Epicureismo e scetticismo

Epicureismo e scetticismo

 

 

 

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Epicureismo e scetticismo

 

L’EPICUREISMO
Epicuro: vita e scritti p. 440
Epicuro, figlio di Neocle, nacque nel 341 a.C. a Samo dove vi trascorse la sua giovinezza. Cominciò ad occuparsi di filosofia a 14 anni. A 18 anni si recò ad Atene. Epicuro cominciò la sua attività di maestro a 32 anni, insegnò in diverse città prima di stabilirsi ad Atene dove morì (271 – 270 a.C.).
La scuola aveva sede nel suo giardino, sicchè i seguaci si chiamarono “filosofi del giardino”. L’autorità di Epicuro sui suoi discepoli era grandissima. Come le altre scuole, l’epicureismo formava un’associazione di carattere religioso; ma la divinità alla quale questa associazione era dedicata fu il fondatore stesso della scuola. Sia durante la vita, sia dopo la morte di Epicuro, gli scolari e gli amici gli tributarono onori quasi divini e cercarono di modellare la loro condotta sul suo esempio. <<Comportati sempre come se Epicuro ti vedesse>> era il precetto fondamentale della scuola. Epicuro fu autore di numerosi scritti, circa 300. A noi restano soltanto tre lettere conservateci da Diogene Laerzio che ha conservato anche il Testamento di questo grande maestro del passato.
La scuola epicurea pp. 440 – 441
I discepoli e gli amici di Epicuro furono numerosissimi e non mancarono le donne come Temistia e l’etera Leontina; alla scuola poteva infatti partecipare anche le donne, giacchè essa era fondata sulla solidarietà e sull’amicizia dei suoi membri; e le amicizie epicuree furono per la loro nobiltà famose in tutto il mondo antico. Tuttavia nessuno dei discepoli ha apportato un contributo originale alla dottrina del maestro. Epicuro esigeva dai suoi seguaci la stretta osservanza dei suoi insegnamenti e a questa osservanza la scuola epicurea si mantenne fedele per tutta la sua durata (che fu lunghissima, fino al IV secolo d. C.). Per cui tra i numerosi discepoli vanno ricordati solo coloro che ci hanno trasmesso notizie utili ad una comprensione più approfondita della dottrina epicurea.
Di Filodemo, vissuto al tempo di Cicerone, i papiri ercolanesi ci hanno restituito alcuni frammenti che trattano numerosi problemi dal punto di vista epicureo e ci presentano la polemica che si svolgeva in quel tempo nell’interno stesso della scuola epicurea e tra essa e le altre scuole.
Tito Lucrezio Caro che fu il massimo rappresentante latino dell’ateismo epicureo, ci ha lasciato nel suo De rerum natura (= Sulla natura) un’esposizione fedele dell’epicureismo. I sei libri dell’opera incompiuta di Lucrezio si dividono in tre parti, dedicate alla metafisica, all’antropologia e alla cosmologia, ognuna delle quali comprende due libri. Infine, Lucrezio vede in Epicuro colui che ha liberato gli uomini dal timore del soprannaturale e della morte. Questo compito appare a Lucrezio così grande che egli non esita a esaltare Epicuro come una divinità e a riconoscerlo come il fondatore della vera sapienza.
IL QUADRIFARMACO
MALI TERAPIA
La paura degli dei e dell’aldilà Gli dei non si occupano degli uomini
La paura della morte Quando ci siamo non c’è, quando c’è non ci siamo
La mancanza del piacere (della felicità) Il piacere (la felicità) è facilmente raggiungibile
Il dolore fisico Se acuto è provvisorio o porta alla morte, se lieve è sopportabile

<<Se non fossimo turbati dal pensiero delle cose celesti e dalla morte e dal non conoscere i limiti dei dolori e dei desideri, non avremmo bisogno della scienza della natura>>.

La filosofia come quadri farmaco pp. 441 – 442
Epicuro vede nella filosofia la via per raggiungere la felicità, intesa come liberazione dalle passioni. Il valore della filosofia è dunque puramente strumentale: il fine è la felicità. Attraverso la filosofia l’uomo si libera da ogni desiderio irrequieto e molesto; si libera dalle opinioni irragionevoli e dai turbamenti che ne derivano. Così anche la ricerca scientifica che indaga sulle cause del mondo naturale non ha altro fine.
<<Se non fossimo turbati dal pensiero delle cose celesti e dalla morte e dal non conoscere i limiti dei dolori e dei desideri, non avremmo bisogno della scienza della natura>>
Il valore della filosofia sta dunque tutto nel fornire all’uomo un “quadruplice farmaco”.
1. liberare gli uomini dal timore degli dei, dimostrando che non si occupano delle faccende umane.
2. liberare gli uomini dal timore della morte: “se ci siamo noi, lei non c’è, se c’è lei noi non siamo presenti”,
3. dimostrare la facile raggiungibilità del piacere.
4. Dimostrare la lontananza del limite del male, cioè la brevità e la provvisorietà del dolore.
In tal modo la dottrina epicurea manifesta la tendenza dell’intera filosofia post-aristotelica a finalizzare la ricerca speculativa a un fine pratico. Epicuro distinse tre parti della filosofia: la canonica, la fisica, l’etica. Ma la canonica era concepita in rapporto stretto con la fisica così le parti della filosofia sono per l’Epicureismo solo due: fisica ed etica.
<<la base fondamentale di tutto è l’evidenza>>
questo è il fine che Epicuro ripete e pone a base di tutto il dominio della conoscenza.

