provano che il Boccaccio avesse fede nella magia, quanto che l’avesse il Goethe può provare il Fausto. Qui abbiamo due temi di racconto assai diffusi nel medio evo e che il Boccaccio accoglie nel Decamerone, non perché li creda veri, ma perché li conosce assai vaghi, e tali da poterne con l’arte sua far ottimo uso. Accolti, s’egli vuole che ne segua l’effetto, bisogna non tocchi alla loro menzogna; e in fatto egli si guarda, contro l’usanza sua che per più esempii abbian potuto vedere in altre novelle qual sia, di dir pure una parola che lo mostri incredulo, o volga in beffa la credenza altrui. Così facendo egli segue un supremo precetto d’arte, non già la sua propria opinione, la quale è sin troppo chiarita da tutte le altre testimonianze che siam venuti notando. Il parlare seriamente di una cosa non può essere indizio di fede, quando c’entrino le ragioni dell’arte e della storia, mentre è prova certa d’incredulità il parlarne con ironia o con riso.
Questa considerazione vale anche per ciò che mi rimane a dire delle apparizioni e dei fantasmi.
Nella novella 3ª della giornata V si narra di quella bellissima e formidabile apparizione veduta da un giovine di Ravenna nella pineta di Chiassi, quando s’incontrò in una donna ignuda che fuggiva, inseguita da due grandi mastini e da un cavaliere bruno montato sopra un cavallo nero. L’apparizione è qui data per reale, e quella donna e quel cavaliere per vere anime dannate in atto di esercitare esse stesse il castigo loro imposto. Il Boccaccio tolse la storia della apparizione da Elinando, o dal Passavanti, ma l’innesto in un racconto tutto naturale ed umano, e, per giunta, la fece servire ad un fine cui certo non avevan pensato coloro che la narrarono primi. Alle mani del Boccaccio l’apparizione diventa una macchina di racconto romanzesco. Nella novella 10ª della giornata VII un giovane popolano, stato gran tempo amante di una sua comare, muore, e dopo qualche giorno, apparisce, secondo certo accordo fatto, ad un suo amico, per dargli nuove dell’altro mondo e per dirgli, che cosa? che di là non si tiene conto alcuno dei peccati commessi con le comari, e non se ne paga nessuna pena. Parodia bella e buona di quelle apparizioni d’anime dannate o purganti onde i leggendarii del medio evo son pieni. Che razza di fantasima poi sia la fantasima scongiurata da Gianni Lotteringhi e dalla moglie sua nella novella 1ª della giornata VII, e di che maniera sia lo scongiuro, non ho bisogno di ricordare. Nella già citata novella 3ª della giornata III, raccontando Lauretta come l’abate fosse creduto esser l’anima di Ferondo che andasse in giro facendo penitenza, dice che ciò porse argomento di molte novelle tra la gente grossa della villa. Il mondo dei fantasmi non era un mondo in cui potesse compiacersi una mente come quella del Boccaccio, aperta solo ai colori e alle forme del mondo reale, una fantasia come la sua, pittrice e scultrice della vita. Il temperamento secondava in lui la coltura, ed entrambi congiunti non gli permettevano di smarrirsi nel regno nebuloso dei sogni.
Dal sin qui detto parmi risulti in modo assai chiaro che il Boccaccio, quanto a superstizione, non solo non s’allenta dietro al medio evo, ma anzi se ne trae fuori tanto quanto è possibile ad un uomo di quel tempo. Io non voglio negare che anche il Petrarca non abbia in questa parte meriti grandissimi, perché in troppi luoghi delle sue opere se ne ha solenne testimonianza; ma non parmi ci sia ragione di mettere il Boccaccio tanto al disotto di lui, né credo giusto trar l’uno sulle più alte cime del sano ed illuminato pensiero per lasciar l’altro giù nella valle della superstizione. E il Petrarca e il Boccaccio non sono uomini nuovi se non in parte; entrambi sono ancora legati al passato; entrambi si rivolgono e tornano ad esso. Quale dei due n’uscì maggiormente? Quale vi retrocesse più addentro? Non è cosa agevole dirlo. Il Boccaccio detestò gli studii prima adorati, rinnego l’opera sua maggiore; ma di lui, ad ogni modo, noi non abbiam libri da mettere a riscontro del Secreto, dei Rimedi dell’una e dell’altra fortuna, del Trattato della vita solitaria, coi quali il Petrarca, non per una od altra opinione particolare, ma per il sentimento stesso della vita e per gli abiti della mente ripiomba nel medio evo a capo fitto. L’ascetismo del Petrarca il Boccaccio non lo conobbe.

Nota
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[1] Boccaccio’s Leben und Werke, Lipsia 1880, p. 371

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SAN GIULIANO NEL «DECAMERONE» E ALTROVE

Tutti conoscono la storia poco edificante narrata nella novella 2ª della seconda giornata del Decamerone: Rinaldo d’Asti rubato, capita a Castel Guglielmo, et è albergato da una donna vedova, e, de’ suoi danni ristorato, sano e salvo si torna a casa sua. Di che maniera fosse l’albergare della buona vedova l’argomento non dice, ma dice, anzi fa vedere, la novella, dove, per giunta, la buona ventura toccata al mercante astigiano e messa in istretta relazione col così detto Paternostro di San Giuliano l’Ospitaliere, e con la devozione grandissima che si ebbe, durante tutto il medio evo, a questo santo famoso.
Quell’uomo dabbene che fu monsignor Giovanni Bottari, parlando, in una delle sue Lezioni sopra il Decamerone[1], di questa saporita novella, fitto sempre in quel suo caritatevole pensiero di voler purgare L’autore d’ogni sospetto di miscredenza o d’eresia, dice che in essa, il Boccaccio, da buon cattolico, e non altrimenti, volle biasimare e deridere una tra le tante pratiche superstiziose in uso a’ suoi tempi, e una di quelle appunto che più contrastano col sentimento religioso sincero e legittimo. Ora, che il Boccaccio abbia voluto farsi beffe di una sciocca superstizione, come di molt’altre superstizioni si fa beffe in altre novelle sue, è cosa in tutto fuor d’ogni dubbio; ma che egli abbia fatto ciò con gl’intendimenti che monsignor Bottari gli attribuisce, è cosa che non potrebbe provarla nemmanco il Dottor Angelico, se tornasse al mondo.
In fatto, se quelli fossero stati gl’intendimenti suoi, il Boccaccio, per dar loro effetto, non aveva a far altro che troncar la novella nel punto in cui, spogliato d’ogni avere dai malandrini, e abbandonato da essi nel fitto della notte, in mezzo alla neve, il malcapitato di Rinaldo poteva vedere quanto fosse vana la fede da lui riposta in San Giuliano, e quanto fallace la speranza di compiere, mercè sua, felicemente il viaggio e ottener buono albergo. Il Boccaccio stesso ci mostra Rinaldo starsene in quel brutto frangente tutto tristo e cruccioso, spesse volte dolendosi a San Giuliano, dicendo questo non essere della fede che aveva in lui. Ma, soggiunge poi subito, San Giuliano avendo a lui riguardo, senza troppo indugio gli apparecchiò buon albergo.
E fu buono albergo davvero, perché Rinaldo vi trovò, non solo tavola apparecchiata e letto sprimacciato, ma ancora certa donna del marchese Azzo di Ferrara, la quale divenne per quella notte la sua, e della quale ebbe soprammercato, in partirsi, buona quantità di denari. Ora, non erano certamente questi gli argomenti più acconci a far persuasi della vanità della superstizione gli uomini creduli e grossi, e il Boccaccio stesso pare che ce ne voglia avvertire, quando fa che Rinaldo, levatosi la mattina, ringrazii della venturosa nottata Dio e San Giuliano.
Vorremmo poi fare un altro pensiero e credere che messer Giovanni abbia, di suo capo, allargata a quel modo, oltre ai termini consueti e men disdicevoli, l’azione benefica del santo protettore, tratto a ciò da certo suo spirito di empietà, e dal desiderio di farlo conoscere altrui? Certo, non mancano nel Decamerone fatti e parole d’onde agevolmente si potrebbero trarre argomenti in sostegno di una tal congettura; ma qui non si tratta di sapere che cosa il Boccaccio avrebbe potuto volere secondando certe tendenze del suo spirito; si tratta di sapere che cosa egli fece veramente. Facciamo un’altra ipotesi. Se quanto nella nostra novella è men conforme a devozione appartenesse insiem col resto, e al par del resto, alla credenza superstiziosa messa in azione e derisa? Se il Boccaccio non avesse avuto bisogno d’inventar nulla, né aggiungere nulla; se nulla avesse narrato che una fede guasta e travolta non potesse, direi normalmente, ripromettersi dal favore di San Giuliano? Se così fosse, la novella, non contenendo inframmesse di un carattere personale troppo spiccato, verrebbe ad avere un valore storico anche maggiore e sarebbe tutta satira schietta, senza commistione alcuna di parodia. Ora gli è così veramente, e che sia, prova già lo stesso Rinaldo, il quale non si stupisce punto di quanto da ultimo gl’interviene, né dà in modo alcuno a conoscere che nel beneficio ricevuto gli paja esserci qualche eccesso, o sconvenevolezza; ma ogni cosa egualmente riferisce alla grazia del santo, il buon albergo, i denari e la donna. Egli nulla riceve che non potesse, in certo qual modo, ragionevolmente e legittimamente aspettarsi.
Il Galvani, prendendo appunto argomento da questa novella del Boccaccio, compose, intorno a San Giuliano, un’apposita dissertazioncella; la quale, per altro, non tocca menomamente la questione qui messa innanzi, ed è anche sotto più altri rispetti assai manchevole. Perciò spero che la notizia che segue non sia per tornare né discara né inutile agli studiosi del nostro massimo novellatore.
Volgiamoci dapprima alla letteratura italiana e vediamo se in essa non ci occorra qualche testimonianza e qualche prova del fatto che abbiamo congetturato: la protezione di San Giuliano essersi estesa anche ai facili amori, alle buone venture. Notiamo peraltro, prima di andare innanzi, che di una estension così fatta non è punto a meravigliarsi. Chi ha qualche pratica dell’agiologia popolare del medio evo, sa che le plebi cristiane attribuirono spesso ai santi qualità ed offici, che con la santità si accordano veramente assai poco, e non mancarono di cercar patroni persino al vizio e alla colpa. I ladri ebbero a protettori San Disma e San Nicola; le donne da partito si raccomandarono a Santa Maddalena, a Sant’Afra, a Santa Brigida. Se i matti furono protetti da San Maturino, non poteva mancare, e non mancò, un protettore agli innamorati, e questo fu San Valentino. Ma essendo quello dell’amore un gran regno e con molte faccende, da non potervi attendere un solo, ne fu data partitamente giurisdizione più o meno onorevole a parecchi santi, e di questi San Giuliano fu uno.
San Giuliano è spesso ricordato in libri nostri di ogni tempo; ma non tutti quei ricordi fanno per noi. Quelli, per esempio, che si hanno nel Pataffio e in una novella di Franco Sacchetti, provano che il Paternostro di San Giuliano era assai cognito, e da molti, all’occasione, recitato, ma non provano altro. Non così un luogo di certa novella del Pecorone. Quivi si narra di una bellissima donna, vestita da frate, della quale s’innamora, non conoscendola, la figliuola di un oste. Un prete, che viaggia con lei, credendola frate davvero, avvedutosi di quell’amore, dice alla sua compagna: Per certo voi diceste stamane il Pater nostro di San Giuliano, però che noi non potremmo avere migliore albergo, né la più bella oste, né la più cortese. Qui, di sbieco se si vuole, c’è un accenno ad altro che ad albergo. Ma testimonianze più sicure e più esplicite non mancano. Di Livia, supposta innamorata di Parabolano, dice il Rosso, nella Cortegiana dell’Aretino, che ha detto il Pater nostro di San Giuliano a guastarsi di lui. Nella stessa commedia, l’Alvigia mezzana, trovandosi a un brutto sbaraglio, si raccomanda al beato Angelo Raffaello, a San Tobia, e più particolarmente a San Giuliano, dicendo: messer San Giuliano scampa l’avvocata del tuo Pater nostro. Ora, avvocata del Pater nostro di San Giuliano, in questo caso non può voler dir altro che mezzana. Si potrebbero moltiplicare gli esempii, i quali proverebbero pure che il culto di San Giuliano era non meno vivo nel Cinquecento che nel Trecento. San Giuliano era uno dei santi più popolari e più spesso invocati, e lo prova il Franco quando fa dire alla sua loquace lucerna: «Veggo i carrettieri et i falconieri diventare in terra da più di San Vito e di San Giuliano nel paradiso».
Se non che, essendo gli esempii recati di sopra posteriori al Boccaccio, si potrebbe dir che non provano, e si potrebbe riconoscere in essi, anzi che un riflesso della credenza popolare, un semplice riflesso della novella stessa del Decamerone, cognita universalmente e passata in certo modo in proverbio. Ma altrettanto non si potrà certo dire delle testimonianze che ci offre la letteratura francese.
Se San Giuliano fu popolare in Italia, in Francia fu assai più, e v’ebbe più offici, giacché, non soltanto protettore dei viandanti, e procacciatore di buono albergo, ma vi fu anche patrono delle corporazioni dei menestrelli e dei poveri, e invocato da coloro che languivano in ischiavitù o in prigionia. Vero è che l’officio suo principale rimenava pur sempre quello di provvedere di buono albergo i suoi devoti. In Parigi c’era una chiesa a lui consacrata, e un poeta, ricordandola insieme con altre molte ch’erano nella città, dice:

Saint Juliens
Qui herberge les Chrestiens.

Ora l’albergare di San Giuliano poteva (non dico che dovesse) essere della maniera appunto che si vede nella novella del Decamerone; e avoir l’ostel Saint Julien volva dire, non solo avere buona stanza, ma spesso anche avere la buona nottata, come Rinaldo d’Asti. Il Legrand d’Aussy cita da una canzone manoscritta i seguenti versi, con cui un poeta, Giacomo d’Ostun, avendo passato la notte con la sua dama, celebra la goduta felicità:

Saint Julien qui puet bien tant,
Ne fist à nul home mortel
Si doux, si bon, si noble ostel.

Nel fableau di Boivin de Provins, alcuni che si credono di accalappiare Boivin, traendolo in casa di una sgualdrina, gli dicono:

Par Saint Pierre le bon apotre,
L’ostel aurez saint Julien.

Eustachio Deschamps intende l’ostel nel senso che l’intende Giacomo d’Ostun, quando dice:

On quiert l’ostel Saint Julien

e quando, facendo il proprio ritratto, esce, in questa confessione:

Je ne desir fors que Saint Julien
Et son hostel, dont bon fait trouver l’uis;
De saint George pas grant compte ne tien,
De sa guerre n’est mie grant deduis.

Questi esempii provano che non fu il Boccaccio ad attribuire a San Giuliano il poco onesto officio; ma come mai la devota superstizione fu essa condotta ad affidarglielo? Non è troppo difficile il dirlo, Si tenga ben presente che San Giuliano, il quale, per far penitenza della involontaria uccisione del padre e della madre, da lui commessa, fondò un ospizio, dove per molti anni accolse liberamente i pellegrini, è come il santo titolare della ospitalità; si ricordi che la ospitalità nel medio evo fu intesa assai più largamente di quanto a noi possa parere dicevole, e che era in certo qual modo obbligo di cortesia, nei baronali manieri, offrire all’ospite, oltre alla stanza e alla tavola, anche una compagna di letto per la notte, e si avrà piena ragione e spiegazione del fatto. Un albergo non si considerò interamente buono se non c’era, diciam così, quel complemento, e San Giuliano che procacciava il buon albergo, procacciava il complemento insiem col resto. S’intende poi come trovatori, troveri, menestrelli, uomini che campavano dell’ospitalità e liberalità altrui, si raccomandassero a San Giuliano per tutto quanto era stato così posto sotto la sua giurisdizione. E certo a tutti i favori che il santo poteva largire pensava Pietro Vidal quando diceva:

Domna, ben aic l’alberc saint Julian,
quam t’ui ab vos dins votre ric ostal

e quando il proposito di rimanere in Italia esprimeva in quei versi:

Era m’alberc deus e sans Julias
e la doussa terra de Canaves,
qu’en Proensa no tornarai eu ges
pos sais m’acoilh Lameiras e Milas,
car s’aver posc cela qu’ai tant enquiza,

E a tutti quei favori similmente doveva avere la mente il Monaco di Montaudon, quando, in una sua canzone, introduce lo stesso San Giuliano a lamentarsi dinanzi a Dio che la decadenza dei costumi cavallereschi, e il picciol animo dei signori abbiano in tutto screditato il suo nome e quasi tolto il suo culto. Considerata ogni cosa, non si stenta troppo a capire come Guglielmo IX di Poitiers, il più scapestrato dei trovatori, potesse render grazie a Dio e a San Giuliano della molta perizia ch’egli si vanta di avere nel dolce giuoco di amore:

Dieus en laus e sanh Jolia;
Tant ai apres del juec doussa,
Que sobre totz n’ai bona ma.

Del resto San Giuliano non deve troppo dolersi di quell’officio commessogli certo contro sua voglia, giacché officio in tutto simile si trova pure commesso a santi che non avevan poi sulla coscienza ciò che egli ci aveva. In un vecchio poemetto tedesco, intitolato Die Treue Magd, si racconta di uno studente che aveva in uso di recitare ogni giorno due preghiere, l’una il mattino alla Santissima Trinità, perché non lo facesse capitar male, l’altra la sera a Santa Gertrude (quale delle parecchie registrate nei cataloghi?) per ottenere da lei buon albergo. Si mette in viaggio alla volta di Parigi, e giunta la sera si raccomanda alla santa. Per non fermarci troppo sui particolari, ecco che egli capita in casa di una donna bellissima, il cui marito è assente, e vi trova quelle stesse accoglienze che Rinaldo d’Asti trova in casa dell’amica del marchese Azzo. Sopraggiunge in mal punto il marito; ma allora Santa Gertrude, più sollecita de’ suoi devoti che lo stesso San Giuliano non sia, suggerisce (così almeno il poeta dice di credere) alla fantesca della donna un buon provvedimento che salva ogni cosa. Lo scolare riconoscente non dimentica di ringraziare la santa, e tutti contenti. Notisi che il giovane s’era mosso alla volta di Parigi con l’intenzione di attendere non meno agli amori che agli studii.
Così pure non si vede quale ragione potesse indurre il volgo credente in Francia a prendersi una confidenza in tutto simile con San Martino, se non si ammette che, essendo San Martino un santo molto popolare e bonario, il popolo poté credersi licenziato a ricorrere al suo patrocinio anche in casi nei quali l’ajuto dei santi non pare troppo a proposito. Fatto sta che ostel saint Martin significò quel medesimo che ostel saint Julien. Il fableau intitolato Le meunier et les II clers, che corrisponde alla novella 6ª della giornata IX del Decamerone, ce ne porge una prova. Il poeta, narrati i casi venturosi ch’ebbero i due giovani albergando la notte in casa del mugnajo, dice:

Il orent l’ostel saint Martin.

E in un’alba di Guiraut de Borneil non invoca il vigile amico la protezione di Dio sopra l’amante troppo felice che non cura il sopravvenire del giorno?
Il Manni crede che la storia di Rinaldo d’Asti narrata dal Boccaccio, non sia cosa inventata, ma vera. Ciò può ben essere; ma in tal caso, inclinerei a credere che al fatto sostanziale vero il Boccaccio avesse messo egli quel contorno di comica superstizione, traendolo, sia da altre storie a lui note, sia dalla divulgata credenza. Ad ogni modo non intendo che si voglia dire L. Cappelletti, quando afferma che le fonti della novella del Boccaccio sono il Panciatantra, le gesta Romanorum, c. XVIII, e la Legenda aurea, hist. XXII. Certo riscontro con una novella del Panciatantra fu notato, e sta bene; ma nei Gesta Romanorum e nella Legenda aurea si narra la storia di San Giuliano, e non si trova indizio di quelle particolarità del culto a esso San Giuliano prestato che appunto sono di capitale importanza nella novella del Boccaccio; e per sapere che San Giuliano l’Ospitaliere era protettor dei viandanti, il Boccaccio non aveva bisogno di ricorrere a quei racconti, ma bastava che ponesse mente al nome di lui, e aprisse le orecchie a’ discorsi degli innumerevoli credenti.
Per carità, un po’ più adagio in questa faccenda delle fonti.