La Canonica p. 442
La filosofia di Epicuro è stata tradizionalmente suddivisa in tre parti: canonica, fisica ed etica; sembrava tuttavia più corretto (e cioè più rispettoso delle intenzioni dello stesso E picuro) considerare la Canonica non tanto come una parte a sé stante, quanto piuttosto come un’introduzione alla fisica e in particolare, alla dottrina atomistica. Si legge, infatti, nell’introduzione alla Lettere a Erodoto (concepita per esporre i principi della fisica):
“Primariamente o Erodoto, conviene renderci conto del significato fondamentale delle parole, per poterci ad esso riferire come criterio nei giudizi, o nelle indagini e nei casi dubbi: se no senza criterio procederemo all’infinito nelle dichiarazioni, o useremo parole vuote di senso”.
La canonica (dal greco Kanon: il filo di “piombo” dei muratori e, per traslato, il criterio di valutazione della verità) è così fondamentalmente una teoria del linguaggio e della conoscenza. Per Epicuro la conoscenza si fonda sulla sensazione, che è di per sé necessariamente vera, nella misura in cui riproduce sempre un oggetto esterno. Quello che viene riprodotto o rappresentato, tuttavia, non è propriamente l’oggetto, ma una sua immagine o simulacro (idolo), che, come un effluvio fatto di atomi sottilissimi e assai veloci, procede dall’oggetto stesso fino agli organi si senso. In questo passaggio dall’oggetto all’organo percipiente l’immagine può subire alterazioni o deformazioni, così come quando, per esempio, consideriamo rotonda, guardandola da lontano, una torre che da vicino risulta invece essere a pianta quadrata. Da che cosa dipende un errore di questo tipo? Per Epicuro esso non si colloca propriamente nella sensazione, che consiste solo in una registrazione passiva dell’èidolon, ma nel giudizio che sulla sensazione viene formulato. L’unico modo che si ha per evitare giudizi ingannevoli è, in questo senso, quello di selezionare criticamente le immagini: valutare cioè, il loro essere o meno corrispondenti all’oggetto sulla base dell’evidenza che le accompagna. Bisogna inoltre fare in modo che l’organo percipiente sia nelle condizioni migliori per esercitare la sua funzione: per tornare all’esempio precedente, occorre insomma avvicinarsi alla torre, in modo tale da constatare la sua forma effettiva. Memorizzando le sensazioni e le immagini evidenti si giunge alla progressiva formazione delle anticipazioni, la cui funzione è appunto quella di anticipare i concetti già noti o gli oggetti individuali già percepiti, senza doverne fare nuovamente esperienza. Al di là di ciò che è controllabile o immediatamente evidente, esistono per Epicuro cose che restano inaccessibili o nascoste. Rientra in quest’ultima categoria ciò che non può essere direttamente controllato (i fenomeni celesti e atmosferici), e ciò che, pur rappresentando una componente fondamentale del mondo fisico (il vuoto e gli atomi) non può essere colto dai sensi, ma solo ricavato per induzione, ovvero inferendo dalle cose di cui i sensi attestano l’evidenza quello che non sarebbe altrimenti percepibile. Consulta schema fornito a lezione e lo schema di pag. 443
In questo modo Epicuro giunge a postulare:
- l’esistenza del vuoto a partire dall’esistenza del movimento (il movimento infatti non sarebbe ammissibile, se tutto fosse pieno);
- l’esistenza degli atomi a partire dal fatto che, se nulla può nascere dal nulla e nulla può risolversi nel nulla, deve necessariamente esserci qualcosa di corporeo e indivisibile, l’atomo, da cui tutto si forma e in cui tutto si risolve.
L’universo epicureo si compone, pertanto, di atomi e di vuoto; o più precisamente, di un numero infinito di corpi indivisibili, che si muovono in uno spazio vuoto infinito, urtandosi e combinandosi tra loro. Le loro forme sono diverse; ma il loro numero, per quanto indeterminabile, non è infinito.