Nota
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[1] Firenze 1818, vol. II, pp. 146 sgg.
IL RIFIUTO DI CELESTINO V

Tra le molte novelle che, com’è noto, Ser Giovanni Fiorentino trasse, quasi copiando a parola, dalle Cronache di Giovanni Villani, è pure la 26ª, nella quale si narra come Celestino V rinunziasse il papato. Anche qui il novelliere altro quasi non fa se non trascrivere lo storico, salvo che, venuto quasi al fine della narrazione, v’interpola di suo la notizia seguente: «è che molti dicono, che il detto cardinale (Benedetto Gaetani, che poi fu papa col nome di Bonifazio VIII) gli venne una notte segretamente con una tromba a capo al letto e chiamollo tre volte, ove Papa Celestino gli rispose e disse: chi sei tu? Rispose quel dalla tromba: io sono l’Angel da Iddio mandato a te come suo divoto servo; e da parte sua ti dico, che tu abbia più cara l’anima tua che le pompe di questo mondo, e subito si partì». Udita questa ammonizione, e credendo gli venisse veramente da Dio, Celestino, che già assai di mal animo sosteneva il gravissimo officio, depose il manto e la tiara. Ser Giovanni, che cominciò a scrivere il Pecorone l’anno 1378, non inventò questa storiella; essa era già nata da un pezzo, e, come le parole stesse di lui ci provano (molti dicono), era allora largamente diffusa. Poniamoci sulle sue tracce e vediamo fin dove ci possano condurre.
La storiella testè riferita si ha generalmente in conto di leggenda, e a confermarla tale fu osservato che i contemporanei e i testimoni di veduta non ne fanno cenno[1]. Che ne tacessero i fautori e gli amici di Bonifazio s’intende; ma fatto è che nemmeno i suoi nemici ne parlano. Nel famoso libello, che da Longhezza i due cardinali Giacomo e Pietro Colonna scagliarono (10 maggio 1297) contro quel pontefice, si dice bensì che nella rinunzia di Celestino (13 dicembre 1294) entrarono multae fraudes et doli, conditiones, et intendimenta et machinamenta, ma si rimane così sulle generali, senza specificar nulla. Jacopone da Todi, che diceva a Bonifazio:

Come la salamandra
Sempre vive nel fuoco,
Così par che lo scandalo
Te sia sollazzo in joco.

non avrebbe taciuta la frode se gli fosse stata nota. I fautori di Filippo il Bello, che tante accuse terribili lanciarono contro il nemico pontefice, e fra l’altre quella d’intendersela col diavolo, non avrebbero mancato d’imputargli anche questo gravissimo sacrilegio della usurpata qualità di messo celeste, se qualche fama ne fosse loro venuta all’orecchio. E Dante n’ebbe egli un qualche sentore? Crediamo di no; o, se l’ebbe, non se ne dié per inteso. Tutti sanno quanto siasi disputato intorno all’essere di colui che nel III canto dell’Inferno Dante accusa di viltà per aver fatto il gran rifiuto. Non entreremo in queste disputazioni, che la soluzione del dubbio non importa ora al nostro bisogno. Supposto che Dante intendesse parlare di Celestino, gli è chiaro che la leggenda che entrava per nulla in quel suo giudizio, perché, se egli avesse potuto credere alla gherminella di Benedetto, questa gli avrebbe dato argomento a giudicar Celestino uomo credulo e semplice, vile non già. Ma che il poeta ignorava la leggenda, o, conoscendola, non le dava credenza, si desume da altri due luoghi di quella medesima Cantica. Nel canto XIX, vv. 55-7, Niccolò III, credendo di parlare a Bonifazio, dice:

Se’ tu sì tosto di quell’aver sazio
Per lo qual non temesti torre a inganno
La bella donna, e poi di fame strazio?

La bella donna, non ostante qualche interpretazione diversa, è senza dubbio la Chiesa, e quel tôrre a inganno può riferirsi, tanto alle male arti usate per indurre Celestino a rinunziare, quanto a quelle usate poi per succedergli. Ma che in quelle poche parole non si contenga nessuna allusione alla frode della leggenda, provano i vv. 104-5 del c. XXVII, dove lo stesso Bonifazio dice:

Però son due le chiavi
Che il mio antecessor non ebbe care.

Dante credeva dunque che Celestino avesse rinunziato alla dignità papale per insufficienza d’animo, per non sentirsi atto all’officio, e non, oltre che per queste ragioni, anche per obbedienza a un presunto comandamento divino. Ma il non farsi dai citati sin qui ricordo alcuno della leggenda non prova che la leggenda non fosse già nata; ed anzi noi abbiamo i documenti in mano che ce la mostrano nata quasi ad un tempo coi fatti che le diedero origine. Il Tosti cita, come il più antico autore che la riferisca, il cronista Ferreto Vicentino, che scrisse circa trentadue anni dopo la rinunzia di Celestino; ma essa si trova già narrata in una cronica fiorentina, detta di Brunetto Latini, e pubblicata anni sono dall’Hartwig. L’autore di essa, ignoto del resto, era già adulto nel 1292, e non condusse la sua narrazione oltre il 1303. Egli racconta la leggenda nei termini seguenti: «Questi (Celestino) essendo homo religioso e di santa vita elli fue ingannato sottilmente da papa Bonifazio per questa maniera, ch’ello detto papa per suo trattato e per molta moneta, che spese al patrizio nuch (sic) vedevasi la notte nella camera del papa ed aveva una tromba lunga e parlava nella tromba sopra il letto dello papa e dicea: Io sono l’angelo, chetti sono mandato a parlare e comandoti dalla parte di Dio glorioso, che tu immantenente debbi rinunziare al papatico e ritorna ad essere romito. E così fece tre notti continue, tanto chelli crette alla boce dinganto (sic)[2], e rinunciò al papatico del mese di dicembre, e con animo deliberato colli suoi frati cardinali dispose se medesimo ed elesse papa un cardinale d’Anangna, chaveva nome Messer Benedetto Gatani, e suo nome papale Bonifazio ottavo». Qui la leggenda è bella e formata, e non si dà come leggenda, ma come storia certa: solo è da notare che l’autore attribuisce bensì a Bonifazio l’idea della frode, ma non la materiale esecuzione di essa, mentre i più di coloro che la narreranno poi ne faranno Bonifazio inventore ed esecutore ad un tempo.
Abbiam parlato sin qui di leggenda; ma non è poi assolutamente provato che la leggenda sia e non istoria. Un uomo di pochi scrupoli come Bonifazio VIII, poteva bene, trovarsi a fronte un uomo semplice e dappoco, quale era appunto Celestino, ricorrere, per conseguire il suo intento, a una gherminella indecorosa sì, ma certo non inefficace. Se non che ciò poco importa al caso nostro. Ammesso che sia leggenda, s’intende come la nota scaltrezza di Bonifazio e la non men nota semplicità di Celestino dovessero farla nascere, e dovessero farla nascere in tempo assai prossimo agli avvenimenti che le davano appiglio, quando di questi avvenimenti appunto si cercava di dar ragione, e quando le passioni suscitate da essi erano calde ancora. Forse il Marino accenna alla vera origine della leggenda in un luogo della sua vita di Celestino V, notando come, dopo la rinunzia, si spargesse per Roma la fama, e Pietro Grasso, notajo regio, attestasse, avere Cristo parlato a Celestino, dicendo: Quid prodest homini si universum mundum lucretur, animae vero suae detrimentum patiatur? Non ci voleva un grande sforzo di fantasia per porre al luogo di Cristo il cardinale Benedetto. Che poi la leggenda, per alcun tempo, dopo esser nata, potesse rimanervi chiusa entro una cerchia piuttosto stretta, in guisa da non venire a cognizione di chi avrebbe potuto giovarsene contro il pontefice, non farà meraviglia a nessuno.
La leggenda, di cui un cronista ci offre la testimonianza più antica, riappare poi in altri cronisti del secolo XIV; e s’intende come con l’andar del tempo, allargandosi anche fuori d’Italia, si venisse in varii modi alterando. Il già citato Ferreto non dà la cosa per sicura, come fa il cronista fiorentino, ma dice: ferunt, e operatore del dolo fa lo stesso Bonifazio. Giovanni Vittoriense non dubita, pare, della frode, ma lascia dubbio se ci dovesse o no a Bonifazio. Alberto Argentinense riferisce la cosa, senza affermar nulla. Ma nella seconda metà del XVI secolo Gilberto Genebrando l’afferma risolutamente.
Se non che le notizie più curiose della leggenda ci sono offerte, non dai cronisti, ma dai commentatori di Dante, alcuno dei quali è forse anteriore a Ferreto. Cominciamo da uno dei più antichi, dall’anonimo autore delle Chiose alla prima Cantica pubblicate dal Selmi. In quella parte di esse che si riferisce al noto luogo del c. III noi troviamo, non senza meraviglia, la leggenda in una forma assai svolta, e con isfoggio di particolari fantastici che non si riscontrano altrove; il che accennerebbe già di per sé ad una lunga elaborazione. Il racconto merita d’essere qui riportato per intero. «Questi che per viltà fece il gran rifiuto fu papa Cilestrino, il quale essendo Romito Murato, perciò che di poco bene era sazio, e avea le genti d’intorno crediano che fosse santo uomo, e’ cardinali credendolo che fosse sufficiente persona, si lo chiamaro papa, e fu confermato papa. Bonifazio che si fu accorto della miseria e della cattività sua, fece fare ali e volti e mani a una scritta con cose che lucono di notte e non di dì; e poi, a sua posta, celato di notte tempo i lumi, spenti in prima tutti i lumi, entrò ne la camera sua, lui dormendo, e chiamò con un organo: Cilestrino, Cilestrino, tre volte. Questi si svegliò dicendo: Domine, chi mi chiama?... E’ rispose: messo di Dio. Cilestrino il mirò, e vide solo le mani e l’ali e ’l volto lucenti. Maravigliossi molto, e disse: che comandi? E que’ rispose: a Dio spiace molto la tua vita, e hai lasciata la via del paradiso e vuoli ire a l’inferno. Leggi questa carta del comandamento. E la scritta dicea: I’ ti comando, che domattina, fatto il dì, tu prenda il manto e ’l pasturale, e ’l primo cardinale che tu truovi fa sedere in su la sedia di San Pietro, e vestilo d’ogni cosa come l’hai tu, e poi rifiutata, e partiti in maniera che non sii veduto esser partito. Letta la scrittura che d’oro paria, credette per certo che Agnolo di Dio fosse. Disse che si farebbe. Papa Bonifazio ravolse le cose e sparì, e la mattina si levò sì tosto che fu dì. Prima Cilestrino lo vide, ampiè il comandamento, e poselo in sulla sedia, e Cardinali furono d’intorno, e da’ più fu confermato a cui parve ragione, e tali per amore, e tali per promesse, e altri per paura, sì che papa rimase».
Nel commento di anonimo pubblicato da Lord Vernon e nelle chiose attribuite a Jacopo Alighieri la leggenda non è ricordata; ma questa poi riappare, tuttoché in forma più semplice e compendiosa, in parecchi dei commentatori posteriori. Secondo Jacopo della Lana furono i cardinali, e non il solo Benedetto, a ordir l’inganno. L’Ottimo parla di certi artificj, ma non dice quali fossero: Pietro Alighieri non fa cenno nemmeno di artifizii. Giovanni Boccacci riferisce una versione secondo la quale a far l’inganno Bonifazio si sarebbe accordato con alcuni suoi servitori. Il falso Boccaccio (Chiose sopra Dante, pubblicate da Lord Vernon) parla di ragioni e di argomenti usati da Bonifazio, non d’altro; e Benvenuto da Imola crede che il reo del gran rifiuto sia Esaù, non Celestino. Francesco da Buti dice che Bonifazio usò e della persuasione e della frode. L’Anonimo Fiorentino, pubblicato dal Fanfani, attinge per la narrazione dal Villani; poi, al c. XIX, narra l’inganno, introducendo un fanciullo a far la parte dell’angelo; ma pare stimi il tutto una favola. Guiniforto delli Bargigi tace della leggenda, e ne tacciono ancora il Landino, il Vellutello, il Daniello. E tra coloro che ne tacciono sia qui ancora ricordato il Petrarca che, come altri, solo ad umiltà attribuisce la rinunzia di Celestino[3].
La varietà delle versioni che abbiam vedute sin qui, e il richiamarsi, che i narratori spesso fanno, alla voce pubblica, provano, ci sembra, la diffusione della leggenda. Non ci recherà dunque meraviglia di ritrovar questa in un racconto islandese contenuto in un codice del sec. XV, e fatto, non ha molto, di pubblica ragione. S’intende come la leggenda non abbia potuto compiere un così lungo viaggio senza molto alternarsi; ma ecco la sostanza del non breve racconto. Celestino aveva accettato assai malvolentieri la dignità papale; Bonifazio, per contro, uomo di facili costumi, e padre di dodici figliuoli, ad essa aspirava. Nella camera del papa erano due letti, uno per lui, l’altro per la sua sposa la Chiesa. Bonifazio scrisse con lettere d’oro una epistola, e dicendo di averla trovata nel letto della Chiesa, la consegnò a Celestino. Questi, apertala, vi trovò una comunicazione della Chiesa celeste alla terrena, nella qual comunicazione si diceva che, non piacendogli l’ufficio, il papa poteva liberamente rinunziarlo; e il papa rinunziò, e Bonifazio ne prese il luogo. Bisogna confessare che, migrando tanto lontano dal suo luogo di origine, la leggenda si fece molto più sciocca, e il povero Celestino tramutò a dirittura di semplice in istolido. Ciò che si dice della epistola scritta con lettere d’oro ricorda la epistola luminosa di cui parla l’autore delle Chiose anonime.
In questo campo ci sarà senza dubbio da spigolare dell’altro, e altri il faccia, se lo stima opportuno. Prima di lasciar l’argomento una sola cosa vorremmo avvertire ancora, e cioè, che la leggenda di cui abbiam parlato, specie nella forma che assume nelle Chiose pubblicate dal Selmi, entra nel copioso gruppo di quei racconti, diffusi così in Oriente come in Occidente, nei quali un mortale prende l’aspetto e gli attributi di alcun essere soprannaturale, per così ingannare altrui e ottenere i suoi fini.

Note
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[1] Tosti: Storia di Bonifacio VIII, e dei suoi tempi, vol. I, pp. 231 sgg.; Gregorovius; Geschichte der Stadt Rom in Mitteralter, vol. V, p. 515
[2] «D’incanto»?
[3] De vita solitaria, II, 18

LA LEGGENDA DI UN FILOSOFO
(MICHELE SCOTTO)

Nella quarta bolgia dell’ottavo cerchio infernale, Virgilio, redento ormai dalla dubbia fama di mago che per secoli ne aveva infoscato e snaturato il carattere, addita e nomina a Dante gl’indovini ed i maghi che quivi son puniti di lor, tracotanza. Accennatine alcuni antichi, Anfiarao, Tiresia, Aronta, Manto, Euripilo, e detto alcun che dei loro fatti, il maestro volge l’attenzione del discepolo sopra un moderno:

Quell’altro che ne’ fianchi è così poco,
Michele Scotto fu, che veramente
Delle magiche frode seppe il gioco[1];

poi nomina ancora Giudo Bonatti e Asdente, e, senza più far nomi, accenna al popol minuto delle fattucchiere, alle

. . . triste che lasciaron l’ago,
La spola e il fuso e fecersi indovine;
Fecer malie con erbe e con imago.

Se Dante tornasse al mondo, e riscrivesse la Commedia, si può tener per sicuro che Michele Scotto non sarebbe più posto da lui in quella bolgia, tra quei dannati, quando pure il poeta rinascesse così buon cattolico quale già fu, e così inclinato a certe credenze come un cattolico non può quasi, non essere; ma, dato il tempo in cui il poeta visse e fu composto il poema; data la celebrità grande di cui Michele Scotto ebbe a godere in quei tempo, e le ragioni e l’indole di tal celebrità, era assai difficile, per non dire impossibile, che il poeta non ponesse il filosofo a quella pena. Dante avrebbe potuto bensì non parlarne, come di tanti altri non parla; ma il giudizio ch’egli avrebbe pensato sarebbe stato in sostanza quel medesimo ch’espresse parlando. E se noi porgiamo orecchio alle voci insistenti della leggenda e della tradizione, intenderemo chiaramente il perché[2].

I

Le notizie storiche pervenuteci intorno a Michele Scotto sono molto scarse e molto incerte, e il nome stesso di lui dà luogo a dispareri e a dubbiezze. Vuole taluno che Scotto sia forma italiana del cognome Scott, frequente in Iscozia; vogliamo altri che Scotto sia nome, non di famiglia, ma di nazione, e che perciò s’abbia a dire e scrivere Michele Scoto, come si dice e scrive Duno Scoto, Clemente Scoto, Ugo Scoto, ecc. Se non ché è da notare che nel medio evo il nome etnico si scrisse indifferentemente Scotus e Scottus, Scoto e Scotto; ed io, seguendo l’uso degli antichi nostri, scriverò Scotto, senza impacciarmi in questioni, che nel caso nostro, non importan gran fatto.
Del resto, i dubbii circa il nome debbono essere stati promossi, almeno in parte, da dubbii che si ebbero circa la patria. Secondo Jacopo della Lana, Michele sarebbe stato spagnuolo; ma gli altri commentatori di Dante lo dissero, per la più parte, scozzese; e v’è un anonimo il quale, non solo il conosce per tale, ma sa pure avere egli sì fattamente ammaestrati gli Scozzesi nell’arte sua, che anche non fanno passo che arte magica non seguiscano, e avere per giunta insegnato loro portare calze bianche e gonnelle con maniache cuscite insieme. Dei biografi, alcuni lo vollero scozzese, altri inglese, e la opinion dei secondi ebbe seguitatori recentissimi, come gli ebbe la opinion dei primi. Che Michele Scotto nascesse italiano, e più propriamente salernitano, fu, credo, opinione particolarissima di un Pier Luigi Castellomata, riferita e accettata per buona da Nicola Toppi; ma non meritevole di nessun riguardo. La opinion più plausibile è insomma quella che fa Michele scozzese, confortata anche dal fatto che la leggenda di lui serbavasi viva in Iscozia in principio di questo secolo, come vedremo tra poco, e viva forse ci si serba tuttora.
Per non allungarci troppo stringiamo in poche parole i non molti fatti della vita di Michele che si possono dire accertati, o che si possono considerare come certi fino a prova contraria. Michele nacque verso il 1190, in Belwearie, nella contea di Fife; studiò prima in Oxford, poi in Parigi; soggiornò un tempo in Toledo, ov’era nel 1217; si recò, dopo il 1240, in Germania, dove fu conosciuto e bene accolto da Federico II, fece dimora, certamente non breve, in Italia, nella corte di quell’imperatore, e, si può credere, in parecchie altre città; si ridusse, non si sa quando, in patria; morì verso il 1250. Stando a tradizioni scozzesi, egli fu sepolto, o in Holme Coltrame, nel Cumberland, o nell’Abbazia di Melrose.
Michele Scotto occupa un luogo onorevole nella storia della filosofia del medio evo, sebbene Ruggero Bacone abbia scritto di lui ch’e’ fu ignaro così delle parole come delle cose, e Alberto Magno ch’ei non conobbe la natura e non intese a dovere i libri di Aristotele. Ch’e’ non abbia inteso a dovere i libri di Aristotele gli è un fatto; ma quanti furono in quella età coloro che non li frantesero? Un merito, ad ogni modo, non si può togliere a Michele, ed è d’avere efficacissimamente cooperato a diffondere, o, come lo stesso Ruggero Bacone si esprime, a magnificar tra i Latini la filosofia dello Stagirita, e d’essere stato uno degli ajutatori di Federico II nell’opera della restaurazione del sapere da quel principe con tanto ardore promossa. Per Federico II egli tradusse il compendio che Avicenna aveva tratto dalla Istoria degli animali di Aristotele; per Federico II compose un Liber physionomiae ch’ebbe grandissima celebrità, fu messo a stampa ed ebbe molte edizioni, a cominciare dalla prima di data certa, che è del 1477; poi fu tradotto in italiano, e così impresso in Venezia nel 1537. Voltò di arabico in latino parecchi libri di Aristotele, sebbene non tanti probabilmente quanti, ne’ manoscritti, se ne veggono col suo nome; un trattato di Alpetrongi sopra la Sfera; un trattato e alcuni commenti di Averroe, che da lui primamente, secondo avverte il Renan, fu fatto conoscere ai Latini; compose trattati di astrologia e di chiromanzia; tradusse, o compose di suo, parecchi altri libri, de’ quali alcuno, attribuitogli certo senza ragione, sta pure a far testimonianza del gran credito in che fu tenuto il suo sapere. Certo è calunnia quanto asserisce il già citato Ruggero Bacone, che Michele, al pari d’altri parecchi che s’arrogarono di tradurre le scritture altrui, non avesse cognizione né delle scienze, né delle lingue; nemmeno della lingua latina; e usurpasse l’opera e il merito di un Ebreo per nome Andrea, pubblicando come sue le versioni di costui; sebbene sia vero che del sapere e dell’ajuto di questo Andrea egli ebbe a giovarsi. La corte di Federico II non era corte dove fosse avegole a un ignorante acquistar credito di sapiente, e perché Federico non era uomo da lasciarsi così facilmente ingannare, e perché i molti dotti ch’egli si raccoglieva d’attorno avrebbero presto scoperto l’inganno e smascherato l’ingannatore. Per contro noi abbiam prove della riputazion grande onde Michele ebbe a godere appresso gli uomini dotti d’allora. Leonardo Fibonacci, il celebre matematico, dedicò a Michele la seconda parte del suo Abaco. In una epistola in versi che Federico d’Avranches scriveva l’anno 1236 all’imperatore, Michele è celebrato quale astrologo, indovino e nuovo Apollo, profetante felicissime sorti all’impero. Finalmente un papa, Gregorio IX, in una lettera scritta il 28 di aprile del 1227 all’arcivescovo di Cantorbery, chiama Michele il nostro caro figliuolo, e di lui loda lo zelo per lo studio, la cognizione del latino, dell’ebraico, dell’arabico, il vasto sapere.
Fra Salimbene racconta del sapere, specie astrologico, di Michele una storiella veramente sbalorditiva. Trovandosi un giorno in certo palazzo, Federico II chiese all’astrologo quanta distanza corresse da quello al cielo. Michele rispose come la scienza sua gl’insegnava; dopo di che l’imperatore, sotto pretesto d’andarne a diporto, lo condusse in altra parte del regno, e quivi lo trattenne più mesi, nel qual tempo ordinò ai suoi architetti, o ai suoi legnajuoli, di sbassare la sala, per modo che nessuno potesse avvedersene; e così fu fatto. Dopo molti giorni, tornato nel medesimo palazzo, l’imperatore, volgendo accortamente il discorso, ripeté all’astrologo la domanda stessa dell’altra volta, e l’astrologo, fatti suoi calcoli, rispose che, o il cielo s’era alzato, o la terra s’era abbassata: ed allora conobbe l’imperatore ch’egli era astrologo davvero.
Avviene della buona e della rea fama degli uomini come delle valanghe: queste ingrossano della neve e dei sassi che incontrano giù per la china del monte; quelle, giù per la china del tempo, ingrossano d’infinite opinioni, d’infiniti errori e d’infinite novelle. Così, in bene e in male, si formano le riputazioni eccessive, che la critica storica scompone e riduce a’ suoi elementi; così, in parte, fuori dalla consueta mezzanità umana, si levano gli eroi, i santi, i mostri tipici.
Il sapere di Michele parve grande, fatta qualche eccezione, agli uomini del suo tempo: agli uomini de’ tempi che seguirono, per lungo tratto, esso parve sempre più grande. Di tale fama crescente noi troviamo le testimonianze in tutti, o quasi tutti, gli scrittori che parlarono di lui; e nei più moderni dura ancora il suono delle lodi con cui era stato celebrato il suo nome, dura l’ammirazion d’un sapere fatto oramai universale: Michele, oltre la lingua sua propria e qualche altro linguaggio volgare, oltre il latino, ebbe familiari il greco, l’ebraico, il caldaico, l’arabico; Michele fu matematico insigne, teologo egregio, astrologo insuperato, medico meraviglioso, conoscitore profondo di tutti i segreti della natura. Pico della Mirandola, seguendo gli esempii di Alberto Magno e di Ruggero Bacone, lo giudicherà, gli è vero, scrittore di nessun peso, e di molta superstizione; ma l’opinion di quelli e sua rimarrà opinion di pochissimi.

II

Come mai, di filosofo ch’egli fu, Michele si tramutò in profeta ed in mago? Come nacque la leggenda che per secoli fronteggiò intorno al suo nome, e che forse conserva ancora, mentr’io ne ragiono, alcuno sarmento vivo e alcuna foglia verde? Quel tramutamento seguì ne’ modi consueti; la leggenda nacque come molt’altre così fatte nacquero.
Notiamo anzi tutto che tra le opere conosciute di Michele non ve n’ha nessuna che tratti di magia; ma notiam pure che non v’era punto bisogno d’un tal documento per dar l’aire alle fantasie, sebbene poi la leggenda sel produca da sé. Nel caso presente sono da distinguere una ragion generale e due ragioni particolari. La ragion generale è questa, che in secoli di comune ignoranza la fama di dotto basta di per se stessa a produr la fama di mago; onde noi vediamo dalle fantasie degli uomini del medio evo trasformati in maghi i sapienti così degli antichi come de’ nuovi tempi, e ciò con un procedimento uniforme e sommario che mette tutti in un fascio filosofi e poeti e matematici e pontefici e santi e persino uomini così poco necromantici come fu messer Giovanni Boccacci. Libri di magia furono attribuiti anche a San Tommaso d’Aquino: Alberto Magno e Ruggero Bacone, così sprezzanti, come s’è veduto, di Michele Scotto, furono ascritti con lui alla stessa famiglia di maghi, ispirarono lo stesso rispetto pauroso, ebbero la stessa celebrità. Sarebbe in tutto superfluo moltiplicar le prove e gli esempii di cosa ormai molte volte discorsa e notissima: già ebbe a dire Apulejo, parlando de’ tempi suoi, che le plebi sospettavano di magia tutti i filosofi.
Questa, dunque, la ragion generale nel caso nostro; le ragioni particolari, o, per lo meno, due delle ragioni particolari, le abbiamo presumibilmente nella dimora che Michele fece in Toledo negli anni della sua giovinezza, e, per qualche parte, nella dimestichezza ch’egli ebbe con Federico II.
Durante tutto il medio evo la città di Toledo godette, in materia di scienze occulte, grandissima riputazione: ivi fiorivano l’arti magiche; ivi fioriva una scuola di magia celebre fra quante ne fossero in terra di Saraceni o di cristiani; celebre tanto che la scienza insegnatavi fu detta per antonomasia talvolta scentia toletana. Virgilio v’aveva studiato; persuaso dal diavolo, vi studiò Sant’Egidio prima della sua conversione; e così vi studiarono molti altri. Il monaco Elinando afferma nella sua Cronica che i chierici andavano «a Parigi a studiare le arti liberali, a Bologna i codici, a Salerno i medicamenti, e in nessun posto i buoni costumi». Nei romanzi di cavalleria Toledo e la sua scuola sono mentovate assai spesso, e Luigi Pulci, ricordandosi di quanto altri assai avevano detto prima di lui, scrisse nel Morgante (XXV, 259):

Questa città di Tolleto solea
Tenere studio di negromanzia;
Quivi di magic’arte si leggea
Pubblicamente e di piromanzia;
E molti geomanti sempre avea,
E sperimenti assai d’idromanzia,
E d’altre false opinion di sciocchi,
Come e fatture o spesso batter gli occhi.

Il troppo famoso Dalrio ricordava ancora quello o come celebre e detestabile. Michele doveva essere stato condotto a Toledo dal desiderio di apprendervi l’arte magica.
Federico II diede argomento a due diverse, anzi contrarie tradizioni, delle quali, l’una si diffuse più largamente e prevalse in Germania, l’altra si diffuse più largamente e prevalse in Italia; la prima ghibellina ed a lui favorevole; la seconda guelfa ed a lui sfavorevole. Di quella non abbiamo ora a curarci: di questa basterà notare che per essa Federico II fu spogliato di ogni virtù, gravato di ogni nequizia, dipinto quale uomo diabolico, identificato persino con l’Anticristo. Del carattere che così la leggenda gli veniva attribuendo un’ombra s’aveva a stendere su tutto ciò che gli stava d’intorno; e ch’egli e i familiari suoi avessero intelligenza con Satanasso doveva parere presunzione, più che ragionevole, necessaria. Strani uomini si vedevano in quella corte; strane cose vi si facevano; di più miracoli dell’arti occulte (così dicevasi) vi si dava saggio e spettacolo. Quivi Saraceni in gran numero, i quali tutti eran tenuti accoliti e serventi del diavolo; quivi messi, che da paesi remoti ed incogniti recavano meraviglie non più vedute; quivi giocolieri d’ogni nazione e maestria; quivi maghi, operatori d’inauditi prodigi[3]. Federico II traeva a sé gli uomini singolari come la calamita di ferro. Nell’anno 1231, essendo egli alla dieta di Ravenna, ebbe a trovarsi (così narra il cronista Tommaso Tusco) con certo Riccardo, venutovi in compagnia d’altri cavalieri d’Alemagna, il quale si spacciava per iscudiero di Olivieri, del paladino morto da quattro secoli, e asseriva d’essere stato altra volta in Ravenna insieme col suo signore, con Carlo Magno e con Orlando. Richiesto dall’imperatore di dar qualche prova di quanto affermava, fece discoprire certa cappella e certe arche sepolcrali da gran tempo interrate, e scovare sul davanzale di una finestra altissima certi sproni rugginosi, dimenticativi da un gigantesco cavaliere di Carlo[4]. Dei miracoli d’arte che i suoi maestri sapevano oprare diede un saggio Federico quando, volendo ricambiare il soldano di certi ricchissimi doni che n’avea ricevuti, gli mandò, oltre a cento stendardi d’oro, e cento destrieri di Spagna, e cento palafreni da sollazzo, «uno albero tutto pieno d’uccegli, e tutti erano d’argento; e quando traeva alcuno vento, tutti cantavano e dirizzavansi e chinavansi, ed erano a vedere una grande meraviglia: e questo albero si commetteva tutto insieme».
Chi sa mai quant’altre così fatte novelle dovettero narrarsi di Federico II, le quali non sono venute sino a noi, ma che tutte dovevano riuscire a questo effetto, di sollevare e di stendere intorno a lui e alla sua corte come una caligine di meraviglioso, attissima a mutar volto e colore alle persone che ci si movevano dentro, e che già per altre ragioni eran disposte e inchinevoli al mutamento. Fra Salimbene ebbe certo a udirne di molte, che a noi rincresce sieno state passate da lui sotto silenzio, dicendo egli in due luoghi della sua Cronica: Di Federico io so molt’altre superstizioni e curiosità e maledizioni e perversità e inganni, dei quali alcuni consegnai in altra mia cronica, e di cui taccio ora per amor di brevità, e perché mi rincresce riferire tante sue fatuità. Sebbene di Michele Scotto non sia mai ricordo nei Regesti di Federico, se non in quanto si accenni ad alcuna delle sue versioni; e sebbene non sia da credere all’Anonimo Fiorentino che lo crea senz’altro maestro dell’imperatore; pur nondimeno non è da dubitare ch’ei non fosse uno de’ familiari suoi, un frequentatore della sua corte, e forse uno dei molti astrologi che l’imperatore si teneva d’attorno. Ma, s’avesse egli, o non s’avesse cotale ufficio, da quella familiarità e da quella frequentazione doveva venire nuovo argomento e nuovo stimolo alla leggenda magica che già, per altre ragioni, era per formarsi intorno al suo nome.

III

La leggenda di Michele Scotto, simile in questo a tutte le altre leggende, non nacque certo già bella e formata, ma si venne formando a poco a poco, in virtù di svolgimenti e di aggregazioni successive. In essa si possono distinguere due parti principali: l’una, che narra di lui come conoscitor del futuro o indovino; l’altra, che narra di lui come mago; ma dire qual delle due preceda in ordine di tempo, o se entrambe non sorgano congiuntamente, è cosa impossibile ora. Gli è vero che Salimbene ricorda di lui soltanto le predizioni, e nulla dice dell’arte magica più propriamente detta; ma ciò non significa punto che l’altra parte della leggenda non fosse già nata, se non cresciuta; o che Salimbene dovesse ignorarla; mentre vediamo che Pietro Alighieri, fatto di questa consapevole, se non da altro, dai versi stessi del poema paterno che commentava, dice dell’indovino, o, com’egli latinamente lo chiama, grande augure, ma non tocca punto del mago.
Dante condanna alla stessa pena, promiscuamente, gli indovini ed i maghi; e altro de’ commentatori suoi, quello che chiaman l’Ottimo, giunto ai versi ov’è fatta menzione di Michele Scotto, nota: «Qui descrive l’autore di un’altra specie d’indovini, li quali usano arte magica». Ma indovini e maghi non erano propriamente la stessa cosa; anzi, tra gli uni e gli altri, più che diversità, c’era, a rigor di dottrina, opposizione e contrasto; dappoiché, se l’arte magica non si poteva esercitare senza la cooperazion dei demonii, la divinazione escludeva ogni loro concorso, essendo opinione universalmente professata che i demonii non conoscessero il futuro. Di solito, questi indovini andavano debitori di quella molta o poca cognizione dell’avvenire ch’e’ si vantavan d’avere alla scienza astrologica; ma tal cognizione poteva, alle volte, avere altra origine, essere di natura divina, confondersi col dono di profezia; e tale essendo, poteva, (la qual cosa parrà, ed è forse, un po’ strana) accompagnarsi con l’esercizio dell’arte magica, di un’arte iniqua e dannata. In Virgilio, quale se lo venne figurando la fantasia medievale, c’è il profeta di Cristo e c’è il mago; Merlino è profeta e mago ad un tempo; e profeta e mago in uno dovette sembrare a molti Michele Scotto. Graziolo de’ Bambagioli, o come altrimenti suoni il suo nome, accenna senza dubbio a scienza astrologica, là dove dice: «Jste Michael Scottus fuit valde peritus in magicis artibus et scientia auguri, qui temporibus suis potissime stetit in curia Federici Jmperatoris»; ma Salimbene parla propriamente di profezie, e così pure Fazio degli Uberti, nel cui Dittamondo si legge:

In questo tempo che m’odi contare,
Michele Scotto fu, che per sua arte
Sapeva Simon mago contraffare.
E se tu leggerai nelle tue carte,
Le profezie ch’ei fece troverai
Vere venire dove sono sparte[5].

Non vorrei arrischiarmi in una congettura temeraria; ma se Dante non pose nella quarta bolgia, insieme con gli altri indovini, anche Merlino, quel Merlino che assai più di Anfiarao, di Tiresia, di Aronta, di Manto, di Euripilo, era allora noto all’universale, la ragione del non averlo posto potrebbe essere questa, che il poeta, con altri molti, credeva di origine divina le profezie dell’antico bardo, alle quali solo una decisione, del concilio di Trento tolse da ultimo il credito e la riputazione. Comunque sia, e’ si vuole avvertire che noi ci troviamo qui in presenza di cose, di concetti, di credenze, i cui caratteri, la cui significazione, i cui confini, sono per le condizioni stesse del pensiero e della vita del medio evo, incerti ed instabili, con trapassi e straripamenti continui, e commutazioni infinite, e che in tanta mobilità e promiscuità non può esser luogo a definizioni troppo rigorose, a distinzioni fisse e perspicue.
E la unione del profeta col mago in persona di Michele Scotto era agevolata dalla qualità di mago buono ch’egli ebbe insieme con altri parecchi. Qui ci si para dinanzi un fatto che nell’argomento nostro è di capitale importanza e vuol essere inteso a dovere. Antichissima, e serbata durante tutto il medio evo, è la distinzione tra la magia divina e la diabolica, o, se si vuol dare alla parola magia un più ristretto significato, tra la teurgia, che moveva da Dio, e la magia, che moveva dal Diavolo. Ma anche questa distinzione non è così costante e sicura come potrebbe a primo aspetto sembrare. La teurgia apparteneva ai santi; ma la magia non apparteneva di necessità ad uomini malvagi e diabolici; giacché c’erano maghi buoni e maghi rei, e alcuna volta è assai difficile distinguere il santo dal mago buono. E in vero, non solo operavano entrambi, su per giù, gli stessi prodigi, ma gli operavano ancora con lo stesso animo e con gli stessi intendimenti. Virgilio, se fosse stato cristiano, sarebbe diventato un santo; e la leggenda narra che San Paolo pianse sulla sua tomba, e che San Cadoco ebbe quasi la prova ch’egli era salvo. Alberto Magno, di cui si disse che esercitasse la magia in beneficio della fede e con licenza del papa, al quale aveva salva in certa occasione la vita, fu canonizzato davvero. Ruggero Bacone fu così buon cristiano che una volta punì certo suo servitore perché non digiunava quand’era prescritto; un’altra volta riscattò un gentiluomo che per quattrini s’era obbligato al diavolo; e da ultimo, preso da scrupoli, bruciò tutti i suoi libri di magia, e si rinserrò in una cella, donde più non uscì, e dove finì di vivere in capo di due anni, tutti consacrati a pratiche di devozione. Avicenna fu un mago buono tra i musulmani. Mago buono e il Malagigi dei romanzi cavallereschi; ottimo il Prospero della Tempestadello Shakespeare. Di questi e di altri maghi, storici o immaginarii, si può dire ciò che di Cipriano dice uno de’ famuli suoi nel dramma Calderon:

Yo solamente resuelvo
Que, si el es magico, la sido
El magico de los cielos[6].

Come immaginò i demonii servizievoli e amici dell’uomo, così immaginò la fantasia popolare i maghi buoni, stimandoli tali anche quando ricorressero ad arti prave ed illecite. La massima che il fine giustifica i mezzi è massima, in secreto o in palese, professata universalmente; non sempre così malvagia come molti la dicono; e non tale a ogni modo che se ne debbano considerare inventori ed osservatori i soli gesuiti, a cui, generalmente, suol farsene colpa. Oltre di ciò, la opinione che col cielo si possa tergiversare, venire a patti ed a transazioni, è ancor essa in fondo alla coscienza comune; e se noi lo vediamo accolta come norma di temperamento, o, a dirittura, come principio regolativo della vita, in più di una religione pratica, ciò non vuol dir altro se non che le religioni, in pratica, prendendo sempre forma dalla coscienza comune.
C’è, del resto, un criterio, per cui si può abbastanza sicuramente conoscere il mago buono dal mago reo. Il reo stringe col diavolo un patto, in forza del quale ei si impegna di dargli l’anima in pagamento dell’ajuto che da esso avrà. Il buono non si obbliga con patto alcuno, ma riman libero, ed esercita l’arte, bensì con la cooperazione del diavolo, ma in virtù di un alto potere ch’egli s’è procacciato. Il primo esercita l’arte da mercante, e, in realtà, serve al diavolo, cui par che comandi: il secondo esercita l’arte da gran signore, e comanda al diavolo, cui può chiedere tutto senza concedere nulla. Così è che Salomone poteva forzare i diavoli a ballargli davanti; e dicono i maomettani che chi avesse l’anello di Salomone potrebbe comandare ai diavoli ogni cosa che gli fosse in piacere. Orbene; chi sapeva leggere nei libri magici poteva fare altrettanto[7]. Certo, questi commerci e queste pratiche non erano senza pericolo, come non erano senza peccato; ma il pericolo non era poi troppo terribile, e il peccato, a giudizio almeno di chi non fosse teologo di professione, non era grandissimo. Il Talmud permette d’interrogare i demonii, di chiedere loro consiglio ed ajuto: i cristiani non potevan certo giovarsi delle permissioni del Talmud; ma certe permissioni, quando loro faceva comodo, se le prendevan da sé.
Michele Scotto fu dunque un mago buono, il quale comandò ai diavoli per iscienza, senza (che si sappia) obbligarsi loro né in vita né in morte. Non fu, da quanto mostra la sua leggenda, così largo benefattore degli uomini come l’unico Virgilio, ma non abusò dell’arte sua, e dovette essere servizievole uomo e liberale, se a due suoi discepoli, che lasciò in Firenze, impose (come attesta il Boccaccio) fossero sempre presti ad ogni piacere di certi gentili signori che l’avevano onorato, e se quelli, obbedienti al precetto, «servivano i predetti gentili uomini di certi loro innamoramenti o d’altre cosette liberamente». Di sua bontà vedremo qualche altra prova più innanzi. Anche fu dabbene cristiano, tuttoché si lasciasse vincere in questa parte da altri, e Alberto Magno accusi in certo qual modo di empietà un suo libro intitolato Quaestiones Nicolai Peripatetici, e parecchi notino ch’egli non era troppo devoto. Vedremo, tuttavia, che un atto di devozione fu, in parte almeno, cagione della sua morte.
E ora, senza, più oltre indugiarci, prendiamo in esame le predizioni dell’indovino, o, se meglio piace, del profeta, e i prodigi del mago: e cominciam dalle predizioni.