La Fisica pp. 443 – 444
La fisica di Epicuro ha lo scopo di escludere dalla spiegazione del mondo ogni causa soprannaturale e di liberare così gli uomini dal timore di essere alla mercè di forze sconosciute e di misteriosi interventi. Per raggiungere questo scopo la Fisica deve essere: 1° materialistica, cioè escludere la presenza nel mondo di ogni “anima” o principio spirituale; 2°meccanicistica, cioè avvalersi nelle sue spiegazioni unicamente del movimento dei corpi escludendo qualsiasi finalismo. Poiché la fisica di Democrito rispondeva a queste due condizioni, Epicuro la adattò a la fece sua con talune modificazioni. Epicuro ammette con Democrito che nulla viene dal nulla e che ogni corpo è composto di corpuscoli indivisibili (atomi) che si muovono nel vuoto. Come gli stoici, Epicuro afferma che tutto ciò che esiste è corpo perché solo il corpo può agire o subire un’azione. D’incorporeo, egli non ammette che il vuoto, tuttavia il vuoto non agisce né patisce alcunché ma solo permette ai corpi di muoversi attraverso se stesso. Tutto ciò che agisce o subisce è corpo e ogni nascita o morte non è che aggregazione e disgregazione di corpi. Gli epicurei escludono esplicitamente la provvidenza stoica e la critica a tale provvidenza costituisce uno dei temi preferiti della loro polemica. Ed eliminata dal mondo l’azione della divinità, non rimangono per spiegare l’ordine di esso, che le leggi che regolano il movimento degli atomi. A queste leggi nulla sfugge, secondo gli epicurei; esse costituiscono la necessità che presiede a tutti gli eventi del mondo naturale. Un mondo è, secondo Epicuro, <<un pezzo di cielo che comprende astri, terre e tutti i fenomeni, ritagliato nell’infinito>> . I mondi sono infiniti, soggetti a nascita e morte. Tutti si formano in virtù del movimento degli atomi nel vuoto infinito ma in virtù del loro peso, gli atomi non cadono nel vuoto in linea retta e con la stessa velocità; Epicuro per spiegare il loro multiforme aggregarsi e disporsi nei vari mondi, ammette una deviazione casuale degli atomi dalla loro traiettoria rettilinea. Questa deviazione degli atomi è l’unico evento naturale non sottoposto a necessità. Essa, come dice Lucrezio, <<spezza le leggi del fato>>. Dopo aver escluso la divinità Epicuro l’ammette in virtù del suo empirismo: poiché gli uomini posseggono immagine della divinità essa è il prodotto di emanazione di flussi di atomi dalla divinità stessa. Gli dei hanno la forma umana che è la più perfetta e quindi la sola degna di esseri razionali ma non si curano del mondo e dell’uomo; ogni cura sarebbe contraria alla loro perfetta beatitudine perché imporrebbe loro un obbligo ed essi non hanno obblighi; l’uomo saggio li onora non per timore ma l’ammirazione per la loro eccellenza. L’anima è, secondo Epicuro, composta di particelle corporee che sono diffuse in tutto il corpo come un soffio caldo. Tali particelle sono più sottili e rotonde delle altre, e quindi più mobili. Con la morte gli atomi dell’anima si separano e ogni possibilità di sensazione cessa: la morte è <<privazione di sensazioni>>. Perciò è stolto temerla. <<Il più terribile dei mali, la morte, non è nulla per noi perché quando ci siamo noi non c’è la morte, quando c’è la morte noi non ci siamo>>.