IV

Varia e copiosa fiorì in Italia, nei tre secoli XII, XIII e XIV, la letteratura profetica, e due furono le ragioni principali del suo fiorire: il ravvivarsi del sentimento religioso; la passione politica. Il sentimento religioso naturalmente inclina l’uomo a ideare un avvenire conforme a certi dati della fede, o a certi postulati della coscienza, e, ideatolo, a palesarlo e bandirlo. La passione politica lo inclina a cercar nella predizione un concetto che lo sorregga e diriga, un’arme di combattimento, un principio di giustificazione. Nascono per tal modo due maniere di profezie, l’una più propriamente ascetica, l’altra più propriamente politica; sebbene tra le due non sia divario di specie a specie, ma solo di varietà a varietà; e sebbene delle due se ne faccia assai volte una sola: e nel riguardo della politica è in più particolar modo da distinguere la profezia che dirò suggestiva, la quale s’adopera a drizzar gli eventi piuttosto per una che per altra via; e la profezia retroattiva, la quale, descrivendo o narrando ciò che assume di predire, giustifica e sancisce, post eventum, un dato ordine di fatti.
Da Gioachino di Fiora, il quale fu

Di spirito profetico dotato,

a Jacopone da Todi, i profeti moltiplicarono in Italia; e quasiché i nostrani non bastassero, furono tratti a questa volta e forzati a immischiarsi nelle cose nostre anche i forastieri. Di ciò nessun altro esempio più calzante per noi, e che più, faccia al caso, di quello di Merlino, profeta e mago.
Le supposte profezie di Merlino, in grazia della compilazione latina che ne fece Goffredo di Monmouth, si diffusero rapidamente e largamente per l’Europa, acquistando fra disparatissime genti meravigliosa e durevole celebrità. Esse furono accolte nelle istorie, come un lume atto a rischiarare le umane vicende e a guidare il giudizio; furono commentate e interpretate da uomini di grande dottrina ed autorità, qual fu uno Alano de Insulis, che consacrò loro un’opera divisa in sette libri. Esse ebbero ad influire più d’una sugli avvenimenti e si serbarono in credito, e si seguitarono a stampare e citare, finché non sopraggiunse, come s’è notato, il Concilio di Trento, che le dichiarò false e le proibì. In grazia di quella tanta sua riputazione, Merlino non fu più soltanto il profeta dei Brettoni, ma diventò un profeta universale, a cui si attribuirono a mano a mano altri vaticinii, riguardanti, quando le sorti di una particolare nazione, quando eventi di carattere più generate, così fu ch’ei divenne profeta anche per l’Italia, dove, già nella prima metà del secolo XIII, un Riccardo, che abitava in Messina, compose in francese, a richiesta di Federico II (si noti questo particolare), e spacciandola per autentica, una nuova raccolta di profezie di Merlino, tutte molto favorevoli all’imperatore e altrettanto avverse alla curia romana. Non so se ad esse si riferiscano in qualche modo certe parole del già citato Fioretto di croniche degli imperadori, in un luogo dove, parlando appunto di Federico II, l’autore, che gli si addimostra assai favorevole, nota: «E se Merlino o vero la savia Sibilla dicono veritade, in questo Imperadore Federigo finì la dignitade». Col titolo di Versus Merlini il Muratori pubblicò in calce al Memoriale potestatum Regiensium sessanta versi leonini, assai rozzi, nei quali si accenna confusamente ai casi di molte città e province d’Italia.
Qualche altra prova si potrebbe recare della fama onde, come profeta, Merlino ebbe a godere in Italia; ma quelle recate potranno bastare.
Certo, Michele Scotto non ebbe, né poteva avere, per questa parte, fama eguale a quella di Merlino, il cui nome era cognito a quanto (ed erano innumerevoli) avessero qualche dimestichezza con le leggende vaghissime, ambages pulcherrimae, come Dante le chiama, del ciclo arturiano, e la cui vita favolosa aveva dato materia a un romanzo famoso, il Merlin di Roberta di Borron, notissimo, come gli altri del ciclo, in Italia, e tradotto nel volgare nostro l’anno 1375. Né pure ebb’egli celebrità meravigliosa onde fruì più tardi Michele Nostradamus; ma ebbe, ciò nondimeno, come profeta, non piccolo nome. Salimbene, che nella sua cronica riferisce parecchie profezie di Merlino e d’altri, ne riferisce anche una dello Scotto, in versi contenente Futura praesagia Lombardiae, Tusciae, Romagnolae et aliarum partium, e nota in proposito: «Quanto sieno state vere queste predizioni, fu da molti potuto vedere, ed io stesso il vidi e lo intesi; e la mente mia contemplò assai cose sapientemente, e fui ammaestrato; onde so che, se alcune poche ne togli, furono vere». Il cronista bolognese Francesco Pipino, il quale fiorì nella prima metà del secolo XIV, ricorda che lo Scotto diede fuori certi versi (probabilmente quegli stessi che Salimbene riporta) ov’era predetta la rovina di parecchie città d’Italia, con altri avvenimenti; e Benvenuto da Imola assicura che parecchie profezie del nostro filosofo si avverarono.
Le profezie qui ricordate furono esse veramente opera di Michele Scotto? o non piuttosto furono a lui attribuite per acquistar loro il credito e la celebrità onde quegli godeva, così come s’era fatto già, o tuttavia si veniva facendo, con Merlino? Che Michele s’arrogasse l’officio di profeta è provato da quanto dice in proposito Enrico d’Avranches, ricordato di sopra; ma che le profezie a lui attribuite sieno proprio di lui non si può provare, e che quella riferita da Salimbene non sia si può affermare sicuramente, quando si consideri che essa è, in sostanza, non favorevole, ma avversa a Federico II. Comunque sia, ciò che più importa a noi si è che dalla comune credenza e dalla leggenda ei fu tenuto profeta.
E la leggenda altro narra in proposito. Il cronista Saba Malaspina (sec. XIII), avvertito come Federico II desse molta fede ad astrologi e negromanti, e si governasse con loro parole, soggiunge che essendogli stato predetto da certi aruspici che morrebbe sub flore desideroso di vivere immortale, evitò con ogni studio d’entrare così in Firenze, come in Fiorentino di Campania, senza, per questo, poter fuggire alla sorte che l’aspettava. Chi quegli aruspici fossero Saba non dice. Giovanni Villani narra: «Lo Imperadore venuto in Toscana non volle entrare in Firenze, né mai non v’era intrato, però che se ne guardava, trovando per suoi augurj, ovvero detto d’alcuno demonio, ovvero profezia; come doveva morire in Firenze, onde forte ne temea»; e alquanto più oltre, narrando come Federico morisse in Firenzuola, soggiunge: «ma male seppe interpretare le parole mendaci, che ’l demonio li avea dette». Giovanni non sa donde propriamente venisse, di che natura fosse l’avvertimento; ma inclina da ultimo a crederlo avvertito ingannevole di demonio. Altri, e sono il maggior numero, attribuiscono l’avvertimento a Michele Scotto. Benvenuto da Imola, notato come Michele mescolasse la negromanzia con l’astrologia, e come delle predizione ch’ei fece alcune ebbero ad avverarsi, dice che male per altro s’appose quando annunziò a Federico che morrebbe in Firenze, mentre morì in Fiorenzuola di Puglia (sic). L’autore del Fioretto delle croniche degli imperadori nomina Michele Scotto, ma non accenna a errore o equivocazion di nome: «E andando per lo cammino (lo imperadore) giunse in Campania a una terra che si chiama Fiorentino, e quivi morì. E tutto ciò gli disse di sua morte Maestro Michele Scotto negli anni domini MCCL»: e avverte poi che Merlino parlò di Federico II, e profetò che vivrebbe settantasette anni. Sant’Antonino ricorda l’equivocazione dei nomi, ma di Michele Scotto non parla; mentre alcuni fra i commentatori meno antichi di Dante, come il Landino, il Vellutello, il Daniello, ne fanno espresso ricordo. Taluno d’essi parla, non di Fiorenzuola, ma di Firenzuola. Com’è noto, Federico morì veramente in Fiorentino di Puglia.
Non ispenderò parole intorno all’indole di questa profezia la quale arieggia certi responsi ambigui degli oracoli antichi: mi basterà notare ch’essa ha numerosi riscontri.
A Cecco d’Ascoli, mutato come Michele Scotto in mago, furono, come a Michele Scotto, attribuite parecchie profezie, ricordate da Giovanni Villani e da altri.

V

Se celebre come profeta, assai più celebre fu Michele Scotto come mago.
Abbiamo già udito il Landino affermare essere stata opinione universale che Michele «fusse ottimo astrologo et gran mago»; e l’Anonimo Fiorentino ch’ei «fu grande nigromante». Il Boccaccio lo fa dire da Bruno «gran maestro in nigromanzia», e Guiniforto delli Bargigi lo vanta «grande incantatore nella corte di Federico II». Nel Paradiso degli Alberti, Maestro Luigi Marsilii, facendosi a narrare una novella che vedremo or ora, dice di voler narrare «un caso assai famoso e noto pubblicamente fatto da tale, che secondo si crede, non fu in Italia già moltissimi secoli più dotto e famoso mago». Aveva dunque avuto ragione Dante di affermare che Michele seppe veramente quel gioco, e Fazio degli Uberti ch’ei seppe contraffare Simon Mago, maestro e principe di tutti i maghi. In sul finire del secolo XV e in sul principiar del seguente questa celebrità di Michele Scotto non era ancor dileguata: Teofilo Folengo, nella maccheronea XVIII ce ne fa testimonianza.
La leggenda magica di Michele Scotto non dovett’essere per certo così copiosa e compaginata come fu quella di Virgilio; ma certo fu più compaginata e copiosa di quanto ora appaja a noi, che non siam più in grado di conoscerla tutta. Di ciò le prove non mancano. Benvenuto da Imola ricorda avere udito narrar di Michele, de quo jam toties dictum est et dicetur, assai cose, che pajon a lui piuttosto immaginate che vere; e l’Anonimo Fiorentino: «Dicesi di lui molte cose meravigliose in quell’arte». Più secoli dopo il Dempster nota che ancora a’ suoi tempi si narravan di lui innumerevoli fiabe, innumerabiles... aniles fabulae. Avvertasi che la leggenda magica di Michele Scotto nasceva e prendeva vigore giusto nel tempo in cui cominciava ad appalesarsi in modo più risentito il triste vaneggiamento superstizioso che tante sciagure procacciò di poi; quando contro gli stregoni e le streghe s’instruivano i primi processi e s’accendevano i primi roghi; quando Gregorio IX, di cui abbiamo udite le lodi date al filosofo, si levava con impetuoso sdegno contro l’arte dannata e contro i rei che osavan di professarla. Nasceva la leggenda e prendeva vigore in un tempo assai favorevole al suo nascere ed al suo crescere.
I racconti in cui la leggenda prende corpo e colore si possono spartire in due gruppi: l’uno, di quelli nati in Italia, o, per lo meno, riferiti da autori italiani; l’altro, di quelli nati fuori d’Italia, e più propriamente nella patria del filosofo, in Iscozia. Tra questi due gruppi non è diversità quanto al concetto che li informa e sorregge; ma non è nemmeno continuità: li tiene congiunti insieme il nome di colui che diede argomento alla leggenda. Volgiamoci primamente al primo.
Jacopo della Lana, Francesco da Buti, l’Anonimo Fiorentino, Cristoforo Landino, Alessandro Vellutello, narrano, quale più in breve, quale più in disteso, e con particolarità che variano dall’uno all’altro, come, essendo in Bologna, Michele invitasse a banchetto molti gentili uomini della città, senza apparecchiare vivanda alcuna, e neanco accendere il fuoco in cucina, e come, essendo i convitati, seduti intorno alle mense, cominciassero a venir per l’aria serviti di molte vivande, e Michele dicesse loro: questo viene dalla cucina del re di Francia; quest’altro dalla cucina del re d’Inghilterra, e così di séguito; e il tutto avveniva per diligenza di spiriti, comandati da Michele.
Il qual Michele, per altro, non potrebbe vantarsi d’essere stato al mondo solo operatore di tanto prodigio, ché altri l’operarono, prima e altri dopo di lui. Di Pasete, il quale superò tutti gli uomini nell’arte magica, ricorda Suida come facessero apparire sontuosi banchetti, e donzelli che li servivano, e il tutto novamente sparire; e miracoli simili narra Origene dei maghi d’Egitto. Numa Pompilio, Virgilio, Tiridate I, re d’Armenia, un re dei Bramani, Alberto Magno, Ruggero Bacone, Pietro Barliario, Fausto, un rabbino per nome Löw, conobbero tutti quest’arte, e la praticarono con ottimo successo. Il diavolo Astarotte imbandì a Rinaldo e a Ricciardetto un banchetto sontuoso, e avendo i due paladini domandato

onde l’oste abbia avute
Queste vivande che son lor venute;
Risponse il diavol: Questa colezione,
E le vivande che mangiato avete,
Apparecchiava il re Marsilione;
E giunti in Roncisvalle lo saprete,
Che i servi insieme ne fecion quistione;
E se del vostro imperador volete
Ch’io faccia qui venir lesso o arrosto.
Comanda pur, ché ci sarà tantosto[8].

Né potrebbe il nostro Michele vantarsi d’essere stato il solo che sapeva operare il miracolo, riferito dall’Anonimo Fiorentino, di far comparire «essendo di gennaio, viti piene di pampani et con molte uve mature», le quali sparvero subito che i presenti si furono accinti a tagliare i grappoli co’ coltelli; perché un miracolo in tutto simile a questo seppe operare anche Fausto, e altri incantatori seppero, di pieno verno, far comparire interi giardini, verdi e fioriti. Così l’Ebreo Sedecia, di cui si dice, nel Paradiso degli Alberti, che l’anno 876 fece sorgere, in presenza dell’imperator Lodovico, uno stupendo giardino, tutto odoroso di fiori, tutto sonante del canto d’infiniti uccelli; così Alberto Magno, che in un giardino miracoloso imbandì un miracoloso banchetto, così Cecco d’Ascoli, di cui si racconta che «in un convito di dame, a tempo d’inverno, fece apparir pergolati, e fiori e frutta, come di primavera e autunno». Ma il prodigio più pomposo e mirabile fu quello operato dal secondo. Nel cuor del verno, Alberto Magno pregò una volta l’imperatore Guglielmo di volersi recare, con tutta la corte, a desinare in sua casa. V’andò l’imperatore, e il buon mago lo menò, insieme col seguito, in un giardino, dove, tra gli alberi sfrondati, in mezzo alla neve ed al ghiaccio che coprivano intorno ogni cosa, si vedeva apparecchiato il convito. I cortigiani cominciarono a mormorare, sembrando loro uno strano scherzo quello dell’ospite che li aveva condotti a intirizzir di freddo; ma come l’imperatore si fu seduto a mensa, e gli altri similmente, ciascuno secondo il suo grado, ecco splendere in cielo un sole estivo, ecco disfarsi in un baleno la neve ed il ghiaccio, la terra e gli alberi germinare e vestirsi di verzura e di fiori, brillar tra le fronde i frutti maturi, e l’aria d’intorno sonare del canto soavissimo d’infiniti uccelli. In breve la caldura crebbe di sorta, che i convitati cominciarono a togliersi i panni di dosso, e, mezzo ignudi, ripararono all’ombra degli alberi. Fornito il mangiare i numerosi e leggiadri valletti, che avevan servito sparvero come nebbia, e di subito il cielo si rabbujò, e le piante si dispogliarono, e un orrido gelo ravvolse novamente ogni cosa, con sì acerba freddura che gli ospiti, tremando, corsero in casa, e si accalcarono intorno al fuoco[9].
Non estraneo forse ai banchetti magici di Michele era un barletto portentoso, che mai non si votava. Si racconta nelle chiose sopra Dante alle quali si dà il titolo di Falso Boccaccio, che nel campo e nel padiglione dell’imperator Federico, il giorno in cui questi fu sconfitto da’ Parmigiani assediati, un povero ciabattino, andatovi con altri infiniti a far preda, trovò un barletto pien di vino squisitissimo, e sel portò a casa. Egli e la donna sua ogni dì ne spillavano; ma per quanto ne spillassero, non potevano vederne la fine: onde il pover uomo, meravigliato, volle vedere che mai ci fosse dentro, e ruppe il barletto, e vi trovò una piccola figurina di un angelo d’argento, il quale con l’un de’ piedi premeva un grappolo d’uva, similmente d’argento, e dal grappolo usciva quel perfettissimo vino. Così appagò egli la sua curiosità; ma tosto se n’ebbe a pentire, perché dal barletto non usci più nemmeno un gocciolo; e il barletto «era fatto per arte magicha e di negromanzia, e questo fecie Tales, overo Michele Scotto, per la sua scienza e virtù». L’autore di queste chiose è il solo che affibbii a Michele il nome di Tales (Talete?), né so dire perché sel faccia. Di un altro botticino che non si votava mai, ma che avrebbe perduta la virtù il giorno in cui alcuno avesse voluto guardarvi dentro, fu autore Virgilio, secondo attesta Bonamente Aliprando.
Questi racconti hanno popolare l’origine, popolare il carattere. Stimolata dal bisogno e talora dalla fame, la fantasia vagheggiò nell’arte magica un mezzo sbrigativo e sicuro di sovvenire alla fame e al bisogno. Di qui sì fatte ed altre simili finzioni, le quali perpetuamente rinascono dal desiderio perpetuo. La borsa inesauribile di Fortunato passa di mano in mano: a Pietro d’Abano i denari spesi facevano ritorno da sé, fedelmente; l’antico Pasete, già ricordato, aveva un mezzo obolo che sempre gli rivolava in tasca, e che diede argomento a un proverbio.
Di tutt’altro carattere, e più romanzesco, men comune, è un altro prodigio che del nostro mago si narra.
Federico II celebrava in Palermo, con solennissime feste, la elezione sua a re dei Romani. Il giorno della festa maggiore, essendo chiarissimo il cielo, e già seduti intorno alle mense i convitati, e cominciato a dar l’acqua alle mani, si presentò all’imperatore Michele Scotto, insieme con un suo compagno, entrambi in abito di Caldei, e ricordato come da un mese circa non fosse più stato in corte, offerse di dar saggio dell’arte sua. L’imperatore lo pregò di far rinfrescare, con un buono scataroscio di pioggia, l’aria, ch’era caldissima. Obbedì il mago, e tosto, rannuvolatosi il cielo, imperversò una furiosa procella, la quale si chetò prontamente, come appena l’imperatore n’ebbe espresso il desiderio. Ammirato e lieto di tal meraviglia, l’imperatore invitò i savii a chiedergli quale grazia più loro piacesse, ch’egli era pronto a concederla e Michele li pregò di voler dar loro uno de’ suoi baroni, perché fosse loro campione, e li ajutasse ad aver ragione di certi nemici, co’ quali erano in guerra. Acconsentì Federico, e li invitò a scegliere tra’ cavalieri presenti quello che loro fosse più in grado, ed essi scelsero un cavaliere tedesco, per nome Ulfo, e subito, con esso lui (così parve al cavaliere) si posero in viaggio, sopra due grandi e magnifiche galere, avendo seco numerosa e bella compagnia. Navigando a seconda, risalirono lungo la costa occidentale d’Italia, ridiscesero lungo la costa orientale di Spagna, valicarono lo stretto di Gibilterra, e giunsero «a liti assai domestici e piacevoli», dove si fe’ loro incontro molto popolo festante, ed ebbero, come signori di quel paese, meravigliose accoglienze; e di lì passarono a un luogo, ov’era accompagnato un grandissimo esercito, pronto a muovere contro il nemico, e dell’esercito, Ulfo fu gridato capitano. Comincia all’ora una micidialissima guerra. Si combattono due grandi battaglie campali, a cui tien dietro la espugnazione d’una città. Ulfo uccide di sua mano il re nemico, ne occupa il trono, ne sposa la figliuola, e riman d’ogni cosa, per volontà di Michele, solo ed assolto signore. Michele e il compagno chiedono allora licenza e si partono, e Ulfo vive lietissimo in compagnia della moglie, che adora, e ha da lei più figliuoli, così maschi come femmine. Trascorsi quasi vent’anni, Michele e il compagno tornano a lui, e lo sollecitano ad andarsene con loro in Sicilia, alla corte dell’Imperatore. Ulfo, benché di mala voglia si parta dalla famiglia e dal regno, cede alla loro preghiera, si pone con essi in viaggio, giunge con essi a Palermo, ed ecco ritrova, con sua stupefazione grandissima, nella corte di Federico, le cose tutte in quella condizione medesima in cui le aveva lasciate, che dai donzelli non s’era ancor finito di dar l’acqua alle mani. Quelli che ad Ulfo erano, per illusion di magia, sembrati molt’anni, non erano stati se non pochi istanti; e la novella soggiunge che il povero cavaliere non poté racconsolarsi mai più della felicità che credeva di aver goduta e perduta. In quel punto medesimo Michele e il compagno sparirono, e per quanto Federico, doglioso della tristezza del suo cavaliere, li facesse cercare, non fu più possibile di trovarli.
La novella di cui io ho qui dato un sunto, è narrata molto per disteso nel Paradiso degli Alberti; ma, assai prima che in questo romanzo, fu introdotta nel Novellino, salvo che qui è narrata, come le altre del libro, in forma assai compendiosa, e che il luogo di Michele Scotto e del suo compagno vi è tenuto da «tre maestri di nigromanzia », di nessun de’ quali si dice il nome, e un conte di San Bonifazio fa le veci del cavaliere Ulfo. L’avventura, o, a meglio dire, l’incantesimo che le porge argomento, riappare, variato più o meno, in numerosi racconti.
Della valentia di Michele Scotto nell’arti magiche, e dei prodigi operati da lui, rimase lungo ricordo in Italia. Nella maccheronea XVIII del Baldo, Teofilo Folengo enumerando le varie figure di maghi ond’era adorno il libro di Muselina, non dimentica Michele, e fa cenno de’ suoi incantementi: immagini diaboliche; filtri amatorii; un cavallo invisibile, che rapido come saetta, il portava dovunque gli piacesse d’andare; certa nave disegnata sulla riva, che si mutò in vera e propria nave trasvolante pel mari; una cappa che faceva invisibile chi la indossava, ma lasciava scorgere l’ombra del corpo, se quegli, incauto, si fosse esposto al sole. Non so se, altri, prima del Folengo, avesse attribuiti a Michele sì fatti prodigi, che dagli autori più antichi non si vedono ricordati; ma quanto ai prodigi stessi, l’invenzione non è del Folengo. Un cavallo molto simile a quello da lui descritto ci si parerà dinanzi a momenti: il miracolo della nave si racconta di Eliodoro, di Virgilio, di Pietro Barliario, di altri: delle immagini, dei filtri, della cappa che rende l’uomo invisibile, nulla è da dire, tanto sono comuni. In principio del secolo XVII, Antonio Maria Spelta ricordava ancora, ma per burlarsene, i banchetti magici di Michele Scotto.
Ora sarebbe a dire della morte di Michele secondo la tradizione italiana; ma avendosi, circa quella morte, anche una tradizione scozzese, dirò di entrambe congiuntamente più oltre.

VI

I racconti intorno al nostro buon mago dovettero essere in Iscozia, e anche in Inghilterra, assai numerosi. Abbiam veduto il Dempster accennare a favole innumerevoli: Gualtiero Scott, alla cui diligenza dobbiamo le poche di cui s’abbia notizia, dice di riferire alcune delle molte che a’ suoi tempi narravansi ancora. E sono queste che seguono.
Certi sudditi del re di Francia avevano, in danno di certi sudditi del re di Scozia, commesso non so che atti di pirateria. Il re di Scozia pregò Michele d’andarne a chiedere soddisfazione e risarcimento, e Michele accettò l’ufficio; ma, anziché provvedersi di sontuoso equipaggio, come richiedeva la condizione d’ambasciatore, egli si ritrasse nel suo studio, aperse un suo libro magico, evocò un demonio in figura di un gran cavallo nero, gli montò addosso, e lo forzò a volare per l’aria alla volta di Francia. Mentre così volavano sopra il mare, il demonio chiese insidiosamente al suo cavaliere che cosa mai borbottassero le vecchie donniciuole di Scozia in sul punto di mettersi a letto. Un incantator meno esperto avrebbe, risposto: il Pater noster; e subito il nemico se lo sarebbe scosso dal dorso e l’avrebbe precipitato nell’onde. Ma Michele severamente rispose: Di ciò che t’importa? Sali, diavolo, e vola! Giunto in Parigi, legò il cavallo alla porta del palazzo, si presentò al re, espose arditamente il suo messaggio. Il re accolse poco rispettosamente un ambasciatore che si mostrava in così povero arnese, e stava per rispondergli con un superbo rifiuto, quando Michele il pregò di voler soprassedere ad ogni risoluzione fino a che il suo cavallo avesse dato tre zampate in terra. Alla prima zampata traballarono tutti i campanili di Parigi, sonarono tutte le campane; alla seconda tre torri del palazzo rovinarono; e l’infernal palafreno stava per picchiare la terza, quando il re, prima di vederne gli effetti, concesse a Michele tutto quanto gli aveva domandato.
Questo di un viaggio per l’aria, compiuto con l’ajuto di un diavolo, in brevissimo tempo, è tema di racconto assai comune; e comune la finzione del cavallo diabolico[10], e l’accorgimento o il precetto di non far atto, o profferir parola, che abbia carattere religioso. Le streghe, che a cavalcioni d’una granata, o sul dorso di un caprone, si recavan di notte, per l’aria, alla tregenda, erano precipitate a terra se facevano il segno della croce, se invocavano Dio o i santi.
Un’altra volta Michele, mentre dimorava nella torre di Oakwood, sul fiume Ettrick, a circa tre miglia da Selkirk, udì parlare di una strega, detta la strega di Falsehope, la quale aveva sua stanza sull’altra sponda del fiume. Una mattina egli si recò da lei, per metterla alla prova; ma fu deluso, poiché quella negò d’avere qualsiasi cognizione dell’arte magica. Discorrendo, Michele posò sbadatamente la verga sopra una tavola, e la strega, datole subitamente di piglio, lo percosse con quella e lo trasformò in lepre. Egli, così mutato, sguizzò fuori; ma si imbatté nel suo proprio servitore, e ne’ proprii suoi cani, i quali presero a corrergli dietro, e in breve l’ebbero serrato così da vicino, che egli, per avere un momento di respiro e poter disfar l’incanto, si dovette cacciare, dopo faticosissima fuga, in una cloaca. Desideroso di vendicarsi, Michele, una bella mattina, nel tempo del raccolto, andò, co’ suoi cani, sopra di un colle, e mandò il servo dalla strega, a chiederle un po’ di pane per le bestie, istruendolo di quanto dovesse fare in caso che ne avesse un rifiuto. La strega ricusò con parole ingiuriose, e il servo attaccò all’uscio un breve, datogli dal padrone, ove, insieme con più parole cabalistiche, si potevan leggere questi due versi:

Il servitore di Michele Scotto
Chiese del pane e invece ebbe un rimbrotto.

Senza por tempo in mezzo, la vecchia, tralasciata la occupazion sua, ch’era di cuocere il pane pei mietitori, prese a ballare intorno al fuoco, ripetendo que’ versi. Giunta l’ora del desinare, il marito di lei, non vedendo venire le provvigioni, mandò l’uno dopo l’altro i suoi uomini a vedere quale fosse la cagion del ritardo; ma tutti furono colti dalla stessa malia, e tutti, senza più pensare a tornarsene indietro, entrarono nella danza. Da ultimo si mosse anche il marito, ma veduto Michele sul colle, sapendo del brutto scherzo fattogli dalla donna, fu più cauto degli altri, e non entrò in casa, ma guardò dalla finestra, e vide i suoi mietitori, i quali trescando senza volere, trascinavano la moglie sua, oramai più morta che viva, quando intorno, e quando attraverso il fuoco, che, secondo l’uso, ardeva nel bel mezzo della stanza. Non cercò altro, ma sellato un cavallo, corse sul colle, si umiliò dinnanzi a Michele, e lo pregò di far cessare l’incanto, grazia che il buon mago subito gli concesse, avvertendolo di entrare in casa a ritroso, e di staccare con la mano sinistra il breve dall’uscio. Così fece il buon uomo e l’incanto cessò.
Ci sono due cose in questo racconto che richiamano più particolarmente la nostra attenzione: la metamorfosi del mago in lepre; la danza magica forzata.
È credenza antichissima, e comune a tutte le razze umane, che, per virtù di magia, l’uomo possa mutarsi, o essere mutato in bruto e che una simile mutazione possa anche operare il volere di un nume. La mitologia classica abbonda, a questo riguardo, di notissimi esempii, a cui fa riscontro, nella Bibbia, il caso di Nabucco, e fanno riscontro molti miti fanciulleschi di genti selvagge. Il medio evo conserva sì fatta credenza, se pur non l’accrebbe, e per secoli nessuno dubitò della realtà della licantropia, nessuno negò che gli stregoni e le streghe potessero prendere la forma di quell’animale che più fosse loro piaciuto, o farla prendere altrui. La trasformazione era del corpo propriamente, e dicevasi che l’anima, nel corpo mutato, serbavasi inalterata; ma anche in questa, come in tante altre opinioni del tempo, è difetto di precisione e di certezza. Più e più cronisti narrano il caso del re Gontrano di Francia, la cui anima, sotto forma di un topo, fu veduta uscire dalla bocca di lui dormente, passare un ruscello, entrare nel cavo di un monte, scoprirvi un tesoro, e rientrar poi d’ond’era uscita; e molte e molte leggende ascetiche narran di anime vaganti in forma d’uno o d’altro animale, il più sovente di uccelli. Gli è assai difficile dire dove, secondo le idee medievali, cessi il bruto e l’uomo incominci, tanto quello è fatto prossimo a questo. Sono senza numero le pie leggende in cui si vedono i leoni e le tigri rispettare i martiri; i santi anacoreti vivere familiarmente con le fiere del deserto, avere da esse nutrimento e difesa, e talvolta operar miracoli in loro beneficio; varii animali esser fatti messi del cielo, ammonire i peccatori, predir l’avvenire, o, se non altro, osservare le feste. Perciò, come non è a meravigliare dell’uso che il medio evo fece degli animali in servigio della esemplificazione e del simbolo, così non è da stupire delle procedure giudiziali, delle sentenze, delle maledizioni e delle scomuniche cui, più d’una volta, essi porsero occasione e argomento. Perciò San Francesco aveva ragione di predicare agli animali e di farli assistere alla santa messa; aveva ragione di chiamarli fratelli; e non ebbe torto il giorno in cui maledisse una troja che aveva ammazzato un agnello, e che per la forza di quella maledizione morì in capo di tre giornia[11]. Dopo la morte, l’uomo ritrovava gli animali in inferno; ne ritrovava qualcuno, secondo la popolare credenza, in paradiso.
Di danze forzate sono molti esempii in leggendarii, : in croniche, in novelle popolari. Sempre hanno carattere o di burla maligna o di castigo, e chi le promuove può essere così un mago come un sant’uomo. Ruggero Bacone forzò tre ladri a ballare tutta una notte. Infiniti son i racconti ove si vedono colte successivamente alla stessa malia molte persone, delle quali quelle che giungon dopo vengono col proposito di vedere che cosa sia occorso alle altre, giunte prima, o con quello di liberarle. Il caso di Michele e della strega porge inoltre esempio di quelle gare di maghi onde tanti altri esempii si hanno, a cominciare da quello celebre di Mosè e dei maghi d’Egitto.
Dice Gualtiero Scott che a tempo suo, nel mezzodì della Scozia, ogni fabbrica antica e di gran lavoro si credeva opera del vecchio Michele, o di Sir Guglielmo Wallace, o del diavolo. Ben s’intende che il vecchio Michele, come ogni altro mago, s’era in ciò giovato della forza e della industria dei diavoli. E la leggenda narra di uno di questi diavoli, il quale era sempre attorno a Michele, e non voleva mai starsi con le mani in mano, ma lo importunava senza fine perché volesse dargli faccenda. Michele gli ordinò di costruire una diga attraverso il fiume Tweed, a Kelso, e in una notte la diga fu fatta. Poi Michele gl’ingiunse di spartire in tre il colle di Eildon, e in un’altra notte il colle fu spartito. Finalmente Michele gl’impose d’intrecciar corde d’arena, e a questa disperata bisogna il buon diavolo attende tuttora. Notisi che evocare i diavoli, e non occuparli subito in qualche cosa, poteva portar pericolo. Il famulus di Virgilio, avendone evocati molti storditamente, e vedendoli impazienti e minacciosi, ordinò che lastricassero la strada da Roma a Napoli, e così fecero. I ponti, i muri, gli acquedotti, i palazzi fabbricati dai diavoli sono innumerevoli: tra le opere loro si ha pure qualche bella chiesa, e più di un convento.
La morte di Michele Scotto è narrata in modi affatto diversi dalla tradizione italiana e dalla tradizione scozzese.
Francesco Pipino, già ricordato, racconta: «Dicesi che Michele Scotto, avendo trovato d’avere a morire della percossa di un sassolino di peso determinato, immaginò una nuova armatura del capo, detta cervelliera, e di quella andava sempre coperto. Un giorno, essendo in una chiesa, nel momento della ostensione o elevazione del corpo di Cristo, egli, per consueta reverenza, si nudò il capo, e in quella appunto il fatal sassolino, cadendo dall’alto, il percosse, e lievemente il piagò. Postolo in una bilancia, e trovatolo del peso che avea preveduto, intese esser giunta la sua fine, e dato ordine alle cose sue, di quella ferita indi a poco morì».
Con leggiere varianti questa novella è narrata pure da Benvenuto da Imola, dal Capello, commentatore del Dittamondo, dal Daniello, dal Landino, dal Vellutello, e, riferendosi, senza dubbio, ad essa, parecchi cronisti dicono, come il Pipino, Michele inventore della cervelliera. Questa morte di Michele Scotto ricorda quella di Virgilio, che avvertito, secondo la leggenda, di guardarsi il capo, morì d’insolazione.
Stando alla tradizione scozzese, Michele Scotto morì per la malvagità di una donna, sua moglie, o concubina. Costei riuscì a farsi palesare da lui ciò che, insino allora, egli aveva tenuto a tutti celato; cioè che con l’arte sua egli poteva premunirsi da ogni pericolo, salvo che dalla velenosa virtù di un brodo fatto con la carne di una troja furiosa. Cotal brodo per lo appunto ella gli diede a bere, e il povero mago se ne andò all’altro mondo; non così presto tuttavia, che non gli rimanesse tempo di punir con la morte la traditrice.
Per questo racconto Michele entra a far parte della numerosa famiglia degli ingannati dalle donne, famiglia così spesso ricordata da poeti e romanzatori del medio evo, e nella quale figurano Adamo, Salomone, Sansone, Aristotele, Virgilio, Merlino, Artù e parecchi altri.
Dei libri magici di Michele Scotto durò lungo il ricordo in Iscozia. A’ tempi del Dempster si credeva che essi esistessero ancora, ma non si potessero aprire senza spavento, a cagione de’ prestigi diabolici che tosto si offerivano a chi li aprisse. Del pericolo che gl’inesperti potevan correre in aprire i libri magici son molti esempi: due nipoti di Pietro Barliario vi lasciarono la vita. I libri di Michele, dicevasi erano stati sepolti con lui, o si conservavano nel convento ov’egli era morto, o in un castello, appesi ad arpioni di ferro. Del libro magico di Cecco d’Ascoli si disse in Italia che fosse conservato nella Laurenziana, o sopra le volte di San Lorenzo, assicurato con catene. Nel canto II del suo Lay of the last Minstrel, Gualtiero Scott narra la storia di un cavaliere, per nome Guglielmo Deloraine, il quale con l’ajuto di un vecchio monaco, che già aveva conosciuto Michele Scotto, apre la tomba del mago, e ne toglie il libro magico. In mezzo a una luce meravigliosa, che riempie la tomba, il mago appar loro come fosse ancor vivo, maestoso nell’aspetto, col libro del comando nella mano sinistra, una croce d’argento nella destra, e quasi co’ segni della eterna salute nel volto. Tutto ciò è invenzion del poeta.

VII

De’ prodigi che la leggenda attribuisce a Michele Scotto, non pochi, come abbiam veduto, si narrano di altri maghi; e in generale può dirsi che le numerose leggende di maghi pervenute, in tutto o in parte, sino a noi, presentano, insieme con alcune picciole parti divariate e proprie, una parte di molto maggiore, uniforme, e comune. Di questa uniformità e comunanza son due ragioni: la prima, che i temi principali della finzione sono naturalmente di numero assai ristretto, e, in condizioni simili di coltura e di vita, rinascono e si ripetono simili; la seconda, che i temi passano d’una in altra leggenda, di modo che i maghi nuovi ereditano dagli antichi; i maghi celebri arrichiscono a spese degli oscuri. Abbiamo qui un caso speciale di quel generale procedimento di attrazione e di accumulazione per cui tutte le leggende crescono, e di cui tanti esempii ci porgono le storie favolose e mirabili degli eroi epici, dei santi, ecc. così fu che la leggenda di Virgilio crebbe di numerose sottrazioni fatte alle leggende di altri maghi; così fu che crebbe la leggenda di Fausto.
Virgilio, Ruggero Bacone, Pietro Barliario, Cecco d’Ascoli, Fausto, diedero materia a storie popolari, nelle quali si pensò d’avere raccolti ordinatamente tutti i miracoli che loro si attribuivano, narrata per intero la vita, dal nascimento alla morte. In essi appare, non più la leggenda disgregata, ma la leggenda integrata, venuta a termine di crescenza. Non si sa che di Michele Scotto siasi scritta una cotale storia in Italia; ma potrebbe darsi che fosse stata scritta in Iscozia. Un poeta, per nome Satchells, ignoto alle storie letterarie e ai repertorii bibliografici, ma citato, non so con quanta veridicità, da Gualtiero Scott, parla di una storia di Michele Scotto da lui veduta.
Come le altre leggende di presunti maghi, la leggenda di Michele Scotto cominciò a trovar molti increduli e fu risolutamente negata, dopo che la nuova coltura ebbe sgombrate le menti dalle caligini medievali. Il Pits, il Dempster, il Leland, il Naudé, altri, schifano la leggenda, esaltano, come s’è veduto, il sapere di Michele, dicono ch’egli fu mago solo nell’opinione del volgo. Nel 1739, un Giovanni Gotofredo Schmutzer scrisse un’apposita dissertazione per difendere Michele Scotto dalla imputazione di veneficio. Per veneficio l’autore intese probabilmente, come dai Latini molte volte s’intese, maleficio, sortilegio: a me non fu dato di veder quest’opuscolo.
In Italia le leggende di Pietro Barliario e di Cecco d’Ascoli son vive tuttora, offron tuttora alcun pascolo alla curiosità popolare; ma quella di Michele Scotto è spenta già da gran tempo. In Iscozia, la leggenda di Michele Scotto, viva ai tempi dell’autore d’Ivanhoe, è forse viva anche ora; ma non andrà molto che e questa, e quelle, ed altre parecchie, andranno a raggiungere le innumerevoli che i nuovi tempi, i nuovi costumi e le nuove idee hanno cancellate per sempre dal libro della vita. Allora, solo nei libri degli eruditi esse troveranno ricetto e riposo.

Note
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[1] «Inf.», XX, 115-7
[2] Da piú luoghi del poema, e in particolare modo dal racconto posto in bocca a Virgilio nel IX canto dell’«Inferno», vv. 22-7, si ricava, parmi, con sicurezza che Dante non dissentiva, per questo caso, dalla comune credenza dei tempi suoi... Dante vede nella magia un’arte diabolica, nascente dalla mostruosa alleanza dell’uomo con le potenze infernali.
[3] Novellino, nov. XXI del testo gualteruzziano.
[4] ... lo stesso Carlo ebbe a dare argomento a qualche leggenda consimile;
[5] L. II, cap. 27
[6] «Io soltanto penso / Che, se è un mago, / È il mago del cielo». El magico prodigioso, giorn. III, in fine
[7] I demografi sono p ressoché concordi nel dire che il diavolo non può essere forzato e che la sua obbedienza ai maghi è finzione ancor essa: ma la credenza popolare contraddisse, in questo, come in altri punti, alla opinione dei trattatisti di professione
[8] Mogante Maggiore, c. XXV, st. 220-1
[9] Cfr. la nov. 5 della giorn. X del Decamerone.
[10] Vedi il mio libro Il Diavolo, Milano 1889, pp.239 sgg.
[11] Su questo tema ci sarebbe da scrivere un libro non meno istruttivo che dilettevole ed io da gran tempo l’ho in mente.

 

 

 

 

ARTÙ NELL’ETNA

I

Per secoli fu creduto che Artù, mortalmente ferito in battaglia, non fosse mai morto, ma vivesse in luogo incantato e recondito, d’onde sarebbe, una volta o l’altra, per far ritorno e prender vendetta de’ nemici del suo popolo e suoi. Si sa quale luogo tenesse nella coscienza dei Brettoni vinti, ma non caduti di animo, sì fatta credenza; come intimamente si legassero ad essa i ricordi loro più dolorosi e le più accarezzate speranze; come tutto il sentimento loro di nazione trovasse in essa una consacrazione ed un simbolo. Alano de Insulis (m. 1202) ricorda come ai tempi suoi quella credenza fosse ancora così viva e comune in Armorica che il contraddirla avrebbe portato pericolo di lapidazione. Fra le genti d’altra stirpe la lunga e paziente aspettativa diede il tema a locuzioni proverbiali notissime; e Arturum expectare tanto venne a dire quanto aspettar ciò che non può né deve avvenire; e speranza brettone fu sinonimo di speranza vana ed assurda. A sì fatta speranza sono frequenti accenni nei trovatori di Provenza, e dai trovatori di Provenza, se non da altri, avrebbero gl’Italiani potuto averne agevolmente contezza. Arrigo da Settimello, nel suo poema latino De divertiste fortunae et philosophiae consolatione, composto circa il 1192, la rammenta due volte:

Et prius Arturus veniet vetus ille Britannus,
Quam ferat adversis falsus amicus opem.
Qui cupit auferre naturam seminat herbam
Cujus in Arturi tempore fructus erit.

Nel 1248 quei di Parma, assediati da Federico II, colta un giorno l’occasione che l’Imperatore era andato a cacciare, uscirono fuori con grande impeto, e presero e distrussero la città di Vittoria, dai nemici edificata quasi sotto le loro mura. Non molto dopo, l’avvenimento fu celebrato in tre carmi, nel terzo de’ quali l’anonimo poeta, accennando alle vane minacce dell’imperatore, dice:

Cominatur impius, dolens de iacturis,
Cum suo Britonibus Arturo Venturis.