L’Etica
La felicità, il piacere e i bisogni
Il tema della liberazione dalle false credenze intorno all’anima e agli dei esprime già un tratto di fondo dell’etica epicurea. Quest’ultima tuttavia, non si propone soltanto di rimuovere i timori che paralizzano l’uomo (quelli appunto relativi alla morte e all’intervento divino), ma comprende una parte più propositiva, fondata sulla convinzione che non sia difficile né conseguire il bene, né affrontare il dolore: quest’ultimo in effetti, se lieve, è per ciò stesso facilmente sopportabile; se è invece acuto e intollerabile, o è di breve durata o conduce rapidamente alla morte, che segna al contempo la fine di ogni dolore. Nel complesso ciò che si ricava da questa sistemazione è il celebre tetra farmaco.
Saggio è dunque colui che, applicando l’ideale del tetra farmaco alla sua stessa esistenza, raggiunge lo stato di atarassia (imperturbabile tranquillità dell’anima) e di aponia (assenza del dolore), con il risultato di fruire in modo durevole del massimo bene che si possa concepire, e cioè il piacere. Il piacere a cui Epicuro fa riferimento non è quello intenso dei sensi e delle emozioni; anzi, Epicuro distingue espressamente fra piacere cinetico (o dinamico) e piacere catastematico ( o statico): solo quest’ultimo, che è il frutto di una totale assenza di turbamento e sofferenza, garantisce una vita autenticamente e stabilmente felice, mentre il primo è meramente transitorio, e deriva dalla soddisfazione di alcuni bisogni elementari.
Per essere felici occorre, secondo Epicuro, operare una scelta per così dire “economica” dei propri desideri, evitando d’inseguire quelli naturali e ancor più quelli vuoti, ma cercando di soddisfare solo quelli naturali e necessari. Ciò che aiuta in questa scelta è la saggezza: è da essa infatti che dipende il calcolo misurato e, dunque, il conseguimento del piacere. La saggezza insegna che non si può vivere piacevolmente se non si vive anche secondo virtù, e cioè in definitiva, che piacere e virtù non solo non si oppongono, ma di fatto coincidono. Ma la saggezza non opera da sola: tutte le altre virtù (che da essa traggono comunque origine) sono altrettanti mezzi in vista di un unico fine. Così per esempio la temperanza permette di accontentarsi del poco; il coraggio fa si che sia possibile affrontare il dolore e le sofferenze senza esserne turbati; la giustizia è un’indispensabile fonte di sicurezza. Il riferimento alla giustizia, quale strumento che, assieme alle altre virtù, contribuisce a raggiungere il piacere, ci permette di considerare le implicazioni socio-politiche del discorso di Epicuro. Nelle Massime capitali l’abito della giustizia è così delimitato
“La giustizia non è qualcosa che esista per sé, ma solo nei commerci reciproci, e in quei tempi e luoghi dove sia patto alcuno di non recare o ricevere danno”
Della giustizia vengono proposte una definizione in negativo (si dice che cosa essa non sia) ed una in positivo (le si attribuisce un preciso contenuto): la giustizia non è come per la tradizione platonica, un valore a sé stante o autonomo; nata dal naturale bisogno di sicurezza – che aveva già indotto gli uomini primitivi ad unirsi contro gli animali feroci e i nemici – essa è piuttosto un accordo che viene stipulato affinchè nessuno rechi offesa, o possa essere a sua volta offeso.
L’origine convenzionale (cioè appunto fondata su un accordo, su un patto o una convenzione) della giustizia implica che le leggi non siano le stesse ovunque, né tanto meno che esse siano immodificabili; la loro validità è in altri termini, di volta in volta funzionale a garantire la sicurezza dei contraenti. Epicuro non condanna dunque l’aggregazione sociale e neppure, in senso stretto, l’attività politica che ad essa si rapporta, a patto che quest’ultima sia finalizzata a procurare e preservare la tranquillità e la sicurezza; ciò che condanna è, invece, la prassi politica che consiste nell’inseguire in maniera affannosa e competitiva i vani desideri del potere, dell’onore e della fama. E’ in questo senso che va interpretato (e non nel senso di un invito ad astenersi in generale dalla vita sociale) il celebre motto <<vivi appartato>> (o <<nascosto>>, lathe biòsas).
Continua a pp. 444 – 445

L’esaltazione dell’amicizia e il rifiuto della politica pp. 445 – 446
La dottrina di Epicuro non si può confondere con un volgare edonismo, contraddirebbe il culto dell’amicizia che era la caratteristica principale della dottrina e della condotta pratica degli epicurei << Di tutte le cose che la saggezza ci offre per la felicità della vita, la più grande è di gran lunga l’acquisto dell’amicizia>>.
L’amicizia è nata dall’utile, ma essa è un bene per sé. L’amico non è:

 

La dottrina di Epicuro come non è edonismo così non è un’esaltazione della saggezza. Sarebbe meglio, dice Epicuro che fosse la fortuna a decretare la prosperità della saggezza ma anche così non fosse, è sempre preferibile la saggezza sfortunata alla dissennatezza fortunata. Sebbene la giustizia sia una convenzione stretta tra gli uomini per evitare di danneggiarsi a vicenda è ben difficile che il saggio commetta ingiustizia anche quando egli sia certo d’essere nascosto e convinto che ciò (l’azione ingiusta, iniqua) non gli arrecherà danno. Dice Epicuro <<Chi ha raggiunto il fine dell’uomo, anche se nessuno è presente, sarà ugualmente onesto>>.
L’atteggiamento dell’epicureo è espresso nella massima <<E’ non solo più bello ma anche più piacevole fare il bene anziché riceverlo>>. In questa massima il piacere assurge a fondamento e a giustificazione della solidarietà fra tutti gli uomini. E difatti Diogene Laerzio ci testimonia l’amore di Epicuro per i genitori, la fedeltà verso gli amici, il suo senso di solidarietà umana. Quanto alla vita politica sebbene apporti dei vantaggi e sia orientata all’osservanza di leggi che tutelano e impediscono di nuocere gli uni agli altri; il precetto di Epicuro è: <<vivi nascosto>> poiché l’ambizione politica può essere fonte di turbamento e quindi potenzialmente, allontana dal raggiungimento dell’atarassia.

 

LO SCETTICISMO p. 460
Caratteri generali (confronta Glossario p. 465)
Fra le varie dottrine e possibilità di filosofare elaborate dai Greci ve n’è una originale identificata con il nome di scetticismo (il nome stesso “scetticismo” derivato da skèpsis, significa indagine, ricerca, dubbio). Secondo questa dottrina l’uomo non può accedere alla verità ultima delle cose e la più alta forma d’intelligenza e di saggezza delle persone consiste proprio nel riconoscere questo fatto. Per gli scettici questa impossibilità è dimostrata dalla molteplicità delle filosofie e delle teologie in continua lotta tra loro. Il fondatore di questa scuola è Pirrone e la critica contemporanea ha sottolineato il suo legame con taluni saggi d’India chiamati gimnosofisti ( Dallo Zingarelli: sapiente indiano che viveva nudo nella selve praticando l’ascesi. Secondo gli antichi filosofi greci si trattava di sapienti seminudi che insegnavano la vanità delle cose e l’imperturbabilità di fronte al mondo). Lo scetticismo oltre a questo:
- “influsso orientale” presenta una
- connessione ideale con i sofisti (nonostante il giudizio negativo di Pirrone su Protagora) e
- un legame con gli aspetti scetticheggianti del socratismo.
Gli scettici sono colpiti dalla varietà sconcertante delle diverse “visioni del mondo” presenti tra gli uomini. Per cui di fronte a tutta una serie di sistemi in conflitto tra loro, convinti di possedere la sola e autentica spiegazione dell’universo, gli scettici traggono la conclusione che per raggiungere la tranquillità e la serenità della mente, l’indagine conoscitiva deve essere volta a riconoscere la fallacia di tutte le dottrine. Di conseguenza lo scetticismo si dedica prevalentemente alla distruzione speculativa delle altre dottrine filosofiche, specialmente di quelle contemporanee: lo stoicismo e l’epicureismo, proprio per il fatto che risulterebbero fallaci nelle loro pretese indagatrici e nei loro sistemi metafisici. Così parte integrante del mondo ellenistico e della concezione della filosofia come terapia mentale ed esistenziale, lo scetticismo subordina l’indagine speculativa a un fine pratico: l’ottenimento della pace interiore generato dalla critica consapevolezza delle “vane ciance” dei dogmatici (confronta e studia Glossario alla voce Scetticismo p. 465)

L’interpretazione tradizionale e nuovi punti di vista critici pp. 460 – 461
Per opera di una lunga tradizione filosofica e storiografica, lo scetticismo ha subito in un certo senso, un processo di “banalizzazione”, in quanto è stato tendenzialmente interpretato come una dottrina che mette in discussione la verità di tutto ciò che esiste e che nega, di conseguenza, ogni criterio per la vita. Tanto è vero che le “ confutazioni” classiche dello scetticismo – da Agostino ad Hegel e a Gentile – sono consistite nel dimostrare, ad esempio, che non è lecito dire che tutto è dubbio, perché chi sostiene ciò, per affermarlo, deve indubitabilmente esistere; o nel dimostrare che lo scetticismo si auto contraddice nel suo stesso assunto di base, perché dopo aver detto che tutto è falso presenta se stesso come vero.
In realtà, gli scettici non negano, propriamente, la verità dei fenomeni, quanto le “teorie” su di essi, cioè la pretesa filosofica di spiegarne la natura profonda:<< Noi ci opponiamo esclusivamente – essi dicono – all’indagine relativa alle cose non evidenti che soggiacciono ai fenomeni>>.
Di conseguenza, presso gli scettici, non è tanto il che dei fenomeni, cioè il fatto della loro presenza a essere in discussione, bensì il loro come, ossia la conoscibilità del loro genuino modo di essere.
Ad esempio: 1) che esista il giorno e la notte, il sole e gli astri è certo, quale sia la causa ultima dell’universo è invece oscuro. 2) Che esistano gli uomini e le loro menti è un fatto ovvio, ma che cosa siano veramente gli uomini o la loro mente è un enigma.
Inoltre, lo scetticismo greco, nelle sue forme più raffinate, non presenta se stesso come un “dogma”, ma come un’ipotesi che deve essere continuamente confermata tramite un’indagine aperta per principio.
Infine, per quel che riguarda la vita pratica, non sembra vero che lo scettico lasci l’uomo totalmente privo di criteri e renda quindi impossibile l’esistenza umana, in quanto lo scettico greco, anziché fuggire dal mondo, in genere continua nella vita di tutti i giorni, a fare ciò che fanno tutti gli altri:
o per convenzione e utilità, oppure perché ritenuto più ragionevole e probabile.
Tutto ciò mostra forse come il discorso sullo scetticismo, al di là delle sclerosi interpretative, sia tuttora aperto e suscettibile di nuovi approfondimenti. Lo scetticismo non fu, in Grecia, una scuola a sé (come lo stoicismo e l’epicureismo), ma l’indirizzo seguito da tre scuole distinte:
1. la Scuola di Pirrone di Elide, al tempo di Alessandro Magno;
2. la Media e nuova Accademia;
3. gli scettici posteriori, a cominciare da Enesidemo, che sostengono un ritorno al pirronismo.