Secondo l’antica tradizione brettone raccolta da Goffredo di Monmouth, Morgana aveva trasportato Artù ferito in quella paradisiaca isola di Avalon, altrimenti detta Insula pomorum, o Fortunata, della quale è sì frequente ricordo in croniche e in poemi del medio evo, ma non era possibile che, o prima o poi, la finzione non variasse su questo punto, specie migrando fuor di patria, prendendo ad allignare fra nuove genti, incontrandosi con altre finzioni, offerendosi a esplicazioni e connettimenti nuovi. Come Orlando, t’atto cittadino di altre patrie, ebbe mutato il luogo della sua nascita e il teatro delle prime sue gesta, così Artù ebbe mutato il luogo della sua miracolosa segregazione.
Ed ecco farcisi innanzi una tradizione, la quale sembra abbia smarrito ogni ricordo dell’isola di Avalon, e pone la incantata dimora di Artù nell’interno dell’Etna. Gervasio da Tilbury, primo fra gli scrittori di cui abbiamo notizia, la riferisce nel modo che segue: «In Sicilia è il monte Etna, ardente d’incendii sulfurei, e prossimo alla città di Catania, ove si mostra il tesoro del gloriosissimo corpo di Sant’Agata vergine e martire, preservatrice di essa. Volgarmente quel monte dicesi Mongibello; e narran gli abitatori essere apparso ai dì nostri, fra le sue balze deserte, il grande Artùro. Avvenne un giorno che un palafreno del vescovo di Catania, colto, per essere troppo bene pasciuto, da un subitaneo impeto di lascivia, fuggì di mano al palafreniere che lo strigliava, e, fatto libero, sparve. Il palafreniere, cercatolo invano per dirupi e burroni, stimolato da crescente preoccupazione, si mise dentro al cavo tenebroso del monte. A che moltiplicar le parole? per un sentiero angustissimo ma piano, giunse il garzone in una campagna assai spaziosa e gioconda, e piena d’ogni delizia; e quivi, in un palazzo di mirabil fattura, trovò Artùro adagiato sopra un letto regale. Saputa il re la ragione del suo venire, subito fece menare e restituire al garzone il cavallo, perché lo tornasse al vescovo, e narrò come, ferito anticamente, in una battaglia da lui combattuta contro il nipote Modred e Childerico, duce dei Sassoni, quivi stesse già da gran tempo, rincrudendosi tutti gli anni le sue ferite. E, secondoché dagli indigeni mi fu detto, mandò al vescovo suoi donativi, veduti da molti e ammirati per la novità favolosa del fatto»[1].
Esaminiamo un po’ questo curioso racconto. Gervasio lo dà per genuino ed autentico, e diffuse tra i Siciliani, almeno tra quelli di Catania e della rimanente regione circostante all’Etna. Intorno a ciò si potrebbe muovere un primo dubbio, e sospettare che il tutto sia invenzione di Gervasio; e il sospetto non sarebbe certo irragionevole. Negli scrittori Siciliani che trattano dell’Etna e dell’altre singolarità dell’isola, non si trova cenno di così fatta novella. Oltre di ciò Gervasio fu inglese; compose per un principe inglese il suo Liber facetiarum, ancora inedito, e per un imperatore mezzo inglese, Ottone IV, i suoi Otia; così che si può dire ch’egli dovesse essere trascinato a narrare, in un libro tutto pieno di favole, anche qualche nuova favola di Artù, e non trovandone alcuna che già non fosse notissima, inventarla. Altri scrittori, in picciol numero, l’avrebbero, più tardi, attinta da lui. Ma a queste considerazioni altre se ne possono opporre, che conducono a diverso giudizio. Gervasio passa per uno degli scrittori più bugiardi del medio evo; ma tale opinione, se non vuol essere ingiuriosa ed erronea, deve ridursi in più giusti termini. Gervasio è bugiardo perché riferisce molte cose non vere; non già perché se le inventi: volendo parlar rettamente egli è favoloso e non bugiardo; e come scrittore favoloso appunto ha, in questi ultimi tempi, acquistato importanza notabile agli occhi di quanti attendono allo studio dei miti e delle leggende medievali. Gervasio viaggiò pressoché tutta l’Italia, e negli Otia molte cose racconta imparate per lo appunto in Italia: fu in Sicilia, ai servigi di re Guglielmo, innanzi al 1190, ed ebbe agio di conoscere direttamente, per informazioni immediate, molte particolarità di quella terra, delle quali dà conto nel capitolo stesso in cui narra la leggenda trascritta pur ora. E nel racconto di tale leggenda sono alcuni accenni a cose vere e reali, che, mentre rivelano nell’autore un testimone di veduta, o un ripetitore bene informato, confermano il carattere tradizionale di esso. Dei miracoli operati dal corpo di Sant’Agata in guardar la città di Catania dagl’incendii dell’Etna, è frequente il ricordo nelle croniche siciliane. Ciò che si dice del cavallo del vescovo è pure conforme al vero; giacché sappiamo, non solo che su quelle pendici del vulcano si allevavano cavalli di molto pregio e vigore, non meno agili che animosi; ma, ancora, che per la troppa ubertà dei paschi, gli animali d’armento e di greggia ci venivano soverchio gagliardi e baliosi, cosicché a certi tempi dell’anno bisognava trar loro sangue dalle orecchie. Subito dopo aver narrata la leggenda siciliana, Gervasio ne narra un’altra, diffusa per le due Brettagne, e dove Artù si presenta sotto l’aspetto del cacciatore selvaggio; e questa seconda leggenda è sicuramente popolare[2]. Finalmente, un po’ più oltre, ricorda come, secondo la volgare tradizione dei Brettoni, Artù fosse stato trasportato nell’isola di Davalim (sic), e come quivi Morgana lo custodisse e curasse. Poiché entrambe queste leggende appartengono notoriamente alla tradizione, noi abbiamo una ragione di più per credere che alla tradizione appartenga anche la prima.
E che vi appartenga davvero cel prova, oltre a quanto dovrò dire più innanzi, anche il fatto del trovarla narrata, in forma alquanto diversa, da uno scrittore di poco posteriore a Gervasio, e da lui indipendente; Cesario di Heisterbach, che la racconta in tal modo. «Nel tempo in cui l’imperatore Enrico soggiogò la Sicilia, era nella Chiesa di Palermo un decano, di nazione, secondo ch’io penso, tedesco. Avendo costui, un giorno, smarrito il suo palafreno, che ottimo era, mandò il servo per diversi luoghi a farne ricerca. Un vecchio, fattosi incontro al servo, gli chiese: Dove via? e che cerchi? Rispostogli da quello che cercava il cavallo del suo padrone, soggiunse il vecchio: lo so dov’è. E dove? Nel monte Gyber (sic), in potere del re Artùro, mio signore. Quel monte vomita fiamme come Vulcano. Stupì il servo in udire tali parole, e l’altro soggiunse: Di’ al tuo padrone che da oggi a quattordici dì venga alla corte solenne di lui; e sappii che tralasciando di dirglielo, sarai punito aspramente. Tornato addietro, il servo espose, non senza timore, quanto aveva udito. Il decano si rise di quell’invito alla corte del re Artùro; ma, ammalatosi, morì il giorno prestabilito».
Il racconto è, in parte, quello stesso di Gervasio, e, in parte, è diverso. Il cavallo smarrito, il servo che ne va in traccia, la misteriosa dimora di Artù, sono comuni ad entrambi, mostrano che i due hanno, quanto alla sostanza, la medesima origine; ma, da altra banda, quello di Cesario differisce tanto da quello di Gervasio che, ragionevolmente, non si può supporre ne sia derivato. Nel Dialogus miraculorum non è neppure un indizio che Cesario abbia avuto conoscenza degli Otia. Si potrebbe, gli è vero, pensare che Cesario, togliendo il racconto a Gervasio, lo alterasse; e foggiasse deliberatamente a quel modo, per meglio accomodarlo all’indole della distinzione XII del suo libro; ma contro questa congettura sta il fatto che Cesario è, nel narrare, coscienzioso e fedele sino allo scrupolo; che ripete esattamente, senza aggiungervi di suo, gli altrui racconti; e che sempre, quando può, cita i nomi di coloro da cui gli ebbe, o i libri onde li trasse. Oltre di ciò, non si vede che di quell’alterazione egli potesse molto giovarsi per i suoi fini, dacché il racconto, quale egli lo reca, è, fra quanti ne novera la distinzione XII, il più povero di significato, quello di cui meno s’intende l’insegnamento. Altre cose poi son da notare, le quali accennano a fonti diverse e di più torbida e tortuosa vena. Cesario parla di un decano di Palermo, e sembra ponga Palermo dov’è Catania, alle falde dell’Etna. La forma Palernensi, usata da lui, non è né latina, né italiana, ma francese, trovandosi spesso ne’ testi francesi Palerne per Palerme (Guillaume de Palerne, ecc.). Può ciò, bastare per supporre una fonte francese? gli è poco, ma gli è pur qualche cosa. Alcuna considerazione vuol pure quel monte Gyber. Il nome di Mongibello fu fatto capricciosamente derivare da Mulcibero, da Mons Cybeles, da Monte Bella, e persino da Monte di Beel; ma esso è veramente nome composto di due nomi comuni e d’egual significato, italiano l’uno, monte, arabico l’altro, gibel, che non vuol, altro dire che monte; e trovasi non di rado scritto disgiuntamente come appunto di Cesario. Monte Gibero si ha in testi Italiani; perg Gyfers o Givers in testi tedeschi. Per quell’avvertimento che si dice dato dall’incognito vecchio al servo, e concernente il decano, il racconto di Cesario si raccosta a una intera e numerosa famiglia di racconti esemplari, di cui dirò fra poco, e nei quali i vulcani hanno parte cospicua. In fondo il racconto di Cesario è quello stesso di Gervasio, ma alterato alquanto, per infiltrazioni penetratevi, come pare, da un gruppo d’altri racconti, molto più antichi, e d’indole; affatto diversa. I due si accordano inoltre abbastanza quanto al tempo. Gervasio dice il fatto accaduto nostris temporibus; Cesprio eo tempore quo Henrietta imperator subjugavit sibi Syciliam. Nulla vieta di riferire la espressione di Gervasio agli ultimi tempi del soggiorno di lui in Sicilia; e quanto alla conquista di Enrico VI, si sa che avvenne nel 1294.
Il racconto di Cesario rivela, come diceva testè, certe infiltrazioni che in quello di Gervasio non appajono. Penetra in esso un elemento pauroso e tetro, alcun che di infernale e di diabolico che certamente fu estraneo alla tradizion primitiva e più genuina. In esso la leggenda epica non è ancor trasformata, ma tende già a trasformarsi in leggenda ascetica: in un altro racconto, posteriore di poco a quello di Cesario, la trasformazione si vede compiuta. Stefano di Borbone, morto circa il 1261, narra il fatto a questo modo. «Udii narrare a un frate di Puglia, per nome Giovanni, il quale diceva esser ciò avvenuto dalle sue parti, che cert’uomo, andato in traccia del cavallo del suo signore su pel monte presso a Vulcano (sic), ove si crede sia il purgatorio, vicino alla città di Catania, trovò secondo gli parve, una città, che aveva una postierla di ferro, e a colui che la custodiva chiese notizia del cavallo che andava cercando. Il custode gli rispose che n’andasse sino alla corte del principe, il quale, o gliel farebbe restituire, o gliene darebbe notizia; e richiesto dall’altro, in nome di Dio, di alcuna norma circa quell’andata, soggiunse badasse bene di non mangiare di nessuna vivanda che potesse essergli offerta. Parve al cercatore di vedere per le vie di essa città tanti uomini quanti ne sono nel mondo, di ogni generazione e condizione. Passando per molte sale, giunse ad una, ove scorse il principe circondato da’ suoi. Ecco gli offrono molti cibi, ed ei non vuole gustar di nessuno: gli mostrano quattro letti, e gli dicono che l’uno d’essi è apparecchiato pel suo signore, gli altri tre per tre usurai. E gli dice il principe che al signor suo e ai tre usurai assegnava certo giorno come termine perentorio a comparire, e che mancando, sarebbero menati a forza; e gli dà un nappo d’oro, con coperchio d’oro, e lo ammonisce che non l’apra, ma lo rechi in segno della cosa, al padrone, perché questi beva della sua bevanda; e, di giunta, gli fa restituire il cavallo. Se ne torna il famiglio; adempie il precetto: s’apre il nappo e ne schizza fiamma; si getta il nappo nel mare e il mare si accende. Quei quattro, sebbene confessi (per timore solo, e non per penitenza), il dì assegnato sono rapiti sopra quattro cavalli neri».
Qui abbiamo, in sostanza, il fatto stesso narrato da Gervasio e da Cesario, ma con particolarità nuove, che mostrano un crescente infoscamento della leggenda, e la preponderanza presa dagli elementi infernali e diabolici. Secondo Gervasio, Artù mandò regali al padrone del cavallo, né in modo alcuno gli nocque: secondo Cesario, un ministro di Artù impose, per mezzo del servo, al padrone del cavallo di presentarsi a giorno fisso alla corte del principe: secondo Stefano, il principe assegnò il giorno del comparire al padrone del cavallo e a tre usurai ad un tempo. Nel racconto di Cesario non s’intende il perché di quell’assegnazione; ma ben s’intende nel racconto di Stefano, dove la coppa ignivoma, che parrebbe un simbolo del vulcano, e la compagnia de’ tre usurai, e quei quattro letti, che non dovevano essere letti di rose, e, più che tutto, i quattro cavalli negri rapitori, lasciano subito intendere di che cosa si tratti. Quella città è una città infernale: quel principe, se non è Satanasso in persona, è uno de’ suoi maggiori ministri; e perciò non si chiama più Artù, sebbene sia stato Artù in origine. Anche quella particolarità di non dovere accettare cosa che sia offerta, si trova in numerose leggende diaboliche. Stefano di Borbone compose il libro ove questo racconto si legge negli ultimi anni di sua vita, e conobbe gli Otia di Gervasio e li cita; ma alla narrazion di costui preferì, egli che andava in traccia di esempii predicabili, la narrazion più opportuna dell’ignoto frate di Puglia.
Vedremo or ora che questa graduale alterazione della leggenda, lungi dall’essere capricciosa e arbitraria, era in certo qual modo ragionevole e necessaria, ma devesi, innanzi a tutto, insistere sul fatto che la version primitiva non è quella di Stefano, e nemmeno quella di Cesario; ma bensì quella di Gervasio; anzi una in cui l’elemento romanzesco e cavalleresco doveva essere assai più copioso che nel racconto di Gervasio non sia. Tale prima versione dovette essere affatto serena, affatto consentanea alle forma e allo spirito dell’altre finzioni brettoni; e noi possiamo credere di rintracciarla, o di rintracciarne una che poco se ne discosti, in un vecchio poema francese intitolato Floriant et Florète, e pochissimo noto.
Questo poema, composto già forse nel secolo XIII, ma più probabilmente nel successivo, è di pochissimo pregio, rileva assai poco nella storia delle finzioni brettoni, e non avrebbe anzi, rispetto ad esse, importanza alcuna, se non fosse per quella leggenda arturiana che ci si vede intessuta. Qui la leggenda non è, come nei racconti di Gervasio, di Cesario e di Stefano, una immaginazione slegata e smarrita, ma si allaccia a un’azione epica, qual ch’essa sia, e fa corpo con altre leggende e immaginazioni del ciclo. È questa una prima ragione che il rende meritevole d’attenzione e di studio; ma ce ne sono dell’altre. Nei racconti di Gervasio e di Cesario (lasciamo in disparte ora quello di Stefano) si narra un fatto particolare, occorso ai tempi di quegli scrittori; ma fanno difetto le ragioni e i presupposti del fatto stesso. La leggenda in essi narrata rimanda necessariamente ad un’altra più antica, nella quale doveva dirsi come e perché Artù fosse capitato nell’Etna. Ora, quelle ragioni e quei presupposti, e quella più antica leggenda, noi troviamo per l’appunto, almeno in parte, nel romanzo francese, la cui azione si svolge mentre il re Artù è ancora nel suo regno, a capo de’ suoi cavalieri. Qui l’Etna è una specie di regno fatato, dimora consueta della sorella di Artù, Morgana, e del numeroso suo seguito: e quello che nei romanzi francesi del medio evo si chiama comunemente Faerie, ossia paese o città delle fate: c’estoit l’eur maistre chastel, dice il poeta parlando di Morgana e delle sue compagne. In esso Morgana conduce Floriant, figliuolo di un re Elyadus di Sicilia, il quale era stato ucciso dal traditore Maragot; e ve lo fa educare. Il luogo è assai piacente, e ci si mena vita giojosa, e non ci si può morire. Floriant torna poi nel mondo, e incontra molte avventure; ma la buona Morgana, quando conosce ch’egli è prossimo alla sua fine, lo attira di nuovo nell’incantato soggiorno, e ci fa venire anche la moglie di lui, Florete. Artù, che si suppone ancora sano e fiorente, ci andrà poi ancor egli a suo tempo, come annunzia la stessa Morgana (vv. 8238-40):

Li rois Artùs, au defenir,
Mes freres i ert amenez
Quant il sera a niort menez.

Quando poi Artù ci fu andato, s’intende che ogni occasione poteva esser buona a fare ch’egli palesasse in qualche modo la sua presenza; e s’intende pure ch’egli dovesse diventare il personaggio principale di quella corte fatata, e respinger nell’ombra, se non far dimenticare, tutti gli altri. Così la leggenda si circoscriveva e si addensava, diventando più particolarmente la leggenda di Artù nell’Etna. E in vero, nei due racconti di Gervasio e di Cesario, Morgana non è neppure nominata: in quello del primo, il monte è la curia, o, corte, di Artù; in quello del secondo, Artù è signore del monte. Ora io credo che la cagione prima del trasponimento della Faerie di Morgana nell’Etna, sia appunto Artù, e ciò per ragioni che vedremo alquanto più oltre.
Ecco dunque uno scrittore inglese, uno scrittore tedesco, due scrittori francesi, porgere documento di una leggenda medesima, variata, dirò così, nella buccia, ma rimasta pur sempre quella nel nocciolo e nel midollo. E le testimonianze non finiscono qui, potendosi alle forastiere aggiungerne una nostrana, assai scarsa ed asciutta a dir vero, ma non però meno significativa. In una rozza e bizzarra poesia, appartenente, come pare, al secolo XIII, e pubblicata son pochi anni, due cavalieri, interrogati dell’esser loro da un misterioso personaggio che si fa chiamare Gatto Lupesco, rispondono:

Cavalieri siamo di Bretangna,
ke vengnamo de la montagna,
ke ll’omo apella Mongibello.
Assai vi semo stall ad ostello
per apparare ed invenire
la veritade di nostro sire,
lo re Artù k’avemo perduto
e non sapemo ke sia venuto.
Or ne torniamo in nostra terra
ne lo reame d’Inghilterra.

Qui si allude, senz’alcun dubbio, a una credenza secondo la quale Artù sarebbe nell’Etna; ma non si afferma già ch’ei ci sia veramente. La cosa rimane in dubbio. I cavalieri se ne tornano indietro senz’essersi potuti accertare del vero (e non sapemo ke sia venuto ), e da tutto il passo sembra traspaja qualcosa della solita incredulità italiana in fatto di meraviglioso[3]. Oltre che a quella credenza, vi è accennato, ma in modo indiretto, all’antica opinione che Artù dovesse tornare.
Da ciò che precede rimane, parmi, provata l’esistenza, nei secoli XIII e XIV, di una vera e propria leggenda (non di una semplice e scioperata immaginazione individuale), la quale poneva nell’Etna la dimora di Artù, e riman provato che tale leggenda fu cognita a molti allora in Sicilia, se pur non fu popolare. Ma il tema nostro non è per anche esaurito, e alcuni dubbii che nascon da esso, e alcune particolarità che in esso si notano, richiedon ora la nostra attenzione.

II

Come mai, e per quale ragione, ed a chi poté venire primamente in pensiero di strappare Artù all’isola di Avalon per porlo nell’interno di un vulcano, in Sicilia? Dobbiam noi credere che inventori della strana finzione sieno stati que’ Siciliani medesimi tra cui Gervasio, secondo attesta, la trovò divulgata? Dobbiam per contrario credere che altri uomini ne sieno stati inventori? Il dubbio, credo sarà chiarito se si riesce a dimostrare: 1° che i Siciliani non avevano ragione di sorta, né quasi possibilità d’immaginarla; 2° che la finzione stessa, specie nella forma che veste in Gervasio, ha in sé tutti i caratteri di una finzione, non italica, ma germanica, rimanda a un vero e proprio mito germanico.
Cominciamo dal primo punto.
Che i Siciliani non dovessero avere nessuna ragione, e quasi nemmeno la possibilità d’immaginar la finzione, s’intende assai agevolmente. La finzione stessa presuppone sentimenti, credenze, fantasie, che i Siciliani non avevano e non potevano avere: un ricordevole affetto per Artù; un desiderio immaginoso di raccostarsi in qualche modo all’eroe, una vaga speranza di vederlo tornare, quando che fosse, nel mondo. Chi poneva Artù nell’Etna doveva sentirsi legato a lui da vincoli particolari, da vincoli di cui nessuna ragione potrebbe trovarsi nella storia, nelle costumanze, nelle aspirazioni del popolo di Sicilia; e se la finzione fosse stata frutto naturale e spontaneo della fantasia di quel popolo, noi dovremmo, sembra, trovarne vestigio in alcuna delle sue croniche, laddove non ce ne troviamo nessuno.
Fatto sta che ai Siciliani l’Etna ricordava altre meraviglie, e suggeriva altre immaginazioni: fatto sta che anche in Sicilia, come per tanti esempii si vede essere avvenuto nella rimanente Italia, la memoria e la fantasia tornavano ostinatamente alle storie e ai miti dell’antichità classica, ne’ quali, come in cosa lor propria, si compiacevano. Nelle croniche dell’isola si trovano ricordati i Ciclopi, i giganti fulminati da Giove, il ratto di Proserpina, la fine di Empedocle, ecc.; e si può credere che nella coscienza popolare questi fossero più che semplici ricordi di tradizioni e di favole antiche, fossero, anzi, alcuni di essi, miti tuttora viventi. Di un’apparizione dei Ciclopi e di Vulcano si fa ricordo ancora nel 1536, poco prima di una grande eruzione dell’Etna. Come in antico, si credeva che il monte ignivomo (e altrettanto dicasi degli altri vulcani, non escluso quello d’Islanda) fosse uno spiracolo dell’inferno; e le leggende che più facilmente dovevano accreditarsi in Sicilia e diffondersi; erano le leggende monacali ed ascetiche, le quali appunto si conformavano a quella credenza, e narravano di anime dannate, portate a volo entro il monte dai diavoli, e d’altre meraviglie paurose. Di queste leggende è grande il numero, e qui basterà ricordare quelle di Eumorfio e di Teodorico; narrate da Gregorio Magno, e quella del re Dagoberto, narrata dallo storico Aimoino. Subito dopo aver narrata la storia del decano di Palermo, Cesario racconta quella di Bertoldo V, duca di Zähringen, a cui i diavoli preparano nell’Etna il meritato castigo. Secondo certo racconto riferito da Pier Damiano nella vita di Odilone, dentro l’Etna si udivano le querele delle anime purganti, tormentate da infiniti demonii. Nel nome stesso dell’Etna si trovava indicata la condizione sua. Isidoro da Siviglia dice: «Mons Aetnae ex igne et sulphure dictus, unde et Gehenna». Gotofredo da Viterbo raccoglie la comune opinione:

Mons ibi flammarum, quas evomit, Aetna vocatur:
Hoc ibi tartareum dicitur esse caput.