Pirrone e Timone pp. 461 – 462
Pirrone, nativo di Elide, partecipò alla campagna di Alessandro Magno in Oriente, ove venne a contatto con la saggezza indiana. Fondò in patria una scuola che dopo la sua morte ebbe breve durata. Visse in semplicità e morì vecchissimo verso il 270 a. C. Fra i suoi autori prediletti vi era anche Omero, di cui amava ripetere i versi che alludono alla instabilità degli uomini es. <<Volubile è dei mortali la lingua; son molti i discorsi>>. Pirrone non scrisse nulla.
Secondo Pirrone non ci sono cose vere o false, belle o brutte, buone o cattive per natura e assolutamente (nessuno nasce buono o cattivo e soprattutto nessuno è totalmente, in assoluto cattivo e malvagio o buono e savio) ma soltanto per convenzione e relativamente.
In altri termini, sono le abitudini degli uomini, i loro costumi e le loro decisioni a rendere buona o cattiva, vera o falsa, una cosa. Al di fuori di tali credenze e convenzioni, sempre mutevoli, non è possibile nessun giudizio, nessuna valutazione, giacchè la realtà in sé, per l’uomo, risulta inafferrabile, per cui l’unico atteggiamento legittimo, come diranno più tardi altri scettici, rimane la sospensione di ogni giudizio = epoché (vedi Glossario p. 465).
Secondo Pirrone solo lo scetticismo riesce a procurare l’atarassia, cioè l’imperturbabile serenità della mente. Infatti il sapiente, (cosa fa, cosa “scopre”:..) messosi il cuore in pace, per aver compreso che al mondo non esiste la verità con la lettera maiuscola (non esiste una sola e unica ragione:…), poiché sulla natura profonda delle cose non si può dire nulla con certezza (esempio: 1) e 2) a p. 4 di questo lavoro), guarda con superiorità, e con un po’ di compassione, gli eserciti rivali dei metafisici (cioè di coloro che si accapigliano per affermare la loro personale e unidirezionale visione delle cose) che continuano a battersi, con <<guerre di parole>> (immagine molto moderna, cosa ne pensi?), circa questioni su cui non è possibile decidere.
Questo raffinato distacco intellettuale dalle verità e dai dogmi dei più (cioè distanza da coloro che “posseggono” la “verità” e la fossilizzano in un dogma piuttosto che in un precetto) non impedisce affatto che lo scettico pirroniano, nella pratica (nella vita, negli atteggiamenti più semplici del vivere quotidiano), possa vivere come tutti gli altri, facendo più o meno esattamente le stesse cose: accudire alle proprie faccende, riposarsi, svagarsi ecc. L’unica cosa sostanziale in più è la LUCIDA CONSAPEVOLEZZA conquistata con <<l’indagine>>, che né la vita, né le cose, POSSEGGONO UN SIGNIFICATO ASSOLUTO RICONOSCIBILE DALLA RAGIONE.
Questa coesistenza fra CRITICITA’ SCETTICA e VITA QUOTIDIANA è pienamente confermata anche dalla biografia di Pirrone, il quale oltre a fare il filosofo aiutava la sorella nelle faccende domestiche.
L’allievo Timone di Fliunte affermava che l’uomo per essere felice dovrebbe conoscere TRE cose:
1. quale sia la natura delle cose;
2. quale atteggiamento bisogna assumere rispetto ad esse;
3. quali conseguenze risulteranno da questo atteggiamento.
Ma è impossibile conoscere queste tre cose e perciò l’unico atteggiamento possibile è quello di non pronunciarsi su niente = afasia (consulta Glossario alla voce epoché: importante e contemporanea prospettiva p. 465)