In Sicilia queste credenze dovevano essere assai divulgate. Parlando della grande eruzione del 1329 Nicola Speciale dice: «Parecchi, nelle vicinanze del monte, furono portati via dai diavoli, che assumendo varii corpi, predicavano nell’aria terribili menzogne». Quand’anche non si voglia far conto della trista esperienza che i Siciliani avevano della natura del loro vulcano; quand’anche s’immagini ch’essi avessero perduto il ricordo dei danni sofferti per esso, e poco o niun pensiero si dessero delle sue perpetue minacce, la opinione ch’essi ne avevano, come di una bocca spalancata dell’Inferno, doveva bastar a vietar loro di fingervi dentro il regno incantato di Morgana e il soggiorno di Artù; mentre a finger tali cose potevano essere tratti assai più facilmente uomini venuti d’altronde, i quali non ben conoscessero la natura del monte, e ai quali men tetre fantasie potessero essere suggerite a primo aspetto da quella tanta feracità di campi e giocondità di aspetti, cui già gli antichi non si erano stancati di ammirare e di celebrare.
Veniamo ora al secondo punto.
La leggenda di Artù nell’Etna non è, come s’è già notato, una leggenda nuova; è una leggenda variata; ma nella variazione sua sono alcune particolarità che meritano d’essere considerate attentamente. Artù vivo, ma ferito, dimora in Avalon, la quale è veramente un’isola del fiume Bret, nella contea di Somerset, e antica sede dei druidi. La poetica fantasia abbellì quest’umile isola, e ne fece un luogo di delizie da porre a riscontro delle famose Isole Fortunate. Goffredo di Monmouth dice di essa, nella Vita Merlini:

Insula pomorum quae fortunata vocatur.

Secondo la leggenda derivata, che, per comodità di espressione, seguiteremo a dir siciliana, Artù dimora nell’interno dell’Etna.
Questa innovazione non incontrò molto favore; e noi vediamo altri eroi, come, per esempio, Uggeri il Danese e Rainouart, andare a raggiungere il buon re Artù nell’isola e non nel monte; ma non però si può dire ch’essa fosse al tutto arbitraria e illegittima. Circa il 1139 avvenne un fatto che avrebbe potuto a dirittura tagliar le radici alla leggenda della miracolosa sopravvivenza di Artù: si credette d’aver trovato, o si disse d’aver trovato, appunto nell’isola di Avalon, presso l’abbazia di San Dunstano, il corpo di Artù, morto e sepolto da secoli. Ma tale ritrovamento, cui non fu, sembra, estranea la politica, non valse a togliere certe dubbiezze, che forse già da gran tempo si avevano circa il vero luogo del rifugio di Artù, e circa alcune altre particolarità della sua leggenda. Di tali dubbiezze abbiamo parecchi indizii, oltre a quello contenuto nei versi italiani riportati di sopra. Il trovatore Aimeric de Peguilain (1205-70) dice in un suo serventese (Totas honors):

Part totz los monz voill qu’an mon sirventes
E part totas las mars, si ja pogues
Home trobar que il saubes novas dir
Del rei Artus, e quam deu revenir.

In un codice di Helmstadt, contenente il già citato poema De diversitate Fortunae di Arrigo da Settimello, si trova una nota ov’è detto che Artù, combattendo contro certa belva, perdette i suoi cavalieri, e avendo ucciso la belva, non fece più ritorno a casa; onde i Brettoni lo aspettano ancora. Del luogo ov’egli possa essere andato non v’è più cenno. Ma, secondo l’autore del Lohengrin, Artù è in un monte dell’India, insieme coi cavalieri del Santo Gral[4], e nel Wartburgkrieg si dice che Artù dimora entro un monte, insieme con Giunone e con Felicia, figliuola di Sibilla, Da tutto ciò si rileva che, fuori di Brettagna, la tradizione era alquanto vaga e malsicura, se non circa la rimozione e la vita soprannaturale di Artù, almeno circa il luogo di sua dimora; e che per tempo una opinione era sorta, la quale poneva quella misteriosa dimora nell’interno di un monte.
Ora, qui, noi ci troviamo in presenza di una finzione essenzialmente germanica. L’immaginazione dell’eroe rimosso dal mondo, serbato miracolosamente in vita, e destinato a futuro ritorno, è comune a molte e svariate genti; ma la immaginazione di un sì fatto eroe (o dio) chiuso nel cavo di un monte è, più specificatamente, germanica. Nella mitologia settentrionale ne sono parecchi esempii. Il dio Vodan abita nell’interno di un monte; in monti hanno stanza, insieme con le loro famiglie, Frau Holda e Frau Venus; in monti stanno rinchiusi, aspettando il giorno del loro riapparire nel mondo Carlo Magno, Federico II, Carlo V. Questi misteriosi rifugi non sono inacessibili agli uomini. Abbiam veduto, nel racconto di Gervasio, il servo del vescovo di Catania penetrare nel meraviglioso soggiorno di Artù; ma, similmente, Tannhäuser penetra nel monte ove alberga Frau Venus; un pastore penetra in quello ove Federico aspetta l’ora segnata, ecc. Nel racconto di Gervasio il servo riceve da Artù doni pel suo signore, ed è questa un’altra particolarità che ha numerosi riscontri in miti affini germanici. Non sarà fuor di luogo notare a tale proposito che Artù si trova, in modo abbastanza strano, involto in un altro concetto mitico germanico, il quale ha stretta relazione con quello del trasferimento in un monte, il concetto, cioè, della imprecazione ( Verwünschung). Leggesi nella Vita Paterni che questo santo, il quale fu vescovo di Vannes, e morì circa il 448, minacciato da Artù, imprecò contro di lui, dicendo: «Possa la terra inghiottirlo! » le quali parole profferite, tosto la terra si aperse, e inghiottì Artù sino al mento, e nol lasciò fino a che non si fu pentito ed ebbe chiesto perdono.
Esaminata e discussa attentamente ogni cosa, parmi sia questa la conclusione più ragionevole: essere sommamente improbabile che i Siciliani abbiano immaginata una leggenda, la quale, per una parte, contraddice a quanto essi sapevano, o congetturavano, della natura del loro vulcano, e involge, per l’altra, un mito germanico; essere sommamente probabile che essa leggenda sia stata immaginata da uomini venuti di fuori, i quali, mentre col vulcano avevan poca pratica, potevano recar seco il ricordo di quel mito germanico, o aver conoscenza di alcuna variazione già introdotta nella leggenda di Artù. Che uomini poteron essere quelli? non gli Arabi, certo; dunque i Normanni.
Vediamo quali fatti e quali ragioni si possono addurre a sostegno di tale congettura.

III

Come e in che tempo penetrarono e si diffusero primamente in Italia le immaginose leggende onde s’intreccia il ciclo brettone? Quali sono tra noi le loro più antiche vestigia? Quando si tratta delle finzioni del ciclo carolingio, rispondere a così fatte domande riesce molto più agevole. Noi vediamo anzitutto le ragioni storiche, e diciamo pure morali, che dovevano, in certo modo, tirar di qua dall’Alpi la leggenda carolongia: Carlo Magno, campione della fede e della Chiesa, vincitore dei Saraceni infedeli, non era solamente un eroe franco, era un eroe universale cristiano; e questo eroe cristiano aveva, in Italia, fiaccata per sempre la potenza dei Longobardi; aveva, in Roma, cinta la corona del rinnovato impero. Oltre di ciò, noi possiamo seguitar le tracce di quei giullari vaganti, di quei cantores francigenarum, e di quei pellegrini o romei, che ce la recavano in casa, la rinarravano nelle castella e nelle corti nostre, la propagavano tra i nostri volghi. Poi vediamo com’essa metta radici e propaggini nelle croniche nostre; poi vediamo come divenga quasi cosa nostra, ripetuta da prima in quella lingua con che era giunta fra noi, o in tale che vorrebbe a quella rassomigliarsi; ripetuta poi in volgare nostro, accomodata all’indole e al sentimento di nuovi poeti e di nuovi uditori, cresciuta, variata, rimaneggiata in più modi. Per le finzioni del ciclo brettone la cosa precede altrimenti. Non solo la diffusione loro tra noi non fu provocata e sollecitata da quelle ragioni che tanto favorivano la diffusione delle finzioni carolinge, né da altre equivalenti od affini; ma le vie stesse ed i gradi per cui quella diffusione si venne pure compiendo non ci si lasciano mai vedere distintamente. Esse erano cognite fra noi sin dai primordii della nostra letteratura: è questo un fatto innegabile; ma quando vogliamo intendere e spiegare il fatto, ci è forza ricorrere alle congetture, appagarci degl’indizii.
Che la poesia provenzale abbia largamente contribuito a far conoscere e diffondere tra di noi quelle finzioni, è cosa di cui non si può dubitare. Nei trovatori, i personaggi e i fatti principali che occorrono in esse sono ricordati con molta frequenza, e nei loro ensenhamen esse tengon luogo cospicuo fra le molte che il giullare, sollecito di sua arte, non deve ignorare. Passando in Italia, la poesia dei trovatori doveva non solo recarvi la notizia sommaria di quelle finzioni, ma, ancora, stimolare efficacemente la curiosità, suscitare il desiderio di conoscerle alquanto più a fondo. I primi trovatori vennero in Italia, per quanto se ne sa, sul cadere del secolo XII, quando l’epopea brettone (chiamiamola così) già sorta, anzi già famosa e divulgatissima, in Francia, stava per ricevere l’ultima mano, ed esser levata a quel più alto grado di perfezione a cui allora potesse attingere, dal suo maggiore poeta, da Cristiano da Troyes. I più antichi, della cui venuta fra noi si abbia certo ricordo, sembrano essere stati Pietro Vidal e Rambaldo di Vaqueiras; e nelle loro poesie accenni alle leggende brettoni non fanno difetto. Le poesie di Rambaldo in cui se ne trovano furono composte in Italia fra il 1192 e il 1202. L’uso di tali accenni passò certamente dai trovatori provenzali ai trovatori italiani che rimarono in provenzale, e poscia a quelli che rimarono in italiano. In una delle sue canzoni Bartolomeo Zorzi ricorda gli amori di Tristano e d’Isotta; in una sestina ricorda un fatto della storia di Perceval. Ma assai prima che ce la recassero i trovatori di Provenza, si dovette aver contezza in Italia delle finzioni onde ebbero materia, nella seconda meta del XII secolo, i romanzi francesi, ché non si potrebbe intendere, senza di ciò, come nomi di persona, tolti alla gesta brettone, compajono per entro all’onomastica italiana sino dai primi anni del secolo XII, e compajono in modo da lasciar credere che non sia quello il primo tempo del loro introdursi in essa. Molt’anni innanzi che ci venissero i trovatori, dovettero recar la materia brettone in Italia i Normanni.
Si pensi alla parte che i Normanni ebbero nella diffusione della materia brettone. E per ragioni geografiche, e per ragioni storiche essi diventarono i naturali promotori e propagatori di quelle immaginazioni, di quella poesia. I Brettoni del continente assai per tempo strinsero con loro legami di salda amicizia; e nel 1066, combatterono in buon numero, alla battaglia di Hastings, sotto le vittoriose bandiere di Guglielmo il Conquistatore. I Brettoni insulari poi accolsero come liberatori i Normanni, la cui vittoria diede termine all’odiato dominio anglosassone. Più tardi, Enrico II, non solo cercò, per propria soddisfazione, le vecchie leggende di Artù, ma fece ancora il poter suo perché fossero largamente diffuse e gustate. Il trovero Gaimar, che primo mise in versi la Historia Britonum di Goffredo di Monmouth, fu normanno, e normanno fu quel Wace che ne imitò con più fortuna l’esempio, a tacere di altri. Leggende brettoni e leggende normanne s’innestarono, si fusero insieme, come può vedersi nel Roman de Rou dello stesso Wace. A gente d’indole avventurosa, quale in tutta la vita loro si danno a divedere i Normanni, la storia poetica di Artù doveva piacere naturalmente; e le guerre combattute con gli Anglosassoni, e le vittorie riportate sopra di essi, dovevano esser cagione che quella storia poetica fosse dai Normanni considerata quasi come cosa lor propria. Innamorati di quelle colorite leggende, le quali non narravano solamente, ma vaticinavano ancora, movevano da un passato glorioso e mettevan capo in un più glorioso avvenire, essi, avidi d’avventure e di gloria, dovevano recarle con sé dovunque andassero, come un suffragio poetico ai loro ardimenti, dovevano ripeterle e propagarle dovunque fermassero stanza. Con sé certamente le recarono essi in Napoli, in Puglia, in Sicilia, e in grazia loro dovettero le leggende brettoni essere conosciute per la prima volta in Italia.
Di sì fatta introduzione noi non abbiamo, gli è vero, prove dirette. Nessuno dei cronisti (e non son pochi) i quali narrano le gesta dei Normanni in Italia, fa il più lieve accenno alle leggende brettoni, o lascia intendere in qualsiasi modo che i Normanni avessero recato dalla patria loro un ciclo di tradizioni o di favole, e si adoprassero a diffondere le une e le altre. Ma, dopo quanto s’è notato pur ora circa lo spirito delle croniche nostre, a quel silenzio non è da badar troppo come argomento in contrario; il valor positivo della verosimiglianza vince, in tal caso, quello tutto negativo del silenzio.
Torniamo al soggetto nostro particolare.
Gervasio, nel suo racconto, parla di una pianura assai spaziosa e gioconda, e di un palazzo di mirabile struttura. Non si può credere che i Siciliani immaginassero sì fatte cose nel monte; ma non parrà troppo strano, che se le immaginassero i Normanni, i quali avevano nella fantasia la, deliziosa e incantata isola di Avalon, e credevano forse di riconoscere alcune delle proprietà di essa nella ubertosa campagna in mezzo a cui sorge arduo e maestoso il vulcano. Si sa che i primi Normanni che approdarono alle coste dell’Italia meridionale, tornati in patria, narrarono meraviglie di quelle terre sorrise dal sole, e recaron con sé il desiderio di ritornarvi, come poi fecero, cresciuti di baldanza e di numero. Forse l’isola di Sicilia tutta intera assunse agli occhi loro l’aspetto della paradisiaca isola di Avalon, stanza di Morgana e di Artù.
Pongasi mente ad un altro fatto.
Mentre in Sicilia, come in altre parti d’Italia, sono frequenti i nomi di luoghi e le locuzioni proverbiali derivate dalle leggende del ciclo carolingio, la qual cosa prova che tali leggende erano veramente passate nella letteratura orale e nella coscienza del popolo, nulla di consimile si vede essere avvenuto rispetto alle leggende del ciclo brettone; e ciò prova che il popolo non ebbe gusto alle leggende brettoni, o che se l’ebbe, fu sì debole e scarso da escludere affatto l’ipotesi ch’esso potesse lavorarvi intorno di suo. Una eccezione vuol farsi in favore della fata Morgana. Ho già detto che costei dovette penetrare nell’Etna insieme con Artù. Ora è noto che col nome di fata Morgana si designa un fenomeno ottico (ciò che i Francesi chiamano mirage) solito a lasciarsi vedere con maggiore frequenza e perspicuità appunto nello stretto di Messina. Quel nome designa presentemente il fenomeno stesso, e non accenna più ad alcuna individuata e soprannaturale potenza che ne sia cagione; ma in origine non dovette essere così. Si credette allora alla reale presenza della fata in quei luoghi, e il fenomeno si considerò come un’opera dell’arte sua, forse com’uno dei giuochi o degli allettamenti ond’ella abbelliva l’ore e il soggiorno a’ suoi compagni di faerie.
Non è, né può esser provato, ma è molto probabile che assai prima di approdare in Sicilia i Normanni avessero cognizione di una leggenda che poneva Artù nell’interno di un monte: approdati in Sicilia, essi non ebbero a fare un grande sforzo di fantasia per porre l’eroe entro il massimo monte dell’isola. Può darsi ancora che, prima d’approdarvi, essi avessero una generale notizia della possibile rimozione e dimora degli eroi nell’interno di un monte, o una particolare notizia di alcuno eroe in tal modo rimosso e dimorante, e che, trovatisi in presenza del meraviglioso vulcano, pensassero senz’altro di trasporvi il re Artù. Se parecchi poemi francesi pongono la scena della loro azione in Sicilia; se in molti altri la Sicilia è ricordata; se di parecchi si può ragionevolmente congetturare che sieno stati composti nell’isola, noi dobbiamo esserne grati, soprattutto ai Normanni; e dai Normanni dobbiam riconoscere la leggenda arturiana che Gervasio da Tilbury fu primo a raccogliere e a tramandare.

Note
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[1] Otia imperialia, secunda decisio
[2] È questa la leggenda del wilde Jäger, della mesnie Hellequin, sparsa pressoché per tutta Europa, e nella quale compariscono, oltre Artú, anche Teodorico, Carlo Magno e altri
[3] Il primo ad avvertire ciò fu il Muratori... nella dissertazione XLIV (Antiquitutes italicae medii aevi, t. III, col. 963).
[4] Lohengrin, ein altteutsches Gedicht ecc. Eidelberga 1813, p. 179

 

 

UN MITO GEOGRAFICO
(IL MONTE DELLA CALAMITA)

I

Il terzo calendero, figliuolo di re, narra, nelle Mille e una Notte, come dopo aver corso, con dieci navi, moltissimo mare, e sostenuta una furiosa procella, egli ed i suoi smarrissero per sì fatto modo il cammino, che nessuno sapeva più dov’e’ fossero. Un giorno, dall’alto dell’albero maestro, un marinajo, che stava in vedetta, gridò che non vedeva, tutto all’intorno, se non acqua e cielo, meno che dalla parte di prua, dove appariva una gran macchia nera. A tale annunzio il nocchiero mutò colore, buttò il turbante sul ponte, si picchiò il viso, e piangendo gridò: O mio re, noi siam tutti perduti! Sollecitato a spiegarsi, disse quella macchia nera non essere altro che il Monte della Calamita, il quale ormai traeva a sé irresistibilmente le navi, per cagion dei chiodi e delle altre ferramenta ch’erano in esse, e palesò a tutti ciò ch’era per seguire, ciò che in fatto seguì. Le navi s’andarono sempre più approssimando alla formidabil montagna, e il dì seguente, a certo punto, le ferramenta loro, sbarbate dal legname, volarono ad essa, e con ispaventoso rumore aderirono alla sua superficie, la quale d’altre infinite ferramenta vedevasi ingombra. In un subito le navi si sfasciarono, e quanti erano in esse furon sommersi nel mare, ch’era ivi di profondità smisurata. Tutti perirono, meno il principe. Costui poté raggiungere il monte, e per una angustissima gradinata salire fin sulla cima, dove, sotto una cupola, vedevasi un cavaliere di bronzo, sopra un cavallo similmente di bronzo; opera magica, da cui veniva alla rupe la sua perniciosa virtù, e che doveva essere distrutta perché quel mare tornasse sgombro d’ogni pericolo ai naviganti. Istruito da un vecchio, durante il sonno, di ciò ch’ei dovesse fare, il principe disseppellì un arco e tre frecce, saettò il cavaliere, e lo fece precipitare nell’onde, le quali presero a gonfiare ed a crescere, tanto che raggiunsero la cima del monte. Allora venne dal largo una navicella, condotta da un navicellajo di bronzo, e dentr’essa il principe poté allontanassi e scampare.
È questo un racconto che potrebbe dirsi secondario e composito, nel quale un tema originale, semplice e schietto, appare sformato e adulterato da sovrapposizioni più tarde e affatto disacconce. Il tema originale (altrove leggermente variato) noi lo abbiamo in quel Monte di Calamita che trae a sé e ad irreparabile perdizione le navi; le sovrapposizioni le abbiamo in quel cavaliere e in quel cavallo di bronzo, in quell’artificio magico, il quale, o appar esso superfluo, quando si lasci (come qui si lascia) alla calamita la sua propria e naturale virtù, o, per contro, fa apparire superflua la calamita.
Il tema originale ci si appalesa in parecchi racconti, di cui dirò or ora, e in una doppia tradizione geografica e romanzesca, orientale per l’una parte, occidentale per l’altra; ma giova, nondimeno, avvertir subito, che l’adulterazione di cui porge esempio il racconto delle Mille e una Notte, appare, in qualche modo, anche altrove.
La tradizione occidentale è assai antica. Plinio fa menzione di due monti, prossimi al fiume Indo, di cui l’uno ha virtù di attrarre il ferro, l’altro di respingerlo, per modo che chi abbia calzari con bullette di quel metallo non può dall’uno staccare il piede, né fermarlo nell’altro[1]. Parlando delle isole dell’India, Tolomeo ricorda le dieci Maniole, dalle quali dicevansi trattenute le navi le quali fossero, in qualche modo, munite di ferramenta; per la qual cosa le navi che frequentavano quei mari usavansi compaginare di solo legname[2]. Questa favola riappare in un trattatello De Brachmanibus, composto da un Palladio, che certamente non fu Palladio da Metone, sofista fiorito ai tempi di Costantino Magno, e nemmeno, secondo è più ragionevole credere, Palladio vescovo di Elenopoli (388-407), ma fu, probabilmente, un uomo che visitò l’India, e quivi intese narrare parecchie delle cose che riferisce: riappare, inoltre, in un opuscolo De moribus Brachmanorum, malamente attribuito a Sant’Ambrogio, e dipendente dal trattatello di Palladio, d’onde la deriva lo Pseudo-Callistene, o un interpolatore del romanzo che va sotto tal nome. Costantino Africano, il celebre medico e monaco cassinense, il quale, nella seconda metà del secolo XI, viaggiò gran parte dell’Oriente e si spinse sino nell’India, narra, in una delle numerose sue opere, su per giù le medesime cose, ma senza far ricordo di quelle isole Maniole, e citando un libro De lapidibus di Aristotele, che lo Stagirita mai non iscrisse, e che a lui fu probabilmente attribuito dagli Arabi. Alberto Magno parla del fatto succintamente. Vincenzo Bellovacense attinge, parlando della calamita, da Plinio e da Isidoro di Siviglia, e riferisce anche il passo di Costantino; ma, sostituendo al vecchio un nuovo errore, attribuisce quel libro De lapidibus, a Galeno. Il Mandeville, che tanti miracoli vide, ebbe a vedere anco questo; e poiché la relazion del suo viaggio fu una delle più divulgate scritture del medio evo, e molto giovò, senz’alcun dubbio, a diffondere vie più la notizia che del miracolo già s’aveva in Europa, non sarà inopportuno riferire, nell’antica versione italiana, le parole con cui egli lo vien descrivendo. «Ad Ormes sono le nave di legnio sanza chiovi di ferro per li sassi della calamita, della quale nel mare è tanta quantità, che è una maraviglia. E se per questi confini passassi una nave che avessi ferro, di subito perirebbe; però che la calamita tira a sé per natura el ferro. Per la quale cagione tirerebbe a sé la nave, né più di là si potrebbe partire»... «in quel mare (il mare che bagna il regno del Prete Gianni, in India) in molti luoghi, sono molti scogli, e assai sassi di calamita che tira a sé il ferro co la sua proprietà; e per questo non passa nave ove sia chiovi o bandelle di ferro. Questi sassi di calamita, per sua proprietà, tirono le nave, e mai più di lì non si posono partire. Io medesimo vidi in quel mare, di lungi a modo d’una isoletta, ove erano alberi, spine e pruni in quantità; e dicevono e marinai, che ciò erano nave, che quivi erano restate pei sassi de la calamita; e perché erono marcite, li erono cresciuti questi alberi, spine, pruni e altre erbe, che vi sono in gran quantità. Questi sassi vi sono in molti luogi in quele parte, e però non v’usano passare mercatanti, se egliono non sanno molto bene la via, e se e’ non hanno buono guidatore». Petro Berchorio e Felice Faber ridicono su per giù le medesime cose, e sul finire del secolo XVI, Simone Majolo ripete ancora la divulgatissima favola.
La qual favola non poteva non variarsi in più modi; onde abbiamo udito alcuni parlare d’intere isole di calamita, altri di singoli monti, altri di scogli sparsi pel mare; ne mancarono alcuni che, come Giovanni di Hese, dissero il fondo stesso del mare, in certi luoghi, formato di calamita, per modo che le navi, le quali vi passavano sopra, erano irresistibilmente inghiottite.
Né farà meraviglia che monti e rupi di calamita, simili a quelli che s’immaginavano in mare, s’immaginassero pure entro terra. I monti ricordati da Plinio non sembra fossero in mare. Giovanni del Pian dei Carpini parla di una spedizione di Gengis Chan, la quale non sortì l’esito sperato, perché certi monti di calamita attrassero a sé tutte le armi de’ suoi soldati[3].
La tradizione orientale fu, senza dubbio, assai più copiosa dell’occidentale, ma noi non la conosciamo se non in piccola parte. So Sung, scrittore cinese dell’XI secolo, parla in un suo Erbario, citando certe Memorie delle cose meravigliose che si vedono nei paesi meridionali, di pietre di calamita giacenti nei bassifondi del mare che bagna le coste del Tonchino e della Cocincina, pietre che fermano le navi armate di lastre di ferro. Nel libro arabico sulle pietre attribuito ad Aristotele, e citato da Bailak Kibgiaki, si legge: «A detta d’Aristotele, si trova nel mare una montagna di calamita. Se le navi le si accostano, tutti i chiodi e l’altre ferramenta sono sconficcati dal legno, e volano come tanti uccelli verso il monte, senza che il legno li possa trattenere; e per tale ragione le navi che corron quel mare non hanno chiodi di ferro, ma sono tenute insieme da corde fatte con le fibre dell’albero di cocco, fermate con caviglie di legno molle che gonfia nell’acqua. I popoli del Jernen legan pure le navi loro con liste staccate dalle palme. Dicesi inoltre che una simile montagna di calamita si trovi sulle coste del mare d’India, ecc.». Parlando dell’Africa orientale, Edrisi fa ricordo di una montagna per nome Agiud, la quale attrae a sé le navi che troppo le si avvicinano: Abulfeda pone il Monte della Calamita in prossimità dell’Indo.
E nei mari d’India, o della Cina, lo pongono più generalmente coloro che ne parlano; ma nel poema tedesco di Gudruna esso è trasposto agli estremi confini dell’Occidente, e Guido scrisse:

In quelle parti sotto tramontana
Sono li monti della calamita,
Che dan virtute all’a’re
Di trar lo ferro[4].

II

Che questa immaginazione del Monte della Calamita (parlo solo del monte, perché gli è quello che si trova ricordato più spesso) sia orientale di origine, e passata d’Oriente in Occidente, non si può, cred’io, dubitare. Ma come e quando passata la prima volta nessuno può dire. Non sarebbe forse troppo irragionevole congettura quella che la facesse giungere in Europa coi reduci della spedizione di Alessandro Magno, sebbene in Arriano, e negli altri narratori delle imprese del Macedone, e descrittori dell’India, non se ne trovi cenno. Ben si può tener per sicuro che l’antica memoria, raccolta da Plinio, fosse in varii modi, e a più riprese, rinfrescata, oltreché da notizie di viaggiatori, da racconti giunti nei tempi di mezzo fra le genti cristiane per quelle medesime vie per cui giunsero, dal remoto Oriente, tanti altri racconti. Di ciò vedremo, tra breve, alcuna prova complessa; ma non sono da trascurare, per questo rispetto, certi parallelismo e riscontri che difficilmente si posson credere casuali e spontanei.
Ho notato nel racconto delle Mille e una Notte sommariamente riferito in principio, la sovrapposizione di un elemento estraneo ed eterogeneo a quello che senza dubbio dovette essere il tema primitivo e genuino. Per esso, il Monte della Calamita, perduta quasi la sua virtù naturale, diventa mezzo, e strumento di magico potere. Che direm noi quando, in racconti occidentali vedremo questo medesimo accoppiamento del Monte della Calamita con alcun magico artificio, ovvero il Monte fatto dimora di maghi e di fate? Nel poema tedesco anonimo intitolato Reinfrit von Braunschweig, e composto sul finire del secolo XIII, o sul principiare del seguente, si narra una strana storia di un gran negromante per nome Zabulon, il quale, dimorando sul Monte della Calamita, aveva letto nelle stelle la venuta di Cristo milledugento anni prima che accadesse, e per impedirla aveva scritto parecchi libri di negromanzia e di astrologia, delle quali scienze era inventore. Poco tempo prima che Cristo nascesse, Virgilio, uomo di gran sapere e di singolare virtù, avuta notizia di questo mago e delle sue male arti, navigò alla volta del Monte della Calamita, e mercé l’ajuto di uno spirito, riuscì ad impadronirsi dei tesori e dei libri di lui. Venuto il termine prescritto, la Vergine poté dare alla luce Gesù. Enrico di Müglin narra in una sua poesia come Virgilio, in compagnia di molti nobili signori, partisse da Venezia sopra una nave tratta da due grifoni, giungesse al Monte della Calamita, trovasse quivi, chiuso in una fiala, un demonio, il quale, a patto d’avere la libertà, gl’insegnò come potesse impadronirsi di un libro di magia, ch’era dentro una tomba. Avuto il libro ed apertolo, Virgilio si vide comparir dinanzi ottantamila diavoli, ai quali comandò subito di costruire una buona strada, dopo di che se ne tornò tranquillamente co’ suoi compagni a Venezia. Queste fantasie fan capolino anche nel Watburgkrieg. Di un magnifico palazzo, sorgente sul Monte della Calamita, e abitato da cinque fate, si narra nel séguito dell’Huon di Bordeaux in prosa, ed è senza dubbio tutt’uno collo chastel d’aimant descritto in una redazione tarda dett’Ogier. In un romanzo francese in prosa, composto probabilmente nel secolo XV, il Monte, o piuttosto lo scoglio di Calamita è abitato da maghi e incantato, e per potersene allontanare, dopo esserne stati attirati, bisogna, conformemente a quanto si è detto in certa iscrizione, gettar nel mare un anello, ch’è in cima alla rupe. Non è ciò singolarmente conforme a quanto si legge nel racconto del terzo calendero? S’avverta inoltre che nei lapidarii, dove molte immaginazioni si trovano venuteci dall’Oriente, la calamita è messa in istretta relazione con l’arti magiche. In quello attribuito a Marbodo si legge:

Deendor magus hoc (lapide) primum dicitur usus,
Conscius in magica nihil esse potentius arte.
Post illum fertur famosa venefica Circe
Hoc in praestigiis magicis specialiter usa.

Alberto Magno ed altri parlano ancor essi delle virtù magiche della calamita.
Dopo quanto abbiam veduto non ci parrà cosa troppo fuori del ragionevole che il Monte della Calamita diventasse il beato soggiorno, oltre che delle fate, anche di Artù, come si vede essere avvenuto in un vecchio romanzo francese intitolato Roman de Mabrian, e ci sarà men difficile intendere come e perché, nel poema di Gudruna, il Monte della Calamita s’identificasse col monte Gîvers, o Mongibello, dove una leggenda, di cui discorro in questo stesso volume, pose per l’appunto la dimora di Artù, e divenisse stanza di un popolo felice, che vive nell’abbondanza, ed abita in palazzi d’oro. A immaginare così fatta stanza e così fatto popolo, sollecita anche, in certo qual modo, la credenza che le infinite navi tratte da ogni banda inverso il monte, vi recassero copia delle ricchezze tutte della terra.
Che l’idea di porre in relazione col Monte della Calamita i grifoni, facendo di questi un mezzo di scampo per alcuni naufraghi più ingegnosi e più arditi, sia ancor essa orientale di origine, parmi cosa, come vedremo tra breve, più che probabile. Beniamino da Tudela parla di certe, com’egli le chiama, angustie del mar della Cina, dalle quali le navi che ci si smarrivano più non potevano districarsi, onde, venendo a mancare le vettovaglie, conveniva che i naviganti si morissero di fame. Perciò i meglio avveduti portavano con sé pelli di buoi, e quando non rimaneva loro altro scampo, si avvolgevano in esse, e si lasciavan rapire da certe aquile grandi, che li portavano a terra; e così molti se ne salvavano. Fra quelle angustie del mare si cela di sicuro il Monte, o si celano, per lo meno, gli scogli, o i bassifondi di calamita, e quelle aquile grandi sono i ruc o i roc delle novelle orientali, divenuti poi, in Occidente, grifoni.
In racconti occidentali il Monte della Calamita è posto spesso nel bel mezzo del Mare coagulato, così nel Herzog Ernst, di cui dirò or ora, nel Jüngere Titurel, ecc. Il poema di Gudruna lo pone nel Mar tenebroso. Che sì fatti collegamenti fossero già prima avvenuti in Oriente, parmi probabile; ma vuolsi per altro avvertire che la fantasia doveva essere, non meno qua che laggiù, naturalmente inclinata a raccogliere insieme i pericoli tutti del mare; e gli è perciò che, in parecchi racconti occidentali, al Mare coagulato, al Monte della Calamita, vanno a tener compagnia le sirene.

III

Come in Oriente, così in Occidente, il Monte della Calamita non doveva figurare soltanto nelle relazioni più e men veridiche dei viaggiatori e nei trattati dei geografi e dei naturalisti, ma, come quello che poteva dare argomento a descrizioni fantasiose e poetiche, e occasione a strane avventure, doveva, o prima o poi, figurare anche in racconti d’indole romanzesca, e, più particolarmente in quelli che narravano di lontane peregrinazioni, di favolose imprese. Non era quasi possibile ch’esso non trovasse luogo in quelli che, con nome appropriato, si potrebbero dire i romanzi del mare: se l’antico poeta, che narrò i lunghi errori e i patimenti d’Ulisse e de’ compagni suoi, ne avesse avuta contezza, il Monte della Calamita sarebbe apparso probabilmente nell’Odissea, fuori dall’onde di alcun remoto ed incognito mare.
Dire a qual tempo risalga la prima redazione del racconto del terzo calendero nelle Mille e una Notte gli è impossibile ora; ma si può per contro, indicare, se non altro con sufficiente approssimazione, il tempo in cui fu composto il più antico racconto romanzesco occidentale dove si parli del Monte della Calamita. Tale racconto è quello tedesco, ricordata pur ora, del Duca Ernesto, Herzog Ernst. La primitiva redazione latina di questa storia cavalleresca non s’è potuta rintracciare sinora; ma, da essa derivò, tra il 1170 e il 1180, un poema basso renano, di cui rimangono solo frammenti, e la cui sostanza passò nell’anonimo poema tedesco (tra l’XI e il XII secolo) dal quale io trarrò, ridotto in breve, il racconto che si riferisce al Monte della Calamita; in un altro poema, a torto attribuito a Enrico di Weldecke (composto tra il 1277 e il 1285); nel poema latino di un Odone (prima del 1230); in un racconto prosastico latino; in un racconto prosastico tedesco e popolare.
Nel più antico poema pervenuto intero sino a noi, il racconto procede nel modo che segue. Dopo lunga e faticosa navigazione, il duca Ernesto e i compagni suoi giungono in vista di un arduo monte, alle cui falde serpeggia come una gran selva di alberi di nave. Uno dei nocchieri, avendo riconosciuta la natura del monte, il quale s’alza fuori dalle onde pigre del mare coagulato, annunzia al duca e agli altri la rovina irreparabile. Alla forza attrattiva della calamita non è possibile di resistere: tutti quegli alberi sono di navi naufragate; la morte per fame attende i naufraghi. Udito così tristo annunzio, il duca sembra smarrirsi, parla amorevole ai suoi, li esorta a innalzar l’anima a Dio, a pentirsi d’ogni errore commesso, a prepararsi ad entrare, con divina grazia, nel regno dei cieli. Tutti si conformano alle sue esortazioni, ed intanto la nave, con impetuosissimo corso, s’approssima al monte, e a guisa di un cuneo si caccia tra l’altre navi, molte delle quali sono, per vetustà, marcite, e con ispaventevole fragore, sfondando fianchi e travolgendo rottami, passa oltre, e cozza alla rupe. Le ricchezze perdute che s’offron quivi agli sguardi dei naufraghi son tali e tante che non si possono descrivere. Ma a che giovano? Il monte sorge in mezzo a remotissimo oceano e da nessuna banda si scorge la terra. A poco a poco vengono meno le vettovaglie; l’un dopo l’altro quei valorosi periscon di fame; sopraggiungono i grifoni e ne rubano i corpi, per pascerne i loro nati. Da ultimo rimangon vivi solo il duca e sette compagni, e delle provviste più non avanza se non mezzo pane. Allora il conte Wetzel, illuminato da una miracolosa idea, propone ai soci di avvolgersi in pelli di bue e lasciarsi rapire dai grifoni, non essendovi, fuor di questa, altra speranza di scampo. Il consiglio è accolto con applauso e con giubilo. Vestiti di tutte l’armi, si fanno, primi, cucir nelle pelli il duca ed il conte: vengono a volo steso i grifoni, li levano in aria, li portan di là dal mare. Quando si sentono sul sodo, i due fendono con le spade le pelli, balzan fuori, son salvi. E nella stessa maniera si salvano gli altri, meno uno, che rimasto ultimo, non ha chi lo ajuti ad avvolgersi nella pelle, e muore di fame. Ma, per partirsi dal luogo dove i grifoni li hanno deposti, i superstiti debbono abbandonarsi, sopra una zattera, al corso impetuoso di un fiume sotterraneo, il cui letto è tutto sparso di preziosissime gemme.
Ugone da Bordeaux, il noto eroe della gesta carolingia, corse gli stessi pericoli, si salvò nel medesimo modo; e tra il racconto che narra di lui e quello che narra del duca Ernesto non sono, per questa parte, se non picciole differenze e di poco rilievo. Ugone sopravvive solo ai suoi compagni di sventura, e perciò bisogna che si lasci rapir dal grifone senza ravvolgersi in una pelle di bue, e il grifone lo trasporta in un’isola paradisiaca, dove scaturisce una fonte e maturan pomi che hanno virtù di ridare la giovinezza, e d’onde l’eroe non può altramente partirsi che affidandosi al corso di un fiume sotterraneo, in tutto simile a quello descritto nel poema del duca Ernesto. La differenza maggiore si nota, non tra le avventure dei due cavalieri, ma tra i due cavalieri medesimi. Ernesto affronta impavido il pericolo e la morte, incora e sorregge i suoi: Ugone piange, si dispera, sviene, e confortato dai suoi, scambia i grifoni per diavoli. Egli è di quella picciola schiera di eroi, non meno timorati e piagnucolosi che prodi, a cui appartengono anche Ugone d’Alvernia e Guerino il Meschino.
Non è chi non avverta subito la somiglianza grandissima che questi racconti occidentali, oltreché col racconto del terzo calendero, hanno con quello del sesto viaggio di Sindbad il navigatore, quale si legge per esso nelle Mille e una Notte. Anche la nave di Sindbad è tratta irresistibilmente verso un monte le cui radici sono ingombre di rottami di navi naufragate e d’infinite ricchezze; anche Sindbad, solo sopravvissuto ai compagni periti di fame, scampa, lasciandosi trascinare, sopra una zattera, da un fiume copioso di gemme, che scorre sotterra. E io credo che i racconti occidentali porgano, se non una prova, un indizio, che il racconto orientale è, in certo punto, difettoso o alterato, e dieno anche modo di restituirlo alla integrità e sincerità primitiva. Sindbad non dice che il monte ov’ei naufragò sia il Monte della Calamita; ma che tale fosse veramente in origine parmi si possa argomentare dalle particolarità stesse della descrizione, e dai collegamenti che hanno i varii racconti tra loro. Per le ragioni medesime credo s’abbia ad identificare col Monte della Calamita la montagna smisurata e lucida come se fosse di acciajo forbito, verso la quale è trascinata la nave di Abulfauaris nei Mille e un Giorno. A questo proposito, un riscontro curioso è notabile. Nella storia prosastica latina del duca Ernesto si dice che il Monte della Calamita sorgeva tutto corrusco dall’onde, come se fosse di fiamma viva.
Molti altri eroi, oltre al duca Ernesto e ad Ugone da Bordeaux, corsero questa memorabile e gloriosa avventura. Ho già accennato a racconti intessuti nella Gudruna, nel Reinfrit von Braunschweig, nel Jüngere Titurel, in una tarda redazione dell’Ogier, ecc.: ricorderò ancora la storia tedesca di Enrico il Leone, e una redazione, pure tedesca, del viaggio di quel San Brandano cui nessuno dei miracoli del mare doveva rimanere occulto. La molteplicità e variate di sì fatti racconti mostrano quanto diffusa e celebre fosse in Europa l’antica favola nata in Oriente, la favola che il Goethe ricordava d’avere udito narrare quand’era ancora fanciullo.

Note
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[1] Historia naturalis, l. II, cap. 98
[2] Geographia, l. VII, cap. 2
[3] Iohannis de Plano Carpini: Antivariensis Archiepiscopi Historia mongulorum quos nos Tartaros appellamus... Parigi 1839
[4] Canzone: Madonna il fine amore ch’eo vi porto

Fonte: http://www.mediaaetas.altervista.org/graf.doc

Sito web da visitare: http://www.mediaaetas.altervista.org/11.approfondimenti.htm

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