La media Accademia p. 462 – 463
L’indirizzo scettico, dopo la fine della scuola di Pirrone, fu ripreso dai filosofi dell’Accademia platonica. (Perché? ….) Un appiglio allo scetticismo questi filosofi trovavano nella filosofia stessa di Platone. Questi (Platone, inutile dirlo) infatti, aveva sempre negato che il mondo sensibile, per il suo carattere mutevole e vario, potesse essere oggetto di scienza, ritenendo che la scienza, cioè la conoscenza assolutamente vera, potesse avere per oggetto soltanto il mondo dell’essere. Ma il mondo dell’essere o delle idee (l’iperuranio?) ormai non interessava più i filosofi di questo periodo, che chiedevano alla filosofia di farsi strumento dei fini pratici della vita (per i motivi che caratterizzano l’Ellenismo: crisi della polis, …cap.1). Così gli scettici fecero propria la parte negativa dell’insegnamento platonico: l’impossibilità di una conoscenza certa delle cose di questo mondo.
L’indirizzo scettico dell’Accademia fu iniziato da Arcesilao di Pitane, secondo una testimonianza di Cicerone, egli non espose alcuna opinione sua propria, ma si limitò a criticare le opinioni degli altri. Se Socrate affermava che nulla l’uomo può sapere, se non questo di non saper nulla (in pratica: so solo di non sapere), Arcesilao andava anche più oltre e riteneva che non si può affermare con sicurezza neppure la propria ignoranza. A ogni tesi contrapponeva la tesi opposta, mostrando che nessuna di esse ha valore di verità e concludendo quindi con l’impossibilità di decidersi per l’una o per l’altra. In tal modo egli difendeva la sospensione dell’assenso (epoche), già sostenuta da Pirrone. L’uomo nell’azione, non può farsi guidare da una conoscenza assoluta: può soltanto agire in base a un motivo più o meno fondato e ragionevole. Così Arcesilao riteneva che il criterio di ciò che si deve evitare è il buon senso o la ragionevolezza = eulogìa, che sta alla base della saggezza.
Tra i suoi successori ci fu Carneade, fondatore della terza o nuova Accademia.

La nuova Accademia p. 463
Carneade di Cirene fu uomo notevole per eloquenza e dottrina, fu accolto con diffidenza dal senato romano quando si recò a Roma come ambasciatore, i senatori romani temevano che con la filosofia i giovani si distraessero dagli obblighi militari, Carneade non ha lasciato scritti e le sue dottrine furono raccolte dagli scolari. Durante il soggiorno a Roma, Carneade tenne un giorno, un magnifico discorso in lode della giustizia, dimostrando che essa è la base di tutta la vita civile. Ma un altro giorno tenne un altro discorso ancora più convincente del primo, dimostrando che la giustizia è diversa a seconda dei tempi e dei popoli ed è spesso in contrasto con la saggezza. E portava l’esempio del popolo romano che si era impadronito di tutto il mondo. Se i romani volessero essere giusti, egli dice, dovrebbero restituire agli altri i possessi e tornarsene a casa in miseria. Ma in tal caso sarebbero stolti. E così giustizia e saggezza non vanno d’accordo. Carneade diresse molta parte della sua attività a criticare gli stoici, specialmente Crisippo. Negava che la rappresentazione catalettica fosse un criterio sufficiente di verità e negava il valore degli argomenti con i quali gli stoici dimostravano l’esistenza di una provvidenza divina nel mondo. Egli tuttavia non si fermava alla sospensione dell’assenso. Riteneva che se un criterio di verità non è possibile, è possibile però un criterio di credibilità che consente di scegliere certe opinioni come più plausibili di certe altre. Questo criterio puramente soggettivo e quindi tale che non garantisce affatto la corrispondenza della rappresentazione all’oggetto, fu da lui chiamato rappresentazione persuasiva o probabile. Se una rappresentazione persuasiva non è contraddetta da altre rappresentazioni dello stesso genere, ha un grado maggiore di probabilità: così i medici ad esempio, diagnosticano una malattia da sintomi concordanti. Infine una rappresentazione persuasiva, non contraddetta da altre, ed esaminata in ogni sua parte, è il grado più alto di verisimiglianza cui l’uomo possa giungere. (studia: probabilismo, glossario p. 465)

Gli ultimi scettici p. 463 – 464
Quando l’indirizzo scettico fu abbandonato dall’Accademia, venne ripreso da altri pensatori che si ispirarono direttamente al fondatore dello scetticismo, Pirrone.
Questi pensatori fiorirono dall’ultimo secolo a. C. al secondo d.C. e NON costituirono una scuola. I principali di essi furono Enesidemo, Agrippa e Sesto Empirico.
Enesidemo di Cnosso insegnò ad Alessandria, probabilmente iniziò la sua attività dopo la morte di Cicerone, il quale non lo ricorda nelle sue opere e anzi dice che il pirronismo è ormai spento.
Enesidemo enumerava 10 modi = tropoi (dal greco tròpos, “modo”: studia glossario a p. 466) per giungere alla sospensione del giudizio.
In realtà questi “modi” sono argomenti per togliere alla conoscenza umana valore di assoluto e considerarla relativa. Essi consistono nel riconoscere che le conoscenze variano:
1) a seconda dei diversi animali;
2) a seconda dei diversi uomini;
3) per la loro diversità reciproca;
4) per le circostanze in cui si acquistano;
5) per gli intervalli di tempo o di luogo in cui ricorrono;
6) per le varie mescolanze in cui si trovano;
7) per la quantità e la composizione degli oggetti che le producono;
8) per la variabilità delle relazioni delle cose tra loro e con il soggetto giudicante;
9) per la diversa frequenza di incontri tra il soggetto giudicante e l’oggetto;
10) per l’educazione, i costumi, le leggi e le credenze umane.

Tutti questi elementi determinano un’enorme varietà delle conoscenze, è dunque impossibile giudicare e decidere se l’una o l’altra delle opinioni sia vera. L’unico atteggiamento legittimo è l’epochè, la sospensione dell’assenso.
Ad Agrippa, di cui non si sa nulla, Sesto Empirico attribuisce altri cinque modi per giungere alla sospensione dell’assenso, modi di natura dialettica, cioè polemica:
1) il modo della discordanza, che consiste nel mostrare il dissidio che c’è tra le opinioni dei filosofi;
2) il modo così detto all’infinito, per il quale si ritiene che ogni dimostrazione parte da principi che vanno a loro volta dimostrati e suppongono altri principi e così va di seguito
3) il modo della relazione, per il quale conosciamo l’oggetto non in sé, ma solo in rapporto a noi;
4) il modo dell’ipotesi, per il quale si vede che ogni dimostrazione si fonda su principi che non si dimostrano ma si ammettono per convenzione;
5) il circolo vizioso o diallelo, (dal gr. diàllelos logos, “ragionamento reciproco”: studia Glossario a p. 466) per il quale si assume come dimostrato proprio ciò che si deve dimostrare, il che chiarisce che la dimostrazione è impossibile.

Quindi, la sospensione dell’assenso, secondo l’insegnamento di Pirrone accomuna questi e tutti gli scettici a cui fa riferimento genericamente Sesto Empirico.

Sesto Empirico p. 464 – 465
La fonte delle notizie sullo scetticismo antico è l’opera di Sesto che, come medico, ebbe il soprannome di Empirico e svolse la sua ttività tra il 180 e il 214 d. C. Di lui possediamo tre scritti.
1) Il primo: I lineamenti, sono un compendio di filosofia scettica.
2) Gli altri due sono compresi sotto il titolo improprio Contro i matematici, Ora il màtema è l’insegnamento nel significato oggettivo, la scienza in quanto oggetto dell’insegnamento; matematici sono quindi i cultori delle scienze, cioè di grammatica, retorica e delle scienze del quadrivio (come furono dette nel Medio Evo) che Platone nella Repubblica poneva come propedeutiche alla dialettica: geometria, aritmetica, astronomia e musica. I libri di Sesto sono contro queste scienze e contro i filosofi dogmatici.
Gli scritti di Sesto sono però importanti non solo perché rappresentano la summa (consulta dizionario) di tutto lo scetticismo antico, ma anche perchè sono fonti preziose per la conoscenza delle stesse dottrine che combattono. I punti più famosi delle confutazioni di Sesto, oltre la dottrina dei tropi, sono i seguenti:
- Critica della deduzione e dell’induzione. La deduzione è sempre un circolo vizioso (diallele). Es. <<Ogni uomo è un animale, Socrate è un uomo, Socrate è un animale>>, mentre si pretende di avvallare la conclusione, in realtà essa è già implicita nella premessa, ritenuta acriticamente universale e con ciò condivisibile.
- Critica del concetto di causa.
- Critica della teologia stoica. Sesto evidenzia e critica le contraddizioni implicite nel concetto stoico della divinità. Secondo gli stoici tutto ciò che esiste è corporeo dunque elemento concreto ma se così fosse sarebbe corruttibile, soggetto al dissolvimento e con ciò mortale ma se così fosse sarebbe assurdo in quanto verrebbe meno la stessa natura divina. Altre difficoltà derivano dall’attribuire tutte le perfezioni a dio. Se dio ha tutte le virtù, ha anche il coraggio; ma il coraggio è la scienza delle cose temibili e non temibili, dunque c’è qualcosa di temibile per dio; il che è assurdo.
Nella vita pratica lo scettico deve, secondo Sesto, seguire i fenomeni. Perciò quattro sono le sue guide fondamentali: le indicazioni che la Natura gli dà attraverso i sensi, i bisogni del corpo, la tradizione delle leggi e dei costumi e le regole delle arti. Secondo Sesto il vero scettico non ammette neppure di sapere che non è possibile saper nulla, ma si limita alla pura ricerca, cioè ad un’indagine aperta per principio.

Fonte: http://www.vitellaro.it/silvio/storia%20e%20filosofia/Appunti/Epicureismo%20e%20scetticismo.doc

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